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Terence Hill & Bud Spancer

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La vera storia di Terence Hill e Bud Spencer

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TERENCE HILL &

BUD SPENCERLA VERA STORIA DI

GIUSEPPE COLIZZIL’UOMO CHE INVENTÒ

LA COPPIA

EDIZIONI FALSOPIANO

Francesco Carrà

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© Edizioni Falsopiano - 2010via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAhttp://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini

Stampa: LaserGroup s.r.l. - Peschiera BorromeoPrima edizione - Aprile 2010

Ringraziamenti

Voglio ringraziare, di cuore, Terence Hill e Bud Spencer. Un grazie particolare a Sandra Zingarelli e a

Enzo D’Ambrosio per la gentilezza che mi hanno dimostrato (e per il preziosissimo materiale) e a Luca

Pallanch del Centro Sperimentale di Cinematografia per il suo fondamentale appoggio. Ringrazio, per la

loro disponibilità, Barbara Alberti, Paolo Bianchini, Manolo Bolognini, Rick Boyd, Mario Bregni,

Alessandro Colizzi, Maurizio De Angelis, Diamante, Marcello Gatti, Roberto Girometti, Ugo Gregoretti,

Romolo Guerrieri, Michele Mirabella, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Enzo Monteduro, Glauco

Onorato, Antonio Siciliano, Tonino Valerii e Lina Wertmuller.

Un ringraziamento per l’insostituibile aiuto ai professori Raffaele De Berti ed Elena Dagrada, a Franco

Grattarola, Domenico Monetti, Lucia Zetera della Biblioteca Sormani di Milano, Roberta Antonioni della

Cineteca di Bologna, alla Libreria Menabò e alla videoteca Bloodbuster di Milano.

Grazie anche a Simone, Giulio, Viola, Marcello, Il Maestro Galati, Toto, Enzo, Fax, Chiara B., Serena (con

cui prenderei un caffè al giorno), Laura De Carlo, Laura Cordasco, l’amico sui pattini Stefano Mattia

Caruso, Daniela Calabrese, Celeste, il chitarrista decadente Luca Colombo, Carlo Clerici, Elisa Della

Corna, Roberto di Città Sommersa, Paul, la musica di Enrico Ruggeri.

Ancora un grazie a chi mi ha confortato e sostenuto (letteralmente) durante i miei frequenti viaggi: la sto-

rica e ormai scomparsa Trattoria “dell’Angolo” a Milano, Pino del ristorante “La Chiappana” di

Abbiategrasso, Giuseppe della pizzeria “Giggetto” a Roma, “l’Osteria al 21” a Roma, la Trattoria “Otello

alla Concordia” a Roma e ovviamente tutto lo staff del ristorante “Torre dei Gelsi” a Cisliano.

Infine un ringraziamento alla mia famiglia e a tutti i miei (numerosi) parenti.

P. S. Di sicuro non ringrazio le mie “maestre” delle scuole elementari.

In copertina: Terence Hill e Bud Spencer sul set di Più forte ragazzi!

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INDICE

Non solo Leone

di Raffaele De Berti p. 11

Introduzione p. 15

Capitolo Primo

Ma chi era Giuseppe Colizzi? p. 17

La vita p. 17La carriera di scrittore p. 19La notte ha un’altra voce, il primo romanzo p. 19Orrendamente legittima, il secondo romanzo p. 22Giuseppe Colizzi e il Western: fu la mano del destino? p. 24Appendice: Colizzi narratore, due pagine “cinematografiche” p. 29

Capitolo Secondo

L’opera prima: Dio perdona... io no! p. 35

La nascita della coppia p. 35Il film p. 40Analisi e descrizione di una sequenza: La partita a poker p. 48Tra film e sceneggiatura p. 58Documenti p. 61Si dice… ma sarà vero? p. 66La gavetta di Colizzi: l’incontro (scontro) con Federico Fellini p. 68

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Capitolo Terzo

Sulle orme del leone: I quattro dell’Ave Maria p. 71

Il film p. 72L’equilibrio di Giuseppe Colizzi p. 89Analisi e descrizione di una sequenza: Resa dei conti al casinò p. 89Tra film e sceneggiatura p. 96Documenti p. 99Si dice… ma sarà vero? p. 106Incontro con Marcello Gatti e Roberto Girometti p. 107Quattro chiacchiere con Rick Boyd p. 109

Capitolo Quarto

Un film iconoclasta: La collina degli stivali p. 115

Il film p. 116Il genere western e la politica p. 129Un film fuori tempo p. 132Documenti p. 135Tra film e sceneggiatura p. 140Si dice… ma sarà vero? p. 141Incontro con Romolo Guerrieri p. 141

Capitolo Quinto

Oltre la frontiera: Più forte ragazzi! p. 145

Il film p. 145Analisi e descrizione di una sequenza: A ritmo di samba p. 159Documenti p. 175Si dice… ma sarà vero? p. 185Il Soggetto di Più forte ragazzi! p. 187

Capitolo Sesto

La divisione dalla coppia: Arrivano Joe e Margherito p. 197

Il film p. 197

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Documenti p. 203I ricordi di Enzo Monteduro p. 210

Capitolo Settimo

Gli ultimi sogni p. 213

Noi pirati - Jolly Roger p. 213Qualche appunto sulla sceneggiatura p. 214L’esperienza della Telelibera: SPQR p. 218Switch p. 225Il film p. 231è morto Giuseppe Colizzi p. 235

Capitolo Ottavo

Testimonianze: ... a proposito di Giuseppe Colizzi p. 239

Conversando con Terence Hill p. 239Conversando con Bud Spencer p. 255Conversando con Manolo Bolognini p. 261Conversando con Enzo D’Ambrosio p. 265Conversando con Mario Monicelli p. 273Conversando con Paolo Bianchini p. 275Conversando con Tonino Valerii p. 277Conversando con Mario Bregni p. 281Conversando con Glauco Onorato p. 285Conversando con Maurizio De Angelis p. 291Conversando con Antonio Siciliano p. 295

Alla ricerca del cinema perduto

di Enzo D’Ambrosio p. 305

Filmografia p. 319

Bibliografia p. 325

Siti consultati p. 331

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Giuseppe Colizzi

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NON SOLO LEONE

di Raffaele De Berti

Il fatto che Sergio Leone sia un grande autore della storia del cinema èormai un dato ampiamente acquisito da tutta la critica. Ma intorno a quelcinema western e di genere, che negli anni Sessanta ha avuto in lui il gran-de innovatore, c’è ancora molto da scoprire, o perlomeno da rivedere erileggere con maggiore attenzione, anche se non sono mancati studi in pro-posito come quelli di Luca Beatrice o Stefano Della Casa, che hanno messoin luce le qualità autoriali di registi come Sergio Corbucci e Sergio Sollimao quelle di ottimi “artigiani” del cinema di genere come Enzo G. Castellari,Franco Giraldi, Giulio Petroni, Duccio Tessari, Tonino Valerii e, appunto,Giuseppe Colizzi.

Districarsi nella miriade di film di genere, soprattutto western, realizzatiin Italia fra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta non ècerto facile, ma accanto alla notevole quantità di pellicole di scarso valore sipossono trovare prodotti di grande interesse che testimoniano le capacità pro-fessionali e artistiche non solo dei registi, ma degli attori, degli sceneggiato-ri, dei direttori della fotografia, dei musicisti e di quanti lavorano nel nostrocinema in quel periodo.

Ripercorrere la purtroppo breve storia cinematografica di GiuseppeColizzi vuol dire non solo valorizzare il suo lavoro, riconoscendogli anchedelle qualità autoriali, ma immergersi in quella stagione d’oro del cinema ita-liano per meglio conoscerla e capirla anche attraverso le testimonianze diret-te di chi ha collaborato con lui. Lo studio appassionato di Francesco Carrà per“l’uomo che ha inventato Terence Hill e Bud Spencer” unisce all’analisiapprofondita dei film, che dimostra la presenza di tratti di originalità rispettoagli stereotipi di genere, i ricordi di personaggi della Hollywood sul Teverepiù o meno noti al grande pubblico.

Colizzi respira l’aria del cinema già in famiglia come nipote di LuigiZampa, ma come molti giovani intellettuali del dopoguerra cerca la propriastrada professionale muovendosi in modo inquieto fra la letteratura, nellaquale debutta con successo con il romanzo La notte ha un’altra voce nel

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1958, e i diversi mestieri del cinema prima di arrivare alla regia con Dio per-dona… io no! (1967), con la creazione della coppia Terence Hill - BudSpencer, pellicola alla quale faranno seguito gli altri due western I quattrodell’Ave Maria (1968) e La collina degli stivali (1969). Una trilogia westernnella quale, come ben mostra Carrà nel libro, l’influenza del maestro SergioLeone è evidente soprattutto in I quattro dell’Ave Maria, ma senza che que-sto porti a una banale imitazione dell’originale, trovando, al contrario, anchevie personali e originali di sviluppo.

Colizzi ha il sesto senso degli uomini cinema che intuiscono i cambia-menti che stanno avvenendo e cercano nuove strade: per questo lascia ilwestern ormai sul viale del tramonto alle soglie degli anni Settanta e puntasul genere avventuroso comico adatto a un pubblico di bambini e adulti, e nel1972 realizza Più forte ragazzi! cui seguirà il meno fortunato Arrivano Joe eMargherito (1974), senza più la coppia Hill - Spencer.

A dimostrazione di come la parabola professionale di Colizzi sia emble-matica di quanto avviene nel mondo dei media italiani nell’arco temporalecompreso fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, i suoi ultimi lavori primadella morte nel 1978 lo vedono impegnato come direttore artistico nell’espe-rienza della nascita nel dicembre 1976 di SPQR (Società ProduzioniQuotidiane Radiotelevisive), una delle prime televisioni private romane.Un’esperienza che Colizzi racconta quasi in diretta in Switch (1978), suo ulti-mo invisibile film su quel mondo delle emittenti libere che, intuisce, porteràalla formazione di una nuova generazione di professionisti e alla profondatrasformazione del sistema dei mass-media, nel quale a dominare non è piùlo schermo cinematografico ma quello televisivo.

Una monografia come quella di Carrà su Colizzi è dunque un tassello utilea ricomporre il complesso e ricco mosaico di un cinema italiano non solocostituito dai più grandi e riconosciuti maestri.

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Due rare immagini di Giuseppe Colizzi sul set di Arrivano Joe e Margherito

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INTRODUZIONE

Giuseppe Colizzi è un nome sicuramente sconosciuto al grande pubblicocinematografico (e forse, in parte, anche al piccolo) ma per ciò che ha inventa-to l’industria italiana del cinema dovrebbe, almeno, ricordarsi ancora di lui.

Ma cosa ha inventato di così eclatante quest’uomo… una formula segreta?Non proprio, ma la formula per attirare il pubblico al cinema quella sì, e haun nome, anzi due, Terence Hill e Bud Spencer! Se in Dio perdona… io no!,l’esordio cinematografico di Colizzi, la scoperta della coppia è avvenuta percaso, con i film successivi il regista saprà re-inventarla e dosarne le poten-zialità all’interno delle sue sceneggiature. Giuseppe Colizzi, però, non puòessere identificato solamente come l’inventore di Terence Hill e Bud Spencer,altrimenti passerebbero in secondo piano le sue doti di regista formatosi conuna gavetta cinematografica che lo ha portato a lavorare con registi del cali-bro di Luigi Zampa, Federico Fellini, Sergio Leone e molti altri. Dietro ilcarattere ironico dei suoi film si nasconde la figura di un uomo complesso,forse non capito fino in fondo, in ogni caso un uomo dal talento multiforme:ben prima di passare alla regia Colizzi è stato scrittore di buon successo perMondadori, dimostrando quelle qualità narrative che saranno il punto fortedelle sue sceneggiature.

Questo libro, attraverso l’analisi dei film, della rassegna stampa, delle foto-grafie e delle interviste di chi lo ha conosciuto (essenziali per comprenderel’uomo e il passaggio che lo ha portato dalla produzione alla regia) si proponedi ricostruire la storia di un autore altrimenti destinato all’anonimato.

Nella vita di Giuseppe Colizzi, inevitabilmente, torneranno sempre i nomidi Bud Spencer e Terence Hill (nell’ordine che più vi piace, sono entrambigrandi artisti): la coppia creata, cercata e tanto amata (anche per ovvie ragionicommerciali) dal nostro regista. Carlo Pedersoli e Mario Girotti (alias BudSpencer & Terence Hill) gli sono oggi molto grati, consapevoli che l’incontrocon Giuseppe è stato uno di quelli che cambiano la vita.

è Terence Hill a raccontare dell’abilità professionale di Colizzi: “cercavasempre l’angolazione migliore per riprendere i personaggi, provava le luci,stava attento ai costumi… ”. Un regista che si dimenticava della ragione com-merciale, e che spesso si faceva trascinare dall’entusiasmo, dal desiderio dimettere in scena un sogno, il suo sogno.

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Anche Bud Spencer lo ha confermato: “Lui scriveva con la pellicola, avevagià tutto il film in testa. E questo è raro nel cinema”.

Con questo contributo, quindi, vorrei restituire visibilità e dignità artisticaad un cineasta dimenticato troppo in fretta, con la speranza che possa occupa-re il posto che merita nella nostra memoria di spettatori sempre più disattenti.

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Capitolo Primo

MA CHI ERA GIUSEPPE COLIZZI?

Di solito, di norma, per raccontare un artista bisogna guardare e conte-stualizzare le sue opere. Se nei capitoli che seguiranno analizzerò il suo per-corso artistico (chi era Colizzi?), non posso comunque, ora, non partire dal-l’inizio, ovvero da una breve biografia del personaggio: la classica biografia,breve, in stile “dizionario del cinema”, utile per inquadrare un regista scono-sciuto anche alla maggioranza dei lettori. Ma prima mi pare interessante leg-gere un ritratto di Giuseppe Colizzi preparato da quella che allora era la suacasa editrice; una descrizione romanzata ed affascinante, che ci aiuteràmeglio a comprendere con chi abbiamo a che fare 1:

“Giuseppe Colizzi è nato a Roma dove ha compiuto gli studi classici e dove,ora, risiede. Da ragazzo, sfuggendo alle premure che opprimono i figli unicinelle famiglie borghesi, ha vissuto soprattutto in strada, incanagliendosi concompagni casuali, alternando le partite di caccia, la boxe e il canottaggio, allastesura dei primi racconti che l’esperienza della strada, più ancora di quellafamiliare, gli suggeriva. Dopo la guerra e dopo un lungo soggiorno inSvizzera, pur senza abbandonare la speranza di dedicarsi alla letteratura, halavorato per alcuni anni nel cinema, collaborando con molti dei nostri miglio-ri registi. Ciò gli ha permesso di viaggiare in Italia, in Francia, in Austria, inSvizzera e poi in Africa e in America, in automobile e con mezzi di fortuna, scri-vendo racconti tra la preparazione di un film e una partita di caccia o di pesca.Le disparate avventure, gli incontri fatti in vari paesi, in ogni campo e in ogniclasse, la sua passione di viaggiare solo sulle strade americane, come daragazzo amava vivere in quelle del suo quartiere periferico romano, gli hannosuggerito alcuni racconti lunghi, ancora inediti, e questo suo primo romanzo”.

La vita

Giuseppe Colizzi nasce a Roma nel 1925. Grazie al regista Luigi Zampa(di cui era nipote) entra nel mondo del cinema all’età di 23 anni. Sui set ita-liani trascorre una lunga gavetta che lo porta a collaborare con alcuni grandi

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nomi del cinema italiano, tra i quali Federico Fellini e Sergio Leone. Duranteil suo apprendistato avrà modo di svolgere i più svariati compiti: direttore diproduzione, aiuto regista, sceneggiatore, montatore, produttore 2.

Il 1958 è l’anno in cui Colizzi tenta con successo la carriera di scrittore,pubblicando per la Mondadori il romanzo gangsteristico La notte ha un’altravoce a cui fa seguire nel 1960 Orrendamente legittima, una sorta di giallo psi-cologico incentrato su un caso di uxoricidio.

Nel 1967 si presenta l’opportunità di passare dietro la macchina da presa.Utilizzando un soggetto scritto da lui stesso, debutta con Dio perdona… iono! affiancando per la prima volta sullo schermo Bud Spencer e Terence Hill,futura miniera d’oro dei botteghini italiani. Forte del successo ottenuto,riprende i personaggi del primo film per realizzare un seguito con I quattrodell’Ave Maria (1968), che vede al fianco dei due protagonisti uno straordi-nario Eli Wallach. Nel 1969 la trilogia si conclude con un insolito westernambientato in un circo: La collina degli stivali, dove l’ironia della coppiaviene smorzata da un’atmosfera perennemente drammatica.

Se nel 1970 al nostro non accade niente di rilevante dal punto di vista arti-stico, non è così per Bud Spencer e Terence Hill: esce al cinema Lo chiama-vano Trinità, il film di Enzo Barboni che plasma definitivamente la psicolo-gia dei loro personaggi cinematografici 3. Nel 1972 Giuseppe Colizzi pensa diproporre ai due attori un nuovo genere, non più un western, ma una storiad’ambientazione contemporanea: Più forte ragazzi!

Il film, che racconta l’avventura di due trasvolatori precipitati inColombia, ancora oggi si differenzia per originalità ed eleganza formalerispetto ad altre pellicole che vedono come protagonista la coppia BudSpencer - Terence Hill 4.

Il connubio fra comicità e avventura è riproposto (ma con esito meno feli-ce) nel 1974 con Arrivano Joe e Margherito, interpretato dagli americaniKeith Carradine e Tom Skerritt. Nel 1975, dopo la riforma del sistema tele-visivo che sancisce la fine del monopolio Rai, Colizzi fonda a Roma laSPQR: una delle prime emittenti private italiane. Decide di dedicare a questaesperienza un film e inizia così a scrivere il soggetto di Switch (1978), la sto-ria di un gruppo di giovani alle prese con l’organizzazione di una televisio-ne. Purtroppo la pellicola rimarrà incompiuta a causa della sua prematurascomparsa: Colizzi muore il 22 agosto del 1978, all’età di 53 anni.

Terence Hill lo ricorda cosi:

“Colizzi era un regista che aveva veramente tanto talento, tanto rigore, tanto

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buon gusto… un regista speciale. […] All’epoca c’erano soltanto due registiche facevano bene il western all’italiana: uno era Sergio Leone e l’altroGiuseppe Colizzi” 5.

La carriera di scrittore

Prima di esordire come regista cinematografico pubblica due romanzi perMondadori, La notte ha un’altra voce e Orrendamente legittima. Due romanzimolto lontani - sia come stile che come tematica - dalle future pellicole cinema-tografiche ma che ci sembra corretto tenere in considerazione prima di passareal debutto registico del Nostro ed alla nascita della celeberrima coppia 6.

La notte ha un’altra voce, il primo romanzo

Argomento. Il lungo viaggio che Diego Loina compie sulle grandi stradeamericane, verso una città dove spera di trovare quel modo di vita armonio-so e ideale cui aspira dall’infanzia, non è altro, in fondo, che il passaggiodalla giovinezza alla maturità di ogni uomo che abbia nutrito in se stesso quelsogno meraviglioso e impossibile che è la ricerca dell’assoluto. Fin dall’ado-lescenza, ascoltando per notti e notti presso i fuochi da campo, i discorsi del-l’operaio Joe, Diego ha vagheggiato Fair City, la città dalla quale Joe è statocostretto a fuggire e che rimpiange: “una calma e laboriosa città dove la gentesa divertirsi la domenica e dove c’è lavoro onesto e pacifico per chiunqueabbia voglia di lavorare pacificamente e onestamente”. L’autore non ci dicese Diego arrivi, materialmente, a raggiungerla; ma ogni viaggio è motivo diesperienza e di incontri; su ogni strada, infatti, l’uomo può incontrare perso-ne e sentimenti e, talvolta, addirittura se stesso. La storia di questo lungoviaggio e di questi incontri è narrata ne La notte ha un’altra voce con unaforza, una furiosa violenza, che coinvolge il lettore nelle vicende di Diego, lofa partecipare alla nascita di un amore che, a poco a poco, con una fatalitàinesorabile diviene il motivo principale del dramma e della vicenda.

Siamo all’interno di un bar, quando Diego, dal suo tavolo dove sta consu-mando un pasto, assiste curioso ad una scena: un giovanotto si avvicina alJuke Box per accendere la musica ed improvvisamente alcuni prepotenti glisi piazzano davanti con aria minacciosa;“Scusa, sai. Ma stasera ho mal di testa e ogni rumore mi dà sui nervi”

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“Cosa?”“Ti sto dicendo di lasciar stare…”“Ma la mia ragazza…”“Se alla tua ragazza piace la musica, comprale un bel grammofono, oppuresuonagliela tu stesso, ma non qui”.

Questo dialogo non sfigurerebbe in un classico film della coppia “BudSpencer & Terence Hill”; magari con Riccardo Pizzuti 7 al posto dello spac-cone, e Terence Hill nei panni di Diego Loina, che, non a caso, poco dopo sialza dal tavolo e da il via ad una movimentata scazzottata.

Per quanto le tematiche de La notte ha un’altra voce possano appariredistanti dai film, in realtà contengono già tutti i presupposti del suo stile futu-ro. La prima cosa ad accomunarli è la freschezza dei dialoghi, sempre bril-lanti e sempre incisivi, quando serve. Se poi il libro viene letto dopo avervisto i film, acquista anche un valore aggiunto, si scoprono infatti alcuni ele-menti che ritorneranno proprio nelle pellicole cinematografiche di Colizzi:pensiamo al nome del personaggio femminile (Rose, come la donna in DioPerdona… io no!) o ai juke box, che qui sono al centro della storia ma chesaranno una costante anche nei bar di Più forte ragazzi!.

Ma ne La notte ha un’altra voce troviamo soprattutto la città di Fair City 8,la città che Joe continua a rimpiangere, e che diventa una città utopica perDiego… la meta di un viaggio destinato a cambiargli la vita. Ecco quindi chela Fair City de I quattro dell’Ave Maria assume - sotto questa prospettiva -tutto un altro significato: diventa la conclusione di un viaggio, di un’avven-tura, di una ricerca 9, anche e soprattutto interiore.

Ma salta agli occhi anche una differenza, fondamentale con le pellicolecinematografiche che è giusto ricordare: nel romanzo ritroviamo un perso-naggio femminile importante e ben caratterizzato. Un fatto insolito perchénei film del Nostro generalmente i protagonisti sono tutti maschili e l’ele-mento amoroso, contraltare dell’amicizia virile, è quasi del tutto assente. NeLa notte ha un’altra voce compare il personaggio di Rose Sobel, la donna percui il protagonista della vicenda perde la testa.

“Soltanto l’odore di una donna fa lasciare a un uomo il lavoro, il guadagnosicuro, gli fa fare un sacco di fesserie, insomma, e lo fa correre come uncavallo che sente l’odore della stalla”.

Giuseppe Colizzi, che in futuro si muoverà in un universo tutto al maschilecome il genere western (specialmente quello italiano), sorprende qui per l’a-

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bilità con cui tratteggia l’evolversi dei sentimenti di Diego verso questadonna per lui “fatale”; il protagonista si comporta inizialmente come unragazzino innamorato (con tutti i rancori e i dubbi tipici dell’innamoramen-to), per poi arrendersi inesorabilmente al flusso dei sentimenti:

“Vuoi sposarmi?” le avrei chiesto, vinto dal suo modo d’essere che avevotentato di giudicare, involgarendolo, per liberarmi dall’ossessione di lei,senza riuscirvi…”.

Alcuni passaggi densi di approfondimenti psicologici sono davvero note-voli: un esempio è rappresentato dal rifiuto di Rose nei confronti di Diego.Se inizialmente pare un’occasione per litigare 10, successivamente tutto sichiarisce: Diego “si vendica” (ma in realtà si umilia) andando a letto con unaprostituta; Colizzi con una coinvolgente essenzialità rende benissimo la sen-sazione di rancore che Diego sta provando in quel difficile momento.Sfogliando le pagine, eccoci nella seconda parte del romanzo, un altro“momento psicologico” interessante: il protagonista che dialoga con se stes-so mentre ripensa ai fantasmi della sua infanzia, una conversazione fra il suoio del presente e il suo io del passato.

Insomma, La notte ha un’altra voce rappresenta un ottimo esordio lette-rario per un autore a cui le pagine di un libro andranno sempre più strette, eche troverà nella pellicola cinematografica l’occasione per raccontarci altrestorie, pur sempre in linea con l’attività di scrittore.

Per concludere è utile rileggere due pareri di lettura tratti dal volume Ilmestiere di leggere 11: sono voci autorevoli (entrambe del 1958, in ordineGiuseppe Cintioli ed Elio Vittorini), che esprimono un giudizio lusinghierosu questo esordio letterario di un giovane, futuro regista 12.

Valore letterario. Lavoro alquanto complesso, tematica propria da letteratu-ra americana. Nume ispiratore: Faulkner; il primo e anche il più maturoFaulkner 13. Tale la direzione. Opera sperimentale, nel senso migliore, quin-di necessariamente soggetta a sbandamenti, discontinuità, ingenuità. Ma ilnocciolo c’è, e si può dire di un inconsueto nocciolo […]. Temperamento dascrittore, coraggio narrativo, respiro abbastanza ampio, rilevante senso deltragico quotidiano, capacità di trattare la realtà cogliendola nel suo punto dirottura. […] Aggettivazione ricca ma non fastidiosa.

Romanzo di contenuto americano e scritto all’americana ma tuttavia in buonitaliano e con perfetta naturalezza senz’ombra di manierismo. Scrittore

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autentico cui manca pochissimo per essere pienamente maturo. Si pone inprima fila tra i giovani migliori venuti fuori dal neo-realismo. […] Qualchedifetto che il libro contiene il Colizzi può correggerlo molto facilmente.Sarebbe nel suo interesse che lo correggesse, che si adattasse ad accettare ilnostro consiglio di correggerlo (si tratta soprattutto di togliere, per una cin-quantina di pagine circa, qua e là). Ma non c’è dubbio che noi abbiamo inte-resse a prenderlo e a pubblicarlo al più presto.

Orrendamente legittima, il secondo romanzo

“E lo sentiva rifiorire sopra di sé, rivivere in sé mentre un’irrefrenabilepurissima gioia la smemorava in un tempo nuovo, minuti che cancellavanoanni, tutti gli anni e tutti i volti in essi contenuti”

Argomento. Fulvio Poggi, rappresentante di commercio, ha tentato di ucciderela moglie lasciando il rubinetto del gas aperto e scappando di casa. Da Roma aGenova. Qui, fuori di sé, cerca e possiede Anna: una sua vecchia amica cono-sciuta per caso. Fulvio confessa alla ragazza il supposto delitto. Anna, nono-stante sia già l’amante di un altro uomo, perde la testa per questo amico dispe-rato e cerca di aiutarlo. I due fuggono a Sanremo dove la ragazza introduceFulvio, che si spaccia per giornalista, nel mondo della cosiddetta alta società…

Il secondo romanzo di Giuseppe Colizzi presenta degli argomenti menovalidi rispetto al sorprendente esordio de La notte ha un’altra voce, ma stu-pisce per come l’autore sa padroneggiare tematiche (il sesso, l’amore e i sen-timenti contrastati) che nelle sue pellicole saranno praticamente assenti.Stupisce positivamente. Colizzi si dimostra un fine conoscitore dell’animoumano, specialmente dell’amore e di tutte le sue sfaccettature (o complica-zioni-degenerazioni). Il personaggio che esce meglio da questa triste storia èquello di Anna, la ragazza che segue il protagonista Fulvio in questa torbidavicenda che ruota attorno a un uxoricidio. Anna è una donna sola, innamora-ta, impaurita, forte, infine tradita. Evidentemente il regista che tra la sabbiadel deserto racconterà le gesta di Cat e Hutch, conosce bene anche quello chele donne non dicono, tanto per citare una canzone di successo. Anche in que-sta circostanza è giusto dare un’occhiata alle recensioni d’epoca: il giudiziosul libro è nettamente contrastante. In un parere tratto ancora dal volume Ilmestiere di leggere 14 (ancora Giuseppe Cintioli, 1961) si mette in evidenzal’inferiorità del testo rispetto al primo romanzo dell’autore. Nella seconda

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recensione (non a caso di Valerio Zurlini), presa invece dalla scheda intro-duttiva di Orrendamente legittima, l’autore viene lodato come scrittore dota-to di talento naturale e si accenna alla sua “carriera” cinematografica.

Qualità. Non certo buone. Grosso decadimento in cfr. al primo libro: in cuic’era uno sforzo, sia pure con fortissime suggestioni americane e cinemato-grafiche, abbastanza sentito, di narrare. E si trattava di un primo libro. Quisiamo al secondo […], e la situazione è mutata. L’a. ha digerito molto altrocinema d’intrattenimento, è pieno di furberie; e in quanto a letteratura, rie-sce a farsi leggere (con tutti i limiti del caso) solo quando imita qualcuno:quando s’impasolinisce (nel volgare) o quando s’inmoravia (ibid). Questedue ‘direzioni’ non hanno del resto gran campo. Il grosso del racconto è piut-tosto tentato dal fumetto (o fumettone) da un lato, dal neorealismo generi-cissimo dall’altro; con aspersione di ‘monologhi interiori’ di ascendenza piùo meno U.s.a. (non Joyce, no; e nemmeno Pavese). Ma in quanto a interes-se, sia pure con tutto questo scialo di ‘tessere’, pochino. Descrizioni risapu-te, brividi sexy risaputissimi, convenzionalismo brado; e qua e là una since-rità narrativa (quando l’a. non si appicca a nessun altro) che svela in pienolimiti personali da narratore volontaristico e meno abbiente.Un ‘romanzo’ così - a parte i sottovalori - può avere del successo commer-ciale? Si direbbe di no. E proprio per l’indecisione con cui l’a. dà giù ilbrodo, senza fare propriamente fumetto e senza riuscire a impegnarsi inqualche direzione. Sotto sotto, si pensa che a lui, di quel che scrive, nongliene ‘freghi’ proprio niente. Ha la mano facile, una spiccata capacità diassimilazione (bocca buona) e tanta voglia, si suppone, di giungere allafama. E così, nel passaggio dal primo al secondo libro, lo troviamo tropposicuro di sé: a tal punto da non accorgersi di essersi, come narratore, sedu-to. Oltre tutto, il racconto è prolisso; e salvo dei gruppi di pagine qua e là,prevedibilissimo e non giustificato: né psicologicamente né sotto altri aspet-ti. Fa parte insomma di quel ‘romanzismo’ in pelle che al presente (i fruttidell’istruzione?) ci affligge. Negativo.

Quando Lenin vide per la prima volta la “Corazzata Potemkin” esclamò conentusiasmo che il cinema era la più importante di tutte le arti, e da un puntodi vista sociale e politico aveva ragione. Mai infatti un mezzo d’espressioneaveva servito con tanta entusiasmante aderenza una causa rivoluzionaria. Inaltri momenti di crisi il cinema ugualmente si riportò a posizioni di indica-zione e di guida, e film come i capolavori del neo realismo italiano hanno

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influenzato, e come, il discorso delle arti maggiori del dopoguerra. Ma oggi,nella grassa sonnolenza del miracolo economico, il cinema viene nuovamen-te guardato con diffidenza e se qualche traccia del suo linguaggio affiora conla sua emozione diretta nelle altre e classiche forme di espressione, questo ècome il contatto del lebbroso, è una mano che marcisce quello che tocca, sidice “è cinematografico” e viene addirittura un sospetto di bassa specula-zione. Così, di fronte ad alcuni libri dei nostri maggiori autori, visivi al puntodi non aver bisogno neppure di una riduzione per essere pronti alla nuovaveste cinematografica, è una grossa sorpresa la lettura di Orrendamentelegittima di Giuseppe Colizzi, sceneggiatore, aiuto regista, direttore di pro-duzione, uomo di cinematografo. Anche questo libro prende qualche cosa alcinema: forse l’unità malinconica della narrazione, alcuni luoghi che sonogià decisivi per la storia al momento della loro scelta, il treno, quella Genovain un primo mattino invernale, il night club di San Remo, la soffitta doveFulvio Poggi viene rinchiuso…Ma i due personaggi, due tra i più vivi e commoventi della letteratura italia-na degli ultimi anni, usciti anche loro dalla cronaca morale dei rotocalchi,con le loro ambizioni sbagliate e la loro inevitabile rassegnazione, questi duepersonaggi pronti per un film sono descritti, seguiti e indagati con il puro lin-guaggio della letteratura, nelle loro azioni ma anche e soprattutto nei loropensieri - ora visti e analizzati dal narratore, ora lasciati a loro stessi e alloro mediocre destino. Giuseppe Colizzi ha cominciato la sua carriera lette-raria, avendo raggiunto un invidiabile ed autorevole posizione nel cinemato-grafo, con un atto di volontà. Ha voluto scrivere e per due anni è scomparsoe si è sottoposto ad una disciplina durissima. Acquistare a più di trent’anniun mezzo d’espressione nuovo, anche quando ci si sente irresistibilmenteportati, è come cambiare dimensione. Dobbiamo concludere che GiusepppeColizzi è nato scrittore, poiché uno stile così nitido, robusto, alieno da truc-chi o da aggiramenti della realtà, non lo si impara. Se lo portava dentro, son-necchiava. Probabilmente quando dietro alla macchina da presa prendevaquei rapidi appunti di ambiente e di paesaggio che oggi ritroviamo nel libro,carichi di struggimento e di commozione.

Giuseppe Colizzi e il Western: fu la mano del destino?

Le ragioni che hanno portato uno scrittore di (quasi) successo a cimentar-si nella regia cinematografica sono state puramente economiche: con un gros-so debito nei confronti di Cinecittà, Colizzi decide di debuttare dietro la mac-

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china da presa, con la speranza di sfondare al botteghino. Il debito derivadalla carriera del Nostro come produttore cinematografico: Le belle famiglie(1965) 15 di Ugo Gregoretti e Questa volta parliamo di uomini (1965) di LinaWertmuller non ottengono nei cinema i risultati sperati, lasciando così iltalentuoso scrittore in pericolosa perdita. La scelta di esordire con una pel-licola western, invece, si può facilmente comprendere: negli anni ’60 lo spa-ghetti western è un genere ancora in grado di garantire un successo assicu-rato (costa poco ma soprattutto il pubblico ne è avido). Non è certo sbaglia-to affermare che Giuseppe Colizzi arriva al western per necessità e per caso.L’intervista a Enzo D’Ambrosio, raccolta in fondo al libro, oltre a ricostrui-re il passaggio che il Nostro compie dalla pagina del libro alla mdp, confer-ma come egli non avesse alcuna intenzione di fare il regista, tantomeno difilm western 16.

Eppure, quello che parte come un banale film di recupero, diventa nellemani di Colizzi la base per una trilogia, La saga di Cat e Hutch. Ciò che col-pisce maggiormente è che i film della trilogia colizziana sono tutt’altro chesemplici prodotti di genere; ogni pellicola rivela l’impronta del suo creatore,il quale riesce a filtrare il proprio gusto personale all’interno di un genere for-temente codificato. Gli elementi tipici del western italiano vengono infattirispettati: violenza, cinismo, ironia, vendette, duelli. Uno dei luoghi predilet-ti del western, non solo italiano, è il deserto: un luogo imprecisato e ostiledove gli uomini si sforzano di sopravvivere. Nel film di Sergio Leone Ilbuono, il brutto, il cattivo (1968) il deserto diventa il luogo per espiare le pro-prie colpe: è lì che Tuco conduce il Biondo per vendicarsi del torto subito.Anche ne I quattro dell’Ave Maria il deserto si carica di significato e diven-ta un simbolo di morte: Hutch (Bud Spencer), dopo essere stato derubato,sembra voler diventare una cosa unica con il paesaggio e invocando la mortes’immerge con la testa nella sabbia, annullandosi:

“Mi raccontò mia madre che quando fecero I quattro dell’Ave Maria, duran-te la scena in cui Bud Spencer deve immergere la testa nella sabbia, il terre-no era pieno di scorpioni! Dovettero disinfestare tutto per girare la scenasenza pericolo” 17.

Ma il deserto nel western italiano non è mai un luogo di semplice passag-gio, nel suo scenario avvengono sempre situazioni cruciali e fondamentaliper il racconto: due esempi possono essere rappresentati dall’incontro conBill Carson ne Il buono, il brutto, il cattivo o quello di Cacopoulos da partedi Cat e Hutch ne I quattro dell’Ave Maria.

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Altro elemento tipico del genere è senza dubbio il duello, il centro e l’at-to finale del western. Nel western italiano è una sequenza spesso isolata dalresto della storia. Se nel western americano il duello arriva non di rado al cul-mine di una situazione, il western italiano lo sottrae al confronto con le altrevicende e gli assegna un ruolo a sé 18. Durante un duello il tempo e lo spazioperdono i loro connotati, gli attori sono ridotti a figurine. Macchina da presa,musiche, rumori, montaggio… tutto interviene per modificare la realtà ogget-tiva e creare una condizione spazio temporale fittizia e sospesa 19. Gli istantidiventano eterni. Luca Beatrice, nel suo volume dedicato al western italiano,osserva che la colonna sonora sintonizza i duellanti su una particolare fre-quenza, pare che essi ascoltino la musica con l’identico trasporto degli spet-tatori in sala: nella sequenza finale de I quattro dell’Ave Maria il banditoCacopolous ordina all’orchestra di suonare un valzer come accompagnamen-to al duello conclusivo che, oltre a donare la giusta dilatazione temporale allasequenza, verifica realmente la condizione citata da Beatrice: i duellanti e glispettatori ascoltano la musica con la stessa concentrazione e lo stesso tra-sporto. Ecco come Colizzi riesce a filtrare il suo talento attraverso gli stilemidi un genere già popolare e affermato. è dello stesso parere anche l’artistapolacco Piotr Uklanski che presentando al Festival di Venezia del 2006 il suowestern Summer Love ha dichiarato che:

“è il bello di questo genere, il più codificato - spiega il regista - . Ti costrin-ge tra confini potenti, ma ti dà anche la libertà più grande. Dentro puoi met-terci tutto, persino la politica come faceva il vostro Corbucci. Lui, Colizzi eLeone sono stati dei geni, hanno saputo raccontatare quell’epopea condistanza, ironia, e senza pretese di autenticità” 20.

La trilogia colizziana, che chiameremo La saga di Cat e Hutch, è compo-sta da tre film: Dio perdona… io no! (1967), I quattro dell’Ave Maria (1968)e La collina degli stivali (1969); tre opere diversissime fra loro, ma nello stes-so tempo legate da una certa continuità. I protagonisti principali sono sempreCat Stevens (detto Doc) e Hutch Bessy (detto Earp), solamente che il registasviluppa i loro caratteri di film in film. Il rapporto fra i due cowboy chevediamo in Dio perdona… io no! è infatti molto diverso da quello che perce-piamo ne I quattro dell’Ave Maria, così come è diverso il rapporto che li legadurante La collina degli stivali. Ogni episodio possiede la forza autonoma peressere apprezzato anche singolarmente, ma è fuor di dubbio che acquista piùvalore se visto in ordine cronologico con gli altri capitoli 21.

Nei ruoli di Cat e Hutch troviamo rispettivamente Terence Hill e Bud

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Spencer, all’epoca due nomi assolutamente sconosciuti. Nei capitoli seguentiavremo modo di considerare come il regista deciderà di utilizzare i due attori,ma intanto è bene sottolineare un dato molto importante: nonostante neiwestern di Colizzi siano presenti Bud Spencer e Terence Hill, siamo lontanianni luce dalla farsa in stile Lo chiamavano Trinità (1970). Non si vuole smi-nuire il film di Enzo Barboni, ma è bene prendere le distanze e vedere le operedi Colizzi per quello che sono veramente (e non utilizzare un erroneo “sennodi poi” per vederle come degli antenati mal riusciti di Trinità). Il fatto che ne Iquattro dell’Ave Maria, ad esempio, ci siano delle sequenze divertenti - il cuimerito è anche di Eli Wallach - è un’altra cosa: la chiave di lettura si chiamaironia. Per il cast dei tre film, poi, il regista fa spesso ricorso ad alcuni caratte-risti già visti (o che vedremo) nei western leoniani: Frank Wolff, Eli Wallach,Woody Strode, Lionel Stander. Sono invece completamente assenti i personag-gi femminili 22: Colizzi ha un punto di vista evidentemente simile a quello diSergio Leone, che legge le vicende sentimentali come pause ingiustificateall’interno di un genere che è considerato maschile per eccellenza. Ne La col-lina degli stivali questa considerazione diventa esplicita durante la preparazio-ne allo scontro finale: Baby Doll (Luigi Montefiori) interrompe la tensionedella scena corteggiando una ragazza del circo; la pausa romantica che si stacreando è subito interrotta dall’arrivo di Hutch (Bud Spencer), che dopo avercolpito con uno schiaffo Baby Doll esclama: “Sveglia bamboccio! Guarda tuse questo è il momento di pensare alle donne”.

Hutch ribadisce l’inconciliabilità tra il western italiano e le vicende senti-mentali. Le tematiche fondamentali che attraversano la saga di Cat e Hutchsono quindi due: la vendetta e l’amicizia; sono questi i due capisaldi chefanno da motore per tutte le vicende della trilogia. E i due temi sono legatifra loro: tutti si devono vendicare nel West di Colizzi e molto spesso proprionei confronti di un amicizia tradita. In sequenze così contrastate hanno unruolo importante, come è facile comprendere, anche le musiche, affidate alMaestro Carlo Rustichelli 23. Le sue melodie non sono mai dei semplici con-trappunti sonori, ma diventano spesso parte integrante del racconto (carican-dosi frequentemente di significati aggiuntivi).

Se nella lunga stagione del western italiano sono stati realizzati 480 filmin cinque anni, si comprende facilmente che furono ben pochi quei registi chepuntando all’incasso commerciale non si dimenticarono della bontà del pro-dotto. D’altro canto, però, il pubblico non era neppure allora insensibile allaqualità: tenendo conto dell’incasso medio di un western italiano (quattrocen-to milioni di lire, che comunque, visti i bassi costi, bastava per uscire in atti-vo), si può allora riflettere su quei titoli che nella intensa stagione 1964-1969

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superarono i due miliardi di lire al botteghino. E non a caso si tratta delleopere di Sergio Leone e di quelle di Giuseppe Colizzi.

Gli spettatori sanno scegliere bene cosa vedere, sostiene Claudio Carabbanel suo saggio sul western-spaghetti, Colizzi è infatti il migliore tra i registi chesi gettano sui sentieri dell’ovest: “Uno dei pochissimi a credere alla possibilitàdi fare davvero romanzi d’avventura, nonostante il frequente uso dell’ironia” 24.

Il suo esordio da regista ci può aiutare anche a comprendere quello spiri-to di speculazione che si aggirava fra i produttori. Con Dio perdona… io no!(1967), sua prima pellicola, ottenne subito un clamoroso successo e si capì dasubito che il pubblico era attratto dal film anche per merito del singolare tito-lo “religioso”. E per questo, per il film successivo, venne riproposto un altrotitolo simile, I quattro dell’Ave Maria (1968). Gli incassi furono ancora moltoalti e nacque una moda. I produttori e i registi dell’epoca pensarono bene disfruttarla. Uscirono una miriade di pellicole con titoli evocativi alla Colizzi,tutti legati alla religione o riconducibili ad elementi liturgici.

Di seguito è elencata un evoluzione di tale curioso percorso:

Dio perdona… io no! di Giuseppe Colizzi (1967)Dio li crea… io li ammazzo di Paolo Bianchini (1968)Dio non paga il sabato di Amerigo Anton (1968)Chiedi perdono a Dio, non a me di Vincenzo Musolino (1968)Ed ora… raccomanda l’anima a Dio di Demofilo Fidani (1968)Anche nel west c’era una volta Dio di Dario Silvestri (1968)Il pistolero segnato da Dio di Giorgio Ferroni (1968)Joko invoca Dio… e muori! di Antonio Margheriti (1968)L’ira di Dio di Alberto Cardone (1968)I quattro dell’Ave Maria di Giuseppe Colizzi (1968)Due volte Giuda di Nando Cicero (1968)Un minuto per pregare, un istante per morire di Franco Giraldi (1968)Il pistolero dell’Ave Maria di Ferdinando Baldi (1969)Dio perdoni la mia pistola di Mario Gariazzo (1970)E Dio disse a Caino di Antonio Margheriti (1970)Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni (1970)… e lo chiamavano Spirito Santo di Roberto Mauri (1971)I vendicatori dell’Ave Maria di Adalberto Albertini (1971)Quattro pistoleri di Santa Trinità di Giorgio Cristallini (1971)Acquasanta Joe di Mario Gariazzo (1971)Gli fumavano le colt… lo chiamavano Camposanto di Giuliano Carmineo(1971)

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Figura 1: Cat “Doc” Stevens

Figura 2: Hutch “Earp” Bessy

Figura 3: Bud alla locanda

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Capitolo Secondo

L’OPERA PRIMA: DIO PERDONA… IO NO!

Dio perdona… io no! (1967) è un film, lo abbiamo detto, nato per saldareun debito con Cinecittà. è un film appartenente ad un filone già ampiamentesfruttato e che il regista avrebbe potuto dirigere con sufficienza: all’epoca unwestern italiano era comunque un successo garantito, bastava girarlo con pro-fessionalità. Ciò non basta a Giuseppe Colizzi che realizza (rispettando lecaratteristiche del genere) un western italiano “violento”. Un film per nullasuperficiale, curato e ben confezionato. Pur creando un prodotto codificato perun pubblico di massa, l’autore riesce a non trascurare il proprio gusto perso-nale (ci sono dei rimandi a Esopo nel film). Un film di rodaggio ma nello stes-so tempo essenziale nella costruzione della saga futura di Cat e Hutch.

La vicenda:L’unico superstite di un attacco al treno, che ha fruttato ai banditi 300.000 dol-lari, indica il responsabile in Bill Sant’Antonio. Si mettono sulle sue tracce EarpHargitay, agente di una compagnia di assicurazione e Doc, un pistolero il qualecredeva di averlo ucciso in un precedente duello. Quest’ultimo trascinerà Earpin un’avventura che si concluderà con l’uccisione di Bill e della sua banda.

(dal Dizionario del cinema italiano)

La nascita della coppia

A volte le intuizioni migliori possono avvenire per caso, o magari percomplicati disegni del destino. La formazione della coppia Bud Spencer -Terence Hill è avvenuta proprio per caso. La celebre coppia, che negli anniSettanta sarà una miniera d’oro per i botteghini italiani, si è formata propriosul set di Dio perdona… io no!. Ma per comprendere che ruolo ha avuto ilfato, occorre risalire alle origini di questo cult-movie. Come si è già detto,Giuseppe Colizzi è passato attraverso una lunga gavetta prima di debuttarealla regia. è stato un aiuto regista, sceneggiatore, direttore di produzione,montatore, produttore 26. Forte dell’esperienza avuta sul set de Il buono, il

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brutto, il cattivo come assistente al montaggio e alle riprese, inizia a scriverela sceneggiatura di quella che sarà la sua opera prima: Il cane, il gatto, lavolpe. Manolo Bolognini, produttore e amico storico di Colizzi 27 racconta:

“Colizzi, per una storia d’amore, era andato via dall’Italia e quando tornò lofeci lavorare alla Zebra Film di Moris Ergas. Poi lui produsse un film che andòmalissimo con Ugo Gregoretti, Omicron. Fui io a spingerlo a fare un westernper rimettersi a posto. Ricordo che mio fratello Mauro si inventò il titolo”.

Marco Giusti, nel suo prezioso Dizionario del western all’italiana 28,scrive che il film, per volontà del produttore Fulvio Lucisano, avrebbedovuto essere realizzato con la regia di Gianni Proia, presto scalzato daColizzi, che allora aveva una quota produttiva del film. Poi Lucisano nonavrebbe più creduto nel film, e quindi litigato con il socio (e neoregista)cedendogli la sua quota, la più alta. è una versione che contrasta decisa-mente con quella del produttore Enzo D’Ambrosio, che racconta cheGianni Proia collaborò inizialmente alla sceneggiatura proprio perchéamico di Colizzi. Fu la difficoltà di raggiungere un prodotto accettabile aspingere Colizzi a scrivere da solo il testo in una settimana. Per la regia sipensò subito a Colizzi, dice D’Ambrosio, aggiungendo poi che Lucisano fuliquidato perché non più interessato al film 29.

Gina Rovere, che in Dio perdona… io no! interpreta Rose, racconta inve-ce che Giuseppe Colizzi girava da una decina d’anni con il copione di questofilm, che nessuno voleva fare: era, cioè, alla ricerca di un finanziatore.

Al di là di tutto questo, per le parti dei protagonisti, con Esopo in mente,Colizzi vuole degli attori che appaiano cane, gatto e volpe: la sua idea è di farlirecitare come se fossero degli animali (così come Esopo faceva agire gli ani-mali come se fossero persone). Per la parte della volpe viene scritturato FrankWolff (con i capelli tinti di colore arancione, per assomigliare alla pellicciadell’animale da lui impersonato). La volpe è un personaggio tanto furbo quan-to tentatore, che l’attore riesce a caratterizzare con fattezze luciferine. Per laparte del cane, Silvana Mangini, moglie di Giuseppe Colizzi e assistente allaregia, pensa invece di proporre il ruolo a Carlo Pedersoli. Pedersoli non è unattore professionista ma un aitante ex campione di nuoto 30, notato dallaMangini come comparsa nel film Siluri umani 31. L’idea piace anche al neoregista, che si decide a contattare l’ex nuotatore per proporgli la parte. A casadi Pedersoli risponde però la moglie, che alla domanda di Colizzi:

“Suo marito è ancora grosso come quando faceva sport?” risponde: “Si!

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Figura 4: Il gatto estrae gli artigli

Figura 5: Atteggiamenti felini

Figura 6: Bud Spencer, il cane

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Anzi, è il doppio perché ora pensa solo a mangiare e non fa più niente”.Incuriosito, Giuseppe Colizzi fissa subito un appuntamento con l’ex atle-

ta. Secondo una simpatica dichiarazione dell’attore 32, il colloquio deve esser-si svolto più o meno così:

Colizzi: “Sai andare a Cavallo?”Pedersoli: “No, io i cavalli li ho visti solo all’ippodromo”.Colizzi: “Parli inglese?”Pedersoli: “No. Nemmeno una parola”.Colizzi: “Ti sei mai fatto crescere la barba?”Pedersoli: “No, me la faccio tutte le mattine”.Colizzi: “Uhm… Quanto vuoi per fare il film? L’impegno è di due mesi: giu-gno e luglio”.Pedersoli: “Quattro milioni, perché ho due cambiali da pagare”.Colizzi: “Più di uno non te lo posso dare, perché non hai mai fatto niente”.

Insoddisfatto, Pedersoli rinuncia alla parte. Colizzi si trova così costrettoa cercare un altro attore, ma in realtà è una ricerca inutile: le caratteristichefisiche di cui ha bisogno per il film le ha già individuate in quel talentuoso exnuotatore. èd così che il regista ritorna da lui e gli promette i quattro milionidi lire richiesti.

Oggi è cosa scontata osservare che durante la stagione del western italia-no era abitudine cambiare in inglese i nomi degli attori e dei tecnici che pren-devano parte al film. Pedersoli non sfugge a questa regola, e gli viene chie-sto di scegliere uno pseudonimo americano:

“Bevevo una certa birra che di nome faceva Bud, e scelsi Bud. Mi piacevaSpencer Tracy e presi Spencer… e fu così che nacque Bud Spencer” 33.

Per la parte dell’attore che deve interpretare il gatto viene chiamato PeterMartell (alias Pietro Martellanza), ma dopo soli quattro giorni di riprese ildestino entra fatalmente in gioco: durante un litigio in albergo con la fidan-zata l’attore si rompe un piede, rendendosi quindi indisponibile per il film.Una colorita e pittoresca versione del “destino”, e di quello che accadde aPeter Martell ce la fornisce anche il caratterista Remo Capitani (che in Dioperdona… io no!, ricordiamolo, interpreta l’oste):

“Lui se trombava una parrucchiera e qualche fijo de na mignotta l’ha dettoalla sua donna e l’ha fatta arrivare in Spagna. Eravamo al Grand Hotel e ho

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visto tutta la scena. Lui stava tornando dal set, tutto sporco, e stava salendo lagrande scalinata dell’albergo. Lei, come lo vede, gli dice un sacco di parolac-ce, poi inizia a dargli delle borsate. Lui, per evitare una borsata, è scivolato esi è rotto una gamba. è stata la fortuna di Terence Hill e la sfortuna di PeterMartell, che era bravo, anche se lo dovevi tene’ a freno, perche beveva” 34.

Al di là di tutto, quello che conta è che ora serve un nuovo attore… e servein fretta! Colizzi si rivolge per questo all’amico e produttore ManoloBolognini, che subito gli propone il nome di Mario Girotti. Ha già preso partead alcuni film con produzione tedesca 35 (tra cui anche i western tratti da KarlMay) ed ora si trova in Italia per girare Little Rita nel west, un musicarellowestern con Rita Pavone e Lucio Dalla. Sempre Bolognini fa notare al registache Mario Girotti può essere utilizzato anche come sosia di Franco Nero. AColizzi l’attore piace, e dopo averlo sottoposto a un provino lo scrittura subitoper la parte del gatto. Anche per lui serve un nome americano, e da una lungalista fornitagli dalla produzione l’attore sceglie il nome Terence Hill. PeterMartell (nel documentario a lui dedicato 36) ricorda invece l’episodio con lamalinconia tipica di chi sa di aver perso un occasione, una grande occasione:

“è la vita… c’è di peggio ma c’è anche di meglio. A me è capitato così. Misono rotto una gamba, ma sentivo nell’aria che stava per nascere qualcosa.Arrivò il dottore dei giocatori del Real Madrid e mi disse che mi ero frattu-rato il malleolo: bisogna ingessare! Ho detto al caro Giuseppe Colizzi‘Madonna quanto mi rode il culo, perdonami… Ma possiamo ingessarlo, locopriamo, lo sporchiamo e facciamo il film’. Lui quasi quasi ci stava, ma ledonne sono più pratiche: sua moglie ha detto ‘se questo cade e si rompeun’altra volta, ci tocca fermare il film… e sono soldi’. Allora hanno chiama-to un giovane ragazzo, bello, biondo, con gli occhi blu. Assomigliava aFranco Nero. è una roulette… è stato il turno suo, di Terence Hill”.

E fu così che la famosa coppia Bud Spencer- Terence Hill si trovò a lavo-rare insieme per la prima volta. Il film viene girato in Spagna, come d’abitu-dine per la maggior parte dei western italiani, e alla sua uscita nelle saleincontra subito uno straordinario successo. Il regista notò, durante i test conil pubblico, che la gente apprezzava maggiormente i momenti in cui i dueattori condividevano la scena.

“è una dinamica che si è creata da subito[…] C’è come un elemento mito-logico attorno alla coppia, un’aura che è inspiegabile” 37.

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Capitolo Ottavo

TESTIMONIANZE: … A PROPOSITO DI GIUSEPPE COLIZZI

Conversando con Terence Hill

La prima cosa che vorrei chiederle è un ricordo di Giuseppe Colizzi, siacome uomo sia come regista.

Mah, un ricordo così… immediato, io lo vedo sul set. Molto dedicato al lavo-ro che lui faceva. Io lo vedo concentratissimo, appassionatissimo al suo lavo-ro, appassionato alla mdp… e quindi prima di trovare l’inquadratura giusta cimetteva molto tempo; appassionato della fotografia…Questa è la prima immagine. Poi ricordo che lui non fumava, ma per scari-care la sua tensione (che è una cosa che mi divertivo a fare anch’io) lui usavai bastoncini di liquirizia, quelli naturali… e mi ricordo che aveva un bellissi-mo coltello svizzero, che io all’epoca gli invidiavo! Lui tagliava con le for-bici la parte masticata del bastoncino.Poi giustamente c’è l’immagine privata, una persona molto interessante,colta, molto amico… Ogni volta ce lo dimostrava, mi accoglieva con grandisorrisi e con molto affetto.

Parliamo adesso del primo film: Dio perdona… io no! Lei ha dichiarato diessere stato chiamato sul set in sostituzione di Peter Martell. Mi pare che leabbiano fatto un provino; in cosa consisteva?

Sì, c’era il trucco e mi fecero recitare una scena. Lo facemmo negli uffici diManolo Bolognini questo provino.

Lei interpreta il personaggio di Cat Doc Stevens, ma anche il personaggio diun gatto.

Esatto.

Per fare Dio perdona… io no! il regista si è ispirato ad una favola di Esopo:

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Il cane, il gatto e la volpe. Guardando il film, in effetti, si nota che la sua reci-tazione rimanda ad un gatto, senza contare che a volte per colpire gli avver-sari usa gli artigli: coltello e speroni. Era tutto scritto in sceneggiatura?

Non proprio: il coltello e gli speroni sì, ma le movenze le studiai io. Lui mimandò al giardino zoologico a studiare le tigri, il loro modo di guardare. Miricordo una volta, durante una cena, mi disse: “Devi guardare nel modo in cuilo fanno i gatti. Guardi l’avversario, ma non lo guardi: lo attraversi !”.

Molto interessante...

Questo sguardo è nato proprio lì! E poi il film si doveva chiamare Il cane, ilgatto, la volpe quindi era studiato per ciascuno di noi. Io avevo questo costu-me di felpa, i colori erano questo verde bottiglia sporco…e avevo una man-tellina con una pelliccia un po’ da gatto. Ma dove si vede ancora di più que-sto studio era nel costume di Bud Spencer, aveva questo pelliccione che sem-brava un po’ un cane San Bernardo.

La prima immagine di Bud Spencer è proprio di spalle con la pelliccia, men-tre lei spesso si arrampica con degli atteggiamenti felini.

Certo, certo, (ride). E lui (indicando la foto di Frank Wolff) si è fatto tingerei capelli e la barba di rosso.

Ah, pensavo fosse naturale…

No, no, per fare la volpe. Lui poi era un grande attore… Frank Wolff

Lo ricordo in C’era una volta il west…

Poi lui ha fatto dei film con Damiano Damiani, che allora era un regista diprima categoria… No, no, un grosso attore.

Tra l’altro i personaggi sono appunto tre, il cane, il gatto e la volpe. Poi ana-lizzando il film ho notato una cosa: il personaggio di Frank Wolff rappre-senta sì la volpe, ma poi subisce una metamorfosi da volpe a serpente (il sim-bolo del diavolo insomma). Come prova ci sono molte scene: dal dialogo diDoc con il becchino (che parlando di Bill dice: “Sembrava che era già statoa casa sua, cioè all’inferno”) sino alle scene in cui il nascondiglio di

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Sant’Antonio è dominato da luci arancioni e rosse che lo fanno sembrare uninferno vero e proprio; senza contare che Bill stringe fra le mani un agnello:il simbolo di Cristo. Nel duello finale, quando Doc colpisce Bill Sant’Antonio- prima alle gambe e poi alle braccia - esclama: “E adesso striscia da parituo!” Paragonandolo quindi ad un serpente.

è vero…

Potrebbe essere una citazione, un gioco… il personaggio è talmente negati-vo che passa da volpe a serpente.

è vero! Mi sembra giusta come teoria.

Se non sbaglio il successo di Dio perdona… io no! fu enorme…

Sì, inusuale perché allora il western italiano stava finendo. Era un po’stanco.Invece Dio perdona… io no! fu una grossa sorpresa perché ebbe un enormesuccesso. Un incasso inaspettato.

Dopo è la volta de I quattro dell’Ave Maria; io mi sono permesso di sopran-nominare i tre film “La saga di Cat e Hutch”, perché alla fine i personaggisono sempre gli stessi.

Certo.

I quattro dell’Ave Maria è l’episodio che secondo me è più riuscito. Quello chepreferisco: non esito a definirlo un piccolo capolavoro. Un film perfettamenteequilibrato: western, avventura, ironia, dramma… praticamente c’è tutto.All’inizio mi hanno colpito le inquadrature che la mostrano sempre in coppiacon Bud Spencer: due paia di stivali, due cavalli… è come se si volesse sug-gerire al pubblico che voi due formate una coppia, siete una coppia...

Sì, perché Colizzi, quando uscì il primo film, girò per le sale e disse: “Io honotato che quando voi due state insieme sullo schermo, il pubblico reagiscein modo favorevole e si diverte”. E lì decise di metterci insieme.

Infatti le inquadrature mostrano proprio questa volontà.

Sì, aveva intuito tutto lui.

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Conversando con Bud Spencer

Un ricordo, prima che come regista, come persona di Giuseppe Colizzi.

Cominciamo col dire che non sapevo chi fosse Giuseppe Colizzi. L’ho cono-sciuto man mano che andavo avanti, con i film che abbiamo fatto.Praticamente è quello che mi ha convinto a fare l’attore. Perché io non ho maidesiderato nella mia vita di fare l’attore, pur avendo sposato la figlia del piùgrande produttore cinematografico italiano, Giuseppe Amato, quello che hafatto La dolce vita. Non abbiamo mai parlato, né io con lui né lui con me, diiniziare a fare l’attore: lei adesso mi vede che sono 120 Kg, ma allora ero 156Kg! Era fuori discussione anche fare qualunque comparsata, perché ero unuomo enorme molto più di quello che sono oggi. Però lui [Giuseppe Colizzi] ha chiamato mia moglie dicendo: “Suo marito èancora così grosso e forte come quando faceva le olimpiadi?” No, è ancora più grosso perché mangia solo e non fa più sport risponde lei.“Sì, ma lo vorrei vedere…” ribatte Colizzi.

Quindi io questo primo contatto con Giuseppe l’ho avuto a casa sua, e laprima cosa che mi chiese fu:

“Parli inglese?” “No, nemmeno una parola”“Sai andare a cavallo?” “No, io ho fatto il nuotatore…”“Ti sei mai fatto crescere la barba?” “No, me la faccio tutte le mattine”

Questo è stato il primo impatto. Siamo andati avanti a parlare e dopo un po’mi dice che mi vuole nel suo film. “Quanto vuoi?” mi chiese. “Quanto tempo devo lavorare?”“Sono due mesi, giugno e luglio” “Guardi, io ho due cambiali: una a giugno e una a luglio; se lei me le pagafaccio il film”“Che cambiali sono?”“Sono da due milioni la prima e due milioni la seconda”Risposta: “Non ti posso dare più di un milione perché cominci adesso, unmilione è già tanto …”.

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