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Da caos deriva caos: Il contagio della complessità del mondo della finanza sul sistema internazionale Lorenzo Bonucci

TEORIE DELLA POLITICA INTERNAZIONALE - Caos … · importanza primaria, alla finanza e all’economia come motivo concatenante del caos mondiale. Prima di analizzare i mercati finanziari

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Da caos deriva caos:

Il contagio della complessità del mondo della

finanza sul sistema internazionale

Lorenzo Bonucci

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Introduzione Può il caos nelle relazioni internazionali essere attribuito anche (e soprattutto) alle variabili

economico-finanziarie che oramai trascendono i confini statali? Quanto è attendibile l’analisi

storica della escalation dei maggiori conflitti armati basata su dispute di tipo economico? Siamo

nel bel mezzo di una guerra mondiale combattuta a colpi di sanzioni economiche e finanziarie?

Non è facile ed è anche azzardato attribuire al mondo dell’economia e della finanza la completa

responsabilità storica del caos in cui ci troviamo oggi, ma, attraverso una analisi dettagliata delle

dinamiche del mondo del “denaro” e delle risorse e di quanto queste dinamiche influenzano la

politica internazionale, si comprende l’imprescindibilità di tenere in considerazione e dare

importanza primaria, alla finanza e all’economia come motivo concatenante del caos mondiale.

Prima di analizzare i mercati finanziari e l’economia internazionale in chiave “politica”, è

necessario un escursus storico, in modo da capire meglio l’influenza e l’evoluzione del business

nelle relazioni fra Stati.

Osservando la storia dell’ascesa e del declino delle grandi potenze mondiali, possiamo vedere

che spesso il peso politico e militare di una nazione derivava dal suo potenziale economico e

tecnologico. La forza relativa delle nazioni dominanti negli affari mondiali non è mai costante,

principalmente a causa dell’ineguale tasso di crescita tra le diverse società e i progressi

tecnologici e organizzativi che possono avvantaggiare una società piuttosto che un’altra. Per

esempio, l’avvento delle navi a vela oceaniche armate di cannoni e lo sviluppo del commercio

atlantico dopo il 1500, non portò uguali benefici a tutti gli Stati d’Europa, ma ad alcuni più che

ad altri. Analogamente, la successiva scoperta della forza vapore e l’utilizzo del carbone e di altri

minerali incrementò enormemente la potenza di certe nazioni, diminuendo quindi quella di altre.

Una volta potenziata la loro capacità produttiva, questi paesi trovarono di solito più facile

sostenere finanziariamente massicci riarmi in tempo di guerra. Espresso in questi termini può

suonare aridamente mercantilistico, ma la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la

potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere

la ricchezza.1 La guerra guerreggiata, quella con bombe e cannoni, è solo l’ultimo atto di un

processo lungo, di cui si possono evidenziare tre momenti principali: la battaglia per le risorse

economiche e quindi finanziarie, la sfida tecnologica e infine l’escalation militare. Il grande

storico Carlo M. Cipolla, nel chiedersi come mai fossero stati gli europei ad andare in America,

piuttosto che gli americani in Europa, rispondeva con due parole: “Vele e cannoni” – e cioè

risorse economiche capaci di produrre tecnologia (del trasporto) e mezzi militari. Anche Carl

Von Clausewitz, nel descrivere la guerra come continuazione della politica con altri mezzi, di

                                                                                                               1 Cfr. Paul Kennedy, “Ascesa e declino delle grandi potenze”. Garzanti Editore, 2011, p.20

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fatto si riferiva alle due fasi con cui si intende piegare il nemico: quella politica (della sfida

economico-finanziaria e tecnologica) e quella del dispiegamento dei mezzi militari nel frattempo

accumulati. 2

Questo per dire che nel passato l’economia era decisamente più regolata, più asservita a

“strumento” dello Stato; se sfruttata al meglio conferiva un vantaggio competitivo il più delle

volte insormontabile. Senza perdersi nei meandri della storia moderna, dove ci troveremo

sempre più in difficoltà nel provare a fare paragoni storici con il mondo contemporaneo,

ripensiamo a come si è giunti sia alla prima che alla seconda guerra mondiale. La deflagrazione

della Grande Guerra nel luglio 1914 fu la conclusione di un processo iniziato molto prima,

durante la fase “pacifica” iniziata nel 1814-15 con il Congresso di Vienna, in cui le principali

potenze europee avevano dato vita a una guerra per le risorse economiche mondiali, che

all’epoca si potevano identificare con le colonie – da intendersi sia come fonte di materie prime e

manodopera sia come mercati di sbocco di manufatti finiti. La principale potenza mondiale era la

Gran Bretagna, che dominava su vaste aree del mondo per via di una superiorità acquisita in

campo economico, tecnologico e finanziario, che le derivavano dall’essere la nazione culla della

rivoluzione industriale e il centro degli scambi commerciali e finanziari mondiali, regolati dal

meccanismo del gold standard, imperniato sulla sterlina. Quando le sfere di influenza costituite

intorno ai grandi imperi continentali europei entrarono in rotta di collisione, si ebbe la

deflagrazione nel primo conflitto mondiale.

Le fasi che portarono allo scoppio della seconda guerra mondiale seguirono un canovaccio

simile, ma ancor più imperniato su aspetti di tipo economico-finanziario. La potenza egemone

dopo la bancarotta inglese del 1917 e il collasso del gold standard erano gli Stati Uniti

d’America, che avevano superato anche la Gran Bretagna come primo paese industriale al

mondo e avevano dato vita ad un mercato dei prodotti finanziari che aveva permesso uno

sviluppo tumultuoso, ma fragile, negli anni venti, che si interruppe bruscamente con lo scoppio

della bolla azionaria di Wall Street nel 1929. Il meccanismo di contagio della catastrofe

finanziaria americana verso il resto del mondo fu il cosiddetto “circuito finanziario degli anni

venti”, incentrato sui flussi innescati dal piano Dawes del 1924 che permetteva ai tedeschi di

ripagare con denaro preso a prestito dagli americani le ingenti riparazioni di guerra

sciaguratamente inflitte alla Germania con il trattato di Versailles del 1919.

Il collasso finanziario e la conseguente grande depressione economica che colpì prima gli Stati

Uniti e poi l’Europa furono il detonatore della seconda guerra mondiale.3 Questa può essere la

prima prova di quanto i mercati finanziari dalla storia più recente, abbiano innescato, o concorso

ad innescare, situazioni caotiche, complesse che hanno portato sviluppi del tutto negativi. Già ad                                                                                                                2 Cfr. Brunello Rosa, “Le radici economico-finanziarie della possibile guerra mondiale” in Limes, Rivista italiana di geopolitica nr. 2/16 “La terza guerra mondiale?”, 2016, pp. 29-30 3 Ibidem. p.29

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inizio novecento le interconnessioni finanziarie erano tali che la crisi sistemica della finanza

americana, essendo la più forte, portò ad una crisi mondiale, in un mondo già flagellato da

pesanti crisi sociali del post-prima guerra mondiale. Per concludere l’introduzione possiamo dire

che storicamente dal capitalismo “commerciale” degli albori dei traffici internazionali, si è

passati al capitalismo “industriale” e, da questo, al capitalismo “finanziario”, ossia la dominanza

degli strumenti della finanza rispetto a quelli della produzione. Il rapido sviluppo delle

innovazioni finanziarie ha causato un ulteriore mutamento del capitalismo, quello “con derivati”

che ha portato il mondo a una crisi irreparabile, se non avessimo avuto l’esperienza legata alla

Grande crisi del 1929-33 e alle riflessioni che ne sono seguite.4

1. Il potere dei mercati finanziari

Nel corso degli ultimi decenni si è imposto il mercato finanziario. Oggi il mercato finanziario

entra da protagonista nella vita di tutti i giorni. Come giudicarlo? Come prevederlo? Possiamo

provare a fare un ragionamento a tre strati: il primo sul passato remoto, il secondo sul passato

recente e il terzo sul futuro. I paesi che hanno vinto le guerre e che non hanno avuto crisi post-

belliche devastanti, sono quelli che hanno avuto i mercati finanziari migliori. Da guerre e

rivoluzioni il debito pubblico tedesco, austriaco, giapponese, italiano, russo e cinese è uscito

devastato. Mentre quello dei paesi anglosassoni e neutrali – Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada,

Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Svizzera, Svezia e via dicendo – è uscito intatto dalle

guerre. Perciò la vera differenza fra vincitori e vinti è nel comportamento del debito pubblico.

Possiamo così provare a trarre delle prime considerazioni sulla prevedibilità. Prevedere

l’andamento dei mercati finanziari agli inizi del XX secolo voleva dire prevedere due guerre

mondiali e due rivoluzioni maggiori. Passando al secondo strato; se pensare che esista una

prevedibilità storica non ha senso, hanno invece senso le previsioni di breve termine? Per

saggiare il punto, prendiamo il rendimento del Btp che, nell’estate 2011, veleggiava a un livello

più che triplo (7%) di quello del 2015 (inferiore al 2%). Com’è possibile una caduta del

rendimento di questo tenore? Nel 2011 era davvero prevedibile che il Btp passasse in tre anni dal

7 al 2%?

Alla complessità (e quindi alla difficile prevedibilità) dei comportamenti legati alle profezie che

si autoinverano dobbiamo aggiungere poi gli effetti dei verdetti delle agenzie di rating. Standard

& Poor’s (S&P) ha abbassato alla fine del 2014 il giudizio sul merito di credito del debito

pubblico italiano (altrimenti detto rating) da BBB a BBB-. Dopo le tre B con il meno alla fine                                                                                                                4 Cfr. Dick Bryan, Michael Rafferty, “Capitalism with Derivates: A Political Economy of Financial Derivates, Capital and Class”. Palgrave Macmillan, 2006. pp. 31-32

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esiste solo il giudizio di un pessimo investimento. S&P pensa che non ci sia in Italia una crescita

economica sufficiente per mettere sotto controllo in maniera agevole il debito pubblico, con le

riforme in corso di attuazione che avranno un effetto ritardato nel tempo. Al voto delle agenzie

di rating segue il giudizio sul futuro (altrimenti detto outlook). L’importanza del giudizio delle

agenzie di rating sta nell’influenza che esercitano presso alcuni investitori che debbono vendere

(per effetto dei regolamenti liberamente adottati) le attività finanziarie con un rating basso.5

Prima di passare ad analizzare il terzo strato, è importante capire quanta influenza sui paesi

hanno le agenzie di rating e di conseguenza come concorrono a produrre caoticità rispetto al

passato, quando il loro “potere” sulle istituzioni statali di tutto il mondo non era così ben definito

come lo è oggi. Nel fornire il loro giudizio le agenzie di rating si basano su un’analisi dettagliata

della situazione finanziaria della società o dello Stato (nel nostro caso degli Stati). Il rating viene

espresso attraverso un codice appartenente a scale che variano a seconda della agenzia che ha

effettuato la valutazione, in una scala che va da AAA a D, misurando la capacità di quello Stato

di renedere fede ai propri obblighi finanziari.6 Detto in questo modo sembrerebbe che il lavoro

delle agenzie come S&P e Moodys sia del tutto “legittimo” o, più che altro, accettabile. Ma che

succede se queste non lavorano scevre da influenze o se il loro giudizio viene strumentalizzato?

S&P, malgrado goda d’indubbia autorevolezza e consolidata considerazione internazionale,

tuttavia negli ultimi anni i suoi indici e criteri di valutazione adottati hanno destato critiche da

parte di osservatori, media e studiosi. In particolare agli inizi del 2012, a proposito del

downgrade aberrante dei valori attribuiti a diversi paesi dell’Unione Europea relativamente al

loro grado di redimibilità. Tali giudizi sono stati considerati sospetti tenendo conto di come tutti

gli investitori azionisti in S&P, come nelle altre agenzie di rating, non possano ritenersi soggetti

super partes, ma potrebbero essere degli interessati utilizzatori delle loro stesse valutazioni di

solvibilità nell’acquisto di titoli ed obbligazioni sul mercato finanziario. Standard & Poor’s è

stata messa sotto inchiesta negli Stati Uniti nel 2011 per aver manipolato il mercato azionario

con dati falsi sui titoli tossici. Anche in Italia nel 2012, S&P è stata messa sotto inchiesta dalla

magistratura per aver manipolato il mercato azionario con dati falsi; Standard & Poor’s è stata

accusata di manipolazione pluriaggravata e continuata del mercato finanziario.7

E’ importante tener conto di queste attività delle agenzie di rating. Spesso esse rivolgono i loro

giudizi ad aziende e banche (ma come abbiamo visto anche nei confronti di Stati): che succede

se il giudizio verso l’attendibilità di certe banche, aziende e industrie fondamentali per

l’economia di uno Stato non rispecchia la realtà, peggiorandone l’immagine? Lo Stato dovrà fare

i conti anche con questo problema, perché come ben sappiamo al giorno d’oggi, i nostri

                                                                                                               5 Cfr. Giorgio Arfaras, “L’illusione della certezza: così funzionano i mercati”, in Limes, Rivista italiana di geopolitica nr. 2/15 “Moneta e impero”, 2015, pp. 53-54-55 6 Cfr. Mc Kinley, Degregori & Partners, “Azioni, Obbligazioni e Titoli di Stato”, R.E.I. Edizioni, 2015. p. 25 7 Ibidem pp. 23-24

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governanti si siedono allo stesso tavolo sempre più spesso per parlare di questioni legate

all’economia e alla finanza, e una cattiva immagine su questo aspetto porta ad affrontare sempre

maggiori sfide e porta a muoversi in un circuito sempre più caotico. Basti pensare ai “compiti a

casa” che l’Italia deve ormai fare da anni per riassestare la sua economia per poter essere

competitiva col resto d’Europa (e poi del mondo) ma soprattutto per attenersi agli standard

economici e finanziari sempre più stringenti dell’Unione Europea germanocentrica. Un

declassamento da parte di una agenzia di rating vuol dire vendita di titoli da parte degli

investitori, e quindi meno investimenti nelle istituzioni pubbliche. Come viene riportato in un

articolo di Panorama del 2008, nessuno ha ancora dimenticato che il 15 settembre 2008, non

appena le agenzie di rating iniziarono a manifestare i propri dubbi sulle capacità di alcune

istituzioni finanziarie di onorare i propri debiti, istituti di credito considerati fino a poco tempo

prima solidissimi si ritrovarono, a meno di 24 ore dal declassamento ufficiale, senza liquidità.

Perché è da quel giorno, e c'é chi crede oggi (quasi esclusivamente) per colpa di Fitch, Moody's e

S&P, che gli operatori finanziari di tutto il mondo sono stati via via trascinati in una crisi da cui

non sono ancora riusciti a uscire. E quel che è peggio, per gli analisti di Bloomberg e non solo, è

che da allora le regole del gioco non sono ancora cambiate: le agenzie giudicano, le istituzioni

traballano e gli operatori si spaventano. E così i mercati non ripartono.8

Torniamo, dopo questa lunga ma necessaria analisi sulle agenzie di rating, al terzo strato sullo

studio del funzionamento dei mercati finanziari. Il terzo strato riguarda il futuro: partiamo dal

mercato finanziario principale, quello statunitense. Com’è possibile avere negli Stati Uniti dei

rendimenti bassi (dei prezzi alti) delle azioni (che invocano una elevata crescita economica)

insieme a dei rendimenti bassi (dei prezzi alti) delle obbligazioni (che invocano una modesta

crescita economica)? C’è chi pensa che i mercati spingano sempre verso una media storica e che

quindi nel lungo periodo tutto si aggiusterà. Allo stesso tempo c’è che pensa che ci si trovi in una

situazione anomala. Possiamo dire che la previsione su base storica è impossibile, come quella

relativa al passato recente, a meno di poter inserire nel ragionamento delle cose bizzarre come le

profezie che si autoinverano e il paradosso che più abbassi i rating più i rendimenti dei paesi mal

messi possono salire. L’esempio degli Stati Uniti è emblematico: non si può sapere con certezza

se sia in atto una regressione verso la media o se siamo in un’anomalia di lunga durata. Le

decisioni finanziarie, che debbono comunque essere prese, hanno un’elevata dose di incertezza.

E questa incertezza si ripercuote sulle relazioni fra gli Stati, nell’importante ambito delle

decisioni finanziarie: un vero e proprio circolo vizioso. La non prevedibilità o la difficile

prevedibilità mostrano bene come le teorie del complotto o dei poteri forti siano, in fondo, solo

dei modi per cercare un ordine alle cose. Un ordine però non c’è. I mercati finanziari non sono

                                                                                                               8 Cfr. “Agenzie di rating: perché sbagliano spesso”, Claudia Astarita, Panorama, Disponibile online all’indirizzo: http://www.panorama.it/economia/agenzie-di-rating-errori-sbagliano-spesso-crisi-economica/

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diversi da altre attività umane: la loro prevedibilità è bassa, sono sistemi caotici. Essenzialmente

l’industria finanziaria diffonde l’idea che, nonostante tutto (guerre, crisi) i mercati finanziari alla

fine salgono sempre. Il che è vero, anche se in alcuni casi si sono dovuti aspettare decenni.9

Al giorno d’oggi, uno Stato non può disinteressarsi delle variabili economico-finanziarie

mondiali; il sistema del capitalismo finanziario si è talmente radicato nelle relazioni politiche

mondiali che, per quanto possa essere difficile e faticoso rimanere “a galla” nel circuito della

finanza (con, per esempio, i vari stringimenti di cinghie imposti alle popolazioni per far tornare i

conti pubblici), è sempre meglio dell’alternativa; ossia l’estraneazione totale dal sistema e quindi

condizioni ancor peggiori rispetto ad essere una medio-piccola potenza e rimanere nel gioco.

Dopo lo sfaldamento degli imperi coloniali, gli Stati-sovrani hanno superato le duecento unità. Il

processo di globalizzazione tende ad integrarli sul piano economico, sottraendo però ad essi

quote crescenti di sovranità nazionale, determinando condizioni d’incoerenza tra la loro

organizzazione istituzionale e quella del mercato globale. I governi infatti non sono più in

condizione di perseguire obiettivi indipendenti dalla volontà delle organizzazioni sovranazionali

e di istituzioni proprie del mercato globale (ad esempio, le agenzie di rating), attivando nella

direzione desiderata gli strumenti fiscali e monetari di cui toricamente dispongono. Se ci

provano, le organizzazioni sovranazionali a cui aderiscono e, soprattutto i mercati, reagiscono

costringendoli ad adeguarsi alla loro volontà; se i governi insistono – ad esempio rinunciando

alle opportunità offerte dal commercio mondiale (come hanno fatto in via permanente la Cuba di

Fidel Castro, la Cina prima della riforma di Den Xiaoping e, al di fuori delle vendite di petrolio,

l’Iran prima della “pace” con gli USA) – causano un peggioramento del livello di vita delle loro

popolazioni. Sono inoltre cresciute le “emergenze planetarie”, ossia quei problemi a diffusione

globale che non possono essere superati senza un coordinamento internazionale, come è il caso

dell’inquinamento atmosferico, ma anche (soprattutto per il nostro studio) delle crisi finanziarie

come quella scatenata dalle insolvenze dei crediti subprime negli Stati Uniti.10

Ciò che innesca una situazione ancor più caotica di come lo è già, è il fatto che gli Stati provino

da sempre ad assoggettare o uniformare le regole del mercato globale alle proprie regole

nazionali in ambito economico, cosa che non è possibile proprio per la natura indipendente e

self-made delle stesse leggi dell’economia e della finanza. Per rendere la situazione più delineata

e ordinata, servirebbero delle regole comuni, coordinamento delle politiche economiche

nazionali, e una maggiore valutazione di quella che è l’economia reale, rispetto a quella dei

numeri, ossia quella finanziaria.

C’è da dire che il problema rimarrebbe comunque, perché ripercorrendo l’analisi appena fatta,

potremmo dire che c’è un contrasto ormai troppo forte e strutturato tra quello che è l’assetto                                                                                                                9 Cfr. Giorgio Arfaras, “L’illusione della certezza: così funzionano i mercati”, op.cit. pp. 56-57 10 Cfr. Carlo Jean, Paolo Savona, “Intelligence economica. Il ciclo dell’informazione nell’era della globalizzazione”. Rubbettino editore, 2011. p. 11

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politico del pianeta, basato sugli Stati sovrani (quanto sovrani?) e quello che è nato dal processo

di globalizzazione che, come dice la parola stessa, trascende i confini nazionali. Ad oggi

sembrerebbe che sia ancora alquanto difficile trovare un compresso.

E’ stata una scelta di gran parte del mondo uniformarsi con il sistema capitalistico occidentale:

almeno tre miliardi di persone – in buona misura a seguito di scelte intraprese dai loro governanti

– hanno preso come riferimento i modi di vita del miliardo di persone benestanti che vivono

nell’area industrializzata e hanno cominciato a competere con loro in modo aggressivo per

raggiungere questi standard. Ciò ha consentito di eliminare larghe fasce di povertà, ma anche

creato un mare di altri problemi, che si mescola nell’infinito pentolone del caos mondiale. Con

l’andare avanti del tempo rischi e incertezze sono grandemente cresciuti, come pure le tecniche

di loro trattamento. Il mercato dei contratti derivati è un portato naturale di questa situazione che

esso stesso patisce. Ideato per gestire meglio i rischi, ha finito per crearne di nuovi, accrescendo

le incertezze dell’operare, per ridurre le quali può far ben poco. Si sente l’esigenza di comuni

regole mondiali ma, aldilà del fatto che gli Stati difendono anacronisticamente la quota di loro

sovranità impedendone l’approvazione, il vero ostacolo si rinviene nella mancata comprensione

dei modi in cui la finanza derivata agisce nel contesto macroeconomico internazionale. 11

E’ senz’altro vera l’affermazione di Paolo Savona e Carlo Jean; c’è però da dire che anche la

finanza ci “guadagna” nel mantenere difficilmente comprensibili e caotici i significati dei suoi

contenuti per la grossa fetta di popolazione che non ha una accurata istruzione in tal senso.

L’attuale processo di globalizzazione sottopone tutte le categorie sociali che compongono gli

Stati nazione alle regole che governano i comportamenti degli operatori di mercato, che non

sono stabiliti dalla “mano invisibile” di una perfetta concorrenza che non può mai realizzarsi, ma

in larga parte da operatori “influenti”, piuttosto che dai governi. Esiste cioè un Leviatano

“privato” di cui non si è studiato a fondo il moderno comportamento. Non bisogna comunque

dimenticare che ci sono alcune potenze egemoni che hanno il potere di sfruttare al meglio il

mondo finanziario poiché ne sono stati i creatori: parliamo ovviamente degli Stati Uniti. E’

celebre la frase ripetuta da due Ministri del Tesoro americani che il dollaro è la loro moneta, ma

un problema del resto del mondo. Questo è il classico approccio modello di relazioni

internazionali di tipo egemonico, taluni usano il termine “imperialistico”, o “non cooperativo”.12

Detto questo, c’è da dire comunque che il mercato (in generale) è dominato da forze

oligopolistiche, capaci di sollecitare e ottenere dai governi politiche a loro favorevoli.13

Nello studio dei mercati finanziari non possiamo fare a meno di analizzare il prodotto forse più

“interessante” e capace di creare caos all’interno dei mercati stessi e poi di riflesso sul mondo

politico e non; i derivati. Che cosa sono i derivati? Il contratto derivato è uno strumento                                                                                                                11 Cfr. Carlo Jean, Paolo Savona, op.cit. p.16 12 Ivi pp. 18,20 13 Ivi p.18

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utilizzato da sempre per bilanciare i rischi conseguenti a un contratto sottostante. Sembrebbe

tutto normale e soprattutto ordinato, ma il problema è che di contratti derivati ne sono stati creati

di ogni genere, sempre più sofisticati, sulle oscillazioni delle valute o dei tassi d'interesse, sul

rischio di fallimento di un'impresa o di uno Stato, sui mutui o su titoli di debito di vario genere.

E con l'aumento del mercato, i derivati si sono trasformati sempre più in strumenti autonomi,

utilizzati per speculare e scommettere sugli scenari futuri, riducendo l'entità della potenzialità

della perdita, ma spostando solo il rischio su altri soggetti. Per di più senza alcuna

regolamentazione, dal momento che i derivati sfuggono a qualsiasi controllo. Quindi non si sa

quanti ne siano stati emessi, quali siano i volumi di quelli in circolazione e dove siano finiti, dato

che vengono poi inseriti in prodotti finanziari di vario genere, all'insaputa di chi poi alla fine li

sottoscrive. È quello che è successo con i mutui subrime.14

I derivati inizialmente hanno rappresentato un modo per gestire meglio il rischio di mercato,

soprattutto sui tassi d’interesse e sui cambi. Di seguito sono stati un modo efficace per aggirare i

regolamenti bancari sempre più stringenti, anche beneficiando dell’adesione delle autorità

all’idea dei mercati perfetti. Gli economisti sanno che fatta una norma il mercato trova il modo

per aggirarla. Quali sono i motivi del mancato governo dei derivati e del conseguente caos che

genera questa sregolatezza? Secondo la presentazione sui derivati di Paolo Savona alla Camera

dei Deputati del gennaio 2015, possono essere riassunti così:

1. Ignoranza mista a malafede.

2. Istituzioni bancarie e finanziarie prive di regole di governance per i derivati.

3. Architettura monetaria internazionale basata sul dual use volontario del dollaro, con regimi di

cambio incoerenti con le regole WTO.

4. Scissione tra capitalismo reale e capitalismo finanziario.

Sarebbe quindi opportuno che ci fossero delle regole di governance sui derivati, per così dire,

mettere ordine. Il problema è che l’eterogeneità dei metodi di valutazione e dei fini è tale che

raramente i diretti superiori di un operatore in derivati, ancor meno i direttori o amministratori

delegati e per niente i presidenti o consiglieri di amministrazione, possono conoscere i rischi che

corrono la loro banca o la loro società. Lo stesso accade sia agli amministratori pubblici (salvo

truffe organizzate in modo cosciente), sia agli enti di controllo.15

Quindi, alla luce di quanto detto, i mercati finanziari possono contribuire ad una più ampia

condizione caotica; questa, investe la politica e la sicurezza internazionale. Gli esiti dei sistemi

caotici non sono modelli regolari che presentano cicli logici o equilibri “ben educati”. Piuttosto,

                                                                                                               14 Cfr. “Mps per tutti. Tutto quello che avreste voluto sapere sul caso (ma non avete mai osato chiedere)”, Pierangelo Soldavini, Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2013. Disponibile online all’indirizzo: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-30/derivati-cosa-sono-083506.shtml?uuid=AbdCPTPH 15 Cfr. “Derivati: uno strumento ancora da capire e da governare”, Paolo Savona, traccia dell’audizione alla Commissione Finanza della Camera dei Deputati, 14 gennaio 2015. Disponibile online all’indirizzo: http://www.camera.it/temiap/2015/02/25/OCD177-987.pdf

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un carattere chiave dei sistemi caotici è l’apparente casualità o imprevedibilità dei modelli da

essi generati. In un sistema non caotico, un attento studio del passato offre spunti che ci

permettono di anticipare il futuro. Nei mercati finanziari il passato non è un prologo.

I modelli di seconda generazione delle crisi finanziarie internazionali suggeriscono che il sistema

finanziario non è statico, ma dinamico. Il caos si ha quando il sistema è “non lineare” e proprio

per questa ragione il termine “dinamica non lineare” è spesso applicato a quella che chiamiamo

teoria del caos […]. Tutti i modelli sulla finanza internazionale che non riescono a tener conto

del comportamento caotico dei mercati finanziari, rischiano di esagerare il valore dell’analisi

convenzionale e di sminuire l’impatto dei fattori endogeni all’economia (è l’economia stessa a

creare, con i propri fattori, la sua caoticità). I mercati finanziari internazionali possono

dimostrare di essere una delle aree di applicazione di maggior successo per la teoria del caos.

Infatti, Paul De Grauwe, Hans Dewachter, e Mark Embrechts (1993) hanno prodotto alcune delle

analisi più convincenti sul comportamento caotico dei mercati finanziari internazionali sulla base

dei dati quotidiani di tasso di cambio per il periodo 4 Gennaio 1971 fino al 30 dicembre 1990 per

i tassi di cambio marco-dollaro, sterlina-dollaro, e yen-dollaro. Essi hanno trovato che i

relativamente semplici modelli di comportamento dei cambi potrebbero produrre modelli caotici

dei movimenti dei tassi di cambio in condizioni ragionevoli.16

Questa breve analisi in parte economica e in parte politica dei mercati, voleva mettere in risalto

la complessità delle dinamiche proprie del mondo economico-finanziario. In un’era dove gli

Stati sembrano essere sempre più schiavi di questo mondo, la sua caoticità e i suoi intrecci non

possono fare altro che rispecchiarsi nel mondo cosiddetto “reale”, ossia quello non governato dai

numeri. Ma, alla luce di quanto visto, lo è davvero?

2. Capitalismo finanziario, caos sistemico e rischio sistemico

Iniziamo definendo cosa è il capitalismo finanziario, poiché ci sarà utile per spiegare gli altri due

concetti del titolo del nostro paragrafo. Il termine capitalismo finanziario è stato coniato dallo

studioso marxista R. Hilferding ad inizio novecento: la crescita delle grandi banche (avvenuta

verso la fine del diciannovesimo secolo) ha segnato l’inizio di una nuova fase del capitalismo, in

cui il potere economico è concentrato nelle mani di grandi istituzioni finanziarie. In tempi più

recenti questa definizione è stata ripresa da più parti per indicare il tipo di capitalismo che

caratterizza le società contemporanee: legato al mondo della finanza e della speculazione, viene

spesso considerato una delle cause principali della crisi economica internazionale iniziata tra il                                                                                                                16 Cfr. K.M. Stokes, “Chaos, Prediction and International Financial Crises”. Disponibile online all’indirizzo: http://nirr.lib.niigata-u.ac.jp/bitstream/10623/31236/1/EMS_2002_01.pdf

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2007 e il 2008. Il capitalismo finanziario viene contrapposto al capitalismo industriale o

produttivo (votato alla produzione di beni fisici e servizi). In realtà, secondo Braudel, il

capitalismo finanziario ha radice ben più antiche: difatti lo studioso osserva che questa forma di

capitalismo aveva attecchito in Europa già nelle città-stato italiane del Rinascimento. La

ricorrente tendenza del capitale a riacquistare flessibilità abbandonando la merce a favore della

forma liquida testimonia, secondo Braudel, “una certa unità nel capitalismo, dall’Italia del secolo

XIII fino all’Occidente di oggi”. Nondimeno, questa unità non è assolutamente l’espressione di

un invarianza strutturale del capitalismo storico. Al contrario, è l’espressione di una

fondamentale instabilità e adattabilità. Infatti, in ogni espansione finanziaria, nessuna esclusa, il

capitalismo mondiale è stato radicalmente riorganizzato sotto una nuova leadership. Questo è

stato il caso delle prime espansioni finanziarie – quando il capitalismo era ancora immerso in un

sistema di città-stato e diaspore di affari – e delle ultime, quando il capitalismo mondiale si è

trovato immerso in un sistema di stati nazione e di comunità di affari e imprese che agiscono su

scala mondiale.17 Arrighi ha sviluppato il concetto dei cicli sistemici di accumulazione, ed ha

dato una lettura della storia e delle dinamiche del capitalismo mondiale come una successione di

episodi egemonici, ognuno di loro sempre più espansivo rispetto al precedente, e ognuno sempre

più portatore di crisi e transizioni caotiche.18

Queste transizioni sono descritte con l’emergere di un “caos sistemico” dall’interazione tra

crescenti conflitti sociali, l’apparire interstiziale di nuove configurazioni del potere, e una sempre

più intensa competizione tra Stati e anche tra imprese. Per caos sistemico s’intende una

situazione di severa e apparentemente irrimediabile disorganizzazione sistemica. Come la

competizione e i conflitti si sviluppano al di là delle capacità di regolazione delle strutture

esistenti, nuove strutture emergono interstizialmente e destabilizzano ulteriormente la dominante

configurazione del potere. Il disordine tende ad autoalimentare, minacciando di provocare, o

provocando realmente, un crollo completo del sistema. Le espansioni finanziarie hanno un

impatto contraddittorio su questa evoluzione. Da una parte, la tengono sotto controllo

aumentando temporaneamente il potere dello stato egemonico in declino. Come l’ “autunno”

delle principali evoluzioni del sistema capitalistico, le espansioni finanziarie sono l’autunno delle

strutture egemoniche in cui queste evoluzioni sono inserite. Sono i momenti in cui il paese guida

gode di una grande fase di espansione del commercio e della produzione, che però sta giungendo

al termine, e coglie i frutti della propria leadership nella forma di un accesso privilegiato alla

sovrabbondante liquidità che si concentra nei mercati finanziari mondiali. Questo accesso

                                                                                                               17 Cfr. Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, “Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari”, Mondadori, 2006. p. 37 18 Cfr. William I. Robinson, “Giovanni Arrighi: Systemic Cycles of Accumulation, Hegemonic Transitions, and the Rise of China”. Disponiblie online all’indirizzo: http://www.soc.ucsb.edu/faculty/robinson/Assets/pdf/giovanni_arrighi_reputations_article.pdf

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privilegiato permette allo Stato egemonico in declino di contenere, almeno per un po’, le forze

che sfidano il suo dominio permanente.

Dall’altra parte, le espansioni finanziarie irrobustiscono queste stesse forze, ampliando e

approfondendo i conflitti sociali e la dimensione della competizione tra stati e tra imprese, e

riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o più altri

ritorni di quanto non assicuri la struttura dominante […]. Il crollo egemonico è il punto di svolta

decisivo nelle transizioni egemoniche.19

La figura riassume le fasi della transizione di Arrighi:

Fig. 1: Tratta da Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op. cit.

Alla luce di quanto riportato del lavoro di Arrighi e Silver, sembra proprio che ci siano dei

riscontri con quello che sta accadendo nella realtà. Dagli inizi degli anni novanta gli Stati Uniti

stanno affrontando un lento declino che si può misurare con il sempre più affermato

multipolarismo a cui stiamo andando incontro. La crisi del 2007 non ha fatto altro che

confermare le teorie sulla crisi egemonica: questa prende la forma di un fallimento del sistema

finanziario mondiale, ossia quello capitalistico di matrice occidentale, messo in atto agli estremi

dalla potenza egemone. Il tutto si riversa in un totale caos mondiale, ove gli esperti di tutti i paesi

e i governi si scervellano per capire dove si è sbagliato in precedenza, e dove si mettono in

pratica politiche volte solo a riassestare il proprio sistema economico e soprattutto finanziario,

mettendo in ginocchio interi paesi in virtù di rimanere all’interno del circuito e avendo una

giustificata paura di pensare all’opportunità di mantenere o meno un sistema del genere. Ed è

così che teoricamente dovrebbero emergere degli “outsider”, paesi portatori di nuove idee. Ma in

un mondo praticamente del tutto “convertito” al credo del capitalismo finanziario estremo, anche

                                                                                                               19 Cfr. Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op.cit., p. 38

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coloro che sarebbero dovuti essere i portatori di una alternativa, hanno dovuto (o hanno scelto di)

abbracciare il sistema capitalistico che governa il mondo dell’economia e non solo. Basti pensare

alle quote di debito americano che detiene il governo cinese. Forse il problema non è il

capitalismo in sé; ma l’estremizzazione del concetto: proprio come tutte le estremizzazioni, esse

finiscono per deformare il contenuto reale, dandone uno nuovo, molto differente.

Comunque, avendo fatto riferimento alle teorie sistemiche di Arrighi, può darsi che una via

d’uscita al caos, possa esserci. Difatti, Al caos sistemico che accompagna le transizioni

egemoniche, succede una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per

ciascuna transizione egemonica. Nel caso del passaggio egemonico fra Gran Bretagna e Stati

Uniti vi è, per esempio, una differenza storica relativa al rapporto fra egemonia e classi

subalterne. Gli Stati uniti hanno pacificato le loro relazioni sociali interne prima della loro ascesa

egemonica; la Gran Bretagna dopo. La logica sistemica che soggiace alla sequenza che va dalle

città-Stato italiane agli Stati Uniti non è priva di una sua necessità: alla crescita delle sfide

ambientali, alla crescente difficoltà di ripristinare ogni volta le migliori condizioni possibili del

processo di accumulazione, si deve rispondere, da parte delle potenze egemoniche in ascesa,

mobilitando più risorse (territoriali, organizzative ecc.) e maggiori capacità di governo e di

regolazione. A essere modificata da questa logica è la stessa visione del capitalismo, ormai

costretto a muoversi entro un fitto reticolo di determinazioni geografiche e storiche.20

La logica sistemica è anche propria di un grande studioso delle relazioni internazionali:

Wallerstein. Infatti, Arrighi nei suoi scritti, soprattutto i primi, fa spesso riferimento al teorico

delle RI. Wallerstein sottolinea che il sistema capitalistico in quanto tale non cambia: era ed è

una gerarchia comprendente un centro, una semiperiferia e una periferia, e caratterizzata da uno

scambio diseguale. Wallerstein interpreta la fine della Guerra Fredda e la disgregazione del

blocco sovietico come una conseguenza dello sviluppo dell’economia–mondo capitalistica.

Tuttavia la prospettiva a lungo termine è il crollo del sistema capitalistico, le cui contraddizioni

si dispiegano ormai su scala mondiale. Il successo, non l’insuccesso è ciò che minaccia davvero

il capitalismo globale: una volta esaurite le possibilità di espansione, l’incessante ricerca di

ulteriori fonti di profitto, scatenerà nell’economia capitalistica mondiale nuove crisi, che prima o

poi ne comporteranno una radicale trasformazione.21 A complicare il quadro del sistema

capitalistico globale vi sono i movimenti antisistemici dei quali la sfida che viene posta al potere

del capitale e degli Stati, è destinata ad influenzare l’evoluzione del sistema mondiale, e

nell’immediato porta ad una situazione ancor più complessa.

                                                                                                               20 Cfr. “Capitalismo e crisi globale, l’attualità del pensiero di Giovanni Arrighi”, Giorgio Cerasale, in MicroMega – La Repubblica. Disponible online all’indirizzo: http://temi.repubblica.it/micromega-online/capitalismo-e-crisi-globale-lattualita-del-pensiero-di-giovanni-arrighi/ 21 Cfr. Robert Jackson, Georg Sorensen, “Relazioni internazionali”, Egea, 2007. p. 223

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Uno degli scenari che può aprire una fase di elevata criticità del sistema finanziario, causando

caos sistemico, è quello delineato dal concetto di rischio sistemico. È solo di recente che il

rischio sistemico è stato riscoperto come interessante oggetto di studio, visti i risultati delle

recenti crisi, viste le sempre più frequenti situazioni di difficoltà in cui versano i mercati

finanziari (si pensi alle recenti crisi di liquidità e all'attuale scenario economico, decisamente

negativo, che si sta delineando in Europa) e data la facilità con cui una situazione di stress

accusata da un'istituzione o comunque da un ristretto numero di istituzioni abbia effetti anche

sugli altri soggetti del network. Si può ricordare la frase di Schwarcz (2008): "I governi e le

organizzazioni internazionali si preoccupano sempre di più del rischio sistemico, sotto il quale il

sistema finanziario mondiale può collassare come una fila di pedine del domino". Dunque, per

definizione, il rischio sistemico coinvolge il sistema finanziario attraverso rapporti

principalmente di tipo commerciale con i quali illiquidità, insolvenza e perdite si possono

velocemente propagare durante periodi di difficoltà finanziarie. L’intensità dei rapporti tra le

varie figure che operano nei mercati è talmente elevata che uno shock, generato da una

qualsivoglia tipologia di evento negativo che colpisce uno solo o pochi intermediari, si propaga

molto velocemente tra le varie istituzioni e genera quella “reazione a catena” che provoca il

conseguente fallimento di un certo numero di altri soggetti presenti nel mercato (il cosiddetto

“effetto domino”: effetti negativi di uno shock si possono ripercuotere anche su altri mercati,

facendo si che il fenomeno assuma una dimensione globale). 22

Capire la natura del rischio sistemico è la chiave per capire la propagazione della crisi

finanziaria.23

La spiegazione del concetto del rischio sistemico, ci da la possibilità di introdurre il prossimo

capitolo che rigurderà la crisi del 2007; alla luce di quanto osservato nelle pagine precedenti,

possiamo ora analizzare gli eventi accaduti, risaltando le conseguenze che questa grave crisi ha

prodotto nel sistema internazionale.

                                                                                                               22 Cfr. Assonebb – Associazione Nazionale Enciclopedia della Banca e della Borsa, “Rischio Sistemico”. Disponibile online all’indirizzo: http://www.bankpedia.org/index.php/it/125-italian/r/23720-rischio-sistemico 23 Cfr. Franklin Allen, Ana Babus, Elena Carletti, “Financial Connections and Systemic Risk”. Disponibile online all’indirizzo: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/altri-atti-seminari/2010/Carletti_Financial_Connections_and_Systemic_Risk.pdf

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3. Crisi 2007: influenze e cambiamenti del sistema mondo

Pensiamo brevemente a quello che ha innescato la crisi del 2007: la caoticità delle variabili della

finanza ha portato ad una mal comprensione di quello che stava accadendo negli Stati Uniti dagli

inizi del XXI secolo. Durante la bolla del prezzo delle case la Fed ha mantenuto i tassi

d’interesse bassi, perché l’inflazione era bassa. Infatti, i prezzi delle case non entrano

direttamente nell’indice utilizzato per calcolare l’inflazione. Ciò che entra invece è il costo di

affitto di una casa, e questo non è aumentato velocemente come i prezzi delle case […]. Così, i

prezzi delle case sono aumentati sia per esuberanza irrazionale sia per il basso livello dei tassi

d’interesse. Se i prezzi delle case fossero stati inclusi nell’indice dei prezzi al consumo (sul quale

si calcola l’inflazione) la Fed, davanti alla crescente inflazione, forse avrebbe alzato i tassi

d’interesse. La bolla immobiliare non sarebbe cresciuta così tanto.24 Non solo, la crisi dei mutui

supbrime ha peggiorato ulteriormente la situazione: i cosiddetti clienti “subprime”, sono coloro

ai quali le banche concessero prestiti pur avendo alte probabilità di insolvenza. In passato,

quando una banca concedeva un mutuo lo teneva nei propri libri contabili finché non fosse stato

completamente rimborsato. Oggi, invece, una banca può unire un gran numero di mutui in un

unico strumento finanziario, e venderlo ad altri investitori. Quando un investitore, a volte di

un’altra banca, compra uno di questi titoli – che contiene migliaia di mutui e si chiama

“mortgage–backed security” (titolo garantito da mutui) – non può controllare la qualità di ogni

singolo mutuo. La qualità del titolo è certificata da un’agenzia di rating. Ma anche le agenzie di

rating non possono controllare ogni singolo mutuo. Il risultato è che il controllo della qualità dei

crediti si è indebolito e le banche sono diventate molto meno scrupolose nel concedere mutui. Il

problema non è stato la “cartolarizzazione” di per sé, ma la mancanza di un’adeguata

regolamentazione25, appunto.

La crisi si manifesta dopo che la Fed inizia ad alzare nuovamente i tassi da giugno 2004 e, con

ritardo, le quotazioni immobiliari cessano prima di crescere, nel 2006, e successivamente

cominciano a flettere, la fragilità finanziaria dei mutuatari subprime, stretti tra un aumento degli

oneri finanziari e una caduta del valore della casa anche al di sotto dell’ammontare del mutuo

provoca inadempienze e il passaggio di proprietà della casa ai finanziatori, in una fase in cui

però il valore continua a cadere. I mancati pagamenti sui prestiti immobiliari salgono tanto

velocemente quanto più recente è stata l’erogazione del prestito. La riduzione dei flussi di cassa

per il servizio dei mutui all’origine della catena di finanza strutturata è di dimensioni tali da non

                                                                                                               24 Cfr. Olivier Blanchard, Alessia Amighini, Francesco Giavazzi, “Macroeconomia. Una prospettiva europea”, Il Mulino, 2010. pp. 507-508 25 Ibidem p. 509

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poter essere assorbita dalle tranche “equity” né da quelle “mezzanine”26 , finendo quindi per

intaccare quelle ritenute “prive di rischio” […].

I dubbi sulla solidità patrimoniale delle banche coinvolte sia come investitori in strumenti di

finanza strutturata sia come fruitori di quel mercato per raccogliere fondi in alternativa ai

depositi da clientela si concretizzano nel fallimento, nell’agosto 2007, rispettivamente di una

banca tedesca e nella corsa agli sportelli nei confronti di una banca inglese specializzata in mutui

(Northern Rock). E’ l’inizio del blocco delle transizioni sul mercato interbancario e della

propagazione di una crisi innescata su un mercato di dimensioni ridotte negli USA, all’industria

finanziaria europea. Dopo il salvataggio di una delle grandi banche d’investimento americana

(Bear Stearns) nel marzo 2008 si rendono necessari ulteriori massicci aiuti pubblici alle agenzie

pubbliche statunitensi di mutui ipotecari e al sistema bancario nel suo complesso. Il 15 settembre

2008 si verificano il fallimento di un’altra grande banca d’investimento (Lehman Brothers) e il

declassamento del rating della maggiore società assicurativa mondiale, ossia American

International Group (AIG) a causa della eccessiva esposizione in titoli di finanza strutturata per

la protezione del rischio di credito di banche europee e americane: i due avvenimenti fanno

temere un collasso sistemico e segnano il momento della trasformazione da crisi finanziaria a

vera e propria crisi economica a livello mondiale.27

La breve analisi della crisi finanziaria, a parer mio, porta a due osservazioni (principalmente); la

prima è che un sistema caratterizzato da intrecci simili, poco regolato e per quel poco anche

“aggirato”, prima o poi avrebbe mostrato le sue debolezze. Il problema è che la caoticità della

finanza si è riversata totalmente sul mondo reale, portando il risultato della più grave crisi mai

vista dal 1929. La seconda riguarda la prevedibilità di questo scenario. E’ celebre la domanda

posta da Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ai professori della London School of Economics

durante una vista nel 2008: “If these things were so large, how come everyone missed them?”.

Era veramente possibile prevedere una cosa del genere? Forse no, ma è proprio questo il punto.

Come già osservato, i sistemi caotici, essendo privi di ordine (almeno per le concezioni del caos

“classiche” e più popolari) hanno anche la caratteristica dell’imprevedibilità sul futuro. Non

essendoci ordine, è decisamente difficile trovare una logica e la logica può portare, attraverso la

deduzione (legata più che altro a trovare il filo conduttore di eventi passati, ma, se usata in senso

previsionale può essere utile anche per prevedere gli scenari futuribili), a trarre conclusoni su

quel che succederà (in linea di principio, s’intende. E’ chiaro che, come in tutti i sistemi prodotti

dall’uomo, non può esserci una logica di previsione assoluta, ma, se per di più è un sistema

dominato dal caos, allora le possibilità di vedere al futuro in modo corretto, diminuiscono                                                                                                                26 Lo scopo di emissione della tranche equity unrated è quello di proteggere da possibili perdite sul portafoglio tutte le altre tranches che hanno ottenuto un rating. I titoli mezzanine hanno un rating inferiore per la loro maggiore rischiosità (A2), perché pagati in via subordinata cioè solo se i sottoscrittori dei titoli senior sono stati pienamente soddisfatti. Per poter essere collocati sui mercati devono offrire un tasso di rendimento più alto dei senior. 27 Cfr. Fabio Cesare Bagliano, Giuseppe Marotta, “Economia monetaria”, Il Mulino, 2010. pp. 380-381

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vertiginosamente). La grande complessità delle variabili interne al mondo dell’economia e della

finanza determinano una incontrollabilità dello stesso, e quindi la quasi impossibilità di

previsione.

La crisi ha accentuato e accelerato quel processo di “sostituzione” dell’economia reale, con

l’economia finanziaria:  le grandi imprese industriali che fino a pochi anni fa erano collocate tra

le prime dieci imprese del mondo, sono oggi state sostituite dalle imprese finanziarie (come ad

esempio i grandi Fondi pensione degli USA e del Giappone). E i capitali si spostano

prevalentemente tra Europa, USA e Giappone mentre solo il 15% dei trasferimenti si attua nei

mercati emergenti. Sono oggi le valute l’oggetto delle speculazioni finanziarie e non più, come

accadeva negli anni ’80, le oscillazioni dei prezzi delle merci. Il controllo delle valute e del

capitale finanziario permette di determinare le quotazioni dei cambi e quindi di accumulare

profitti sempre più alti; questo però provoca solo un “fittizio” movimento del plusvalore tra

capitali e non reale, ossia determinato dalle merci. La competizione determinata

dall’unificazione internazionale, intesa come l’attuale fase della mondializzazione capitalistica,

ha imposto negli ultimi anni ristrutturazioni di impresa e innovazioni tecnologiche che invece di

creare nuova occupazione hanno realizzato meno posti di lavoro.

Una realtà senza analogie con il passato, che ha portato la disoccupazione a divenire uno dei

fenomeni più drammatici del nostro tempo con caratteristiche sempre meno congiunturali,

assumendo forti connotati strutturali. Questo anche perché, molte imprese, per ridurre il peso

degli oneri sociali e ridurre il costo del lavoro utilizzano sempre più il cosiddetto “outsourcing”,

ossia l’esternalizzazione di fasi e di interi processi produttivi per accrescere l’efficienza e la

produttività dell’impresa e diminuire i costi. Domina la “produzione snella” che unita a forti

processi di finanziarizzazione permette di realizzare subito alti profitti. Per far essere questo

sistema sempre più efficace le imprese si organizzano con tecniche e tecnologie nuove che

incrementano la parte del ciclo produttivo che viene decentrato all’esterno, dando così risposta in

tempi sempre più brevi alle oscillazioni della domanda, delle richieste dei clienti-consumatori.

Localmente la finanziarizzazione si unisce ad un aggravio enorme della disuguaglianza nella

distribuzione interna del reddito e della ricchezza realizzata, la quale si indirizza sempre meno al

fattore lavoro (sotto forma di salario diretto, differito e indiretto), spostandosi verso il fattore

capitale in forme di surplus finanziario, cioè come elemento predominante di remunerazione in

forma di puro profitto finanziario. Conseguenza di questo fenomeno è il rischio di un

arretramento delle democrazie in Occidente, una desocializzazione, una degenerazione della

politica e un’omologazione alle logiche del profitto di tutto il sociale. Si realizza così una sorta

di “totalitarismo finanziario” e della cultura d’impresa che, alla ricerca di profitti facili, sempre

più di tipo finanziario-speculativo e non produttivo, destabilizza intere aree (vedasi le crisi di

Messico, Brasile, Thailandia, Corea, Indonesia, Russia e Argentina), determinando processi di

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instabilità politico-economico-sociale con conseguenze che si fanno più critiche e violente

attraverso l’uso delle cosiddette guerre etniche, dei fondamentalismi religiosi, della

disgregazione delle unità nazionali e con forme sempre più sofisticate dell’uso della

criminalità.28 Insomma, è proprio il caso di dire che il caos porta caos.

Una delle conseguenze più importanti della crisi è stata l’inizio della cosiddetta guerra valutaria,

o guerra delle valute, tra i paesi. Non è un fenomeno nuovo in realtà: basti ricordare cosa

accadde negli anni Venti del Novecento, quando i vari paesi decisero di abbandonare il gold

standard appena riadottato dopo il temporaneo abbandono del periodo bellico. Obiettivo:

consentire svalutazioni della moneta, con lo scopo di guadagnare competitività rispetto ai paesi

vicini e riguadagnare così volumi di reddito nazionale decimati dalla Grande Guerra. L’effetto

della strategia di guadagnare quote di reddito a scapito del vicino tramite svalutazioni

competitive (da qui l’espressione “beggar-thy-neighbour”), con conseguente adozione di pratiche

protezionistiche, fu quello di gettare i paesi perdenti in una spirale di svalutazioni e inflazione

che avrebbero portato quegli Stati sull’orlo della bancarotta, se non proprio in bancarotta.

Memori di questi nefasti eventi, i principali leader mondiali si sono ripromessi di non

commettere lo stesso errore all’indomani del crollo di Lehman Brothers, nel settembre 2008.

Con gran solennità, in occasione del G20 di Londra, i capi delle maggiori potenze avevano

firmato la seguente dichiarazione: “Condurremo tutte le nostre politiche economiche in modo

responsabile riguardo all’impatto su altri paesi e ci asterremo dalla svalutazione competitiva

delle nostre monete, mentre promuoveremo un sistema monetario internazionale stabile e ben

funzionante”. Questo autorevole “mai più” derivava dalla piena consapevolezza che una crisi

finanziaria derivante da un eccesso di debiti come quella innescata dai mutui subrime americani,

miscelata a un nuovo episodio di currency war, sarebbe ben presto sfociata in episodi di

instabilità politica prima e militare poi. Come negli anni Venti.

Tutto questo però con una pericolosa postilla, aggiunta nei mesi successivi, che di fatto riapriva

le porte alla guerra delle valute: se le politiche monetarie espansive erano mirate al

rinvigorimento delle economie nazionali – ed erano quindi condotte per fini puramente

domestici, e non con l’intenzione di “fregare il vicino” – allora tali manovre erano consentite. E

quand’anche l’effetto collaterale fosse stato quello dell’indebolimento della valuta nazionale, tali

politiche non sarebbero state sanzionate dal G20 e dai suoi bracci operativi, come il FMI.29

Quello che è accaduto nei mesi successivi, è stato un verio e proprio scontro a colpi di

svalutazioni, ma con un modus operandi differente per, così dire, rendere onore agli accordi presi

a Londra…

                                                                                                               28 Cfr. “Crisi strutturale e sistemica con uso della finanza: un nuovo vecchio modello contro il lavoro”, Rita Martufi, Luciano Vasapollo in “Proteo”. Disponibile online all’indirizzo: http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=698 29 Cfr. Brunello Rosa, “La guerra delle valute”, in Limes Rivista italiana di geopolitica nr. 2/15, “Moneta e Impero”, 2015. p.7

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I vari contraenti infatti non hanno che potuto combattere su un terreno diverso, quello delle

proxy currency wars. Lo strumento scelto per questa battaglia è stato l’espansione del bilancio

(balance sheet) della Banca centrale.

In fasi di forte contrazione economica, la Banca centrale cerca di rivitalizzare l’economia tramite

il taglio dei tassi d’interesse, in modo da riattivare il canale di credito. Ma quando i tassi

d’interesse sono giunti al loro limite inferiore (zero lower bound), la Banca centrale può

procedere all’acquisto di attività tramite operazioni di mercato aperto, con un duplice scopo.

Acquistando attività rischiose o deteriorate ripulisce i bilanci degli istituti di credito da attività

che assorbono capitale e impediscono l’erogazione di nuovo credito. Inoltre, acquistando per

esempio titoli di Stato, la Banca centrale aumenta il prezzo dei titoli a più lunga scadenza

facendone cadere il rendimento, inversamente correlato al prezzo. Tale manovra ha lo stesso

effetto di un taglio dei tassi. Per finanziare questi acquisti di attività in misura massiccia, su larga

scala, la Banca centrale deve stampare moneta in misura equivalente, in modo che i due lati del

bilancio della Banca centrale aumentino della stessa misura. Ma stampare moneta e così facendo

stimolare l’inflazione interna non equivale forse a svalutare la moneta? […]. Possiamo quindi

constatare che l’incremento del bilancio della Banca centrale è di fatto la proxy war della vera e

propria currency war che non si può legittimamente combattere. I primi a procedere a un

massiccio acquisto di attività del settore privato nel corso di questa crisi sono stati gli Stati Uniti,

dopo che la Banca d’Inghilterra aveva lanciato il su Qe (quantative easing o allentamento

monetario, ovvero l’acquisto di attività finanziato da emissioni di moneta), incentrato quasi

esclusivamente sui titoli di Stato britannici (gilts). Gli inglesi e gli americani sono stati pertanto i

primi a sfoderare il cosiddetto bazooka.30

Chiaramente dopo, anche gli altri Stati hanno via via preso parte a questa guerra economico-

finanziaria per non indebolirsi ancor di più economicamente: basti pensare al quantative easing

di inizio 2015 dell’Unione Europea, del “Whatever it takes” di Mario Draghi, direttore della

BCE. Il mondo della finanza e dell’economia in generale da ormai molto tempo, ma soprattutto

dopo la grave crisi del 2007, è diventato il teatro dove si combattono le guerre mondiali: strette

di mano e promesse solenni durante i meeting internazionali, ma nella realtà poca cooperazione

in virtù di mantenere saldo il cammino sulla strada dell’interesse nazionale. Cammino che si fa

sempre più tortuoso a causa della enorme complessità delle variabili interne al sistema

internazionale e, soprattutto, per le forze del mercato; sempre più forti e indipendenti dagli Stati

stessi.

A livello globale negli ultimi decenni si è assistito al crollo del sistema di governance definito in

seguito alla seconda guerra mondiale a Bretton Woods. La guerra armata è stata in buona parte

sostituita da quella economica e le relazioni tra soggetti internazionali si basano sempre più su                                                                                                                30 Cfr. Brunello Rosa, “La guerra delle valute”, op. cit. pp. 9-10

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postulati economici. Differenti gradi di collaborazione economica in diverse regioni del pianeta

favoriscono il formarsi di una multipolarità differenziata, ma al contempo sostengono anche

l’utilizzo dell’intelligence economica.31 Quest’ultima è diventata ora più che mai una delle armi

più importanti per un paese; la raccolta di dati di natura economica, la loro elaborazione e la

produzione di informazioni per il governo, da la possibilità di effettuare scelte giuste in politica

economica, in questo mondo sempre più governato dalle “logiche” del mercato, come dimostrato

dagli effetti della crisi sul sistema internazionale.

Conclusioni

Abbiamo visto come il potere dei mercati può influire sulle scelte dei governi in politica estera,

quali sono state le conseguenze della crisi economica cominciata nel 2007 e probabilmente

ancora non conclusa, e abbiamo cercato di spiegare la fase storica in cui ci troviamo attraverso

uno studio delle dinamiche dell’economia mondiale. Ma allora, possiamo attribuire questa

condizione ultra-caotica in cui ci troviamo, alla finanza? Non del tutto, a parer mio.

Però è necessario fare alcune considerazioni. Dopo la fine della Guerra Fredda, l’entrata nel

mondo post-globale e l’allargamento dello stile di vita occidentale, simboleggiato dal

capitalismo, ai paesi ex socialisti o semplicemente prima sottosviluppati, sembra che vi sia una

sempre maggiore crisi di valori. I valori del nazionalismo (“sano” ovviamente, quello di

attaccamento alla propria Patria, da non confondere con quello aggressivo), del rispetto delle

tradizioni, dei sani principi e soprattutto del dar un peso superiore alle cose immateriali, quelle

che non si possono comprare con i soldi. L’avvento della società del capitale ha innescato una

corsa all’arricchimento, rovesciando tutte le priorità: oggi è più importante avere che essere.

Nelle democrazie, i governanti sono lo specchio della società; una società che non ha alcun

interesse a mantenere intatti i valori, quelli veri, ma che insegue solo la ricchezza, non può

produrre altro che un governo che ricerca prevalentemente di fare “buoni affari”, invece che

promuovere un’alternativa ad un sistema che ha dato prove lapalissiane di avere delle forti

contraddizioni interne. E’ proprio vera la frase che dice che oggi non ci sono più gli statisti, ossia

coloro che vedono la risoluzione dei problemi di qui a dieci anni, ma solo politicanti, i quali si

preoccupano di trovare le soluzioni dall’oggi al domani. Ma i problemi non si risolvono così.

Questa condizione, assieme alle nuove tensioni prettamente militari e geopolitiche che sono

riaffiorate negli ultimi anni e al terrorismo internazionale, creano una msicela esplosiva, dove il

flusso enorme di informazioni non può essere controllabile da chiunque, e le persone si lasciano                                                                                                                31 Cfr. Laris Gaiser, “Economic Intelligence For a New World Order”, 2016. Disponibile online all’indirizzo: http://www.dsps.unifi.it/upload/sub/economic-intelligence-for-a-new-world-order.pdf

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spesso condizionare dal “sentito dire” più che dalla loro iniziativa di studio e approfondimento;

quel tipo di iniziativa reso quasi inesistente dalla società della ricchezza; della ricerca del

superfluo; della soddisfazione dei bisogni materiali. Il capitalismo finanziario ha delle colpe per

questo: non tanto per la sua natura, ma per l’uso fattone dall’uomo che ne ha estremizzato il

significato, portandolo ad una complessità mai conosciuta prima, e servendosene senza alcuno

scrupolo. La finanza ha mutato il suo ruolo e da sostegno all’economia reale è passata ad essere

sostegno di se stessa e gli Stati sono sempre più costretti a cedere porzioni di sovranità sul piano

economico e finanziario, soprattutto a causa dello spostamento incontrollabile dei capitali da una

parte all’altra del mondo. La situazione è decisamente complessa, e il rapporto finanza-politica

ne è l’emblema.

Lorenzo Bonucci

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Bibliografia

Monografie e volumi collettanei

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Articoli, saggi e riviste

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