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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE ________________________________________ FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere Tesi di Laurea LA SOCIETA’ DEL BENESSERE E IL MIRACOLO ECONOMICO IN ITALIA (1948-1973) Relatore: Laureando: Prof. Fulvio Salimbeni Nicolas Driutti ANNO ACCADEMICO 2003/2004

Tesi - Bozza Finale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE ________________________________________

FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere

Tesi di Laurea

LA SOCIETA’ DEL BENESSERE E IL MIRACOLO ECONOMICO IN ITALIA

(1948-1973)

Relatore: Laureando: Prof. Fulvio Salimbeni Nicolas Driutti

ANNO ACCADEMICO 2003/2004

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2

Indice

pag.

Introduzione 4

I. Cenni storici

Una definizione del consumismo 7

Storia del consumismo 10

Prima fase (1873 – 1945) 11

Seconda fase (1945 – 1973) 19

II. Il consumismo in Italia

Introduzione 26

La situazione politica ed economica nel dopoguerra 26

Il miracolo economico 28

Dalla società contadina alla società affluente 31

Particolarità della nascita della società dei consumi nell’ambito del

miracolo economico 37

Il ruolo dei partiti 42

Il post-miracolo (1963 – 1973) 45

La crisi del ’73 50

Echi nella letteratura, nella musica e nel cinema 53

III. Considerazioni finali

Introduzione 60

Le contraddizioni del benessere 60

I limiti del benessere 63

Il fallimento delle rivendicazioni 66

Consumismo contro democrazia 69

IV. Conclusions 72

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3

Ringraziamenti 81

Bibliografia 82

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4

Introduzione

L’obiettivo di questo lavoro è quello di fornire una panoramica sulla storia della

nascita e la crescita della società del benessere nell’Italia del dopoguerra, in particolare

analizzando gli stravolgimenti sociali, politici e culturali provocati dal “miracolo

economico”, che cambiarono profondamente gli stili di vita e i consumi di gran parte

degli italiani. Questo lavoro nasce dalla voglia di capire le fenomenologie legate agli

atteggiamenti consumistici presenti nella società Italiana odierna, che spesso

degenerano in patologie sociali, economiche ed ambientali. In particolare, mi sono

focalizzato sugli anni Cinquanta e Sessanta, proprio perché in quei decenni avvenne

quella trasformazione profonda degli assetti sociali ed economici che cambieranno la

natura stessa dell’Italia. La società rurale, fortemente legata alla terra e ai suoi riti

millenari, sorvegliata da vicino da una zelante Chiesa cattolica venne soppiantata nel

volgere di un decennio dalla civiltà urbana e industriale, portando l’Italia a far parte del

ristretto gruppo dei paesi più industrializzati del pianeta.

La prima parte della tesi si concentra soprattutto sulla nascita, a fine Ottocento,

dei primi grandi agglomerati finanziari e industriali,, legando così in grandi gruppi i

fornitori di capitali e i produttori. La grande crisi (causata per la prima volta nella storia

dalla sovrapproduzione) del 1873 e la sua scia dei fallimenti a catena che la seguì,

permise alle aziende e alle banche più forti di assorbire quelle più piccole, dando inizio

a un periodo di forte incremento della concentrazione produttiva e degli investimenti in

innovazione tecnologica, non più legate unicamente al genio di scienziati isolati. Da

queste premesse parte il mio approfondimento sul legame tra lo sviluppo del

capitalismo e lo sviluppo della società del benessere (ed una delle sue conseguenze più

nefaste, il consumismo) dal 1873 fino al 1973, prima negli Stati Uniti e, dal dopoguerra

in poi, anche in Europa Occidentale.

Il secondo capitolo tratta in particolare le problematiche e le particolarità del

processo di rapido sviluppo economico che favorirà la nascita della società dei consumi

in Italia, individuando nel “miracolo economico” il perno su cui si basa la mia analisi

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dei fenomeni sociali, economici e politici fautori del cambiamento. Le trasformazioni

avvenute in seno alla società italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, oltre ad essere

caratterizzate da una velocità travolgente e dalla trasformazione del modo di vita di

milioni di persone, sarà profondamente segnata anche da gravi mancanze nella gestione

e nel controllo dei cambiamenti da parte dello Stato centrale. Queste mancanze non

saranno riscontrate soltanto nell’ambito della mancanza di finanziamenti ai consumi

pubblici, ma piuttosto alla cattiva gestione di questi fondi e al conservatorismo con cui

vengono letti i venti di cambiamento della società. Una parte importante del mio lavoro

punta precisamente a rendere più chiaro il legame tra le mancanze dello stato nella

gestione del pubblico e le conseguenze che esse ebbero sui futuri assetti della

collettività, in particolare dell’ascesa durante gli anni Settanta di due fenomeni: da un

lato dell’escalation degli attacchi dinamitardi e terroristici e, dall’altro, la diffusione in

ampi settori sociali di un crescente senso di smarrimento e scontento nei confronti dello

Stato e i suoi organi rappresentativi. Lo Stato reagisce a questo malcontento

aumentando la repressione nei confronti dei ceti in subbuglio e allargando le pratiche

della politica clientelare atte a garantirsi il consenso tra quei settori che traevano

beneficio da questo tipo di cultura politica. La particolare combinazione di cambiamenti

accelerati – assieme ad un contesto istituzionale incapace di gestirli – peserà anche nella

scelta dei consumi privati, spesso condizionati dalle mancanze dello Stato, in special

modo per quel che riguarda la mobilità ed il possesso di una casa. Con la diffusione

della società dei consumi questi atteggiamenti sfoceranno nella diffusione di

comportamenti spiccatamente individualistici per quel che riguarda la scelta dello stile

di vita ed i modi in cui raggiungere il successo personale, anche a scapito delle regole

basiche che disciplinano la vita in società.

Infine, nell’ultimo capitolo cerco di dare qualche chiave di lettura partendo dalla

critica alla società dei consumi elaborata da noti studiosi critici appartenenti a scuole

differenti, in particolare facendo riferimento a Marcuse, Galbraith e Latouche. La critica

s’incentra soprattutto sull’origine dei bisogni che portano poi all’esasperazione quasi

patologica di certi aspetti della società dei consumi, come ad esempio l’aumento dello

spreco, dell’uso di grandi quantità di materiali ed energia per scopi dettati dai capricci

della moda o delle tendenze commerciali del momento. Questi bisogni hanno origine

nel sistema produttivo, e vengono trapiantati poi nelle case di ognuno di noi attraverso

la pubblicità, che tende ad invadere spazi sempre più ampi della vita quotidiana.

Mediante questo meccanismo, sebbene aumentino la quantità di beni disponibili sul

mercato e le aziende siano in condizioni di garantire livelli d’impiego adeguati, ma così

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6

si viene a creare un legame troppo pericoloso per l’intera società, che mette le sue sorti

in mano ai grandi gruppi economici, chiaramente interessati a fare innanzitutto i propri

affari, qualche volta coincidenti con quelli della collettività ma il più delle volte no,

soprattutto se consideriamo i problemi causati nel Primo e nel Terzo mondo da questo

modello di sviluppo. In particolare, mi preme mettere in risalto il fatto che il benessere

raggiunto dalle società dell’Occidente industrializzato, oltre ad essere gestito e orientato

verso le necessità dei grandi gruppi multinazionali, si poggia su basi molto fragili –

minacciando fondamentalmente la sostenibilità ambientale a lungo scadere di una tale

concezioni di sviluppo economico – e, provocando, tra l’altro, un visibile divario tra

zone ricche e povere, che tende a crescere piuttosto che a ridursi col passare degli anni,

a dispetto anche delle promesse fatte dai promotori della globalizzazione liberista del

capitalismo. A sua volta, il progredire del sistema di accumulazione capitalista, in

particolare con l’impostazione datagli dal dopoguerra in poi, svuota il peso decisionale e

la capacità di regolazione delle economie nazionali che in teoria spetterebbe alle

istituzioni democratiche, screditando in questo modo anche il sistema rappresentativo su

cui esse si fondano. Oltre a minacciare la sopravvivenza stessa dell’uomo e di molte

altre specie sulla faccia della terra, l’analisi dello sviluppo capitalistico degli ultimi

sessant’anni ci mette davanti interrogativi di pressante attualità, in particolare quello

sollevato dagli ultimi avvenimenti mediorientali: può l’Occidente mettersi in testa l’idea

d’esportare i propri sistemi democratici in certe aree del pianeta, quando il

funzionamento stesso delle sue democrazie viene continuamente falsato e scavalcato dai

flussi economici internazionali, i quali, di fatto, agiscono seguendo soltanto le proprie

regole, ovvero le regole del capitalismo?

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7

Capitolo primo

Cenni Storici

Una definizione del consumismo

In questa prima parte, cercherò, utilizzando diverse fonti testuali, di formulare una

definizione del consumismo il più chiara e precisa possibile. Inizierò prima con quella

più semplice, tratta da un vocabolario della lingua italiana:

Consumismo: tendenza, tipica delle economie caratterizzate da un alto livello di

benessere, e rafforzata dalle tecniche pubblicitarie, a incentivare i consumi privati di

beni anche non necessari.1

Questa definizione, ancorché semplice, introduce già due degli elementi più

caratteristici che riguardano il fenomeno del consumismo, e cioè la società del

benessere e la pubblicità. Tuttavia, questi due elementi non esauriscono completamente

la fenomenologia che riguarda il consumismo, quindi introdurrò altre due definizioni

che ci aiuteranno ad avere un quadro più chiaro. In primo luogo, Sergio Vitale,

nell’introduzione della sua raccolta di saggi Consumismo e società contemporanea,

definisce il consumismo in questi termini:

Con l'avvento della rivoluzione industriale, la situazione subisce un radicale

mutamento: la nuova direzione assunta dalla accumulazione capitalistica, con la

sostituzione del sistema di fabbrica alla manifattura artigiana e il conseguente sviluppo

di nuove forze sociali, esige come presupposto essenziale per il funzionamento e la

sopravvivenza stessa del sistema economico che l'incremento della produzione, reso

possibile dal progresso tecnico-scientifico, non conosca in alcun modo rallentamenti o

1 Zingarelli, Nicola, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2000, pag. 435.

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battute d'arresto. Questo spiega, da una parte, la continua immissione di beni e di

servizi sul mercato, la creazione di bisogni prima inesistenti, la diffusione di modelli

di comportamento sempre diversi; e, dall’altra, il consumo sempre più accelerato degli

oggetti della produzione, l’incalzante succedersi delle mode, la rapida obsolescenza

delle merci.2

In secondo luogo, abbiamo la definizione fornita da Ravaioli (2000) che, a

riguardo dello stesso argomento si esprime così:

Il consumismo, questa accelerazione coatta nell'uso di beni sempre meno necessari,

che nulla ha a che fare con una giusta diffusione di consumi tra tutti i ceti, che non è in

alcun modo finalizzato al benessere delle masse, e non serve altro obiettivo che la

continua alimentazione della spirale produttivistica, avrebbe dovuto svelare la sua

verità di strumento del capitale; il suo essere non l'aspetto negativo, eccedente, dello

sviluppo capitalistico, ma la più vistosa manifestazione della sua stessa essenza, la

concreta rappresentazione del fatto che (come diceva Claudio Napoleoni) "la funzione

specifica del valore d'uso consiste nel fornire un supporto al valore di scambio".3

Dunque come possiamo dedurre dal contributo delle ultime due definizioni, il

consumismo va oltre la sua definizione più semplice. In effetti, è un processo molto

articolato, nato nelle società dei paesi di prima industrializzazione, proprio come

conseguenza dello sviluppo dei grandi gruppi industriali che, investendo massicce

somme di capitale nella produzione devono assicurarsi lo sbocco di ciò che essi

producono in quantità sempre più elevate. La produzione abbisogna non solo di mano

d’opera a buon mercato, ma ha altresì bisogno che la mano d’opera investa i propri

redditi nell’acquisto dei prodotti messi a loro disposizione sul mercato. Se ciò non

accade, il “cerchio” non si chiude e l’economia precipita inevitabilmente in una crisi di

sovrapproduzione. Per la prima volta nella storia umana, per secoli segnata dalla

scarsità e dalle penurie, con l’avvento del sistema di produzione industriale capitalista,

si produce ad un ritmo talmente elevato che le merci non trovano sbocco sul mercato.

Trovatosi di fronte a questo problema, l’apparato produttivo non ha preso le crisi

di sovrapproduzione come se fossero una misura della sazietà del mercato (provando a

fare un’analogia col corpo umano), riducendo le proprie capacità produttive o riducendo

2 AA. VV. (a cura di Vitale, Sergio), Consumismo e società contemporanea, Firenze, Sansoni Università, 1975, pagg. 5-6. 3 Ravaioli, Carla, “Contro il mito della crescita”, in La sinistra – Rivista (rivista mensile del quotidiano “Il manifesto”), numero 9, settembre 2000.

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il carico di lavoro richiesto ai lavoratori, giacché l’aumento della produttività non ha

conosciuto battute d’arresto, non riconoscendo che così si riuscirebbe a dare

un’occupazione a molte più persone. Sarebbe stata la cosa più logica da fare, la

produzione sarebbe continuata e allo stesso tempo le persone avrebbero potuto dedicare

diverse ore delle loro giornate alle più svariate attività personali o comunitarie.

Purtroppo però, come ce lo dimostrano tanti casi del passato e del presente, l’apparato

produttivo ed in genere l’economia rispondono solo alle logiche (ed anche alle versione

miticizzate di esse a cui sovente si appellano gli economisti quasi fosse una religione)

del profitto, la crescita, lo sviluppo, del libero mercato, a seconda della convenienza e a

scapito di tutto il resto, in primo luogo noi stessi. Ciò vuol dire che il problema della

sovrapproduzione è stato, ed è ancora risolto, stimolando attraverso la pubblicità (con

tutti i modelli di vita e consumo da essa proposti) ed il credito l’uso di porzioni di

reddito sempre maggiori per l’acquisto di merci d’ogni tipo.

Si potrebbe obiettare questo affermando che l’apparato produttivo immette

nuovi prodotti sul mercato solo per soddisfare i bisogni umani, innumerevoli, in

continuo sviluppo e spesso imprevedibili; e quindi il fatto che le persone abbiano

sempre maggiori possibilità di soddisfarli è proprio un indice del benessere raggiunto da

queste persone. Il problema, però, come ce lo dimostra Galbraith, è la fonte che

alimenta questo processo: “E’ chiaro che non si può sostenere la produzione come

strumento per soddisfare i bisogni, quando è la produzione stessa che crea tali

bisogni”.4 Il consumo di massa nelle società capitalistiche inevitabilmente degenera nel

consumismo proprio perché il consumo stesso è creato artificialmente dal sistema

produttivo, straniandosi completamente dal desiderio e dal bisogno umano, ubbidendo

soltanto alle logiche della produzione. “Non si tratta di negare che vi siano dei bisogni,

delle attività naturali, ecc., si tratta di vedere che il consumo come concetto specifico

delle società contemporanee, non è là.”5

4 Galbraith, John K., L’effetto della dipendenza, in AA. VV., pag. 297. 5 Baudrillard, Jean, La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture, Bologna, Il Mulino, 1976, pag. 101.

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Storia del consumismo

Dopo aver definito cosa si intende per consumismo e quali altri concetti sono

compresi dentro questo fenomeno, cercherò di delineare un percorso diacronico in cui

verrà illustrata la nascita e lo sviluppo del consumismo fino al 1973, anno in cui si

verifica la crisi del petrolio che segna uno spartiacque nella storia economica e politica

mondiale. Così com’è capitato per tanti altri avvenimenti e processi che riguardano

l’intera società in diverse regioni del pianeta, non possiamo stabilire con precisione una

data certa d’inizio del consumismo. In ogni caso, nulla ci impedisce di effettuare una

scelta più o meno arbitraria, per appunto l’anno 1873; e anche sé arbitraria, la scelta di

quest’anno in particolare risponde a delle ragioni ben precise.

Il periodo di crisi economica che ebbe origine quell’anno e che si protrasse fino

al 1895 (conosciuta come la Grande Depressione), rientra sì nell’ambito delle crisi

croniche “di sfiato” del sistema capitalista industriale, ma con delle caratteristiche

innovative rispetto alle altre crisi verificatesi nel XIX secolo: per la prima volta le

capacità produttive sono nettamente superiori alle capacità d’assorbimento da parte del

mercato, ciò provoca fallimenti a catena, crac borsistici, licenziamenti di massa e

riduzione dei salari; nascono così in questo periodo le prime grandi concentrazioni di

gruppi industriali e finanziari che approfittano della situazione di crisi generale per fare

grosse acquisizioni. E’ la nascita di una nuova fase nell’economia, quella del

capitalismo finanziario, nascono i germi dei colossi industriali e finanziari che in futuro

si spartiranno il controllo dei mercati mondiali e saranno tra gli attori principali

responsabili per la nascita del consumismo. Il 1873 è l’anno che denota anche l’avvio

della II Rivoluzione Industriale: lo sviluppo industriale non è più solo un’esclusiva della

Gran Bretagna; d’ora in poi anche Francia, Germania e Stati Uniti (ma non solo)

cominciano a sviluppare le proprie industrie nazionali e cresce il tasso d’urbanizzazione

e di proletarizzazione delle popolazioni in questi paesi, e proprio loro saranno il terreno

di coltura ideale di cui il consumismo ha bisogno per attecchire.

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Prima fase (1873 – 1945)

La grave crisi iniziata nel 1873 fu causata dalla concomitanza di diverse crisi

speculative combinate con la diminuzione della redditività degli investimenti e

l’aumento della concorrenza che sbocciarono in una serie di crisi borsistiche e

finanziarie (in particolare nelle borse di Vienna e New York); ma anche, ed è questo il

fatto che c’interessa in particolare, la sovrapproduzione diventa un problema per

l’economia: [In Inghilterra] “Le capacità produttive sono nettamente superiori al

fabbisogno; nel 1873 le fonderie sono in grado di produrre 2,5 milioni di tonnellate di

binari; ma la richiesta crolla a 500.000 tonnellate; fra il 1872 e il 1881 il loro prezzo

scende del 60%.”6 C’è inoltre da tener conto della caduta dei prezzi agricoli in Europa

causato dall’arrivo del grano russo e americano; le campagne europee ne soffrono

parecchio e si accentua l’immigrazione interna verso i grandi poli industriali e

soprattutto verso le Americhe. E’ una crisi che colpisce maggiormente i settori agricolo

e finanziario; quello industriale, colpito principalmente dalla sovrapproduzione, è

costretto a ridurre i volumi di produzione, i prezzi ed i margini di guadagno. Tuttavia, la

crisi fa fallire le industrie e le banche più deboli spianando il mercato a quelle più forti e

con maggiori disponibilità di capitali. Questi gruppi escono rafforzati, e grazie alle

nuove invenzioni tecniche, la riduzione del numero di concorrenti e la mano d’opera a

buon mercato sempre disponibile (si verificò, come in ogni crisi, un deciso aumento

della disoccupazione col conseguente abbassamento delle retribuzioni), riusciranno a

rimettersi in sesto.

Di questo periodo di crisi ci interessa in particolare il modo in cui i grandi

capitalismi nazionali reagirono alla Grande Depressione. Le modalità scelte per arginare

i problemi del sistema industriale e finanziario segneranno fortemente il mondo intero,

di fatti, proprio questo periodo vede la nascita dell’espansione imperialistica, la corsa

frenetica delle principali potenze mondiali verso quelle zone del pianeta ancora poco

esplorate e poco conosciute, oppure colonizzate solo commercialmente e in modo

parziale. Il mondo fu suddiviso a tavolino in aree d’influenza, tutti i continenti furono

presi di mira dall’appetito vorace delle potenze industriali: bisognava trovare mercati

nuovi in cui fosse possibile collocare i prodotti industriali in eccesso e nuove zone da

cui attingere le materie prime necessarie a sostenere l’apparato produttivo; il tutto 6 Beaud, Michel, Storia del capitalismo: dal Rinascimento alla new economy, Milano, Mondadori, 2004, pag. 158.

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sempre giustificato dalla missione civilizzatrice ed evangelizzatrice dell’uomo bianco.

Persino i Paesi latinoamericani che avevano raggiunto l’indipendenza dalla Spagna nei

primi decenni del XIX secolo, furono costretti a rientrare all’interno di quest’espansione

del capitalismo su livello mondiale, subdolamente però, senza fare ricorso alla forza

militare. Attraverso le pressioni dei grandi gruppi finanziari mondiali, l’apertura forzata

dei loro mercati interni alla libera concorrenza e con la testa d’ariete delle

multinazionali7 che operavano nel settore delle materie prime e potevano agire a mani

libere all’interno di questi paesi complici molto spesso delle aristocrazie latifondiste

corrotte. Un contributo per poter capire la portata dell’imperialismo ce lo fornisce

Luxemburg, che agli inizi del Novecento, nell’Accumulazione del capitale, fece

un’accurata analisi dei processi sottostanti all’espansione imperialistica: “Il capitale

ozioso non trovava possibilità di accumulazione in patria, mancandovi la richiesta di

prodotti addizionali: ma all’estero, dove la produzione capitalistica non si è ancora

sviluppata, una nuova domanda si è determinata in strati non-capitalistici, o la si

determina con la forza. (...). L’essenziale è che il capitale accumulato nel vecchi paese

trovi nel nuovo una rinnovata possibilità di produrre plusvalore e di realizzarlo, cioè di

continuare l’accumulazione.”8 Fu l’unico modo con cui si riuscì a rimandare l’ipotesi di

una guerra a tutto campo (purtroppo soltanto fino al 1914) tra le potenze, rivelatasi

sempre più vicina con l’inasprimento della concorrenza soprattutto nei settori di prima

industrializzazione; e con l’inarrestabile ascesa delle nuove comparse nello scenario

internazionale (Stati Uniti e Germania) che provocarono l’aumento dei punti d’attrito tra

i paesi industrializzati. Inoltre, attraverso le politiche legate alla colonizzazione e il

fervore nazionale suscitato dalle imprese di conquista che promettevano terre e lavoro ai

diseredati dell’industrializzazione, lo Stato e gli industriali inscenavano uno spettacolo

che distoglieva l’attenzione dai problemi sociali ed economici reali, alimentando anche

il ghiotto boccone delle commesse di guerra (non dimentichiamoci che molti tra i più

micidiali sviluppi della tecnica militare sono di questo periodo9).

L’altra forma d’adattamento escogitata per far fronte alla situazione di crisi

internazionale, il capitalismo finanziario, a noi interessa in modo particolare perché darà

avvio all’assetto economico da cui scaturì l’ideazione e messa in atto di quelle misure 7 Vedere in particolare il capitolo 21 in Perrault, Gilles et al., Il libro nero del capitalismo, Milano, Net, 2003. 8 Luxemburg, Rosa, L’accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1968, pag. 427. Vedere in particolare i capitoli XXX, XXXII e XXXII in cui vengono trattate le tematiche riguardanti l’imperialismo, il militarismo e l’espansione coloniale delle potenze europee. 9 Solo per citare alcune delle innovazioni, possiamo nominare il siluro inventato nel 1860, il sottomarino nel 1863, la dinamite nel 1867 e la mitragliatrice nel 1883. Rif. Bibl.: Del Torre, Giuseppe e Viggiano, Alfredo, Corso di storia e percorsi di approfondimento, Firenze, Edizioni Sansoni, 2000, pag. 373.

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per incentivare il consumo del maggior numero possibile di beni, da noi prima definito

come consumismo. Il capitalismo finanziario segna la fine della netta divisione tra

fornitori di capitale e produttori, ora questi due fattori si legano e si concentrano sotto la

direzione dell’alta finanza. Il numero degli attori presenti sul mercato si riduce, si

verifica una fortissima concentrazione di capitali e di forza produttiva in poche mani,

s’investe nella ricerca di nuove tecniche, nuovi prodotti, nuovi fonti d’energia, nuove

modalità di commercializzazione, nuove produzioni che permettessero alle aziende di

ritornare a fare profitti. Mai prima d’ora s’era creato un legame così forte tra industria,

finanza, laboratori e scienziati; i nuovi agglomerati industriali potevano contare con un

vasto supporto finanziario per realizzare questi investimenti, altrimenti impensabili. Per

cercare d'arginare i problemi causati dalla sovrapproduzione e dalla stagnazione

generale dell'economia, le potenze industriale tornano a ricorrere al protezionismo dopo

due decenni che avevano visto l'espansione del liberismo; così, ogni potenza, mettendo

insieme i nuovi mercati aperti dalla colonizzazione protetti da barriere doganali si

credette di risolvere il problema degli sbocchi commerciali.

Nonostante il varo di misure protezionistiche e l'allargamento dei mercati

disponibili e delle conquiste realizzate dal capitalismo internazionale, la tensione e le

ipotesi di conflitto non s'allentarono affatto, anzi, nacque una corsa agli armamenti che

vide impegnate soprattutto la Gran Bretagna e la Germania, ognuna delle due messasi a

capo di una coalizione internazionale in chiave difensiva che, di fatto, comprometteva

l'Europa tutta nel gioco delle alleanze, facendo diventare il continente una polveriera

pronta a scoppiare in qualsiasi momento. E, di fatti, non ci è voluto molto tempo prima

d'andare a fuoco nel 1914. La I Guerra Mondiale ebbe effetti devastanti non solo perché

provocò la perdita di milioni di vite umane, ma anche perché sconvolse un'intera

generazione provocando cambiamenti epocali nella società, nell'economia, nel mondo

del lavoro e nei rapporti tra i sessi e tra le classi. Sul piano dei rapporti internazionali, la

guerra segna l'inizio del lento declino del primato mondiale dell'Europa e la comparsa

nello scacchiere internazionale delle due superpotenze situate proprio ai margini

dell'Europa: gli Stati Uniti e l'Urss. Fu la prima guerra “totale”; ovvero, tutto l'apparato

economico e industriale, tutte le componenti della società vennero mobilitate e

coinvolte nello sforzo bellico, costringendo ai lavoratori a fare molte concessioni sul

piano dei diritti in pro del raggiungimento degli obiettivi della macchina bellica. Fra

tutti questi fattori a noi interessano in modo particolare quelli che riguardano le misure

(e le conseguenze di esse) messe in atto durante il periodo della guerra che saranno

d'importanza fondamentale per capire gli sviluppi del consumo di massa, analizzando in

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particolare i risvolti della congiuntura economica americana e internazionale nel periodo

tra le guerre.

Diversamente dalla situazione in cui versavano i paesi europei dopo la I guerra

mondiale, gli Stati Uniti trassero più di qualche vantaggio in particolare per quel che

riguarda l'aumento delle riserve aurifere e dal fatto che la guerra fece da volano dello

sviluppo industriale ed economico. Il deciso aumento della produttività che si verificò

nel periodo bellico fu in gran parte dovuto all'introduzione del taylorismo. Le linee

guida che ponevano le basi per l'organizzazione scientifica del lavoro, ideate da Taylor

verso la fine dell'Ottocento, prima della guerra, non avevano trovato molti adepti,

invece ora vengono applicati da tutti i sistemi industriali avanzati e non solo nella

produzione industriale. Il fattore chiave per vincere una guerra dopo la Rivoluzione

Industriale giace nell'apparato industriale di un Paese più che nella quantità di soldati

che esso è in grado di schierare sul campo. Chi riesce a produrre di più, innovare e

migliorare la distruttività e l'efficienza degli armamenti ed è in grado di assicurare e

gestire le proprie fonti di materie prime in modo migliore vince la guerra.

L'introduzione del taylorismo nelle fabbriche non può più essere arginata dai sindacati,

il cui margine di manovra è stato drasticamente ridotto dalle leggi speciali approvate nel

periodo bellico che vietavano gli scioperi od ogni tipo di protesta che prevedesse la

sospensione della produzione. Il taylorismo fu soltanto un primo passo di un

cambiamento ancora più profondo che ebbe luogo nel periodo tra le guerre negli Stati

Uniti con l'introduzione del fordismo. L'innovazione dell'organizzazione scientifica

della produzione introdotta da Henry Ford va al di là del semplice miglioramento della

produzione con la catena di montaggio e della sua applicazione in maniera sistematica

ad ogni mansione svolta in fabbrica o della produzione in serie di grandi quantità di

prodotti identici. Mi rifarò a Beaud (2004) per dare un'idea più chiara della portata del

fordismo:

Il fordismo non consiste soltanto nell'applicazione di un rinnovato modello di

organizzazione del lavoro, esso rappresenta anche un nuovo modo di inserire i

lavoratori nella società capitalista: si tratta al contempo di un nuovo modello di

produzione capitalista (con salari relativamente elevati per una parte della classe

operaia e forte aumento della produttività grazie alla produzione di massa e alla

razionalizzazione) e di realizzazione del valore così creato (con lo sviluppo del

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consumo di massa, che si estende a un settore della classe operaia, le cui condizioni di

vita si avvicinano a quelle della classe media).10

Col five dollars a day,11 uno dei punti chiave dell'attuazione del fordismo,

nasceva un settore della classe operaia che poteva permettersi di consumare di più,

avvicinando il livello dei loro consumi a quello della borghesia americana. Di certo la

fatica e l'avvilimento prodotto dai ritmi frenetici delle nuove fabbriche ristrutturate

secondo i dettami del taylorismo e dai gesti ripetuti migliaia di volte al giorno non erano

scomparsi, tutt'altro, l'aumento vertiginoso della produttività in questo periodo è un

chiaro segnale del fatto che i ritmi di lavoro sono addirittura aumentati. Tuttavia, lo

stimolo creato dall'occasione di disporre un reddito maggiore e la possibilità di godere

un livello di vita superiore sono un attrattivo che, nonostante le voci contrarie sollevate

dagli economisti dell'epoca che consideravano ogni aumento del costo della mano

d'opera come un danno per la competitività, si rivelerà vincente. Inoltre, per poter

beneficiare del five dollars a day, i lavoratori (soltanto gli uomini che avevano lavorato

per un determinato numero di anni vi potevano accedere) dovevano sottostare a

determinate regole di comportamento, di moralità e di vita; creando così delle

differenze e delle divisioni tra quelli che lavoravano alla Ford e quelli che no, ed anche

tra le diverse categorie di operai appartenenti ad essa.

Finita la guerra sorge però il problema dell'utilizzo dell'apparato industriale

sovradimensionato e del surplus di produttività che non trovano più il suo sbocco

naturale nell'industria bellica. Il sistema industriale decise allora di puntare sullo

sviluppo dei consumi personali degli americani, Paese caratterizzato da solide tradizioni

di risparmio, tipiche della morale protestante e uno dei valori fondanti della cultura

americana. Per riuscire in quest'impresa si fece ricorso a due armi: la pubblicità e lo

stimolo a far uso del credito. Con questi due espedienti si riuscì a cambiare la mentalità

di un paese in un solo decennio, dando avvio a un nuovo sistema di sfruttamento

pilotato dall'apparato industriale che, facendo leva sui bisogni falsi,12 riuscirà a

diffondersi prima negli Stati Uniti, per seguire poi nelle altre nazioni industrializzate

dell'Europa Occidentale, e finalmente con la globalizzazione, in tutto il mondo. Lo

10 Op. cit. Beaud, Storia del capitalismo, pag. 206, [corsivo suo]. 11 Five dollars a day, in italiano “cinque dollari al giorno”, questa misura ideata da H. Ford aumentava il salario minimo nelle sue fabbriche per alcune categorie di lavoratori da due o tre dollari a cinque, e allo stesso tempo, riducendo la giornata lavorativa da nove a otto ore. 12 Secondo la definizione di Marcuse in L'uomo a una dimensione – L'ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1967, pag. 25, “I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia.”

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16

sviluppo di tecniche sempre più raffinate di marketing, pubblicità e l’invenzione del

credito al consumo vennero definite all’epoca il “Vangelo economico del Consumo.”13

Queste misure puntavano a favorire il senso di insoddisfazione cronica nella

popolazione abituata a lavorare il minimo indispensabile per poter coprire i bisogni

basici del nucleo famigliare o della persona, e che il più delle volte non ricorrevano al

mercato per soddisfare i propri bisogni materiali. Chiaramente, per il sistema industriale

americano la persistenza di questa mentalità era estremamente dannosa, l’aumento della

produttività e la razionalizzazione della produzione sfornavano sempre più prodotti che

rimanevano invenduti nei magazzini. Di fronte alla prospettiva di una nuova crisi di

sovrapproduzione, il marketing e la pubblicità, prima alquanto trascurati dal sistema

industriale che puntava soprattutto allo sviluppo delle capacità di produzione piuttosto

che allo stimolo del consumo, conobbero una forte espansione nel corso degli anni

Venti cercando di imporre alla popolazione americana nuovi modelli di vita e di

consumo. I nuovi guru del marketing e della pubblicità capirono che la chiave per

riuscire ad imporre nei cuori e nelle menti delle persone la propensione al consumo

sfrenato si trovava nel ridicolizzare lo stile di vita sobrio, la cultura del risparmio e la

produzione artigianale e, allo stesso tempo, nel bombardare la classe lavoratrice con

modelli di vita e di consumo del lusso tipici dell’aristocrazia e delle personalità famose,

nell’inventare mode e invadere il mercato con nuovi prodotti, nel programmare

l’obsolescenza dei prodotti per garantirsi gli acquirenti in futuro, nell’introdurre e

diffondere i prodotti di “marca” (più adatti allo stile di vita moderno secondo la

pubblicità dell’epoca) prima inesistenti dacché quasi tutto veniva acquistato sfuso.

Tuttavia, l’introduzione del credito e degli acquisti a rate fu la mossa vincente nel

processo di cambiamento della mentalità collettiva della classe lavoratrice statunitense:

“Fare acquisti a rate era affascinante e per molti divenne un vizio. In meno di un

decennio, una nazione frugale e lavoratrice venne travolta da una cultura edonistica che

predicava la ricerca di sempre nuove strade per la gratificazione immediata.”14

Questo processo d’incentivazione ed esasperazione dei consumi privati portato

avanti dal sistema industriale per cercare di compensare gli aumenti dei volumi delle

merci prodotte fu anche responsabile delle grandi difficoltà che ebbe l’economia

americana per risollevarsi dalla crisi borsistica del 1929. Le imprese erano riluttanti a

trasferire i guadagni di produttività ai lavoratori, alimentando un circolo vizioso da cui

si uscì soltanto grazie alla II Guerra Mondiale. Si produce di più convogliando con la

13 Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Milano, Mondadori, 2002, pag. 48. 14 Op. cit. Rifkin, La fine del lavoro, pag. 52-3.

Page 17: Tesi - Bozza Finale

17

pubblicità ed il credito più gente al consumo delle nuove merci prodotte ma, allo stesso

tempo, la macchina produttiva aveva sempre meno bisogno di mano d’opera ed i salari

ristagnavano (tranne che per gli operai della Ford che potevano accedere al five dollars

a day) non permettendo alla gente di aumentare i loro consumi. La crisi generale che

colpì il capitalismo americano e mondiale nel corso degli anni Trenta mise a dura prova

la capacità di mantenere la stabilità sociale in un contesto di disoccupazione

generalizzata, povertà, ristagnazione economica e col continuo inasprimento dei

conflitti sociali che tutto ciò provocava. Mentre molti Paesi dell'Europa Occidentale

abbracciavano, in diverse forme, il fascino delle ideologie fasciste-nazionaliste-

scioviniste (con l'eccezione della Francia e la Gran Bretagna, Paesi in cui le consolidate

tradizioni democratiche riuscirono a reggere l'onda d'urto del nazionalismo); nel 1932

alla Casa Bianca viene eletto Franklin D. Roosvelt, grazie ad una innovativa campagna

elettorale basata sull'utilizzo della radio che denunciava gli errori della precedente

amministrazione repubblicana e prometteva al popolo americano un New Deal, un

“nuovo corso” capace di risollevare le sorti del Paese. Uno dei pilastri del programma

politico roosveltiano fu quello di riaprire il dialogo con i sindacati per cercare di

ottenere il maggior consenso possibile e a tutto campo, sia tra la classe operaia che tra i

rappresentanti dell'alta finanza e dei grandi gruppi industriali. Il problema principale

che ebbe ad affrontare Roosvelt fu la disoccupazione che aveva raggiunto livelli

spaventosi dopo il Martedì Nero di Wall Street. Prendendo spunto dai buoni risultati

raggiunti dalla ditta Kellogg15 i sindacati individuarono la soluzione al problema della

disoccupazione nelle proposte avanzate dal movimento della condivisione del lavoro,

che racchiudeva in sé due iniziative: la richiesta della riduzione dell'orario di lavoro per

poter godere di più tempo libero (un punto su cui i sindacati puntavano da anni), e allo

stesso tempo, la possibilità di far sì che più persone ricominciassero a lavorare poiché le

aziende sarebbero costrette ad impiegare più persone per coprire gli stessi turni. La paga

oraria delle persone ora impiegate si sarebbe ridotta di poco, e come conseguenza

benefica per l’economia, il reddito da loro reso disponibile insieme ad una maggiore

condivisione dei guadagni di produttività da parte delle aziende avrebbe creato le

condizioni per la nascita di un circolo virtuoso. Il maggior numero di occupati, la

riduzione delle ore dedicata da ciascuno alla produzione, legato alla ridistribuzione di

una quota maggiore di ricchezza avrebbe strappato dalla fame più famiglie, ridando

vigore all'intera economia. L'adozione di un programma così innovativo poneva però in

pericolo tutte le conquiste realizzate dal sistema industriale nel corso degli anni Venti:

15 Op. cit. Rifkin, La fine del lavoro, pag. 60.

Page 18: Tesi - Bozza Finale

18

innanzitutto l'establishment non vedeva con buoni occhi una maggiore condivisione dei

guadagni di produttività coi lavoratori, ed il fatto che la gente lavorasse, guadagnasse e

consumasse di meno poteva voler dire un pericoloso ritorno al passato, vanificando tutti

gli sforzi compiuti in senso contrario con le politiche del Vangelo del Consumi.

La proposta di un progetto di legge per stabilire la settimana lavorativa di trenta

ore in tutti gli Stati Uniti fu presentata dal senatore Black dell'Alabama il 31 dicembre

1932. Dopo la sua inattesa e veloce approvazione in Senato, la legge passò al vaglio

della Camera dei Rappresentanti, dove tutti prevedevano un percorso veloce. Purtroppo,

ancora una volta, le prerrogative del sistema industriale prevalsero sul benessere

generale e il Presidente Roosvelt diede l'indicazione di bocciare la legge, barattando al

suo posto il NIRA (National Industry Recovery Act), che prevedeva l'applicazione

dell'orario ridotto solo in alcuni settori specifici, bloccando, di fatto, il varo di una

normativa federale. Anche se il NIRA ed il Fair Labor Standard Act (varato nel 1937

dopo che il NIRA venne dichiarato incostituzionale) introdussero diverse novità

positive per quel che riguarda la contrattazione collettiva, la libera scelta del sindacato

da parte del lavoratore, la protezione del lavoro minorile, ecc., tuttavia non poterono

spezzare la resistenza dei grandi industriali a condividere parte delle ricchezze prodotte

nelle loro fabbriche e da loro accumulate. Roosvelt invece decise che la soluzione al

problema della disoccupazione era quello del rilancio dell'economia attraverso un

massiccio programma d’investimenti pubblici in grandi infrastrutture, sussidi per i

disoccupati e l'aumento delle tasse sui redditi più alti; lo Stato diventa il datore di lavoro

che in ultima istanza provvede a dare un'occupazione per chi non riesce a trovarla nel

settore privato. In ogni caso, “Il New Deal non è riuscito a rilanciare il poderoso

meccanismo di accumulazione caratteristico del capitalismo americano: soltanto la

guerra ci riuscirà. Certo, la disoccupazione è scesa, ma nel 1940 il suo livello resta del

10%.”16 Lo scoppio della II Guerra Mondiale sarà l'evento che farà finalmente ripartire

la macchina industriale americana, e, anche se gli Stati Uniti non furono coinvolti

direttamente nella guerra sino all'attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor,

dai primi momenti della guerra l'economia americana ne trasse vantaggio poiché era

fondamentale il suo apporto di derrate alimentari e materiale bellico alla Gran Bretagna

e ai suoi alleati. L'organizzazione dell'economia bellica prevedeva un forte intervento

statale destinato al controllo dei prezzi, dell'inflazione e dell'organizzazione della

produzione industriale. In questo contesto, la pianificazione economica sarà

16 Op. cit. Beaud, Storia del capitalismo, pag. 212.

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19

fondamentale per poter portare avanti il sistema economico, e lo sarà ancor di più dopo

la fine della guerra (sia per il controllo dell'offerta che della domanda), pur essendo un

termine che provocava orrore tra i sostenitori del libero mercato contrapposto alle

economie pianificate del blocco sovietico. “Prima della guerra fredda il termine

pianificazione voleva dire evitare delle disgrazie evitabili, interessarsi per il futuro.

Dopo però, questo termine si carica di contenuti ideologici è viene abbandonato perché

considerato nemico della società liberista. L'industria moderna ed uso intensivo di

capitale e tecnologia richiede però una pianificazione a lungo raggio.”17

Nello sviluppo della seconda fase di questa storia del consumismo mi occuperò

più in profondità delle tematiche collegate alla pianificazione industriale ed il suo

legame con la pianificazione dei bisogni. In questa prima parte mi sono limitato a

trattare quasi esclusivamente il contesto economico degli Stati Uniti, trascurando

volutamente l'Europa. Le ragioni della mia scelta sono dovute al fatto che nelle

economie europee del dopo guerra, fortemente impegnate nella ricostruzione post

bellica e nel ristabilimento della parità aurea delle divise più importanti, mancavano

quelle condizioni sociali (cioè la disponibilità di reddito da parte del proletariato

salariato) e dunque anche la possibilità da parte delle imprese europee di creare una

macchina fautrice di desideri capace di stravolgere l'intiera società com'era successo in

America col Vangelo dei Consumi.

Seconda fase (1945 – 1973)

Il trentennio che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla crisi del

petrolio del ’73, è caratterizzato da un impressionante aumento della produttività e degli

scambi commerciali internazionali. Anche tenendo conto delle distruzioni provocate

dalla guerra alle economie europee e asiatiche, e dal fatto che una non trascurabile parte

del globo si trovasse fuori dall’ambito capitalista, questo sarà senz’altro uno dei periodi

di maggiore stabilità e sviluppo del capitalismo a livello mondiale. Il grande aumento

della produttività nel dopoguerra, dovuto in parte al miglioramento delle tecniche

d’automazione e razionalizzazione, ma soprattutto ad una maggiore pressione esercitata

sui lavoratori che vengono costretti a fare turni stremanti ed ad aumentare i ritmi di

17 Galbraith, John Kenneth, Il nuovo stato industriale, Torino, Einaudi, 1968, pag. 21.

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20

lavoro, spesso in condizioni di lavoro molto precarie. In Europa, ciò avvenne mediante

l’introduzione del sistema americano di produzione (taylorismo-fordismo) in

concomitanza con la riconversione dell’industria bellica. La seconda fase dello sviluppo

della società dei consumi vede, innanzi tutto, il superamento dell’accumulazione di

stampo imperialistico e coloniale; con la sua suddivisione rigida del mondo in

“compartimenti stagni”, custoditi gelosamente da ogni paese impedendo il flusso libero

di capitali americani che avevano bisogno di riversarsi sull’Europa Occidentale ed i

paesi del Terzo mondo. L’arrivo di questi capitali viene accompagnato dalle promesse

di benessere e libertà (prima e ovvia conseguenza dell’arrivo del libero mercato!),

sfidando apertamente l’espansione del comunismo, che anzi, doveva essere contrastato

a livello mondiale con qualsiasi mezzo, legale o illegale, anche andando contro la

volontà popolare. L’esaurimento delle risorse delle potenze coloniali europee nel corso

della guerra non permette ad esse di mantenere i vasti imperi coloniali (le cui

popolazioni erano sempre più insofferenti nei confronti della dominazione coloniale);

gli Stati Uniti, pur consapevoli del pericolo della deriva socialista incombente sulle

nuove nazioni, s’attivano per favorire e incentivare il processo di decolonizzazione in

seno all’Onu, consci poter rimpiazzare il ruolo dell’Europa e consapevoli di essere la

prima potenza economica e militare, in grado di contrastare l’Urss in qualsiasi area del

mondo. La politica monetaria che scaturì dagli accordi di Bretton Woods diede il

supporto monetario necessario a finanziare il nuovo ruolo degli Stati Uniti nel mondo: il

dollaro venne parificato all’oro, quindi in pratica il dollaro era buono come l’oro,

diventando così la moneta di riferimento mondiale per gli scambi commerciali. Inoltre,

attraverso l’azione della Banca Mondiale e il Fmi (Fondo Monetario Internazionale,

nate anch’esse dagli accordi di Bretton Woods) – in cui gli Stati Uniti vi giocano un

ruolo di prim’ordine – si consolidarono gli interessi americani in quei paesi desiderosi

di uscire dalla povertà e il “sottosviluppo” a cui furono costretti dall’imperialismo.

Questi organismi internazionali giocarono un ruolo fondamentale nell’azione di

sostegno dell’influenza politica ed economica americana nel resto del mondo, elargendo

prestiti e aiuti militari a tutti quei paesi che giuravano fedeltà agli Stati Uniti, senza

badare molto a chi governasse questi paesi o per quali scopi fossero destinati i soldi dati

in prestito. L’enorme quantità di denaro riversatasi sul Terzo mondo con l’obiettivo

dichiarato di favorire lo sviluppo economico e colmare il divario col Primo mondo

venne utilizzato per avviare massicci programmi d’industrializzazione, vista in quel

momento – da economisti e intellettuali sia socialisti, sia liberisti – come il tassello

mancante nelle economie meno sviluppate. Si pensava che il resto del mondo doveva

compiere lo stesso percorso per riuscire a raggiungere il benessere di cui ora godevano i

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21

paesi di vecchia industrializzazione, quindi vista la mancanza di un ceto di capitalista o

grado di far partire la crescita dell’industria, e vista la debolezza strutturale ed

economica dei nuovi stati, gli organismi internazionali dovevano provvedere a coprire

questa carenza. Il risultato fu però quello di far crescere soltanto l’indebitamento e la

dipendenza del Terzo mondo, in cui le differenze nella distribuzione del reddito presenti

già da tempo su scala mondiale vengono riprodotte e aumentate. Le loro economie

entrano a far parte del mercato internazionale, e spesso questa totale dedizione

dell’economia al commercio estero fa sì che le colture tradizionali siano trascurate o

completamente abbandonate; in una situazione simile, la stessa sopravvivenza della

popolazione dipende dalle derrate alimentari importate o arrivate sotto forma d’aiuti

alimentari. “In un certo modo, l’occidentalizzazione non è altro che il «rivestimento»

culturale dell’industrializzazione, ma l’occidentalizzazione del Terzo mondo è in primo

luogo una deculturazione, cioè una distruzione pura e semplice delle strutture

economiche, sociali e mentali tradizionali, per essere sostituita a lungo andare soltanto

da un grosso ammasso di ferraglia promesso alla ruggine. Il vicolo cieco industriale

conduce direttamente al vicolo cieco sociale.”18

All’interno del sistema economico americano i cambiamenti che si verificarono

in questi anni di crescita travolgente non sono da poco. Gli indugi governativi posti al

sistema economico durante la guerra vengono meno, aumenta la concentrazione

industriale e finanziaria, e cambia la struttura stessa dell'organizzazione aziendale. La

figura del padrone industriale che comanda e controlla tutto viene rimpiazzata dalla

tecnostruttura,19 ovvero, una fitta rete di impiegati intermedi altamente qualificati e

specializzati che si occupano di tutte le mansioni relative all'organizzazione della

produzione, anche se la vecchia figura del padrone (il capo carismatico da cui

dipendono tutte le decisioni prese in azienda) viene mantenuta per le occasioni

mondane. La nascita di questa nuova forma d’organizzazione aziendale è stata

agevolata dalla disponibilità di quelle nuove tecnologie applicabili al lavoro negli uffici

(in primis i calcolatori numerici), che permettono d’aumentare la produttiva dei singoli

impiegati e migliorare il coordinamento e la comunicazione degli stessi all’interno della

compagine aziendale. Un altro segno di cambiamento viene dalla mutata strategia delle

aziende, non più dedite soltanto alla ricerca del massimo profitto da distribuire fra gli 18 Latouche, Serge, L’Occidentalizzazione del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pag. 91. 19 Il termine tecnostruttura fu coniato e introdotto dall’economista John Kenneth Galbraith ed è utilizzato all’interno delle sue due opere più importanti, Il nuovo stato industriale e La società opulenta, in cui il sistema economico americano viene analizzato minuziosamente, denunciando in particolare quei meccanismi attuati dall’apparato industriale per creare e manipolare artificiosamente la domanda di prodotti industriali.

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22

azionisti, ma bensì più preoccupate del mantenimento e la sopravvivenza della

tecnostruttura, ormai diventata la colonna vertebrale dei grandi gruppi che detengo nelle

loro mani quasi la totalità dell'economia americana e mondiale.20 Se potesse risultare

pericolosa per la tecnostruttura la ricerca del massimo profitto, o qualsiasi altra azione

portata avanti dall’azienda, questa viene automaticamente bloccata. Poiché le decisioni

non dipendono più dalle scelte di una singola persona, ed ogni livello della

tecnostruttura ha il compito di controllare l'altro, è piuttosto difficile il verificarsi di

errori gravi di valutazione che potrebbero recare qualche danno, sia questo l'arresto

della crescita della tecnostruttura o la sua distruzione.

L'investimento di massicce somme di capitale ed il rischio che ciò comporta,

fanno sì che sia impensabile dipendere soltanto dalla libera scelta del consumatore e dal

gioco dell'offerta e la domanda, sarebbe un rischio troppo grande che la tecnostruttura

non è disposta a correre, pena la sua sopravvivenza. E' fondamentale per tutto il sistema

economico, controllato e gestito dalla tecnostruttura, che la totalità della produzione

abbia uno sbocco commerciale assicurato sul mercato. Lanciare un nuovo prodotto o

una nuova linea di prodotti comporta anni e anni di ricerca e molti investimenti, lasciarli

in balia del mercato sarebbe quasi come giocare d'azzardo, perciò pari passo con

l'investimento in ricerca e produzione, l'investimento pubblicitario è fondamentale per il

buon andamento dei piani aziendali. Quello che una volta era considerato un

investimento inutile, che non portava nessun guadagno tangibile per l'azienda, riceve

dagli anni '50 in poi somme impressionanti di denaro,21 col chiaro obiettivo di preparare

il terreno su cui verrà poi “seminato” il nuovo prodotto. Galbraith a proposito della

20 Questa affermazione potrebbe sembrare paradossale agli occhi di molti poiché non sembrerebbe logico, se guardiamo i dettati dell’economia classica, che nell’attività imprenditoriale non si vada sempre alla ricerca del massimo profitto. In effetti, gli economisti sono sempre pronti ad affermare che questo è lo spirito che muove il capitalismo. Tuttavia, secondo l’analisi di Galbraith, questo è un concetto superato non più valido nell’economia capitalista avanzata, dove pochi grandi gruppi si spartiscono il mercato interno ed esterno, in un regime quasi monopolistico. Galbraith afferma che se la ricerca del massimo profitto sempre e comunque, anche in periodi di stagnazione, rischia di mettere in pericolo l’azienda (ergo la tecnostruttura incaricata di gestirla), questa automaticamente rinuncia al massimo profitto per consentire la sopravvivenza della tecnostruttura. Il suo obiettivo principale è quello di espandersi, o almeno, di mantenere le stesse dimensioni; quindi più spesso le aziende s’adoperano al fine di tenere i prezzi ad un livello che consenti di fare profitti, che nonostante non vengano spinti al massimo raggiungibile, consentono lo stesso alle imprese di fare lauti guadagni, visto l’esiguo numero di attori presenti sul mercato. La spartizione del mercato fra questi gruppi fa sì che concetti dell’economia classica come la concorrenza, la sovranità nella scelta dei prodotti da parte dei consumatori, la ricerca del massimo profitto e la validità stessa della legge dell’offerta e la domanda come meccanismo regolatore della vita economica non abbiano più senso. Uno degli obiettivi dichiarati dei due volumi scritti da Galbraith è proprio quello di sfatare questi miti, oramai datai e il cui uso dà una visione errata dei fenomeni economici. 21 “Tra il 1950 e il 1996 le spese pubblicitarie mondiali sono aumentate di sette volte, ad un ritmo assai più sostenuto di quello registrato dalla produzione” citazione tratta da Schiller, Dan, I parassiti della vita quotidiana, in “Le Monde Diplomatique”, maggio 2001, pag. 12.

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tecnostruttura ci dice: “La tecnostruttura è soprattutto impegnata nella produzione di

beni e nel relativo controllo e sostegno della loro domanda. E’ evidente l’importanza

del fatto che a tali attività venga riconosciuta un’alta funzione sociale e che quanto

maggiore è la produzione di beni, tanto maggiore sarà il servizio reso alla società”.22 La

teconostruttura prende letteralmente le redini dell’intera economia, dalla produzione

alla vendita, facendosi carico e organizzando tutti i passaggi intermedi, garantendosi la

vendita dei prodotti da essa prodotti, ed elevando i miti della crescita, il Pil e la

produzione ad un livello quasi religioso (purtroppo l’azione propagandistica di questi

miti è riuscita a far breccia anche tra quelle le forze politiche “riformiste” o social-

democratiche di sinistra). E' molto difficile che una grande azienda collochi sul

mercato un prodotto di cui non è sicura d'avere un successo garantito: e il modo

migliore per assicurare il successo dei nuovi prodotti lo diede (e lo dà ancora) la

massiccia pressione pubblicitaria esercitata sulla società. Questa pressione si fa

particolarmente forte sui ceti inferiori della società, costretti in questo modo ad

inseguire il livello di vita sfoggiato dalle classe superiori e dalle icone del cinema e la

tivù, idealizzato a livello di traguardo sociale. Le massicce somme di denaro che riceve

dall’apparato industriale si uniscono alla disponibilità di un nuovo mezzo, la

televisione, con cui è in grado di raggiungere i futuri acquirenti direttamente nelle loro

case. La potenzialità di sollecitazione al consumo venne amplificata dalla combinazione

delle nuove tecniche pubblicitarie coi nuovi mezzi di comunicazione, alimentando tutte

quelle storture che col tempo diverranno la regola delle società industriali avanzate: così

l’usura e l’obsolescenza pianificate vengono giustificate dalle innovazioni incalzanti

della tecnica che costringe a buttar via o cambiare le cose dopo un periodo molto breve,

spesso senza sapere perché. Non è paradossale che proprio quando la scienza e la

tecnica siano al suo apice, i suoi prodotti durino sempre di meno?

Quest’innovazione nell’organizzazione aziendale arriva in un secondo momento

in Europa, spinta in primo luogo dall’afflusso di capitali provenienti dall’America,

derivati dall’aumento dei proventi petroliferi e destinati all’acquisto di banche e titoli

azionari delle maggiori aziende europee (assieme a questi capitali arrivano anche il

modello di concepire l’impresa e la concezione del ruolo dello Stato negli Stati Uniti,

fortemente critici dei livelli di spesa sociale dei paesi europei), e verso la fine del

decennio dall’ondata neo-liberista che porterà Margareth Thatcher al governo nel

Regno Unito. Nel primo dopoguerra lo Stato gioca un ruolo chiave nella

22 Op. cit. Galbraith, Il nuovo stato industriale, pag. 143.

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programmazione economica, con l’obiettivo di gestire e coordinare gli sforzi della

ricostruzione, ma anche per cercare di dare una risposta ai gravi problemi sociali sorti

dopo anni di guerra e distruzioni che minacciavano seriamente la stabilità sociale dei

paesi europei (disoccupazione altissima, provvedere a sopperire le richieste di quelle

persone che si ritrovavano senza casa, ai mutilati e ai feriti di guerra, alla penuria

alimentare ed energetica, alla riconversione dell’industria bellica). In effetti, dopo

l’introduzione negli anni ’30 nei paesi scandinavi dei primi sistemi di tutela del

cittadino in cui lo Stato si assumeva l’onore di provvedere all’istruzione, alla sanità e

alla previdenza in una misura mai vista prima. Nel dopoguerra il testimone fu preso

dall’Inghilterra: il governo socialista che succedette a Churchill introdusse tutte quelle

misure e garanzie in favore dei cittadini che poi verranno riassunte sotto il nome di

Welfare state, ovvero lo Stato sociale. L’applicazione di queste tutele negli anni

successivi diverrà patrimonio comune, con tempi diversi e scegliendo modalità diverse,

anche dei paesi dell’Europa continentale. In ogni caso, le differenze del capitalismo

europee non arrestano la sempre maggiore integrazione tra le due sponde dell’Atlantico,

contribuendo a consolidare una delle tendenze tipiche del commercio mondiale, ovvero,

l’importanza sempre crescente degli scambi commerciali tra le zone più ricche e

sviluppate del pianeta, che col tempo diverranno predominanti. Non arrestano nemmeno

la diffusione dello stile di vita americano in Europa, soprattutto delle mode e degli stili

di consumo, facendo sentire la sua influenza anche sui paesi del blocco sovietico, per i

quali costituiva – seppur in maniera minore e in modi diversi – un modello da cui

attingere. Per quel che riguarda il caso italiano, dobbiamo anche tener conto che la

disponibilità di mano d’opera abbondante a buon mercato fa sì che non ce ne sia

bisogno di rinnovare né d’ammodernare il sistema economico (cioè dotandosi di una

tecnostruttura e investendo su tecnologie in grado di aumentare la produttività),

rimanendo ancorato per più tempo alla vecchia figura del padrone d’azienda onnisciente

e onnipresente. In parte un cambiamento di rotta può essere notato dopo l’ondata

rivendicativa dell’Autunno caldo e la crisi energetica, che provocarono rispettivamente

l’aumento del costo del lavoro e delle materie prime. Non fu però una svolta completa

poiché il sistema industriale italiano preferì prendere delle scorciatoie per aggirare il

problema posto dall’aumento dei costi di produzione: in primo luogo favorendo il

dislocamento di molte lavorazioni in aziende piccole e medie in cui i lavoratori e i

sindacati avevano un potere di contrattazione molto più basso, ciò si traduce

evidentemente in salari più bassi. In secondo luogo, svalutando la lira si favorisce

l’esportazione dei prodotti italiani, queste vanno in soccorso della bilancia

commerciale, fortemente penalizzata vista la totale dipendenza energetica dell’Italia.

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La crisi del petrolio del ’73 e le sue conseguenze sul mondo capitalista; dopo un

trentennio in cui il sistema economia mondiale aveva quasi dimenticato la possibilità

della ricomparsa della crisi, ecco che ricompare sotto un’altra veste. Il petrolio è ormai

diventata la fonte energetica primordiale, surclassando il carbone ed altre fonte

d’energia d’origine fossile. Grazie all’azione combinata dei servizi segreti, e gli

interventi diretti, i maggiori paesi industriali s’erano assicurati le fonti

d’approvvigionamento nei paesi arabi tramite la presenza delle compagnie petrolifere

americane ed europee, che ottengono profitti elevatissimi, garantiscono un flusso

continuo di greggio a basso prezzo a discapito dell’economia di questi paesi, in cui la

stragrande maggioranza vive soggiogata da regimi filo-occidentali che si spartiscono le

ricchezze prodotte dal sottosuolo. La guerra arabo-israeliana del ‘73 provocò però la

reazione dei paesi produttori che decidono di ridurre la produzione ed allo stesso tempo

aumentare i prezzi, sia per tutelarsi dalla perdita di valore del dollaro dopo che questo

venne sganciato dall’oro nel ’71 (legame troppo oneroso per un paese che vedeva

crescere l’indebitamento pari passo col suo impegno nel Vietnam), sia come

rappresaglia nei confronti degli Stati Uniti, il primo e più grande alleato d’Israele. Ma se

guardiamo più in profondità, l’aumento del prezzo del petrolio non fu del tutto dannoso

per gli Stati Uniti. In effetti, le maggiori compagnie petroliere americane furono i

principali beneficiari dell’aumento del prezzo del greggio visto che i loro profitti non si

ridussero affatto con lo scoppio della crisi, anzi, avvenne proprio l’incontrario. Il

massiccio afflusso di capitali freschi rese possibile l’investimento nella ricerca e

l’estrazione di petrolio in quelle zone considerate prima troppo impervie o difficili da

raggiungere per giustificare gli investimenti necessari per l’avviamento dello

sfruttamento dei giacimenti. Le grandi piattaforme petrolifere nel Mare del Nord, nel

Golfo del Messico e in Alaska diventano ora gli obiettivi principali su cui puntano le

“sette sorelle”23 e l’amministrazione americana, desiderosa di porre fine alla sua

dipendenza dal greggio mediorientale. La situazione di continua instabilità nelle zone

mediorientali, che continua tutt’ora è in gran parte dovuta al fatto che questi paesi

letteralmente galleggiano sulla risorsa più importante per il sistema economico

internazionale.

23 Con questo appellativo viene chiamato il cartello formato dalle sette più grandi compagnie petrolifere a livello mondiale.

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26

Capitolo secondo

Il consumismo in Italia

Introduzione

Nel primo capitolo ho fatto un excursus sulla storia del consumismo col quale ho

cercato di dare le premesse storiche proponendo un primo approccio al nucleo centrale

di cui è composto questo lavoro, vale a dire, lo sviluppo del consumismo nella cornice

del miracolo economico italiano e le conseguenze che esso ebbe sulla società, prestando

particolare attenzione a quelle logiche che faranno rientrare in piena regola l’Italia nella

società dei consumi, cercando di descrivere le particolarità nazionali del fenomeno. Il

mio interesse s’è rivolto in particolare al periodo del “miracolo economico” per le sue

valenze come momento di svolta nella vita sociale italiana. Una svolta che però

continuerà a portarsi avanti tante caratteristiche e zavorre del passato combinandole con

la modernità in maniera del tutto particolare, cambiando il volto del Paese.

La situazione economica e politica nel dopoguerra

L’economia italiana dell’immediato dopoguerra si trova nella stessa disastrosa

situazione in cui si trova l’intero continente dopo cinque anni di guerra e

bombardamenti: penuria di materie prime, impianti e vie di comunicazione distrutti,

mancanza di investimenti e di acquirenti, inflazione galoppante provocata anche

dall’emissione incontrollata delle Am-lire nel Mezzogiorno occupato, altissimi livelli di

disoccupazione che peggiorano nel ’48 con la politica deflazionistica di Einaudi,

colpendo soprattutto i ceti bassi; tutto questo in una situazione economica e politica che

non permette di varare quelle misure basiche di welfare capaci di alleviare in qualche

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modo la penuria e la miseria che al momento imperversavano in tutt’Italia. La svolta

arrivò nel 1948 quando il governo americano approvò il varo del Piano Marshall,

ovvero, prestiti a fondo perduto e a condizioni vantaggiose per l’acquisto di materie

prime e macchinari destinati alla ricostruzione e alla ripresa economica dell’Europa

Occidentale, e che allo stesso tempo la fecero diventare un’appendice di quella

americana. Questi prestiti permisero una ripresa degli investimenti nell’industria

manifatturiera, che favorita dal basso costo della mano d’opera italiana e approfittando

della situazione economica internazionale positiva si tradusse in una crescita veloce e

decisa, puntando soprattutto sullo sviluppo dell’industria di base e meccanica.

Lo sviluppo massiccio del settore industriale dal ’48 in poi provocò cambiamenti

e stravolgimenti radicali nella società italiana. L’industria italiana era nata già alla fine

dell’Ottocento, concentrata soprattutto a Nord Ovest, con la costruzione delle prime

dighe sulle Alpi che diedero la disponibilità di una fonte d’approvvigionamento

energetico favorendo la nascita delle prime fabbriche; tuttavia, il settore industriale non

arrivò mai ad avere le dimensioni raggiunte da altri paesi europei continentali come la

Francia, la Germania o il Belgio. L’Italia rimaneva sostanzialmente un paese agricolo e

arretrato, nel quale erano presenti molte aree in cui i latifondi e sistemi di tipo

mezzadrile erano ancora la regola. L’arretratezza era anche dovuta al fatto che con la

divisione netta del mondo in due blocchi e l’ingresso dell’Italia in quello occidentale,

l’approvazione del versamento dei fondi del Piano Marshall all’Italia era condizionata

dall’attuazione di una decisa politica di repressione e d’allontanamento dalle strutture

dello stato di chiunque fosse sospettato di avere simpatie socialiste o comuniste, nel

quadro di un clima di repressione e caccia alle streghe che può essere benissimo

paragonato a quello scatenato negli Stati Uniti dal senatore Joseph McCarthy.

Puntualmente, questa repressione vide i momenti di più intensa esasperazione nei

periodi di maggiore tensione tra i due blocchi a partire dalla Guerra di Corea ma non

solo; la sua azione si concentrò anche nei periodi più difficili per i governi guidati dalla

Democrazia Cristiana,24 come quello scaturito dopo il tentativo di approvazione della

“legge truffa”25 del ‘53 e ogni qualvolta ce ne fossero manifestazioni di piazza con

l’intervento brutale e spesso smisurato delle forze dell’ordine.

24 D’ora in avanti Dc. 25 Un’accurata descrizione della portata di questa legge la troviamo nella prefazione del volume C’era una volta il Pci, a cura di Guido Crainz: “La definizione propagandistica è tanto efficace quanto fondata, e non è inutile ricordarlo oggi. Quel sistema maggioritario – che attribuiva il 65% dei seggi al partito o ai partiti collegati che avessero raggiunto il 50% dei voti più uno – era stato proposto dalla Democrazia cristiana proprio perché poteva funzionare solo in una direzione: certamente non a favore delle sinistre (...). Davvero una truffa, dunque: e una truffa volta a confermare e consolidare i tratti di quella

Page 28: Tesi - Bozza Finale

28

Sono gli anni della cosiddetta “democrazia congelata”, in cui una reale

alternativa di governo alla Democrazia Cristiana e al centrismo era improbabile e a dir

poco impossibile da prospettarsi per varie ragioni: sin dall’esclusione del governo delle

sinistre nell’aprile del ’47 si impone nel Paese un clima di scontro generale e di

demonizzazione delle opposizioni, in particolare di quella comunista, chiara

dimostrazione sul piano politico nazionale dello scontro che al contempo si verifica sul

piano internazionale. Parte dei soldi stanziati dal governo americano per la ricostruzione

furono destinati al finanziamento dell’apparato partitico democristiano e alla

propaganda anti-comunista, inoltre, prese piede la pratica del clientelismo politico atta a

garantire i consensi elettorali in quelle zone in cui la Dc era meno certa della vittoria.

Una pratica che col tempo s’intensificherà, arrivando a coinvolgere parlamentari,

membri di spicco dei partiti di governo e nel 1978, perfino l’allora presidente della

repubblica, Giovanni Leone, costretto a dare le dimissioni. La diffusione del

clientelismo politico e della corruzione saranno particolarmente gravi e dannose per il

Mezzogiorno, dove la presenza da lunga data di organizzazioni malavitose di stampo

mafioso e di una diffusa cultura del malaffare, le connivenze tra gli apparati dello Stato

e noti criminali, le speculazioni e la mancanza di scrupoli da parte dei cosiddetti

“imprenditori” edili, faranno pesare parecchio sulle spalle di una popolazione già

provata da anni di sofferenza e storicamente più bisognosa d’aiuti da parte dello Stato

centrale. In questa zona d’Italia si verificheranno le più clamorose sperequazioni, sia

attraverso gli interventi della Cassa del Mezzogiorno ma anche attraverso il controllo

degli appalti.

Il miracolo economico

La crescita economica che si protrae lungo gli anni ’50 (in particolare dal ’53 in

poi, quando vengono raggiunti e superati i livelli di produzione prebellici) porta l’Italia

ad avvicinarsi alle nazioni di vecchia industrializzazione, riducendo di molto il divario

almeno per quel che riguarda la produzione industriale, la ricchezza prodotta ed i livelli

di produttività industriale. Tuttavia, come abbiamo già accennato prima, non possiamo

dire lo stesso per quel che riguarda l’apparato statale in sé, ancora saldamente legato al

«democrazia congelata», di quella violazione sostanziale del dettato costituzionale che abbiamo appena evocato” [corsivo suo]. Op. cit. Novelli, Edoardo, C’era una volta il Pci, Roma, Editori Riuniti, 2000, pag. 8.

Page 29: Tesi - Bozza Finale

29

passato fascista, pur riconoscendogli qualche piccolo passo in avanti con le riforme

agrarie attuate nel ’49 dal governo De Gasperi. Nacquero diversi enti locali preposti ad

attuare la riforma agraria, attesa da anni in un Paese in cui in lungo e in largo

dominavano forme di dominazione che costringevano i contadini a sottostare ai padroni,

fossero questi i grandi latifondi del Sud o i mezzadri/fittavoli del Centro Nord. Anche in

questo caso, la gestione clientelare degli enti e dell’erogazione dei contributi per la

pensione e delle mutue portata avanti dalle associazioni collegate alla Dc provocarono

evidenti distorsioni nella distribuzione dei finanziamenti e notevoli sprechi di denaro

pubblico, penalizzando i possibili effetti positivi e limitando la portata della riforma.

Non sarà sorprendente notare che da lì a dieci anni quelle stesse campagne saranno

svuotate dall’esodo verso i poli industriali del Nord. Vale la pena citare Crainz per fare

un esempio dell’applicazione della riforma nel Polesine: “Si vedano i dati dell’Ente

Delta Padano riguardanti il Ferrarese: a fronte di 4000 famiglie cui sono stati assegnati i

terreni vi sono circa 400 dipendenti dell’Ente. E qui al 1960 – cioè pochissimi anni

dopo l’effettiva presa di possesso – il 30% delle prime famiglie assegnatarie ha lasciato

il podere, orientandosi in larghissima parte verso occupazione extra-agricole.”26

La datazione storica contemporanea ormai è d’accordo nello stabilire il 1958

come l’anno d’inizio del miracolo economico. In effetti, quest’anno vede per la prima

volta nella storia italiana gli occupati nel settore industriale sopravanzare quelli del

settore agricolo. Soltanto dopo un decennio dal varo del Piano Marshall la geografia del

lavoro in Italia è stravolta completamente: l’industrializzazione, prima prerogativa

soltanto del Nord Ovest si espande scendendo giù per la Val Padana, e comincia anche

ad interessare alcune zone dell’Italia centrale e centro orientale, in particolare la

Toscana, le Marche ed il Veneto, anche se per certi versi solo in maniera marginale ed

in alcune zone concentrata quasi esclusivamente nella riconversione dell’industria

bellica. Sono gli anni in cui s’accentua l’esodo dalle campagne povere di tutta l’Italia

verso i poli industriali del Nord (Milano, Torino, Genova, Bologna). Le periferie delle

città industriali crescono in maniera smisurata e disordinata senza alcun piano

regolatore.27 Nascono delle baraccopoli di fortuna in cui mancano i più elementari

26 Crainz, Guido, Storia del miracolo italiano – Culture, identità, trasformazioni fra anni 50 e 60, Roma, Donzelli Editore, 2003, pag. 89. 27 Nell’oscuro panorama dell’abusivismo edilizio negli anni Sessanta si può segnalare la felice eccezione dello “zoccolo duro” della sinistra italiana, l’Emilia-Romagna per l’appunto, come esemplificato da Crainz: “Una diversa realtà vi è infatti nella «regione rossa» per eccellenza, l’Emilia-Romagna, erede della tradizione socialista dei primi due decenni del secolo. L’esperienza avviata a Bologna dopo la Liberazione dal sindaco comunista Dozza si inserisce in un solco solido, anche se il percorso è ostacolato in più forme dal governo centrale.” Cfr. Crainz, Guido, Il paese mancato – Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli Editore, 2003, pag. 76.

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30

servizi, tra cui l’elettricità, l’acquedotto, la raccolta dei rifiuti, le fognature. Le città in

cui si verifica un precipitoso sviluppo dell’industria non sono preparate per accogliere

questa massa di persone e, oltre al verificarsi di fenomeni di discriminazione nei

confronti dei nuovi arrivati (non mancano in una città come Torino, dove l’afflusso di

meridionale è particolarmente importante, cartelli su cui campa la scritta “Non si affitta

a meridionali”), ci sono molti che se ne approfittano della disperata condizione dei

nuovi arrivati dando vita a pratiche speculative d’ogni genere.

Come ogni altro fenomeno economico, il miracolo economico nasce

dall’accumularsi di una serie di condizioni favorevoli per il sistema economico italiano

risalenti al 1948. Abbiamo già accennato il ruolo degli aiuti americani come prima

misura atta a favorire la ripresa e la modernizzazione dell’apparato industriale italiano.

Per quel che riguarda le misure di “casa nostra” che fecero da volano allo sviluppo

industriale, mi rifaccio di nuovo a Crainz:

“E andrebbero visti assieme tre «eventi» del 1953: la nascita dell’Ente Nazionale

Idrocarburi voluto da Mattei, cui è affidato lo sfruttamento dei giacimenti di metano da

poco scoperti nella valle del Po; l’investimento di trecento miliardi da parte della Fiat

per la costruzione del nuovo stabilimento di Mirafiori, dalle cui catene di montaggio

uscirà nel 1955 la Seicento; l’approvazione della legge per lo sviluppo del credito

industriale nell’Italia meridionale e insulare, primo passo verso quella del 1957 che

precisa incentivi e obiettivi di industrializzazione del Mezzogiorno.”28

Ecco quindi che si profila la nascita ed il rafforzamento di quelli che saranno i

settori trainanti del miracolo ed in generale di tutto il periodo postbellico nell’Europa

Occidentale: l’industria meccanica e petrolchimica, col concorso ed il supporto dello

Stato, il cui era a sua volta partecipe in prima persona del processo di sviluppo

attraverso la miriade d’imprese pubbliche o semi-pubbliche gestite dall’Iri e l’Eni;

oppure attraverso l’Anas finanziando la costruzione della rete autostradale senza di cui

la motorizzazione di massa non poteva partire; e anche attraverso i dazi doganali che

colpivano l’importazione d’automobili straniere. A questi fattori vanno aggiunti anche

quelli legati alla disponibilità di un’elevata quantità di mano d’opera a basso costo

(“l’esercito di riserva” utilizzando la terminologia marxiana, formatosi analogamente al

caso inglese con l’esodo di massa dalle campagne, e anche se nel caso italiano non

c’entrano le enclosures, il ripetersi delle dinamiche del capitalismo è evidente), cui

28 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo italiano, pag. 112-113.

Page 31: Tesi - Bozza Finale

31

viene richiesta sempre più produttività grazie all’aumento dei ritmi di lavoro e dello

sfruttamento nelle fabbriche. Queste misure combinate ad una politica di contenimento

dei salari permisero all’Italia d’essere molto competitiva a livello internazionale,

favorendo l’andamento positivo delle esportazioni e la bilancia commerciale con

l’estero: “L’Italia poté conquistare una posizione competitiva di tutto rispetto nei settori

moderni grazie a un rapporto salari-produttività molto favorevole nel confronto coi

paesi concorrenti.”29

Dalla società contadina alla società affluente30

Il cambiamento a mio parere più radicale che si verificò negli anni del miracolo

economico avvenne nella struttura sociale dell’Italia. L’Italia contadina chiusa e

patriarcale, controllata molto da vicino dalla chiesa cattolica e in cui la mobilità sociale

era pressoché inesistente, nel volgere di pochi anni vedrà lo spostamento di gran parte

dei suoi abitanti nelle città, dove si ritroveranno a vivere in un contesto sociale

completamente diverso con regole e abitudini diverse: dovranno far fronte ai problemi

della società industriale di massa, dovranno adeguarsi ai ritmi di lavoro della catena di

montaggio che scandiscono la vita delle persone lungo l’arco di tutto l’anno e per essere

precisi, lungo l’arco di tutta la vita; ma, allo stesso tempo, avranno a disposizione nuovi

beni e servizi che renderanno la vita delle famiglie molto più facile, avranno la

possibilità di spostarsi con maggiore facilità che in passato, saranno esposti a nuovi

stimoli culturali così come a nuove sollecitazioni e nuove modalità con cui spendere la

maggior quantità di denaro reso disponibile dal lavoro salariato e dalla crescita

economica impetuosa.

Il desiderio di riscatto dalle condizioni di miseria in cui versavano larghi strati

della popolazione si fece più che mai pressante con la fine della guerra e la caduta del

fascismo. Le speranze di cambiamento e rinnovamento sollevate dal nuovo assetto

29 Maione, Giuseppe, “Spesa pubblica o consumi privati?”, in Italia Contemporanea, numero 231, giugno 2003, pag. 189. 30 Col termine società affluente od opulenta ci riferiamo a quel tipo di società nata tra le due grandi guerre negli Stati Uniti, caratterizzata dalla diffusa disponibilità di prodotti di consumo industriali sempre più differenziati attraverso le marche e la creazione di nuove mode e stili. Essi sono disponibili in quantità sempre più abbondante anche per le classi meno abbienti, e dal loro acquisto e produzione dipendono in gran parte la crescita e lo sviluppo economico. Mi soffermerò più a lungo su queste tematiche nel terzo capitolo di questa tesi.

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politico fecero sperare in un mutamento della situazione d’oppressione, favorendo il

cambiamento nei rapporti di forza tra la classe lavoratrice (qui compresi i braccianti, gli

operai, i mezzadri, ecc.) ed il padronato. Lo Stato non poteva più disattendere le

richieste di una popolazione stremata da cinque anni di guerra e privazioni, per di più

esasperata dal protrarsi d’antichi riti, soprusi e sopraffazioni nei luoghi di lavoro che

non permettevano il miglioramento delle qualità della vita nemmeno in tempo di pace.

La modernità bussava alla porta degli italiani, ed essi non erano intenzionati a farla

aspettare fuori. Coloro che non scelsero la strada dell’emigrazione verso l’estero (ed

erano ancora in tanti a farlo, nemmeno la crescita economica verificatasi prima e

durante il miracolo riuscirà a fermare questa tendenza) dovettero fare i conti col

fallimento della riforma agraria, costatando amaramente che poco era cambiato rispetto

al passato. Anzi, in un certo senso si può benissimo dire, senza timore d’esagerare, che

lo stato di cose era rimasto pressoché invariato: alle sofferenze della vita quotidiana

s’aggiungeva la disillusione per una democrazia che per il demos faceva ben poco. E

non solo, a questi fattori si aggiunge l’avanzare sempre più incalzante della

meccanizzazione nelle campagne, che lascia senza lavoro intere famiglie di braccianti,

costringendole quindi a lasciare le loro tradizionali occupazioni e modi di vita.

La diffusione sempre più capillare dei mezzi di comunicazione di massa in ogni

caso portava agli occhi degli italiani la promessa di trovare altrove la possibilità di

costruirsi una vita nuova che gli era negata nel paesino natìo. Prima dell’avvento delle

trasmissioni televisive, elemento che giocherà un ruolo chiave nelle profonde

trasformazioni degli anni ’50 e ’60, il fotoromanzo sarà portatore d’importanti novità

proponendo nuovi modi di rapportarsi tra i sessi e non solo, arrivando anche nelle

borgate più sperdute dell’Italia contadina.31 Genere d’invenzione italiana, poi esportato

nel resto del mondo, il fotoromanzo conoscerà una larghissima diffusione negli anni del

dopoguerra, soprattutto tra il pubblico femminile. Spesso ingiustamente criticato con

l’accusa d’essere portatore di falsi valori e promesse, contrari alla morale cristiana per

alcuni, mezzo per la diffusione dell’americanizzazione delle masse per qualcun altro. E

se non viene criticato duramente, passa completamente inavvertito, snobbato dalle

pubblicazioni critiche dell’epoca. Il fotoromanzo fece vedere a tantissime donne, per la

prima volta, nuovi orizzonti di vita in cui poter indirizzare il loro futuro, facendole

31 Un’altra prova della popolarità che ebbe il fotoromanzo tra il pubblico femminile ce la fornisce la circolazione del fotoromanzo anche al di fuori dell’Italia, nelle zone interessate dall’emigrazione (perfino in quelle extra-europee), come la città di Resistencia, nella Repubblica Argentina, in cui le donne italiane leggevano e si scambiavano tra di loro intensamente “Grand Hotel” (Testimonianza fornita da Mariutte Zuttion in Driutti tramite suo nipote Artenio Driutti, padre dell’autore di questa tesi).

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capire che avevano il diritto di pensare con le loro teste, uscendo finalmente dai vecchi

ruoli che volevano una donna sottomessa entro le mura domestiche. “Nella trama di

estasi e formalismi che è la formula modernista-americaneggiante delle tre testate

classiche, passa un modello che nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta non è affatto

universalmente accettato, il matrimonio d’amore come valore cui devono inchinarsi

interessi familiari e convenienze sociali: non è la rivoluzione, ma è un passo verso il

cambiamento”32, e “Difficile non vedere in questa sintonia accusatoria anche una

questione di genere sessuale: si tratta di giornali destinati alle donne e letti in massa

dalle donne, che in Italia sono ancora considerate labili minorenni a vita”33 e finalmente

“(...) nelle campagne povere e poco alfabetizzate, leggere «Grand Hotel» significa

aspirare alla promozione culturale, all’autonomia, a qualche spicchio di modernità.”34

Non bisogna dimenticare che soltanto nel 1956 le donne saranno ammesse nelle Corti

d’assise e nei tribunali per i minorenni (e sollevando anche aspre polemiche da parte del

governo e degli interessi di ceto presenti all’interno del corpo dei magistrati), e

bisognerà attendere addirittura fino al 1968 perché la Corte costituzionale stabilisca che

l’adulterio da parte della donna non costituisce reato.

Possiamo senz’altro affermare che il mezzo che più di tutti portò le immagini

della tanto agognata modernità ed insieme ad esse la voglia di cambiamento in ogni

angolo d’Italia fu la televisione. Proprio la concretezza e la chiarezza delle immagini

che arrivavano nei bar (prima della comparsa in tutte le case degli apparecchi Tv negli

anni ‘70, la gente si radunava nei bar, nelle osterie, nei circoli per guardare le

trasmissioni) di tutta Italia portando esempi di nuovi stili di vita, di nuovi modi di

concepire i rapporti sociali, di concepire la sessualità, di consumare, di avere, insomma,

la prospettiva di una vita migliore lontano dall’ombra del campanile e dalla

sorveglianza di padroni e preti. La Rai comincia le trasmissioni nel gennaio del ’54,

subendo una stretta sorveglianza e censura da parte della Dc; infatti, sono i preti delle

piccole parrocchie nelle campagne, in stretto contatto con la popolazione, i primi a

rendersi conto della capacità di stravolgere la realtà sociale immobile delle campagne

insita in questo nuovo mezzo. Ai fini d’illustrare la capacità di sconvolgere gli assetti

sociali e l’immaginario delle campagne della tivù, riporto un brano tratto dalla Storia

del miracolo, che riporta un’intervista a un contadino comparsa in un programma

dedicato al modo in cui gli italiani guardano la televisione: “Poi ad un anziano

32 Bravo, Anna, Il fotoromanzo, Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 84. 33 Op. cit. Bravo, Il fotoromanzo, pag. 109. 34 Op. cit. Bravo, Il fotoromanzo, pag. 110.

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34

contadino viene chiesto qual è lo spettacolo più bello della televisione, e lui risponde,

un po’ in dialetto: «Il bacio, il bacio in pubblico... perché si vede che non è peccato, si

può fare...».”35 Pur essendo una tivù scevra di contenuti culturali di qualsiasi tipo, in cui

facevano piazza pulita il balletto del sabato sera e “lascia o raddoppia?”, dove non c’era

nemmeno il più piccolo spazio per le opposizioni (o una qualsivoglia critica all’operato

del governo) e in cui le prime tribune politiche compariranno soltanto quasi un decennio

dopo l’avvio delle trasmissioni (nel 1960), la sua importanza nell’innescare i primi

sommovimenti del mondo contadino è innegabile. C’è anche da segnalare che il

modello dominante presentato dalla tivù di quegli anni è quello di un mondo quasi

mitico di felicità, benessere e opulenza, uno spaccato miticizzato di un’Italia

democristiana e perbenista, una visione imbonitrice e fasulla della realtà italiana ai

tempi del miracolo. Dall’altra parte dello schermo si nascondono agli occhi della povera

gente le insidie della società moderna, proponendo soltanto un modello di società senza

incrinature, a cui tutti sarebbero in grado arrivare, trascurando allo stesso tempo di

presentare la dura realtà della vita nelle coree36 e del lavoro industriale, con cui gli

emigranti dovevano fare i conti quando arrivavano in città. Un altro elemento che aiuta

ad aumentare il potenziale di suggestione della tivù fu la comparsa, nel 1957 (e andrà in

onda fino al 1977), dei primi “spot” pubblicitari, all’interno della trasmissione

“Carosello”, che anche se venivano limitati al codino iniziale della trasmissione e non

avevano ancora quei connotati d’invasività tipici della pubblicità odierna, hanno giocato

un ruolo non marginale nella presentazione di nuovi prodotti e stili di vita.

Probabilmente, il fatto che la pubblicità fosse limitata solo alla parte iniziale della

trasmissione seguita poi da un cartone o una scenetta, ha fatto sì che l’impatto sui

telespettatori della propaganda commerciale venisse in qualche modo ammorbidito,

attenuando il primo approccio del pubblico italiano con la pubblicità. Questo tipo

format godette di molto successo nei primi anni della televisione, soprattutto tra i più

piccoli, segnando indici di ascolto da capogiro, in futuro diventati avidi consumatori

d’immagini televisive, dei prodotti in essa pubblicizzati e subiranno non poche

influenze dai modelli proposti dalla tivù. La comparsa di un determinato prodotto in una

pubblicità televisiva ne determina il successo; la sua bontà e la sua superiorità rispetto

agli altri prodotti sono confermate dalla sua comparsa sullo schermo televisivo. La

televisione diventa anche un mezzo efficace per presentare i nuovi prodotti della società

industriale (siano essi alimentari, mobili per l’arredamento, accessori ed apparecchi per

35 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo economico, pag. 101. 36 Così furono chiamate le periferie delle città cresciute a dismisura e disordinatamente, caratterizzate dalla mancanze dei più elementari servizi , dall’insalubrità e dal sovraffollamento.

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35

la casa, ecc.), sconosciuti agli occhi di una popolazione che fino ad allora era abituata ad

acquistare il minimo indispensabile. L’introduzione delle differenze di marca trova un

terreno più fertile in tivù che negli altri mezzi di comunicazione, e pur avendo una

diffusione ridotta nei primi anni, la capacità di fondere suoni ed immagini in un

messaggio pubblicitario sarà la carta vincente del nuovo mezzo (non a caso al giorno

d’oggi la tivù in pratica monopolizza il mercato degli introiti pubblicitari, raccogliendo

più pubblicità di tutti gli altri mezzi messi insieme). I nuovi arrivati nelle città e nella

società di massa venivano tempestati dagli svariati stimoli provenienti dalla pubblicità,37

con i nuovi prodotti che trovavano spazio in anch’essi nuovi modi di distribuzione dei

beni. Dagli Stati Uniti arrivarono i supermercati e con questi un modo completamente

nuovo di concepire gli acquisti. I consumatori entrano in contatto diretto con le merci

profusamente esposte lungo gli scaffali, viene meno la mediazione ed il senso di

distacco tra le merci e gli acquirenti provvista dal bottegaio e dal bancone del negozio

tradizionale. Si crea un rapporto vis-à-vis tra le merci e la persona, non è più un’altra

persona a mediare la scelta del prodotto, spetta solo all’individuo di decidere non solo

cosa comprare (dato presumibilmente noto in partenza), anche se non lo si può dare

sempre per scontato, le merci sono disposte all’interno del supermercato spesso in

maniera poco chiara e non sempre seguono un ordine logico. Ciò non è dovuto al caso o

a impiegati poco attenti alle regole dell’azienda, infatti, più tempo la gente è costretta a

districarsi tra gli scaffali in cerca di un determinato prodotto e più aumentano le

probabilità di essere stimolati e spinti ad acquistare cose che uno non s’immaginava

nemmeno quando era entrato dentro al supermercato. Qui entra in gioco soprattutto il

meccanismo della pubblicità, che indirettamente condiziona il subconscio

dell’acquirente: chi non ha sperimentato, entrando in un supermercato, al guardare un

determinato prodotto, di ricordarsi della sua pubblicità o di certi aspetti appariscenti

attinenti ad essa come il colore, la forma, un motto particolare abbinato al marchio, ecc.

L’esplosione di questo fenomeno si avrà con la comparsa, verso la fine degli anni ’70

delle emittenti private, in cui la totalità dei finanziamenti arriva dagli introiti

pubblicitari. La pubblicità si ritaglia così uno spazio maggiore nelle trasmissioni,

diventando il perno su cui si muove il mondo televisivo, sia pubblico che privato.

Parlando di questo periodo e dell’affermarsi di nuovi stili di consumo, Crainz sostiene:

“La corsa ai consumi assume di nuovo i ritmi degli anni sessanta: accentuando il valore 37 Presto venne sfruttata dalla pubblicità la memoria del tempo ciclico contadino per inserire in questa scansione temporale prodotti e comportamenti di consumo tipici della civiltà industriale, divenendo “simboli” delle scadenze religiose o mondane. Per elencare qualche esempio, basta vedere i nuovi comportamenti sociali e di consumo riguardanti le diversi occasione in cui diventa un obbligo fare dei regali, oppure l’elevazione a consumo nazionale di certi prodotti prima solo di zone determinate del territorio, come ad esempio il panettone.

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36

di status symbol di essi, dilatando il peso e il ruolo della «dimensione simbolica del

benessere, con i suoi idoli e le sue icone». (...). E’ un fenomeno accentuato dal peso

crescente dei messaggi pubblicitari e dai modelli che essi propongono: veicolo

importante di questo dilagare è il prepotente affermarsi – proprio in questo periodo –

delle televisioni commerciali.”38

Il ceto che più di tutti subì l’attrazione di questo nuovo mondo fu quello

giovanile; non c’era più ragione per cui continuare a soffrire la miseria e a sopportare

l’immobilità sociale subita dai loro antenati. I giovani sono uno dei ceti più dinamici e

più rappresentativi dei mutamenti in corso nella società italiana del miracolo. Per la

prima volta trovano uno spazio proprio nella società, si verifica sempre di meno il

passaggio diretto dall’infanzia all’età adulta caratteristico della civiltà contadina; i

giovani scoprono questa tappa intermedia grazie anche al prolungamento del tempo

trascorso a scuola39 che aiuta loro a scoprirsi come “gruppo” differenziato dagli altri.

Nascono nuovi spazi d’aggregazione dediti esclusivamente agli adolescenti, in cui le

differenze di ceto se non scompaiono, vengono in gran parte attutite dalla condivisione

delle stesse preferenze d’abbigliamento e gli stessi consumi culturali. La scelta di

determinati tipi di prodotti e stili aiutano la definizione di questa nuova comparsa nello

scenario della società italiana, che trovava ora la possibilità di definirsi e mostrarsi in

virtù dell’importante crescita demografica verificatasi nell’immediato dopoguerra (il

cosiddetto baby boom) e utilizzando i mezzi messi a loro disposizione dal mutato

assetto sociale (la vita nelle grandi città) ed economico (i nuovi beni messi a loro

disposizione dalla società industriale). Sarà su di loro che l’“americanizzazione” diverrà

più evidente: i flipper ed i juke-box non mancavano mai nei luoghi di ritrovo dei

giovani. Il cinema americano, il cui acquisto e diffusione a quote fisse venne imposto

alla fine della guerra, porterà molte novità che subito troveranno riscontro tra gli

adolescenti italiani; per citarne alcune: il rock and roll, i jeans, la diffusione del

38 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 592. Un’altra conferma dell’importanza acquisita dalle tivù commerciali ce la daranno le elezioni politiche del ’94. L’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, dopo la sua “scesa in campo” un anno prima, ottenne la vittoria guidando una coalizione di centro destra, facendo leva sulla sua estraneità ai misfatti della “Prima Repubblica”, proponendosi agli elettori come una istanza di rinnovamento dell’ormai logoro apparato di potere. Paradossalmente, fu proprio grazie alla struttura di potere di quella “Prima Repubblica” che Berlusconi riuscì a consolidare la posizione di dominio della sua azienda stabilendo, di fatto, la nascita del “duopolio”. 39 La scuola media unificata e obbligatoria fu introdotta nel 1962, cancellando finalmente la distinzione tra la scuola media inferiore e la scuola d’avviamento professionale. Una delle poche, se non l’unica pagina felice della stagione riformista dei primi anni Sessanta, la cui portata purtroppo venne azzoppata dal mancato avvio di una riforma del sistema scolastico nel suo complesso. Gli anni Cinquanta e Sessanta vedono un marcato aumento delle iscrizioni alle scuole medie superiori e all’università, e anche della durata complessiva della permanenza degli alunni nelle strutture scolastiche, pur caratterizzate da un elevato tasso d’abbandoni che colpivano prevalentemente gli allievi dei ceti bassi.

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37

consumo della gomma da masticare, e così tanti altri. Lentamente cominciano a

diffondersi anche nuovi metodi anti-concezionali che cambiano il modo in cui è

concepito il rapporto tra i sessi. Queste manifestazioni d’adesione a modelli e consumi

americaneggianti; il maggiore interesse per la ricerca di nuovi luoghi d’incontro e

divertimento fuori delle strutture tradizionali proposte dalle due subculture di massa

(cattolica e comunista) non ci deve indurre a stilare ipotesi affrettate sulla condizione

della “gioventù bruciata e qualunquista”, come venne chiamata da qualcuno, nel

classico tentativo di scaricare sui giovani colpe e mancanze degli adulti, dimenticando

che essi non sono un elemento estraneo alla società in cui vivono, bensì sono il riflesso

dei vizi e delle virtù di un determinato periodo storico. Proprio dai giovani nasceranno

le spinte che porteranno poi alla contestazione profonda e radicale del sistema, sia dai

giovani operai che non volevano più subire passivamente l’ostilità della fabbrica, sia

dagli studenti liceali e universitari che contestavano l’arretratezza e l’inadeguatezza del

sistema scolastico ad una realtà sociale profondamente cambiata. Non a caso le

contestazioni del ’68 e dell’Autunno caldo vedranno la partecipazione massiccia degli

studenti accanto agli operai, non solo con il loro coinvolgimento nei cortei e nelle

occupazioni, ma anche nel ruolo di promotori di nuove e originali forme di lotta e

d’incontro tra i movimenti.

Particolarità della società dei consumi nell’ambito del miracolo

economico

Diversamente da ciò che avvenne nelle società degli altri paesi industrializzati,

in particolar modo gli Stati Uniti, dove la nascita della società dei consumi avvenne

qualche decennio prima che nell’Europa Occidentale, in Italia c’è un intreccio

particolare tra l’esperienza di vivere in una grande città e subire il fascino e l’attrazione

dei nuovi consumi che coincide con l’occasione di milioni di persone di trovare

finalmente risposta alle esigenze di una migliore condizione di vita, intesa in tutti i

sensi. Vuol dire che la nascita della società dei consumi si produsse in un momento

storico in cui per la prima volta la popolazione intravedeva la possibilità di soddisfare i

più elementari bisogni insieme ai desideri di riscatto sociale e morale attesi da lungo

tempo. Volle dire non solo poter guadagnare di più, ma anche poter mangiare meglio,

poter vestirsi meglio, poter spostarsi liberamente, poter mettere su famiglia in un

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38

ambiente adeguato e ricevere adeguata assistenza sanitaria e istruzione. Queste esigenze

vennero però a cozzare da un lato con la dura realtà delle periferie industriali e del

lavoro in fabbrica, da un altro, con l’incapacità dello Stato centrale nel gestire i consumi

pubblici, più che mai necessari in un periodo di forte mobilità sociale che vedeva la

concentrazione di un numero sempre più elevato di persone nei tessuti urbani delle città,

col conseguente aumento dei compiti e le responsabilità di gestione della pubblica

amministrazione. Le più gravi mancanze dello Stato risiedono non tanto nel mancato

intervento o nella mancata disponibilità di finanziamenti, bensì nelle modalità scelte per

realizzare tali interventi. Una volta date queste premesse possiamo capire il perché di

certi orientamenti nei consumi degli italiani, come ad esempio nel caso della

motorizzazione di massa, prima con l’aumento del numero delle moto, e poi con

un’espansione fortissima del settore auto (che porterà in futuro a raggiungere il rapporto

più elevato di automobili per abitante al mondo, superando persino gli Stati Uniti).

Questa partiva dall’esigenza di maggiore mobilità delle persone (in particolare dei

giovani, ma non solo), da una parte, nelle zone rurali con lo scopo di raggiungere i

centri abitati più grandi nelle giornate libere, che fungono da punti di riferimento in cui

si può “cambiare aria”, trovarsi con altre persone della stessa fascia d’età, divertirsi,

spezzare l’immobilismo secolare delle campagne. Dall’altra, in città, il possesso di un

mezzo di trasporto privato serve a coprire i vuoti lasciati da un sistema di trasporto

pubblico inadeguato alle nuove dimensioni delle città ed ai bisogni della gente che deve

raggiungere il posto di lavoro e spostarsi da una parte all’altra della città. A questi

fattori possiamo anche aggiungere l’importanza che ha un mezzo di trasporto privato (in

particolare per quel che riguarda l’Italia dove gli investimenti nelle ferrovie furono – e

lo sono ancor oggi – notevolmente trascurati in favore di quelli per la costruzione del

sistema autostradale) per il godimento di una delle novità più importanti della società

opulenta: il tempo libero e le vacanze. L’industria del turismo di massa nasce proprio in

questo frangente, con l’aumento esponenziale delle presenze nelle strutture alberghiere40

e nei campeggi, nasce e s’impone su tutte le altre la moda delle vacanze al mare, ma

ogni occasione è buona per una scampagnata o una gita breve. Da essere un’esclusività

delle classi più agiate, il turismo e i viaggi diventano un’esperienza alla portata di quasi

tutti, e a questo concorrono non solo la riduzione dell’orario di lavoro con

l’introduzione della settimana corta e le vacanze; sono anche uno dei pochi modi a

disposizione per uscire dalla monotonia e la noia caratteristiche del lavoro in fabbrica o

40 Questo fenomeno alimenterà purtroppo l’espansione dell’abusivismo edilizio nelle località di villeggiature delle coste italiane, in particolar modo nelle regioni del Sud, dove si verificheranno gli scempi del paesaggio più clamorosi.

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39

in ufficio. Vi si possono ritrovare in questi due casi, la motorizzazione ed il turismo di

massa, le spinte che nascono dal desiderio di raggiungere uno status, una maggiore

visibilità sociale, accentuandola attraverso lo sfoggio di una certa vettura, nota per le

sue particolari qualità sportive; oppure facendo vedere agli amici le foto di una vacanza

in un luogo esotico. Tuttavia, un’analisi del genere non può essere applicata che ad una

piccola percentuale della popolazione. L’acquisto di un’autovettura utilitaria per la

maggior parte delle persone imponeva notevoli sforzi economici alle famiglie, e quelle

che sono in grado di permetterselo spesso sono costrette a ridimensionare le altre spese,

in qualche caso anche quelle alimentari (di per sé non elevatissime in questo periodo, in

cui per la prima volta è possibile disporre di proteine in quantità adeguate nella dieta di

ogni giorno). Ci sarebbe da chiedersi il perché di questo comportamento, perché

scegliere di privarsi di certi consumi basici pur di poter acquistare un bene durevole, il

cui costo pesa parecchio sul bilancio familiare? Possiamo ipotizzare diversi motivi: la

ricerca di status, il sopperire alle mancanze del trasporto pubblico per coprire le

necessità basiche di mobilità, la maggiore disponibilità di credito al consumo, le

conseguenze delle sollecitazioni pubblicitarie che trovano un terreno particolarmente

fertile in una popolazione che ha subito per lungo tempo privazioni d’ogni genere. Ci

sono due linee di pensiero principali che cercano di dare una spiegazione

dell’andamento dei consumi nel dopoguerra: la prima afferma che c’è stata una netta

predilezione per i consumi privati, anche di beni piuttosto costosi (“opulenti”) per il

reddito medio dell’epoca a scapito di consumi più essenziali; la seconda, invece, cerca

di confutare quest’ipotesi mettendo a risalto il fatto che comunque i consumi di beni

durevoli in Italia restavano inferiori alla media europea, e che l’entità dell’intervento

pubblico non era da trascurare: l’intervento pubblico, assieme a una politica di

tassazione che bersagliava pesantemente i consumi opulenti favorivano il risparmio (più

alti in Italia che negli altri paesi europei), fondamentali per permettere allo Stato

d’investire nella spesa pubblica e nelle aziende controllate attraverso i diversi enti.41

Crainz a sua volta, propone una mediazione fra queste due correnti, non confutando una

per favorirne un’altra, bensì le fonde cogliendo gli aspetti fondamentali messi in

evidenza dalle diverse teorie: “Proprio perché il punto di partenza era basso, quegli

indici hanno un significato rilevantissimo: la rapidità con cui nuovi consumi si

affermano insieme alla soddisfazione di antichi bisogni incide in profondità nella vita e

nell’immaginario collettivo del paese. E la «possibilità» di accedere ai nuovi consumi è

elemento altrettanto forte dell’accesso effettivo ad essi.”42 Ed è qui che entrano in gioco

41 E’ questa la tesi di Giuseppe Maione nel suo articolo Spesa pubblica o consumi privati?. 42 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo economico, pag. 134.

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40

tutte quelle dinamiche che fanno capo alle nuove pratiche di sollecitazione al consumo

tipiche delle società industriali di massa, puntando sulla creazione di nuovi bisogni

attuata dalla pubblicità favorisce la nascita del desiderio di consumare anche in quelle

persone che non hanno una disponibilità economica tale da permettere loro l’accesso ad

un determinato bene. E nel caso italiano, come ricorda Crainz, è anche molto importante

il peso dell’immaginario e della “carica ideale” intrinseca a certi prodotti (e insieme a

questi la capacità di raggiungere un livello di consumi più elevato). Non sarà marginale

il ruolo che queste spinte avranno nell’aumentare la capacità d’attrazione delle città

(nell’immaginario dell’epoca, il luogo per eccellenza in cui risiede la modernità e

l’emancipazione dalla miseria), facendo sì che la gente sopportasse privazioni e in molti

casi un lavoro non affatto soddisfacente perché convinta che ciò gli avrebbe permesso in

futuro di godere una qualità di vita migliore.

Indubbiamente il benessere possibile, prima ancora di quello reale, innesca

meccanismi rilevanti di consenso al sistema nel suo insieme e fonda un nuovo modello

di «nazionalizzazione» basato sulle «aspettative crescenti». Inoltre, nel momento in cui

si rompe un orizzonte basato rigidamente su bassi redditi e bassi consumi prende corpo

un elemento centrale, che ha comunque una carica liberatoria: la soggettività. Per questa

via, i consumi «diventano sempre più il prodotto di un modello culturale in senso forte:

di sistemazione dell’esperienza individuale e di orientamento delle sue scelte.43

In questa prospettiva s’inserisce l’analisi della società dei consumi fatta da

Baudrillard nel suo famoso saggio Il sistema degli oggetti, in cui sostiene che la

relazione tra persone e oggetti è mediata dalla presenza di un sistema di significati e

segni intrinseco alle merci (in analogia con la scienza semiotica). Questo concetto è

chiaramente sintetizzato da Sassatelli: “I consumatori non consumano insomma

specifici oggetti per rispondere a concreti e specifici bisogni, ma segni che sono parte di

un sistema «culturale» che «sostituisce un ordine sociale di valori e classificazioni a un

mondo contingente di bisogni e piaceri»”.44 L’universo di segni in relazione agli oggetti,

oltre ad essere presente nel vissuto personale, viene caricato di nuovi significati grazie

all’azione della pubblicità e dei nuovi modelli di vita da essa presentati.

La somma delle distorsioni nell’impiego dei soldi pubblici e l’inadeguatezza

delle istituzioni di fronte all’avanzare dirompente della nuova società, reticenti ad

43 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo economico, pagg. 134-5. 44 Sassatelli, Roberta, Consumo, cultura e società, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 110.

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41

affrontare qualsiasi tentativo di riforma e modernizzazione, aggravarono le mancanze

già piuttosto gravi sul terreno della spesa pubblica. Queste mancanze crebbero in

maniera esponenziale durante il miracolo economico, e riguardavano in particolare un

bene fondamentale qual è la casa. La presenza dello stato nel settore edile è pressoché

inesistente di fronte alla crescita della domanda che si registra con l’afflusso di un gran

numero di persone nelle città, per la prima volta in grado di possedere un immobile, e

senz’altro particolarmente bisognose di averlo considerando le dimensioni dell’esodo

dalle campagne. Si aggiungano a questo i piani regolatori inesistenti o nei casi in cui

esistevano, le amministrazioni erano pronte a sanare qualsiasi irregolarità: l’abusivismo

cresce e s’alimenta soprattutto dal bisogno di possedere una casa. Le mancanze dello

stato in questo caso si riveleranno particolarmente rovinose, poiché oltre a favorire

l’illegalità e la speculazione edilizia a danno degli acquirenti e dei comuni, contribuisce

all’arricchimento di pochi imprenditori poco attenti alla qualità dei fabbricati (nascono i

“palazzoni” e gli “alveari” delle periferie), al rispetto dei diritti dei lavoratori (l’edilizia

conosce da sempre tassi molto alti d’infortuni sul posto di lavoro) e non meno

importante, incentivò il deturpamento e l’inquinamento dell’ambiente. Col passare degli

anni, la pratica dell’abusivismo e della speculazione edilizia arriveranno ad interessare i

litorali e in genere quasi tutte le località di villeggiatura interessate dal turismo di

massa: nuovi alberghi, villaggi turistici, seconde case, tutti bocconi molto ghiotti per gli

imprenditori del mattone.

Infine, un’altra particolarità dell’affermarsi della società dei consumi in Italia lo

si può trovare nelle differenze tra quelle zone più dinamiche dal punto di vista

economico, ossia il Centro Nord, e il Sud, dove l’unico elemento di novità che si pensa

possa distribuire i frutti dello sviluppo economico consiste nella presenza di qualche

mega-impianto siderurgico o petrolchimico finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno.

Proprio l’estraneità di queste tipologie d’intervento statale rispetto alla situazione di

partenza dell’economia meridionale, votata prevalentemente all’agricoltura, farà sì che

le differenze, di per sé già molto consistenti, crescano ancora. Le differenze di reddito

col Settentrione, la persistenza di forme d’organizzazione agricole arretrate in cui la

maggior parte della forza lavoro era costituita da braccianti sottopagati, la mancanza di

un settore industriale capace di raccordarsi con le vocazioni economiche storiche del

territorio e la disoccupazione che ne consegue ostacoleranno l’avanzare di quella società

dei consumi, per certi versi già consolidata al Nord. Questo costituirà anche un altro

elemento che spingerà tante persone ad emigrare e alimenterà anche un diffuso senso

d’insoddisfazione e smarrimento. La tivù e le testimonianze di tante persone che se

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42

n’erano già andate portarono agli occhi dei meridionali la consapevolezza dell’esistenza

nel Paese di zone in cui il benessere non era più un miraggio, alimentando lo scontento

di ampi settori della popolazione. Una manifestazione di questi sentimenti di sconforto

la si può ritrovare nello scoppio della rivolta generale nella città di Reggio Calabria nel

1970, provocata dalla contesa con Cosenza per la scelta del capoluogo regionale, ma al

cui interno confluiscono tutte quelle situazioni di disagio presenti nel territorio: la

disoccupazione, la mancanza di prospettive per il futuro se non quella di prendere la via

del Nord, la diffusa criminalità, la presenza di una classe politica corrotta che si dà da

fare solo in vista delle scadenze elettorali, ma anche questioni prettamente localistiche

come la disputa per la scelta della sede universitaria regionale.

Il ruolo dei partiti

Volgendo lo sguardo sui due “mondi” che caratterizzano la scena politica

italiana in quegli anni, possiamo segnalare che, in modi diversi, entrambi erano

impreparati all’impatto col boom economico e le sue conseguenze. La sinistra

conservava ancora una chiave di lettura catastrofista dell’avvenire del capitalismo in

Italia e nel mondo, rifiutandosi di vedere i segnali di cambiamento e di progressivo

adattamento che esso mostrava da diversi anni e che l’avrebbero portato a crescere in

maniera ininterrotta fino al ‘73. Chiudendosi in questa visione, la sinistra non riuscì,

innanzitutto, a cogliere la portata dei mutamenti in corso nella società, non essendo in

grado di capire i desideri e le speranze dei propri elettori e/o iscritti. Col passare degli

anni, costretta com’era a stare in una posizione difensiva nei confronti dei partiti della

maggioranza, senza la prospettiva di arrivare a governare il Paese (ciò vale in particolar

modo per il Pci), non riuscì nemmeno a darsi un impianto programmatico capace di

proporre delle alternativa ai governi centristi, né a dare delle proposte soddisfacenti per

affrontare i problemi sempre più assillanti che si vennero a creare negli anni del

miracolo economico. Credo il maggiore sbaglio delle analisi prodotte dalla sinistra

d’allora sia stato quello di confondere molti dei desideri di riscatto e le richieste di

miglioramento della qualità della vita venute dalla gente con una cieca adesione allo

stile di vita americano. Ciò era vero per taluni atteggiamenti, come per esempio

l’acquisto di un’automobile, ma non si può dire la stessa cosa per altri consumi che

alleggerirono il carico di lavoro delle donne dentro le mura domestiche, alleviando e

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43

riducendo il tempo necessario per sbrigare le faccende quotidiane, aiutando la loro

emancipazione e permettendo loro di acquisire un ruolo più attivo nella società.

All’interno del dibattito interno del Pci, spesso le chiavi di lettura della nuova fase del

capitalismo sviluppatasi dopo gli accordi Bretton Woods del ’44, in particolare quelle

proposte dai membri della Scuola di Francoforte (molti dei quali emigrarono negli Stati

Uniti dopo la presa del potere da parte del partito nazionalsocialista in Germania), e mi

riferisco in particolare al consumismo, non vennero neppure prese in considerazione se

non da voci isolate, puntualmente taciute con le solite accuse di “qualunquismo”. La

stessa visione della centralità del partito nella vita politica fu la causa di quel distacco

dai movimenti avvenuto nel ’68, favorendo la nascita della sinistra extraparlamentare, in

cui confluirono gli elementi più politicizzati del movimento. Un altro elemento di

distacco del partito dalla nuova realtà politica in fermento lo diede la repressione attuata

con le truppe del Patto di Varsavia del movimento di rinnovazione del comunismo

prima in Ungheria e poi in Cecoslovacchia . L’iniziale scostamento da quella azione

repressiva e le voci di dissenso (tra l’altro molto deboli) non furono seguite da un vera

analisi critica della democrazia nei paesi del “socialismo realizzato” e dei rapporti tra il

Pci e il Pcus che rimasero in sostanza immutati. Fu il colpo di grazia inflitto

all’immagine e al mito dell’Unione Sovietica (di per sé incrinato dopo i fatti del ’56 in

Ungheria), non più visto come il paese guida nella lotta al capitalismo, baluardo della

rivoluzione, da parte dei giovani. Una conferma di ciò ce la dà il sostanziale crollo delle

iscrizioni alla federazione giovanile del partito, che scende ai minimi storici proprio nel

’68, pur essendo gli anni di maggiore coinvolgimento in politica dei giovani. Guardando

anche il numero degli iscritti al partito, si consolida sempre di più quello scarto tra

elettori e iscritti al partito: il numero di elettori rimane pressoché invariato e anzi,

subisce un leggero incremento di elezione in elezione (il numero di elettori del Pci

crescerà in continuazione fino al 1979) ma al contempo il numero degli iscritti cala

visibilmente. Viene a mancare quel legame stretto tra il partito e le sue strutture

periferiche che coinvolgevano e coordinavano l’attività del “popolo comunista”. Per

vedere una vera proposta politica per il cambiamento, all’altezza dei tempi, bisognerà

aspettare fino a metà anni ’70, quando Berlinguer (nel contesto dei governi d’unità

nazionale che per la prima volta videro il coinvolgimento dei comunisti, seppur limitato,

nell’azione di governo), constatando la gravità della crisi energetica e del modello di

sviluppo dei due decenni passati propone la politica dell’austerità. Le sue linee guida in

sostanza criticavano la diffusione del consumismo, il culto del denaro e la crescita

economica totalmente dipendente da fonti energetiche inquinanti, la cui importazione

era parecchio onerosa per lo Stato e quindi per i cittadini, soprattutto per coloro i quali

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44

avevano uno stipendio fissato da un contratto e dunque venivano penalizzati più degli

altri dalla crescita dell’inflazione. Purtroppo, anche in questo caso – così com’era

successo ai socialisti nel ’64 – la linea di evitare la rottura con la Dc, onde uscire

dall’isolamento storico a cui furono costretti per anni i comunisti, prevalse sulla volontà

di applicare l’austerità a tutto campo, colpendo anche quei settori economici privilegiati

i cui interessi venivano da sempre protetti dalla Dc. L’austerità così come veniva

effettivamente applicata faceva pagare i costi della crisi ai ceti bassi, chiedendo sacrifici

a coloro che li avevano sempre fatti, e oramai non più disposti a subire le conseguenze

dell’agire di una classe politica più interessata ad occupare poltrone piuttosto che a

interessarsi per i problemi del Paese. La perdita della sua identità, le contraddizioni di

una retorica che condannava i ministri e l’operato della Dc mentre in Parlamento si

scendeva a compromessi, in poche parole l’ingresso del Pci nelle logiche della

“democrazia dei partiti”, oltre ad essere responsabile del crollo del ’79, sancisce anche

la definitiva estraniazione di strati sempre più ampi della società civile dalla politica. Un

fatto che non può darsi per scontato dopo le ondate di partecipazione e mobilitazione

verificatesi dieci anni prima, arrivando ad un grado di politicizzazione della società tra i

più alti d’Europa.

Dall’altra parte, l’arroccamento del maggior partito di governo (la Dc) ed i suoi

alleati dentro posizioni ultra conservative, guidate da un anticomunismo viscerale, dalla

paura di perdere consensi tra il padronato e l’elettorato moderato, e dall’uso di fondi

pubblici per soli scopi clientelari hanno fatto sì che il governo disperdesse tempo e

risorse, trascurando di risolvere i più gravi problemi del Paese, siano questi vecchi

(come l’annosa questione meridionale e la riforma agraria) o nuovi (come la gestione

dei flussi migratori nei grandi agglomerati urbani, la lotta contro la criminalità

organizzata e l’abusivismo edilizio). Ci risulta molto utile, per spiegare l’atteggiamento

del governo nei confronti del problema dell’accoglienza dei flussi migratori nelle città,

questo esempio tratto sempre da Crainz: “Si può aggiungere che governo e prefetti

pongono una qualche attenzione alle migrazioni interne solo quando i risultati elettorali

sembrano indicare che la crescita delle sinistre nelle grandi città del nord è dovuta al

voto degli immigranti (oltre che a quello dei giovani).”45

La breve esperienza del centro sinistra nei primi anni ’60 porto con sé speranze

di riforme e miglioramenti dell’ordinamento giuridico, del sistema fiscale, ed il varo di

45 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo italiano, pag. 107.

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45

nuovi piani urbanistici (onde contrastare l’allarmante espansione dell’abusivismo su

tutta la penisola); in molti casi inadeguati alla mutuata condizione economica e sociale

del Paese, ed in molti altri casi carichi ancora del pesante fardello lasciato in eredità dal

ventennio fascista. Purtroppo tranne che per qualche successo parziale, l’impulso

riformatore del centro sinistra fu subito bloccato dall’ottusità dei settori più reazionari e

conservatori della Dc (ci fu persino un tentativo di colpo di Stato, il cosiddetto “piano

Solo” nell’estate del ’64, che diede il colpo di grazia alle speranze di cambiamento), e

anche se formalmente il Psi continuava a far parte del governo, avrà le mani legate fino

alla fine del decennio quando s’esaurirà definitivamente l’esperienza del centro sinistra.

Il post-miracolo (1963-1973)

Il periodo di spettacolare crescita economica (oltre il 6% annuo dal ’58) finisce

nell’estate del ’63; seguiranno due anni in cui ci troveremo in una fase di crisi

temporanea denominata “congiuntura”. Una crisi che nei suoi molteplici risvolti si

rivela essere più una crisi auto-prodotta dal sistema industriale e finanziario italiano

piuttosto che una vera crisi dovuta all’accumularsi di fattori recessivi interni od esterni.

E’ vero che nel ’63, dopo l’ondata rivendicativa protrattasi dal ’59, l’aumento dei salari

pareggia (e anche per un breve periodo, supera) l’aumento della produttività; ma ciò

non basta a motivare il sorgere di una crisi, in special modo quando questi aumenti si

verificano dopo anni e anni di crescita sostenuta da una politica di contenimento

salariale. Perché, dunque, parlo di una crisi auto-prodotta, o meglio, auto-indotta?

Partiamo innanzitutto dalla situazione politica interna. Dalla fine del ’62 all’estate del

’64 vengono discusse dal governo e dalle Camere le più importanti proposte di riforme

avanzate dal centro-sinistra: l’introduzione della tassazione dei redditi finanziari (la

“cedolare d’acconto”, introdotta nel dicembre del ’62, che mirava a colpire la diffusa e

sempre più preoccupante evasione fiscale), la proposta di legge per l’introduzione di

piani urbanistici (sempre della fine del ’62, puntava a disciplinare il settore edile, uno

dei più dinamici del miracolo che, tuttavia, s’era sviluppato al di fuori d’ogni regola e

rischiava d’intaccare gravemente intere aree del paese), e infine, la riforma scolastica

(ho già fatto cenno alle vicende riguardanti questa riforma nella nota 15). L’allarmismo

dei settori più conservatori sul rischio di sovietizzazione dell’economia italiana fu

sollevato anche un anno prima, dopo la nazionalizzazione della produzione e la

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46

distribuzione dell’energia elettrica; tra l’altro riuscita solo di facciata, visto che i due

colossi che controllavano il settore (la Montecatini e l’Edison) grazie alla pressione

esercitata sul Parlamento dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, e dal

nuovo Presidente della Repubblica, Segni, riuscirono a snaturare completamente la

nazionalizzazione. In poche parole, le aziende private si videro pagare gli indennizzi in

contanti, non in azioni dell’azienda di Stato, perciò subito dopo aver perso il monopolio

dell’energia ebbero a disposizione un’ingente quantità di capitali, prontamente investiti

nei settori della chimica e la siderurgia.46 Una situazione simile si verificò anche per le

altre riforme: le pressioni effettuate dalle frange più conservatori della maggioranza,

della Presidenza della Repubblica, della Confindustria (e della stampa legata ad essa)

insieme a quella del governatore della Banca d’Italia riuscirono a creare un argine che

bloccò, insabbiò o snaturò fino al punto di rendere vuote le proposte di legge più

innovative sorte dalle menti più innovative del centro sinistra. Nemmeno gli esponenti

di maggiore peso tra le fila del Psi fecero molto per tentare d’evitare l’insabbiamento

delle riforme, pur facendo formalmente parte del governo in carica. Preferirono

scongiurare l’ipotesi di una spaccatura totale con la Dc e di rimandare le riforme

rimanendo all’interno del governo, in attesa di una congiuntura economica più

favorevole (in linea con la politica “attendista” di Aldo Moro). L’incredibile passività

socialista può essere anche letta con un’altra chiave di lettura: il cedimento senza lotta

pur di mantenere intatti i rapporti con i democristiani fu anche motivato dalla minaccia

di una deriva autoritaria e anticostituzionale, sorta dall’insofferenza di certi settori del

Paese nei confronti di un governo troppo, secondo la visione di alcuni settori, troppo

spostato a sinistra. Una conferma di quest’ipotesi verrà data nel ’67 da un’inchiesta del

settimanale “L’Espresso”, in cui vengono finalmente alla luce le trame e gli obiettivi del

“Piano Solo” che vedrà il coinvolgimento, oltre ai vertici dell’arma dei carabinieri ed i

servizi segreti, anche parlamentari, ministri e lo stesso Aldo Moro. In questo clima

politico, matura la decisione degli industriali di sferrare un’offensiva contro i sindacati

per recuperare il terreno perduto nell’ultima contrattazione, rendendosi responsabili di

peggiorare la situazione economica. Frenando gli investimenti produttivi (il cosiddetto

46 Il disastro del Vajont (9 ottobre 1963) avvenne proprio nel momento in cui veniva effettuato il passaggio da privato a pubblico: i privati velocizzarono i lavori di costruzione della diga quando cominciarono a correre le prime voci sulla statalizzazione per aumentare il valore dell’azienda che stava per essere venduta allo Stato trascurando volutamente i rapporti che indicavano la pericolosità dell’opera. Purtroppo, l’Enel non diede ascolto alle voci d’allarme che provenivano da diverse fonti e che alla fine si rivelarono vere. Mi preme evidenziare, tra tutti gli aspetti sconvolgenti del disastro del Vajont, l’atteggiamento dell’allora capo del governo, citando Crainz (Il paese mancato, pag. 7): “Che sia un’Italia da rimuovere sembra pensarlo anche Giovanni Leone: come capo del governo accorre sui luoghi del disastro a promettere giustizia, come avvocato lavorerà al processo dalla parte degli imputati, non dei superstiti.”

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47

“sciopero degli investimenti”) proprio in un momento in cui la domanda interna

cresceva (aiutata in questo senso dagli aumenti salariali ottenuti con i nuovi contratti) si

favorì l’aumento dell’inflazione e del disavanzo della bilancia commerciale, nonché un

ulteriore rincaro del costo della vita e del deficit dei conti pubblici. La classe

imprenditoriale italiana preferì esportare gli enormi guadagni del periodo precedente

all’estero piuttosto che investirli nelle proprie fabbriche, motivando questa decisione

con l’aumento della pressione fiscale e dell’ingerenza dello Stato nella gestione dei

propri capitali. Un primo e blando tentativo di dare un sistema fiscale adatto ad uno

stato moderno, in un paese dove l’evasione fiscale e l’esportazioni di capitali sono la

regola, fa balzare dalla sedia l’establishment; non c’è da meravigliarsi se da lì a qualche

anno si vivrà una stagione di conflitti e tensioni senza paragoni in Europa. E non è finita

qui: l’offensiva padronale si scaglia anche contro gli operai più sindacalizzati e più

impegnati in politica, si moltiplicano, infatti, i licenziamenti arbitrari, che puntano solo

ad indebolire il sindacato o semplicemente ad abbassare la qualifica degli operai (che

magari da lì a qualche mese vengono riassunti, chiaramente partendo dalla categoria più

bassa e senza il riconoscimento di alcuna anzianità). Inoltre, la politica di

ristrutturazione aziendale avviata in quegli anni si basa esclusivamente sull’aumento dei

ritmi di lavoro nella catena (seguendo le stesse linee guida del periodo precedente),

provocando un aumento sensibile del numero degli infortuni sul posto di lavoro e la

crescente insoddisfazione di tantissimi lavoratori costretti ad un lavoro frenetico, che

oltre a provocare malattie fisiche e mentali, istupidisce le persone poiché non valorizza

in alcun modo le capacità e il percorso di studi dei lavoratori. Insomma: “sciopero degli

investimenti, ristrutturazione aziendale basata sull’intensificazione del lavoro, evasione

fiscale ed esportazione di capitali: se questa è la norma, come confermano molti studi,

c’è anche chi fa di peggio.”47

La sconfitta definitiva delle speranze di cambiamento dopo l’esile fiammata

riformista, fa ripiombare l’Italia nell’immobilismo, nel congelamento caratteristico dei

governi del “regime democristiano”48 (in cui rimanevano soltanto le spoglie di quel che

fu il centro sinistra), coinvolgendo sempre di più anche il suo alleato di governo nelle

47 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 38. 48 Ho trovato questo termine nell’articolo “Alle sue spalle l’agonia dell’Europa” di Donatella Di Cesare, comparso su il manifesto, pag. 14, del 31 dicembre 2004. Mi sembra adeguato a descrivere la situazione in cui si venne a trovare la Repubblica Italiana, governata ininterrottamente sin dal ’48 da innumerevoli governi di coalizione rimasti sempre sotto la guida dei democristiani. Questi governi furono spesso incapaci capaci d’innovare ed aggiornare il modo in cui gestivano il potere, ignorando i cambiamenti prodottisi in seno alla società italiana negli anni del miracolo economico, e allo stesso tempo, attuando politiche repressive nei confronti degli oppositori che sfioravano il limite della legalità.

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logiche di partito che esso s’era proposto di combattere entrando al governo:49

spartizione di uffici su basi arbitrarie, clientelismi, ecc. Saranno gli anni sprecati, del

tempo perso, che contribuiranno e non poco all’acuirsi delle richieste di cambiamento

portate avanti da quei settori maggiormente penalizzati che troveranno in seguito modo

di sfogarsi nel ’68 degli studenti e successivamente nell’Autunno caldo.

Mi interessa in modo particolare l’analisi della contestazione dal punto di vista

delle critiche sorte dalla constatazione del delinearsi sempre più evidente di uno dei

fenomeni da poco comparsi nella società italiana, mi riferisco cioè al consumismo.

Benché la rivolta studentesca sia nata dalla contestazione delle arretratezze del sistema

universitario – e più in generale dell’istruzione italiana nel suo complesso – col tempo il

movimento studentesco s’arricchisce coinvolgendo dentro di sé diverse stanze di

protesta. Sono gli anni in cui si crea un forte legame col mondo operaio, gruppi di

studenti marciano insieme agli operai nei cortei di protesta e nascono i primi gruppi di

coordinamento tra le diverse “anime” del movimento; vi giocano un ruolo fondamentale

i giovani, siano essi studenti universitari, medi od operai. In questo senso, le chiusure ed

il rifiuto di qualsiasi dialogo da parte delle autorità non fanno che aumentare la

politicizzazione e la voglia di partecipazione dei giovani, essi non si sentono più

rappresentati dai partiti né dalle associazioni collegate (mero prolungamento dei partiti

nelle università, cui unico ruolo è quello di fare da ponte di lancio per chi volesse far

carriera in politica). Fu così che si svilupparono nuove forme di lotta e di contestazione

non ortodosse: occupazioni di facoltà, volantinaggi nei teatri e cartelloni su cui

comparivano degli slogan che ironizzavano sulle istituzioni dell’ordine stabilito. Nelle

fabbriche si diffondono gli scioperi a scacchiera, i cortei dentro gli stabilimenti e le

occupazioni che comportano il blocco totale della produzione; tutte forme di lotta che

molte volte contrastavano con le indicazioni dei sindacati, questi, infatti, venivano

considerati troppo accomodanti nei confronti dell’establishment. La contestazione per la

prima volta coinvolse anche larghi settori del sindacato cattolico e delle Acli, che per la

prima volta seguono una linea nettamente contraria alla Dc, vista anche da loro come un

partito che reagisce soltanto quando deve bloccare in Parlamento le iniziative volte a

dare un nuovo assetto all’apparato statale. Un esempio di ciò lo possiamo trovare ancora

in Crainz: “Al «Natale consumistico» è contrapposto in molte città il «Natale dei

49 Nel gennaio del ’64 si verifica la scissione della sinistra del Psi che dà vita al Psiup (Partito socialista di unità proletaria), il resto di del partito si fonde col Psdi (Partito social democratico) forma il Psu (Partito socialista unificato). Crainz la descrive come “un’operazione di vertice, insomma, concepita in termini di puro schieramento (...)”, in Il paese mancato, pag. 67.

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49

poveri», spesso ad opera di gruppi cattolici: a Venezia come a Sassari, a Trento come a

Verona, a Milano come a Bologna (qui protestano anche gli scout).”50

E’ particolarmente interessante l’esplosione di questa contestazione nella società

italiana perché fondamentalmente i “giovani anticonformisti” degli anni Sessanta sono

la prima generazione nata e cresciuta col miracolo economico, nel contesto della società

del benessere, in cui una larga percentuale della popolazione può godere di un livello di

consumi mai visto prima, e può allo stesso tempo, permettersi di rimanere più a lungo

fuori dal mercato del lavoro. Coloro i quali teoricamente dovevano essere i più

mansueti, i più vogliosi d’entrar a far parte del sistema poiché non avevano subito le

penurie delle generazione passate sono tra i primi a ribellarsi, rivelando le storture e gli

inganni cui veniva sottoposta la gente in nome del benessere. Questo viene molto

chiaramente esplicitato da Crainz: “In questo quadro i giovani appaiono incerti e quasi

lacerati fra due poli: da un lato l’orizzonte mentale e le regole sempre meno accettabili

della società precedente, con i suoi vincoli e i suoi tabù, le sue gerarchie e le sue

ipocrisie; dall’altro, i nuovi modelli di un consumismo senza regole, lo scarso appeal di

un mondo segnato – nella sua norma, prima ancora che nei suoi versanti patologici – da

nuovi conformismi e disvalori.”51 A questa situazione interna si sommano anche le

vicende internazionali: in primis la contestazione al crescente coinvolgimento

americano in Vietnam ed in genere la contestazione dell’“equilibrio del terrore” che

minacciava d’annientare l’umanità intera, le suggestioni venute dalla rivoluzione cinese

e dal tentativo di espandere la rivoluzione nell’America del Sud compiuto da Ernesto

“Che” Guevara che portarono agli occhi dell’opinione pubblica dei paesi del primo

mondo l’attualità dei problemi di quel lontano Terzo mondo, rimasto fino allora

nell’oblio.

La richiesta di rinnovamento delle istituzioni scolastiche e di nuovi diritti per la

collettività si unisce con lo scontento provato nei confronti della società ed i suoi valori,

in particolare, quello del lavoro e del voler guadagnare sempre di più. I giovani si

chiedevano allora se ne valeva veramente la pena di finire a fare un lavoro faticoso e

che non richiedeva alcun impegno intellettuale, il più delle volte senza nemmeno sapere

che cose si stesse facendo. L’aumento della produttività ottenuto dal ’63 in poi fu

dovuto principalmente alla messa in pratica di nuove misure di stampo tayloristico

mirate a razionalizzare ed ottimizzare le azioni svolte da ogni persona nella catena,

50 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 279. 51 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 198.

Page 50: Tesi - Bozza Finale

50

chiaramente aumentando la fatica del lavoro. Non si può certo dire che fosse un

problema soltanto attinente alla classe operaia, la situazione di molti dei “colletti

bianchi” era simile, senz’altro non avevano a che fare con una catena di montaggio

sporca ed insalubre, tuttavia, le direttive mirate ad aumentare l’efficienza degli

impiegati facevano sì che lo stress sofferto da queste categorie di lavoratori aumentasse,

così come i carichi di lavoro da svolgere in ufficio.52 Certo chi svolgeva mansioni più

pericolose, in cui i rischi per la salute erano maggiori, era ricompensato da un salario

più elevato; è qui che vediamo l’ondata di cambiamento insita nei movimenti del ’68,

non s’è più disposti ad accettare la monetizzazione della salute, sorge la richiesta

puntuale e precisa del diritto a lavorare in un ambiente sano. Il lavoro finalmente

acquisisce quel valore di diritto fondamentale d’ogni persona, base della costituzione

della Repubblica Italiana; il movimento sessantottino agevola la generalizzazione di

questo concetto e della consapevolezza che bisogna lottare per ottenerlo, lasciandosi

definitivamente alle spalle la concezione del lavoro come favore concesso

dall’industriale al proletario (la pratica di andare dal prete perché lui desse conferma al

padrone per cui si voleva lavorare dell’“integrità morale” di una persona, ovvero di non

essere sindacalisti né d’avere simpatie socialcomuniste, si protrasse fino agli anni

Sessanta).

La crisi del ‘73

La crisi energetica di fine 1973 arriva in un momento particolarmente delicato

per le istituzioni e l’insieme della società italiana. L’avvio della “strategia della

tensione” con la strage di Piazza Fontana nel dicembre 1969, col chiaro intento di

spostare l’opinione pubblica a destra proprio nel periodo in cui le agitazioni operaie si

estendevano a macchia d’olio in tutto il Paese, farà piombare l’Italia nell’incubo degli

“anni di piombo”. Anche in questo caso, la gestione poco chiara delle indagini,

volutamente di parte e spesso in collusione con gruppi eversivi di stampo neo-fascista

effettuata dalla magistratura, che cercò di scaricare le colpe su un gruppo d’anarchici,

52 Nel romanzo La vita agra di Luciano Bianciardi, si raccontano le vicende di un laureato in lingue di Grossetto che si trasferisce a Milano in cerca di lavoro, lasciandosi dietro la moglie e il figlioletto. Il romanzo descrive le difficoltà incontrate dal protagonista nel far quadrare i conti ogni mese, nel rispettare le scadenze al lavoro e anche nel gestire il rapporto con la sua amante. E’, a mio parere, un’ analisi interessante delle difficoltà nel vivere in una grande città, con cui dovevano fare i conti anche quegli emigranti in qualche modo “privilegiati”, inseriti tra i colletti bianchi ma che ugualmente erano costretti a patire ritmi di lavoro snervanti.

Page 51: Tesi - Bozza Finale

51

con lo scopo di far sorgere nell’opinione pubblica la convinzione dell’esistenza di un

legame tra l’inasprimento dei conflitti sociali degli ultimi anni e la strage.

Successivamente, nuove indagini riveleranno la falsità delle accuse rivolte agli

anarchici, mettendo in chiara luce le responsabilità della magistratura nell’ideazione di

una messinscena destina a colpevolizzare gli anarchici, e con essi, tutto il movimento di

contestazione. Ma la strage di Piazza Fontana non fu che l’inizio di un’offensiva

neofascista destinata a colpire sindacalisti, militanti di sinistra, sedi di partito, luoghi

pubblici, manifestazioni, treni, col chiaro obiettivo d’installare un governo autoritario,

in grado di contrastare “efficacemente” l’offensiva della classe operaia e degli studenti.

Il fatto che rende ancora più grave la situazione, e che segnerà indelebilmente la storia

italiana futura, viene dall’atteggiamento delle istituzioni nei confronti di questa

offensiva terroristica. Non pochi furono i tentativi da parte di alti rappresentanti delle

istituzioni e dei servizi segreti di depistare, insabbiare o rallentare le indagini per non far

emergere le responsabilità di certi gruppi neo-squadristi negli attentati dinamitardi.

Oltre a ciò possiamo evidenziare la prassi naturale di cercare le colpe tra i manifestanti

ed i militanti di sinistra, tipica di certi settori della magistratura formatasi nel Ventennio

e di chiaro stampo conservatore, principali responsabili dei gravi ritardi e delle falle

nelle indagini. Questo quadro politico non fa che consolidare nell’opinione di gran parte

della stampa e di quella “nuova borghesia” arricchitasi col boom economico, la

convinzione che l’ondata di protesta si fosse prolungata troppo a lungo, e che certi

gruppi legati alla contestazione fossero i responsabili della recente ondata di terrore. Per

questo nuovo ceto medio, che Crainz descrive come “portatori di una «laicizzazione»

consumistica, intrisi di modelli acquisitivi individuali, alla ricerca di nuove forme di

prestigio coniugate al benessere. Aperti, certo, alla modernità: ma una modernità priva

di valori, intrecciata spesso alla rincorsa di nuovi privilegi, di nuove forme di «difesa

dallo Stato», o di «rifiuto dello Stato» (...).”53 In questo contesto di scontro e di

crescente ostilità nei confronti del movimento, matura in quelle frange più estremistiche

l’idea della lotta armata, che la crisi del ’73 farà esplodere portando gli scontri a livelli

paurosi. Dopo parecchi anni di lotta, cortei e scioperi – che certo portarono novità

legislative (si pensi al varo dello statuto dei lavoratori) e miglioramenti salariali – ma il

tutto sempre rimanendo dentro il medesimo schema di società capitalistica e

percorrendo sempre le stesse vie per raggiungere lo sviluppo economico; e vedendo

spesso la complicità delle istituzioni nelle trame eversive, perciò in molti videro la lotta

53 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 381.

Page 52: Tesi - Bozza Finale

52

armata come l’unica alternativa rimastagli a disposizione per riuscire a raggiungere

quegli obiettivi per cui molte persone avevano tanto combattuto.

L’arrivo della crisi energetica provocherà anche un grande contraccolpo a

livello dell’immaginario collettivo: all’epoca la si vide come la fine di un’epoca piena di

speranze e fiducia riposte nel futuro, che in parte aveva motivato così tante persone a

scendere in piazza qualche anno prima, ma che ora di fronte all’evidenza della crisi e

delle mancate riforme, gettava un velo di sfiducia in grado di arrestare molti di quei

fermenti presenti nel ’68 e nell’Autunno caldo. Le pur importanti riforme portate avanti

dagli ultimi bagliori riformisti del centro sinistra – attuazione delle regioni e dell’istituto

del referendum, l’introduzione del divorzio, la legge sulla casa, lo Statuto dei lavoratori

e la legalizzazione dell’obiezione di coscienza54– difficilmente immaginabili senza la

pressione ed il continuo spronare dei movimenti, subirono però, come dieci anni prima,

continui tentativi d’insabbiamento, emendamenti per rallentare il percorso delle leggi

nelle Camere che alla fine portarono al progressivo svuotamento e sfibramento delle

riforme.55 La sconfitta di questo nuovo tentativo di governare lo sviluppo significò non

solo il definitivo abbandono della formula del centro sinistra, ma anche del diffondersi

di un più generale distacco dalle istituzioni e dall’apparato di governo, i cui vizi a danno

della collettività aumentavano d’anno in anno, mantenendo il consenso attraverso la

concessione di privilegi quei ceti e gruppi, vecchi e nuovi, che si arricchirono durante il

miracolo approfittando della mancanza di controlli, spesso inserendosi nelle logiche

clientelari facenti capo ai partiti di governo. L’arenamento delle riforme fu anche un

duro colpo per i sindacati, che avevano puntato forte su di esse e poi finirono per

trovarsi con le mani vuote, o meglio, con le tasche vuote, vista l’impennata

dell’inflazione provocata in parte dagli aumenti salariali (dopo quasi un decennio di

restrizioni salariali). Tuttavia, gli aumenti salariali non furono accompagnati da una

politica antinflazionistica efficace, quindi tutto quel che venne guadagnato con gli

aumenti salariali finì per essere rosicchiato dall’inflazione. L’inefficacia dell’operato del

governo non fu solo casuale, l’aumento dell’inflazione, infatti, permise al governo

d’indebolire ancora una volta la posizione di lavoratori e sindacati, colpevolizzati dal

governo e da una parte della stampa d’essere i responsabili dell’impennata

54 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 419. 55 Un esempio ce lo fornisce l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1971, importante sì per tutelare i lavoratori dipendenti dei grandi complessi industriali, ma inapplicabile in quelle piccole e medie imprese che da lì a poco diverranno gli attori principali dell’industria italiana, icone per eccellenze del modello “Nord Est” (in contrapposizione al modello della grande fabbrica tipico del triangolo industriale), che in parte deve il suo successo alla sua estraneità da quei vincoli posti alle imprese dallo Statuto.

Page 53: Tesi - Bozza Finale

53

inflazionistica. Quando nel dicembre del ’73 l’aumento del prezzo del greggio e

l’aumento dell’inflazione che ne seguì si fecero sentire in Italia al governo c’era già la

nuova maggioranza di centro destra capeggiata da Giulio Andreotti. Questa

maggioranza decide di cambiare rotta, applicando una politica inflazionistica che

prevedeva l’aumento del debito pubblico (che in gran parte finì per finanziare gli

investimenti pubblici nelle aziende “decotte” e l’allargamento della rete clientelare) e

nell’estate del ’73 la svalutazione della lira. Difficile trovare una combinazione

peggiore per le tasche dei lavoratori dipendenti, che oltre a vedere decurtato il proprio

potere d’acquisto subiscono anche la beffa delle misure restrittive varate da un governo

tutt’altro che votato al risparmio.

Echi nella letteratura, nella musica e nel cinema

Seguendo la metodologia di lavoro usata da Crainz, nella Storia del miracolo e

ne Il paese mancato, introdurrò qualche spunto di riflessione su questo periodo storico

sorto dal lavoro di scrittori, registi e musicisti dell’epoca e anche più recenti. Nella

storia contemporanea – in special modo dal dopoguerra in poi, in cui il ruolo dei mezzi

di comunicazione di massa e della cultura ormai anch’essa massificata è diventato via

via sempre più importante – l’analisi della produzione culturale può risultare molto utile

alla comprensione degli umori delle persone e dei riflessi che gli eventi storici ebbero

sulla collettività. In primo luogo perché spesso gli artisti si sono avvalsi degli eventi

storici e politici usandoli come spunti di riflessione, ma non solo. La scuola

cinematografica neorealista, nata in Italia nel dopoguerra, basa le proprie realizzazioni

sull’analisi della società nel suo complesso, cogliendone gli aspetti più profondi da cui

nascono le storie che vengono raccontate e proposte al pubblico attraverso i film. Lo

stesso si può dire dei riflessi che questa ebbe sulla produzione letteraria, il vissuto e le

sofferenze quotidiane, sono la materia su cui poi viene innestato il testo letterario. La

mia intenzione non è quella di presentare un quadro complessivo ed esaustivo di tutta la

produzione culturale che in qualche modo ha a che fare con le tematiche di questa tesi,

mi limiterò ad analizzare un numero limitato di opere che ho considerato

rappresentassero con efficacia certe caratteristiche della nuova società che ebbe origine

col miracolo economico e, allo stesso modo, i connotati di quella società che l’Italia si

lasciò alle spalle. Mi rifaccio a Barraclough in questo caso, che afferma “Ma sarebbe

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54

anche sorprendente se gli umori della letteratura e delle altre forme di espressione

umana non fossero alterati dal nuovo ordine sociale prodotto dalla nuova civiltà

tecnologica.”56

Il mio primo sguardo si volge verso la letteratura: si potrebbero citare tanti

esempi, vista la prolificità e la ricchezza di spunti di riflessione provenienti dalla

produzione letteraria italiana contemporanea, anche limitando la trattazione al secondo

dopoguerra. Ho preso in considerazione due brani tratti da due opere diverse di Italo

Calvino. Il primo s’intitola Marcovaldo al supermarket, è una delle tante novelle che

compongono la raccolta Marcovaldo – Ovvero le stagioni in città,57 scritta nel decennio

che va dal 1952 al 1963 (e pubblicata in questo stesso anno), quindi è una valida

testimonianza (anche se romanzata e non situata in nessuna città in particolare) dei

cambiamenti profondi e delle novità che in quel momento stavano cambiando l’Italia.

Le novelle sono suddivise seguendo l’ordine delle stagioni naturali e la sua ciclicità, in

evidente contrasto col trascorrere del tempo caratteristico delle civiltà urbana, lineare e

monotono. Marcovaldo, che di mestiere fa il manovale in una ditta non precisata, è un

elemento estraneo all’ambiente urbano, infatti, le uniche cose che riescono ad attirare la

sua attenzione sono quei piccoli segni e indizi forniti dalla natura visibili in città, che

stanno ad indicare il passaggio di una stagione all’altra. Non riesce ad inserirsi né tanto

meno a comprendere i ritmi esasperati, i comportamenti e le regole del contesto sociale

in cui si trova. Nella novella in questione, Marcovaldo e la sua famiglia vanno a spasso

in città quando la folla dedita a fare spesa la sera attira la loro attenzione; in effetti, il

loro divertimento consiste nel vedere gli altri fare spese. Decidono di entrare in un

supermercato per cercare di vivere l’esperienza di fare acquisti in uno di quei nuovi

negozi self-service. Ma, poiché sono squattrinati (l’affitto ed i debiti si portano via tutto

lo stipendio), Marcovaldo ed i suoi sono costretti ad aggirarsi per il supermercato coi

carrelli senza poter caricarli; il supermercato diventa quasi una specie di museo, in cui si

può solo guardare ma non si può toccare. Ad un certo punto, però, la tentazione diventa

troppo forte e, credendo di non essere notato dagli altri membri della famiglia,

Marcovaldo comincia a riempire il suo carrello imitando le altre persone, promettendosi

di rimettere tutto sugli scaffali dopo aver fatto un giretto col carrello pieno. Non

s’accorge, però, che il resto della famiglia ha deciso di fare la stessa cosa, e tutt’a un

tratto, si ritrovano tutti coi carrelli pieni di una spesa che non possono pagare. Cercano

56 Barraclough, Geoffrey, Guida alla storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2002, 7a ed., pagg. 241-2. 57 Calvino, Italo, Marcovaldo, Milano, Garzanti, 1990, pag. 103.

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55

di rimettere i prodotti sugli scaffali frettolosamente, tuttavia, continuano a riempire i

carrelli man mano che li svuotano, e vanno avanti così fino a quando sentono l’annuncio

che ricorda tutti l’avvicinarsi dell’orario di chiusura. La vicenda si chiude con l’uscita

fortunosa di tutta la famiglia attraverso una parete aperta da un cantiere che sta portando

avanti i lavori di ampliamento del negozio. Questa breve novella ci presenta, seppur in

forma tragicomica, alcune delle caratteristiche del miracolo: in primis, la comparsa di

un nuovo tipo di negozio, caratterizzato da una maggiore dimensione in cui la

profusione e l’attrazione delle merci viene aumentata ad hoc; e dal nuovo ruolo che

l’acquirente vi gioca. Inoltre, la figura del manovale Marcovaldo raffigura in qualche

modo la persona emigrata in città ed il suo confrontarsi con la nuova realtà cittadina; in

questa novella in particolare viene evidenziata la dicotomia tra il tempo di produzione e

quello di consumo, con le sue suggestioni che coinvolgono anche una famiglia non in

grado di partecipare “attivamente” alla festa del consumo che ha luogo in città ogni

sera. Se prendiamo in considerazione le altre novelle presenti nella raccolta, riusciamo a

ritrovare altri aspetti che hanno a che fare con il miracolo, partendo dal lavoro faticoso,

monotono e mal retribuito, la vita in una soffitta con poco spazio per una famiglia

numerosa, le differenze sociali stridenti, per finire con il fantasticare la campagna e gli

spazi verdi (forse Marcovaldo l’ha conosciuta da piccolo, forse non l’ha mai vista;

Calvino non lo esplicita mai) in una città stretta nella morsa dell’abusivismo.

Il secondo brano che ho scelto di prendere in considerazione s’intitola Le città

continue, una delle tante città descritte all’interno del romanzo Le città invisibili.58 Il

romanzo si basa sulla figura del viaggiatore veneziano Marco Polo, incaricato

dall’imperatore dei tartari, Kublai Kan, di viaggiare in lungo e in largo per il territorio

imperiale a lui ignoto, riportandogli una precisa descrizione delle città e dei luoghi

incontrati nel viaggio. I luoghi e le vicende descritti nel romanzo sono fantastici, non

esiste un riferimento preciso ad alcuna città in particolare. In ogni caso, ne Le città

continue, pur non chiamando causa nessuna città, possiamo ritrovare i connotati di

alcuni tra gli aspetti più negativi di una qualunque città moderna, ovvero il problema

dell’immondizia. Qui ci viene descritta la città di Leonia, in cui l’opulenza ed il

benessere goduti dai suoi abitanti contrasta con le immense quantità di rifiuti da essa

prodotti, ogni giorno ammassati sulle strade aspettando di essere portati fuori città. Ciò

non costituirebbe un problema, se non fosse perché la città cresce sempre di più ogni

anno, espandendosi verso quelle zone in cui prima venivano portati i rifiuti, cui

58 Calvino, Italo, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, pag. 119.

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56

smaltimento diventa anch’esso più problematico col passare degli anni perché in città

“l’arte” di creare nuovi materiali non conosce soste, di conseguenza anche i rifiuti sono

più resistenti. L’altro serio problema che dev’essere affrontato a Leonia è quello della

concorrenza: ci sono anche altre città che producono fiumi di spazzatura, queste città si

contendono gli immondezzai dove poter scaricare i propri rifiuti. Nelle zone di confine

si creano montagne di spazzatura, la cui altezza cresce minacciando di franare su

Leonia, ricoprendola completamente coi suoi rifiuti, spianando così nuovi terreni sui

quali le altre città, senza perdere tempo, si espanderanno. Non si può fare a meno di

non vedere in questo racconto un chiaro legame con la situazione che s’è venuta a

creare in molte città italiane, ma, in genere anche nelle città di tutti i paesi

industrializzati: la gestione dell’immensa massa di rifiuti prodotti nelle città e nelle

fabbriche che aumenta d’anno in anno e diventa sempre più difficile da smaltire. In

pratica, ogni cosa che acquistiamo, piccola o grande, è confezionata utilizzando grandi

quantità di cellofan, cartone, plastica, ecc., e se a questo aggiungiamo anche i rifiuti

prodotti nei passaggi intermedi della produzione, il tutto sommato alla grande varietà di

materiali presenti al giorno d’oggi sugli scaffali di tutti i negozi, il problema dello

smaltimento (e anche della bonifica di quei rifiuti industriali troppo pericolosi perché

siano processati direttamente) diventa di prim’ordine. In questo racconto breve abbiamo

anche un ammonimento, non basta allontanare l’immondizia dagli occhi, nascondendola

sotto terra oppure cercando di bruciarla. Prima o poi le cose che abbiamo gettato

torneranno e saranno la nostra rovina. E’ chi può negare l’analogia con la situazione

attuale,59 con le discariche piene fino all’orlo e senza più posti dove aprirne di nuove,

montagne di rifiuti tossici smaltiti abusivamente dalle “ecomafie”, scorie nucleari in

attesa di trovare un luogo sicuro in cui poter riposare per qualche migliaio di anni

cosicché non possano presentare più un pericolo per l’ambiente e così via; non voglio

andare oltre perché per fare un elenco di tutte le situazioni problematiche provocate dai

rifiuti della nostra società dei consumi ci vorrebbe più di una tesi.

Per quel che riguarda la produzione cinematografica, un film che rappresenta in

maniera inequivocabile e anche tragicomica le vicende di un operaio trapiantato dalla

Sicilia a Torino è Mimì metallurgico ferito nell’onore del 1972 in cui vengono proposte

59 Per un approfondimento di questi argomenti vedere il sito www.report.rai.it, nella sezione ambiente è possibile trovare la trascrizione delle puntate del 01/03/01 e del 06/05/04, in cui viene riportata un’inchiesta sulla situazione delle scorie nucleari e delle centrali nucleari dismesse. Sull’emergenza rifiuti nel Mezzogiorno nell’estate del 2004 vedere l’articolo: http://www.repubblica.it/2004/c/sezioni/cronaca/rifiutcas/nonpart/nonpart.html. Ma gli esempi che si potrebbero citare sono tanti, l’“emergenza rifiuti” si ripete quasi ogni anno in Campania ed in altre regioni del Sud d’Italia.

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57

tutte le difficoltà dell’adattamento alla nuova realtà e alla durezza del lavoro in fabbrica.

Costretto a lasciare la sua vita e la sua moglie a Catania per via delle sue simpatie

politiche che gli costano il posto di lavoro, grazie ad un’associazione di immigrati

siciliani riesce a trovarne uno nuovo a Torino, che poi però si rivelerà per essere una

mera facciata per coprire le attività illecite di un gruppo mafioso. In questa vicenda

s’intreccia anche la relazione amorosa del protagonista con una ragazza conosciuta a

Torino, con cui ha anche un figlio. Tornato di nuovo in Sicilia con la sua nuova

compagna, si mette al servizio della mafia grazie ai suoi agganci conosciuti in seno

all’associazione siciliana a Torino, ma scopre anche che la moglie ha una relazione con

un finanziere. La vicenda si complica ancora quando Mimì mette incinta la moglie del

finanziere per gelosia, e quindi i sicari della mafia uccidono il finanziere temendo

rappresaglie nei confronti del suo assassino, che è appunto Mimì. A questo punto, Fiore

(l’amante del protagonista) non vede con buoni occhi il voltagabbana ideologico e

decide d’abbandonare Mimì. Il film racconta molto efficacemente le vicende e le

problematiche che affliggevano l’emigrazione meridionale nelle città del Nord, ma

anche mette a luce i problemi degli operai politicizzati, colpiti da licenziamenti arbitrari

e costretti a dover emigrare per trovare una nuova occupazione.

Nell’ambito della musica prenderò in considerazione due canzoni del gruppo

“Modena City Ramblers”: Quarant’anni60 e Giro di vite.61 La prima canzone si riferisce

appunto ai primi quarant’anni di vita della Repubblica Italiana, denunciandone le

storture, puntando il dito soprattutto sulla cultura clientelare spesso intrecciata coi

gruppi malavitosi e con la pressante minaccia di una deriva autoritaria, tutti mali già

presenti nel ’64 (anno del “piano Solo”) e che col progressivo aumento della tensione

sociale sarebbero peggiorati, sfociando nella strategia della tensione da una parte;

nell’esplosione del debito pubblico ed il sempre maggiore distacco della classe politica

dalla società civile: “Ho quarant’anni spesi male fra tangenti e corruzione/ ho comprato

ministri, faccendieri, giornalisti [...]/ Ho quarant’anni ed un passato non troppo

edificante/ ho massacrato Borsellino e tutti gli altri [...]/ Ma ho scoperto l’altro giorno,

guardandomi allo specchio/ di essere ridotta ad uno straccio/ questo male irreversibile

che mi ha tutta divorata/ è un male da garofano e da scudo crociato”. Il riferimento al

regime partitocratrico e alle sue pratiche di governo è più che evidente, e anche se la

60 Terza traccia dell’album Riportando Tutto A Casa (1994). 61 Settima traccia dell’album La Grande Famiglia (1996).

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degenerazione totale della politica verificatasi nel corso degli anni ’80 col craxismo62 e

ed il pentapartito va oltre il periodo analizzato in questa tesi, sono tutti fenomeni le cui

radici si possono ritrovare nel profondo degli anni ’50, ma anche prima visto che i primi

casi d’uso clientelare di soldi pubblici ci riportano indietro al 1948.

La seconda canzone che ho scelto si riferisce più in particolare alla

composizione di quel “blocco sociale”,63 base di consenso del craxismo, anch’esso

figlio delle problematiche irrisolte nei decenni precedenti nel periodo dello sviluppo

non-governato, caratterizzato da un individualismo e da una voglia di arricchirsi a

dispetto d’ogni regola e soprattutto a dispetto della collettività:

E’ cominciato in silenzio nella Milano da bere

tra i padri di famiglia coi loro BOT e le loro Mercedes

timorati di Dio e delle tasse, elettori di Craxi e dei suoi

spaventati di perdere tutto se qualcuno li avessi sorpresi

-

E’ continuato a Pontida in un grido di rabbia e paura

di geometri con lo spadone, e dentisti con l’armatura

decisi a difendere il Patrol e la villetta sulla tangenziale

le nigeriane sui viali e la loro evasione fiscale

In seno a questo blocco sociale si formeranno nel corso degli anni ’80 quei

gruppi che rivendicano la particolarità storica, politica e culturale del Settentrione, quali

la Liga Veneta e la Lega Lombarda che confluiranno nella Lega Nord, criticando la

corruzione e gli sprechi di denaro pubblico del governo, chiedendo in qualche caso

addirittura la secessione dal resto dell’Italia. Non ci sarebbe nulla da obiettare nel loro

atteggiamento critico nei confronti degli sprechi dello Stato, se non fosse perché la loro

stessa base politica s’è arricchita grazie alla pratica dell’evasione fiscale diffusa.

L’aspetto senz’altro più negativo del sorgere di queste nuove formazioni politiche –

spesso di vedute molto corte – lo si può ritrovare nel loro uso manipolatorio della storia

e della mitologia celtica per rivendicare una particolarità alquanto dubbia e ancora

peggio, per arroccarsi dentro posizioni molte volte xenofobe e/o razziste nei confronti

62 Il craxismo fu quella stagione politica italiana caratterizzati dalla forte alleanza tra Psi e Dc e gli altri tre partiti minori (Pri, Psdi e Pli), sempre in chiave anti Pci, che a differenza del passato, dal 1983 in poi vedrà il susseguirsi di diversi governi capeggiati da Bettino Craxi, leader del Psi. Per la prima volta, un rappresentante di un partito minoritario rispetto alla Dc, ha la responsabilità di formare il governo. Questa novità non muterà di fatto l’andazzo del sistema politico italiano, che anzi, sotto la guida di Bettino Craxi conoscerà alcune delle sue pagine più oscure. 63 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 597.

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degli stranieri ma anche degli abitanti delle altre zone d’Italia. Il fatto assurdo è che,

spesso, sono queste persone a lavorare nelle loro fabbriche, piccole officine, aziende

agricole e cantieri edili. C’è una contraddizione troppo evidenti, una specie di xenofobia

intermittente che scatta ogni volta che loro si sentono presumibilmente penalizzati dallo

Stato oppure la loro “integrità culturale” viene minacciati dai non nativi; ma che

scompare quando si tratta di assumere mano d’opera a basso costo venuta da fuori o

quando si tratta di evadere il fisco o si ricevono aiuti da parte dello Stato. Tutte questi

fenomeni di individualismo esasperato e di rigurgito dei particolarismi locali sono

problematiche nate dal mancato adeguamento dei poteri pubblici al mutamento veloce

subito dalla società italiana nel volgere di due decenni. Dopo che è passata l’euforia del

miracolo, è sopravvenuta la crisi e si sono spente le illusioni di un cambiamento

profondo dell’assetto generale del Paese, la cui classe politica perdeva il tempo nei

meandri della partitocrazia e della politica clientelare, s’approfondirono nella società

italiana le spinte individualistiche che vedevano nello Stato e le sue regole un nemico se

non da sconfiggere, almeno dal quale sfuggire. Queste spinte si manifesteranno in

maniera diversa a seconda del contesto in cui si presentano, a Nord ad esempio con

l’evasione fiscale diffusa da parte dei lavoratori autonomi e del ceto imprenditoriale; a

Sud con la diffusione a livelli mai visti prima della corruzione e dei legami tra apparati

dello Stato e la mafia, compiendo così un salto di qualità che la porterà a essere meno

presente sulle pagine dei giornali ma, nel contempo, a fare più affari.

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Capitolo terzo

Considerazioni finali

Introduzione

Dopo aver esaminato in particolare la nascita della moderna società del

benessere nell’Italia del miracolo economico, in questo capitolo conclusivo mi

propongo di fornire ai lettori qualche spunto di riflessione ispirato dalla teoria critica

della società dei consumi facendo riferimento a diversi autori, in particolare Galbraith e

Marcuse. Entrambi, negli anni ’60, partendo da presupposti filosofici e punti di vista

diversi, fecero un’accurata analisi critica della società che si andava creando nei paesi

industrializzati dal dopoguerra. In particolare, studiano gli sviluppi della società

americana visto il suo ruolo guida nell’economia mondiale, ma quest’analisi può anche

essere estesa ai paesi dell’Europa Occidentale, i quali, seppur in tempi e maniere

diverse, seguirono anch’essi linee di sviluppo simili a quelle statunitensi.

Le contraddizioni del benessere

La riduzione del divario nei consumi ha reso possibile l’integrazione delle classi

lavoratrici nelle logiche del capitalismo azionario. In Italia, la concomitanza di

quest’integrazione con la possibilità storica di poter uscire da una condizione di miseria

estrema fece sì che la contrapposizione e la denuncia a tutto campo del nuovo sistema di

sfruttamento sorto con la società dei consumi venisse in qualche modo attenuata dalla

paura di dover tornare indietro nel tempo, di ripiombare ancora nella miseria e la fame.

Le più gravi mancanze dei partiti di sinistra e dei maggiori sindacati risiedono proprio

qui: non riuscirono a proporre altro che la parificazione dei consumi delle classi

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inferiori con quelli della borghesia e le classi più agiate. Trascurarono completamente la

possibilità di proporre un cambiamento radicale, in grado di portare la società oltre la

nuova condizione di sfruttamento insita nel capitalismo industriale. Marx ed Engels, nel

loro celeberrimo Manifesto, parlando del nuovo tipo di sfruttamento caratteristico della

società borghese, affermano che “In una parola, al posto dello sfruttamento mascherato

da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto,

indifferente.”64 Constatando il salto di qualità rappresentato dalla moderna società dei

consumi, possiamo ben affermare che ora lo sfruttamento viene di nuovo mascherato,

ma stavolta gli sfruttatori fanno appello al benessere, al prestigio personale, allo status e

alle possibilità di scalata sociale. Ciò non toglie che di sfruttamento sempre si tratti.

L’iniziativa nel campo della contestazione radicale venne presa soltanto da piccoli

gruppi “extraparlamentari”, nati anche grazie all’impulso sempre più forte dato dalla

critica ai partiti e ai sindacati tradizionali. Certamente, la possibilità d’accedere ad una

più ampia varietà di consumi privati e pubblici e l’emancipazione dalle gerarchie

padronali di stampo feudale presenti nelle campagne furono raggiunti; tuttavia, ciò non

fa del nuovo sistema una panacea in grado di liberare l’intera umanità dalla sofferenza e

dalla fame, anzi, promuove la nascita di un nuovo sistema di sfruttamento e di

accumulazione capace di indebolire e soffocare le spinte centrifughe e gli

anticonformismi con la promessa del benessere, dell’arricchimento personale, della

scomparsa della povertà: tutte belle promesse che svaniscono appena uno volge lo

sguardo verso le profonde contraddizioni presenti nel sistema e da esso alimentate. In

primis, l’oscena condizione di sfruttamento a cui è sottoposta gran parte dell’umanità

che permette all’altra piccola parte di godere i benefici della società del benessere.

Benefici per molti versi relativi, dacché si basano sull’utilizzazione di materie prime

non rinnovabili e creano all’interno della società opulenta gravissimi problemi di

squilibrio sociale e contraddizioni ancor più insopportabili: solo per citare un esempio,

mentre si spendono ingenti somme nella ricerca medica e nel mantenimento dei sistemi

di sanità pubblica che hanno sì dato importanti risultati per quel che concerne il

debellamento di molte malattie prima mortali, dall’altra parte poco si fa e si è fatto per

contrastare l’inquinamento industriale e domestico responsabile di non pochi morbi. La

mancanza d’azione in questo senso è motivata dal timore di rallentare la crescita

economica, primo e principale obiettivo del governo di un paese, e senz’altro, per gli

economisti, indice dell’abilità dei politici nel creare le condizioni per il benessere della

sua popolazione. La profusione di nuove merci, anche a portata di mano di quei settori

64 Marx, Karl, ed Engels, Friedrich, Manifesto del Partito Comunista, Milano, BUR, 1998, pag. 55.

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storicamente esclusi dai consumi di beni durevoli, si dimostra essere abilmente pilotata

e gestita dai grandi gruppi industriali e dalla pubblicità. Non è stata di certo la loro

bonarietà ad averli portati a condividere merci prima gelosamente riservate solo a pochi

privilegiati, quali segni del loro status e del loro prestigio sociale. Il motivo di questo

cambiato atteggiamento è molto semplice, e lo si può ritrovare nello spirito che ha da

sempre guidato l’agire del capitale: la possibilità di fare profitti. La dimensione

raggiunta dalle fabbriche ed i livelli di produttività sempre crescenti abbisognavano

disperatamente di nuovi acquirenti, altrimenti all’orizzonte si prospettava nuovamente

la minaccia di una crisi. Dando alle classi sfruttate maggiori disponibilità economiche –

mediante l’uso di politiche fordiste oppure con lo Stato che funge da mediatore in linea

con le idee keynesiane d’intervento pubblico a sostegno dell’economia – e attuando una

politica di sollecitazione al consumo, si riuscì a far ripartire la macchina

dell’accumulazione capitalistica, giocando anche la carta dell’aumento del benessere dei

ceti bassi. Un benessere relativo però, che nasconde tutte le insidie e le storture di un

sistema che basa il proprio successo sul controllo della domanda dei prodotti che esso

stesso produce, e allo stesso tempo, sul mantenimento di uno squilibrio internazionale

nella distribuzione e nell’uso delle ricchezze del pianeta. Benessere che spesso e

volentieri si confonde e si riduce soltanto al ben-avere,65 ossia, confondere il mero

possesso e l’ampia scelta di merci a disposizione sul mercato col stare bene realmente

(il ben-essere), non solo in senso materiale o economico.

Nulla di tutto ciò ha fatto però cambiare idea agli economisti che ancor oggi

predicano i dogmi del mercato libero, la concorrenza salutare e del libero arbitrio dei

consumatori. Siamo succubi di un sistema di pianificazione ideato solo per raggiungere

gli scopi del sistema industriale, e cioè, produrre sempre di più, senza avere altro

traguardo che quello della crescita fine a sé stessa. Tutto il benessere della società

occidentale dipende da pochi fattori: l'aumento della produzione e la crescita del PIL, in

cui vengono sommate tutte le cose che si producono senza far uso di alcun

discriminante, anche se a nessuna persona ragionevole verrebbe in mente di mettere

sullo stesso piatto la produzione di armi e quella di cibi in scatola. Contribuiscono ad

accrescere i numeri del PIL anche tutte quelle spese a carico della collettività che

servono a riparare i danni causati dalla corsa frenetica allo sviluppo, causa principale di

innumerevoli problemi per la salute umana e ambientale innati nello stile di vita delle

società industriali e post-industriali. Spetta anche alla corsa dissennata verso la crescita

65 Ho preso questo termine da Latouche, Serge, La megamacchina, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pag. 145.

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di garantire l'occupazione che permette agli individui di godere un livello di vita mai

conosciuto prima nella storia umana, e quindi lo Stato, attraverso la tassazione dei

redditi dei lavoratori e delle imprese, può garantire un livello minimo di Welfare state,

ovvero quell’insieme di garanzie e protezioni per le persone disoccupate o indigenti,

nonché la pubblica istruzione, la sanità garantita per tutti, ecc. Qualsiasi tentativo

d'arresto sarebbe dannoso per tutti quanti, anzitutto per le persone che verrebbero a

trovarsi senza lavoro per causa della diminuita produzione e della minore richiesta di

servizi. Tutto ciò non ha fatto che alimentare quel circolo vizioso in cui si è venuto a

trovare il proletariato66 dei paesi industrializzati: se da un lato la solidarietà nei

confronti delle problematiche del Terzo mondo è sempre più diffusa, grazie anche alla

maggiori visibilità dei problemi internazionali data dalla globalizzazione dei media ed il

miglioramento delle comunicazioni su vasta scala, dall’altro il relativo benessere dei

lavoratori delle società opulente dipende dal sistema di sfruttamento messo in piede

dall’apparato industriale-finanziario, principale responsabile a sua volta, della

condizione di miseria in cui si trova gran parte del mondo “sottosviluppato”.

I limiti del benessere

Possiamo essere certi che la prosecuzione degli obiettivi del sistema economico

sia l'unico modo per garantire il benessere della società? Ci siamo mai fermati ad

analizzare il modo in cui questo benessere nostro è stato costruito costringendo a gran

parte del genere umano a vivere in condizioni di estrema povertà? Possiamo fidarci

ciecamente della sicurezza economica e occupazionale offertaci dal sistema industriale,

quando questa sicurezza si basa sull’aumento continuo della produzione, la crescita ed il

consumo? Non basterebbe applicare le stesse formule anche nel Terzo mondo per far sì

che questo si risollevi dalla sua condizione di miseria e sfruttamento? Il capitalismo e

l’industrializzazione s’internazionalizzano, e come bene spiega Beaud, “L’attuale

sistema capitalista mondiale è, su una scala mai raggiunta finora, al contempo unico

66 Per la definizione questo concetto mi rifaccio a Negri e Hardt: “Con «proletariato» intendiamo riferirci dunque non solo alla classe operaia di fabbrica, ma a tutti coloro che producono, subordinati e sfruttati, sotto il comando del capitale”. Op. cit. Negri, Antonio, e Hardt, Michael, Impero, Milano, Rizzoli, 2001, pag. 244. Come vediamo, il passaggio da un’economia in cui gli occupati nel settore industriale sono la maggioranza, ad un’economia in cui il settore terziario è diventato quello predominante, non ha sancito per nulla la scomparsa del proletariato; bensì ne ha segnato una modificazione della sua composizione. Finché rimarremo in un sistema economico guidato dalla logica dell’accumulazione capitalistica lo sfruttamento del proletariato continuerà ad esistere.

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64

(mercato mondiale, multinazionalizzazione della produzione) e diversificato (disparità

di costi della forza lavoro, forti differenze nei “valori nazionali” di una stessa merce).”67

L’industrializzazione, la liberalizzazione dell’economia e l’imitazione degli stili di vita

occidentali vengono proposti come gli unici palliativi in grado di ridurre il divario tra i

paesi supersviluppati e quelli non ancora sviluppati. L’evidente fallimento di queste

proposte stanno sotto gli occhi di tutti, basti vedere le conseguenze dei “programmi di

aggiustamento strutturale” proposti dal Fmi ai paesi sottosviluppati, non più in grado di

pagare i prestiti dati dallo stesso organismo per favorire lo sviluppo economico di questi

paesi. Questi programmi non hanno fatto altro che sancire la dipendenza dal Fmi e dai

capricci del mercato internazionale dell’intera economia dei paesi sottoposti ad

aggiustamento, costringendoli a cancellare le poche garanzie sociali esistenti e

privatizzando selvaggiamente tutti i servizi pubblici, ora in mano a grandi gruppi

multinazionali. Tutta la ricchezza prodotta da un paese che applica le “ricette”

economiche ed i programmi d’aggiustamento del Fmi, viene utilizzata per pagare i

prestiti e gli interessi dei prestiti accumulatisi con gli anni, arricchendo i paesi creditori,

che di per sé sono i paesi più ricchi e sviluppati del pianeta. Tornando ad occuparci del

“benessere” del Primo mondo, esso innanzitutto poggia su delle basi molto fragili, ed è

alquanto relativo, poiché perfino all’interno di quello che viene considerato come il

Primo mondo rimangono ancora grandi sacche di povertà, disoccupazione o

occupazione precaria e/o temporanea. La totale dipendenza da fonti d’energia non

rinnovabili, in particolare del petrolio, oltre che mettere delle serie ipoteche sul futuro

dell’umanità e causare problemi ambientali di cui non si conosce ancora la portata, sono

fonte di continui conflitti internazionali per il suo controllo e distribuzione (la questione

del petrolio sta dietro gli ultimi scenari di guerra a livello globale, l’Afghanistan e

l’Iraq, anche se ufficialmente le cause dello scoppio di questi conflitti si vogliono

attribuire allo “scontro di civiltà”), alimenta tutta una serie di comportamenti tendenti

allo spreco energetico, sia in ambito privato che in settori chiave dell’economia dei

paesi industrializzati. L’esempio che ci mostra più di tutti la fragilità di un legame così

stretto tra il petrolio e le possibilità di successo della nostra economia lo si può vedere

già nelle conseguenze sociali di una pur lieve crisi quale fu quella del ’73. O ancora, la

gestione della moderna agricoltura industriale europea, responsabile di innumerevoli

problematiche ambientali ed economiche. Com’è noto, il settore primario nell’UE ha

bisogno di una forte politica di sovvenzioni comunitarie e controlli pubblici per

scongiurare il rischio della sovrapproduzione, che provocherebbe conseguentemente

67 Op. cit. Beaud, Storia del capitalismo, pag. 279.

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65

l’abbassamento dei prezzi delle derrate agricole e quindi la crisi totale del settore.

Ebbene, anche un settore che si penserebbe poco dipendente dalle dinamiche del prezzo

del greggio come l’agricoltura, nel caso di un’improvvisa impennata delle quotazioni o

della sua mancanza si troverebbe in difficoltà: oltre al combustibile necessario per far

andare le macchine agricole, tutta la filiera della produzione agricola moderna ha

bisogno di una continua immissione di sostanze chimiche, fertilizzanti, diserbanti ed

altro ancora per garantire la produzione, sostanze cui prezzo è strettamente legato a

quello del petrolio. L’esasperata ricerca di più alti livelli di produttività agricola, oltre

che favorire la sovrapproduzione, l’esaurimento dei campi, l’inquinamento delle falde e

l’eutrofizzazione dei fiumi con la conseguente comparsa di mucillagini sulle nostre

coste, è colpevole di trascurare la qualità dei prodotti agro-alimentari; la civiltà

industriale ha portato insidie alla salute umana anche sulle tavole. Inoltre, la politica di

sussidi al settore primario, finora, oltre a favorire lo sviluppo di un’agricoltura per certi

versi pericolosa per la salute umana (senza rallentare lo svuotamento delle campagne) e

a cui è destinata metà del budget comunitario, è in aperto contrasto con le politiche

ultra-liberista sbandierate da gran parte dell’establishment e dagli organismi

internazionali come soluzione ai problemi dei paesi poveri. Il problema risiede nel fatto

che il libero mercato è finora rimasto come un’imposizione per i poveri e un optional

per i ricchi, che lo applicano secondo convenienza.

Un’analisi simile potrebbe essere effettuata in ogni singolo settore economico, e

le contraddizioni e gli inganni che ne verrebbero fuori non sarebbero di certo minori.

L’analisi delle aberrazioni più evidente della società industriale (che diverranno ancora

più forti nella cosiddetta società post-industriale) immancabilmente portano a luce le

storture presenti su scala internazionale, le quali ci conducono direttamente al suo

fautore: il capitalismo. All’inizio di questo lavoro mi sono posto la domanda se fosse

possibile immaginare lo sviluppo economico dentro il sistema capitalista senza il

consumismo; pensando erroneamente che il consumismo fosse una deviazione evitabile

rimanendo sempre all’interno della cornice dell’accumulazione capitalistica. Ora, dopo

aver analizzato le dinamiche in cui questo fenomeno nacque e s’espanse, mi risulta

difficile ipotizzare una società non-consumistica rimanendo dentro l’ambito dello

sviluppo del capitalismo industriale: lo stesso concetto di “sviluppo” verrebbe limitato o

annullato dalla mancanza di un sistema di sollecitazione al consumo in grado di creare

artificialmente livelli di domanda pronti ad assorbire quei prodotti e servizi sfornati in

continuazione dal sistema economico. E come sappiamo, qualsiasi limitazione o intoppo

alla crescita economica tende ad essere eliminato dal sistema stesso, sempre alla ricerca

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66

di nuovi mercati dove espandersi o, quando non esiste la possibilità di andare oltre –

vista la limitatezza della superficie terrestre – il capitalismo s’accanisce sui mercati già

acquisiti cercando di spremerli il più possibile, puntando precisamente sulla promozione

del consumismo esasperato. “L’espansione della sfera della circolazione può essere

realizzata potenziando i mercati esistenti all’interno della sfera capitalistica con

l’induzione di nuovi bisogni e desideri. E tuttavia, la quantità di salario a disposizione

del lavoratore per il consumo e la necessità da parte del capitalista di accumulare sono

limiti che ostacolano rigidamente questa espansione. (...). Per il capitale, l’unica

soluzione efficace è di guardare oltre se stesso e scoprire dei mercati non capitalistici in

cui scambiare le merci e realizzare il loro valore.”68

Il fallimento delle rivendicazioni

Le richieste portate avanti da alcuni dei movimenti sessantottini e, soprattutto,

quelle proposto dai sindacati durante l’Autunno caldo, col senno di poi, si possono

ritenere non del tutto giuste, poiché miravano quasi esclusivamente alla parificazione

del livello dei consumi con la borghesia. Non intendo dire con questo che fosse

sbagliato scendere in piazza e alzare il livello dello scontro, tutt’altro, la mia critica si

rivolge contro ristrettezza d’orizzonti dimostrata dai sindacati che indirizzarono la

mobilitazione popolare verso traguardi non abbastanza ambiziosi: poter consumare

come i ceti superiori non volle dire e non vuol dire ancora adesso raggiungere un livello

di vita migliore, bensì costituisce soltanto una specie di risarcimento materiale dato in

cambio per le penose condizioni di lavoro, l’inquinamento ambientale, lo

sconvolgimento della vita di tante persone costrette ad adattare le loro vite alla volontà

di un padrone, la distruzione delle risorse del pianeta a vantaggio di pochi, e molto altro

ancora, questi che ho nominato non sono che alcuni dei problemi con cui il proletariato

ha a che fare in tutto il mondo. La portata di queste richieste, esasperate col passare

degli anni per via della totale negazione di qualsiasi concessione da parte del padronato

e del governo; insieme all’avvento della stagione del terrore provocò, col trascorrere

degli anni, il confluire di gran parte del movimento in quell’appiattimento conformista

caratteristico di larghi settori della società verso la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni

‘80. Per altro, i settori da sempre privilegiati e quelli arricchitisi considerevolmente

68 Op. cit. Negri e Hardt, Impero, pag. 213.

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grazie al miracolo, non vedevano con buoni occhi l’avanzata salariale delle classi

inferiori, desiderose com’erano di mantenere il divario ad ogni costo (spesso durante la

stagione dell’Autunno caldo gli impiegati scioperarono proprio per mantenere nelle

“giuste misure” il divario con gli operai), quindi la rincorsa dei ceti bassi diventa

infinita. Anche perché la stessa borghesia è impegnata nella rincorsa di consumi più alti,

quello delle star del cinema, della vecchia e nuova aristocrazia, dei personaggi da

rotocalco, ecc. Quest’eterna rincorsa di modelli di consumo superiori è uno dei motori

che tengono in piedi l’economia, costituisce una delle più forti spinte al consumo e al

ricambio delle merci, fatta grazie all’abilità della pubblicità nel convincere le persone

che sia possibile migliorarsi attraverso l’acquisto di determinate merci o servizi. Inoltre,

questi processi di livellamento e miglioramento salariale innescano quei fenomeni

descritti da Marx e che io propongo qui con le parole di Negri e Hardt: “Le lotte

proletarie costituiscono – in termini reali, ontologici – il motore dello sviluppo

capitalistico. Costringono il capitale ad adottare livelli tecnologici sempre più avanzati

e, in tal modo, trasformano il processo lavorativo.”69 Così facendo, oltre ad aumentare i

profitti e la produttività, si modifica profondamente la struttura della classe lavoratrice,

spezzandone l’unità e creando tutta una nuova serie di rapporti di produzione in cui

nascono nuovi gruppi privilegiati ma anche nuovi diseredati. E’ il caso delle società

post-moderne, le cui economie sono caratterizzate dalla forte presenza del terziario e

dalla scomparsa dell’identificazione proletario uguale operaio dell’industria. In

economie come queste, il proletariato è multiforme e si trova ad avere a che fare con

nuove forme di sfruttamento e insicurezza, prima fra tutte, il lavoro precario o a tempo

determinato. Allo stesso tempo, il nuovo proletariato possiede una preparazione

culturale maggiore ed è inserito in settori chiave de “l’economia dell’informazione”. Il

suo potenziale di contestazione dell’ordine stabilito non s’è affatto affievolito, è solo

una questione di trovare nuovi modi per esprimersi e convogliare le proprie forze.

Negli anni ’70 prevalse la convinzione che niente sarebbe cambiato, quindi le

richieste e le manifestazioni avevano principalmente (anche se non per tutti: c’erano

frange più politicizzate attente ad altre tematiche) lo scopo di strappare al padronato

qualche concessione salariale, trascurando volutamente o a causa dei continui

fallimenti, la ricerca di un mutamento profondo che riuscisse a cambiare i rapporti di

forza ed il modello di società verso cui si avviava il Paese. Il fallimento dell’esperienza

dell’Autunno caldo può anche essere attribuito al mancato raccordo fra i settori più

69 Op. cit. Hardt e Negri, Impero, pag. 199.

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all’avanguardia del movimento e settori più ampi del mondo operaio (e della società nel

suo insieme), raccordo non favorito da sindacati troppo impegnati nel contenere i settori

più intransigenti che scavalcavano in continuazione i suoi confini, piuttosto che nel

cercare di creare punti di contatto tra le diverse anime del movimento onde favorire la

creazione di un soggetto sociale il più ampio possibile e quindi in grado di ottenere il

cambiamento del paradigma dominante nella società italiana. Paradigma che la guidava

e la portava soprattutto verso il consumismo, la produzione fine a sé stessa, il possedere

simboli di status: tutti bersagli dei settori più anticonformisti all’interno del movimento

sessantottino. Vittorio Foa a questo proposito sostiene: “Il principio di autorità era stato

scosso ma non si era creata una nuova autorevolezza, un diverso disegno della vita. Il

consumismo come dogma dei consumi privati rimase sovrano. (...). Ma la lotta operaia,

pur nella sua grandezza morale, nella sua affermazione di valori diversi da quelli del

mercato, era però ancora dentro il modello dei consumi privati. Certo, essa si è anche

data come obiettivo il servizio pubblico collettivo, ma la spinta profonda della lotta fu

sempre la richiesta di rompere un muro d’inferiorità sociale, di essere come gli altri, che

voleva dire consumare come gli altri.”70

Le conseguenze della mancanza di anche un minimo segnale di cambiamento,

sommate alle riforme incomplete e presto vanificate dalla comparsa della crisi

petrolifera approfondiranno il divario tra politica e società civile in maniera più che

evidente. Questa separazione si manifesterà pienamente nello scontento giovanile

caratteristico delle sommosse del ’77, che a differenza di quelle del ’68 non andranno

oltre l’ambito studentesco e in cui il senso di smarrimento e la mancanza di prospettive

di futuro prevarranno sulle istanze di cambiamento della società. La carica di profonda

disillusione (alimentata anche dall’aumento della disoccupazione giovanile, fenomeno

quasi sconosciuti nei decenni precedenti) nei confronti del mondo politico, e della

società degli adulti in genere, spesso troverà modo di sfogarsi in atti di violenza prima

inconcepibili, come ad esempio la diffusione dell’uso d’armi da fuoco tra i membri dei

servizi d’ordine in occasioni delle manifestazioni di protesta. L’altra faccia

dell’allontanamento della società civile dal regime partitocratico può essere ritrovata

nella diffusione dell’individualismo esasperato, in cui prevale soltanto la volontà

d’arricchimento personale, raggiunto molto spesso a scapito dei diritti della collettività

ed in netto contrasto con le leggi dello Stato, resosi colpevole di favorire questo modello

per via di un lassismo spiegabile solo dalla paura di perdere i voti di quei settori agiati

70 Foa, Vittorio, Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996, pag. 317 [corsivo suo].

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69

che continuavano ad arricchirsi approfittando della totale mancanza di controlli e

sanzioni.71

Consumismo contro democrazia

Nel libro di Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism,72 l’autrice

analizza come il capitalismo, mentre ha permesso l’allargamento della cittadinanza a

quasi tutti le persone nell’ambito degli stati nazionali, al tempo stesso ha svuotato di

significato la portanza politica del concetto di cittadinanza. Nella democrazia ateniese,

pur con tutti i suoi aspetti negativi (in particolare la schiavitù e la negazione dei diritti

politici alle donne), anche i contadini e gli artigiani potevano accedere alla cittadinanza.

La cittadinanza non solo permetteva loro di avere voce e voto in ambito politico, ma

voleva anche dire che la maggioranza della popolazione faceva valere le sue ragioni. Ad

Atene la cittadinanza non veniva conferita solo ai grandi proprietari terrieri o ai ricchi

commercianti, perfino gli artigiani o i piccoli contadini erano in grado di ottenerla,

dovevano solo essere ateniesi. Questa organizzazione sociale permetteva a queste

persone di godere pieni diritti politici e, soprattutto, di far fruttare il loro lavoro

esclusivamente per sé, senza dover sottostare ai soprusi dei ceti economicamente più

forti, poiché sul piano giuridico e politico, tutti i cittadini godevano degli stessi diritti.

Nelle moderne democrazie Occidentali, impostate secondo la tradizione anglo-

americana e caratterizzate dalla rappresentatività dei singoli cittadini in un parlamento,

l’estensione del diritto di voto al proletariato e alle donne venne accompagnata dalla

perdita di quella forte valenza che aveva la cittadinanza ad Atene. La rappresentanza dei

ceti più bassi in Parlamento, nei casi in cui non viene direttamente operata dalla

borghesia o dai ceti più agiati, s’organizza in modo di far sì che la maggioranza della

popolazione conti poco o nulla in Parlamento. Ed anche nei casi delle democrazie più

avanzate, dove questi scogli alla rappresentanza popolare vengono meno (anche se in

ogni caso si deve far fronte all’astensionismo ed alla continua estraniazione della

popolazione dalla politica), ci si ritrova di fronte al dato di fatto che nell’ambito

dell’accumulazione capitalistica, la sfera politica s’è completamente distaccata dalla

sfera economica, perdendo la capacità di controllo e regolazione, per non parlare

nemmeno di indirizzarla verso obiettivi che rispondano alle esigenze umane e non a 71 Ho già fatto riferimento a questo fenomeno nella parte finale del secondo capitolo. 72 “Democrazia contro capitalismo” [tr. dell’autore].

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quelle dell’espansione del capitale. Nessuno vuole contestare il chiaro avanzamento

fatto sul terreno dei diritti politici e sociali, e dalla diminuzione delle differenze e le

discriminazioni tra i sessi e tra le razze nei paesi del capitalismo avanzato. Il problema

risiede nel fatto che la capacità di contrattazione nei confronti del mondo economico di

questi nuovi diritti è stata ridotta a livelli infimi. L’ampliamento del diritto di voto ai

ceti proletari non ha posto indugi all’espansione imperialistica né tanto meno allo

strapotere dei grandi gruppi multinazionali, in grado di movimentare più risorse di

capitale ed umane degli stessi stati nazionali, scavalcando i confini secondo le proprie

convenienze. Inoltre, il radicamento delle prerogative del capitale in ogni sfera della vita

umana (soprattutto in quella lavorativa, ma non solo), e cioè, della crescita e

dell’aumento della produttività ad ogni costo e in qualsiasi condizione ha

definitivamente inglobato la sfera privata (quindi anche quella politica) dentro le

logiche del capitale. Questo vale sia per il caso della sollecitazione di impulsi, bisogni e

desideri di consumi congrui alle aspettative e necessità del sistema economico e della

sua tecnostruttura (indipendentemente dal fatto che si tratti del settore secondario o

terziario, cambiano solo i prodotti/servizi forniti, ma non le logiche che stanno dietro

alla loro creazione); costringendo quindi la gente a lavorare più del dovuto per potere

così procurarsi sul mercato i beni che fanno comodo all’apparato economico. Le stesse

contraddizioni appaiono anche al momento delle elezioni, in cui le campagne di

propaganda politica vengono sempre di più gestite allo stesso modo in cui vengono

orchestrate le campagne di propaganda commerciale: si punta tutto sull’immagine e le

caratteristiche fisiche dei candidati, spettacolarizzando in stile hollywoodiano le loro

presentazioni televisive e riducendo i loro progetti politici con semplici slogan ad

effetto (come se scegliere un determinato partito o candidato fosse paragonabile alla

scelta tra due marche diverse di pasta). In questo modo, l’appiattimento dell’agire

politico e delle scelte dei partiti sono all’ordine del giorno, persino i partiti della sinistra

moderata ispirati dalla socialdemocrazia e dal riformismo si trovano con le mani legate

in materia di politica economica, di fronte all’inevitabilità delle scelte decise dai gruppi

dirigenti delle multinazionali; e spesso diventano anch’essi zelanti difensori della

liberalizzazione dell’economia, sempre chiaramente in nome della crescita e lo sviluppo

economico, minacciati dalla “rigidità” della legislazione dello Stato Sociale.

Lo sviluppo del consumismo si consolida legando la creazione di posti di lavoro

(e conseguentemente anche la stabilità sociale e la sicurezza economica che dipendono

dall’occupazione del maggior numero possibile di persone) alle prerogative del sistema

economico internazionale e le sorti della politica alle decisioni dei consigli

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71

d’amministrazione delle multinazionali, concentrati soprattutto nell’incrementare i

propri dividendi ed accrescere le loro quote di mercato. In ultima istanza le grandi

multinazionali – e soltanto se ciò può risultare conveniente ai fini delle loro

tecnostrutture – possono anche pensare a condividere obiettivi che favoriscano la

crescita non solo materiale della collettività. L’agire dei sindacati, i programmi e gli

orientamenti dei partiti politici e, come ho cercato di dimostrare prima, le elezioni nei

sistemi democratici rappresentativi – strutture fondamentali per il buon funzionamento

della democrazia – vengono così soggiogati irrimediabilmente alle scelte spietate del

capitalismo. E’ questo il triste corollario che possiamo trarre alla fine di questo lavoro:

pur possedendo istituzioni che in teoria rappresentano l’intero spettro sociale e che

sarebbero (o almeno dovrebbero esserlo) in grado di convogliare le richieste ed i

desideri provenienti dalla società in agire politico, condizionando quindi le scelte

economiche per far sì che queste si adattino meglio alle reali necessità della collettività,

e in particolare di quei settori più svantaggiati, il sistema capitalista ha trovato il modo

di scavalcarle e di far prevalere i propri bisogni, mettendo in questo modo a repentaglio

la sopravvivenza stessa della specie umana su questo pianeta.

Page 72: Tesi - Bozza Finale

72

Chapter Four

Conclusions

The purpose of this thesis is to shed some light on the birth of the affluent

society in Italy, treating in particular the post-war period up to 1973, the year of the

Arab-Israeli war which caused the first global oil crisis. I decided to take on this

particular argument because my attention was caught by the way how some “rituals of

consumption” in the modern Western society have gradually degenerated up to the point

of becoming a social illness, causing as well many environmental and economic

problems. On one side, environmental problems mostly concern the disposal of

enormous quantities of industrial and domestic waste, which day after day is becoming

a critical problem in several Italian and European regions; furthermore, the massive use

of plastics is nowadays widespread all over the world and it is present in almost every

passage of the economic system. On the other side, the economic implications inherent

in the affluent society imply that economic development (and thus employment and

social stability) relies mostly on the continuous increase of the consumption of the

goods and services offered by the industrial apparatus. In doing this, the economic

establishment acts through two main means: increasing the offer of consumption credit

and launching massive advertising campaigns. The main role played once in economics

by production has been displaced by consumption; proof of this, is the amount of money

which increasingly flows towards advertising agencies and related sciences, in charge of

concocting new ways of inducing people to use greater and greater amounts of their

income to buy new goods. My research looks backwards to mid-nineteenth century,

trying to trace back in time the beginning of all those phenomena which set up the roots

of the affluent society and consumerism in the Western capitalist world, to focus then

my attention in the period of the Italian “economic miracle” with all the consequences it

had on social, political and economic relations.

Page 73: Tesi - Bozza Finale

73

The first chapter starts by giving a definition of consumerism, aided in this by

different sources which contribute to build a theoretical frame capable of supporting my

critical approach towards modern consumer society and the economic system laying

behind it, namely capitalism. In short, consumerism is the artificially stimulated

creation of new habits of consumption by the industrial apparatus in the context of the

modern mass society. Such new habits tend to contrast with traditional consumption

habits, so that new products and costums need to be widely “cultivated” by

advertisement before rooting definitively in a determinate social context. Another

important characteristic of modern consumer society is that not only consumption of

new goods needs to be accelerated, but also, these new goods proposed to the public

tend to have an artificially limited life span (be it due to the effective bad quality of the

product or be it because it has become out of fashion, socially inducing the need of a

replacement), introducing once again a new potential factor of environmental pollution

and consumeristic exacerbation.

After defining the object of this study, I carry on giving a historical excursus on

the history of consumerism taking into consideration the century that goes from 1873 up

to 1973. I do not analyse the history of the rise of the affluent society in one country in

particular (although many parts of it are referred mainly to the US due to its role as

leading country of world’s capitalism: as a matter of fact, the fundamentals of the

consumer society first appeared in the Twenties in the US). My purpose, instead, is that

of seizing those particular phenomena developed in world’s capitalistic system from the

1873 crisis on. This crisis marks a very important shift in the history of economic

relations: the Great Depression that started in 1873 was the first crisis caused by

overproduction, meaning with this that the availability of goods went over the market’s

capacity to absorb them, causing an abrupt price fall and a series of bankruptcies that

affected mainly the smaller banks and the smaller industrial groups, less capable of

adapting to the new market situation. As a consequence of this, banks and industrial

groups which benefited from bigger capital availability joined together in the race for

the bankrupted societies, giving birth to the first trusts, ancestors of modern

multinational companies. Another reaction to the crisis was the increase of customs

barriers between major European nations, in order to protect local market and national

industry from foreign competition, but as a counterpart, European countries increased

the competition for new colonies in the rest of the world in order to find new markets to

place the increasing amount of goods produced by industry, and at the same time, to

find new raw materials reservoirs, opening the sad season of European Imperialism.

Page 74: Tesi - Bozza Finale

74

This race to conquer new lands managed to avert the risk of war between the European

great Powers for some decades, but eventually it exploded in 1914, seeing the

confrontation of the most powerful nation in the world at the time, Great Britain, and

one of the newcomers on the scene of the industrialized Powers, the German Empire. At

this point one might be tempted to think, “what has all this got to do with the formation

of the consumer society and of consumerism”? Well, while the European Powers

economic and social situation at the end of WWI was completely disastrous, the USA,

which had entered the war in 1917 and did not suffer the weigh of the armies in its

territory, increased its gold reserves and the capacity of its productive system by means

of selling foodstuff, weapons and war materials to the other members of the Entente.

The enormous growth of its industrial system was aided as well by the introduction of

the Taylorist and Fordist models of industrial organisation, which made productivity

figures rise to levels never seen before. When the war was over, much of that industrial

capacity was destined to be seriously cut unless some new market outlet was found to it.

This outlet was to be found in the American population, which consequently underwent

a massive consumerist indoctrination, leading to the abandonment of the traditional

puritan way of thinking, in which saving and self-sufficiency played an important role.

This mentality was constantly demonised by specifically designed advertisement

campaigns that in the course of a decade managed to change an entire society, giving

birth to the first mass consumer society in the world. This situation, so far, could only

be found in the USA, since major European countries would struggle to recover from

the ravages of war throughout the Twenties.

An important challenge to the consumer society was the 1929 Wall Street Crash,

an event that reached global dimensions, affecting not only the most developed nations,

but the whole of the economic system – showing the level of connection reached by

capitalistic economy, not only between the Powers and its colonies, but also between

the financial systems of the rich countries. Traditional economic measures (following

the indications of liberal economist) were not able to solve the problems created by the

Crash, above all unemployment, which was cause of growing social unrest and

industrial paralysis (no jobs meant no wages, thus stagnation). American Trade Unions,

following the positive experience at the Kellogg industries, proposed the “job sharing”

policy, that is to say reducing the numbers of hours each worker had to spend in the

factory in order to give more people the chance of getting an occupation. Implementing

this policy would had meant less working hours and slightly reduced wages, so that

people would have had more free time to spend in non-economical activities, out of the

Page 75: Tesi - Bozza Finale

75

reach of the market. Unfortunately, Roosevelt, who at first seemed to share the Trade

Union’s point of view, fearing retaliation from the owners and the industrial class,

which insisted on saying how dangerous the job sharing policy might have been to the

American working spirit, reducing the USA to an undeveloped state, full of lazy people

and moreover, unwilling to work for more than what was necessary, the real fear for the

American establishment. If people were willing to work just for the amount of time

needed to provide for their living, all the efforts carried out by advertisement campaigns

intended to urge the purchase of new and often unnecessary goods, would have been

vain. The “New Deal” president preferred to approve the NIRA, a series of Keynesian

economic policies aimed at increasing occupation by stimulating the private sector with

public money, increasing the number of civil servants and introducing a plan of big,

publicly financed infrastructures intended to create new jobs and thus bringing the

economy back to life. Even though all the efforts made by the Roosevelt administration

to improve American internal situation, only WWII provided the thrust needed to restart

industrial production and therefore employment and internal consumption.

After World War II, the USA were undoubtedly the first world Power in terms

of economical and military power, having taken advantage of the war to grow at an

impressive rate while again Europe find itself totally devastated after five years of a

shattering war, fought with the precise objective of annihilating the enemy. On the other

bank of the river, a new economic Power is raising from war destruction, the Soviet

Union, proposing a completely different conception of economy, society, politics and

production. The friendship bond that linked the two super Powers in the fight against

the common Nazi-fascist enemy was broken after Roosevelt’s death, starting the atomic

race and Cold War. In this confrontation context, world was divided in influence areas,

the Western and the Soviet blocs, each Power influenced heavily the political and

economical course of the countries belonging to each of the blocs. The USA played an

important role in the reconstruction of Western Europe economies, and at the same

time, it made them complementary to the American monetary system, linking tightly the

fortune of the two sides of the Atlantic. In this new global context, American industry

found the necessary outlet of it productivity directing the amount of goods in excess to

cover the European needs of industrial, agricultural and military goods (the armies of

the North Atlantic Treaty were refurnished by the US), developing the nuclear weapons

sector and increasing internal consumption.

Page 76: Tesi - Bozza Finale

76

This was possible thanks to the appearance of a new mass media: commercial

television. Using the new tool, commercial advertisements reached directly American

homes, giving further impulse to the affluent society and consumerism. The financial

and industrial concentration process continued, reaching almost monopolistic levels,

supported this time by the introduction of a new type of enterprise organisation: the

technostructure. Companies are no longer guided by a sole figure, the omnipresent

capitalist manager, responsible of all the decisions taken. The huge amounts of money

invested in the ideation and production of a new product by modern companies required

a solid network of intermediate groups of highly prepared technical employees, whose

task was to control all the processes linked to the realisation of new products.

Launching a new product or a new line of products has become an extremely delicate

operation due to the amounts of capital and time required by the design, ideation,

planning, manufacturing and advertise, thus it is an essential requirement to guarantee a

large number of customers ready to purchase it. This amount of “willing-to-buy-

customers” is provided thanks to the joint work of advertisement campaigns and

technostructure, in charge of leading the direction publicists should take and, first of all,

of providing the necessary financial support to the advertising system. Other than being

focused on making profit for its company, the technostructure pursues two main goals:

developing to the biggest extent possible, surviving the negative economic periods, and

being able to generate the maximum demand available to the goods it is in charge of

producing and selling.

In the second chapter I deal specifically with the development of the affluent

society in the post-war Italy, that is, from 1948 up to 1973. I have chosen this period in

particular because the birth of this new type of economic and social organisation

coincides with other important novelty: after centuries of misery and sufferings, an

important part of the Italian population can finally receive part of the benefits of

economic growth and live in an political context no longer dominated by small

aristocratic groups or the terror and repression of a fascist regime. After the referendum

celebrated June 2nd 1946, Italians chose democracy, obliging the members of the Savoia

royal house to flee for exile. Democracy, however, didn’t automatically mean enjoying

a better quality of life and total freedom of speech and thought. Being in the context of

the Cold War, with Italy firmly attached to the Western bloc, the relative majority party

(Democrazia Cristiana, or Christian Democratic party) allied with the small pre-fascist

parties, excluded in 1947 the Opposition parties (formed by the Italian Socialist Party

and the Italian Communist Party) from the government of National Unity, obeying an

Page 77: Tesi - Bozza Finale

77

American diktat. This started a period of uninterrupted Christian Democratic

governments which lasted until 1992 when this political stall was swept away by the

Mani Pulite scandals. The strategy of the party was quite simple as a matter of fact: it

consisted mainly in isolating the main Opposition party, the Pci (the Communist Party),

through different alliances with smaller parties in order to find itself always with the

majority of votes in the Houses of Parliament. The lack of a real alternative in the

government of the country meant increasing cases of corruption and patronage politics

causing the waste and embezzlement of colossal sums of public funds, particularly in

Southern Italy, historically the most penalised region in terms of occupation, education,

public safety and wealth. Paradoxically, Southern Italy was the region supposed to

receive most of public funds in order to reach at least the conditions of the North and

Central areas; however, most of the money destined for the South finished in the wrong

hands, filling the pockets of corrupt public servants, criminals, mafia groups and so on,

creating just a series of useless and unproductive industrial sites, totally out of context

in the economy of the Mezzogiorno.73

In this environment of political immobility, the entire country goes through a

deep change in its social composition and in the distribution of the population. The

quick economic growth started in 1948 (thanks to approval in the US of the Marshall

Plan consisting of loans and supply of raw materials and machinery at very

advantageous interest rates). The GDP rates grew constantly until 1963, reaching its

highest peaks from 1958 until 1963 and the extraordinary levels of productivity and

wealth reached all along this years induced historians to call it the period of the

“economic miracle” or “economic boom”. The most important sectors of the period

were mainly car manufacturing and engineering, which explains the elevation of the

FIAT Cinquecento and the Vespa motorbike as symbols of the Sixties in Italy and the

economic miracle. Nothing was left untouched by the miracle: industrial cities in the

North West saw the arrival of several thousands of people which left the economically

depressed countryside hoping to find new life prospects there. The lack of adequate

urban development plans favoured unscrupulous construction entrepreneurs who took

advantage of the need for new housing for the immigrants, becoming responsible of

severe environmental disfiguration and the construction of low quality buildings (which,

other than being architectonically horrendous, lacked of the minimum necessary public

services, such as sewage, public transportation, parks, libraries, etc.). New consumer

73 In analogy with the French word Midi (midday), used in the English language to talk about Southern France; in Italian the same word, Mezzogiorno, is normally used to make reference to Southern Italy.

Page 78: Tesi - Bozza Finale

78

habits coming from the USA and diffused by the mass media, typical of the Western

industrial society started to appear in everyday life. An important role in this diffusion

was played (as in the American case) by television, which started transmissions in 1954,

hitting hard on the traditional peasant society and its cutoms, presenting new lifestyles

and products even in the most remote villages of the Peninsula. The modern mass

consumer society facilitated the emergence of a new social category – young people,

whether adolescent students or young workers – remained for long time in the shadows

of a society that witnessed a very quick passage from childhood to adult life. The other

novelty that helped this emersion was the approval, by the Houses of Parliament in

1962, of the law that established compulsory free education up to the age of 14. Young

people had the chance to know each other (considering as well the growth of the young

population in the post-war time, also known as the baby boom) and stay out of a work

context longer than in the past. The figures of young people that carried on studying

after the compulsory age, reaching the higher levels of education, grew at very high

rates. These young people, who now had the occasion of discovering themselves and the

society in which they lived, would be, from 1968 and afterwards (and even before, as

the backwardness of the Italian Education system had been perceived since the

beginning of the Sixties), protagonists of the massive street riots that intended to attack

not only State immobility (incapable of adapting State laws and regulations to the new

national reality) and corruption, but it was also aimed against Vietnam war, bad

working conditions and the permanence of a rigid class system in most of the public

institutions (starting from schools, universities, and even in the courts of law).

Finally, in the concluding part of the second chapter, I focus on the analysis of

the decade that goes from 1963, the year which marks the end of the miracle, up to

1973, which marks the end of the Sixties euphoria. This abrupt halt will shock all the

Western developed countries, but the particular situation of the Italian political system

and the “winds of change” appeared inside the 1968 political movements and in the

massive 1969 strikes (known as the Autunno caldo or “Hot Autumn”) would greatly

characterise the social reactions to the crisis. In fact, the last part of the Sixties and up to

the mid-Eighties would see the rise of many terrorist groups that intended to shock

Italian population and wanted to favour the creation of an authoritarian dictatorship

from one side (the so called black terrorism); and from the mid-Seventies, as a reaction

to this, more and more extreme left-wing groups decided to apply the same tactic in

order to favour a popular Revolution against the State (the so called red terrorism). At

first, the reaction of the State against these attacks was quite inefficient and weak, and

Page 79: Tesi - Bozza Finale

79

in some occasions even the State was directly involved in some of the bomb attacks,

causing increasing social confusion and the common feeling that the State was merely a

big structure only preoccupied of the relations between parties and favouring the groups

linked with corruption and crime. The total inability of the government to read the

increasing social unrest, and the total refusal to find any agreement with the Trade

Unions, helped and encouraged the explosion of terrorism and also the growth,

especially in the middle and upper classes, of many subtle attitudes against the State,

mainly tax evasion and exportation of capital to tax havens. The sum of all this

particular Italian social and economical characteristics prepare the ground for the

disastrous Eighties74, when the links between crime, politics and Masonic lodges (like

the famous P2 lodge) gave rise to some of the most clamorous scandals of Italian

republican history, accentuating the already big distance between political sphere and

civil society.

The third and final chapter tries to show and analyse the contradictions of the

affluent society in Italy and its bond with capitalism and economical development, as

conceived in the Western world. The affluent society in Italy, even though it contributed

to the modernisation and improvement of life quality in some areas of the country, was

also responsible of the generalisation of many of the most negative characteristics of

capitalism, such as consumerism and the total dependence on imported energy sources.

These contradictions become more and more evident with the worsening of

environmental conditions in the First World countries and with the worsening of

poverty and famine in the Third World, closely linked by the way world economy has

been guided since the end of WWII. Moreover, affluence and the relative social security

provided by national Welfare policies in Europe depend mostly on the success of the

industrial system, which success relies exclusively on the continuous increase of

consumption. Not only employment, but also success and good government of a nation

are measured by the figures of the GDP, leaving aside any possibility of pursuing “anti-

economic” or “anti-consumerism” policies which may result in a real improvement in

the conditions of life. In my analysis I also deal with the kind of requests made to the

establishment by major Trade Unions during the “Hot Autumn”: in fact, they limited

their request just to economics. Their main goal was to reach the same wage and

consumption levels present in the bourgeois classes, forgetting that even reaching those

levels without a radical change of the rules which guide economic relations, the gains

74 Guido Crainz, in his book Il paese mancato, called the Eighties “the catastrophe”.

Page 80: Tesi - Bozza Finale

80

were relative, only with regards to the material aspects. But it is well proved that an

improvement of the economical situation in a general context which is characterised by

poor social relations, pollution, oil wars, political decay and competition at all levels

cannot be considered as an actual improvement. The very concept of affluence and

wealth should be reviewed considering the weak basis on which it is founded, and why

not, the very economic and social system that lies on top of it. This is the system that

considers “normality” the increasing social insecurity in the First World (how long will

Welfare States and worker’s rights resist the attacks of those economists which consider

those social warrants just as an obstacle to the development of economy?), and misery,

famine, death and tyranny in the Third World. On behalf of this view, I would like to

add this quotation which concisely describes the nature of capitalism, the system I was

referring to before:

Capitalism is constituted by class exploitation, but capitalism is more than just a

system of class oppression. It is a ruthless totalizing process which shapes our lives in

every conceivable aspect, and everywhere, not just in the relative opulence of the

capitalist North. Among other things, and even leaving aside the direct power wielded

by capitalist wealth both in the economy and in the political sphere, it subjects all social

life to the abstract requirements of the market, through the commodification of life in all

its aspects, determining the allocation of labour, leisure, resources, patterns of

production, consumption and the disposition of time.75

In the crusade for profit, even democracy and constitutional rights are constantly

menaced by the urgent needs of capitalism everywhere in the world, influencing not

only politicians (nowadays multinational groups have got more influence and power on

politicians than their electors) but even the way in which elections are carried out.

Political campaigns use the same techniques used by advertisers to sell products and

very little space is left to real debate and discussion about real political issues; image

and propaganda always seems to come first.

75 Meiksins Wood, Ellen, Democracy against capitalism, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 262-3.

Page 81: Tesi - Bozza Finale

81

Ringraziamenti

Vorrei in primo luogo ringraziare Olga e Artenio, i miei genitori, per il

loro contributo nella correzione e nella lettura delle prime bozze di questa tesi; grazie a

loro sono riuscito ad arrivare fino in fondo nella stesura di questa tesi. Mi preme anche

ringraziare i loro costanti contributi bibliografici e spunti di riflessione, nonché lo

spirito critico che ho sin da piccolo appreso da loro, d’estrema utilità nell’affrontare le

diverse tematiche e argomenti presenti in questo lavoro. In secondo luogo, vorrei

ringraziare tutti gli amici e i compagni, sia udinesi che bolognesi, i quali col loro

costante incoraggiamento e supporto mi sono stati sempre vicini nel travagliato periodo

di gestazione e stesura della tesi.

Page 82: Tesi - Bozza Finale

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