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Luglio-Dicembre 2011, n. 3-4 - Anno VI Spedizione in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 2, CNS BA La Bibbia, luce per l’uomo

"tempopieno" Luglio-Dicembre 2011

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Rivista per la Scuola, a cura dell'Ufficio Scuola dell'Arcidiocesi di Bari-Bitonto

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La Bibbia, luce per l’uomo

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tempopieno

Rivista per la Scuola

Anno VI (2011) n. 3-4

Direttore Responsabile Vincenzo Legrottaglie

Direttore Don Nicola Monterisi

Registrazione Tribunale di Bari Autorizzazione n. 50 del 19/09/2006

Redazione Anna Asimi Antonio Curci Letizia Indolfi Barbara Licciulli Angelo Lopez Francesca Romana Morgese Maria Raspatelli

Segretaria di Redazione Anna Asimi

Progetto Grafico Antonio Curci

Impaginazione Angelo Lopez

Stampa Pubblicità & Stampa Modugno (Ba)

Direzione e Redazione c/o Ufficio Scuola - Corso A. De Gasperi, 274/A 70125 Bari Tel. 080.5288415/6 Fax: 080.5690230 email: [email protected] www.arcidiocesibaribitonto.it

Sommario Don Nicola Monterisi tempopieno di... Bibbia 4

Alessandro Meluzzi La scuola che vorrei... 6

Cataldo Olivieri Vi racconto la nostra scuola 9

Michele Bellino L’animazione nel Museo diocesano di Bari

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DOSSIER: La Bibbia: luce per l’uomo

Erri De Luca Al risveglio…la Parola 16

Piero Stefani Lampada ai miei passi è la tua Parola luce sul mio cammino

18

Rosanna Virgili Una Parola da incarnare 25

Antonio Autiero Bibbia e morale 27

Pasquale D’Ascola La giustizia nei Salmi 30

Benedetto Carucci Viterbi Gli ebrei di fronte alla Bibbia 33

Luigi Gaetani C’è un umanesimo da scoprire 35

Paolo Ricca Bibbia e bene comune 38

Marinella Perrone Bibbia e scuola 40

Martina Calace Dalla storia della salvezza alla salvezza della storia

42

Emma Favia Immaginare la Parola 45

Jean Paul Lieggi La lettura patristica della Bibbia 47

Antonio Calisi Il valore pedagogico e didattico delle immagini sacre nei Padri della Chiesa

52

Giuseppe Micunco Bibbia e letteratura 56

Pasquale Troìa Sono canti per me i tuoi insegnamenti 59

Nicola Stufano Bibbia e professione medica 62

Gigi Di Nardi e Marina Dabbicco

Vivere la Bibbia in famiglia 65

Armando Matteo Bibbia e giovani 67

Laura Masellis Quando racconto la Bibbia ai bambini

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Sommario

Don Valentino Campanella

La parola di Dio è vivente 72

A cura di Anna Asimi Sullo scaffale 73

A cura di Anna Asimi Giunti in redazione 75

Gregorio di Nazianzo Discorsi teologici 77

Grazia Ricciardi Mosè 79

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Non vi nascon-do che avrei fatto volentieri a meno di scrivere la presentazione di questo fasci-colo. Il rischio di cadere in espres-sioni banali e insulse di fronte alla grandiosità d e l t e m a “Bibbia” è altis-simo. Siamo di fronte al libro più dif-fuso e più tra-dotto in tutte le

lingue in ogni tempo da oltre due millenni. Siamo di fronte, per chi crede come me, alla Parola di Dio. Libro letto, commentato, amato, scelto per dare significato alla propria vita di singoli, comunità, popoli, Chiese eppure ancora profondamente ignorato. Libro che ha attraversato la cultura europea e occidentale eppure, da noi, ancora troppo scono-sciuto. Libro documento storico-letterario di importanza fondamentale eppure ancora così assente dai luoghi istituzionali della cultura quali la scuola e l’università. Parola di Dio che continua faticosamente a cercare di cambiare il cuore dell’uomo e che, al con-trario, incontrando la precarietà, la presunzione e la miseria degli uomini ha causato lacerazioni dolorose nella vita delle Chiese europee e libro posto da molti a fondamento della cultura euro-pea. A tale proposito Goethe ha affermato «la lingua materna dell’Europa è il cristianesimo» e il filosofo Kant era convinto che «il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà». Un altro filosofo celebre, Nietzsche (quello della morte di Dio, ricordiamolo) asseriva che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca e tedesca. Fra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza che esiste fra la patria e la terra straniera». Che fascino, che provocazione, che luce per ogni singolo uomo che vuole avvicinarsi con onestà intellettuale alle pagine della Bibbia, prima ancora di ogni interesse di fede!

tempopieno di… Bibbia

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La convinzione dell’importanza della conoscenza della Bibbia, l’impegno a illustrarne il mes-saggio (gli infiniti messaggi che essa contiene), l’amore per la generazione che si affaccia alla scoperta delle verità della propria vita ci hanno suggerito di affrontare questo tema nel dossier della rivista. Abbiamo incontrato la consueta disponibilità di qualificati studiosi sempre attenti ad approfon-dire degli aspetti del tema (religioso, culturale, storico-letterario, ecc.) che ci hanno inviato ge-nerosamente le proprie accurate riflessioni. Altri hanno comunicato l’esperienza della relazione tra la professione esercitata e la Bibbia, altri la declinazione della vita in famiglia in rapporto alla fedeltà alla Parola. Ringraziamo di cuore ciascuno di loro unitamente a quanti ci hanno inviato i contributi per le rubriche che precedono e seguono il dossier. Buona lettura!

Don Nicola Monterisi

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La scuola che vorrei…

Educare deriva dal latino ed è composto dalla particella e che significa da, di, fuori e dal ver-bo ducere che vuol dire condurre, trarre. Perciò credo che il mestiere dell’educatore sia profeti-co. Il primo profeta che mi viene in mente è Mosè, che conduce il popolo ebraico fuori dall’Egitto verso la Terra Promessa. Ma il pro-

feta non è colui che annunzia il futuro, non è un veggente. Il profeta è colui che parla in no-me di qualcuno di fronte a qualcun altro per comunicargli il messaggio. E in quest’acce-zione la figura dell’educatore e la figura del profeta vengono in qualche modo a coincidere. Infatti entrambe le figure con-ducono fuori da una forma di schiavitù verso una maggiore consapevolezza. A queste due figure si può anche accostare il medico. Harvey, un grande fisiologo del ̓600, sosteneva che il medico introduce nell’organi-smo sostanze che non si cono-scono. Infatti sia l’educatore che il profeta conducono qualcuno da radici incertissime attraverso un “deserto” verso una meta sconosciuta ma idealmente migliore sia dell’origine che del cammino. La scelta di rivestire questi ruoli comporta molte inquietudini, che non possono essere sedate da alcuna retribu-zione in termini economici. Per questo motivo tale scelta è det-tata da una vocazione. Secondo me se un individuo si assume il compito gratificante ma allo

stesso tempo frustrante dell’educare, questa persona è mossa da una capacità che oserei definire profetica e anche terapeutica. Non a caso la figura del terapeuta nasce in Egitto e coincideva con l’immagine del filosofo, che conduceva l’uditorio verso il proprio destino. Questa breve introduzione può sembrare este-

* Psichiatra

di Alessandro Meluzzi *

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tizzante se consideriamo la realtà attuale, in cui ci si confronta con il bullismo e la crisi della famiglia. Oggi la vocazione dell’educato-re si scontra con la destrutturazione del mon-do e rende davvero ardua la scelta di chi vuo-le seguire la sua inclinazione innata e natura-le. C’è la parola tedesca beruf che significa contemporaneamente vocazione, professione e destino. La figura dell’educatore è messa in crisi non solo dallo scarso riconoscimento economico-sociale ma anche dall’incrinarsi del rapporto tra scuola e famiglia. In passato l’au-torità della scuola e dell’insegnante erano rispettate e incutevano reverenza. Invece oggi la famiglia e il giovane “educato”, cioè a cui viene impartita l’educazione, sono alleati con-tro l’autorità ormai messa in discussione. Ol-tre alla tensione di essere consapevoli di dover far acquisire agli educati nozioni del vivere civile, gli educatori sono anche pressati da nuove tensioni perché ad essi viene affidata anche quell’educazione di cui di solito in pas-sato si occupavano le famiglie. Oggi l’educato-re svolge compiti che prima erano affidati alla famiglia, assumendo un aspetto genitoriale. Inoltre il ruolo della paternità è reso invisibile. In tutti i modelli psicodinamici di rapporti familiari la legge amorevole dei genitori è archetipicamente divisa tra amore paterno e amore materno. L’amore della madre è rassi-curante e accoglie sempre e a prescindere da qualsiasi sovra-determinazione. Invece l’amo-re paterno è concesso in base all’acquisizione delle regole della sua legge. Non a caso Freud parlava dell’uccisione del padre. Ma se il pa-dre non è più autoritario e il figlio non deside-ra più ucciderlo, avviene una sovversione, a cui la scuola non può porre rimedio in quanto è anch’essa privata della sua autorità. Però la scuola deve tentare di sopperire alla mancan-za, cercando di informare e di formare gli educati in vista delle difficoltà future, altri-menti queste ultime irromperanno come una catastrofe nel corso della vita. La figura del genitore ha intrinsecamente au-torevolezza che si distingue dalla severità. Si sceglie di essere autorevoli anche se implica fatica. Kant dice che è libero non chi fa ciò che vuole ma chi vuole ciò che deve. Se si compie qualcosa solo perché si deve allora non la si

vuole compiere. Ma come si concilia la libertà con qualcosa di imposto dall’autorevolezza? E si introduce il tema della fascinazione educati-va. Nella vita ci lasciamo affascinare o da un maestro o un modello di identificazione o qualcuno che ci propone la possibilità di lavo-rare per essere. L’identificazione è un passo ineludibile del cammino umano. Ma in teoria ci si dovrebbe anche poter identificare con il padre. Di solito il figlio intorno ai dieci anni pensa che il padre è il più grande degli eroi, verso i quattordici inizia a credere che a volte abbia torto, intorno ai sedici anni ritiene che non abbia mai ragione. Solo quando l’adole-scente passa la soglia dei venti anni, allora comincia a pensare che il padre aveva spesso ragione. Questo ciclo dovrebbe essere sovver-tito tramite la fascinazione di autorevolezza esercitata dal padre, che dovrebbe essere un modello d’identificazione. E per poter essere un modello deve essere innanzi tutto presen-te. La presenza è una condizione imprescindi-bile per lo sviluppo psicologico. E i padri sono assenti perché continuano a seguire i loro fan-tasmi adolescenziali nella misura della loro indefinitezza e alla ricerca della loro felicità. Non c’è nulla di più disperato della ricerca della propria autoaffermazione. La felicità, ammesso che esista, non è mai il risultato di un programma o il risultato di un progetto. Essa è un dono, è un’esperienza inderivabile: qualcosa che non può essere ottenuto con la volontà e non può essere costruito, perché è un accadimento. La felicità è un accadimento come l’amore. Forse che l’amore è il risultato di un programma? Ciò che è il risultato di una programmazione non ci suscita felicità perché ci appare scontato. Il traguardo raggiunto tramite un progetto non ci appare come un dono straordinario ma ci appare come una conseguenza necessaria. La felicità non è mai il risultato di un calcolo computazionale ma è il risultato di qualcosa che si manifesta in mo-do misterioso ed ineffabile. Credo che i processi educativi non possano tener conto della dimensione di mistero. I giovani non ascoltano le parole ma osservano i fatti e non tengono conto della quantità ma della qualità. Non misurano la realtà sulla base dei suoi esiti ma sulla base del sacrificio.

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Fare il sacro ci fa capire che oltre la propria autorealizzazione c’è altro, che ci trascende e che va al di là dei nostri risultati. I traguardi che raggiungiamo ci vengono donati e l’unica cosa che possiamo apportare è il dolore consa-pevole. Tutto ciò che consideriamo importante comporta sacrificio. Anche un amore che ha successo implica fatica, così come mettere al mondo un figlio e garantirgli una vita. Secon-do me un elemento imprescindibile della con-dizione umana è la trascendenza del sacrificio. La vita è caos: veniamo da un abisso di nulla a cui ritorniamo. La vita è inspiegabile: nascia-mo, cresciamo, ci ammaliamo e moriamo. Magari abbandoniamo la vita senza compren-derne il senso, che non può essere rintracciato nei risultati empirici dell’esistenza. Siamo come levrieri che corrono in un cinodromo dietro ad una lepre di pezza e se l’afferriamo scopriamo che è una lepre finta. Forse è per questo motivo che quando otteniamo un suc-cesso senza fatica, ci appare modestissimo. Solo ciò che ci è costato sacrificio ha valore. La dimensione del sacrificio è la prima scaturigi-ne di senso nel caos della vita. E il caos può essere trasformato in kosmos, ordine armonio-so, solo tramite il sacrificio, che è semplice-mente un dono. Il dono è qualcosa per il quale non ricevo nulla in cambio, non è uno scam-

bio. Ciò che io faccio senza chiedere una ri-compensa è l’unica fonte di generazione della vera ricchezza. Alla fine della nostra vita ci resterà solo ciò che abbiamo donato e non ci ricorderemo neanche di ciò che abbiamo fatto. Infatti ciò che abbiamo donato viene dal nulla, l’abbiamo creato come fossimo Dio. Ciò che noi facciamo senza ricevere qualcosa in cam-bio è il riconoscimento in questo mondo. Il rapporto genitori-figli è basato su questa con-cezione del dono: se c’è un luogo in cui si può realmente parlare di dono, questo posto è la famiglia. Proprio la gratuità del sacrificio ren-de la vita miracolosa e preziosa. Il vero mira-colo è il dono. Non si può misurare la quantità o rilevare la qualità del dono, ma si può avere una sorta di carriera del dono e del sacrificio nell’educare i figli. E si può individuare come fattore di fallimento nell’educazione la caren-za della dimensione del dono e del sacrificio. I genitori pensano di poter rimediare e sopperi-re alla loro assenza con doni materiali, oggetti, che dovrebbero servire a compensare la man-canza di impegno e di presenza. Ma se non capiamo qual è la vera natura del dono allora la vita è pattumiera. Le cose non riescono a colmare il nostro cuore e ci lasciano un senso di insoddisfazione, che si estende ancora di più se pensiamo di poter riempire il vuoto con

gli altri. Siamo alla disperata ricerca della quantità, perché riteniamo che il vuoto possa essere colmato con un numero sempre maggiore di oggetti e di persone. Ma nella mia car-riera professionale ho incon-trato tante persone che, pur avendo apparentemente tutto, sono impazzite: mancavano le cose essenziali. L’amore è l’u-nica fonte di eternità, che va al di là del limite della morte. La vita non ha qualità né quanti-tà. La vita è caratterizzata qua-litativamente dalla presenza dell’ineffabilità del donare e del donarsi. E il segreto dell’u-mano è il dono senza chiedere nulla in cambio.

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Siamo a Noicattaro, paese di venticinquemila abitanti nell’hinterland barese, famoso anche all’estero per la sua “uva regina”. D’estate, e fino a novembre, ogni giorno partono da qui tir e vagoni ferroviari per i mercati ortofrutticoli di tutta Europa. Molti in questa terra hanno investito nella vigna e nei campi. Tra questi, anche non pochi immigrati stranieri, ormai stabilmente residenti. Certo, non sono proprie-tari di terre, ma la ‘giornata’ la rimediano, ed è quanto basta per una vita dignitosa. Qui la “Pascoli” propone il suo “piano dell’of-ferta formativa”. Noi addetti ai lavori lo chia-miamo P.O.F., anche se la sigla non è esaltante, e fa pensare più al codice di una pratica d’uffi-cio, che ad un progetto educativo rivolto a ragazzi. Così, ci è venuto di dargli un nome proprio: il nome del nostro POF è Eutopia, che tradotto dal greco, sta per “il luogo bello”. In pratica, abbiamo ‘adottato’ l’utopia di Tommaso Moro. Solo che tra le due matrici etimologiche che stanno all’origine della parola (ou topos - ‘luogo che non c’è’, ed eu topos – ‘luogo bello’), abbia-

mo scelto senz’altro la seconda. Vale la pena una prima riflessione: la scuola italiana, io credo, ha bisogno di fare cose diverse dal consueto, da quello che è l’attesa ‘normalità’. Diremmo, con una espressione figlia della stessa radi-ce, che la scuola ha bisogno di fare cose divertenti (da di-vertere, modificare la direzione rispetto alla rotta con-

sueta che tutti si attendono). Anche darsi un nome proprio può essere un’impresa divertente, che ci schioda dalla routine. Ma torniamo all’idea bizzarra di Eutopia. Infatti è bizzarro, o forse perfino presuntuoso, definire ‘bella’ la scuola! Da che mondo é mon-do, i ragazzi ci vanno mal volentieri, studiano controvoglia, sopportano come un peso le ‘imposizioni’ dei professori, non di rado subi-scono le prepotenze di bulli e monelli di vario calibro. Eppure, affermiamo che può essere bello veni-re a scuola! È bello venirci e starci, così come è bello abitare nella propria casa, coltivare le pro-prie abitudini. È facile constatare che la scuola è il secondo luogo ‘abitato’ dai nostri ragazzi, e non si può odiare il posto dove si trascorre così tanto tempo. Se la scuola fosse un luogo sgra-devole, quale motivazione spingerebbe all’ap-prendimento? E qui nasce una seconda riflessione: il termine luogo è usato dal sociologo francese Marc Augè, in contrasto con quello di non luogo. Mentre in un ‘luogo’ è riconoscibile una comu-

Vi racconto la nostra scuola

* Dirigente scolastico – Scuola Secondaria di I Grado “G. Pascoli” - Noicattaro

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di Cataldo Olivieri *

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nità (con storia, valori, progetti comuni), i ‘non luoghi’ sono spazi anonimi e indifferenti (come gli ipermercati o le sale d’aspetto di una stazio-ne) frequentati da tanta gente, che tuttavia si sente estranea, non a casa propria. Vogliamo dunque che la Pascoli sia la casa dei ragazzi, luogo a loro caro, spazio ‘abitato’ per cui avere cura e affetto. Vogliamo che le aule, ‘seconde abitazioni’ dei ragazzi, abbiano tende alle finestre fatte dalle mamme, piante sul davanzale, magari un orologio da cucina, pro-prio come il soggiorno di casa dove a pomerig-gio si fanno i compiti. Anche in questo caso, non si inventa nulla. Agli inizi del Novecento, la grande pedagogi-sta Maria Montessori, realizzò le “case dei bam-bini”, affermando di volere non una scuola per i bambini, ma una scuola dei bambini, «in cui i piccoli diventino pienamente persone e diano vita ad un mondo di pace». Ma come ci stanno Tommaso Moro e Maria Montessori dentro la Pascoli? Come passano le loro giornate, insieme ai circa seicento abitanti - ragazzi e settanta docenti e non docenti? E insieme a loro, come vivono a scuola i dician-nove alunni diversamente abili, i trentacinque ragazzi stranieri, i circa quaranta ragazzi

‘svantaggiati’? Alla Pascoli accade più o meno questo. Alle otto tutti in cortile, nei posti assegnati alle singole classi. Il preside e i docenti accolgono e accompagnano fino alle proprie aule. L’acco-glienza è importante; salutarsi, scambiarsi una battuta, incrociare gli sguardi, specie con quei ragazzi bisognosi di essere ‘accompagnati’ nella crescita educativa (leggi: i ‘monelli’) è un modo per intravvedere un malessere, intercet-tare un disagio, prevenire un potenziale con-flitto. L’edificio ha circa quarant’anni, solido come si usava costruire un tempo e, per buona sorte, appena ristrutturato, con l’ingresso fatto tutto di vetrate colorate (i ragazzi devono fare l’e-sperienza del ‘bello’, sia dentro che fuori! Edu-care al bello, affermava il grande pedagogista Paolo Freire, è il principale apprendimento, da cui discendono tutti gli altri). Breve annotazio-ne: i ‘ritardatari’ – per loro sfortuna - devono passare dalle forche caudine della presidenza, e la cosa non li rinfranca particolarmente! Una terza veloce riflessione, a questo proposi-to: i ragazzi hanno uno spiccato senso della giustizia, e sanno perfettamente quando hanno ragione o torto. Dunque, il rimprovero (o l’e-

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v e n t u a l e ‘provvedimento disciplinare’) per i ritardatari cronici è generalmente atteso, perfino accettato. I ragaz-zi, insomma, han-no bisogno di rigore educativo; sembra quasi che lo richiedano, come atto di cura e di attenzione, come antidoto all ’ indifferenza d e i g r a n d i (l’indifferenza è da considerare, a mio avviso, il peggiore misfatto degli adulti, in campo educativo). Durante la giornata scolastica possono accade-re tante cose, tutte però fortemente connesse all’apprendimento cosiddetto ‘curricolare’. A metà mattinata le classi fanno la loro ‘pausa’ in giardino (ne abbiamo uno all’interno, verde ed ombroso); questa ‘uscita’ alleggerisce non poco la giornata di studio in aula. Durante il giorno piccoli gruppi (in genere, ragazzi svantaggiati o iperattivi che hanno bisogno di interrompere la routine dietro i ban-chi) si occupano, a squadre, della cura dei giar-dini, oppure fanno visita al ‘piccolo zoo’ scola-stico (pesciolini, criceti, uccellini, pappagallini, ecc.), curato con particolare maestria dai nostri ragazzi diversamente abili (una conferma della potenza educativa della pet therapy). Una volta l’anno i ragazzi vanno a cavallo, in un maneg-gio vicino (l’equitazione dura circa due mesi … finanziamenti permettendo). Nelle belle giornate i docenti possono utilizza-re il giardino come ‘aula all’aperto’, e dunque svolgere le loro lezioni al fresco, sotto gli albe-ri, seduti sulle panchine o intorno a un grande tavolo. Per la scuola puoi incontrare anche i volontari del servizio civile: sono quattro ragazze, si prendono cura come tutor di alcuni ragazzi che ‘fanno fatica’ a studiare. Il progetto Servizio Civile (la Pascoli è iscritta dal 2009 all’albo re-

gionale degli enti accreditati) si chiama “Scuola a colori”e ci permette di offrire una chance ulteriore ai ragazzi in difficoltà. Una domanda si impone: ma la Pascoli è forse troppo sbilanciata a vantaggio dei ‘ragazzi difficili’, e trascura tutti gli altri? Risposta (e conseguente quarta riflessione): in una classe si può constatare la stessa legge dei ‘vasi comunicanti’, che ritroviamo nella Fisica; nello specifico, il benessere dei ragazzi più riottosi allo studio, è direttamente proporzio-nale al benessere di tutti, così come il loro ma-lessere condiziona e pregiudica il buon anda-mento generale. Quanto più troviamo le giuste strategie di apprendimento per gli alunni svan-taggiati, tanto più l’intera classe ne trae benefi-cio. Pertanto, la cura dei ragazzi ‘monelli’ o ‘poco studiosi’, con i percorsi personalizzati costruiti per loro, favorisce straordinariamente la qualità dell’apprendimento di tutti! Natural-mente, non si tratta di creare separazioni tra i ragazzi; al contrario, la personalizzazione degli interventi è un processo orientato alla piena integrazione e al rispetto delle rispettive speci-ficità. Le differenze sono una risorsa e non un problema, usiamo dire. Se vieni alla Pascoli in autunno o primavera, lungo i corridoi o nelle aule, ti potrai imbattere in ragazzi... tedeschi che fanno lezione nelle nostre classi. Da cinque anni realizziamo un gemellaggio con la Uhland Schule di Goppin-

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gen; ormai diverse decine di ragazzi hanno viaggiato e studiato in… Europa, con le fami-glie protagoniste di straordinari gesti di ospita-lità! Altra esperienza ‘divertente’, in cui ci si può imbattere, è quella di vedere in giro, per la scuola, ragazzi con la “scacchiera”. Gli scacchi sono il gioco da tavolo più popolare alla Pascoli. Buona parte degli alunni ci sa gio-care; non meno di cinquanta–sessanta ragazzi guadagnano il diritto ai campionati d’istituto; i meglio classificati formano le squadre, maschi-le e femminile, che rappresentano la scuola ai campionati provinciale e regionale. Incredibile ma vero: spesso i ragazzi più bravi a scacchi non sono affatto i più bravi nello studio; talvol-ta è vero il contrario! Ecco un altro motivo di riflessione… Girando per le aule, ci si potrebbe trovare, una volta al mese, nel pieno di una assemblea di classe. Viene indetta dai rappresentanti (due eletti a scrutinio segreto, per ciascuna classe, nel mese di ottobre), serve a mettere in luce

proposte e problemi, da discutere nel “Consiglio dei Ragazzi” (il parlamentino degli alunni della scuola), e da sottoporre poi al pre-side, per migliorare quello che non va. Ragazzi cittadini e talvolta perfino… sindacalisti! E poi … progetti con fondi europei e regionali, sport, laboratori, corsi di recupero pomeridia-ni. E poi ancora… È impossibile imprigionare in un testo il rac-conto di una scuola, le tante cose quotidiane. Così come non è facile giudicarne i risultati, nel bene o nel male. Di errori, per carità, ne faccia-mo, li conosciamo tutti, a fine anno li esami-niamo con cura. E tuttavia ci piace guardare sempre all’orizzonte ‘prossimo’, alle cose che possono ancora avvenire, rivedendo e miglio-rando quelle passate. E quelle cose ‘che stanno per venire’, che quotidianamente si costruisco-no, nella sapienza antica della lingua dei Ro-mani, si usava chiamarle avventura! Buona avventura educativa a tutti!

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Il primo dato da poter considerare nel presen-tare le indicazioni dell’animazione museale realizzata è il numero dei visitatori, nel perio-do preso in esame (dal 1° luglio 2010 al 1° lu-glio 2011), che è stato di 3764 unità (a raffronto di 2442 per l’anno precedente). Tale risultato è il frutto d’alcuni orientamenti predisposti, co-me l’apertura straordinaria del Museo con iti-nerari espositivi particolari e l’animazione la-boratoriale per le fasce studentesche. Entrando nello specifico si possono evidenziare le se-guenti animazioni effettuate: Notti Sacre dal 26 settembre al 3 ottobre 2010 con 487 visitatori e

la Mostra Natalizia con otto aperture straordinarie raggiungendo 604 visitato-ri. Entrambe le iniziative hanno avuto la possibilità di una informazione mediati-ca con dirette su TG Regione (1 ottobre 2010 alle ore 7.30 e 14.00) e servizi su RAI 1 e RAI 3 (19 e 26 dicembre 2010), redatti dal giornalista Enzo Quarto. Il primo percorso ha orientato l’animazione sui rotoli degli Exultet e il secondo sul lega-me tra devozione e collezionismo nei segni del Natale (presepi, statuaria e dipinti). L’animazione natalizia ha tenuto anche presente di rinsaldare il legame con il territorio, sia quello ove è inserita la sede museale, Bari vecchia che la città. Per far fronte a tale obiettivo si è strutturato un I Concorso in collaborazione con la par-rocchia Cattedrale, per la valorizzazione dell’arte del presepe nella città antica di Bari. A tale iniziativa hanno aderito 25 partecipanti tra famiglie, associazioni e confraternite. Altresì l’animazione natali-zia nella sede museale ha visto il coinvol-gimento di 15 soggetti come presepisti, collezionisti e restauratori, nel mettere a

disposizione il loro materiale per il percorso espositivo. La realtà di animazione laboratoriale nella frui-zione del Museo per le fasce studentesche ha scelto come canale privilegiato per la comuni-cazione con le istituzioni scolastiche la collabo-razione con l’Ufficio Scuola diocesano, assieme alla presentazione dei percorsi laboratoriali strutturati nell’incontro diocesano con gli inse-gnanti di Religione cattolica nel mese di otto-bre. La partecipazione delle fasce scolastiche alla vita del Museo Diocesano si è così struttu-rata in 889 unità di cui 628 studenti tramite i

L’animazione del Museo diocesano di Bari

* Responsabile del Museo Diocesano di Bari

di don Michele Bellino *

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percorsi laboratoriali e 261 mediante il percor-so ordinario. I laboratori selezionati dalle co-munità scolastiche sono stati i seguenti: lo “Scriptorium: l’arte e il piacere della scrittura e della miniatura” con 330 adesioni, “Bari nel Medioevo: il succorpo della Cattedrale, i reper-ti scultorei e gli Exultet del Museo Diocesano, la cripta della chiesa di San Michele” con 208 visitatori, “Il racconto del Natale nell’arte” con 90 partecipanti. Il laboratorio “Il Racconto del Natale nell’arte” è stato realizzato con l’ausilio di tre volontari e due guide; lo “Scriptorium” e “Bari nel Medioevo” con l’ausilio di un solo volontario. Certamente il criterio guida per la scelta degli animatori ai diversi laboratori ha tenuto pre-sente la reale necessità del personale per la realizzazione dei percorsi. A fronte di tale orientamento la presenza del gruppo guide è stato chiamato a seconda dei bisogni di gestio-ne dei flussi di presenza, non più scegliendo una presenza indistinta al di là dei numeri dei visitatori. La proposta formativa non è dimi-nuita nell’accogliere uno o più visitatori e nel mettersi a disposizione per l’animazione. Un indice di riscontro si ritrova nei questionari di gradimento consegnati ai docenti sulle propo-ste laboratoriali prescelte, ove si evince un li-vello di piena soddisfazione per il coinvolgi-

mento dei ragazzi e qualifiche di merito a ri-guardo dell’apprendimento e dell’organizza-zione. Un ulteriore canale di animazione è stata la collaborazione con l’Ufficio Liturgico dioce-sano, con una proposta di catechesi con l’arte nel periodo di Quaresima, con l’approfondi-mento del Triduo Santo attraverso i Misteri della Vallisa e l’Exultet I. A tale indicazione formativa hanno partecipato tre comunità par-rocchiali con 180 unità. Altre iniziative realiz-zate nel presente anno sono così elencate: Pre-stito d’opera della lastra “L’albero della vita” di Peregrino da Salerno per la mostra “Gli Sve-vi e l’Italia” organizzata dal Reiss-Engelhorn-Museen di Mannheim dal 18 settembre 2010 al 20 febbraio 2011; Intervista sulla Mostra Natali-zia del giornalista Luca Turi e trasmessa sul suo sito Internet; Strutturazione di due lezioni per il Corso di approfondimento per aspiranti IdR; Presentazione del Museo Diocesano nelle trasmissioni televisive di Buonvento e Meridia-ni sul canale Tele Norba 7 a cura del giornalista Martino Cazzorla; Presentazione del volume “Exultet I di Bari” del prof. Giuseppe Micunco il 16 aprile 2011; Organizzazione di un percor-so fotografico di Michele Cassano sui “Riti della Settimana santa a Bari Vecchia” dal 16 aprile al 1° maggio 2011; Partecipazione all’ini-ziativa promossa da Artelier “1087 i costumi

della traslazione: donne, gioielli e pro-messe nuziali” nella sala Murat dal 6 al 20 maggio 2011. In riferimento agli oboli volontari rice-vuti al netto delle spese di minuta am-ministrazione è stato di 1.164,82 euro, ma altresì si può aggiun-gere la somma ri-sparmiata di 6.000,00 euro per il compenso alle guide, garanten-do comunque tutti i servizi educativi e formativi del Museo.

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La scrittura sacra, Antico e Nuovo Testamento, è una storia di ebrei. L’Antico è stato scritto in lingua e lettere ebraiche, il Nuovo invece è stato compilato in greco. Ho studiato le due lingue: il greco al liceo e l’ho dimenticato in gran parte. L’ebraico antico l’ho avvicinato in età adulta, da volontario e da solo. Ho potuto così risalire per mio conto al formato di origine del mono-teismo, dal quale proviene la civiltà religiosa del nostro spicchio di mondo. Frequento quelle scritture tutti i giorni, al ri-sveglio. Non sono credente, non posso rivol-germi a una divinità. La escludo dalla mia vita, non da quella degli altri. I credenti possiedono una intimità che non ho. La mia lettura quoti-diana è un percorso verso le origini della noti-zia sacra. Somiglia a quello di un viandante

che si accosta alle sorgenti di un fiume. In quel punto dove la storia sgorga, trovo l’integrità della parola. Non si è ancora suddivisa in reli-gioni, altari, culti contrapposti. È intera, quanto un dono appena ricevuto. Leggendo in ebraico antico ho la vertigine di essere contemporaneo dell’inizio. Leggo i caratteri ebraici che vanno nel senso opposto al nostro. Anche le pagine si sfogliano al contrario. Si forma così un attrito, da quelle parole si alza un vento che pulisce gli occhi e sgombera i pensieri. Mi accorgo di avere la testa vuota, perciò aperta a quella visita. In una mia lettura di molti anni fa intendevo un verso ebraico in maniera diversa dalle traduzioni correnti. Mi succede spesso. Riferito al vaga-bondaggio degli ebrei nel deserto dopo la liber-tà scippata all’Egitto, si legge di una colonna

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Al risveglio… la Parola

* Scrittore

di Erri De Luca *

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di nuvole stesa su di loro a copertura, ma il verso ebraico dice alla lettera: «Stese una nuvo-la per tappeto». L’immagine è perfetta e più profonda: la colonna di nuvole, allungata tra la terra e il sole, proietta al suolo un’ombra. Quell’ombra è un tappeto e loro vanno su una traccia spianata. Ecco perché dopo quaranta anni di infiniti passi, i loro sandali non si con-sumarono. La colonna di nuvola che sta sopra di loro non li ripara da un’insolazione, non sta a copertura, ma a segnavia del viaggio. La scrittura sacra non è un riparo in caso di arre-sto, ma una guida per andare avanti. Perciò tutte le regole di comportamento, le leggi della scrittura sacra si chiamano in ebraico halakha’, dal verbo andare. Contengono il corpo di istru-zioni per la marcia nel deserto, nello sbaraglio del pericolo della libertà. Sì, la libertà non è un elenco di bei diritti da godere, ma un azzardo che fa desiderare spesso di tornare indietro in qualche Egitto. Quella scrittura sacra invita al rischio di affidarsi al viaggio. Come quello degli ebrei di allora e dei migranti di ora, è di sola andata. C’è un Mar Rosso che si richiude a saracinesca alle spalle, tagliando via il ritor-

no. Nell’asprezza dell’ebraico antico leggo il perso di una lingua facchina che si carica in groppa la potente notizia del monoteismo. Si apre una pista verso il cuore della specie umana cancel-lando tutte le divinità precedenti. La grandiosa folla di idoli precedenti precipita giù da altari e alture. Gli inquilini dell’Olimpo subiscono sfratto esecutivo, fino a lasciare la residenza alla stesura delle nevi eterne. Gli dei finiscono nell’esilio della mitologia. Il monoteismo si impianta grazie alla sua for-mula mai tentata prima: estrarre dalla vita umana l’energia amorosa che possiede. Nessu-na divinità aveva chiesto tanto: amarla con tutta l’energia del cuore, del fiato, delle forze. E di amare il vicino sconosciuto quanto se stessi. Accade la più profonda sovversione delle ge-rarchie, ribadita nel Nuovo Testamento dal discorso della montagna che proclama lieti e primi gli umili, i vinti, i calpestati, gli ultimi. Esco dalla lettura quotidiana con un viaggio compiuto, prima di infilarmi nelle faccende del tempo presente.

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Lampada ai miei passi è la tua Parola luce sul mio cammino (Sal 119,105)

Premessa Il tema che mi è stato proposto può essere af-frontato in moltissimi modi. Ne scelgo uno, non so bene se è il più opportuno. La mia meditazione sarà divisa in tre parti e preceduta da una premessa di tipo “metodologico-contenutistico”. Essa indica qual è l’atteggiamento di fondo che bisogna avere di fronte alla Parola. Le tre parti sono: • La Parola di Dio come una lettera • L’apertura della Parola • L’umiltà della Parola. Prendo lo spunto iniziale da un brano di Lute-ro. È fuor di dubbio che Lutero fu un uomo nutrito dalla Parola in un momento in cui la Parola nella tradizione cristiana era posta fuori centro. Per questo gli siamo tutti debitori. Lute-

ro afferma: «Se vuoi diventare cristiano accogli la Parola di Cristo e sappi che non l’apprende-rai mai a fondo. E tu confesserai insieme con me che non ne conosci ancora l’abbiccì. Se va-lesse la pena vantarsi io lo farei anche, ho pas-sato infatti giorni e notti in questo studio ma in questo insegnamento devo restare sempre uno scolaro. Io ricomincio quotidianamente come un alunno delle elementari». Questo passo di Lutero è metodologico perché fa riferimento alla scuola e al rapporto docente-discente, in cui il docente della Parola deve essere sempre discente alle prime armi. L’im-portanza decisiva di questa frase è duplice: da un lato c’è l’appello alla quotidianità (“ogni giorno”), dall’altro c’è l’invito a ricominciare. Mentre la prima parte, “ogni giorno”, si capi-

* Biblista

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di Piero Stefani *

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sce immediatamente, è forse più difficile capi-re perché si è chiamati a ricominciare. Potreb-be sembrare la spia che non si progredisce, che si è preda di una fatica di Sisifo. In circolo si ripercorrono sempre gli stessi passi. In realtà questo ricominciare non vuol dire partire da zero, significa trovarsi in cammino. La Parola è inesauribile, e chi non ricomincia non l’ha compresa. Ricominciare vuol dire sapere che «lampada per i miei passi è la tua parola, / luce sul mio cammino». La Parola è il cammino ai passi, è un andare. Accogliere la Parola significa sempre andare non solo perché inviati dalla Parola, ma è un andare dentro la Parola. La Parola invita a camminare con lei e dentro di lei. La Parola come una lettera È abbastanza tradizionale paragonare la Paro-la di Dio ad una lettera. Una buona parte della Parola di Dio, almeno del Nuovo Testamento, ha, in effetti, la forma di lettera. Come imma-gine, però, è estendibile a tutta la Parola di Dio, non solo alle epistole di Paolo o a quelle cattoliche. La lettera è una forma di comunicazione a distanza, quindi non implica una presenza o, meglio, implica quella presenza che è possibile là dove c’è distanza. Se ci fosse solo distanza, separazione, lontananza nulla arriverebbe fino a noi. Il giungere di una lettera non nega la presenza di una distanza, ma ne inverte il segno. Gregorio Magno scrivendo a Teodoro – medi-co, quindi laico, dunque in una vita non diret-tamente e totalmente dedita alla Parola come quella del monaco – presenta la Sacra Scrittura come una lettera che Dio ha inviato all’uomo: «Cos’è infatti la Sacra Scrittura se non la lette-ra di Dio onnipotente alla sua creatura? Se ti trovassi lontano e ti raggiungesse una lettera dell’imperatore non ti daresti pace, non chiu-deresti occhio senza aver preso conoscenza del contenuto di quella lettera. Or bene, il re del cielo, il Signore degli uomini e degli angeli ti ha scritto una lettera che riguarda la tua vita (pro vita tua) e tu, illustrissimo figlio, non ti curi di leggerla con amore ardente? Cerca dunque, ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio».

L’ammonimento è di grande rilevanza in pri-mo luogo per la chiusa: «Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio», il che senza troppo sforzo può trasformarsi nella sentenza secondo cui “il cuore di Dio è conse-gnato alla sua Parola”. Oltre a ciò e all’invito a «meditare ogni giorno», in questo passo c’è l’idea della lettera e vi è il paragone, invero un po’ fastidioso anche proposto da Gregorio Magno, tra Dio e l’autorità mondana dell’im-peratore. Se qualcuno che ci è molto caro ci scrive, si è solleciti a leggere e ci si affretta a vedere in quelle parole una presenza, perché non si fa altrettanto con la Parola di Dio? Per varie ra-gioni, una delle quali è che il mittente non è così evidente, Egli si è a tal punto consegnato alla sua lettera da racchiudersi umilmente nella lettera stessa. Ciò significa che la Parola di Dio è il luogo in cui Dio si nasconde. È chia-ro che Dio c’è e che la Parola di Dio non è Dio, però noi non abbiamo mai visto il volto di Dio, mentre abbiamo visto il volto della perso-na cara che ci invia una lettera. Quando ci giunge il messaggio da una persona che cono-sciamo, siamo rimandati non soltanto al volto che abbiamo già visto ma che confidiamo di poter rivedere. Si può proporre un altro paragone. È formula-to da un maestro ebreo, vissuto un paio di secoli fa, che si chiamava Nachman. Questi riprende in una sua parabola l’immagine della lettera e dice: «Vi era un principe che viveva lontano da suo padre, il re, e ne aveva moltis-sima nostalgia. Una volta ricevette una lettera del padre e ne fu felicissimo e la custodì gelo-samente. Tuttavia la gioia e il diletto provocati dalla lettera accrescevano sempre di più il suo vivo desiderio. Egli era solito sedersi e sospi-rare: “Oh se potessi toccare la sua mano! Se egli stendesse il suo braccio sino a me come lo abbraccerei! Bacerei ogni suo dito, tanto gran-de è il desiderio che ho di mio padre, il mio maestro e la mia luce. Padre misericordioso, come bramerei toccarti almeno il dito migno-lo! ”». La lettera è segno di presenza ma anche di distanza e il desiderio di vedere di persona il mittente aumenta, quindi, lo struggimento. La Bibbia stessa più volte dice “fammi vedere

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il tuo volto”; afferma che il volto di Dio non si è mai visto ma esprime anche il desiderio di ve-dere, e l’una e l’altra cosa vanno tenute insie-me. C’è la scoperta della presenza ma c’è anche il senso della lontananza, di un incontro non davvero completo. La parabola di Nachman continua: «E mentre si lamentava provando l’ardente desiderio di toccare suo padre, gli balenò in mente il pensie-ro: “Non ho forse la lettera di mio padre, scritta di sua mano? La calligrafia del re non è forse paragonabile alla sua mano?”. E una grande gioia proruppe in lui». Qui potremmo dire che il passaggio avviene dal momento in cui si legge a quello in cui si ascolta, quando cioè si dice che la grafia non è semplicemente un segno ma è una presenza; non è la presenza più completa, definitiva, anzi è un invito a sperarla, a desiderarla, però è ugualmente una presenza. Nella tradizione cristiana si potrebbe affermare che è un simbo-lo, nel senso forte del termine. Anche in base all’origine stessa della parola, il simbolo e la realtà simboleggiata sono della stessa natura cosicché le due parti si devono incontrare al fine di formare una piena integrità. La Parola è simbolo in quanto è presenza. Allo-ra non è più una lettura ma un ascolto. La diffe-renza tra lettura e ascolto è la stessa di quella provata dal principe tra quando vedeva nella lettera un segno di lontananza a quando vi scorse, al contrario, un segno di presenza. Essa diviene luce in una distanza che pur non nega. Ci sono dei libri che hanno due par-ti: una scritta e detta, l’altra né scrit-ta né detta. Proprio questa seconda parte è la più importante. Si può affermare che anche nella Sacra Scrittura il non scritto è la compo-nente più rilevante; ciò avviene non perché bisogna sondare misteri, profondità mistiche o altro di simile, ma perché è lo scritto stesso a esige-re di diventare altro. Noi diciamo che non bisogna solo leggere la Pa-rola di Dio ma ascoltarla e viverla, e ascoltare nella tradizione biblica vuol dire obbedire. Molte volte nella tradizione ebraica si cita Esodo 24,7. Mosè ha appena letto il libro dell’al-

leanza e il popolo risponde: «Tutto quello che il Signore ha detto faremo e ascolteremo». In que-sta frase ci sono tutti i passaggi necessari per comprendere che quanto importa è ciò che non è scritto: è la parola che deve diventare altro da sé. Mosè legge. Il punto di partenza è dunque un testo scritto, il libro dell’alleanza – potrem-mo dire che tutta la Bibbia è un libro dell’al-leanza – però il popolo dichiara «tutto quello che il Signore ha detto», e non “tutto quello che il Signore ha scritto”. La parola è intesa non come scritta, ma come parola pronunciata. «Quello che il Signore ha detto»; ma poi segue un’inattesa inversione: «Faremo e ascoltere-mo». Il fare viene posto addirittura prima dell’ascoltare: si può davvero ascoltare soltanto una parola tirata fuori dal libro per farla diven-tare vita (“faremo”). Allora si ascolta non sem-plicemente perché è scritta ma perché è diven-tata “altro”, innanzitutto parte di noi, del no-stro agire. Tuttavia la parola diventa altro an-che nel commentarla, nello scrutarla, nello stu-diarla, nell’aprirla. La Parola va aperta La Parola è nostra maestra; ma essa non si im-pone dal di fuori indipendentemente dal modo in cui ci si confronta con lei. Gli esempi posso-no essere tanti prospettati dalla Scrittura stessa. Ne prendo uno tra i più famosi; quello che si avvicina di più all’orizzonte pasquale: i disce-poli di Emmaus. Questi sono in cammino ma non hanno lampa-da ai loro passi, camminano ma non compren-

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dono. Il Risorto si avvicina senza essere cono-sciuto, è cioè nascosto dentro la Parola. Li accu-sa di essere stolti, duri di cuore nel credere. Nello stesso capitolo del vangelo di Luca Gesù quando appare ai discepoli riuniti nel cenacolo, afferma: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Quindi aperse le loro menti all’in-telligenza delle Scritture» (Lc 24,44.45). È la Parola che si deve aprire. Allora essa diviene Parola compresa interpretata e attualizzata. I discepoli avevano letto le Scritture, sapevano cosa diceva la legge di Mosè (cioè il Pentateu-co, la Torah come si direbbe in ebraico), sape-vano cosa c’era scritto nei Profeti e nei Salmi, tuttavia non collegavano quelle parole con quanto si trovava fuori da quella Scrittura e che pure era lì, accanto a loro. Quanto non det-to esplicitamente diventa la chiave che nello stesso tempo interpreta la Parola ed è interpre-tato dalla Parola. Aprirsi all’intelligenza delle Scritture non è mai qualcosa che avviene una volta per sem-pre. Non ha mai luogo in generale o comunque in base ad un orizzonte non determinato. L’in-telligenza delle Scritture è lì, è il Risorto che è apparso loro ed è l’attualizzazione “qui ed ora” della Scrittura che può avere un valore perma-nente proprio perché è riferita ad una situazio-ne assolutamente concreta e presente. Non s’interpreta mai la Scrittura una volta per sem-pre, se fosse così la Parola non dovrebbe diven-tare altro, non dovrebbe realizzarsi. La Scrittu-ra si realizza non come scrittura ma come altro, appunto «doveva compiersi quanto è scritto su di me», finché è solo scritto non si realizza. Lutero, che ogni tanto aveva delle immagini simbolico-allegoriche, in un sermone collega il Natale alla Pasqua e dice: «L’angelo avvisa i pastori e dice loro: “Questo sarà un segno per voi: troverete il fanciullo fasciato e coricato in una mangiatoia”. Le fasce non sono altro che le Sacre Scritture in cui la verità cristiana giace avviluppata, in essa si trova descritta la fede. Lo stesso Cristo dopo la sua risurrezione spie-gò loro le Scritture mostrando come parlavano di lui». C’è questa grande immagine delle fasce che diventano una specie di rotolo scritto che avvolge la verità cristiana, che la protegge, che le consente di vivere. Se non c’è questa prote-

zione neanche il bambino sopravvive. Ma le fasce non sono la totalità della verità cristiana. Perché ci sia la pienezza occorrono tanto le fasce quanto il bimbo; né solo fasce, né solo bimbo. Nell’immagine di Lutero c’è un riman-do continuo di apertura tra la Scrittura e Colui che la realizza. In senso forte, pieno, decisivo questo è quanto è avvenuto in Cristo risorto; ma ciò è anche quanto deve avvenire, sia pure non in forme assolute, ma ogni giorno, in ogni suo interpre-te. Questo è detto nell’episodio finale di Luca 24. Gesù, quando apre gli occhi all’intelligenza delle Scritture, scompare; l’apertura dell’intelli-genza coincide con la sua scomparsa. È straor-dinaria la simultaneità tra la comprensione e il non possesso della presenza del Risorto. È di nuovo la «luce ai miei passi», di nuovo il cam-mino. Di spirito molto simile al precedente è un epi-sodio contenuto degli Atti (cfr. 8,26-40): l’eunu-co etiope, dopo aver fatto l’adorazione, stava tornando alla sua terra, mentre è sul carro leg-ge i canti del servo del Signore contenuti nel rotolo di Isaia. Gli si avvicina Filippo e gli chie-de: «Cosa stai leggendo?». L’eunuco risponde: «Leggo i canti del servo che soffrì molto. Il profeta parla di sé o di altri?» e Filippo gli dice: «Parla di altro», allora gli annuncia Cristo e lo battezza; poi lo Spirito lo porta via; Filippo, anche lui, scompare. L’apertura e la compren-sione non coincidono mai con il possesso di una presenza. Vi è sempre e solo una traccia di una presenza che invita a sperare ancora. E, come dice Paolo (Rm 8,24), non si spera in ciò che già si vede. Ciò in cui si spera non si vede, non perché non ce ne sia traccia o caparra, ma appunto perché la Scrittura stessa è caparra, non regno; è Parola che, una volta compresa, rimanda ad altro. «Luce ai miei passi» (Sal 119,105), eppure verso la fine di questo lungo salmo si legge anche: «Giunga il mio grido davanti a te, Signore, / fammi comprendere secondo la tua paro-la» (Sal 119,169). I Salmi sono sempre realistici: «Luce ai miei passi», tuttavia non è negata la dimensione dell’incomprensione e del grido. La lontananza rimane, solo che essa non è più indice di abbandono o di separazione, è la lon-tananza di chi ha già compreso e quindi può

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camminare verso una comprensione sempre maggiore che - egli lo sa - ancora gli manca. Molte volte nella Scrittura si trova l’immagine di aprire: aprire il cuore, la mente, la compren-sione, la Parola. Aprire la Parola è anche un’e-spressione con cui si indicavano antiche tecni-che di esegesi. La Parola aperta è quella com-presa, è la Parola che è presenza ma è anche qualcosa che va oltre. L’umiltà della Parola Gregorio afferma: «Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio», ma noi po-tremmo anche dire che il cuore di Dio è un cuore umile. Gesù disse di se stesso: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). In che senso, allora, il cuore di Dio si fa umile nella sua Parola? Innanzitutto la Parola è talmente umile che, per parlare, ha bisogno di essere aperta e interpretata. Non è una parola prepotente, che si pensa autoevidente, univo-camente interpretabile, monoliticamente impe-rativa; la Parola, invece, è umile in quanto va aperta. Ci sono, però, tanti altri modi in cui la Parola di Dio, così come si presenta all’interno della Scrittura, si presenta in qualche modo come umile. Tra i tanti esempi possibili, offro due spunti di riflessione: • La Parola sapienziale • La Parola dialogica. La Parola sapienziale Quando si proclama la Parola in un contesto liturgico si dice “Parola di Dio”; ma nel testo letterario della Bibbia non è sempre Dio a par-lare. Ci sono dei passi biblici in cui, secondo la loro veste letteraria, Dio prende direttamente la parola. Per esempio all’inizio dei dieci co-mandamenti si legge: «Io sono il Signore Dio tuo …» (Es 20,2). In questi casi, inteso come personaggio, è un Dio parlante. Oppure Dio parla perché il profeta dice che quella da lui pronunciata è “Parola di Dio”. Ci sono anche forme più mediate. Pensiamo a Dt 5 (i dieci comandamenti) che è più sfumato rispetto al passo parallelo di Es 20. Quest’ultimo presenta una scena ambientata tre mesi dopo l’uscita dall’Egitto, è descritta, per così dire, in presa diretta, mentre il Deuteronomio è ambientato alla fine della vita di Mosè, dopo i quarant’an-ni, quando Mosè vede ma non entra nella terra

promessa. Alla fine di tutto il percorso si rac-conta di nuovo anche l’episodio dei dieci co-mandamenti e si ripete: «Io sono il Signore tuo Dio»; ma in questo, sempre secondo la forma letteraria, la parola è pronunciata come un ricordo di Mosè riferito a tempi ormai lontani. L’umiltà della Parola di Dio è anche quella di diventare sempre più nascosta dentro la parola umana. Questa caratteristica nei libri sapien-ziali ha un’importanza decisiva: Dio non parla mai, è sempre l’uomo che parla. Prendiamo il Salmo 119. Vi si legge: «Ho giurato». Nella Scrittura “giurare” è una tipica espressione divina, il primo a giurare nella Bibbia è il Si-gnore stesso, oppure qualcuno il quale afferma che il Signore ha giurato e non si pente (cfr. Sal 110,4). Nel Salmo 119,106 è invece un io umano a dichiarare: «Ho giurato e lo confermo di cu-stodire i tuoi giusti giudizi». Quando, però, noi proclamiamo o meditiamo questo versetto non diciamo che è “parola di uomo che cerca Dio”, “parola di uomo che promette al suo Dio”, al contrario dichiariamo che è Parola di Dio, cioè la Parola di Dio nascosta nella parola dell’uomo. Altro esempio, nel Qoelet per decine di volte torna la parola “io”. Si tratta di un io umano, che ragiona laicamente, però noi diciamo che è Parola di Dio. Pensiamo anche alle Lettere di Paolo: sono proprio lettere, molte volte legate a circostanze, niente affatto nobili, proprie della vita delle sue comunità. In alcuni passi Paolo dà dei consigli, per es.: «È bene che voi non vi sposiate» (cfr. 1Cor 7,8); ma non lo dice, come avviene per altri ammonimenti, con l’autorità della parola di Gesù. Tuttavia, nel contesto canonico, anche questo consiglio personale, che pur rimane tale, è considerato Parola di Dio. A motivo della sua umiltà, la Parola di Dio è scesa nelle strutture della comprensione e della quotidianità umane. Non di rado com-promettendosi persino con gli aspetti meno nobili della quotidianità umana. La parola sapienziale è la Parola di Dio in cui Dio si presenta né come colui che parla diretta-mente, né come colui che parla attraverso una voce profetica che autorevolmente dice “è Pa-rola di Dio”. Per certi aspetti questa incarnazio-ne sapienziale della Parola è una peculiarità biblica. Si potrebbe anche usare un termine un

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po’ più impegnativo: è kenosi (svuotamento) della Parola. La Parola dialogica Anche questa componente è tipicamente bibli-ca. In molti luoghi il dialogo con Dio da parte di una creatura umana rivestita di tutti i suoi limiti diviene una forma di rivelazione. Non in tutti i testi sacri è così. Nella struttura di rivela-zione del Corano, per esempio, non c’è la dia-logicità. Il dialogo è una parola umile. Quanto è infini-tamente distante viene ad essere riaffermabile in un dialogo in cui l’uomo può essere un in-terlocutore così impegnativo per Dio da impor-gli le proprie esigenze, a volte da dettargli per-sino delle condizioni. Il più grande dialogo – anche in senso quanti-tativo – della Bibbia è quello che si trova nei capitoli 3-4 dell’Esodo. Si tratta del dia-logo tra Mosè e il suo Signore avvenuto al roveto ardente. Tutta la strut-tura è estrema-mente signifi-cativa perché se è vero che lì c’è una chia-mata e una vocazione, è a l t r e t t a n t o vero che c’è un p a s s a g g i o , finemente de-scritto, dal vedere all’a-scoltare. Inol-tre, nel com-plesso di tutto il dialogo, Mo-sè pone delle condizioni a Dio: inviato al faraone, Mosè dice di non essere un buon parlatore e

allora «Aronne sarà la tua bocca». Mosè ottiene che Aronne sia il suo portavoce. La struttura del dialogo è anche quella in base alla quale Dio concede qualcosa al suo interlocutore. An-che dopo il vitello d’oro Mosè contende con Dio. Il Signore vuole distruggere il popolo, allora Mosè chiede che distrugga lui al posto del popolo e Dio ritorna sulla sua decisione (Es 32,11-14). L’umiltà della Parola dialogica sta nel mettere l’uomo nelle condizioni di essere a tal punto interlocutore serio del Signore da far cambiare, se così si potesse dire, parere a Dio stesso. La Scrittura sceglie anche questo tipo d’espres-sione, di parola umile in quanto dialogica. Nes-suno che entri in un dialogo serio dovrebbe avere il preconcetto di imporre definitivamente e aprioristicamente il proprio parere all’interlo-

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cutore senza prima averlo ascoltato, altrimenti non è dialogo. Lo spirito del dialogo non è quello della persuasione, è quello dell’ascolto reciproco: la parola dialogica nella Bibbia è anche questo. Quando c’è la descrizione del roveto ardente, in principio Mosè dice: «Voglio avvicinarmi per vedere», l’avvicinamento, cioè, è mosso da una curiosità visiva. La Parola dell’ascolto interrompe questo moto perché dal roveto il Signore gli comanda: «Non ti avvici-nare» (Es 3,4). Si tratta di un’immagine impor-tante. Essa è applicabile a un nostro atteggia-mento: ci può essere una predisposizione, una curiosità di avvicinarsi alla Parola, non è male che esista. Però se ci si ferma a questo punto, al vedere, al gustare esteticamente la Parola, è ancora un approssimarsi non un ascoltare. La Parola ascoltata è quella che comanda: «Non avvicinarti». Essa interrompe questa pura ope-razione di comprensione umana. Queste sono le due parti che vanno tenute insieme: senza l’interpretazione, la comprensione umana, la Parola è sterile, ma è chiaro che l’interpretazio-ne, l’esecuzione, il commento possono essere veramente tali se riconoscono il primato della Parola, l’eccedenza della Parola su di loro. Io mi avvicino alla Parola come Mosè si avvici-nò al roveto, per vedere questo strano mistero, questo Libro che da duemila anni transita per

la nostra civiltà occidentale. Mi avvicino: non è un atto negativo, è un moto di attrazione ma non è ancora l’ascolto. L’ascolto della Parola avviene quando c’è un comando che interrom-pe questo processo: «Non ti avvicinare». Oc-corre far passare dalla curiosità del vedere alla dimensione dell’ascoltare, del comando. Poi c’è l’inizio del dialogo in cui il Signore rivela il suo nome. Il nome che svela è «Io sono colui che sono» (Es 3,14). In realtà questa è una traduzio-ne discutibile, perché usa il presente quando in ebraico un presente vero e proprio non c’è. Nulla vieta di tradurre «Sarò quel che sarò». Vale a dire “Sarò con te”, si tratta di una pro-messa. La rivelazione del Nome è paragonabile alla comprensione di chi apre gli occhi e vede il Risorto che poi subito scompare; o alla figura di chi fa aprire mente e cuore alla comprensio-ne della Scrittura per poi sottrarsi allo sguardo. Da lì in poi si può camminare. “Sarò con te” è una promessa, «Puoi camminare, questo è il mio Nome per sempre» (Es 3,15). A tal riguar-do nell’ermeneutica giudaica è proposto un gioco di parole in cui si dice «Non leggere OLÀM – che vuol dire “per sempre” – ma leg-gere ALLÉM cioè “nascosto”». La comprensione è l’ascolto, non è mai un pos-sesso, è un cammino: «Luce ai miei passi e luce sul mio cammino».

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Come molti altri testi del mondo antico, così anche la Bibbia ci tramanda avvin-centi e inquietanti racconti di miti. Le sue narrazioni più note è indubbio che siano quelle che riguardano la creazione del cosmo, della terra e dell’umanità. Molti conoscono la poesia del giorno in cui «Dio disse sia la luce! E la luce fu» (Gen 1,3). E chi non troverebbe, frugando nella sua memoria, l’immagine di un Paradiso ter-restre, colmo di alberi e frutti, uno dei quali era stato severamente vietato alla manducazione? E pochi non ricordano la storia della creazione della donna, tratta dalla costola di Adamo. Beh, è proprio in questi miti mutuati, peraltro, dal circuito orale e scritto che doveva esserci tra tradizioni e cul-ture del Mediterraneo, che si impone, innanzi-tutto, l’uso umano della parola. Nel primo racconto di creazione che il Libro di Genesi presenta, Dio crea ogni cosa con la pa-rola (cfr. Gen1,1-2,4a). Egli stesso appare come essenzialmente “parola”. In seguito, nel secon-do racconto di creazione, Dio conferisce questa prerogativa all’uomo (cfr. Gen 2,4b-25). A dif-ferenza di tutte le altre creature, l’uomo cono-sce e può dare i nomi a tutti gli esseri viventi. L’essere umano è tale proprio perché parla e, in quanto tale, egli è immagine del Dio, suo creatore. In maniera speciale egli rivela, poi, questo suo statuto quando comunica con la sua compagna che è la donna, vedendo la quale, può gridare: «È osso delle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2,23). La parola si mostra un autentico canale di comunicazione, di relazione tra uomo e donna, tra gli esseri umani e gli altri abitanti del mondo, tra la creatura umana e Dio. Se non ci fosse parola, non ci sarebbe nep-pure ordine del creato, mancando assoluta-mente il modo di articolarne il rapporto e l’ar-

monia. Gli esseri umani sono fin dalle origini mitiche bibliche una sorta di “parola incarna-ta”. E il verbo si fece carne (Gv 1,14) Ma come un “nuovo Adamo” è Gesù che viene ad essere una piena e riuscita “parola incarna-ta”. Nella creatura sessuata di Genesi quello strumento di relazione e di comunione era stato, infatti, reciso da una scelta di potere e di autonomia. Questa scelta segnò proprio la fine del dialogo tra la creatura umana e Dio, tanto che Dio stesso si dovette mettere, dopo l’acca-duto, alla ricerca di Adamo, il quale, còlto dalla paura, si era nascosto. Il filo dialogico tra Crea-tore e creatura si era infranto. Con ciò anche il paradiso era perduto! L’uomo e la donna resta-vano soli e divisi anche tra loro, essendosi, in una certa misura, interrotta anche la parola che li univa. La donna sarà dominata dall’uomo, benché il suo stesso istinto la guidi verso di lui. La difficoltà di parlarsi porta a mille altre du-rezze ed impotenze: quella della solitudine, quella del potere dell’uno sull’altro, dell’inimi-cizia, del dolore, della violenza e della morte. Una realtà che viene interpretata come distan-

Una Parola da incarnare

* Docente di Antico Testamento presso l’Istituto Teologico Marchigiano

di Rosanna Virgili *

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za da quel Dio che aveva operato in quel prin-cipio. Quando scompare la parola la vita si perde, perché si perdono le giunture del mondo, ciò che, tenendolo unito, ne promuove la sussi-stenza e la vita. Ed ecco il grande evento del Figlio di Dio. Egli era fin dal principio “presso Dio”, dice il Prologo del vangelo di Giovanni. Egli viene a ristabilire la parola perduta, facen-dosi egli stesso parola. Autentico sacramento di comunione e riconciliazione. Questo incar-nare la parola di Gesù, realizza e ripropone la primitiva identità della creatura di Dio: quella di essere un soggetto spirituale, cioè, un luogo di relazione e di apertura verso l’altro, un ter-reno e una tensione di amo-re. Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità (Ger 15,16)

Tra i miti del “principio”, teatro della parola perduta di Adamo, e il vangelo del Figlio di Dio, che riporta e rilancia un’umanità archeti-picamente parlante («In principio era la parola», Gv 1,1), c’è un lungo percorso biblico sulle vie della parola che vuole ancora incarnarsi. Dopo il fallimento di Genesi, la Bibbia cerca di reinvestire la ricchezza della parola, attraverso la Legge di Mosè. Essa è fatta di parole che vengono da Dio e servono a costituire e custo-dire la vita comune di Israele. Il popolo esce dalla schiavitù e nasce come un vero popolo fondandosi su dieci parole. Tra esse “non ucci-dere”, “non rubare”, “non testimoniare il fal-so”. Sono parole che fondano il diritto e la giu-stizia e rendono possibile il formarsi di una nazione. L’ebreo misurerà la sua fedeltà a Dio, nella fedeltà a quelle dieci parole. Dovrà ascoltarle giorno e notte, dovrà metterle sul suo capo e sul suo braccio, dovrà ripeterle quando esce e quando entra, dovrà insegnarle ai propri figli. Dovrà incarnarle. Dovrà, addirittura, tradurle dalla pietra al corpo, dalla durezza insensibile

delle tavole, alla carne pulsante del cuore (cfr. Ez 36,26). E lo farà perché da quelle dipende il suo presente e il suo futuro. Da esse il benesse-re e la salute e la fruizione solidale e fraterna di un paese e di una discendenza. Sono parole dolcissime e cariche di promessa, ma anche coinvolgenti, rischiose, impegnative, infuocate. Sono parole che espongono a contra-sti, conflitti, rivolte, perché non tutti vogliono accettarle e resta, tra i figli di Adamo, il DNA del primo genitore. Faccio il male che pure non voglio, dirà Paolo. Così Israele non ascolta le parole vitali che vengono dal suo Dio e sceglie spesso e volentieri di spezzare ogni alleanza con Lui. Ma tra il popolo c’è qualcuno che non

può fare ciò. Un uomo che la parola di Dio ha circonciso così in profondità, scenden-do ed annidandosi nella sua anima, che gli resta impossi-bile resistervi o scacciarla. La tua parola era come un fuoco «chiuso nelle mie os-sa.» - dice il profeta Geremia - «Ho cercato di resistervi, ma non ci sono riusci-to» (Ger 20,9). Il profeta, il cui statuto è proprio quello di farsi portavoce di Dio, bocca alle Sue parole, pure reagisce con forza alla loro invasività. Pure fa fatica a sentirle tanto radicalmente “incarnate”. Perché quella parola chiede la forza della

profezia. Dovrà smuovere il mondo. Dovrà uscire come una spada contro chi vuole concul-care la giustizia e il diritto. Contro chi vuole dividere gli abitanti della terra e lasciare i più deboli espulsi dal banchetto della gioia. Quella parola è caustica e pungente, perché dovrà fecondare la terra di nuovi germogli, di buone notizie, di rinascenti speranze. Più fe-conda della pioggia e della neve, più essenziale dell’acqua e del pane. Una parola fatta carne che si farà carne, nutrimento, transazione d’a-more, cibo di vita eterna. Quella “parte miglio-re” che Maria, sorella di Marta, non indugiò a scegliere ed a sedersi ad ascoltare (cfr. Lc 10,42).

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Uno sguardo diagnostico

Il Concilio Vati-cano II aveva visto giusto anche su questo versante: la teologia in ge-nerale e la teo-logia morale in particolare do-vevano essere rinnovate alla luce di un rap-porto più vita-le, creativo e sostanziale con le Sacre Scritture. Il decreto conciliare Optatam Totius, al nr. 16 auspicava un riesame della teologia morale sotto il profilo scientifico e secondo il necessario rapporto con la Bibbia. Il desiderio del Concilio andava e va interpre-tato sulla base di una maturata consapevolezza del fatto che proprio la teologia morale, nella sua tradizionale evoluzione da dopo il Concilio di Trento, nel XVI secolo e fino agli albori del XX, aveva perduto il suo ancoraggio alla visio-ne biblica e si era maggiormente accontentata di un rapporto privilegiato con il diritto – più precisamente con il diritto canonico. La visione etica per il credente perdeva, così, la sua cifra genuinamente teologica e si limitava a una considerazione legalistica dei doveri morali da assolvere. Anche la dimensione razionale e argomentativa della morale, espressa nella comprensione etica della modernità, non riu-sciva a vitalizzare il discorso morale, riscattan-dolo dalle forme di impropria eteronomia. Lo sguardo diagnostico, qui solo abbozzato, ci porta a vedere che la teologia morale, pur non

ignorando un certo uso della Bibbia, aveva tuttavia ridotto strumentalmen-te questa al rango di una somma di cita-zioni testuali con cui avallare i propri modi di formulare i giudizi morali. Il risultato di una immensa povertà di con-

tenuto teologico era così sotto gli occhi di tutti. E un’inversione di marcia risultava sempre più necessaria. Il Concilio Vaticano II segna in un certo senso un punto di arrivo, sulla via di tale recupero; esso viene però preparato da tentativi prece-denti, sull’asse cronologico di lunga portata. Un primo valido apporto in tal senso viene alla teologia morale da quella ondata di rinnova-mento della teologia cattolica che nel XIX sec. prende forma nella scuola di Tubinga, in Ger-mania. Rappresentanti di un simile movimento furono importanti teologi della morale come Johann Michael Sailer (1751-1832), Johann Bap-tist Hirscher (1788-1865) e Franz Xaver Linsen-mann (1835-1898). E un po’ più tardi ci sarà anche Fritz Tillmann (1874-1953). Comune a questi autori fu lo sforzo di trovare un princi-pio unificante e sostanziante la visione morale del credente. Qui emersero categorie bibliche di prima portata a dar corpo a un simile princi-pio: l’idea del regno di Dio, il primato della carità/agape, la sequela di Cristo. E proprio qui la Bibbia si immette in un rapporto a nuova

Bibbia e morale Un difficile ma necessario rapporto

* Direttore del Seminar für Moraltheologie – Münster

di Antonio Autiero *

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e più profonda modalità con la teologia mora-le, nel senso che essa la ispira, la fonda, le con-ferisce originalità e incisività per la struttura-zione della vita morale del credente. L’apice di un movimento di tal segno si avrà poi nella metà e alla fine del XX secolo, con le opere si-gnificative del teologo della morale Benhard Häring (1912-1998), il cui primo manuale, La legge di Cristo (1954), segna un vero e proprio spartiacque e prepara, unitamente agli apporti provenienti dal movimento biblico, da quello liturgico e dalla Nouvelle Théologie della fine anni ’50, il Concilio Vaticano II. Orizzonti di senso Impoverire la Bibbia, ritenendola una sorta di banca dati per le norme morali dei credenti significa farle un torto grave, ma comporta anche una perdita di credibilità e di condivisi-bilità del messaggio morale dei credenti. Da una parte si pone il problema della necessaria contestualizzazione storica delle norme morali contenute nei testi della Scrittura (e l’esegesi biblica stessa fornisce tutti gli strumenti adatti a non cadere in considerazioni riduttive), dall’altra si tratta di attingere dalla Bibbia tutta la luce possibile per illuminare l’orizzonte di

senso dell’uomo, del mondo, della loro storia e del loro rapporto con Dio che fonda e tutela la libertà della persona e ne fa un soggetto mora-le. L’appello alla fonte biblica del Decalogo è un crocevia di primaria importanza per illuminare quest’orizzonte di senso, ovviamente a condi-zione che l’idea di “precetto” o di “divieto” con cui spesso si va a identificare la tavola della legge del Primo Testamento venga ripensata alla luce del fatto che proprio le dieci parole sulla condotta di vita dell’uomo vogliono anzi-tutto tutelare la sua libertà e il raggiungimento dei beni fondamentali che danno valore all’esi-stenza. Il Dio della rivelazione non è il legisla-tore, meno che mai uno alla stregua dei legisla-tori della terra: il suo parlare – le dieci parole sono un momento privilegiato dell’intero rive-larsi di Dio all’uomo – è anzitutto un parlare all’uomo del suo destino e dell’irrinunciabile grandezza a cui egli lo chiama. Una condotta morale ispirata dalla Bibbia (il discorso di Gesú nel Vangelo conferma ed implementa questa prospettiva) recupera primariamente la voca-zione alla libertà con cui Dio accompagna la storia della persona e le vicende dell’umanità.

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Le regole di condotta di vita – le norme morali – sono anco-rate in questa vocazione di libertà che affida alla saggez-za umana, alla ragione e alle sue esigenze la ricerca conte-stuale e coerente delle rispo-ste possibili alle singole que-stioni morali. Nel tracciare l’orizzonte di senso, la Bibbia fornisce alla morale la sua più recondita e formidabile fon-dazione; la sottrae all’improv-visazione utilitaristica e la iscrive in un disegno che tra-scende la contingenza, ma la mantiene tutt’intera nel suo regime di storicità. Tutt’altro che banale, tutt’altro che se-condario si fa il rapporto tra Bibbia e morale, soprattutto se esso viene posto sul piano del fondamento. In una chiara opzione di fiducia antropolo-gica, la Bibbia riconosce, af-ferma ed alimenta la capacità dell’uomo di servirsi della ragione e della responsabilità, per avanzare nel processo argomentativo, in vista delle norme morali per la costru-zione di una vita buona. Lontani da ogni fondamenta-lismo Nel settembre del 2008 fu pubblicato il documento della Pontificia Commissione Bibli-ca dal titolo: Bibbia e Morale. Radici bibliche dell’agire cristiano. Esso prendeva le sue mosse dal precedente Sinodo sulla Parola di Dio nella vita della chiesa. Focalizzando il nesso tra Bib-bia e morale, il documento non ignora il peri-colo di un uso improprio della Bibbia nelle questioni etiche, un uso che viene definito fon-damentalistico e contro il quale si viene messi in guardia. In realtà è proprio questa tentazione fonda-mentalistica che si annida in tante pieghe della discussione morale da parte dei credenti, so-prattutto nello spazio pubblico, dove la plurali-

tà delle visioni antropologiche non può essere ignorata o frettolosamente risolta. Non va ne-gata, da una parte, l’importanza dell’annuncio cristiano nella sfera pubblica (la fede non è affare privato!), ma neppure si può affrontare la comprensione e la soluzione dei problemi morali con il solo rimando a qualche testo della Bibbia. Avendo bisogno di necessaria media-zione discorsiva, razionale, argomentativa, il discorso etico prende sul serio il messaggio biblico, se lo fa valere al livello di ispirazione fiduciale della ragione e di promozione solida-le del bene umano.

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Nel testo si seguono, salvo indicazioni diverse, la traduzione e la numerazione del Salterio di Bose, edizioni Qiqaion, 2008. 1. Non c’è bisogno di compiere una ricerca testuale: se ciascuno di noi venisse interrogato su quale sia la figura emblematica della giusti-zia nella Bibbia, o, meglio ancora, nei Salmi, senza esitazione risponderebbe: l’orfano e la vedova (cfr. Sal 68,6; Gb 31,16 e Mc 12,40). I più sensibili aggiungerebbero: lo straniero. I lettori più esperti: l’oppresso. Avremmo tutti ragione: il Salmo 9 promette giustizia all’orfano e all’oppresso. Nel Salmo 82 si esorta: «Difendete il debole e l’orfano; Fate giustizia al povero e al bisogno-

so». Nel Salmo 94 i malvagi «uccidono la vedova e lo straniero, / agli orfani procurano la morte». Con la preghiera 103 il salmista ci rassicura: il Signore agisce con giustizia, difende il diritto degli oppressi. Sono, come sappiamo, gli echi biblici di una storia millenaria, che narra la vicenda umana secondo l’esperienza della vita, conquistata tra le fatiche ed elevata ogni giorno dal pensiero orante. L’uomo che prega non può distogliersi da un ideale di giustizia, che viene da Dio e che deve essere praticato quotidianamente, attuato sulla terra.

La giustizia nei Salmi

* Magistrato di Cassazione

di Pasquale D’Ascola *

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Ecco che la preghiera mira a vedere il mal-vagio preso nel pro-prio tranello1 e gli uomini giusti contem-plare il volto del Si-gnore2, liberati da ogni male3. Ma come si consegue questo obiettivo? Me-diante l’opera del Si-gnore, che si atteggia umanamente: porge l’orecchio4, cioè ascolta, che è la prima forma di relazione con l’altro. Il Signore ama giusti-zia e diritto5; non ab-bandona il giusto nelle mani del malvagio, «non permette la sua condanna nel giudizio»6. Dio affida il suo giudizio al re Messia, la sua giustizia al figlio di re, perché egli giudichi il popolo secondo giustizia7 e i poveri secondo il diritto8. Il credente si attende che il Signore difenda i poveri del suo popolo9; che non stringa allean-za con un tribunale iniquo, che in nome della legge provoca oppressioni10. Esalta l’Onnipotente con la preghiera, perché «i cieli proclamano la sua giustizia/ ecco, Dio stesso è il giudice» 11. 2. Italo Mancini, il prete filosofo al quale la famiglia Moro affidò la celebrazione e l’omelia della messa da requiem nel settimo giorno della morte dello statista, ci ha spiegato che tra le idee basilari di San Tommaso in tema di giusti-zia vi sono: a) «L’opera di aggiustamento che compie il diritto, come quando si aggiusta qualcosa»; b) «la consistenza specifica della giustizia co-me riferimento all’altro, alla sua cosa e alla sua persona». Ha aggiunto che è stato Giuseppe Capograssi a valorizzare questa preoccupazione giuridica per l’altro, ma che nel neologismo tomistico iustari c’è il senso di prestare soccorso, di pren-dersi cura, di soccorrere una persona sofferen-te. Il diritto non sfugge, in quanto giusto, a

questo “impegno”, a questa “missione” che possiamo definire riparatoria. 3. Non è questa l’unica cifra da seguire oggi, nel rileggere i Salmi, per capire le questioni del diritto e della giustizia al nostro tempo, ma rimane un approccio molto utile. L’ordinamento italiano reca una forte impronta solidaristica, che affonda le sue radici nel pen-siero cattolico. Esso si specchia nell’articolo 2 della Costituzione del nostro Paese, in quel richiamo non tanto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, quanto all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo elemento, che trae forza dall’inderoga-bilità, tiene insieme l’istanza liberale di garan-zia dei diritti e quella socialdemocratica, di impronta egualitaria, predicata dall’art. 3. Nel tempo esso è divenuto struttura portante dell’ordinamento in ogni settore, in particolare nel diritto civile, che disciplina la vita delle persone nel quotidiano dipanarsi dei rapporti tra soggetti privati. Pensiamo: Al “peso” solidaristico dell’assunzione obbli-gatoria (L. 468/68), che a certe condizioni gra-va sull’imprenditore ed è previsto in favore dell'invalido non ancora inserito nel mondo del lavoro.

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Al ruolo della buona fede nell’esecuzione del contratto che, secondo la giurisprudenza, si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna delle parti di agire «in modo da preservare gli interessi dell’altra». Al risarcimento del danno non patrimoniale (c.d. “danno morale”) derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, che è stato ricono-sciuto al di là degli angusti limiti apparente-mente fissati dalle norme positive. E in tema di adozione, l’art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184 mira a rendere effettivo il diritto del minore di crescere e di essere educa-to nell’ambito della propria famiglia naturale attraverso la predisposizione di interventi soli-daristici di sostegno in caso di difficoltà della famiglia di origine. Pensiamo inoltre allo svilupparsi della teoria relativa alla tutela del contraente debole, alla tutela del consumatore, al riconoscimento di obblighi di protezione in capo al contraente forte, che si trova in posizione contrattuale favorevole perché più informato rispetto al cittadino comune. Cogliamo in questi esempi il respiro profondo dell’insegnamento biblico: c’è l’azione dell’au-torità che interviene per dare soccorso e ripor-tare giustizia dove si è creato squilibrio («un Dio che fa giustizia sulla terra!»12). Ma vi è anche la regola di condotta che si con-forma – nel disciplinare il rapporto tra soggetti privati – nel senso di impedire la prevalenza del più forte e preservare la parità contrattuale. Come non vedere qui l’eco remota dell’esorta-zione a non temere «la malizia dei perversi»13; la resistenza contro coloro che sono «traviati / uniti nella corruzione»14; la riprovazione verso chi «agisce con inganno»15? 4. Rileggendo l’attuale nostra Costituzione possiamo ritrovare altri spunti per riguardare i temi della giustizia presenti nei Salmi e rilegge-re con essi la realtà della giustizia amministrata in questi tempi. La Costituzione pone la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedi-mento (art. 24). Nei Salmi ricorre il tema dell’invocazione all’Onnipotente come difen-sore terreno dalle insidie dei malvagi16, ma è nel Salmo 72,12 che si percepisce la modernità

di quella traduzione che vuole Dio liberatore di chi – il povero – non ha difensore. Dunque la difesa è momento fondamentale dell’esperienza umana e l’assenza di difesa provoca quell’oppressione che impone l’inter-vento salvifico. Comprendiamo quindi l’essenza di quel giudi-zio dei poveri secondo diritto, che abbiamo men-zionato in principio e che ricorre più volte nella preghiera del salmista. Il giudizio è frutto di un confronto tra chi accu-sa e chi si difende: la massima iniquità risiede nel tentativo di adulterarlo spandendo corru-zione come fanno i peccatori17, o accettando doni contro l’innocente18. Vien da pensare, su quest’ultimo verso, alla distinzione codicistica del reato di corruzione in atti giudiziari, resa più grave rispetto alla corruzione ordinaria, proprio perché, con l’an-tica sapienza, si percepisce come la sede di decisione debba essere insospettabile. Ma vien da pensare anche al giudice “terzo e imparziale” definito dall’art. 111, che suona come immagine di quel Dio che nel Salmo 75 (CEI) promette «io giudicherò con rettitudine». Suprema sfida quindi per coloro che sono chia-mati a questo compito: applicare il diritto, me-mori che una delle costanti del volto di Dio nel Salterio è quella del giudice giusto19.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 Salmo 8 2 Salmo 11 3 Salmo 37 4 Salmo 9 5 Salmo 33 6 Salmo 37 7 Salmo 98 8 Salmo 72 versione Cei 9 Salmo 72, 4 10 Salmo 94 CEI 11 Salmo 50 12 Salmo 58 13 Salmo 49 14 Salmo 53 15 Salmo 101 16 Salmo 141 17 Salmo 26, 10 18 Salmo15,5 19 Salmo 7,12

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Parlare del rapporto tra ebrei e Bibbia è di fatto parlare di uno degli elementi costitutivi della identità ebraica; a patto che si facciano alcune riflessioni preliminari che, per molti versi, pos-sono apparire spiazzanti. Gli ebrei sono infatti spesso identificati come il “popolo del libro”. In realtà una definizione del genere è imprecisa rispetto alla formulazione interna all’ebraismo e alla sua realtà storico culturale: la prevalenza della scrittura sull’oralità è tutta da determina-re, anche in termini cronologici; esemplificativa da questo punto di vista è la parola ebraica che indica la Bibbia: Miqra’, lettura. Di fronte al greco, che con Bibbia intende il libro per eccel-lenza, l’ebraico privilegia l’azione della lettura che parte dal libro ma che per molti versi lo trascende. La dinamica tra scritto e orale, il rapporto che si instaura tra queste due compo-nenti, non è solo e semplicemente una questio-ne terminologica: è il nucleo teorico della rifles-sione dell’ebraismo rabbinico, cioè dell’ebrai-smo come si è venuto consolidando dalla di-

struzione del Santuario, nel 70 d.C., in avanti. Questo significa, in sostanza, che per intendere la vera identità e l’autodefinizione di ebraismo è necessario a prio-ri chiarire il sen-so dell’oralità di fronte alla scrit-tura in una pro-spettiva teorico-teologica. La questione non è quella di definire

quando avvenga il passaggio dall’oralità alla scrittura o la collocazione sociale di queste due modalità, ma quella di intendere il carattere fondante della dimensione orale nell’ebraismo, anche a partire ed all’interno della tradizione scritta. Nel contesto di questa problematica ha ruolo centrale la tradizione interpretativa e di commento, con i suoi criteri specifici: è attra-verso le regole ermeneutiche che la cultura rabbinica passa dal significato letterale del testo, il peshat, ai sensi ulteriori espressione della tradizione orale, il derash. Quest’ultimo, l’interpretazione-ricerca da cui nasce sia il mi-drash halakhah – finalizzato alla definizione di una norma - che il midrash ‘aggadah-etico, filo-sofico e concettuale – è dunque la pietra ango-lare della tradizione di lettura rabbinica del testo biblico. Leggere e studiare la Bibbia è dunque, in pro-spettiva ebraica, una ricerca continua di senso, molteplice per definizione, della parola di Dio così come si materializza nel testo. Il termine

Gli ebrei di fronte alla Bibbia

* Vice direttore del Corso di Laurea in Studi Ebraici del Collegio Rabbinico Italiano – Roma

di Rav Benedetto Carucci Viterbi *

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intorno a cui ruota la ri-flessione dottrinaria ebraica rela-tiva alla Bib-bia è Torah. L’ambito semantico è molteplice, ampio: in termini ri-stretti Torah è il Pentateu-co, i primi cinque libri della Bibbia che la tradi-zione attri-buisce a Mo-sè. In una dimensione più ampia il senso si ricollega ai molteplici significati della radice di questo sostantivo: da una parte l’insegnare, dall’altra quello di porre le fondamenta, di lanciare ver-so un bersaglio, di pioggia vivificante e, omo-fonicamente, di concepire una nuova vita. In questa ottica Torah non è solamente il Penta-teuco ma l’insieme della dottrina, sia scritta che orale, base di sviluppo, indicazione del com-portamento, insegnamento vitale e prospettiva di una nuova esistenza. È il progetto del mon-do, preesistente ad esso consultando il quale Dio ha creato la realtà. È l’oggetto specifico e fondamentale della rivelazione, data una volta per sempre e continuamente rinnovata nella collaborazione tra l’uomo e Dio. La Torah è concepita come un corpo unico, composto fon-damentalmente di due parti: la Torah scritta (Torah she bikhtav) e la Torah orale (Torah she be al peh). La prima non è comprensibile senza il ricorso alla seconda: solamente dalla loro inti-ma connessione può scaturirne il vero senso. La Torah scritta rappresenta una sorta di ap-punto, di sintetica epifania di quella orale, e necessita quindi dell’integrazione di quest’ulti-ma per poter rivelare i suoi contenuti. La Torah orale diventa in questo modo il vero fonda-mento di tutta la dottrina ebraica, l’elemento teorico-teologico distintivo e la condizione

stessa del patto con il popolo ebraico: è la con-tinuazione della rivelazione. Misconoscerne il ruolo centrale viene considerato dai Maestri alla stregua della negazione dell’origine divina della rivelazione. Senza l’intervento della To-rah orale non è pensabile poter mettere in pra-tica l’insegnamento della Torah scritta: è dun-que impossibile, secondo i Maestri di Israele, parlare di una precedenza cronologica della legge scritta rispetto e quella orale. Nella sua totalità di sapienza divina la Torah è concepita come un unico inscindibile, le cui parti sono presenti ad origine nella mente di Dio. È per questo, anche, che tra le Massime dei Maestri, un testo rabbinico del III secolo, si tro-va il seguente insegnamento di Ben Bag Bag : «Girala (la Torah) e rigirala perché tutto è in essa; contemplala, invecchia e consumati in essa». È per questo motivo che, nella stessa normativa rabbinica, il tempo che un uomo ha a disposizione dovrebbe essere essenzialmente dedicato allo studio di questa complessa tradi-zione “toraica” il cui senso non può mai esau-rirsi. Ed è forse anche per questo stesso motivo che nel Talmud - il grande “archivio” della visione del mondo ebraica - è detto che l’uomo, nel momento del giudizio divino, dovrà per prima cosa rendere conto del tempo dedicato (o non dedicato) allo studio.

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Accostarsi alla Bibbia vuol dire accettare di fare un cammino, con momenti diversi, dall’a-scolto all’attualizzazione. Vi operano fattori plurimi: tradizione, cultura, esperienza e la fondamentale mediazione del linguaggio. Fe-deltà e creatività, singolarità e comunione, ispi-razione dello Spirito e approfondimento dell’intelligenza. Il mondo della Bibbia è complesso, talvolta estraneo fino alla contrarietà, e complesso è il mondo quotidiano, fino alla contraddizione. Interpretare è capire, ma interpretare è un atto

a sua volta complesso che richiede la potenza di una soggettività attiva e aperta. A prima vista sembra che la Bibbia non parli ai giovani, perché il suo linguaggio è diverso da quello abituale, ancor più aggravato dal rumo-re dei media. Perché ciò riesca bisogna che Bibbia e giovani si incontrino su una piattafor-ma comune: l’essere creature umane in questo mondo con domande di senso, alla ricerca del-la felicità. Solo l’umanità unifica i due mondi. La Bibbia come umanità che ha incontrato Dio; il giovane come umanità che sulla strada della ricerca si incontra con l’uomo biblico che con-divide la sua esperienza. Questo comporta che la Bibbia appaia come storia di persone con i nostri stessi problemi di vita, con le tante domande, le difficoltà, le spe-ranze, e naturalmente comporta anche vedere come Dio, e la fede in Lui, partecipa alla loro ricerca e la risolve. Anche i giovani devono essere aiutati a scoprire in profondità queste loro domande di uomini, domande esistenziali, che pur hanno nascoste sotto un cumulo talvol-ta di superficialità e di omologazione al costu-me consumista. Soltanto su questa piattaforma sulle domande di senso l’incontro tra Bibbia e giovane si apre su orizzonti nuovi e attraenti. Facciamo qualche esempio: - la creazione, testificata nei primi capitoli della Bibbia, afferma che la realtà dell’uomo e del mondo non vengono dal male o dal caso, ma dall’azione benevola di Dio che vuole la vita e la gioia delle sue creature; - i grandi racconti di esodo e della passione-morte-resurrezione di Gesù (mistero pasquale), rivelano che un progetto di salvezza pervade la storia umana, storia di liberazione e di trasfi-gurazione dell’uomo e dell’universo intero; - il nostro vivere insieme, talora così difficile e carico di conflitti, è dalla Parola biblica visto

C’è un umanesimo da scoprire

* Carmelitano scalzo

di P. Luigi Gaetani OCD *

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come una vocazione ad un unico popolo in comunione, ad una immensa cordata verso il cielo; - il futuro assoluto non è la tomba né il caos, ma la qualità alta della vita, in comunione con il Cristo risorto in un mondo redento, pulito, ospitale per tutti; - amare il prossimo come se stessi è l’anima di ogni legge, dà alla vita un profondo sentimento di compassione e di umanità. È questo un grande messaggio di luce e di spe-ranza per nodi talora così difficili dell’esistenza anche giovanile. Tentiamo di soffermarci su due di questi incroci della vita, cercando di attraversarli con l’aiuto della Bibbia. Educare al desiderio L ’ u o m o può smarri-re, limitare, censurare, rinunciare al desiderio se deluso in m o d o drammati-co, ma è anche vero che deside-rare di non soffrire e di non deside-rare è già u n ’ e s p e -rienza di desiderio. Il desiderio è una componente umana fondamen-tale. Si desidera lungo la vita, perché il deside-rio è la proiezione nel futuro, è attesa della novità e chi non coltiva più desideri vive spen-to, si nega al futuro, ha paura di guardarlo in faccia. Il paradosso del nostro tempo sta nel fatto che mentre fomenta desideri, i più assurdi qualche volta, nello stesso tempo presenta tanti volti spenti, privi di un oltre, sazi di nulla. È urgente, quindi, educare al desiderio, ma è anche fondamentale educare il desiderio per-ché esso, muovendosi tra l’impulso che cerca soddisfazione e l’appetibilità dell’oggetto che genera attrazione, si manifesta come una realtà

fluida ed opaca. Opaco si rivela il soggetto che desidera, opaco è spesso lo stesso oggetto desi-derato, perché ambiguo è il cuore umano. Da qui la necessità che l’uomo si metta alla ricer-ca/conoscenza di sé, dell’altro e di Dio. La creazione dell’uomo e della donna si svilup-pano, nel racconto biblico (Gen 2), in un conte-sto di ricerca: «Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Il termine per dire simile è kenegdô, letteralmente “come il suo di fronte” (Gen 2,18). Si noti che l’oggetto della ricerca, del desiderio non è Dio: Dio l’uomo già ce l’aveva. Ma Dio non è un “aiuto simile”, c’è asimmetria tra Dio e uomo, come asimmetrico si rivela il tentativo di col-mare il desiderio dell’uomo cercando comunio-

ne con gli a n i m a l i (Gen 2,20). Dopo que-sti tentativi la ricerca dell’uomo giunge a compimen-to: «Questa sì, carne della mia carne, osso delle mie ossa!» (Gen 2,23). La donna è veramente

“l’aiuto simile”, specchio in cui l’uomo ricono-sce se stesso, colei che gli dice chi in realtà egli è, il partner che risponde alla sua parola, ai suoi sentimenti. Dio non è geloso del cuore dell’uomo, del suo desiderio più profondo. Egli stesso “conduce” all’uomo la donna (Gen 2,22), come il padre conduce la sposa al suo sposo nel giorno delle nozze. In questo senso bisognerebbe leggere il secondo capitolo della Genesi in relazione al Cantico dei Cantici. Non passare oltre (Lc 10,25-37) Un dottore della legge chiede a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Il dottore della Leg-ge vuole una risposta chiara. Vuole sapere chiaramente quali sono i suoi doveri verso il

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prossimo, ma ha necessità di identificarlo. So-prattutto, poi, vuol capire da che parte sta l’uo-mo di Nazaret che non pone alcuna barriera, che accoglie tutti, che non fa distinzioni. È un problema vivo anche per noi. Chi è il no-stro prossimo oggi? La nostra famiglia? Le persone che frequentiamo? Che obblighi abbia-mo verso gli altri? Quali obblighi nei confronti degli immigrati che sforano continuamente quei limiti convenzionali che chiamiamo “le nostre frontiere”? Gesù non dà una risposta immediata. Intra-prende un cammino raccontando una storia, forse vera, oppure simbolica: «Un uomo scen-deva da Gerusalemme a Gerico…» (Lc 10,30). La parabola racconta la trasformazione dell’i-dentità umana, narra la stessa trasformazione di Dio, ci coinvolge in un’altra esegesi, in nuo-vi sensi, in più arditi significati. Luca, piuttosto che farci entrare nel tempio e nella città, ci conduce fuori, ci porta via dal tempio e dalla città. Chi scende siamo noi che abbiamo una certa conoscenza del sacro, ai quali Dio non è estraneo. Quando il sacerdote vede il corpo di quell’uo-

mo ferito, passa oltre. Perché? Semplicemente per il fatto che quell’uomo “mezzo morto” rappresenta un attentato alla sua fede, alle sue credenze, alla sua cultura. Che cosa ci vuol comunicare, allora, l’evangeli-sta Luca? Essenzialmente che quello che sta accadendo lungo la via è la vera rivoluzione del cristianesimo: il sacerdote non vede un uomo che ha bisogno di aiuto, ma una seria minaccia alla sua santità. Il samaritano, invece, diviene nella narrazione lucana il personaggio tipologico del nuovo culto. I suoi gesti di com-passione rivelano il nuovo luogo del tempio dove si rivela la santità di Dio. E il samaritano trasporta l’uomo in una locanda. L’evangelista usa una parola suggestiva per indicare questo “luogo teologico”, che significa “accogliente verso tutti”. Questa è la comunità credente, un luogo accogliente. Questa è la Chiesa di Luca. Naturalmente questo duplice messaggio -educare il desiderio ed educarsi a vivere l’alte-rità- dovrebbe essere autenticato, reso credibile da parte di adulti che lo manifestano tale ai giovani. Altrimenti restano solo belle parole.

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Bibbia e bene comune

* Teologo - Pastore emerito valdese

La Bibbia è stata scritta proprio per questo: costruire il bene umano, individuale e colletti-vo, il bene di ogni singola persona e dell’intera comunità. La Bibbia è il libro della rivelazione di Dio, che vuole il bene dell’uomo, com’egli stesso dice: «Io so i pensieri che medito per voi: pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» (Ger 29,11). E ancora: «Io ti ho posto dinnanzi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, onde tu viva, tu e la tua progenie…» (Dt 30,19). Qual è la «benedizione» che Dio, nella sua Parola raccolta e trasmessa nella Bibbia, mise allora davanti al popolo d’Israele e mette oggi davanti a noi? Quale progetto di vita e di comunità può ispirare la Bibbia per l’uomo d’oggi? Nello spazio a disposizione mi devo limitare a quelle che mi sembrano le tre componenti fondamentali di questo progetto. 1. Il progetto biblico «per

costruire il bene umano» è anzitutto un progetto di libertà. Nella Bibbia Dio si rivela in primo luogo co-me liberatore e non come legislatore. È lui che, con mano potente, fa uscire Israele dall’Egitto, dove era stato ridotto in schiavi-tù. Per prima cosa Dio trasforma un popolo schiavo in un popolo libe-ro. Si pensa spesso che Dio sia un limite o un ostacolo alla libertà dell’uomo, perciò si sostiene che per essere libero l’uomo deve

anzitutto liberarsi di Dio. Nella Bibbia ve-diamo il contrario: è Dio che libera l’uomo, è Dio che ama la libertà dell’uomo più di quanto non la ami l’uomo stesso, che soven-te preferisce non essere libero, preferisce ubbidire a qualche «autorità superiore» o ad altre istanze (la tradizione, l’opinione prevalente, ecc.), scaricando su di esse il peso della responsabilità delle scelte che la vita comunque impone. Secondo la Bibbia, «dove è lo Spirito del Signore, quivi è liber-tà» (2Cor 3,17). La libertà non è dunque solo autonomia, come spesso si pensa. È certa-mente autonomia da ogni autorità umana,

ecclesiastica o laica, che pre-tenda di imporsi alla coscien-za di ciascuno. Ma non è solo autonomia. È qualcos’altro, che la Bibbia ci insegna in molti modi, ma soprattutto attraverso la storia di Gesù, uomo libero per eccellenza. Là dove c’è libertà, si realizza al meglio il «bene umano». 2. In secondo luogo il proget-to di vita e di comunità per l’uomo d’oggi che la Bibbia ispira è un progetto di giusti-zia. Dio, secondo la Bibbia, ama la giustizia e il diritto più dei culti e delle liturgie solenni. Ma la giustizia e il diritto secondo Dio sono net-tamente sbilanciati a favore di coloro che possono facilmen-te essere vittime dell’ingiusti-zia (il povero, l’orfano, la vedova, lo straniero, cioè i membri deboli della società). Il diritto che Dio ama e pro-

di Paolo Ricca *

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muove è quello di chi non ha diritti, la giu-stizia che Dio ama e promuove è quella che viene negata a coloro ai quali è invece dovu-ta. L’immagine corrente della giustizia è una bilancia nella quale i due piatti sono in perfetto equilibrio, allineati sullo stesso li-vello. La bilancia di Dio è diversa: pende da una parte, dalla parte delle vittime delle mille ingiustizie, palesi e nascoste, presenti nella nostra società. Ma perché Dio ama tanto la giustizia? Proprio perché essa è vitale per il «bene umano», come l’ossigeno lo è per la vita del corpo: senza giustizia il corpo sociale si corrompe e muore. C’è poi una giustizia di Dio ancora più profonda e misteriosa, che non riguarda direttamente i rapporti sociali, ma riguarda i rapporti tra l’uomo e Dio: è la giustizia per la quale Dio «giustifica» il peccatore, lo dichiara giusto cancellando il suo peccato a motivo della croce di Cristo e accogliendolo gratuitamen-te nella sua comu-nione. Dio insomma ama tanto la giusti-zia che la crea dove non c’è. Là dove c’è giustizia, si realizza al meglio il «bene umano».

3. In terzo luogo il pro-getto biblico di vita e comunità per l’uomo d’oggi è un progetto di fraternità. Homo homini lupus è l’ama-ra constatazione che la storia plurimillenaria dei rapporti umani non si stanca purtroppo di confermare. Contro questa visione dell’uomo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8) e l’apostolo Pao-lo amplia ancora di più l’orizzonte dicendo che Dio è «unico e Padre di tutti» (Ef 4,6) – s’intende di tutte le creature umane. Che cosa implica questo evangelo della fraterni-tà, che Francesco d’Assisi estendeva non solo a tutti gli animali, ma anche al sole, alla luna, all’acqua, al fuoco, e persino a «sora nostra morte corporale»? Implica almeno tre cose.

A. Una prassi di pace e non-violenza nei

rapporti interpersonali. Gesù è stato un uomo disarmato (la sua unica «arma» è stata la Parola e, durante il processo, a più riprese, il silenzio). L’uomo armato manifesta non la sua forza, ma la sua debolezza, e le «forze armate», sempre più sofisticate e micidiali, non sono certo espressione della forza di Dio. Un’umani-tà degna di questo nome dovrebbe essere disarmata. Secondo Gesù, non i violenti e i prepotenti erediteranno la terra (la terra, non il cielo!), ma i mansueti (Mt 5,5).

B. In questa stessa linea si colloca quella che forse è la più alta parola della Bibbia, e cioè: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44). Una parola del genere equivale sostan-zialmente alla dissoluzione della figura del nemico e sancisce la vittoria del prin-cipio di fraternità. Dove c’è guerra (di qualunque tipo, non solo militare), c’è un

nemico da combattere e, possibilmente, da abbattere. Dove non c’è il nemico, non c’è guer-ra. Ci possono essere, e ci sono, dei conflitti, ma non c’è guerra, non ci si spara addosso, non si vince con la morte o la sottomissione del ne-mico, si vince – per così dire – con lui, si con-vince. Utopia? Va-niloquio? La Bibbia

pensa di no, e così costruisce il bene uma-no comune, e non solo il bene di qualcuno.

C. La fraternità implica sostanziale ugua-glianza. In realtà – lo sappiamo – siamo tutti diversi, ma la fraternità mette tutti sullo stesso piano per quanto concerne i diritti e i doveri. Forse è questo – l’ugua-glianza – il bene umano maggiore, il più difficile da raggiungere, ma quello sul qua-le c’è la più grande benedizione divina. Una umanità divenuta fraterna è pronta per accedere al Regno di Dio, anzi ne è una chiara manifestazione. Là dove c’è fraterni-tà, si realizza al meglio il «bene umano».

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Bibbia e scuola

* Docente di Nuovo Testamento – Pontificio Ateneo S. Anselmo – Roma

Quando andavo a scuola io era opinione comu-ne che I promessi sposi di Alessandro Manzoni fosse un capolavoro condannato, insieme ad altri classici della letteratura italiana e stranie-ra, ad essere vilipeso da studenti che mal sop-portavano di doverlo leggere perché “di pro-gramma”. Ora, credo, non si legga più per inte-ro e lo stesso vale per La divina commedia e forse anche per qualche altro tesoro letterario. Sono stata studente, come tutti, e poi ho inse-gnato per molti anni. So molto bene quindi a

quale sorte può essere condannato un “libro” quando diventa “scolastico”: come mai mi trovo allora a difen-dere strenuamente la causa della “Bibbia sui banchi di scuola” e non soltanto, come del tutto ovvio, durante le ore di Religione, ma anche durante le ore in cui si passa dall’Italiano alla Fisica, dall’Inglese alle Scienze, dalla Matema-tica al Latino? Rispondo prima tele-graficamente e poi pro-vo a spiegarmi meglio. L’ora di Religione è opzionale ed è, quindi, “per alcuni”; la Bibbia, invece, è “di tutti”. Mi spiego. La Bibbia nasce dalla fede ebraica e da quella cristiana ed è indirizzata a coloro che nella fede ebraica o cristiana vogliono vive-

re. Su questo non ci può essere alcun dubbio. Per questo ho detto che la Bibbia è “di tutti” e non “per tutti”. Per coloro che credono o che, almeno, vogliono credere, la Bibbia rappresen-ta il fondamento della loro fede, il principio della loro speranza, il motore della loro carità. La Bibbia, però, ha contribuito a configurare la cultura del nostro Occidente più di ogni altro testo ed è quindi da considerare, oltre che il libro della fede ebraica e cristiana, anche un “patrimonio dell’umanità”. Per questo mi sen-

di Marinella Perrone *

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to di dire che la Bibbia è “di tutti”, senza con questo voler violare le coscienze o il diritto di ciascuno alla più difficile delle libertà, quella religiosa. Ho sostenuto quindi fin dall’inizio la battaglia di Biblia (Associazione laica di cultura biblica) perché il Ministero dell’Istruzione del nostro Paese diventasse finalmente sensibile al proble-ma dell’analfabetismo biblico che affligge la nostra cultura anche perché, nelle nostre scuo-le, la Bibbia è il libro assente. Va ricordato, però, che il primo appello di Biblia, quasi trent’anni fa, e poi tutti gli altri che sono venuti in seguito, sono stati firmati, oltre che da gente di scuola, anche da molti personaggi importan-ti della cultura italiana, al di là del credo reli-gioso di ciascuno. Né è un caso che, dal mo-mento in cui Biblia ha firmato il protocollo di intesa con il Miur per la diffusione della cultu-ra biblica nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, tante sono state le richieste di presidi e docenti per avviare programmi di “alfabetizzazione biblica” nelle scuole. Il Convegno che si è tenuto all’Università La Sapienza di Roma nel novembre scorso, poi, ha visto la partecipazione interessata e consapevo-le di molti studenti ed ha perciò vinto ogni resistenza residua: favorire l’acculturazione biblica non passa sopra le teste dei ragazzi né, tanto meno, è contro la loro libertà. Anzi. Quando, come in quel caso, professori di diver-se discipline o personaggi della cultura riesco-no a mettere in luce le infinite trasversalità che il riferimento al testo biblico consente, gli innu-merevoli interrogativi che esso ingenera, le formidabili ricadute che ha avuto sulla storia del pensiero e della scienza, delle istituzioni e della politica gli studenti diventano ascoltatori attenti e interlocutori intelligenti. Si ha quasi l’impressione che percepiscano che l’insegna-mento della Bibbia rappresenta una sorta di risarcimento nei loro confronti. In fondo, è quello che la mia generazione ha provato quando, subito dopo il Concilio ecu-menico Vaticano II, potevamo andare nelle librerie a comprarci finalmente una Bibbia in italiano, potevamo leggerla, potevamo radicare la nostra fede “sulla roccia” della consapevo-lezza personale e dell’obbedienza intelligente. Il Concilio aveva richiamato la Bibbia dall’esi-

lio e l’aveva restituita alla Chiesa cattolica do-po molti secoli di assenza. Era cominciata l’e-poca del risarcimento. Più difficile è stato il passaggio dall’ambito della fede a quello della cultura. In un paese come il nostro, malato di clericalismo e di anti-clericalismo, l’inserimento della Bibbia nella trama degli insegnamenti scolastici poteva dare adito a un duro scontro ideologico con pesanti ricadute politiche. E, per di più, pro-prio sulla scuola già tanto martoriata da mali endemici. Che per arrivare finalmente al proto-collo di intesa Biblia-Miur ci siano voluti quasi tre decenni è un fatto che parla da solo. Forse è proprio vero, però, che le cose matura-no con i loro tempi e avvengono quando pos-sono avvenire. Sono convinta che Abramo e Sara non siano condannati a rimpiazzare, nell’immaginario di studenti tanto impertinen-ti quanto annoiati, i personaggi di manzoniana memoria perché in questi anni la scuola italia-na è profondamente mutata. Sono cambiati i docenti e lo sono gli alunni. Al di là di riforme che si susseguono senza colpire mai nel segno, è vero che complessivamente la cultura e la scuola italiana sembrano essersi scrollate di dosso l’ipoteca dell’idealismo romantico, parla-no altri linguaggi, sono attente ad altri fenome-ni, preoccupate di altre questioni. Senza perde-re la forza dell’impianto storico, che rappresen-ta la struttura portante della nostra tradizione culturale, abbiamo imparato la mutua dipen-denza dei contesti e dei linguaggi, la trasversa-lità dei temi e dei problemi, la circolarità dei ragionamenti e delle procedure. In una scuola che ormai mira a iniziare i ragaz-zi a questo nuovo modo di fare cultura, senza indottrinarli né manipolarli, la Bibbia è chia-mata in causa. A volte come imputata, certo, per le tante occasioni storiche in cui è stata, sia pure indirettamente, causa di dolore e di mor-te. Molte altre volte, però, la Bibbia è chiamata in causa ormai come testimone privilegiato di aspirazioni e indifferenze, azzardi e paure, saggezze e follie. Non c’è ambito del sapere umano, almeno di quello occidentale, che sia rimasto estraneo alla grande questione che la Bibbia veicola dalla prima all’ultima pagina: e se di tutto ciò che vive sotto il cielo si potesse parlare perfino con un Dio?

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Quando il 9 maggio del 2007 furono presentate in Campidoglio all’allora ministro della Pubbli-ca Istruzione, Giuseppe Fioroni, le diecimila firme raccolte dall’associazione Biblia per ri-chiamare l’attenzione del governo sulla neces-sità di promuovere la conoscenza biblica nelle scuole, l’iniziativa incontrò l’interesse della stampa nazionale, del mondo della cultura e dello stesso governo, che al Miur firmò un pro-tocollo di intesa, che avrebbe varato corsi di aggiornamento per i docenti allo scopo di valo-rizzare il «giacimento biblico» della nostra cul-

tura. Un protocollo simile, in verità, era già stato firmato da Tullio De Mauro, ministro dell’Istruzione nel precedente governo di cen-tro-sinistra, prima che Berlusconi vincesse le elezioni del 2001. Ma, cambiato il governo, non se ne fece nulla. Cosa ne è stato di quella encomiabile iniziativa di più di quattro anni fa? L’attuale governo, alle prese con le architetture dell’epocale rifor-ma della scuola, ha smarrito questo insieme ad altri indirizzi tra le pieghe di estenuati dibattiti su questioni che sono rimaste altisonanti titoli di capitoli mai scritti (si pensi, tra gli altri, alla

fantomatica “educazione alla cittadinanza” che è ancora priva di uno statuto disciplinare defi-nito). Ma si provi a pensare per un attimo che sareb-be successo nelle nostre scuole se il protocollo di intesa del 2007 avesse avuto un pur auspica-bile seguito: a quale materia sarebbe stato ag-giunto lo studio della Bibbia? E con quale im-postazione ideologica e metodologica? E a qua-li insegnanti sarebbe stata affidata? Con quali competenze, conseguite come? Con un titolo accademico specifico o con corsi di formazione

in servizio? E con quali esiti? Si possono immaginare facilmente i malumori e i brontolii della classe docente: “Già non riusciamo a finire i nostri programmi… la scuola non può fare tutto… ci sono gli insegnanti di Religione, che facciano il loro lavoro… E poi la scuola deve essere laica…”. Quest’anno mi sono trovata a leggere con gli studenti di quarta liceo, secondo quanto prescritto dai programmi, il Pur-gatorio di Dante. Il canto XI si apre con una splendida parafrasi del Padre No-stro: ebbene, perché tutti gli studenti si accostassero al testo poetico, è stato ne-

cessario fornire loro una copia della preghiera evangelica, perché “proprio non ce la ricordia-mo, prof.”. Dunque l’appello di Biblia coglieva nel segno, anzi si tratta ormai di far fronte ad un vero analfabetismo biblico, che la nostra generazione, formatasi in un humus di cultura almeno vagamente cristiana, forse non riesce a cogliere nella sua drammaticità. È perfino ovvio considerare che non è possibile una vera comprensione di tutta la letteratura, l’arte figurativa, la musica, la filosofia elaborate e prodotte dall’Occidente senza una conoscen-za almeno sommaria della Bibbia: e questo non

Dalla storia della salvezza alla salvezza della storia

* Docente di Lettere – Scuola Secondaria di II Grado “E. Fermi” - Bari

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di Martina Calace *

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riguarda solo i soggetti e gli argomenti di espli-cito carattere religioso, come l’iconografia e la musica “sacra”, la poesia religiosa e i grandi sistemi filosofici del Medioevo, i monumenti della letteratura italiana come lo stesso Dante o Manzoni: i rimandi, i riferimenti, le citazioni di veri “archetipi biblici” sono presenti in ogni esperienza artistica della storia della cultura occidentale, anche quando programmatica-mente si è dichiarata estranea o fieramente avversa ad ogni ispirazione religiosa. Tanto è stata intrisa delle storie, dei personaggi e dei temi narrati nella sacra Scrittura la formazione culturale di intere generazioni, che il potere evocativo di un verso, di un nome, di un luogo, di un tempo agiva anche senza l’esplicita con-sapevolezza dell’artista, su un pubblico che ne coglieva – direi “istintivamente” – significati e richiami. Il potenziale di questo codice comu-nicativo, per molta parte delle nuove genera-zioni, è completamente smarrito o fortemente offuscato. Non è questa la sede per definire cause e re-sponsabilità del dilapidarsi di tale ricchezza, ma da insegnante mi fermo a constatare che se l’obiettivo formativo della scuola è quello di fornire gli strumenti allo studente perché di-venti un “lettore competente e critico” delle forme di espressione artistica prodotte dall’uo-mo nella storia, semplicemente senza una ele-mentare conoscenza della cultura biblica, tale obiettivo non è assolutamente raggiungibile. Nella prospettiva finora espressa, l’approccio al testo biblico è in definiti-va strumentale alle discipli-ne “canoniche” della forma-zione scolastica: non sembra però che la sua funzione didattica possa così esaurir-si. La questione è quali pos-sano essere i valori educati-vi veicolati da una più dif-fusa conoscenza della Bib-bia nella scuola. La più co-mune risposta che si sente a tale proposito riguarda la riscoperta delle radici cri-stiane della cultura europea, il che rafforzerebbe l’identi-tà di appartenenza all’Occi-

dente – appunto – europeo e cristiano, nell’at-tuale fase storica di incontro/scontro con le altre culture, soprattutto quella islamica, pre-supposto necessario a costruire un rapporto di dialogo e di tolleranza. Non credo che la Bibbia debba essere usata in chiave strumentale per definire differenze e opposizioni, pericolose quanto infondate (l’Occidente cristiano e de-mocratico contro l’Oriente islamico e totalita-rio) per il fatto che essa è il libro per eccellenza della fonte e della confluenza dei monoteismi, della fusione e dell’incontro di popoli che in-torno ad esso riconoscono le verità religiose che ogni propria storia ha declinato con codici e modi diversi. La lettura non pregiudiziale del testo sacro non può che abbattere le barriere che altri dogmatismi (politici, economici) han-no innalzato. A me sembra, piuttosto, che l’insegnamento fondamentale che la scuola può trarre da una lettura non ideologica della Bibbia riguardi il senso della storia, nel duplice significato del senso che dà la storia agli uomini e del senso che gli uomini danno alle vicende della storia. Infatti, la modalità che il popolo di Israele ha di definire se stesso è quello della narrazione della propria storia: un’ identità che non è data a priori, ma si costruisce e si chiarisce nel rac-contare dalle origini le vicende dei “padri fon-datori”, i patriarchi, e poi di tutto un popolo che attraverso un cammino, non solo ideale e simbolico, prende coscienza di sé. Quale inse-gnamento per le nostre generazioni di giovani,

appiattite in un eterno pre-sente senza profondità né dimensione della storia, non più educate a pensarsi all’interno di un processo diacronico che li precede e che non si esaurisce con loro. Quale nuovo senso di responsabilità della vita, se intesa come tappa di un percorso che l’umanità sta compiendo verso una meta universale. Ma - e questo è il secondo significato - il testo biblico (si pensi, ad esempio, alla letteratura profetica) è una

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formidabile occasione per interrogarsi sul sen-so della storia, per cogliere il filo che lega tra loro avvenimenti che sembrano presentarsi con un’apparente casualità priva di ogni logica. Certo, lo scrittore biblico trova in Dio e nel suo provvidenziale intervento il significato ultimo delle vicende, spesso drammatiche, che hanno attraversato la storia del popolo eletto; conta, comunque, lo sforzo di interpretazione, la ri-cerca inesausta di senso che, al di là delle rispo-ste, è la qualità più alta dell’uomo che è nella storia come protagonista consapevole, attore

cosciente e non passiva comparsa di una sorta di teatro dell’assurdo. Quale sfida, per la scuo-la di oggi, tutta concentrata a parcellizzare il sapere nelle microscopiche tassonomie delle competenze, tutta tesa a ridurre tempi e conte-nuti in nome del principio della “spendibilità” del sapere, scuola che troppo spesso dimentica la domanda sul senso globale del suo progetto educativo e che colpevolmente sottrae agli studenti la possibilità di riflettere su di esso. Del resto, già nel lontano 1855 era don Bosco che, nella sua Storia d’Italia raccontata alla gio-ventù, affermava qualcosa di non diverso da quanto si sta dicendo, quando ravvisava l’ec-

cellenza della storia sacra, «la più antica, la più sicura, la più pregevole, la più utile». Si tratta ora, in conclusione, di precisare a quali docenti debba essere affidato l’approccio alla cultura biblica, con quale preparazione e in quali forme. Si vede bene che, così come si è finora delineata, tale proposta non è identifica-bile con l’insegnamento della Religione cattoli-ca: non è di educazione al senso religioso che si sta parlando, né l’esperienza del sacro si esaurisce nella conoscenza della Bibbia, che di essa è solo una parte. D’altro canto, neanche

credo che b a s t i “aggiornare” i docenti di materie in qualche modo affini, fornen-do loro un’in-f o r m a z i o n e che è mancata nel loro curri-colo accade-mico proprio perché non sia svilita al rango di no-zione accesso-ria e strumen-tale, come fin qui si è tenta-to di afferma-re, la cultura biblica appar-tiene, come e

più delle altre materie, alla sfera dell’ “essere” del docente, non a quella del suo sapere disci-plinare: si tratta di una sensibilità, un’attenzio-ne e una riflessione culturali, esistenziali, un’autentica passione per la conoscenza, per le questioni fondamentali dell’uomo e della sto-ria, tali che non possono che essere connaturati con la persona del docente, e non solo con il suo ruolo. Ancora una volta, le cose importanti, quelle che contano e che rimangono nella vita dei giovani discenti, sono quelle che non si inse-gnano e non si imparano, ma che si comunica-no e si vivono.

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Immaginare la Parola

* Critica d’arte

Bibbia-Arte cioè Parola-Immagine: relazione connaturata all’esperienza umana del com-prendere. Ma qui si tratta di immaginare, tra-smettere, insegnare, illustrare secondo il telos di un racconto sacro. Che è questo: la Parola, il Lògos, ha il volto storico di un rabbi palestine-se condannato alla crocifissione. Avanti o dopo Cristo: un cardine definitivo inquadra da ora in poi la storia. L’arte figurativa, come ‘sapere’ di contenuti visuali, racconta in una infinita sequenza di immagini come questo Lògos s’inabissi nella storia e assuma l’immemoriale verità delle ‘leggi non scritte’. L’arte così induce a immagi-nare e memorizzare. E il rapporto fra scrittura e figura è tanto più interessante perché entra in un mondo che teme nell’immagine una preva-ricazione idolatrica. È l’incontro con una civiltà composita, quella semitica ebraica ed ellenistica e romana di cui la nuova cultura classico-cristiana rinnova il sistema di valori in una diversa e rivolgente sensibilità, che, sotto molti aspetti, appare di segno contrario. L’immagine perciò è possibile. L’altare al ‘Dio ignoto’, di cui con voce trepi-

dante parla Paolo, dove l’umanesimo antico dichiara le sue Colonne d’Ercole, è il segno che nel volgere di qualche secolo definitivamente si affermerà un nuovo umanesimo, popolare, mite e cordiale, insieme a quello solitario e ascetico dei Padri del deserto: apoftegmi e si-lenzi come rinuncia all’affermazione eroica dell’individuo. La figuratività è spirituale. L’antica sapienza orale che organizzava, dai sofisti in poi, la disciplina della retorica negli spazi dell’isegorìa e della parresìa, (la libera e piena facoltà di prendere la parola in pubbli-co), cedeva ad una nuova forma di linguaggio. Così nello svolgersi dei libri – da quelli del Vecchio a quelli del Nuovo Testamento – nella sequenza delle vicende e delle idee, ogni passo rivelava una forza in sé compiuta, e altrettanto ogni unità narrativa, ogni versetto. Per questo l’immagine che illustra gli eventi o i personag-gi nasce subito come tipizzazione, exemplum, e diventa iconografia. C’è da chiedersi se la bellezza delle illustrazio-ni, che sono rappresentazioni, si sovrapponga alla forza del testo e distragga da esso. Ponia-mo che questo accada e non sia in gioco la cate-chesi della Biblia pauperum. Impossibile resistere al Notturno della Fuga in Egitto di Elsheimer, o all’Après-Midi del Ripo-so durante la Fuga in Egitto di Caravaggio. Ci si dimentica dell’angoscia di questa famigliola in fuga. La bellezza e la quiete sovrana degli spa-zi e dell’ora rappresentata fanno sprofondare in una dimensione fiabesca che allontana dalla severità del testo sacro? E il Riposo durante la fuga in Egitto di Orazio Gentileschi, sia nella versione di Birmingham che in quella di Vien-na? Tutte queste sono opere realizzate entro i primi due decenni del Seicento: ci raccontano il Sei-cento o il Vangelo? Ci sprofondano nella di-

di Emma Favia *

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mensione lirica dell’idillio -non quelle di Genti-leschi- o suggeriscono una meditazione sulla verità delle situazioni reali, non idealizzate, e per questo più intense? Infatti lo stesso ricorso alle versioni apocrife, come nel caso del capola-voro di Elsheimer, oltre che sostenere il puro diletto narrativo, dimostrano anche una volon-tà di immedesimazione realistica nel minuto dettaglio esistenziale, che offre notevolissime occasioni di meditazione. Prendiamo un passo dell’Antico Testamento che per sua natura sfuggirebbe ad un racconto per immagini: la percezione della presenza di Dio che coglie il profeta Elia sull’Oreb. Philippe de Champaigne, pittore di corte di Luigi XIII, rappresenta il momento in cui il profeta rifugiatosi nel deserto, prostrato e ad-dormentato per terra all’ombra di una ginestra, sta per essere rianimato dal pane e dall’acqua che un Angelo, svegliandolo, gli addita vicino (1Re 19,5 ss). Il testo poi aggiunge che per due volte Elia si addormenta e per due volte l’An-gelo lo rianima con quel pane e quell’acqua che gli darà la forza di raggiungere il monte di Dio, l’Oreb. L’opera, realizzata fra il 1656 e il 1662 e che si trova a Le Mans, Musée de Tessé, nell’adom-brare il significato eucaristico del sacro nutri-mento, ha in sé la pregnanza, dal punto di vista propriamente narrativo, del famosissimo suc-cessivo passaggio che colloca Elia sull’Oreb, con il volto coperto davanti al Signore che pas-sa: Egli non è nel vento impetuoso, nel ter-remoto tremendo, nel fuoco, ma «nell’alito carezzevole di un’aura leggera». Il profeta addormentato del quadro è ormai in quella dimensione, e dilata l’immaginazione e la memoria verso la tenerissima inebriante levità della brezza divina. Non possiamo dimenticare mai più il testo sacro che narra l’esperienza di Elia. L’azzurro della tunica, il bagliore dorato dei capelli, l’irrompere rosa della veste angelica, il pacifico snodarsi dell’orizzonte impastato di luce raggiunge il cuore con le sonde degli occhi. Georges La Tour (Nantes, Musèe des Beaux-Arts) ci immette nella stanza modesta del falegname Giuseppe, sprofondato nel son-no: un altro notturno magnifico che narra la dimensione della fuga in Egitto come di una

decisione presa di soprassalto, nel cuore della notte. Non c’è tempo di ragionare e il sogno avverte che è già tempo di svegliarsi, prendere la madre e il bambino con le poche cose di so-pravvivenza di un viaggio a dorso d’asino e andare via subito. Questo del sogno di Giusep-pe è tutto ciò che il Vangelo ci dice di questo periodo della prima infanzia di Gesù: Giusep-pe ne è l’eroe silenzioso, modello di abnegazio-ne assoluta e di umilissima forza. Il chiarore sublime della lanterna che a gradi inonda lo ‘spazio–tempo’ del sogno entra persino nell’ab-bandono del respiro allentato dell’operaio che dorme. Tanto che anche noi ci troviamo lì, alle spalle dell’Angelo. Antonello da Messina. Gesù in Pietà con un An-gelo, al Prado. Il Vangelo della Passione parla di terremoto e oscurità su tutta la terra al momento della mor-te di Gesù. La natura si ribella e quasi scoppia. Sulla tavola di Antonello il paesaggio è una calma distesa di verdi e celesti di una primave-ra avanzata. Sentiamo e ‘vediamo’ però, nelle sottili trasparenze dei colori e nell’abbandono di un corpo ormai fattosi pesante, la tragedia cosmica del Sacrificio assoluto e definitivo sull’altare del mondo. Si dirà che questa è rappresentazione devozio-nale e non rimanda al testo evangelico. Vero. Eppure qui ne abbiamo un’illustrazione ‘reale’, se l’onda lirica del ‘sublime’ si afferma nella permanenza d’immagine dello spazio dipinto.

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La lettura patristica della Bibbia

* Docente di Teologia patristica – Facoltà Teologica Pugliese - Bari

Nell’ottobre del 2008 si è celebrata in Vaticano la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sino-do dei Vescovi che ha avuto come tema La Pa-rola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Ad essa è seguita, come di consueto, la pubbli-cazione di un’esortazione apostolica postsino-dale del Papa: si tratta, in questo caso, dell’E-sortazione Apostolica Verbum Domini firmata da Benedetto XVI il 30 settembre 2010, memo-ria liturgica di san Girolamo. Il Papa, raccomandando la realizzazione di una corretta ed adeguata interpretazione della Scrittura, afferma: «Un significativo contributo al recupero di un’adeguata ermeneutica della Scrittura, come è stato affermato nell’Assem-blea sinodale, proviene anche da un rinnovato ascolto dei Padri della Chiesa e del loro ap-proccio esegetico. In effetti, i Padri della Chiesa ci mostrano ancora oggi una teologia di grande valore perché nel suo centro sta lo studio della sacra Scrittura nella sua integralità. Infatti, i Padri sono in primo luogo ed essenzialmente dei “commentatori della sacra Scrittura” (s. Agostino)»1.

Nelle pagine di questo mio piccolo con-tributo, intendo far riecheggiare questo invito ad un “rinnovato ascolto dei Pa-dri” consegnando ai lettori gli elementi caratterizzanti della lettura patristica della Bibbia. Li raccolgo dalle riflessioni con le quali Jean-Michel Poffet, padre domenicano, docente alla Scuola biblica di Gerusalemme, sintetizza splendida-mente – a mio giudizio – le caratteristiche dello stile con il quale i Padri della Chie-sa si sono accostati alla Bibbia. L’autore, infatti, in un agile volumetto, dal titolo I cristiani e la Bibbia, ha illustrato, in quat-tro capitoli, le diverse modalità con le quali i cristiani si sono rapportati lungo i

secoli al libro della fede. I capitoli sono dedicati rispettivamente all’epoca patristica, al medioe-vo, all’età moderna e al XX secolo. Ovviamente mi soffermerò in queste mie brevi note al pri-mo capitolo del libro (pp. 7-482) e raccoglierò le caratteristiche individuate da Poffet attorno a tre punti fondamentali che potremmo definire, in qualche modo, i protagonisti dell’«incontro» con la Scrittura: il testo stesso della Scrittura e la sua natura, il lettore e le disposizioni con le quali si deve accostare al testo e, infine, il con-testo ecclesiale nel quale testo e lettore vivono. 1. La Scrittura a. La Scrittura e lo Spirito La prima convinzione che guida l’approccio dei Padri della Chiesa alla Scrittura è che essa è ispirata e unificata dallo Spirito. Ben a ragione affermiamo che la Bibbia ha per autore sia Dio sia l’uomo. Ma ciò che i Padri sottolineavano era che, nonostante i molteplici autori umani che nel corso dei secoli hanno reso possibile la stesura del testo sacro, vi è un autore che unifi-ca l’intera opera: lo Spirito Santo, per l’appun-to, Dio stesso. Ciò comporta che la pluriforme

di Jean Paul Lieggi *

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ricchezza dei diversi libri biblici «è come as-sunta in un’unità superiore, l’unità del canone delle Scritture, che oggi ha ricominciato a inter-pellare una parte degli stessi esegeti» (p. 8). Da ciò deriva un compito ben preciso per chi si accosta alla Scrittura: quello di «cercare e tro-vare il senso voluto dallo Spirito. Da questo punto di vista, la Scrittura è piena di “misteri”: il senso profondo va cercato al di là della lette-ra» (p. 9). Ferma convinzione dei Padri è inoltre che que-sto compito l’uomo non è chiamato ad affron-tarlo da solo, in quanto – come afferma san Girolamo nel suo commento alla lettera ai Ga-lati – «la Scrittura deve essere interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta»3. Lo Spirito che ha reso possibile la nascita delle pagine bibliche per aver ispira-to e guidato l’autore sacro, accompagna ed illumina ora i passi di chi umilmente ricerca il senso profondo di quelle pagine. b. Cristo chiave delle Scritture Il carattere unificante delle Scritture non è do-vuto solo al suo autore, lo Spirito, ma anche al suo contenuto: Cristo Gesù. È ferma convinzio-ne dei Padri della Chiesa, infatti, che tutta la Scrittura, e quindi non solo il Nuovo Testa-mento ma anche l’Antico, annuncia Cristo.

Ricorda al riguardo il Papa che «rimangono per noi una guida sicura le espressioni di Ugo di San Vittore: “Tutta la divina Scrittura costi-tuisce un unico libro e quest’unico libro è Cri-sto, parla di Cristo e trova in Cristo il suo com-pimento”» (VD, n. 39). Un’immagine che ben esprime questa convin-zione e che ne mette in luce la rilevanza per l’interpretazione della Scrittura è quella della chiave: Cristo è la chiave. Si tratta di un’imma-gine che ci ricorda efficacemente che «solo Cri-sto può aprire le Scritture, unificarle e orientar-ne la lettura» (p. 14). Chi si accosta al testo biblico cercando in esso una via privilegiata per giungere alla cono-scenza di Gesù deve far tesoro di questa indi-cazione. Infatti, se è vero che la Scrittura ci conduce alla conoscenza di Cristo, è anche vero che è la conoscenza di Cristo a consentirci di cogliere sempre più in profondità i tesori nascosti nel testo. c. L’analogia della fede Alla luce delle due convinzioni già considerate, ne deriva una terza: quella dell’analogia della fede. In altre parole, la fede nella quale acco-gliamo la Scrittura fa sì che «tutte le parti si coordinino e s’illuminino vicendevolmente. Non esiste totale eterogeneità tra una parte e

l’altra della Scrit-tura poiché, in definitiva, i vari testi di quello che resta il Libro s’in-terpellano e si rispondono. Le differenze, anche quando sono ma-nifeste, si attenua-no nel mutuo con-fronto e in un equilibrio inces-sante» (p. 16). Ciò non significa non riconoscere le differenze che vi sono, ma che tali differenze non vengono lette co-me totale eteroge-neità, ma secondo

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il principio dell’analogia, per l’appunto, cioè ricono-scendo che accanto alle differenze vi sono anche tratti d’unione che consen-tono di scorgere la somi-glianza tra i diversi testi. A rendere possibile tale ana-logia è proprio la fede, che diviene così criterio di lettura ed interpretazione dei testi. È sempre Benedetto XVI a sottolineare come «proprio il legame intrinseco tra Parola e fede mette in evi-denza che l’autentica er-meneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma. San Bonaven-tura afferma a questo proposito che senza la fede non c’è chiave di accesso al testo sacro: “Questa è la conoscenza di Gesù Cristo, da cui hanno origine, come da una fonte, la sicurezza e l’intelligenza di tutta la sacra Scrittura. Perciò è impossibile che uno possa addentrarsi a co-noscerla, se prima non abbia la fede infusa di Cristo, che è lucerna, porta e anche fondamen-to di tutta la Scrittura”» (VD, n. 29). Si ripete qui il paradosso che abbiamo già colto nel punto precedente: la Scrittura ci fa conosce-re Cristo ma nello stesso tempo è Cristo che ci apre la porta per comprendere la Scrittura. Similmente per la fede, è la Scrittura a nutrirla ed alimentarla, ma è la fede stessa che ci offre i criteri per interpretare la Scrittura. Anche da questa convinzione deriva un compi-to per il lettore: accostarsi alla Scrittura con lo stesso atteggiamento di chi si accosta ad una sinfonia musicale per cogliere l’armoniosa uni-tà che risuona grazie ai differenti strumenti e alla molteplicità di suoni. 2. Il lettore Se le caratteristiche sinora esaminate si riferi-scono soprattutto alla natura del testo, pur facendo derivare da essa i compiti assegnati al lettore, le caratteristiche che ora presenterò guardano soprattutto agli atteggiamenti che il lettore è chiamato ad assumere nell’accostarsi al testo. Sono anche queste caratteristiche che

hanno ovviamente una stretta relazione con le precedenti e, in qualche modo, da esse deriva-no. a. Esegesi e preghiera Il primo atteggiamento che il lettore deve colti-vare è quello della preghiera. Se solo guidati dallo Spirito, quello stesso Spirito che ha ispi-rato le pagine della Bibbia, e se solo con la chia-ve che è Cristo ci è concesso di comprendere la Scrittura, sarà necessario iniziare e vivere la ricerca del senso spirituale costantemente so-stenuti dalla preghiera. La preghiera è, infatti, l’esercizio grazie al quale lasciamo che lo Spiri-to e Cristo abitino la nostra vita e la orientino. Scriveva al riguardo Origene nel suo primo commento ai Salmi: «La prima cosa: domanda-re a Dio di cercare bene, perché coloro che cer-cano hanno la promessa di trovare (cfr. Mt 2,7); ma forse agli occhi di Dio non c’è neanche un inizio di ricerca se non si utilizza il buon meto-do» (p. 18). E lo stesso padre alessandrino, commentando il Cantico dei Cantici, annotava splendidamente: «Perché è unicamente strin-gendo il Verbo di Dio al proprio cuore con tutto l’affetto e l’amore, che sarà possibile co-gliere l’odore del suo piacevole profumo e del-la sua soavità» (p. 19). b. Esegesi e conversione Alla preghiera si accompagna la conversione: «L’obbedienza concreta alla Parola di Dio e l’apertura dell’intelligenza a questa stessa Pa-rola sono infatti strettamente connesse» (p. 21)

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in quanto «si può comprendere la Scrittura solo se la si vive» (VD, n. 47). Adoperando una bella immagine desunta dai luoghi della Terra Santa, Poffet afferma: «L’accesso alle Scritture non è immediato: bisogna curvarsi per potervi entrare. È quanto avviene per entrare nella Basilica della Natività di Betlemme, la cui por-ta particolarmente bassa obbligava i cavalieri a scendere da cavallo e a rinunciare alla loro maestosa armatura. La logica che conduce dal-la mangiatoia alla croce si ripercuote quindi positivamente sulle esigenze ermeneutiche necessarie per comprendere il Verbo incarnato e le Scritture ispirate» (p. 22). Questa bella immagine, richiamata da Poffet, ci apre all’invito del Papa a «ricordare un’analo-gia sviluppata dai Padri della Chiesa tra il Ver-bo di Dio che si fa “carne” e la Parola che si fa “libro”. La Costituzione dogmatica Dei Verbum, raccogliendo quest’antica tradizione secondo la quale “il corpo del Figlio è la Scrittura a noi trasmessa” – come afferma sant’Ambrogio –, dichiara: “Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura uma-na, si fece simile agli uomini” (Dei Verbum, 13)» (VD, n. 18). c. Ricerca e fede I primi due atteggiamenti che devono segnare il lettore, quello della preghiera e quello della conversione, sono profondamente legati all’ambito della sua vita di fede, nella quotidia-nità del suo stile. L’incontro con la Scrittura richiede, tuttavia, non solo questo ma anche l’impegno della ricerca e dello studio. E la vita degli stessi Padri della Chiesa ne è una fervida testimonianza: essi, infatti, hanno dedicato a questo gran parte delle loro energie (come ci ha ben ricordato Benedetto XVI nel passo della Verbum Domini che ho citato all’inizio dell’arti-colo) e ne hanno fatto il centro stesso della loro vita. Il lettore pertanto deve accostarsi al testo sacro nella profonda convinzione che ricerca e fede non si oppongono, anzi si completano. 3. La comunità ecclesiale L’incontro con la Scrittura non lo si può vivere individualmente. Se abbiamo già messo in evi-denza gli atteggiamenti che devono animare il lettore, è necessario quindi ora spendere qual-

che parola per sottolineare come il luogo vitale dell’incontro dell’uomo con la Scrittura non può che essere la comunità ecclesiale. a. Una lettura pastorale La lettura della Scrittura, secondo i Padri, non può limitarsi infatti all’esercizio del singolo, in quanto «mira innanzitutto all’utilità ecclesiale, alla conversione del lettore e di coloro con i quali potrà condividere i frutti della propria scoperta. È una lettura pastorale rivolta alla vita cristiana» (p. 25). b. Un’esegesi ecclesiale La Chiesa non è solo lo “scopo” della Scrittura che, come si è detto, mira proprio alla forma-zione della comunità cristiana, ma è anche la possibilità stessa di trasmettere e ricevere il Testo Sacro. L’esistenza stessa della Bibbia risiede nella comunità cristiana e nell’annuncio del Vangelo che la segna. Lo stesso Papa, ri-chiamando il pensiero di san Girolamo, sottoli-nea che «la Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il “noi” nel nucleo della verità che Dio stes-so ci vuol dire» (VD, n. 30). La fede della Chiesa ci aiuta a ricordare questa verità in quanto accosta sempre la Scrittura alla Tradizione, cioè all’atto vivo con il quale si riceve e si consegna il deposito della fede. Sen-za la Tradizione non avremmo ricevuto e non potremmo comprendere la Scrittura. «In defi-nitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la sacra Scrit-tura come Parola di Dio» (VD, n. 17). In questo la lezione conciliare è magistrale, e ad essa semplicemente rimando, invitando alla lettura del secondo capitolo della Dei Verbum (nn. 7-10). c. La recezione della Scrittura nella liturgia Il luogo privilegiato in cui la Parola è ricevuta, proclamata e consegnata è l’azione liturgica. È in essa, infatti, che la Scrittura è acclamata co-me “Parola di Dio”. La centralità della liturgia emerge inoltre da questa felice conclusione che Poffet ci offre raccogliendo tutte le caratteristiche sinora esa-minate: «La pratica liturgica spiega bene la convergenza di tutti i diversi elementi indivi-duati fino a questo momento: una Parola abita-

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 37. Da ora in avanti citerò l’Esortazione Apostolica Postsino-dale semplicemente con la sigla VD 2 Il numero delle pagine, quando non indicato diversamente, si riferisce al testo di Jean Michel Poffet, I cristiani e la Bibbia. Gli antichi e i moderni, Jaca Book, Milano 2001 3 Poffet, p. 11. Altre belle citazioni di testi patri-stici e liturgici sullo stesso tema sono riportate da Benedetto XVI nella Verbum Domini al n. 16

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ta dallo Spirito, tutta orientata a Cristo, procla-mata dalla Chiesa e accolta nella fede, in un contesto di preghiera e conversione, con una preoccupazione pastorale finalizzata alla cre-scita del popolo di Dio. Si capisce perché Ire-neo abbia potuto farne in qualche modo il cri-terio della fede: “Il nostro pensiero, invece, è in pieno accordo con l’eucaristia e a sua volta l’eucaristia conferma il nostro pensiero”» (p. 28). Conclusione Prima di concludere con un’immagine patristi-ca queste mie semplici riflessioni, intendo se-gnalare due recenti pubblicazioni che senz’al-tro aiuteranno chi intendesse approfondire l’argomento trattato in queste pagine: la prima è di Maria Campatelli, Leggere la Bibbia con i Padri. Per una lettura credente delle Scritture, Li-pa, Roma 2009, 195 pp., 11 euro. La seconda è di Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Ci-nisello Balsamo (MI) 2009, 401 pp., 22 euro. Quest’ultima rappresenta per l’appunto, come suggerisce lo stesso sottotitolo, un’introduzio-ne a cui l’autore, monaco camaldolese, ha già fatto seguire altri volumi monografici per offri-re alcuni esempi specifici di esegesi biblica cristiana delle origini (uno su Ippolito e Ireneo, uno su Clemente e Origene, uno su Agostino) e altri ancora ne prepara. Ne raccomando parti-colarmente la lettura in quanto lo scopo dell’autore, a mio giudizio ben raggiunto, è quello di far gustare il sapore dei Padri, facen-do emergere così la voglia di accostarsi diretta-mente ai loro testi per nutrirsene. Afferma nel-la premessa: «Lo scopo del libro, è inutile na-sconderlo, è quello di invogliare […] a leggere direttamente i testi dei Padri della Chiesa e scoprire le intenzioni di fondo che stanno alla base della loro ermeneutica biblica particolare, senza cedere troppo presto alla tentazione di metterli da parte, perché ormai datati e figli di una cultura troppo lontana che sembra non aver quasi nulla da spartire con la nostra sensi-bilità moderna, postmoderna o semplicemente contemporanea. […] La fede, che è la chiave ermeneutica per eccellenza della Bibbia nella mentalità dei Padri della Chiesa, rimane infatti per tutti noi, ancora oggi, la motivazione prin-

cipe del nostro interesse per un libro che con-tiene Scritture da noi ritenute certamente ispi-rate da Dio. Difficilmente infatti molti di noi avremmo dedicato tanta parte della nostra vita e delle nostre energie allo studio di questo te-sto, se non fossimo stati convinti che il libro della Bibbia è assolutamente “diverso” da tutti gli altri libri» (pp. 6-7). Questo nostro interesse per il libro delle Scrit-ture, richiamato da Gargano, è ben espresso dall’immagine patristica con la quale intendo concludere. La prendo da alcune parole di Efrem, un Padre della chiesa siriaca, vissuto nel IV secolo, che la tradizione ama definire l’arpa dello Spirito per la sua abilità di annun-ciare la Parole con la bellezza della poesia. Egli amava paragonare la Parola di Dio ad una sor-gente; e grazie a questa immagine poteva invi-tare i cristiani a non rattristarsi se gli sforzi compiuti per comprendere la Scrittura e il suo senso profondo ci lasciano spesso con la consa-pevolezza di non aver esaurito il nostro compi-to. Diceva, infatti, che nessuno è triste se, dopo essersi dissetato alla sorgente, si accorge di non aver esaurito l’abbondanza dell’acqua che essa dona. Anzi, la certezza di poter ritrovare anco-ra dell’acqua in quella sorgente è fonte di gioia. Ugualmente per ciascuno di noi sia motivo di gioia la solida certezza che la fonte inesauribile della Scrittura potrà sempre dissetare la nostra sete di Dio. E «come è importante per il nostro tempo scoprire che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo!» (VD, n. 23). L’insegnamento e la testimonianza dei Padri ci aiutino ad attingere dall’abbondanza di questa fonte e a farne tesoro per il cammino della no-stra vita.

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La tendenza a giudicare la nostra come “la civiltà delle immagi-ni” manifesta quanto sia comune la certezza che l ’ i n g e r e n z a della comuni-cazione visiva m e t t e r e b b e l’uomo odier-no di fronte a p r o b l e m i nuovi e a temi mai prima affrontati. In verità un’ana-lisi storica, anche fretto-losa, mostra come la pre-senza delle immagini e il riconoscimen-to del loro potere abbia stimolato il pensiero sin dall’antichità, generando un dibattito fe-condo e arti-colato. In mo-do specifico, le religioni monote i s te , e b r a i s m o ,

Il valore pedagogico e didattico delle immagini sacre nei Padri della Chiesa

* Docente di Religione cattolica – Scuola Secondaria di II Grado “Socrate” - Bari - Iconografo

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di Antonio Calisi *

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cristianesimo e islam, hanno continuamente preso in esame l’argomento della natura dell’immagine e del suo compito nella società, concorrendo a un assetto teorico che non può essere trascurato se ci si vuole occupare della comunicazione visiva nella società di oggi. Esiste un’ambiguità di fondo nella relazione con l’arte visiva comune al pensiero di Platone e alle grandi tradizioni religiose monoteiste. Questa ambiguità è lampante nei Dialoghi pla-tonici, che da una parte sviliscono le immagini artificiali come “ombra di ombra” e dall’altra permettono un’opposta lettura, che vuole il creatore di immagini atto a rendere visibili realtà invisibili. Affine atteggiamento si ritrova nell’ebraismo, che accanto alla proibizione del primo comandamento, «Non ti farai idolo né immagine alcuna» (Es 20, 4-6), registra l’uso di immagini anche negli spazi di culto, di cui l’esempio più conosciuto sono i cherubini che sovrastano l’arca nel tempio di Salomone. An-che l’islam, che in ugual modo pare più massi-malista nella sua opposizione di raffigurare il sacro, conosce forme di arte religiosa figurati-va, tanto che esistono miniature successive al XIII secolo in cui è rappresentato lo stesso Pro-feta. Tuttavia è nel cristianesimo che l’ambiguità dell’atteggiamento pratico e l’ambivalenza delle posizioni teoriche prendono la figura più esplicita, perché il problema della visibilità e della rappresentabilità di Dio deve in questo caso fare i conti con la novità dell’incarnazione. Il fatto stesso che Dio si sia mostrato in Gesù Cristo, diventa una causa fondante per l’imma-gine sacra anche quando essa affermi di rende-re visibile l’invisibile, vale a dire di avere un valore rivelativo, oltre a un valore semplice-mente pedagogico e didattico. Gli ultimi apologisti del III secolo, sulle stesse posizioni dei loro predecessori, si scagliano contro gli idoli insensibili alle preghiere che i devoti rivolgono loro. Lattanzio (250-320 ca.) afferma che le divinità non vengono a rinchiu-dersi nella materia e argomenta in questo mo-do: visto che gli dèi sono presenti dappertutto perché venerarli negli idoli? Arnobio (240-315 ca.) sostiene come sia ingiurioso per la divinità sperare nel suo soccorso pregando la sua im-magine vana e vuota. Tuttavia in entrambi

compare l’affermazione del valore pedagogico delle immagini: sono utili per il popolo rude e ignorante, perché imponendo un certo terrore, espellono il male del mondo. La forza comme-morativa dell’immagine è sottolineata da Lat-tanzio come un sostituto dell’assenza, una rap-presentazione di chi è lontano o di colui che n o n t o r n e r à p i ù . Basilio di Cesarea (330-379) riconosce alla pit-tura un valore pedagogico e persuasivo, supe-riore all’arte oratoria. In un sermone in onore del santo martire Barlaam, afferma: «Venite in mio aiuto, voi, illustri pittori di grandi gesta. Completate con la vostra arte l’immagine im-perfetta di questo condottiero. Illustrate con i colori della pittura il martire vittorioso che io ho descritto con poco splendore». Da una con-templazione più durevole della parola fugace può nascere lo stimolo all’imitazione dei marti-ri. In questo senso egli rileva a chiari tratti la superiorità, dal punto di vista didattico, delle immagini rispetto alla retorica. L’immagine ha la funzione di esortare spiritualmente il fedele. Gregorio di Nissa (335-395) descrive in detta-glio il ciclo della sofferenza di san Teodoro, il Cristo in forma umana raffigurato come un giudice del combattimento del martire, che egli ha contemplato in una chiesa e l’impressione che ne ha riportato: «Tutto ciò l’artista lo fa vedere con l’arte dei colori, come in un libro che avesse una lingua. Poiché il muto disegno sa parlare sui muri dove si stende e rende i più grandi servizi. Quanto a colui che ha sistemato i tasselli dei mosaici, egli ha reso degno della storia il suo che noi calpestiamo». Gregorio è anche rimasto muto davanti a una rappresen-tazione d’Abramo mentre si accingeva a sacri-ficare il figlio Isacco. La chiesa è diventata un libro dove si comprende senza parole ciò che è sui muri. Asterio di Amasea (+410) ricorda le emozioni provate davanti alle pitture che descrivono il martirio di santa Eufemia di Calcedonia. Nello stesso periodo Nilo di Ancira (Ankara), discepolo di Giovanni Crisostomo, scriveva al governatore Olimpiodoro sulla decorazione sacra e profana di un grande progetto architet-tonico (una chiesa). Nel suo scritto parla dell’arte come una catechesi per immagini ri-volta agli illetterati, che costituivano la gran

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parte della gente, cosicché osservando le pitture, con-servino il ricordo di coloro che hanno servito Dio e saranno in tal modo inco-raggiati a emulare le virtù dei servitori di Dio. Nilo è dell’avviso di restringere il tutto a soggetti biblici che servano a istruire quelli che non conoscono le Scrit-ture. Eliminare quindi le scene di caccia o di pesca, perché esse non servirebbe-ro allo scopo, che è quello di istruire gli ignoranti. Nell’Italia meridionale, Paolino (353-431), vescovo di Nola e grande costrutto-re di basiliche, è dichiarata-mente a favore del ruolo pedagogico delle rappre-sentazioni religiose. Par-lando delle decorazioni interne delle chiese, che lui stesso ha realizzato a Nola e a Fondi, descrive le belle raffigurazioni sulle porte, e le figure che sono dipinte nelle navate laterali: Giob-be, Tobia, Ester, Giuditta e nella parte centrale, i due Testamenti. La basilica diventa espressione della Gerusalemme celeste, della Domus Dei, in cui il fedele percorre un cammi-no spirituale illustrato attraverso le immagini e le iscrizioni, trasformando l’edificio in un «libro di pietra». Abbiamo una lettera di papa Gregorio Magno (590-604) indirizzata a Sereno, vescovo di Mar-siglia, che aveva fatto distruggere nella sua città tutte le immagini. San Gregorio, se da un lato lo loda per aver impedito ai fedeli di ado-rare le immagini, lo rimprovera tuttavia per averli privati degli insegnamenti che esse rap-presentano. Egli sostiene come l’immagine abbia una funzione pedagogica e catechetica affermando che, ‘come la scrittura’, la pittura ci conduce al ricordo.

Il parallelismo tra immagine e Sacra Scrittura è presente anche in Ipazio (+ 537/538), vescovo di Efeso, che intuisce quale importantissimo ruolo ha l’immagine nella diffusione dei conte-nuti biblici, principalmente nei confronti dei più semplici, intendendo con questo termine non solo gli illetterati, ma particolarmente i deboli di spirito che, grazie alle immagini, po-tevano ora essere iniziati alla penetrazione spirituale della divinità sfruttando non l’intel-letto ma il senso della vista. San Germano di Costantinopoli (640-730), uno dei primi Padri della Chiesa a reagire all’eresia iconoclasta, sosteneva che rifiutare l’icona si-gnifica rifiutare il mistero dell’incarnazione.

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L’icona è una professione di fede in Cristo Ge-sù vero Dio e vero uomo. In una lettera a Gio-vanni di Sinade, afferma: «In ragione di questa incrollabile fede in Cristo, noi rappresentiamo l’espressione della sua santa carne sulle icone e a queste tributiamo onore inchinandoci davan-ti a esse con la dovuta riverenza, perché me-diante esse noi veniamo richiamati alla sua incarnazione vivificante e indicibile». Teodoro lo Studita (759-826) asserisce che le icone hanno il compito di indirizzarci verso la contemplazione spirituale: «Che cosa vi è di più utile, che cosa ci conduce più in alto dell’immagine? Essa infatti fa presagire la vi-sione vera e propria e, per usare un paragone, è comune la luce della luna in rapporto alla luce del sole». Per Teodoro l’icona ha una fun-zione “anagogica” di guida verso l’alto che rinvia a una visione spirituale suprema, al Ver-bo fatto carne: «L’immagine dipinta è per noi una luce santa, un memoriale salutare che ci mostra Cristo nella nascita, nel battesimo, che compie miracoli, sulla croce, nel sepolcro, ri-sorto e ascendente dal cielo. In tutto ciò noi non veniamo ingannati, come se tutto questo non fosse accaduto. La visione infatti viene in aiuto alla meditazione spirituale cosicché, me-diante le due, la nostra fede nel mistero della salvezza viene rafforzata». L’immagine, secondo Teodoro, non è una con-cessione per i “deboli”. Essa è radicata nella natura dell’uomo, per questo la contemplazio-ne non esclude l’immaginazione e la fantasia. La fantasia è una facoltà naturale, non c’è biso-gno che essa sia messa da parte, ha bisogno soltanto di essere purificata come tutte le altre facoltà dell’anima. E la fantasia non viene cer-tamente purificata per il fatto che non viene usata, ma facendosi determinare sempre più da contenuti puri e santi. Qui l’icona gioca in questo ruolo importante. Rivolgere frequente-mente lo sguardo alle sante immagini purifica l’immaginazione così come il frequente ascolto della Parola di Dio: «Imprimi Cristo [...] nel tuo cuore, là dove egli [già] abita; sia che tu legga un libro su di lui o che tu veda in immagine, possa egli illuminare il tuo pensiero mentre tu lo conosci doppiamente sulle due vie della percezione sensibile. Così tu vedrai con gli occhi ciò che tu hai appreso mediante la parola.

L’intero essere di colui che ode e vede in que-sto modo sarà riempito della lode di Dio». Nel-la Chiesa non vi sono cristiani “semplici”, che non possono rinunciare alle icone perché anco-ra inclini “carnalmente” e i “perfetti”, che non hanno più necessità di questi sostegni. Teodoro rimprovera decisamente questa «stolta separa-zione in due gruppi disuguali», che non ha spazio nell’unico, sacerdotale e regale popolo di Dio. In opposizione a un vescovo a noi igno-to, che afferma l’utilità delle icone solo per il “popolo primitivo”, ma che dichiara di non avere necessità per sé, Teodoro scrive: «Egli sarà anche perfetto, sarà anche rivestito della dignità vescovile, pur tuttavia egli ha ancora bisogno del libro del vangelo e allo stesso mo-do della sua rappresentazione in immagini. Entrambi infatti sono ugualmente degni di venerazione».

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 Cfr. Lactantius, Divinarum Institutionum, II, 2 (PL 6, 258-262) 2 Cfr. Arnobius, Disputationum adversus gentes, VI, 17 (PL 1199-1210) 3 Basilius Magnus Caesareae, Homilia in Barlaam martyrem (PG 31, 488-489) 4 Gregorius Nyssenus, De S. Theodoro Martyre (PG 46, 757) 5 Cfr. Idem, De Deitate Fili et Spiritus Sancti (PG 46, 572) 6 Cfr. Idem, Homilia XII, In laudem S. Euphemiæ (PG 40, 336-337) 7 Cfr. Nilus, Epistolarum Lib. IV (PG 79, 577) 8 Cfr. Paulinus Nolanus, Epistola XXXII (PL 61, 330-343) 9 Cfr. Gregorius Magnus, Epistolarum Lib. IX (PL 77, 949) 10 Cfr. S. Gero, Hypatios of Ephesus on the Cult of Images, in Christianity, Judaism and other Greco-Roman Cults. Studies for M. Smith, a cura di J. Neusner, Leiden 1975, II, pp. 208ss 11 C. Schönborn, L’icona di Cristo. Fondamenti teologici, Cinisello Balsamo (MI), p.161 12 Epistolarum, XXXVI (PG 99, 1220) 13 Refutatio (PG 99, 456) 14 Epistolarum, XXXVI (PG 99, 1213) 15 Epistolarum, CLXXI (PG 99, 1537) 16 Ibidem

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«Ogni sventura sopportai innocente... Agli dèi così piacque»: con queste parole, nell’Edipo a Colono (vv. 962-964), il tragediografo Sofocle (V sec. a.C.) sintetizzava la vicenda di un perso-naggio, Edipo appunto, che è un po’ l’icona dell’uomo, di tutti i tempi, che soffre e che in fondo non comprende perché, e che però, giu-sto e pio, si rimette alla volontà di Dio, a una volontà più alta, inaccessibile, ma che è comun-que una volontà di giustizia e di bene. Come il biblico Giobbe, che, provato dalla sventura, e sentendosi innocente, sentenzia: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1,21). Come il Servo di Jah-veh, di cui Isaia profetizza: «Al Signore piac-que prostrarlo con dolori... si è addossato le

iniquità di noi tutti» (Is 53, 10-11); sia Giobbe che il Servo di Jahveh sono poi stati proposti, lo sappiamo, come figura di Cristo, il giusto sofferente, l’Agnello di Dio che porta il peccato del mondo (Gv 1, 29). Sarebbe suggestivo indagare se Sofocle cono-scesse Isaia (il secondo Isaia, VI sec.) o il libro di Giobbe (V sec.), magari attraverso la cultura microasiatica o egizia. Ma forse è preferibile seguire un’altra strada, quella indicata da Si-mone Weil in La Grecia e le intuizioni precristia-ne, (Borla, Roma 1999), dove individua, analiz-zando dei testi letterari, numerose e interessan-ti analogie tra la sapienza biblica e cristiana e quella greca. È, peraltro, la stessa strada segui-ta dai Padri della Chiesa, che nella sapienza greca, nei poeti, nei filosofi, nella letteratura in genere, hanno cercato il lògos spermatikòs, la sapienza disseminata, i ‘semi del Verbo’, la presenza di pensieri e parole, di aspirazioni e desideri profondi, di intuizioni e attese dettate dallo Spirito già prima di Cristo. Uomini di grande sapienza e di retta coscienza hanno ‘visto il giorno di Cristo’, come Gesù dice di Abramo («Abramo vide il mio giorno ed esultò», Gv 8,56). Personaggi come Sofocle, Socrate, Platone e tanti altri, non meno di Isaia e di tanti altri profeti biblici, hanno potuto ve-derlo alla luce di quella sapienza, di quel lògos che «era in principio» e «per mezzo del quale tutto fu fatto» (Gv 1,1.3), di quel lògos che Dio ha posto in ogni uomo all’atto della creazione, facendolo «a sua immagine» (Gen 1,27). Se tutta la creazione porta il segno della sapienza creatrice di Dio (cfr. Pr 8,22-29; Rm 1,19-20), quanto più l’uomo. Per restare a Sofocle, un altro suo personaggio, questa volta femminile, Antigone, nella trage-dia omonima, afferma che bisogna obbedire alla legge divina, prima che a quella degli uo-

Bibbia e letteratura

* Docente di Latino e Greco biblico – Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘Odegitria’ – Bari

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di Giuseppe Micunco *

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mini: una legge «non scritta», che gli dèi da sempre hanno posto nella coscienza degli uo-mini, quella che poi abbiamo chiamato la ‘legge naturale’, perché iscritta dal Creatore nella natura stessa dell’uomo, «che è scritta nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza», direbbe l’apostolo Paolo (Rm 2,15). «Bisogna obbedire a Dio prima an-cora che agli uomini»: lo dice Antigone (Ant. 452-457) a un tiranno che pretendeva di essere lui fonte assoluta del diritto, anche contro le leggi divine; lo dice Socrate ai giudici che lo hanno condannato a morte e che sono disposti a salvarlo a condizione che rinunzi alla missio-ne che egli sostiene essergli stata assegnata dal dio (cfr. Platone, Apologia di Socrate, 28e-29a); lo dicono Pietro e Giovanni ai capi d’Israele che volevano impe-dire loro di an-nunziare il van-gelo (cfr. At 4,19-20; 5,29). Il card. Martini dice che il colto Luca, l’autore d e g l i A t t i , «doveva proba-bilmente cono-scere» le parole di Socrate e quelle di Antigo-ne. E non c’è da meravigliarsene. Paolo cita addirittura esplici-tamente affermazioni dalla sapienza greca, come quando, ad esempio, dice agli Ateniesi nel discorso all’Areopago: «Di Dio stirpe noi siamo, come anche alcuni dei vostri poeti han-no detto» (At 17, 28), e si riferisce al poeta filo-sofo Arato di Soli e ai suoi Fenomeni e al filoso-fo poeta Cleante di Asso e al suo Inno a Zeus, entrambi del III sec. a.C., che hanno entrambi quella espressione. Ma le citazioni per Paolo, anche non esplicite, sarebbero tante. Il rapporto Sacra Scrittura e letteratura è dun-que prima di tutto un rapporto di sapienza, di quella sapienza messa da Dio nel cuore degli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi, che fa convergere tutta la storia in Cristo, nel quale

tutto viene ‘ricapitolato’ (cfr. Ef 1,10). Ma è anche, può essere anche un rapporto di cono-scenza reciproca. Molte volte gli autori sacri mostrano di conoscere la letteratura profana. Molte volte gli autori profani mostrano di co-noscere la letteratura biblica. Un autore come Virgilio (I sec. a.C), per fare ancora un esempio, sembrerebbe conoscere il testo di Isaia (cosa non peregrina, visto che la traduzione dell’An-tico Testamento in greco, la LXX, già circolava nel mondo cosiddetto ellenistico-romano) quando nella quarta bucolica profetizza un’era nuova, una nuova età di giustizia e di pace che sarà inaugurata da un bambino e da una vergi-ne, un’età nella quale animali feroci e domesti-ci staranno tranquillamente insieme (cfr. Is 7,

14; 11,1ss.), una ‘profezia’ che ha fatto di Virgilio, nel Medioevo soprattutto, già a partire dall’im-peratore Costan-tino (IV sec. d.C.), colui che ha atteso e ‘preparato’ i nuovi tempi cristiani. Se i semi del Verbo presenti in tanti autori classici greci e latini non vengo-

no valorizzati nell’insegnamento scolastico e universitario e nella nostra cultura in genere, è solo, nella maggior parte dei casi, per ignoran-za, talvolta per malafede. È un’ignoranza pe-raltro comprensibile, visto che la Bibbia non è oggetto di studio, e non solo nelle nostre istitu-zioni scolastiche... anche le nostre comunità ecclesiali, in genere, non brillano per zelo nella conoscenza della Scrittura, di tutta la Scrittura. Tutta la letteratura medievale, invece, è piena di Sacra Scrittura, a partire dai Padri della Chiesa che non hanno fatto altro se non com-mentare la Scrittura; ma anche la teologia, gli scritti spirituali, i canti e gli inni sono pieni di Sacra Scrittura. La stessa poesia in volgare, nel Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi (XII-

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XIII sec.), nelle opere di Dante (XIII-XIV sec.), non si può comprendere a pieno senza la cono-scenza della Scrittura. E per Dante, non solo per la Divina Commedia; anche in una lirica come Tanto gentile e tanto onesta pare: Beatrice altro non è che un’allegoria della Sapienza, «venuta di cielo in terra a miracol mostra-re» (cfr. Sap 6,12ss.). La letteratura medievale (ma anche quella umanistica e rinascimentale) si è sempre con-frontata con la Scrittura, anche quando questa non è esplicitamente citata; e non parliamo delle arti figurative, che hanno in genere per soggetto figure e fatti biblici. È dopo la riforma protestante (XVI sec.) che la Bibbia viene tolta di mano al popolo di Dio. Si ripropone allora una situazione per certi versi simile a quella dei secoli prima di Cristo: la Parola di Dio emerge qua e là nelle attese e nelle aspirazioni degli uomini, nel desiderio di giustizia e di pace, nell’amore della sapienza e del bello, nel bisogno di verità. Il “passero solitario” di un autore ‘pagano’ come Leopardi, per fare un esempio, è un’immagine della Scrittura («veglio e gemo come uccello solitario sopra un tetto», Sal 102,8), utilizzata già peraltro da Pe-trarca (Canzoniere, CCCLIII); alcune espressioni leopardiane, come «è funesto a chi nasce il dì natale» (dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: Canti, XXIII, 143) rimandano ancora al libro di Giobbe («perisca il giorno in cui nac-qui...», Gb 3,2ss.), ma anche a Sofocle («meglio di tutto il non essere nati», Edipo a Colono,

1224). Anche quando poeti e scrittori sono ‘lontani’ da Dio, la loro opera è in realtà, come bene dice il poeta Ungaretti, «testimonianza d’Iddio»: «Dal Petrarca in poi, e in un modo andatosi giornalmente nei secoli aggravandosi, la poesia voleva darsi altri scopi, riuscendo, quando era poesia, ad essere religiosa, anche contro ogni sua intenzione. Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è una bestemmia» (da Ragioni d’una poesia, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori, Milano 1970, p. LXXX). Bisogna oggi tornare a fare il lavoro dei Padri della Chiesa, a cercare i semi del Lògos presenti in tanti autori, poeti, narratori, pensatori: tante volte citano, esplicitamente o implicitamente, la Scrittura, cioè la Parola che Dio ha scritto nel cuore dell’uomo, prima e più ancora che sui fogli di un libro. Si tratta di saperla riconoscere e, per far questo, di amarla, di cercarla, come la sposa del Cantico cerca lo Sposo. In questo le nostre comunità ecclesiali, oltre e più ancora che le istituzioni scolastiche, hanno una grande responsabilità educativa. Amare e cercare la Parola di Dio negli autori del nostro tempo richiede prima di tutto che mettiamo da parte noi stessi, che mettiamo il Signore e la sua parola al primo posto, e che mettiamo l’uomo al primo posto. Richiede una grande umiltà. Elsa Morante, scrittrice ‘lontana’, diremmo, dalla fede cristiana, pre-mette al suo fortunato romanzo sugli anni del-

la seconda guerra mondia-le, La storia (Einaudi, Tori-no 1974), due epigrafi, con cui vorrei chiudere queste considerazioni, una sul dolore innocente, l’altra sulla sapienza: «Non c’è parola, in nessun linguag-gio umano, capace di con-solare le cavie che non san-no il perché della loro mor-te» (un sopravvissuto di Hiroshima); «... Hai nasco-sto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai pic-coli... perché così a te piac-que» (Lc 10,21).

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Bibbia e Musica «Sono canti per me i tuoi insegnamenti»

(Sal 119,54)

* Docente di S. Scrittura - Istituto di Scienze Religiose “E. Caymari” della Pontificia Università Lateranense - Roma

Provate a mettere a confronto il cielo con un oceano. Sembrano distanti, separati. Ma qual-cosa di aereo, di imprendibile, di leggero, si interpone tra l’uno e l’altro permettendo al cielo di specchiarsi nel mare e forse anche al mare di avere una sua presenza in cielo (se potessimo vederlo). Immaginiamo qualcosa di simile tra la Bibbia e la musica e in particola-re il canto. I m u s i c i s t i hanno com-posto un oceano di composizio-ni perché il cielo della Bibbia potes-se risplende-re sulla terra e rispecchia-si nel mare. Alla ricerca di una rela-zione Ma come esprimere la loro relazione? È facile e semplicistico dire Bibbia e Musica (come po-tremmo anche dire Musica e Bibbia). Ma quella congiunzione “e” come può essere specificata? Proviamo a relazionarli precisando che in que-sta interazione Bibbia e Musica consideriamo la Bibbia un codice generativo, cioè un autore-vole testo che ha generato, messo alla luce, permesso di esistere, ha fatto nascere, ha indot-to a creare, ha permesso di…, cioè la Bibbia è riconosciuta una sorgente nella quale, della qua-le e dalla quale la musica (con i suoi canti, suo-ni, strumenti, musicisti, funzioni e finalità… ) ha trovato e trova di che comporsi ed ispirarsi.

1. La Musica nella Bibbia

«È curioso notare che in pratica non esiste nell’ebraico biblico un vocabolo specifico per definire la musica tant’è vero che l’ebraico mo-derno ricorre alla trascrizione mûsîqah del no-stro “musica”. I vocaboli musicali sono squisi-tamente sacrali e liturgici. Si comprende, allo-ra, come l’orizzonte musicale liturgico sia vasto

e quasi onni-comprensivo e come il musico o il cantore deb-ba essere un uomo consa-crato, ispira-to, profetico e sacerdota-le». Né la Bibbia ha una pro-pria teoria musicale. Gli uomini della Bibbia prati-cano le con-

cezioni/prassi musicali del loro tempo e del loro territorio nella misura in cui non siano idolatriche e permettano di cantare e ‘suonare’ le lodi al Signore. L’espressione “Lodate il Si-gnore” (halelûyāh) risuona nel Salmo 150 come incipit di pentagrammi poetici e musicali in cui gli strumenti dell’orchestra del Tempio sono invitati ad esprimere con la voce del loro suono il riconoscimento di lode al Signore (JHWH-’Adōnāy). 2. La Musica della Bibbia «Il canto non si limita, […] ad essere un modo di pronunciare la Tôrāh; nel canto si rivela l’anima della Scrittura; il canto interpreta la

di Pasquale Troìa *

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Tôrāh; ne scopre ogni volta lo spirito. Nel can-to vocalico il cantore-esegeta rivela lo spiritus della Tôrāh; la sua voce si trasforma in questo spiritus». Nella liturgia ebraica e cristiana il testo biblico è interpretato con il canto. Il canto e la musica cioè non sono soltanto contenitori di parole del testo biblico ma rinnovata riscoperta dell’ispi-razione che oggi quel testo suscita in quel letto-re-cantore-compositore e che l’assemblea rin-nova e liturgicamente attualizza. La stessa Bibbia è considerata uno strumento musicale ac-cordato, una partitura sinfonica ed un concerto armonico: «Tutta la Scrittura è come uno strumento a corde: come una corda non genera armonia da sola ma con le altre, così una citazione della Scrittura è in relazione con un’altra, per cui una citazione è correlata a mille altre» (san Bonaventura da Bagnoregio) «affinché l’armonia musicale possa risultare non solo dalla vibrazione delle corde, ma an-che dalla loro risonanza» (Ugo di san Vittore); «i due Testamenti che compongono l’unica Scrittura, fanno con la loro concordia un unico concerto» (Henri de Lubac). 3. La Musica (e il canto ispirato) dalla Bibbia

Qui la relazione Bibbia vs Musica è precisata non tanto dalla provenienza generativa della Musica dalla Bibbia ma soprattutto dalla quali-tà di questa prove-nienza. Quella Musica che si relaziona con la Bibbia ne assume an-che la sua qualità im-prescindibile: il canto-re e il musicista sono ispirati nel cantare e nel comporre musical-mente parole-voce-suoni. Sono ispirati non come l’agiografo, ma in proporzione e in analogia alla ispirazio-ne dell’agiografo nel suo tempo di redazio-ne del testo biblico. E se il musicista non è credente? La Bibbia come ogni testo lette-rario gli riserva una

potenzialità ispirativa e generativa di creativi-tà. Potenzialità ispirativa che nel musicista credente si rinnova e si effonde nella sua espe-rienza di fede e di fedeltà alla Parola di Dio di cui il testo biblico è ‘incarnazione’ e la liturgia memoria salvifica. Bach, ma anche musicisti come Haydn, termina spesso di scrivere le sue note con la ‘sigla’ «S(oli) D(eo) G(loria)». Al di là del ‘mistero’ ispirativo che Dio riserva ad ogni suo ‘lettore’, credente e non credente, perché solo Lui conosce il cuore degli uomini. Certo, se per il musicista credente la Bibbia è il testo della Parola di Dio ispirante la sua musi-ca, per il non credente la Bibbia è un pretesto letterario, culturale, vocale, strumentale, ico-nografico… riconosciuto (verbo di fede cultu-rale!) il migliore (per diversi motivi non ultimo quelli esistenziali e personali) per poter com-porsi con il suo canto e la sua composizione e permettergli di comunicare con gli uomini se-condo un suo progetto di vita culturale e socia-le. Una Bibbia senza canto e senza musica? Cassiodoro insegnava che quando Dio vuole prendere le sue distanze dagli uomini e privar-li della Sua presenza, li priva dell’ispirazione musicale e della musica stessa. La riflessione di Cassiodoro si può documentare e constatare

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ogni qual volta nella storia della salvezza il popolo di Dio si disarmonizza, si scompone ed infrange la sua relazione di fedeltà con Dio come quando una partitura musicale di una sinfonia non è interpretata secondo il suo com-positore, ma secondo l’arbitrio, l’improfessio-nalità, l’infedeltà esecutiva di un direttore e degli esecutori (strumentisti e cantanti). Ecco come la Bibbia descrive musicalmente questa disalleanza, dis-accordo ed infedeltà con Dio: «È cessata la gioia dei timpani […] / è cessata la gioia della cetra. / Non si beve più il vino tra i canti» (Is 24,8-9). «I giovani hanno disertato i loro strumenti a corda. / La gioia si è spenta nei nostri cuori, / si è mutata in lutto la nostra danza» (Lam 5,14-15); «Farò cessare lo strepito delle tue canzoni / e non si udrà più il suono delle tue cetre» (Ez 26,13); «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, / abbiamo cantato un lamento / e non vi siete battuti il petto! » (Mt 11,17). «La voce dei suonatori di cetra dei musicisti il flauto di chi canta e la tromba non si udrà più in te […] la voce dello sposo e della sposa non si udrà più in te» (Ap 18,22.23). Impariamo a cantare la Bibbia Queste parole sono un monito per come canta-re durante la liturgia, per come proclamiamo la

parola di Dio nella liturgia della Parola e come preghia-mo la stessa Parola di Dio e la interpretiamo e attualizziamo n e l l ’ o m e l i a : spesso il tutto è tra il monòtono e il monotòno, tra un alleluia che sembra una lamentazione e non un giubilo di lode, tra una d i l a t a z i o n e calante e quasi ‘varicosa’ che non giustifica il testo e non lo

rende comprensibile e un’accidia per abbre-viarlo ed estinguerlo nella nostra lentezza. Un’esperienza particolare di dare voce al testo biblico è quella dei catechisti e dei docenti di Religione: la voce e la sua gestione comunicati-va in tutte le funzioni del suo lignaggio condi-zionerà l’ascolto e la stessa comprensione. Per cui prima di ‘leggere’ un testo biblico bisogna imparare a leggerlo, a studiarlo, a pregarlo, a farsene un cielo sotto il quale abitare ed un oceano in cui cominciare ad imparare a nuota-re. Per non vivere una vita ‘s-tonata’ e in dis-accordo con Dio e con gli uomini. Ma anche per fare della nostra vita un canto personale e corale: «Intonerò canti soavi e intesserò inni perché la mia persona anela a Te».

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 G. Ravasi, “Cantate con arte”. Il teologico e il musicale nella Bibbia, in P. Troìa (ed.), La Musica e la Bibbia. Atti del Convegno Internazionale di Studi promosso da Biblia e dall’Accademia Mu-sicale Chigiana (Siena 24-26 agosto 1990), Gara-mond, Roma 1992, p. 94 2 M. Cacciari, Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985, p. 159

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«Ama la verità; mostrati qual sei, e senza infin-gimenti, e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se il tormento, e tu sopportalo. E se per la veri-tà dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio». Era questo l’insegna-mento di un uomo di tempi non troppo lonta-ni, san Giuseppe Moscati, medico, in una lette-ra ad un collega più giovane, scritta nel 1922. È una figura molto nota, a noi vicina, canonizza-to nel 1987 da Giovanni Paolo II. Ed è interes-sante constatare come questo santo sia entrato molto rapidamente nella devozione popolare, lui, primario ospedaliero e professore universi-tario, e quindi immediatamente percepito co-me uomo di scienza e di grande levatura cultu-

rale e sociale, ma al contempo capace di grande umanità e vicinanza al mondo della sofferenza e del dolore. È un po’ il quid della professione del medi-co, di un cristiano che faccia il medico e di un medico che si professi e testimoni il suo essere cristiano. Uomo di scienza, che tratta sul piano scientifico, con il giusto e necessa-rio rigore dell’osservazione, della sperimen-tazione, della valutazione del risultato, ma uomo che è necessariamente vicino al mon-do del malato, e quindi di un altro essere umano che vive la sofferenza, la difficoltà, l’incertezza del futuro, che chiede di essere ascoltato. «Ama la verità e mostrarti qual sei», è un invito che non è specifico alla professione di un medico, ma dovrebbe essere un proponi-mento in chiunque, qualsiasi professione eserciti, nella convinzione che la ricerca del-la verità e, soprattutto, l’amore per la verità è un valore imprescindibile per tutti coloro che operano nel campo delle scienze e delle relazioni fra gli uomini, con la consapevo-

lezza che intraprendere la strada della ricerca della verità non è mai un percorso indolore, ma una via che costa sacrificio e quasi sempre per-secuzione, laddove si ledono degli interessi di altri o laddove si devono forzare delle sensibi-lità assopite. L’esercizio della professione di medico è rico-nosciuta ed apprezzata da sempre e dappertut-to. Già dal IV secolo a.C. ci è tramandato il giuramento di Ippocrate che, nelle linee gene-rali, definisce compiutamente i cardini dell’eti-ca medica: « ... Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se ri-chiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un

Bibbia e professione medica

* Medico di base

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di Nicola Stufano *

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tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte ... In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sol-lievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario … Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili». La Bibbia, nel libro del Siracide, si esprime diffusamente sulla figura del medico, ed esor-disce: «Onora il medico come si deve secondo il bisogno, anch’egli è stato creato dal Signore. Dall’Altissimo viene la guarigione, anche dal re egli riceve doni. La scienza del medi-co lo fa procedere a testa alta, egli è am-mirato anche tra i grandi» (Sir 38,1-3). L’ammirazione per la professione del medico non è mai venuta meno, in qualsiasi tempo ed in qualsiasi civiltà e, nonostante tutta l’attualità circa i presunti o reali casi di malasanità, regge ancora alla nostra epoca, tempo in cui i valori vacillano e al loro posto sembra regnare l’incertezza e la relativi-tà; e si percepisce in modo evidente anche tra i giovani, ne è prova l’alto numero di ragazzi che ogni anno sostiene i test per l’ammissione alla Facoltà di Medicina, laddove la professio-ne del medico è vista senz’altro come una pro-spettiva di tranquillità economica, ma comun-que come un lavoro degno ed onorevole per il quale vale la pena affrontare uno studio inten-so e più duraturo degli altri. Il Siracide ci insegna che «dall’Altissimo viene la guarigione», e sembra quasi togliere al medi-co parte del merito del suo lavoro che pure apprezza, ma riporta le cose alla loro sostanza: «Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il

Signore ed egli ti guarirà» (Sir 38,9). La pratica della medicina, ove portata avanti con onestà, non può non riconoscere che nella guarigione dalla malattia vi è una componente che sfugge spesso alle normali attese, e che mai è possibile considerare il malato come un puro organismo, nel quale le diagnosi, le terapie e le prognosi si realizzano come una operazione matematica, e cioè con una totale certezza dei percorsi e dei risultati finali. In medicina si possono prevede-re risultati tutt’al più con alto margine di pro-babilità, e quasi mai con certezza assoluta. Quante volte il medico è richiesto di certezze, e quante volte è costretto a rispondere solo in

termini di probabilità! Il professionista creden-te non ha difficoltà ad affidare alle mani di Dio le incertezze e i limiti del suo operato, il non credente li valuterà in termini di mera casuali-tà. Ma lo stesso Siracide mette in guardia da un rapporto con la salute e la medicina che sia disattento e senza fiducia, nei confronti di colo-ro che vivono all’insegna del “se deve succede-re, succeda”, invitando a riconoscere alla scien-za il suo giusto valore, nell’ordine delle cose create e volute dal Signore: «Il Signore ha crea-to medicamenti dalla terra, l’uomo assennato non li disprezza… Dio ha dato agli uomini la scienza perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie. Con esse il medico cura ed elimina

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il dolore e il farmacista prepara le miscele. Non verranno meno le sue opere! Da lui proviene il benessere sulla terra». (Sir 38,4-8) È, questo, un richiamo a chiunque ad un cor-retto rapporto con la propria salute, ad un ri-spetto del proprio corpo e della sua fisiologia, a non pretendere dalla medicina traguardi che questa non può garantire, a non pretendere l’eterna giovinezza con tecniche che si propon-gano di sfidare i normali processi di invecchia-mento, e non mi riferisco solo all’estetica. L’invito è a saper valorizzare i progressi della scienza nell’ambito di un’etica che non ceda il posto ad una pretesa onnipotenza. La forte tentazione del nostro tempo è quella di perse-guire tutto ciò che è tecnicamente realizzabile (mi riferisco in particolare agli studi di mani-polazione genetica) e presentarlo come una conquista del progresso, prescindendo da una visione globale dell’uomo, come dotato non solo di un corpo che risponde a leggi biologi-che, ma di una capacità razionale, di una cultu-ra, di una sensibilità, di una affettività, di una

vita di relazione. L’altro elemento imprescindibile è il confronto con la vecchiaia e con la morte: la cultura mo-derna tende a nascondere l’una, relegandola agli angoli più remoti delle nostre case e delle nostre città, e a negare l’altra, dimenticando che tutti ci passeremo, o al massimo a conside-rare malaugurio ogni riferimento alla morte. La medicina, per quanto possa progredire, per quanto possa contribuire con il miglioramento delle condizioni di salute ad allungare l’aspet-tativa di vita, che ad oggi in Italia (uno dei pae-si più longevi del mondo) ha raggiunto settan-tanove anni per gli uomini e ottantaquattro anni per le donne, non può comunque evitare di accettare quello che aspetta ognuno di noi, e cioè il processo di invecchiamento e di corru-zione del nostro corpo nella età anziana, e di imparare a guardare all’idea della morte senza voltare la testa da un’altra parte, con la convin-zione, cristiana, che quaggiù siamo di passag-gio in un cammino che non si esaurisce e non finisce con la fine della vita terrena.

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Vivere la Bibbia in famiglia

* Genitori

Scriveva Paul Claudel: «I cattolici mo-strano grande rispetto per la Bibbia e que-sto rispetto lo attestano standone il più lontano possibile». Infatti, dob-biamo am-mettere che per molto tempo non vi è stata una grande confi-denza con la sacra Scrittu-ra. La sua lettura da parte dei fedeli è stata riscoperta e promossa a partire dalle indicazio-ni del concilio Vaticano II (DV 22.26), ed anco-ra ai nostri giorni non sono rare le iniziative “una Bibbia in ogni famiglia” per colmare un vuoto nelle case di molti cattolici. Ma, da quando i cattolici sono stati invitati a leggere la Bibbia, in larga parte non sono stati più interessati a farlo, anche a causa del forte processo di scristianizzazione che ha interessa-to la nostra società negli ultimi decenni. Il Papa ha rivolto ai giovani riunitisi a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù un forte richiamo: «Rimanete radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede» (cfr. Col 2,7). L’essere radicati nella fede non può prescindere dal rapporto diretto con la sacra Scrittura, e questo forte richiamo costituisce anche il punto di forza di ogni famiglia che vuole vivere in mo-do ordinario ed efficace la propria esperienza

di fede nella Chiesa. Radicarsi nel Signore significa che come alberi dobbiamo piantare le radici della nostra vita nella Parola di Dio. Infatti, «non basta possede-re la Bibbia, bisogna anche leggerla; non basta leggerla, bisogna anche comprenderla e medi-tarla; non basta comprenderla e meditarla, bisogna anche viverla» (G. Ravasi). Il nostro essere laici cattolici, che hanno costi-tuito famiglie confidando nel particolare dono che lo Spirito Santo elargisce nel sacramento del matrimonio, purtroppo non ci mette auto-maticamente al riparo dalle sfide e dalle tenta-zioni che ogni famiglia vive nella nostra socie-tà. I beati sposi Beltrame Quattrocchi hanno vissu-to una vita ordinaria in modo straordinario. Tra le gioie e le preoccupazioni di una famiglia nor-male, hanno saputo realizzare un’esistenza straordinariamente ricca di spiritualità.

di Gigi Di Nardi e Marina Dabbicco *

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...e proprio per questo sono stati riconosciuti dalla Chiesa “beati”. Le difficoltà di ogni giorno sono dunque la normalità, ma proprio attraverso l’ordinarietà della vita quotidiana si può raggiungere la santità. Normale è l’uragano di impegni e do-mande a cui siamo sottoposti per cercare di coltivare l’armonia coniugale e familiare ed insegnarla ai figli, per assolvere al compito di genitori e per partecipare alla vita lavorativa che ci chiede anche un impegno sociale. È nor-male lo stress, il parlare sopra le righe, il rin-correre una coerenza di vita nonostante il riso-lino dei colleghi, il comunicare vano, il fingere di non capirsi, l’essere considerati un po’ fuori da ogni realtà. Il Signore entra proprio in questa vita, la no-stra, fatta così e non pretende ciò che è oltre la nostra portata. Questa è la consolazione che ci spinge ad essere ottimisti, a rafforzarci nella fiducia in Dio, a cercare insistentemente delle modalità, anche piccolissime, che possano ma-nifestare l’amore e la misericordia che Dio ha per noi e che possano essere il veicolo perché l’amore “venga messo in circolo”. Fondata e radicata nella Parola di Dio la pianta germoglia e si manifesta con foglie verdi e sane e con buoni frutti. Nelle nostre famiglie cosa mostriamo? L’accoglienza materiale e spiritua-le è sempre stata l’affascinante modello delle famiglie cattoliche (pensiamo a Jacques e Rais-sa Maritain), e resta, al di là delle modalità specifiche di ognuno, una sicura strada da percorrere per testimoniare con la vita nelle no-stre famiglie e nella società l’amore verso Dio ed il prossi-mo. La sacra Scrittu-ra è la nostra guida propo-nendoci esempi di accoglienza, il più delle volte semplicissimi,

che possono fare delle nostre famiglie, luoghi in cui la presenza di Dio si fa visibile. Pensia-mo alle donne che si affannano nella casa di Abramo per impastare e cuocere il pane, lo stesso Abramo che corre a procurarsi la carne per accogliere i pellegrini. E poi Elia e la vedo-va, Marta e Maria. L’ospitalità aiuta gli uomini a vivere meglio nel mondo e l’ospitalità che la Bibbia ci propone serve a predisporci all’acco-glienza della Parola di Dio, attraverso l’atten-zione che poniamo al cuore delle persone che ospitiamo. Serve ad una comprensione del significato pro-fondo della vita, serve ad andare all’essenza della nostra fede, serve a svelare l’intimità del nostro cuore, anche dinanzi ai nostri figli, che avranno la possibilità di cogliere cosa motiva realmente i propri genitori nelle loro scelte e nel loro progetto educativo. Serve a riordinare la nostra casa, riposizionando gli impegni della vita quotidiana secondo una gerarchia ed un linguaggio che non vengono dalla “testimonianza” dei mass media o dal confor-mismo borghese, ma vedono al primo posto il rendimento di lode al Signore che ci ha creati. Ci piace concludere questa breve riflessione con le parole che il cardinale Tettamanzi ha rivolto alla famiglie: «Sappiate cercare nella parola di Dio la risposta ai tanti interrogativi che la vita di ogni giorno vi pone. San Paolo ci ha ricordato che “tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, corregge-

re e formare alla giustizia” (2 Tm 3,16). Sorretti dalla forza di questa parola, potrete insieme insistere con i figli “in ogni occasione op-portuna e non o p p o r t u n a ” , a m m on en d ol i ed esortandoli “con ogni ma-gnanimità e dot-trina” (2 Tm 4,2)».

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Bibbia e giovani

* Docente di Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana - Roma

La monumentale e preziosa indagine sul rap-porto tra il mondo giovanile e l’universo della spiritualità e della religione, realizzata dall’Os-servatorio Socio-Religioso del Triveneto e pub-blicata in volume con il titolo C’è campo, si è pure interrogata sul legame tra i giovani e la Sacra Scrittura. Riferisce analiticamente i dati Monica Chilese, nel settimo capi-tolo del volume, tutto dedicato alle pratiche religiose delle nuove genera-zioni e posto sotto il titolo Tra obbligo e persona-lizzazione, men-tre fornisce una lettura sintetica e prospettica degli stessi dati il cu-ratore dell’intera indagine, il pro-fessor Alessandro Castegnaro, nelle pagine conclusive del testo. Le parole di Castegnaro sono di una tale chia-rezza che meritano di essere ascoltate e medita-te assai attentamente: «C’è bisogno che si svi-luppino rapporti di fiducia negli “uomini che fanno la Chiesa”, come li chiamano i giovani intervistati, anche per un’altra ragione: senza di ciò non si recupererà un rapporto di fiducia nemmeno con l’Evangelo. Una cosa che colpi-sce, anche se può sembrare ovvia, è che il testo sacro non venga mai indicato da chi sta sul crinale dell’incertezza come una possibile via. Si parla di Chiesa, di Religione, di regole, non di Vangelo. O il Testo è assente, o viene espo-sto alle pressioni incrociate del dubbio, bana-

lizzato come se fosse un testo qualsiasi. Se c’è qualcosa che dovrebbe far meditare tutti coloro che sono impegnati nell’educazione cristiana è che pre-dicazione, catechesi, iniziazione cristiana, insegna-mento della Religione cattolica, non riescano a co-municare l’idea che esso sia un testo qualitativa-mente diverso da un libro come tanti altri. Ciò che

ha dato vita a culture e ne ha influenzate al-tre, che ha gene-rato santi e mar-tiri, ciò in cui generazioni su generazioni, per millenni, hanno creduto, oggi rischia di essere maliziosamente scrutato come frutto di banali invenzioni o, peggio, di pre-meditate falsifi-

cazioni. Manca l’idea che, quand’anche in certi suoi aspetti lo si ritenesse “leggenda”, esso è sapienza dell’umano e comprensione del divi-no. Manca perciò la curiosità di riscoprirlo, la volontà di comprenderlo, il desiderio di stu-diarlo» (corsivo mio). Dobbiamo quindi prendere atto che per la maggior parte dei nostri giovani, come nel caso di tutto ciò che riguarda l’universo della reli-gione cristiana, anche quello con la Bibbia è un rapporto difficile: non si tratta di un rapporto di pregiudiziale chiusura o di contrasto ideolo-gico. Piuttosto essi fanno fatica a coglierne la differenza rispetto ad altri testi del passato e non riescono immediatamente a collegarlo con il lavoro di crescita che sperimentano nella loro

di Armando Matteo *

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vita. Non sanno cioè a cosa serve e perché lo si dovrebbe eventualmente mettere al centro del-la propria ricerca di istruzioni per l’esistenza. In questa difficoltà, essi – a mio avviso – riflet-tono sulla loro pelle il cammino piuttosto lento, a volte tiepido, che le nostre comunità ecclesia-li hanno fatto nel recepire le grandi intuizioni e riscoperte del Concilio Vaticano II, tra le quali spicca certamente il recupero della Sacra Scrit-tura come anima della vita ordinaria di un battezzato. Se, infatti, allarghiamo per un mo-mento la nostra considerazione sulla relazione di conoscenza e di pratica di lettura della Bib-bia all’intera popolazione italiana, che come è noto si definisce cattolica all’ottantotto per cento, non troveremo purtroppo un quadro più confortante. È molto spesso di tipo tradizionale-identitario, più che di fede vissuta, il legame del nostro Paese con la fede cristiana. Ce lo conferma proprio il rapporto con la Bibbia. All’incirca tre anni fa, ed esattamente qualche mese prima dell’apertura del Sinodo sulla Pa-rola di Dio, svoltosi nell’ottobre del 2008, è stata realizzata un’indagine circa la conoscenza diffusa della Sacra Scrittura in tutto il mondo (ora nel volume Fenomeno Bibbia, a cura del vescovo Vincenzo Paglia). Dall’indagine risulta che gli italiani che conoscono gli elementi essen-ziali della Bibbia sono appena il trenta per cen-to della popolazione, mentre solo un italiano su tre dichiara di aver letto un brano biblico negli ultimi dodici mesi. Gli italiani, poi, che pur possiedono quasi tutti una Bibbia in casa, normalmente entrano in contatto con essa solo durante la partecipa-zione ai riti religiosi (che ovviamen-te riguarda con regolarità solo un terzo di loro) e la gran parte di loro non la usa quasi mai per la preghie-ra personale. In questo senso il cam-mino intravisto dal Concilio è dav-vero davanti a noi. D’altro canto, nell’esortazione postsinodale Ver-bum Domini, Benedetto XVI più vol-te ha richiamato l’urgenza che i cre-denti – e proprio i credenti delle regioni di antica evangelizzazione – acquisiscano maggiore familiarità con il testo sacro. E sembra che questa sia una consi-

derazione condivisa da molti, se è vero, come la stessa indagine fin qui citata ci rivela, che una percentuale altissima di intervistati si di-chiara favorevole all’inserimento di un inse-gnamento biblico all’interno dei programmi scolastici obbligatori, indipendentemente dall’ora di Religione cattolica. Emerge, in que-sto dato, la consapevolezza di un debito verso le generazioni più giovani: la Bibbia, infatti, con-tiene una grammatica essenziale dell’umano, capace di indirizzarlo al suo pieno compimen-to e di tenerlo saggiamente lontano da tutto ciò che contribuisce a sminuirne la dignità e la bellezza. Questa grammatica, custodita nelle pagine bibliche, deve oggi venire rimessa mag-giormente in circolo. Ed è un compito che non può essere demanda-to solo alla scuola: investe, in verità, ogni adul-to credente seriamente interessato all’avvenire delle generazioni future. Non a caso il cardina-le Carlo Maria Martini conclude il suo bellissi-mo testo, quasi un testamento, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, con un brano che merita di essere attentamente interiorizzato da ogni adulto: «Consegna ai tuoi figli un mondo che non sia rovinato. Fa’ sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggila insieme a loro. Abbi pro-fonda fiducia nei giovani, essi risolveranno i problemi. Non dimenticare di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta più di ogni altra cosa».

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Quando racconto la Bibbia ai bambini

* Docente di Religione cattolica – XII C.D. “R. Bonghi” - Bari S. Spirito

Dopo aver letto articoli riguardanti la narrazio-ne della Bibbia e i metodi d’insegnamento, ho capito che il mio contributo deve essere essen-ziale, semplice, diretto, senza citare le teorie che pure sostengono il lavoro dell’insegnante

che narra la Bibbia e la utilizza per la cultura, ma non dimentica che è parola di Dio. La mia esperienza è semplice come i bambini… Mi pongo questa domanda dal mio primo giorno di scuola come inse-gnante di Religio-ne: “Come avrei voluto fosse la mia maestra?” e la ri-sposta è subito chiara: sorridente, così da non aver timore, dolce, ma decisa, che mi aiu-tasse a capire il mondo e la vita, quelle che i grandi chiamano discipli-ne, come fossero un racconto. Perciò quando entro in classe non dimenti-co di essere stata una bambina, ma quando mi siedo accanto a loro per raccontare la Bib-bia, non dimentico

di essere un’adulta che si lascia prendere la mano, ma deve condurre alla più bella lezione che la vita ci offre: la Bibbia. Quello che più mi tormentava nei primi anni d’insegnamento, era la consapevolezza che il

di Laura Masellis *

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nostro tempo è il tempo della comunicazione. Siamo letteralmente bombardati da immagini, suoni, messaggi… tutti hanno qualcosa da dire, da scrivere, ma pochi ascoltano l’altro. Tutto cerca di carpire la nostra attenzione, interesse, tutto scorre veloce, i nostri pensieri, parole, emozioni e persino i nostri sentimenti. E loro? I nostri bambini, figli di questo tempo, come catturarli dal frastuono nel quale vivono? Ho imparato con loro a lasciare dietro la porta chiusa, un mondo fatto di orari da seguire, prove da somministrare, disegni da colorare… la porta si chiude e siamo solo noi, in cerchio piccoli e grandi e al centro la Bibbia. …E se come i bambini sanno è Parola di Dio, Dio parla sottovoce e se vuoi ascoltarlo devi fare silenzio… Così il racconto a viva voce fatto nel silenzio, diventa un momento essenziale della lezione, diventa in realtà narrazione di tutta la Scrittu-ra. Gli alunni a questo punto, seduti in cerchio, disposti all’ascolto cercano nei tuoi movimenti e sguardi le prime parole che vengono quasi sussurrate con «in principio», così inizia questa storia. Non è una poesia, non è qualcosa di magico, ma stanno solo cercando di capire la

loro storia, da dove ha inizio. Le immagini si susseguono dinanzi ai loro oc-chi, mentre racconti, puoi aiutarli a meglio sviluppare la loro fantasia, lasciandoli immagi-nare di essere lì in quel preciso momento, po-tranno così entrare nella storia, ma non una storia lontana e insignificante per l’uomo e il bambino di oggi, ma la loro storia, potranno facilmente entrare a far parte di quel mondo. I personaggi lo aiutano a capire la storia di Abramo, l’uomo della fede, Mosè, l’uomo della promessa, Giobbe, l’uomo della prova e tutto è riconducibile a chi racconta e al piccolo che per la prima volta ascolta. L’ascolto diventa un ascolto attivo, che permet-te al bambino di essere protagonista della sto-ria, come se il testo si andasse componendo sotto i suoi occhi curiosi e attenti. In fondo quella storia riguarda proprio lui. È parte della cultura ed ora comincia a leggerne i segni ed i significati aggiungendone dei nuovi, i suoi. Pochi spiegano ai bambini che la storia della Bibbia non racconta qualcosa di antico, vec-chio, ormai inutile, di un altro tempo, ma la storia di un uomo che cerca Dio, lo tradisce, soffre, ama, vive, si interroga, fa del bene e del male, esattamente come noi. Siamo noi l’Abra-

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mo di oggi a cui Dio chiede di fidarsi e mettersi in cammino. Dopo il racconto e la spiegazione gradatamen-te si lascia spazio alla drammatizzazione, che è un altro modo di raccontare, che utilizza un canale diverso dall’uditivo, il cinestetico. Così il nostro fortunato Francesco diventerà Abra-mo, e Nicole Sara, protagonisti e attori, trovere-mo spazio per tutti con un po’ di fantasia e sembrerà di giocare, ma giocare per i bambini è una cosa seria. Non dimenticheranno questa esperienza per tutta la vita, così potranno en-trare nella storia della Bibbia e farla diventare per un po’ la loro storia. Mentre racconti o narri a viva voce poi, utilizzi una potente risorsa, che è la relazione affettiva che si crea, dove la modulazione reciproca che passa attraverso il momento non verbale dal narratore all’ascoltatore, è un movimento circo-lare che richiede un feed-back, che è apertura agli altri, rispetto, impegno, sacrificio. Talvolta i bambini ti chiedono di ricominciare a raccontare, non bisogna stancarsi, ricordare in questa fase tutti i canali dell’apprendimento (visivo, uditivo, cinestesico) aiuterà tutti e ognuno a facilitare l’apprendimento, perciò il

disegno sarà solo libero o facoltativo, come il rac-conto degli stessi alun-ni, o la drammatiz-zazione. L’insegnante non può s o t t r a r s i all’impegno di narrare e deve prepa-rarsi leggen-do, docu-mentandosi, t e n e n d o s i pronto alle r i c h i e s t e , alle doman-de che il narrare pro-

vocherà. In fondo i bambini sono cambiati tanto, perché noi adulti li abbiamo cambiati. Loro vorrebbe-ro ascoltare i racconti biblici se ancora qualcu-no fosse disposto a lasciare tutto fuori la porta e farsi un piccolo spazio fra di loro. Loro vorrebbero ancora vedere quel Gesù loro amico che li ascolta, li aiuta, li guarisce, li ama. Loro nella loro semplicità e pazienza con noi adulti cercano quel Gesù che la mia cultura mi ha trasmesso a viva voce dai nonni prima e dai genitori poi. La Bibbia portata in classe, ogni giorno, dall’in-segnante di Religione, per loro che vedono aprirla, leggerla, studiarla, diventa un libro affascinante, desiderato, instancabile. Spesso la cercano in casa e talvolta la chiedono ai loro genitori come dono, nasce in loro il desiderio di cominciare a leggerla. Non ho mai avuto la pretesa di insegnare tutto ai miei alunni, ma ho sempre cercato di far nascere in loro la curiosità sul fatto religioso. Ognuno poi leggerà, studierà, sceglierà la sua strada, consapevolmente. Sono certa che la conoscenza della Bibbia li renderà liberi.

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Non solo Dio parla attraverso la bellezza silen-ziosa dei suoi cieli, ma soprattutto dove tu attendi il silenzio. Per Heidegger tu sei la senti-nella della silenziosa quiete del transitare di Dio. Come Elia sul monte Oreb fu trafitto nel cuore dalla voce della brezza silenziosa, così oggi Dio ti parla nel silenzio di una Parola sus-surrata al cuore. Tu, mendicante del cielo, non aver paura di abitare il silenzio perché lì trove-rai tutte le parole, quelle forti del dolore e quel-le fragili dei sorrisi. Non aver paura di farti abitare dal Silenzio, perché solo allora la Parola sarà feconda. Memoria delle coordinate invisi-bili della tua vita, la Parola è la porta del Silen-zio di Dio. Nell’esodo travagliato della fede, Tu sei parola d’amore non solo pronunziata ma scritta nella mia carne. «Allora Tu sarai

l’ultima parola, l’unica che rimane e non si dimentica mai. Allora, quando nella morte tutto tacerà e io avrò finito di imparare e di soffrire, comincerà il grande silenzio, entro il quale risuonerai Tu solo, Verbo di eternità in eternità. Allora saranno ammutolite tutte le parole umane; essere e sapere, conoscere e spe-rimentare saranno divenuti la stessa cosa. Co-noscerò come sono conosciuto, intuirò quanto Tu mi avrai già detto da sempre: Te stesso. Nessuna parola umana e nessun concetto starà tra me e Te. Tu stesso sarai l’unica parola di giubilo dell’amore e della vita, che ricolma tutti gli spazi dell’anima» (K. Rahner, Tu sei il silen-zio, Queriniana, Brescia 1986). Tu ed io, silen-zio e parola.

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La parola di Dio è vivente (Eb 4, 12)

L’angolo della spiritualità a cura di

don Valentino Campanella

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L. Perla, Didattica dell’implicito. Ciò che l’insegnante non sa (Collana Ricerca Didattica), La Scuola, Brescia 2010, € 17,00

Un percorso in quattro tappe in cui ogni sequenza, ogni frase, ogni parola è pesata ed ha un peso spe-cifico (si guardi la ricca bibliogra-

fia di settore che si insinua nelle trame del testo: ben cinquecentoquarantaquattro riferimenti) e sapientemente si combinano a intrecciare un testo complesso e al contempo elegante, raffina-to, intelligente. «Caro Signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il mio cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande, che non ho né cercato né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo inse-gnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Non sopravvaluto questo gesto di onore. Ma è almeno un’occasione per dirle che cosa lei è stato, e continua a essere, per me, e per assicu-rarle che i suoi sforzi, il suo lavoro e la sua generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che, nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo. L’abbraccio con tutte le mie forze, Albert Camus». Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. A testimonianza che l’incontro con un insegnante lascia traccia, sem-pre, buono o cattivo, significativo o deludente che sia stato il rapporto con lui. L’insegnante (in signum) è colui che fa entrare nel segno, fa pene-trare la realtà, che è segno e rimanda ad altro e ad un oltre. Ma il suo modo di essere, di stare, di agire nella classe donde scaturiscono? Sì, certo, la sua azione attinge al sapere teorico, quello imparato sui banchi di scuola, nelle aule dell’u-niversità, ai corsi di aggiornamento o durante master e lungo percorsi di specializzazione; l’in-segnante e il suo insegnamento, però, si caratte-

rizzano anche per l’implicito. Implicito: ciò che è contenuto in un altro, nascosto, oscuro, sottinte-so, allusivo, incarnato, insinuato, inteso, tacito, inespresso, segreto. Implicito che si estrinseca – a fianco e più della conoscenza della disciplina – nella pratica quotidiana d’insegnamento. Va precisato che l’implicito pratico, soggetto-oggetto di studio dell’Autrice, non è l’inconscio profondo di matrice psicoanalitica, ma è «quella dimensione nascosta, ineffabile, oscura della pratica di insegnamento di cui il docente sa po-co o perché non la conosce o perché non vuole rivelarla, a volte neanche a se stesso – ma che tuttavia innerva la pratica reale dall’interno ed è suscettibile di presa di coscienza, di consapevo-lizzazione, di “dicibilità”». E all’implicito pone attenzione particolare la Nuova Ricerca Didatti-ca, che indaga le pratiche di insegnamento e si interroga sulle fonti di queste, le formali e – con maggiore interesse – le informali, l’implicito appunto. Le ragioni sono diverse, come quelle che muovono la ricerca della Perla. La convin-zione, anzitutto, che nell’agire dell’insegnante ci sia qualcosa che sfugge allo stesso insegnante, «c’è più di quanto sappia e possa governare, un universo di affetti, tensioni, assunti di senso comune, credenze, epistemologie ingenue, ra-gionamenti abduttivi fortemente connessi con l’immagine di sé e con l’esistenza sociale che rendono la pratica insegnativa qualcosa di mol-to diverso da un progetto ingegneristico». Poi, il desiderio di esplorare gli studi più recenti sugli impliciti dell’insegnamento. Infine, quella che a me pare la “fissazione” attuale della Studiosa, cioè il recupero del magister, del modello di inse-gnante-maestro «custode di quel rapporto fra Scuola, valori e verità che fa coltivare la scelta magistrale come un sentire profondamente in-nervato di passione e saggezza educativa». E veniamo al testo. Nella prima parte l’Autrice analizza le ricerche che hanno messo in luce aspetti delle dimensioni implicite dell’insegna-mento, dopo aver presentato in modo certosino le parole-chiave della ricerca - implicito, pratica, sapere del pratico – e averne motivato la scelta.

Sullo scaffale a cura di Anna Asimi

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Come si ricerca l’implicito della pratica, come si dà voce a qualcosa che si esplica con difficoltà? È scontato che gli strumenti della ricerca anali-tica siano inadeguati per un oggetto di studio che non si lascia afferrare con facilità. La Stu-diosa offre un impianto metodologico adatto alla peculiarità del territorio da sondare e atten-to alla “centralità” della “variabile-maestro” «offrendo un ventaglio dei possibili modi per “dar voce” agli impliciti del sapere pratico». Infine, vengono presentate delle indagini con-dotte con insegnanti di scuole primarie e secon-darie di primo e secondo grado in Puglia nel triennio 2006-2009 e con specializzandi SSIS di Bari per la formazione all’insegnamento secon-dario nell’Anno Accademico 2007-2008. Ma che senso ha illuminare ed esplicitare l’implicito delle pratiche di insegnamento? «Può avere un senso solo se le risultanze delle indagini contri-buiranno, sia pur minimamente, a far leggere sempre meglio all’insegnante il suo lavoro d’aula, ad alimentare la soggettività professio-nale nei modi qualificanti che solo l’esercizio della ricerca consente…, a far riflettere su quan-to può essere modificato per rendere l’esperien-za dello stare a scuola sempre più umana e uma-nante».

A.Caputo (a cura di), Anche noi senza la domenica non voglia-mo vivere! Un’introduzione al mistero di Cristo con e per sog-getti diversamente abili. Cate-chesi liturgico-mistagogiche sul Vangelo della Domenica (anno B), Edizioni CVS, Roma 2010, pp. 207, € 15,00

«Caro Lettore, anche solo sfogliando le pagine, ti sarai reso conto di come i protagonisti di que-sto libro […] siano persone che ‘normalmente’ non vengono ritenute capaci di pensare e scri-vere, tanto meno di scrivere un libro importan-te. Questo ci è sembrato già un buon motivo per consigliartene la lettura, ovvero il desiderio di contribuire ad eliminare i pregiudizi che ancora circolano intorno all’handicap mentale. Leggi… e ti renderai conto di come ‘davvero’ l’Autrice del libro non sia io (Annalisa)[…]. Gli Autori sono loro. E vedrai quanto sia affasci-nante entrare nel ‘loro’ mondo e imparare da

loro.[…] Nel testo troverai il resoconto delle catechesi che un gruppo di giovani (e meno giovani) del CVS ha fatto sui Vangeli della do-menica[…]. E questo ci sembra un secondo motivo per cui consigliare la lettura di questo libro: è un modo del tutto originale e affasci-nante per ‘entrare nel mistero di Gesù’: attra-verso gli occhi dei ‘semplici’, attraverso i loro disegni, le loro parole, i loro canti, i loro gesti, i loro sguardi. In questo senso, è un libro che consigliamo a chiunque, anche a chi non si interessa di dinamiche ecclesiastiche né tanto meno di formazione di soggetti disabili. È un testo che consigliamo a chi, nella Chiesa, non rimuove la domanda sul limite, sulla sofferen-za, sulla fragilità, ma la pone al centro del pro-prio essere cristiano. […] Inutile dire che sarà un testo che troveranno particolarmente inte-ressante quanti si occupano della formazione e dell’inserimento […] dei soggetti diversamente-abili. […] Annalisa C. ». Per dare un saggio dello scrigno che abbiamo tra le mani… Cari Alfredo, Anna, Fabio, Francesca, Franco, Giancarlo, Gianni, Giuseppe L., Giuseppe P., Mario, Marisa, Minguccio, Mino, Raffaella, Rosalba, Rosanna, Saverio, Sebastiano, cara Annalisa, grazie! Grazie, per averci aperto la porta, introdotti e accompagnati nel vostro cammino nel mistero attraverso l’anno liturgico. Grazie, perché ci avete mostrato, in parole e opere, il vostro mondo interiore. Grazie, perché ci avete aperto gli occhi della mente e del cuore sulla realtà della “persona”. Grazie, perché ci avete insegnato lo stile della relazione: l’accompagnamento, che è disponibili-tà all’ascolto soprattutto; la fiducia, che vuol dire credere nella persona; la considerazione, che significa trattare con dignità la persona; la rico-noscenza, che equivale a valorizzare gli elementi di forza e le capacità della persona. Grazie, perché ci avete insegnato che ogni per-sona può essere protagonista in ogni comunità se ha la possibilità di partecipare alla vita quo-tidiana, sociale, culturale, ricreativa; di espri-mere emozioni; di apprendere; di scegliere; di sperimentare nuove situazioni; di sentirsi utile. Grazie, perché ci avete donato un testo che educa chi educa. Grazie.

Sullo scaffale a cura di Anna Asimi

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T. De Mauro e D. Ianes (a cura di), Giorni di scuola. Pagine di diario di chi crede ancora, Erick-son, Gardolo (TN) 2011, pp. 140, € 15,00

La casa editrice Erickson, «che da trent’anni ha fiducia negli insegnanti, nella loro intelligen-

za e nel loro impegno», li ha cercati e ha dato loro voce per comporre queste pagine di un «diario immaginario» in cui compaiono espe-rienze, sogni, paure, soddisfazione, competen-za, passione.

I.Colozzi (a cura di), Scuola e capitale sociale. Un’indagine nelle scuole secondarie di secondo grado della Provincia di Trento, Erick-son, Gardolo (TN) 2011, pp. 245, € 18,00

Il testo, destinato a tutti gli edu-catori della scuola, presenta una

ricerca, condotta in alcune scuole secondarie di Trento, che ruota attorno al capitale sociale: cos’è, come influisce sul rendimento scolastico, quanto è presente in una stessa classe, in che misura la scuola contribuisce a farlo aumentare nelle famiglie.

A.Pellai e B. Tamborini, Perché non ci sei più? Accompagnare i bambini nell’esperienza del lutto (Collana Storie del Fantabosco), LIBRO+DVD, Rai ERI-Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 132, € 16,50

Il volume e l’episodio della Me-levisione “La sposa di Grifo”

sono un utile strumento offerto a genitori ed educatori per affiancare un bambino che af-fronta la morte di una persona cara. Il libro è diviso in quattro parti: la prima è teorica ed è incentrata sulla reazione al lutto dei bambini; la seconda e la terza propongono giochi, attivi-tà, filastrocche, libri per affrontare il tema in famiglia e a scuola; la quarta offre esperienze di gestione del lutto nella scuola primaria.

G. Stella e E. Savelli, Dislessia oggi. Prospettive di diagnosi e in-tervento in Italia dopo la Legge 170 (Collana I Mattoncini), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 93, € 10,00

I disturbi specifici di apprendi-mento (DSA) sono un fenomeno

complesso, poco conosciuto e ancor meno rico-nosciuto. La Legge 170/2010 “obbliga” a tratta-re questi disturbi, in ambito scolastico e sanita-rio, in modo appropriato. Il testo offre una definizione di DSA e in particolare di dislessia evolutiva, ne analizza il corso evolutivo, esami-na lo stato attuale della ricerca, illustra le prati-che cliniche ed educative, tocca la dislessia negli adulti e infine dà uno sguardo alle pro-spettive future.

G. Frattini, S. Melica e C. Sal-vetti, Movimento, sport ed espres-sività corporea. Percorsi per affron-tare il disagio giovanile (Collana Le Guide Erickson), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 210, € 19,50

Mancanza di fiducia, rifiuto di sé e del proprio corpo, bullismo, aggressività, demotivazione: tutte espressioni del disagio giovanile. Le Autrici affrontano i diversi pro-blemi presentando lo studio di casi specifici. Di ogni caso abbiamo la descrizione, l’inquadra-mento teorico, la presentazione dell’attività con cui è stato praticamente affrontato, l’analisi dell’attività svolta.

C. Gemma, Scrittura e memoria. La parola allo studente (Collana Egoscritture), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 244, € 22,00

L’incontro con un insegnante è sempre gravido di conseguenze; “scrivere dei propri insegnanti” consente di rivivere quell’incon-

tro e di incamminarsi in un tempo ormai lonta-no o ancora vicino all’oggi, di ripercorrere vit-torie e sconfitte, di guardare l’esperienza scola-

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Giunti in redazione a cura di Anna Asimi

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Giunti in redazione a cura di Anna Asimi

stica sotto un’altra luce. Il libro presenta una ricerca condotta dall’Autrice con studenti SSIS e di Scienze della Formazione Primaria negli anni accademici 2006-2009 sulla scrittura da parte degli stessi della propria esperienza sco-lastica. Il viaggio nella memoria degli studenti ha portato alla composizione di microscritture-biografiche, che vengono offerte al lettore as-sieme alla lettura delle stesse.

A.Calisi, Monachesimo ed icono-clastia. La partecipazione dei mona-ci al concilio di Nicea II (787), Nicholaus, Bari 2011, pp. 96, € 16,00

Il volume presenta il testo della Dissertatio ad Doctoratum

dell’Autore. La ricerca indaga il ruolo svolto dal monachesimo nella storia dell’iconoclastia e nel concilio di Nicea II. Due le parti di cui si compone: la prima presenta gli atti sinodali e si sofferma sugli interventi dei monaci presenti al concilio; la seconda delinea gli avvenimenti postconciliari che portarono alla seconda onda-ta iconoclasta.

BIBLIA, La gestualità e la Bibbia (a cura di P. Stefani), Morcellia-na, Brescia 1999, pp. 142, € 12,91

Il libro presenta gli Atti del Convegno «La gestualità e la Bibbia», tenutosi a Parma nel 1996. Il tema è posto sotto la lente d’ingrandimento di diver-

se discipline: l’esegesi dell’Antico e del Nuovo Testamento (P. De Benedetti, D. Garrone, G. Biguzzi), l’antropologia (A. Destro e M. Pesce), la liturgia (E. Kopciowski, C. Biscontin), la dan-za (E. Bartolini) e l’iconografia (G. Schianchi).

BIBLIA, Eros e Bibbia (a cura di P. Capelli), Morcelliana, Brescia 2003, pp. 182, € 16,00

Il volume presenta gli Atti del Convegno nazionale di Biblia «Mi baci con i baci di sua boc-

ca»: amore e sessualità nella Bibbia, svoltosi a Mantova nel 2001. Un viaggio nella sessualità che parte dal Vicino Oriente antico, si sofferma sui testi biblici in cui è presente la dimensione umana della sessualità – quelli che la conside-rano e celebrano quale dono divino e quelli che ne «stigmatizzano trasgressioni» e presentano «atti sessuali considerati disdicevoli» – , attra-versa la tradizione ebraica e l’ebraismo dell’e-poca ellenistica e romana, continua nel Nuovo Testamento e nel primo cristianesimo, prose-gue nel Medioevo e approda all’oggi. «Nella speranza che, nonostante le grandi tradizioni occidentali siano state e spesso siano ancora così ostili, tutti e ciascuno possiamo arrivare – o rimanere, o ritornare – all’integrazione… tra virtualità del sesso e realtà della vita, e perché sessualità e amore non siano percepiti né vissu-ti come gli estremi di un diametro, bensì come i due poli di una stessa pila».

BIBLIA – WWF, Gli animali e la Bibbia. I nostri minori fratelli (a cura di P. Stefani), (Collana Il Grande Codice, 2), Garamond, Roma 1994, pp. 134, € 10,00

Il libro raccoglie gli interventi pronunciati durante il Conve-gno nazionale di Biblia, in col-

laborazione con il WWF, «I nostri minori fratel-li: gli animali e la Bibbia», tenutosi a Spoleto nel 1993. Un commento ebraico recita: «Quando il Santo,

benedetto Egli sia, creò il primo uomo lo condusse

davanti a tutti gli alberi del giardino dell’Eden e gli

disse: “Guarda come sono piacevoli ed eccelse le mie

opere, tutto ciò che ho creato l’ho creato per te. Stai

bene attento a non guastare niente, a non trovarti a

distruggere il mio mondo. Perché se avrai creato un

guasto nessuno verrà dopo di te ad accomodare (il

danno)“». Per una visione biblica il mondo resta di

Dio…, sulle spalle dell’uomo però la gravosa re-

sponsabilità di non mandarlo in pezzi.

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Che esista Dio ed esista la causa creatrice e con-servatrice di tutte le cose, ce lo insegnano gli occhi e la legge di natura: gli occhi si accostano alle cose che si vedono e che sono perfettamen-te stabili e procedono in bell’ordine e si muovo-no e vanno, senza muovere, per dir così, la loro regolarità; la legge di natura, invece, deduce dall’ordine di tutto quello che vediamo l’esi-stenza di una causa di esso. Come, infatti, avrebbe potuto cominciare o sussistere tutto questo universo, se Dio non avesse dato la so-stanza al tutto e non lo conservasse? […] Balza ai nostri occhi il principio creatore dell’u-niverso, il principio che muove e conserva quello che ha creato, anche se non riusciamo a comprenderlo con il pensiero. […] E ciò nono-stante Dio non è nemmeno questo essere che noi ci immaginiamo e ci raffiguriamo per mez-zo del nostro ragionamento. E anche se mai riuscissimo a immaginare que-

sta sostanza, in un modo o nell’altro, come si potrebbe poi mostrarla? Chi potrebbe giungere, in questo modo, all’estremo culmine della sa-pienza? Chi è mai stato considerato degno di un dono siffatto? Chi ha mai «aperto» in tal modo «la bocca» del suo pensiero e «ha tratto lo spirito» per poter comprendere Dio per mez-zo dello spirito «che scruta e conosce tutte le cose, anche le profondità di Dio»? Così non avrebbe più bisogno di procedere oltre, perché ormai possederebbe il culmine di quello che si può desiderare, l’oggetto al quale tende tutto il comportamento e tutto il pensiero dell’uomo sublime. Che cosa mai, infatti, tu penserai che sia l’esse-re divino, se è vero che tu hai fiducia in tutte le risorse del tuo pensiero? o a che cosa ti farà salire il discorso, quando verrà messo alla pro-va, tu che sei il più bravo nella filosofia e nella teologia e ti vanti senza alcun limite? Pensi forse che sia un corpo? E allora come può esse-re la sostanza infinita, illimitata, priva di forma, intangibile e invisibile? Oppure anche queste proprietà sono corporee? È una bella pretesa la tua! Ché la natura posseduta dai corpi non si risolve in queste qualità? Che modo grossolano di ragionare! Così Dio non avrebbe niente di più di quello che abbiamo noi. Come può, in-fatti, essere adorato, se è circoscritto? O come potrà evitare la conseguenza di essere compo-sto di elementi e di decomporsi in quegli ele-menti che lo costituiscano o di dissolversi total-mente? Ché la composizione è l’inizio del con-trasto e il contrasto l’inizio della separazione; questa, a sua volta, lo è del dissolvimento, e il

Gregorio di Nazianzo Discorsi teologici. Orazione 28, 6-9

[Testo tratto da Gregorio Nazianze-no, I cinque discorsi teologici

(Traduzione introduzione e note a cura di Claudio Moreschini), Colla-na di testi patristici 58, Città Nuova Editrice, Roma 1986, pp.62-67]

a cura di Anna Asimi

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dissolvimento è qualcosa di totalmente estra-neo a Dio e alla prima sostanza. Dunque, non c’è separazione, in Dio, perché non ci sia dis-solvimento; e non c’è contrasto, perché non ci sia separazione; e non c’è composizione, per-ché non ci sia contrasto; pertanto non c’è nem-meno il corpo, perché non ci sia composizione. Il nostro ragionamento risale dalle ultime con-clusioni per ritornare ai postulati, e a questo punto si ferma. […] E se noi diremo che Dio è immateriale, allora potrebbe essere il quinto elemento, come è parso ad alcuni, che si muove di un movi-mento circolare; ebbene, sia pure qualcosa di immateriale, sia il quinto elemento e incorpo-reo, secondo l’arbitrario moto del loro ragiona-mento, secondo le loro invenzioni […]. Ma in che direzione andrà questo elemento, se lo consideriamo tra gli elementi che si muovono e si spostano? Per non parlare della violenza che deve subire il creatore, se si muoverà allo stes-so modo delle cose da lui create, e colui che muove si muoverà allo stesso modo delle cose che sono mosse (ammesso che ce lo conceda-no). Ma, a sua volta, che cosa darà il movimen-to a questo essere in movimento? E quale sarà l’essere che muove tutto l’universo? E quell’es-sere, chi lo muove? E ancora quell’altro, allo stesso modo? Si va col ragionamento all’infini-to. Dunque, come può Dio non essere affatto nel luogo, se si muove? E se i nostri avversari diranno che Dio è qual-cos’altro, e non il quinto elemento, se pensano che sia di natura angelica, come è possibile che anche gli angeli siano dei corpi? E di che natu-ra sarebbero questi corpi? E Dio quanto do-vrebbe essere superiore all’angelo, se è vero che l’angelo è suo servo! E se Dio è superiore a questi esseri, ecco che si fa strada a viva forza un assurdo sciame di corpi e un abisso di stol-tezza, che non può trovare un termine da nes-suna parte. Dunque, Dio non è un corpo. Nessuno degli uomini ispirati da Dio, infatti, ha mai detto e approvato questa affermazione, né questo di-scorso appartiene alla nostra «dimora». Non rimane altro che supporre che Dio sia incorpo-reo. Ma, nemmeno se è incorporeo, questa pe-culiarità ci fa comprendere o contiene la sua sostanza, così come non lo contengono neppu-

re i concetti di «ingenerato» e di «privo di ini-zio» e di «immutabile» e di «incorruttibile» e di tutti quelli che vengono espressi a proposito di Dio o in relazione a Dio. Che cosa deve essere, infatti, sia nella sua natura sia nella sua esisten-za, perché non abbia inizio e perché non esca da se stesso e non riceva un limite? Non rima-ne altro, dunque, che afferrare l’essere nella sua totalità, e filosofare ed esaminare partendo da questo punto, se, almeno, abbiamo «il pen-siero di Dio» e siamo perfetti nella contempla-zione. Come non è sufficiente, infatti, dire che qualcosa è un corpo o che è stato generato, se vogliamo far comprendere o manifestare che quell’essere di cui stiamo parlando è fatto in questa o in quella maniera, ma si deve dire anche quale sia il sostrato di tutte queste carat-terizzazioni, se vogliamo presentare all’ascolta-tore in modo completo e sufficiente il concetto che abbiamo nella mente (perché questo essere corporeo e generato e soggetto a corruzione può essere anche un uomo o un bue o un ca-vallo) – allo stesso modo, nemmeno a proposi-to di Dio colui che si affanna per conoscere la natura di «colui che è» non può limitarsi a dire che cosa non è, ma deve, oltre ad affermare che cosa non è, aggiungere anche quello che è, tan-to più che è più facile comprendere una cosa nel suo complesso piuttosto che escludere tutte le varie determinazioni ad una ad una. In que-sto modo, dalla ne-gazione di quello che non è e dall’affer-m a z i o n e di quello che è, si p o t r à compren-dere quel-lo che viene pen-sato.

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«L’incomparabile bellezza di Roma» riusciva a ritemprare lo spirito del padre della psica-nalisi: Sigmund Freud, in uno dei suoi viag-gi nella città eterna, quasi ogni giorno e per diverse ore si recava nella chiesa di San Pie-tro in Vincoli per contemplare il gigante di pietra, che incuteva una «calma solenne, quasi oppressiva». Alla fine era come se la statua parlasse con lui, raccontandosi. Nel 1914, sulla rivista Imago, esce il saggio Il Mo-sè di Michelangelo in cui egli espone final-mente le sue considerazioni, ricche di sor-prendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo. Qui Freud non è interessato alla psico-biografia del Buonarroti, né all’analisi della storia e della personalità del patriarca ma è teso solo a spiegare le suggestioni che la sta-tua gli suscita. Nel marzo 1505 Michelangelo accolse con entusiasmo l’invito di papa Giu-lio II della Rovere a erigere un grandioso monumento funebre, e ideò in breve tempo un imponente complesso di architettura e scultura per celebrare il trionfo della Chiesa più ancora del pontefice regnante. Il proget-to fu presto accantonato perché Giulio II era preso dai piani del Bramante per la nuova basilica di San Pietro in Vaticano, in cui avrebbe dovuto trovare collocazione la mo-numentale opera. Nel 1513, dopo la morte di Giulio II, Michelangelo firmò il secondo con-tratto per la tomba del pontefice e scolpì, nello spazio di tre anni, lo Schiavo ribelle, lo Schiavo morente (Parigi, Louvre) e il Mosè che esprimeva, con tormentosa energia, ideali di grandezza morale. Ma neppure

questo progetto fu realizzato, e solo nel 1545 l’ultima versione del monumento, pallido riflesso del grandioso sogno giovanile dell’artista, in gran parte affidata all’esecu-zione di aiuti, poté essere collocato in San Pietro in Vincoli, concludendo la dolorosa vicenda che lo stesso Michelangelo definì la «tragedia della sepoltura». Il tema della sta-tua deriva dall’episodio biblico di Es. 32: Mosè, ricevute le Tavole della Legge sul monte Sinai, giunge al suo accampamento e si accorge che gli Israeliti sono tornati all’i-dolatria pagana. Le rappresentazioni più comuni di Mosè lo dipingono adirato, con le Tavole innalzate sopra la sua testa, pronto a romperle scagliandole per terra. Freud vede Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’at-to violento. Un’immagine che non corri-sponde al condottiero della tradizione bibli-ca, uomo iracondo e soggetto alle passioni: il Mosè di Michelangelo di Freud è capace di controllare la sua collera, che pure è presen-te nello sguardo, nell’impeto del balzo trat-tenuto, nella torsione improvvisa della testa. Egli non rompe le tavole, ma le trattiene e le salva in extremis. La gigantesca struttura di marmo, con la sua tremenda forza fisica, diventa per Freud un’espressione concreta del più alto risultato che un uomo possa conseguire con la mente e cioè «condurre con successo la lotta contro le passioni inte-riori per il bene della causa a cui egli si è dedicato».

In quarta di copertina

Michelangelo Buonarroti (Caprese, Arezzo, 1475 – Roma, 1564)

“Mosè” (1513-1515 circa)

di Grazia Ricciardi

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