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Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana SUPSI Dipartimento Economia Aziendale, Sanità e Sociale Corso di laurea in Cure Infermieristiche Migrazione e nursing: ruolo infermieristico e promozione della salute nell’accoglienza e assistenza dell’utente con trascorso migratorio. L’incontro con il rifugiato UNA RICERCA QUALITATIVA Lavoro di Tesi (Bachelor Thesis) Véronique Borcic Direttore di tesi: Vincenzo D’Angelo Manno, 15/01/2019 Anno Accademico 2018/2019

Tesi di Bachelor: Véronique Borcic: SUPSI-CI:2019 Veronique.pdf · 2019. 3. 5. · “È*un’evidenza*assoluta:*se*il*cuore*si*ferma,*la*vita*muore.*Ma*il*cuore*che*ciascuno*di*noi*porta*

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Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana

SUPSI

Dipartimento Economia Aziendale, Sanità e Sociale

Corso di laurea in Cure Infermieristiche

Migrazione e nursing: ruolo infermieristico e promozione della salute nell’accoglienza e assistenza dell’utente con trascorso

migratorio.

L’incontro con il rifugiato

UNA RICERCA QUALITATIVA

Lavoro di Tesi

(Bachelor Thesis)

Véronique Borcic

Direttore di tesi: Vincenzo D’Angelo

Manno, 15/01/2019

Anno Accademico 2018/2019

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Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana

SUPSI

Dipartimento Economia Aziendale, Sanità e Sociale

Corso di laurea in Cure Infermieristiche

Migrazione e nursing: ruolo infermieristico e promozione della salute nell’accoglienza e assistenza dell’utente con trascorso

migratorio.

L’incontro con il rifugiato

UNA RICERCA QUALITATIVA

Lavoro di Tesi

(Bachelor Thesis)

Véronique Borcic

Direttore di tesi: Vincenzo D’Angelo

Manno, 15/01/2019

Anno Accademico 2018/2019

“L’autrice è l’unica responsabile dei contenuti del lavoro di Tesi”

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ABSTRACT BACKGROUND I flussi migratori e la realtà di soggetti che vivono con uno statuto di rifugiato portano l’infermiere a trovarsi inevitabilmente confrontato con differenti vulnerabilità, nuovi limiti e crescenti sfide. Tentare di entrare in rapporto con la storia di un soggetto migrante possessore di un bagaglio di vita traumatico caratterizzato da sofferenze e violenze, significa attuare delle cure individualizzate e interculturali in considerazione anche dell’unicità esperienziale di malattia. SCOPO Lo scopo della mia ricerca è indagare gli aspetti del ruolo infermieristico che più emergono nell’incontro con il paziente rifugiato, in che modo l’infermiere si avvicina alla casistica in analisi: quali sono le attitudini, la presa a carico, i bisogni a cui deve rispondere e come vi risponde, quali sono le difficoltà e i limiti incontrati e quali i miglioramenti ancora necessari. Gli obiettivi sono di conoscere e riconoscere le problematiche che più frequentemente l’operatore riscontra nell’incontro con il rifugiato in ospedale, individuare strategie e interventi efficaci per la presa a carico, sviluppare una capacità critica rispetto a un tema di rilevanza etica con risvolto pratico e sviluppare competenze per la presa a carico olistica del paziente con trascorso migratorio. METODOLOGIA Il cuore della Tesi è strutturato secondo un approccio qualitativo-­induttivo (interviste semi-­strutturate): delle ipotesi orientative hanno permesso di rispondere alla domanda di ricerca. Il campione preso in analisi ha coinvolto 4 infermiere operative in un reparto di medicina dell’EOC. I dati sono stati raccolti in aree tematiche al fine di poter essere analizzati e descritti. Fin da principio è stato condotto un percorso di revisione di letteratura che ha permesso la formulazione della domanda di ricerca e la stesura del quadro teorico. Il background di ricerca è stato realizzato mediante l’utilizzo di articoli scientifici, letteratura, materiale scolastico e siti internet. RISULTATI E CONCLUSIONI Il tema che riguarda i rifugiati pone la popolazione curante di fronte alla necessità di ampliare le conoscenze e le competenze. I risultati ottenuti attribuiscono importanza al ruolo dell’infermiere nella presa a carico del paziente rifugiato: l’infermiere si trova in prima linea nel contatto con il paziente ma è anche il primo a risentire dei limiti imposti dal sistema. È emerso che le problematiche linguistiche e di comprensione culturale sono vissute come ostacoli alla creazione di relazioni di fiducia, allo sviluppo dell’autoefficacia del paziente, al rafforzamento dell’aderenza terapeutica e della compliance. L’introduzione della figura del mediatore culturale ha permesso di creare un ponte comunicativo fondamentale alla realizzazione di cure olistiche, individualizzate e salutogeniche. La cura e l’assistenza infermieristica ai rifugiati richiedono abilità che non possono essere limitate in linee guida predefinite: la complessità del fenomeno pone i sanitari di fronte alla necessità di apprendere e attuare competenze interculturali che considerino una moltitudine di buone pratiche di cura e che permettano un lavoro interdisciplinare. La creazione e la presenza a ogni turno di una figura quale infermiere specializzato in questo ambito permetterebbe di applicare in maniera esemplare, tra le altre competenze, i ruoli SUP. KEY WORDS: “Refugees”;; “Transcultural nursing”;; “Migration”;; “Trauma disease”;; “Human rights”;; “Migrant”;; “Nurse”;; “Nursing”.

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SOMMARIO

ABSTRACT ............................................................................................................................................................ BACKGROUND ................................................................................................................................................. SCOPO .............................................................................................................................................................. METODOLOGIA ................................................................................................................................................ RISULTATI E CONCLUSIONI ........................................................................................................................... KEY WORDS .....................................................................................................................................................

INTRODUZIONE .................................................................................................................................................. 1 Tema e contesto di ricerca ............................................................................................................................ 1 Motivazione .................................................................................................................................................... 1 Domanda di ricerca e obiettivi di studio ...................................................................................................... 2 Sintesi delle tematiche .................................................................................................................................. 3

METODOLOGIA .................................................................................................................................................. 4

QUADRO TEORICO ............................................................................................................................................ 6 Fenomeno: migrazione come esperienza di frontiera ................................................................................ 6 Principi etico-­giuridici ................................................................................................................................... 9 Cultura: salute, malattia e trauma .............................................................................................................. 10 Le competenze transculturali ..................................................................................................................... 17 La comunicazione interculturale ................................................................................................................ 19 Nursing transculturale ................................................................................................................................. 20 Mediazione interculturale ............................................................................................................................ 22

ANALISI DELLE INTERVISTE .......................................................................................................................... 23 Conoscenza della persona .......................................................................................................................... 23 Accoglienza e assistenza infermieristica .................................................................................................. 25 Problematiche .............................................................................................................................................. 27 Strategie di risoluzione dei problemi ......................................................................................................... 30

DISCUSSIONE ................................................................................................................................................... 33

LIMITI E OSTACOLI RELATIVI ALLO STUDIO ............................................................................................... 37

CORRELAZIONI CON IL FUTURO RUOLO PROFESSIONALE ..................................................................... 38

CONCLUSIONE E CONSIDERAZIONI PERSONALI ....................................................................................... 39

BIBLIOGRAFIA, SITOGRAFIA E MATERIALE GRIGIO .................................................................................. 43

RINGRAZIAMENTI ............................................................................................................................................ 50

ALLEGATI .......................................................................................................................................................... 51 Quadro teorico di approfondimento .......................................................................................................... 51 Allegato immagine 1 .................................................................................................................................. 52 Allegato immagine 2 .................................................................................................................................. 53 Allegato immagine 3 .................................................................................................................................. 54

Metodologia di approfondimento ............................................................................................................... 58 Consenso informato .................................................................................................................................... 61 Griglia di intervista ...................................................................................................................................... 62 Interviste integrali ........................................................................................................................................ 64 Intervista n°1 ............................................................................................................................................. 64 Intervista n°2 ............................................................................................................................................. 70 Intervista n°3 ............................................................................................................................................. 73 Intervista n°4 ............................................................................................................................................. 77

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A mio fratello Danijel, cuore delicato,

cittadino del mondo, che questo lavoro sia per te una testimonianza,

traccia che ti lascio del senso di una vita.

A voi, viaggiatori. Non tutto finisce. Qualcosa rimane. Io intanto credo di essermi persa. Sempre che sia possibile perdersi quando non si sa dove andare. Ma ci incontreremo e insieme danzeremo sotto le stelle. Perderci e ritrovarci sarà il nostro divenire.

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“È un’evidenza assoluta: se il cuore si ferma, la vita muore. Ma il cuore che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita pur essendo al centro della nostra vita. Non dovremmo allora vedere nel carattere autonomo di questo battito un primo volto, il più prossimo, dello straniero? (…) La potenza autonoma della vita non è forse sempre in parte straniera a sé stessa?” L’eccesso della vita può far paura, non si riesce a governare. lo straniero non è dunque altro che un battito che non contempla padroni (Recalcati, 2017). E mentre “il viaggiare per profitto viene incoraggiato;; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di ‘immigrati illegali’ e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di ‘migranti economici’ finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli” (Bauman, 2011).

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INTRODUZIONE Tema e contesto di ricerca “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla” (Luther King, n.d.). Il tema che intendo trattare nel mio lavoro di Bachelor per il corso di Laurea in Cure Infermieristiche (SUPSI) riguarda l’approccio infermieristico al rifugiato e al richiedente l’Asilo in ospedale, attraverso una messa a fuoco dell’accoglienza dell’utente adulto con passato migratorio (volontario o obbligato). Sarà mio compito, in questo lavoro di ricerca qualitativa, approfondire e indagare dati statistici, fenomenologici, strategie e interventi (interviste) per far fronte alle situazioni quotidiane, e dati oggettivi inerenti questa tematica, oggi molto presente e in continua espansione. Mio intento è quello di comprendere le dinamiche relazionali e assistenziali che si creano durante il ricovero di un paziente rifugiato attraverso lo sguardo dei curanti: i limiti e le barriere interculturali, le difficoltà incontrare, le risorse, i mezzi utilizzati e le competenze applicate, i miglioramenti necessari, i bisogni dei curanti e i bisogni dei pazienti rifugiati secondo l’opinione dei curanti. Questo lavoro mostrerà da una parte una visione delle problematiche che si riscontrano nell’accoglienza del rifugiato in uno degli ospedali del territorio (interviste a 4 infermieri) e dall’altra illustrerà, nel quadro teorico, strumenti e strategie per favorire la relazione di cura tra curante e curato migrante, indagando anche aspetti teorici paralleli ma importanti inerenti la tematica. Riflettere sui bisogni e doveri assistenziali significa per me dare importanza al percorso migratorio svolto dai soggetti rifugiati: dare spazio alle esperienze, alle emozioni, alle culture, alle storie e alle diversità. La realtà complessa contemporanea pone inevitabilmente il curante a confrontarsi con contesti interculturali caratterizzati da diversità e cambiamenti, allontanandosi dalla standardizzazione clinica di azioni pratiche. Il mio lavoro si rivolge agli infermieri che per professione si prendono cura e che quotidianamente si trovano confrontati con situazioni che interessano utenti migranti, più particolarmente rifugiati. La fascia d’età che ho deciso di trattare riguarda l’adulto che viene a trovarsi ricoverato in un ospedale ticinese dopo aver intrapreso un percorso migratorio. Motivazione “Io parlo ai muri. Né a voi, né al grande Altro. Io parlo da solo. È precisamente quello che vi interessa. A voi di interpretarmi” (Lacan, n.d.). Le tematiche inerenti la migrazione, i richiedenti l’Asilo e i rifugiati sono da sempre questioni che mi toccano nel profondo. L’attualità caratterizzata da guerre e violenze non può lasciare indifferente l’essere umano. La migrazione è un evento complesso e diversificato, è un’esperienza che da sempre abita la storia umana. Sono convinta che il carattere di ogni persona venga influenzato dal cambiamento che il soggetto vive e tramite le proprie usanze, valori e abitudini, egli può trovare conforto. Con questo lavoro desidero approfondire la tematica focalizzandomi sulla presa a carico infermieristica e sulla prima accoglienza di persone che compiono un viaggio (obbligato o scelto) come metafora di vita nuova: “un po’ curanti, un po’ narratori;; curanti anche perché narratori, chiamati ad essere, volenti o nolenti, co-­narratori della storia altrui” (SUPSI, 2016). È infatti “questo stare presenti come soggetti pensanti rispetto agli eventi in cui siamo coinvolti che consente di guadagnare sapere dall’esperienza” (Luigina Mortari, s.d.). Con la stesura di questa tesi il mio intento non è solamente quello di arricchire il mio bagaglio personale, bensì anche quello di accrescere le mie conoscenze professionali in vista del lavoro che mi sto accingendo a intraprendere.

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Uno dei miei progetti sarebbe quello di lavorare in ambito di accoglienza (favorire un luogo dei legami, dell’incontro e dell’apertura, uno spazio della relazione e della compassione): luogo della cura e spazio privilegiato dell’agire e del soffrire, segnato dalla relazione. Diversi sono i valori personali e professionali che entrano in gioco nel momento d’incontro con “l’altro” (nient’altro che un “io” varcato un confine), con il “diverso”. La rilevanza infermieristica morale e umana è sicuramente grande: ognuno di noi comprende davvero sé stesso, diventa dunque davvero soggetto, quando intraprende l’esperienza con l’altro nella sua specifica alterità (Bondolfi, 2008): “La narrazione diviene nell’incontro dia-­logoi, apertura, passaggio, quel parlare attraverso le cose visibili e misurabili per aprirsi all’inatteso, a ciò che il visibile nasconde e a ciò che può ancora avvenire e accadere a volte con clamore, altre sommessamente al di qua e anche al di là dello stesso morire. Narrazione condivisa come tessitura a più mani del tappeto della nostra storia, tesa sulle ali del tempo, come diritto ad avere, a recuperare, a reinventare, proprio nel dolore o sulla soglia della perdita del sé, l’ineludibile unicità, che è depositata nella propria storia di vita” (Martignoni, n.d.). Come la maggior parte dei migranti, i rifugiati non devono solamente confrontarsi e “adottare” una nuova cultura, bensì devono anche confrontarsi con discriminazione e spesso razzismo. Il rifugiato deve inoltre affrontare una perdita a lungo termine dei legami con il Paese di origine;; i membri della famiglia sono spesso assenti e questo causa un’ulteriore perdita del supporto sociale. Da ultimo, i richiedenti l’Asilo spesso si trovano a vivere (per periodi più o meno lunghi) in strutture lontane dai centri urbani e l’assenza di un lavoro porta al sentimento di inutilità (Rohlof, Kleber, & et al., 2009). Cosa possiamo fare? Cosa dovremmo fare? Cosa dobbiamo fare? Abbiamo l’obbligo di aprire i nostri cuori ai bisogni dei rifugiati. Non fare nulla va contro la natura e la filosofia di professionista (Zoucha, 2015). Domanda di ricerca e obiettivi di studio Per poter svolgere un’accurata ricerca scientifica è stato mio compito chiarire quello che avrei voluto ricercare e approfondire. In questo lavoro il punto focale è traducibile nella seguente domanda di ricerca: In che modo l’infermiere si approccia al rifugiato in ospedale? Quali le attitudini, quale la presa a carico, quali i bisogni a cui deve rispondere e come vi risponde, quali le difficoltà e i limiti incontrati e quali i miglioramenti ancora necessari? Per questo lavoro sono stati inoltre prefissati i seguenti obiettivi:

• conoscere e riconoscere le problematiche che più frequentemente l’operatore riscontra nell’incontro con il rifugiato in ospedale. Conoscenza anche, dunque, della persona curante: dai contenuti emotivi ai contenuti pratici.

• Individuare delle strategie e degli interventi efficaci per la presa a carico del paziente che si trova a vivere una nuova realtà culturale.

• Sviluppare la capacità critica nell’affrontare un tema di rilevanza etica con risvolto pratico (pregiudizi, stereotipi, ecc.).

• Sviluppare competenze per la presa a carico olistica del paziente con percorso migratorio. Per la redazione del quadro teorico sono stati utilizzati libri, materiale accademico e sono state consultate alcune banche dati tra cui: PubMed, Google Scholar e Cochrane Library. Alcune Keywords utilizzate: “Refugees”, “Transcultural nursing”, “Migration”, “Trauma disease”, “Human rights”, “Migrant”, “Nurse”, “Nursing”. Al termine della ricerca di materiale è stato necessario rimuovere la documentazione non pertinente o eccessiva, limitando così il rischio di accumulare dati che di per sé non parlano.

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Sintesi delle tematiche Fenomeno: migrazione come esperienza di frontiera La Svizzera è divenuta una società pluralista (principio del pluralismo culturale inteso come mezzo concreto per vivere l’integrazione, per riconoscere a ciascuno il proprio posto e per promuovere la corresponsabilità di tutti) e la diversità delle popolazioni ne è la prova. Principi etico-­giuridici Nell’Art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nell’Art.11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, viene riconosciuto il diritto di ogni individuo a un livello di vita adeguato (diritto a un minimo esistenziale che soddisfi i bisogni materiali elementari dell’essere umano: alimentazione, vestiario, alloggio e cure mediche di base) (DFAE, 2016). Il bene del paziente (beneficenza) rimane il principio cardine dell’azione e relazione medica. L’opinione del paziente assume uno statuto imprescindibile, riconoscendogli così il principio di autonomia decisionale (Bernardo & Malacrida, 2011). Cultura: salute e malattia e trauma La migrazione può essere considerata già di per sé come un evento critico rispetto allo stato di salute poiché rappresenta una rottura biografica radicale di tutte le sfere della vita;; vi è un necessario ri-­orientamento sociale e culturale che presuppone l’esistenza di numerose conoscenze pratiche. Il flusso migratorio internazionale è un fenomeno in continua evoluzione e la mobilità mondiale subirà molto probabilmente un’intensificazione importante nei prossimi decenni: un fattore di attenzione particolare per l’operatore sanitario diventa quindi lo stato di salute delle persone di origine straniera che risulta essere inferiore rispetto agli svizzeri (F. Althaus, S. Paroz, et al., 2010). Le Competenze transculturali Queste competenze possono essere considerate modelli mentali, rappresentazioni della realtà, costrutti storici, sociali e culturali. Sviluppare delle competenze significa anche mettersi in un processo reciproco di narrazione con l’altro (portatore di un’esperienza culturale), favorendo l’emergere di un sapere (Soldati & Crescini, 2006). La comunicazione interculturale La comunicazione interculturale permette di vedere oltre al “già atteso”, oltre al familiare. Attraverso lo scambio possono avvenire conoscenze e diversità di sguardi. In considerazione del fenomeno migratorio in costante aumento questo tipo di comunicazione permette una presa a carico olistica della persona. Nursing transculturale Tramite un approccio olistico (atteggiamenti pratici e mentali) il transcultural Nursing, promosso da Leininger, prevede che gli infermieri riconoscano e accettino la presenza di differenti culture: ogni individuo pone un proprio significato ai termini di salute e malattia anche tramite l’influenza che la propria cultura ha sul pensiero soggettivo di ognuno di noi (Esposito & Vezzarini, 2011). Le conoscenze transculturali permettono di acquisire abilità capaci di portare al riconoscimento dei bisogni dei pazienti provenienti da altri culture (Maieri-­Lorentz, 2008). Mediazione interculturale La mediazione interculturale rappresenta e costituisce un dispositivo operativo reale nel quale viene elaborata una risposta a una domanda di aiuto (del curante e/o del curato). Permette di limitare il rischio di ridurre i comportamenti e le parole dell’ ”altro culturale” ai nostri modelli di pensiero: “creare uno spazio di mediazione permette di considerare altre parole, altre eziologie, altre genesi del malessere” (Soldati & Crescini, 2006).

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METODOLOGIA Al fine di pianificare il progetto di ricerca si è reso necessario definire un metodo di ricerca che permettesse di guidare l’approfondimento e la stesura di questo elaborato. Ho scelto di utilizzare il metodo qualitativo (esplorare, descrivere, spiegare e approfondire un fenomeno) poiché ritenuto più idoneo ad indagare esperienze soggettive (Polit & Beck, 2014) seppur in riferimento a dati concreti: mi sono occupata di creare e definire lo strumento di raccolta dati, raccogliere i dati, analizzarli e derivarne delle conclusioni. Le interviste sono state effettuate facendo riferimento a una griglia (allegata) basata su tematiche principali e approfondite tramite sotto-­domande che hanno costituito delle ipotesi orientative (interviste non standardizzate). La documentazione riguardante questa tematica nella realtà ospedaliera ticinese è limitata, trattandosi di un fenomeno ancora poco conosciuto e complesso è risultato difficile porre domande precise (ho utilizzato sia di domande strutturate ma soprattutto domande aperte finalizzate al tema di indagine: predisposizione migliore dell’intervistato che non si sente costretto in logiche costruite). Le domande sono state strettamente funzionali agli obiettivi di indagine consentendo una triangolazione della complessità culturale, cognitiva, valoriale dell’intervistato (Palumbo & Garbarino, 2004). L’indagine retrospettiva basata su narrazioni mi ha permesso di esplorare, descrivere e approfondire i vissuti del campione. All’interno della mia indagine discorsiva vi è stata una riformulazione, una esplicitazione e una teorizzazione di testimonianze (Paillé & Mucchielli, 2005). L’intervista di ricerca è stata intesa come tecnica avente l’obiettivo di ottenere informazioni (opinioni, comportamenti, ecc.) rilevanti rispetto agli obiettivi di ricerca;; scopo non è stato quello di valutare o modificare le posizioni degli intervistati. L’intervista è stata utilizzata come processo di comunicazione interpersonale inscritto in un determinato contesto storico, sociale e culturale (inizialmente tramite creazione di un canovaccio/ schema dell’intervista) (Gianturco, 2005). Nigris ha proposto uno schema concettuale evocativo utile per costruire il disegno di ricerca: utilizzo di una logica emic (rispettosa dei punti di vista dell’attore sociale intervistato) con risultati anche etic (matriciale) (Nigris, 2001). Ha fatto seguito un approccio critico-­costruttivista: un approccio critico (influenze reciproche) e interattivo (al centro l’intervistato ed il fenomeno intervista) hanno fatto da filo conduttore al mio operato (Nigris, 2001). La mia tesi è stata guidata parallelamente da un’analisi di letteratura e questo mi ha permesso di basarmi sia su dati (ricerca) che su teoria (in sede di ricerca empirica). Il mio lavoro ha interrogato l’esperienza degli infermieri nell’accoglienza del rifugiato (attività, presa a carico, interazioni, processi e fattori costituenti determinate situazioni, ecc.), cercando di guardare attraverso gli occhi delle persone oggetto di studio e dando ampio spazio alla prospettiva dei soggetti (exotopia 1 ). Ho tenuto conto, durante la stesura del lavoro, del relativismo culturale 2 che caratterizza (più o meno) ognuno di noi, il pensiero che assume la possibilità di conoscere il punto di vista altrui sospendendo il giudizio nei confronti di altre culture. Nelle epoche la società ha definito in modo particolare l’altro: il modello interculturale si occupa di fare un passo verso l’altro per comprendere il nostro modo di guardare (Soldati & Crescini, 2006). Partendo da domande sulla realtà ho ricercato risposte a domande di tipo conoscitivo (Gianturco, 2005).

1 Comprendere, accettare e valorizzare il fatto che “l’altro“ non è uguale a noi (Schultz & Lavenda, 2010). 2 Ciò che il relativismo culturale scoraggia è la facile soluzione di respingere fin dal principio le alternative (Schultz & Lavenda, 2010).

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L’approccio che ha accompagnato la redazione del mio elaborato è stato di tipo induttivo, seguito successivamente da un’analisi in cui sono stati organizzati, analizzati e interpretati i dati delle interviste, in maniera tale da poter arrivare a stendere il rapporto di ricerca (trasformazione delle informazioni in dati: legame tra teoria e obiettivi cognitivi del ricercatore) (Burnard, Gill, & et al., 2008). Perché l’intervista. “È uno strumento che consente la raccolta di informazioni direttamente dall’oggetto di indagine attivando un processo di interazione fra un soggetto e un altro. L’intervistato, sottoposto a determinati stimoli (domande), fornisce determinate dichiarazioni in parte su schemi programmati, in parte libere, da cui l’intervistatore trae informazioni necessarie per la ricerca” (Palumbo & Garbarino, 2004). Disegno di ricerca. 5 fasi di lavoro: definizione del problema, piano del lavoro (parallelamente alla raccolta dati), analisi dei dati, validazione e rapporto finale di ricerca. Il piano di indagine non è stato stabilito completamente prima dell’inizio dello studio, ma è emerso e si è sviluppato di pari passo con la raccolta dei dati. Vi è stato un disegno di massima che ha tenuto in considerazione le questioni che sono state risolte in ogni circostanza concreta della ricerca (Gianturco, 2005). La tipologia di intervista è stata di tipo semi-­strutturata/ standardizzata non programmata e focalizzata (due soggetti in relazione). Tutte le interviste (svolte in due giornate separate) sono state da me registrate (previa autorizzazione dell’intervistato) mediante registratore portatile e sono state successivamente trascritte (completamente o in parte). Contesto di ricerca. Medicina 1 OBV, ufficio della capo reparto, durata approssimativa dell’intervista di 30 minuti. Partecipanti e campionamento. Il campione costituito da 4 infermiere donne (con durata di esperienza lavorativa differente) è stato randomizzato e scelto mediante autoselezione, identificato mediante sigle per mantenere l’anonimato: infermiere scelte nel momento in cui mi sono trovata in reparto (nessun preavviso, due rifiuti). Bias. Un alto livello di generalità di un item aperto significa scarsa significatività delle risposte, con conseguente pericolo di multidimensionalità (Palumbo & Garbarino, 2004). Svantaggi. Tra i vari limiti è importante considerare che l’informazione prodotta nella relazione tra intervistatore e intervistato dipende molto dalle caratteristiche e dal modo di porsi dei soggetti che sono in interazione. Inoltre l’intervista può risentire dell’assenza di osservazione diretta degli scenari in cui si sviluppa l’azione che viene ricordata e trasmessa dall’intervistato (Gianturco, 2005).

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QUADRO TEORICO Fenomeno: migrazione come esperienza di frontiera L’immigrato nel momento in cui arriva nel paese ospitante viene lasciato spesso in balia di sé stesso a gestire le contraddizioni e gli interrogativi che gli si presentano. Giunge con speranze e fiducia, si ritrova tuttavia ben presto a dover combattere contro una realtà che non conosce. È al momento dell’arrivo nella terra ospitante che prende avvio il fenomeno dell’acculturazione, che non è da confondere con quello di assimilazione o idealizzazione: si tratta di un processo che richiede sforzi da entrambe le culture (Nigris, 2001), una nuova configurazione psico-­socio-­culturale (interculturalismo), un accento sulla relazione dialogica, uno scambio, un dialogo senza esclusione del conflitto (in termini di confronto autentico e aperto). L’integrazione non suppone un’adesione completa delle popolazioni migranti alle norme e ai costumi della società di accoglienza, bensì riconosce il posto che il migrante occupa nell’economia, nel quadro sociale e/o culturale, conservando l’identità di origine, il modo di vivere e le peculiarità di ogni soggetto (FIMM, n.d.). La migrazione è un fenomeno che presuppone la necessità, da parte della comunità locale, di orientare il futuro della convivenza fra culture differenti;; è un fenomeno che sconvolge i paradigmi ponendo gli individui di fronte a diversità irriducibili. Questo può provocare la perdita dell’identità tradizionale e un conseguente sentimento di insicurezza, fattore che potrebbe limitare una comunicazione interculturale (Soldati & Crescini, 2006). Varie possono essere le conseguenze delle migrazioni (Guerci & et al., n.d.):

-­ Demografiche: spopolamento di alcune regioni e sovrappopolamento di altre (es. bidonville).

-­ Economiche: la presenza di immigrati influenza il livello di salari, la disponibilità di alloggi, i prezzi dei prodotti sul mercato, ecc.

-­ Sociali e culturali: confronto tra usi e costumi diversi, possibili conflitti, fenomeni di discriminazione e di razzismo.

-­ Politiche: la gestione di una località, di una regione, di un Paese dipende dall’integrazione degli immigrati e dal rispetto reciproco delle differenze.

-­ Ecologiche: presenza massiccia temporanea di turismo. La Svizzera è stata, fino alla fine del XIX, un Paese d’emigrazione. La caratteristica del nostro Stato federale di essere composto da una comunità di persone di lingue e culture diverse, le ha permesso di diventare un Paese di accoglienza dei flussi migratori. Oggi si assiste a un calo della domanda di Asilo rispetto agli anni passati (prevalenza della domanda da parte di: Eritrea, Somalia, Afghanistan, Siria, Sri Lanka, Iraq e Turchia). Questo fenomeno è conseguente, prevalentemente, agli interventi attuati dall’UE sulle tratte migratorie (diminuzione delle tratte dalla Libia a Lampedusa, sostegno fornito alla Libia, Niger e Ciad per un miglior controllo alle frontiere) (DFGP, 2016). Più di 214 milioni di persone vivono oggi fuori dal loro Paese d’origine;; i motivi dell’abbandono possono essere differenti: conflitti, catastrofi naturali, persecuzioni politiche, povertà, discriminazioni, ecc. (DFGP, 2016). Nel mondo 65.6 milioni di persone (a fine 2016) hanno forzatamente dovuto abbandonare la loro casa a causa di conflitti e persecuzioni (UNHCR, 2018). Fattore da tenere in considerazione è che con l’arrivo di individui giovani il processo di invecchiamento della popolazione rallenta, mentre si eleva il tasso di natalità. Inoltre, secondo il “Bureau international du travail” (BIT), il numero di migranti attivi economicamente rappresenta il 90% del numero totale di migranti internazionali (Alexis Gabadinho, Philippe Wanner, & Janine Dahinden, 2007).

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Secondo il rapporto sulla migrazione (2016) la popolazione è aumentata di 60’262 persone (immigrate): 27'207 persone hanno presentato domanda d’Asilo in Svizzera, 5’985 persone hanno ottenuto l’Asilo, 7’369 sono state ammesse provvisoriamente. La Svizzera ha accolto 662 rifugiati (UFSP, 2017a). In Ticino, nel 2016, su un totale di 354'375 persone, 99'547 (28.1%) erano stranieri (di cui 46.9% donne). Quattro permessi su cinque sono stati rilasciati a persone provenienti da Stati europei (DFE, 2016). Secondo i sociologi due sono le forze emerse che interagiscono tra loro e che sono alla base della migrazione (pull and push factors): i fattori di espulsione/repulsione da un Paese (povertà, guerre, carestie, miseria, mancanza di lavoro, salari bassi, deportazioni, esilio, epidemie, mortalità infantile, problemi igienici, analfabetismo, disgregazione familiare) e i fattori di attrazione (società dei consumi, offerte di lavoro, terapie moderne, formazione, ricongiungimento familiare). La comprensione di questi fattori permette di ipotizzare il vissuto eterogeneo che caratterizza il soggetto che intraprende un viaggio migratorio (DFE, 2016). Il regolamento di Dublino stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di Asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide. Il principio di base è che lo Stato competente è quello di arrivo / primo ingresso del richiedente (Medici Senza Frontiere, 2018). Pur non essendo Stato membro UE, la Svizzera ha concluso accordi per applicare le disposizioni della Convenzione del suo territorio. Come spesso avviene in presenza di diversità inscritte in unità3 vi possono essere tensioni sul piano politico e sociale: vivere insieme significa essere cittadini insieme. È necessaria una nuova concezione della cittadinanza che associ lo Stato sociale a una democrazia integrativa, senza che la concessione dei diritti collettivi (comunitari) limiti il rafforzamento dei diritti individuali (parità dei diritti e dei doveri delle persone) (FIMM, n.d.). Due sono le concezioni estreme che si possono presentare (che limitano la crescita del Paese) e che conducono inevitabilmente alla negazione dell’altro. La prima considera il Paese d’accoglienza come pagina già scritta e stampata. Leggi, convinzioni e valori fissati e stereotipati, necessaria conformazione dei migranti (“inter nos” minacciato dalla presenza degli stranieri). La seconda vede il Paese d’accoglienza come pagina bianca, territorio selvaggio sul quale chiunque può insediarsi senza nulla cambiare delle proprie abitudini, con il conseguente rischio di una reazione di difesa da parte del Paese d’accoglienza (FIMM, n.d.). Lo stato di salute risulta essere determinante nel processo di integrazione, mentre fattori quali l’isolamento, la precarietà e l’insicurezza economica, le barriere linguistiche e culturali, possono provocare problemi di salute (IOM, 2015). L’isolamento e l’assenza di una rete amicale o familiare, lo stile di vita differente, il mutare delle abitudini alimentari, l’assenza di luoghi privati in cui intrattenere rapporti affettivi o sessuali, la nostalgia del proprio Paese e dei propri affetti, lo spostamento, l’incertezza del futuro e la precarietà, sono tutti fattori che originano indeterminatezza, mancanza di identità, senso di inutilità e mancanza di senso del proprio esistere (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). Secondo quanto proposto dall’associazione Appartenances (1992) i migranti sono, per natura e per circostanze, esseri vulnerabili;; nella maggior parte dei casi la migrazione rappresenta una crisi nella vita individuale e la sofferenza che ne deriva non dovrebbe essere considerata come malattia o come condizione patologica (Jonckhere & Bercher, 2003).

3 Il concetto di Superdiversity di Vertovec pone l’accento sulla diversità nella diversità: convivere in maniera costruttiva (SUPSI, 2016).

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Le crisi migratorie possono avere un risvolto favorevole o sfavorevole;; tuttavia si tratta in ogni caso di un’occasione per scoprire nuove possibilità di sviluppo. Diventa indispensabile trovare strategie atte a migliorare la qualità dell’inserimento così da soddisfare meglio le necessità assistenziali. In questo modo si può ridurre il senso di isolamento sociale che spesso risulta essere causa del grave disagio (Aletto & Di Leo, 2003). Il viaggio è un tassello di realtà da tenere in considerazione se si vuole avere una visione globale e olistica della situazione e se si vuole, in quanto professionisti, attuare una presa a carico competente e transculturale. Sempre più spesso i mass media riportano notizie su gruppi di migranti che, in procinto di attraversare i confini, si trovano accampati alle stazioni ferroviarie o nei centri città. Le condizioni di vita non sono favorevoli: assenza di elettricità, igiene ridotta, sgombri forzati, ostacoli all’accesso alle cure, marginalità sociale. Dati preoccupanti mostrano come dalla fine del 2016, più di 20 persone sono morte nel tentativo di varcare le frontiere per arrivare in Francia, Svizzera o Austria. Programmi di accoglienza sono stati creati per favorire il fenomeno dell’alleggerimento delle frontiere, fornendo anche aiuti psicologici di base (Medici Senza Frontiere, 2018). La creazione di uno spazio di libertà, sicurezza, di uguaglianza e di solidarietà, nonché il rafforzamento dei principi di democrazia e dello stato di diritto, sono fattori che permettono la creazione di un’Europa inclusiva e non refrattaria nei confronti delle popolazioni migranti: un superamento dunque dell’orientamento securitario che ha il solo obiettivo di tutelare le frontiere degli Stati arginando i flussi migratori e rendendo difficili i processi di integrazione (Sabatino, n.d.). È importante specificare alcuni termini: Migrante: secondo l’UNESCO, individuo che vive temporaneamente o permanentemente in un Paese nel quale non è nato ma con il quale ha acquisito importanti legami sociali. In maniera più generale si può definire migrante colui che si trova in un processo di movimento geografico. I problemi psicologici sono spesso legati al fenomeno della transculturazione (dover affrontare paradigmi e significati diversi, dilemma se restare fedeli alla propria cultura o adattarsi a quella nuova): soggetti e individualità all’interno di ogni cultura (Nicolas, Wheatley, & Guillaume, 2015). I motivi dello spostamento possono essere molti. La migrazione può dunque essere (Papadopoulos, Shea, Taylor, Pezzella, & Foley, 2016): forzata, economica, climatica. Le migrazioni sono costruzioni sociali complesse in cui agiscono tre principali attori: le società di origine, i migranti attuali e potenziali, le società riceventi (Bertini, Pezzoli, & Solcà, 2018). Attenzione particolare viene data alle risorse messe in campo: culturali-­tradizionali (derivate da processi di apprendimento, utili per l’inserimento), apprese (derivanti da processi di apprendimento collettivi in situazioni di emigrazione), istituzionali (si concretizzano con regole, agenzie più o meno formali) (Nicolas et al., 2015). Richiedente l’Asilo: individuo che pone una domanda di statuto di rifugiato. In Svizzera beneficia di una cassa malati di base (i Cantoni sono liberi di limitarne la scelta). Dopo la domanda di Asilo, l’Ufficio federale di migrazione può decidere una “Non Entrata in Materia” (NEM) qualora non esistessero prove sufficienti per giustificare una domanda di Asilo. Rimane comunque la possibilità di accedere alle cure d’urgenza. Respingendo la domanda d’Asilo si costituisce comunque un rischio per la popolazione respinta di entrare nell’illegalità (SEM, 2017). Rifugiato: secondo la Legge sull’Asilo e in conformità con la Convenzione internazionale relativa allo statuto di rifugiati adottata dall’ONU il 29 luglio 1951 (e completata dal protocollo del 1967), il rifugiato è colui che nel Paese d’origine è esposto a seri pregiudizi (religione, nazionalità, ecc.), a pericoli per la vita, per l’integrità corporale o per la libertà. È particolarmente importante ricordare il principio di non-­respingimento.

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In Svizzera il rifugiato beneficia della cassa malati ed è inserito nello stesso sistema degli svizzeri (DFAE, 2016). I rifugiati sono considerati sopravvissuti, spinti dalla forza e dalla resilienza ad andare avanti;; rimangono tuttavia portatori di esperienze di violenza, paura, privazione e perdita (tutti potenziali fattori di rischio per sviluppare problemi di salute mentale) (Mental Health Guide, 2015). Multiculturalità: visione che implica l’essere consapevoli delle differenze e delle pluralità dell’identità, e che descrive una situazione già presente, la co-­esistenza nella società di diverse culture e gruppi etnici (SUPSI, 2016). Interculturalità: obiettivo a cui tendere. Visione che implica l’essere consapevoli che l’incontro delle pluralità cambia i soggetti, le culture, dove le diverse identità e alterità si influenzano. Il prerequisito è quello di riconoscere le differenze tra le persone: non significa però fare proprio il punto di vista dell’altro. L’interculturalità deve essere voluta da entrambe le parti, è un processo co-­partecipativo e co-­evolutivo (SUPSI, 2016). Principi etico-­giuridici In considerazione della presenza in Svizzera della Legge sugli stranieri (diritto degli stranieri, 2008) e della Legge sull’Asilo (diritto d’Asilo, 1999) ritengo importante considerare anche i principi di Beneficenza e non Maleficenza: fare il bene del malato affrontando il male che lo colpisce con il divieto di arrecare danno al malato (primum non nocere) (Bertini et al., 2018). Considerando che il bene è sempre relativo a un soggetto capace di valutare che cosa ha più o meno valore all’interno del piano di vita, il bene del paziente (beneficenza) rimane il principio cardine dell’azione e relazione medica. Riconoscendo il principio di autonomia decisionale, l’opinione del paziente assume così uno statuto imprescindibile (Bernardo & Malacrida, 2011). Fin dal 1945 l’ONU si prefigge di “promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, sesso o religione” (art.1 n.3). Sviluppo e diritti umani sono inseparabili: lo sviluppo economico e sociale è durevole se sono date le necessarie condizioni quadro giuridiche e politiche (es.: buona gestione del governo4). Molto spesso vi è un nesso tra flussi migratori internazionali e diritti umani: la violazione di questi diritti è una delle principali cause delle migrazioni forzate ed è quindi necessario riconoscere che queste persone dipendono dall’aiuto e dalla protezione internazionale (DFAE, 2016). Secondo l’art. 2 del Codice Deontologico degli infermieri, il curante deve agire tenendo in considerazione i valori religiosi, ideologici ed etici, la cultura e il sesso dell’individuo. Una fra le figure che ha il primo contatto con il soggetto migrante, l’infermiere si troverà a gestire anche i conflitti culturali (Mental Health Guide, 2015). Secondo l’art.2 della Legge sulla promozione della salute e il coordinamento sanitario lo Stato deve promuovere la salute di tutti i cittadini senza distinzione di condizione individuale e sociale;; per fare questo lo Stato si può avvalere della collaborazione di Comuni ed altri Enti, nonché della collaborazione di persone fisiche e giuridiche (in particolare degli operatori sanitari) (Gran Consiglio della Repubblica e Cantone Ticino, 1989). Inoltre, secondo l’art.5 della stessa legge, ogni persona ha il diritto a ricevere prestazioni sanitarie scientificamente riconosciute, secondo i principi di libertà, dignità e integrità.

4 Governance: i diritti umani sono strettamente connessi con le condizioni quadro giuridiche e politiche di uno Stato (Treccani, 2017).

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All’interno della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo vengono espressi i principi di Universalità e Solidarietà secondo i quali “tutti i bambini, tutte le donne e tutti gli uomini che vivono sulla Terra sono uguali e legali” e “nessun essere umano può essere reso illegale da una politica, un regolamento o una legge discriminatori, xenofobi o razziali” (FIMM, n.d.). A livello infermieristico lo scopo della società di Nursing Transculturale è di impegnarsi per i diritti di tutti i popoli di godere del pieno potenziale umano, al fine di raggiungere il più alto livello di salute. La società, in quanto tale, deve poter salvaguardare i diritti umani e l’assistenza sanitaria istituendo e implementando competenze interculturali. Secondo lo statuto dei diritti umani a livello sanitario vi sono dunque dei diritti universali imprescindibili per l’operatore: accesso a cure di qualità (operatori qualificati, risorse) e a fornitori di servizi culturalmente e linguisticamente competenti, informazione sul proprio stato di salute, partecipazione dei familiari o altri significativi nelle decisioni, possibilità di accettare o rifiutare le cure e di negoziare per ottenere cure culturalmente congruenti, ecc. (Miller & et al., 2008). Da ultimo, esistono oggi dei programmi che hanno come obiettivo quello di proteggere le pari opportunità: ne è esempio il programma migrazione e salute che si occupa di promuovere l’alfabetizzazione sanitaria dei migranti, le pari opportunità di accesso, la comprensione tra professionisti, la formazione5 nell’affrontare la diversità e la ricerca sui gruppi a rischio (Miller & et al., 2008). Cultura: salute, malattia e trauma Vi sono quattro pilastri fondamentali da elaborare per affrontare l’incontro con l’altro: superamento della barriera linguistico-­culturale (ricorso e utilizzo dei mediatori-­interpreti professionisti), individuazione e superamento dei propri pregiudizi e stereotipi (comunicazione interculturale), comprensione socio-­antropologica (contestualizzazione nel tempo e nello spazio) 6, integrazione dal punto di vista del paziente (trasmettere, ricevere e integrare la conoscenza del paziente) (Guerci & et al., n.d.). Il pensiero antropologico ed etnologico ci permette un “saper fare” segnato dalla qualità dell’incontro con l’altro, prevedendo la deterritorializzazione dell’Occidente: sfida a non ridurre le pratiche “altre” a irrazionali o ad arcaicizzare i suddetti fenomeni solo perché incapaci di farli rientrare nelle categorie dell’osservatore (Nicolas et al., 2015). Diventa imprescindibile, per il curante che si trova di fronte un migrante o un individuo di diversa cultura, ricorrere al principio dell’etnomedicina: capacità di relazionarsi con l’altro includendo la deterritorializzazione della propria visione. È compito di chi per mestiere si prende cura soffermarsi e concentrarsi sullo studio delle alterità7, e non delle diversità8, attraverso molteplici percorsi (Rizzi, 2002) a partire dal riconosciemnto dei determinanti della salute, fattori che influenzano lo stato di salute di un individuo o di una popolazione: il modello Europa, che si occupa di esprimere differenti livelli di esperienza mediante una serie di strati concentrici, ne è una rappresentazione (allegato immagine 1) (International Conference on Primary Health Care, Alma-­Ata, USSR, 1978).

5 Siti internet permettono di approfondire le tematiche relative alle specifiche culture (EthnoMed, 2017) 6 Antropologia intesa come un’attitudine particolare del pensiero nell’osservazione delle popolazioni, degli individui, dei comportamenti, delle scelte, degli strumenti;; modo di pensare e di guardare (Guerci & et al., n.d.). 7 Carattere di ciò che è o si presenta come “altro”. Concetto che si oppone a quello di identità (Treccani, 2017). 8 Essere diverso, non uguale né simile (Treccani, 2017).

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Il principio dell’etnomedicina permette quindi di comprendere come lo studio delle medicine tradizionali dei popoli si occupi dei procedimenti preventivi, igienici, curativi, magico-­religiosi ed empirici. In quanto curanti è importante riconoscere come da sempre l’uomo per curarsi abbia adottato differenti strategie terapeutiche in funzione delle caratteristiche esistenti, nonché delle tipologie peculiari culturali e socio-­strutturali (Guerci & et al., n.d.), e come sia facile permettere a stereotipi e pregiudizi di far parte del pensiero soggettivo. Secondo Lippmann (1922) gli stereotipi sono “stampi cognitivi che riproducono le immagini mentali delle persone, o in altre parole, i quadri mentali che abbiamo in testa”. Si tratta di semplificazioni rigide e grossolane che l’intelletto usa per ridurre la complessità del mondo esterno (suddivisione in categorie secondo concetti di somiglianza e differenza) (SUPSI, 2016). Il rapporto conoscitivo con la realtà non è diretto, bensì mediato dalle immagini mentali che, di quella realtà, ognuno si forma (identità e alterità nella pratica professionale). Le conseguenze possono riguardare una riduzione delle differenze all’interno di un gruppo (in-­group) e un ampliamento delle differenze tra i gruppi (out-­groups) (identità e alterità nella pratica professionale). In quanto esseri umani sociali non è possibile non possedere stereotipi poiché essi semplificano l’elaborazione, forniscono informazioni supplementari quando servono, difendono l’identità gruppale, aumentano le probabilità di essere accettati. È dunque necessario riconoscerli (per poi poterli rimuovere mediante distrattori mentali) evitando così di semplificare i fatti quando vanno a rappresentare gruppi e non individui, quando portano a interpretazioni errate sulla persona, distorcono potenzialmente la realtà e portano a stigmatizzazioni (SUPSI, 2016). Il rischio, se non viene elaborato e riconosciuto lo stereotipo, è quello di arrivare al pregiudizio: giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici, tendenza a considerare in modo sfavorevole le persone che appartengono a un determinato gruppo sociale (SUPSI, 2016). L’etnocentrismo è invece la tendenza umana ad avere una concezione per la quale si considera il proprio gruppo al centro di ogni cosa (tutti gli altri gruppi vengono considerati in rapporto a esso), “è un atteggiamento valutativo secondo il quale i criteri, i principi, i valori, le norme della cultura di un determinato gruppo sociale, etnicamente connotato, sono considerati dai suoi membri come qualitativamente più appropriati e umanamente autentici rispetto ai costumi di altri gruppi sociali” (Treccani, s.d.). Dall’etnocentrismo culturale prende avvio il fenomeno dell’antropopoiesi che consiste nel processo culturale di costruzione degli individui, affinché diventino consoni a una determinata cultura. Per quanto riguarda la cultura occidentale ritroviamo il principio di “tessuto sociale”: tanti individui con una medesima funzione ma tante individualità. Per quanto riguarda le altre culture è possibile rifarsi invece al concetto di “sincizio sociale”: spazio biologico, condiviso (Bertini et al., 2018). Noi siamo portatori della cultura, il mondo che percepiamo e tocchiamo è culturale, il nostro corpo è l’interfaccia tra il noi e il mondo, traduce l’insieme di norme, valori e ruoli socialmente condivisi dalla comunità di appartenenza (incorporazione culturale) (SUPSI, 2016). È dunque fondamentale che i curanti applichino cure interculturali che “evidenziano una maniera di essere, un riconoscimento e un rispetto dell’altro, un approccio che necessita dialogo e ascolto, fiducia e riconoscimento.Ogni situazione di cura è una situazione antropologica, ovvero che riguarda l’uomo inserito nel suo ambiente, intessuto da ogni tipo di legame simbolico” (Duilio F. Manara, 2004). Le persone meno integrate, o che si sentono tali, pensano che nel quadro delle loro esperienze con i servizi sanitari i loro bisogni in rapporto alla loro cultura o alla loro religione non siano sufficientemente presi in considerazione (Treccani, s.d.).

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Mentre in passato si pensava che la relazione tra migrante e salute fosse accompagnata a priori da un bagaglio patologico, oggi si riconosce la difficoltà di identificare un legame causale tra migrazione e talune patologie;; essere migrante non è più considerato, a prescindere, come fattore di rischio sanitario, mentre viene riconosciuta la complessità del rapporto della combinazione di molti elementi genetici, sociali, economici, amministrativi e legati agli stili di vita (Guerci & et al., n.d.). Secondo studi condotti sulla salute delle popolazioni migranti in Svizzera, esistono fattori che influenzano lo stato di benessere (Alexis Gabadinho et al., 2007):

-­‐ Livello di integrazione: problemi di comunicazione con il personale sanitario e discriminazioni subite inducono a differenze nella qualità della presa a carico con differente impatto sulla salute (le discriminazioni subite sono sistematicamente associate a deterioramento dello stato di salute).

-­‐ Stato di salute auto-­dichiarato: le variazioni culturali non falsano questo indicatore. -­‐ Comportamenti a rischio: alimentazione, tabagismo, alcolismo, assenza di attività fisica. -­‐ Quantità e qualità delle relazioni sociali: supporto sociale come risorsa disponibile.

Come già visto l’isolamento costituisce un fattore di rischio (allegato immagine 2). Percezioni erronee che spesso prendono posto all’interno del pensiero collettivo e scarsità di dati oggettivabili alimentano i comportamenti xenofobici portando a ripercussioni negative sulla salute dei migranti: lo straniero è per la comunità una presenza da cui può scaturire il cambiamento, per tanto esso è allo stesso tempo attraente e pericoloso (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). Rispondere ai bisogni dei migranti permette di: migliorare il loro stato di salute, facilitare l’integrazione, prevenire i costi sanitari a lungo termine, favorire lo sviluppo socio-­economico e, soprattutto, proteggere la sanità pubblica e i diritti dell’uomo (Organisation internationale pour les migrations (OIM), 2013). La salute per l’immigrato è un capitale da difendere poiché rappresenta la chiave di ingresso all’emigrazione ed è una risorsa irrinunciabile per la realizzazione personale che deve perdurare nel tempo (Rizzi, 2002). Soltanto una mente e un corpo sani possono sostenere l’individuo migrante nella realizzazione degli impegni presi (verso sé stesso e verso il suo gruppo sociale) in seguito all’atto migratorio (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). Il corpo rappresenta una sorta di confine tra interno ed esterno, attraverso di esso si mostrano e occultano gli stati interni;; nel momento del ricovero il paziente viene tuttavia spogliato dei suoi abiti, diviene così oggetto medico. Mentre si ha sempre più la necessità di definire in modo scientifico l’esperienza di malattia, questo non dovrebbe essere fatto con l’incontro con il malato (sarebbe necessario dunque un superamento della logica cartesiana su cui si fonda il modello biomedico: separazione mente-­corpo): “Non si può parlare del corpo senza parlare del paziente che lo abita” (Visiolo, 2004). L’ermeneutica è il procedimento conoscitivo che permette di risalire da un segno al suo significato, condizione intrinseca di ogni atto conoscitivo (Treccani, 2017). “Far entrare il corpo nella sua totalità e complessità nella pratica sanitaria significa farlo entrare con la sua storia, significa riconoscere uno spazio narrante che richiede competenze di comprensione e di ascolto attraverso le quali creare la condivisione di un’intimità che consenta al paziente di comprendere sé stesso, una volta per tutte, come soggetto nel mondo” (Visiolo, 2004). Per il rifugiato, l’allarme per il proprio corpo, che nulla ha a che fare con il vissuto ipocondriaco, rappresenta il segnale di una concezione del soma come una macchina per lavorare e produrre in terra estranea (Santipolo, Tosini, & Tucciarone, 2004).

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Il corpo rappresenta la dialettica dell’essere e dell’avere: quando pensato è elaborato come vissuto personale, come rappresentazione di sé e di oggetto posseduto (Tortolici & Stievano, 2006). Nelle culture non occidentali (o non tecnologiche) il corpo permette di accrescere il linguaggio non verbale: l’uomo ne possiede dimestichezza e questo gli permette di conservarne l’uso anche in situazioni di sradicamento culturale. Tuttavia, nel momento del viaggio migratorio anche il linguaggio del corpo risulta essere incomprensibile (fino ad arrivare a essere catalogato secondo sindromi di una scienza che non tiene conto dell’esperienza soggettiva). Il significato di malattia rimane dunque il risultato di credenze, vissuti, diverso tra le culture (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). Ecco di seguito riportate alcune raccomandazioni del consiglio d’Europa e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità fondamentali al curante (Rizzi, 2002): Considerare gli aspetti culturali delle nozioni di salute e malattia (per curante e curato)

Valutazione della variabile degli aspetti culturali della malattia

Analizzare gli aspetti culturali dei servizi sanitari

Comunicazione interculturale

Comprendere importanza e costo dei malintesi culturali della malattia

Problemi medici, psicologici, sociali legati all’immigrazione

Valutare le differenze culturali Necessità di mediatori/interpreti specializzati in ambito sanitario

Entrare in relazione con un rifugiato è, di per sé, un’esperienza di frontiera. Richiede che l’operatore sanitario si faccia carico di ascoltare il male, soprattutto attraverso i segnali del corpo (Rizzi, 2002). É fondamentale evitare di attuare una separazione fra bisogni sanitari e contesto sociale in cui essi si determinano: “sforzandosi di procedere in prospettiva olistica secondo un approccio transculturale scevro di realtà precostituite, in cui ciò che non è esplicitato non sia necessariamente colmato dal proprio implicito culturale, in cui sia possibile un connubio tra medicina, tecnologia, antropologia, sociologia e psicologia” (Rizzi, 2002). Essere malato significa anche aumentare le dimensioni di isolamento, l’essere storico di un soggetto, così come lo stato di salute e malattia, si trova in conflitto nel momento in cui viene a modificarsi il contesto di vita: diverse sono le rappresentazioni culturali in vigore e diversi gli atteggiamenti a esse legati. Il vissuto di salute e malattia è strettamente legato al tipo di relazioni e legami che l’individuo intrattiene con la società (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). Le strutture sanitarie sono considerate estranee e l’”Io” culturale del migrante non trova riferimenti familiari;; il rischio rimane dunque quello di accettare e dipendere senza giudizio da ciò che viene offerto quale trattamento (da qui la necessità di una nuova capacità nei curanti che aiuti l’elaborazione delle nuove esperienze) (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). È dimostrato che le persone che migrano in cerca di lavoro per motivi economici, sono generalmente più in forma (fenomeno del migrante in buona salute) rispetto a coloro che migrano per altri motivi: le migrazioni sono spesso sinonimo di guerra, insicurezza, violenza estrema, tortura o persecuzione (Office fédéral de la santé publique (OFSP), 2007). Il richiedente l’Asilo arriva nel paese ospitante spesso con problemi non diagnosticati e non trattati precedentemente. La difficoltà generale data da più fattori di accesso al sistema di salute conduce rapidamente a un peggioramento dello stato di salute (Moreau-­Gruet & Luyet, 2011). La prevalenza delle problematiche tocca ambiti fisici e mentali.

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La vita del rifugiato può essere dominata da una depressione malinconica, da una mania difensiva, da un senso di rancore radicato che, qualora non venga fatto un lavoro di differenziazione della realtà dalla fantasia, può aumentare fino a diventare patologico. Gruppi terapeutici come modalità di trattamento per i rifugiati e i richiedenti l’Asilo possono essere utilizzati come strumenti per la creazione di ponti tra mondo interno e mondo esterno (Renos K. Papadopoulos, 2006). In ogni situazione di malattia fisica o psichica, il curante ha il compito di ricreare un senso di continuità del sé, e di agire una cura terapeutica volta ad attivare le risorse interiori dei curati (Renos K. Papadopoulos, 2006). Un ruolo importante nella definizione di accesso ai servizi sanitari è quello culturale: ne sono esempio i fattori spirituali e religiosi (Szajna & Ward, 2015). La malattia e il bisogno di assistenza non possono essere separati dall’individualità del soggetto, sono fatti relazionali. La salute di una persona è favorita se l’operatore parte dalla considerazione della visione del mondo soggettiva dell’utente, dei suoi modi di vita e delle sue credenze (Duilio F. Manara, 2004). L’approccio di presa a carico deve essere esteso a differenti fattori quali le condizioni pre-­migratorie, le circostanze di migrazione, le condizioni sociali, il livello di integrazione9, le procedure legali e l’attitudine generale del Paese accogliente, tenendo conto delle barriere che si possono incontrare: a livello del paziente, del curante e del sistema (F. Althaus, P. Hudelson, D. Domenig, A. R. Green, & P. Bodenmann, 2010) (allegato immagine 3). Una prospettiva per comprendere i fenomeni migratori tiene conto delle reti di relazioni che entrano in gioco nelle varie fasi del processo: maturazione della scelta di migrare, progetto migratorio, sua concretizzazione e insediamento nel nuovo contesto. Come precedentemente visto le barriere che gli ospitati incontrano sono tuttavia molteplici: linguistiche, culturali, non familiarità con l’ambiente, alfabetizzazione limitata. Spesso inoltre non esistono linee guida, ma piuttosto conoscenze tacite trasmesse da operatore a operatore;; il rischio di medicalizzazione e l’impossibilità di garantire il follow-­up sono ulteriori fattori che creano dilemmi individuali per i curanti (J. Suurmond, Rupp, Seeleman, Goosen, & Stronks, 2013). Le idee di cultura (insieme complesso che ingloba conoscenze, credenze, morale, leggi, costumi, ecc.) influenzano ancora oggi la pratica clinica con i pazienti: l’immigrato è definito come portatore di una cultura straniera e questo permette, al curante, di non essere destabilizzato sul quadro professionale. Tuttavia l’essere umano dovrebbe essere considerato come un individuo e non solamente come appartenente a una cultura o categoria;; è importante considerare che gli esseri umani sono identità complesse, che si adattano tramite interazioni sociali e che si trovano ad agire un movimento e un cambiamento perpetuo. Le competenze transculturali dell’infermiere, di cui parlerò in seguito, dovrebbero avere come obiettivo proprio quello di considerare l’essere umano nella sua individualità (Dagmar, 2016).

9 Integrarsi rappresenta una sfida in quanto si tratta di assorbire il nuovo, imparare a utilizzarlo al meglio, senza rinunciare al vecchio, che è radice e sicurezza. All’arrivo nella nostra realtà, il migrante sperimenta un conflitto: necessità di confondersi con gli altri per non sentirsi emarginato e desiderio di distinguersi per continuare a sentirsi sé stesso. Questo conflitto genera disagio, sofferenza, ma anche crescita (Ciano, 2011).

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Alcuni fattori predisponenti e facilitanti importanti che permettono l’emergenza e l’espressione soggettiva del bisogno di salute del paziente immigrato (Rizzi, 2002):

Status sociale Situazione giuridica, residenza, lavoro, abitazione, ecc.

Rete, comunità La tendenza alla somatizzazione del paziente straniero sarebbe spiegabile con la necessità di sostituire l’assenza di una cultura in comune con il terapeuta. Assenza del doppio culturale.

Appartenenza etnica e/o culturale

La conoscenza della cultura del paziente rappresenta una condizione favorevole per cominciare a stabilire una relazione di comunicazione e decodificare i sintomi somatici, psico-­somatici e psicologici.

Esistono dei fattori di vulnerabilità che è anche importante tenere in considerazione nella presa a carico del paziente immigrato (UFSP, 2017b):

-­ Vulnerabilità primarie: fattori di esposizione diretta (es.: HIV). -­ Vulnerabilità rafforzate: fattori psico-­sociali che indeboliscono le capacità di autonomia e

di autodeterminazione dei migranti (es. assenza di un’assicurazione malattia, precarietà sociale, ecc.).

Il protagonista della nostra cura è il malato: egli non dovrebbe essere considerato come oggetto o corpo inanimato, ma come soggetto di una crescita umana che dia un senso alla sofferenza, pur considerando che anche quando il dolore del corpo e dell’anima si spengono, il ricordo di ciò che è stato sofferto rimane (Borgna, 2014). Azioni, idee, percezioni ed emozioni possono essere esplorate, apprese ed eventualmente trasformate solo se ci si trova a farlo in contesti relazionali (i quali si trasformano con esse) (Formenti, 2014). La sofferenza vissuta riporta al principio di trauma, una ferita della psiche umana, un attacco al senso del sé del soggetto e alla prevedibilità del mondo, associati a un senso di impotenza, a un sentimento di inadeguatezza e alla minaccia della vita (Pezzoli, 2018). Il trauma (vissuto, assistito o ascoltato) è un evento che precede lo stress: tutti noi, in quanto esseri umani, ci troviamo nel corso della vita a dover fronteggiare esperienze traumatiche;; la reazione a queste esperienze dipende però dalla soggettività di ognuno (Pezzoli, 2018). Ciò che è certo è che i vissuti traumatici vanno a incidere sul passato, presente e futuro di chi li subisce. L’ipotesi sarebbe quella che, anche le malattie psichiche, nascano dall’incontro tra eventi e persona e dal modo in cui la persona reagisce agli stessi eventi (Stanghellini & Monti, 2009). Nel caso del viaggio traumatico di migrazione è possibile esprimere il trauma con un disturbo da stress post-­traumatico (manifestazione che ricorre nelle persone con personalità già formata e consistente in una frattura psichica che conduce a una situazione di stress) (Pezzoli, 2018). È stato stimato che il 30% dei soggetti rifugiati che hanno subito un trauma (esperienze accumulate: torture, imprigionamenti, campi di accoglienza, perdita di persone e oggetti amati, abusi e omicidi, abusi sessuali, rischio costante di perdere la vita) soffrono di DPTS10 (Buhmann, 2014). Gli individui esposti a un trauma per un lasso di tempo variabile, possono manifestare problemi psicologici quali depressione, ansia, odio, perdita del significato e della speranza, perdita del controllo degli impulsi, ecc. (Pezzoli, 2018).

10 DPTS: disturbo post traumatico da stress.

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La mediazione culturale può essere uno strumento che permette di offrire differenti interpretazioni delle modalità di espressione della sofferenza che risulta culturalmente e soggettivamente determinata (Ciano, 2011). Da qui una domanda: “Come rispettare la dignità dell’individuo se lui stesso si sente il signor Nessuno? Espulso o scappato dal proprio Paese, lontano dalle proprie origini, dalla propria famiglia, dalla propria storia” (Ciano, 2011). Secondo quando riportato da uno studio condotto all’OSC di Mendrisio, gli interventi infermieristici volti ad agire nella presa a carico del disagio psichico di un paziente migrante (riconosciuto come soggetto e non come “Signor Nessuno”) dovrebbero riguardare i seguenti punti: conoscenza della storia del Paese (comprensione del mondo del migrante diventando testimoni del migrante), dare un senso (recupero di un significato rispetto alle esperienze traumatiche), conoscenza delle pratiche culturali di cura del migrante (codici comportamentali), apprendimento di una nuova semiotica (studio di ogni tipo di segno prodotto in base a un codice accettato nell’ambito della vita sociale), prevenzione (mostrare l’accesso ai servizi), utilizzo di tecniche corporee (tocco delicato senza trascurare, ricordando che i corpi hanno subito torture o violenze, corpi feriti, manipolati), creazione di una relazione di fiducia (che non è automatica) (Ciano, 2011). Ciò che è importante per i curanti, quando si trovano a lavorare con persone che hanno vissuto un trauma, è stabilire degli obiettivi tenendo conto dei problemi (reazioni emotive, somatiche, cognitive e comportamentali) che possono subentrare conseguentemente al trauma: memoria, confusione, alterata sequenza temporale (Pezzoli, 2018). Essere curanti consapevoli di come il trauma possa impattare sulla mente e sul corpo di un individuo è fondamentale per la valutazione iniziale (fattori psico-­somatici), l’impegno e i trattamenti (Mental Health Guide, 2015):

-­ Emotività: rabbia, irritabilità, risentimento, ansia, disperazione, sintomi dissociativi. -­ Soma: affaticamento, disturbi del sonno, cefalea, lamentele somatiche, compromissione

della risposta immunitaria, esaurimento, riduzione appetito, ecc. -­ Cognitività: confusione, disorientamento, ridotta concentrazione, disturbi della memoria,

pensieri e ricordi intrusivi, preoccupazioni eccessive. -­ Comportamenti: reazioni di allarme, eccessivo livello di attività, ipervigilanza, isolamento

sociale, aumentata conflittualità nelle relazioni sociali, ecc. Spesso è il silenzio che consente di ascoltare la voce del dolore, della solitudine e della disperazione;; la parola, ma anche la semplice presenza speranzosa (parole che siano portatrici di senso e di speranza), possono aiutare ad assumere una risposta personale che consenta di riconoscere il dolore come segno di una condizione umana che non si areni nella rassegnazione, nella disperazione, nella ribellione o nella morte (Borgna, 2014). Il curante deve considerare che il dolore può cambiare profondamente l’esperienza interiore del tempo (soggettivo e vissuto). Il migrante con trascorso traumatico vive sia nel bruciante ricordo del passato sia nel futuro vissuto come ripetizione di un dolore sempre presente (Borgna, 2014). Uno studio condotto su 134 rifugiati e richiedenti l’Asilo in trattamento sanitario, provenienti per lo più da Turchia, Iran, Bosnia, Sri Lanka, Iraq e Afghanistan, ha voluto ricercare il collegamento fra trauma, difficoltà vissute e outcomes psicologici. I risultati di questo studio hanno indicato che il rapporto fra il trauma e le difficoltà di vita (con esiti psicologici) è mediato dalla difficoltà di regolazione emotiva dei rifugiati severamente traumatizzati. Una migliore comprensione dei meccanismi della disgregazione emotiva e della conseguente afflizione psicologica potrebbe dunque portare a sviluppare interventi efficaci per re-­indirizzare gli effetti psicologici dell’esperienza dei rifugiati (Nickerson & et al., 2014).

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Il trauma migratorio consiste anche nel fenomeno per cui la sofferenza della migrazione fragilizza e strappa l’involucro culturale, aggiungendo un’acculturazione secondaria nel Paese ospitante con il rischio di “non sentirsi né qua né la, in una sorta di doppia assenza”: il gruppo terapeutico, in cui viene facilitato il contro-­transfert culturale, permette il materializzarsi dell’alterità (leva terapeutica in supporto all’elaborazione psichica) (Bruni, 2014). L’identità è il centro focale: tutto viene giustificato per mantenere il proprio io, il proprio esistere, la propria storia, senza considerare che è proprio l’altro, invece, a rendere possibile l’esistenza e la consapevolezza del nostro io e della nostra esistenza (InterCulture, 2008). La cultura è interpretabile come sistema che contribuisce alla costruzione del mondo di una persona (i processi psichici esistono grazie al filtro culturale che possediamo, da qui anche la costruzione dell’identità personale) (Soldati & Crescini, 2006). Secondo Geertz “la cultura è costituita di sistemi interconnessi di segni interpretabili” (Geertz, 1998). Cultura è anche l’insieme di conoscenze e credenze, convinzioni, azioni e comportamenti, trasmessi in maniera generazionale (oltre che al patrimonio di conoscenze acquisite e maturate). La cultura può essere intesa come una prospettiva per concepire il mondo e per dare senso agli avvenimenti (la storia rileva il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi). Possedere degli schemi mentali permette di anticipare il significato di quello che può accadere, e di gestire la violenza dell’imprevisto e del non senso della sofferenza. Le culture influenzano gli esseri umani che a loro volta le influenzano (costante reciproca interazione tra cultura e mondo psichico individuale): è attraverso una cornice culturale che gli individui costruiscono le loro realtà, significati e identità;; il modello culturale contribuisce a definire le nozioni di moralità, salute, malattia e comportamento accettabile (Bertini et al., 2018). La multidisciplinarietà dell’etnopsichiatria, tramite un pensiero antropologico, investiga anche il fenomeno dell’etnocentrismo critico: condizione secondo la quale non si devono ridurre le pratiche altrui definendole irrazionali o arcaiche e dimenticando che, all’interno di qualsiasi cultura, ognuno di noi possiede la propria individualità (Guerci & et al., n.d.). La prevenzione del disagio, della malattia e della devianza condizionata dalla situazione migratoria, è favorita, come già indicato, dalla relazione che si instaura nel primo incontro con il rifugiato: far vivere un’esperienza interiore e soggettiva positiva nei primi momenti dell’incontro tra due culture è infatti fondamentale (InterCulture, 2008). La persona che si inserisce in un nuovo contesto può sviluppare un malessere a causa della duplice identità che si trova a dover vivere (Does one trauma fit all? exploring the relevance of PTSD across cultures). Il bisogno dei richiedenti l’Asilo e dei rifugiati, nelle prime fasi, di raccontare la storia del loro viaggio traumatico li aiuta a stabilire un contatto con la comunità ospitante e a ristabilire un senso di sé (Renos K. Papadopoulos, 2006) (allegato immagine 4). Le competenze transculturali “L’unico tempo per una comunità di diversi è il tempo del possibile non dominato da un progetto, ma dove si può produrre il progetto di un altro modo di convivere: il tempo della creazione di un nuovo legame sociale” (Soldati & Crescini, 2006). Le competenze cliniche transculturali sono un mezzo efficace per ridurre l’inuguaglianza in termini di accessibilità, di qualità delle prestazioni di cura e di sanità (F. Althaus, S. Paroz, et al., 2010). Il modello del Nursing transculturale e delle competenze culturali si basa su quattro costrutti: consapevolezza culturale (background e identità culturale), conoscenza culturale (significati), sensibilità culturale (cura), competenza culturale (capacità di far fronte effettivamente alla cura, considerando bisogni, credenze, ecc.) (Papadopoulos et al., 2016).

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Le competenze sono un insieme di comportamenti, conoscenze e saper fare che permettono a un professionista della salute di elargire delle cure di qualità a pazienti di origine differente (Bertini et al., 2018). Sono da intendere come una necessità di costruzione di partenariati collaborativi che promuovono programmi di salute tramite pilastri fondamentali: superamento della barriera linguistico-­culturale, individuazione e superamento dei propri pregiudizi e stereotipi, comprensione socio-­antropologica, integrazione del punto di vista del paziente (Bertini et al., 2018). Le competenze mediche, caratterizzate dal lavoro relazionale e clinico, hanno la necessità di allargarsi al fine di integrare nelle strategie d’intervento le dinamiche proprie di ogni mutamento sociale: le pratiche mediche e di cura sono così anche pratiche sociali (sofferenza sociale), politiche e culturali. Nel quadro dell’etica clinica del contesto migratorio è dunque fondamentale prendere in considerazione e aprirsi alla collaborazione e alla cooperazione interprofessionale (Rossi, s.d.). L’etica professionale presuppone che il curante non si nasconda dietro a decisioni spesso arbitrarie per giustificare la rinuncia a determinati trattamenti che sembrerebbero essenziali in contesti differenti;; diventare culturalmente competenti e operatori compassionevoli, rimane uno degli obiettivi maggiori dell’educazione infermieristica (Papadopoulos et al., 2016). Le competenze cliniche transculturali sono così un insieme di attitudini (coscienza della propria origine socio-­culturale, dei propri stereotipi e di quali siano le ripercussioni), di conoscenze (patologie frequenti, risposte farmacologiche differenti 11 ), e di savoir-­faire (competenze comunicative, identificazione di modelli esplicativi della malattia, negoziazione di un piano di trattamento, gestione dei conflitti, identificazione comune dei risultati) che permettono di praticare cure di qualità a pazienti di origine socio-­culturale e linguistica differenti;; un approccio centrato sulla persona (F. Althaus, P. Hudelson, et al., 2010). Praticare competenze transculturali significa dunque esserci, entrare in contatto con vissuti e con condizioni di salute specifiche, riuscendo ad astenersi dal giudizio (empatia) (Croce Rossa Svizzera, s.d.). Secondo Domenig, le competenze transculturali corrispondono alla “capacità di percepire e comprendere gli individui nel loro mondo vissuto e contesto individuale e di agire in maniera adeguata” (Domenig, s.d.). Gli specialisti che attuano le competenze transculturali devono imparare ad ascoltare le storie di vita del paziente, e, con lui, esplorare in quale misura queste influenzano la risposta alla malattia (Domenig, s.d.). È necessario poter ascoltare le storie poiché sono proprio queste ad essere capaci di rivendicare l’eccezione e l’individualità: narrarle e ascoltarle fa parte della nostra possibilità di riscatto morale. Le storie non ci parlano di una massa confusa, ma di persone. Non parlano di clandestini, ma di esseri umani: liberi, affamati di felicità, terrorizzati dal destino. La libertà delle persone in fuga misura la possibilità di avere un futuro. La loro stessa esistenza misura il valore della nostra. Il viaggio che il rifugiato intraprende testimonia una profonda dignità, una resistenza all’oppressione, alla violenza terrorista o istituzionale, ai recinti, alla crudeltà gratuita, alla disperazione. Camus scriveva: “al mondo esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi”: restare quindi fedeli alla bellezza e agli oppressi (Camus, n.d). Quale modo migliore per dire quello che siamo chiamati a fare, di fronte a chi si mette in viaggio (Fontana, 2016)?

11 È importante conoscere la risposta a xenobiotici poiché spesso vi può essere una mancata o differente reazione: la variazione genetica rappresenta una sorgente di variabilità farmacocinetica (es. variazione della velocità di acetilcolina farmacocinetica) (Rizzi, 2002).

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Fondamentale, per il curante, è creare uno spazio esistenziale, luogo di esperienza di relazione con il mondo da parte di un individuo in rapporto con l’ambiente;; lo spazio diviene, per il luogo, importante come la parola quando è parlata. Il racconto permette quindi di trasformare luoghi in spazi, riconoscendo l’esistenza di un “non luogo”, esperienza essenziale di ogni esistenza sociale (Soldati & Crescini, 2006). Sviluppare queste competenze e avvicinarsi al tema dell’accoglienza permette al curante di riflettere su sé stesso in quanto entità culturale (soggettiva e collettiva): cosa succederebbe a ognuno di noi se, migrando, non si trovasse più confrontato con le proprie tradizioni e con la propria identità culturale? La comunicazione interculturale La forte affluenza rende necessaria più che mai una comunicazione in grado di garantire una presa a carico olistica della persona, in qualunque ambito essa si trovi. La mediazione linguistico-­culturale non è traduzione, bensì vede la parola come portatrice di pensiero: solo tramite la narrazione del vissuto e la descrizione del significato vi si può accedere. La comunicazione interculturale, secondo il Consiglio d’Europa di Strasburgo (1996), permette l’interazione, lo scambio, l’eliminazione delle barriere, reciprocità e solidarietà;; permette di riconoscere i valori e le rappresentazioni simboliche di ogni individuo. L’attività narrativa all’interno di una comunicazione interculturale deve permettere la discontinuità che costituisce un aspetto essenziale delle esperienze umane (narrazioni frammentarie, confuse): gli eventi possono infatti essere stati dolorosi e difficili da riferire in maniera coerente (Mantovani, 2016). Il modello interculturale pone l’accento sulla relazione dialogica (scambio senza esclusione del conflitto): integrazione dunque non come rinuncia da parte dell’immigrato (evitamento della pretesa di superiorità del nostro mondo sugli altri). Il curante deve essere attento a non entrare nella dinamica difficile da superare del sistema chiuso “vittima-­salvatore”;; se il rifugiato viene infatti patologizzato e considerato esclusivamente vittima, è probabile che il terapeuta assuma invariabilmente il ruolo del salvatore (Mantovani, 2016). L’approccio interculturale non riguarda solamente i migranti bensì anche noi stessi, il modo in cui ci approcciamo al mondo (Mantovani, 2016). Accoglienza vista come interazione culturale, formazione di spazi in cui avvengono scambi tra forme culturali diverse. È proprio attraverso lo scambio che possono avvenire conoscenze e diversità di sguardi (sia verso sé stessi che verso gli altri), interagendo e appropriandosi del non familiare (Soldati & Crescini, 2006). Spesso l’essere umano si trova in difficoltà ad affrontare i conflitti poiché non è stato educato a ritenere che dove vi è conflitto non necessariamente c’è odio: l’uomo rischia di ricorrere all’eliminazione dei contrasti, annullando e rischiando di fermare la vita. Vi è un’alternativa alla riduzione del conflitto: la mediazione. La mediazione, vedremo, ha come presupposto la capacità di mettere in dubbio le certezze e ridimensionare gli assoluti (InterCulture, 2008). Secondo il modello di Nursing transculturale -­ progetto che ha visto la partecipazione di sei nazioni europee e che ha come obiettivo quello di sviluppare abilità per rispondere efficacemente ai bisogni di persone provenienti da differenti culture e background -­ la compassione (sensibilità e desiderio di alleviare il dolore o la sofferenza dell’altro), il coraggio e la comunicazione interculturale sono elementi fondamentali nella presa a carico del paziente migrante. Le evidenze mostrano come la compassione (con-­pati) permette di modificare la risposta cerebrale allo stress e incrementare la tolleranza al dolore (InterCulture, 2008).

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Alcuni studi mostrano inoltre come un approccio compassionevole migliori la gestione delle malattie croniche e riduca l’ansia: spesso l’infermiere o il curante si dimentica che per risolvere alcuni dilemmi di cura potrebbe essere sufficiente domandare al paziente come egli vuole essere curato (protagonista attivo della sua storia), instaurando una comunicazione e uno scambio funzionale, promuovendo la compliance (l’operatore riconosce il ruolo decisionale e operativo della persona) e l’aderenza terapeutica (coinvolgimento attivo e collaborativo della persona) (WHO, 2003). A volte è necessario soffermarsi sul fatto che la lingua costituisce il pensiero e che dunque a lingue differenti corrispondono costruzioni di pensiero e riferimenti culturali differenti. È necessario che l’operatore sanitario si soffermi dunque sul fatto che la lingua costruisce spontaneamente questo pensiero (lingua differente significa anche costruzione di pensiero e riferimenti culturali differenti): la lingua può essere intesa come prima costruzione di un’appartenenza di gruppo (Nathan, 1996). Le ricerche hanno dimostrato che i pazienti beneficiano maggiormente dei piani di cura quando vengono presi in considerazione i loro valori (religiosi, linguistici o altro) (NHS, n.d.). Nursing transculturale Promosso negli anni 1950/60 da M. Leininger, il transcultural Nursing consiste nell’assunzione da parte degli infermieri di atteggiamenti (pratici e mentali) olistici, volti al riconoscimento delle differenti culture e dei significati attribuiti ai termini di salute, malattia e cultura (Maieri-­Lorentz, 2008). Il Nursing transculturale è “più di quanto gli infermieri fanno e più di quanto gli infermieri apprendono”: è un processo creativo che ha come obiettivo l’utilizzo di conoscenze umanistiche e scientifiche, si occupa di riconoscere la prospettiva soggettiva di ogni individuo e presuppone l’utilizzo delle conoscenze etiche degli operatori sanitari. È fondamentale riscoprire i valori delle conoscenze umanistiche come parte scientifica, comprendere appieno i “lifewords” e i “lifeways” che includono le credenze culturali e spirituali, i valori morali, gli antecedenti storici con i bagagli educativi, politici, economici. Tutto questo permette di avere una prospettiva olistica del singolo e dei gruppi (Leininger, 1997). L’esperienza umana è universale ma il rapporto con essa è culturale, così come è culturale il modo in cui le esperienze si si fanno e si dicono (Soldati & Crescini, 2006). Gli infermieri sono coloro che hanno il contatto più intimo con i pazienti e sono responsabili della formulazione di piani assistenziali;; dovrebbero essere di mentalità aperta, avere un interesse positivo, nonché un sincero desiderio di apprendere altri mondi culturali. Il riconoscimento dell’alterità è il fattore che permette una pratica etnoterapeutica: è necessario introdurre l’alterità culturale nei “dispositifs de soins” (Jonckhere & Bercher, 2003). Il curante dovrebbe essere in grado di decentrare il proprio punto di vista dando ascolto allo spazio della diversità, senza lasciare che la difficoltà comunicativa lo porti a rinunciare ad esprimersi. Nell’incontro con il migrante è fondamentale non limitarsi al trattamento terapeutico concreto bensì affrontare ogni sfaccettatura dell’esperienza del rifugiato da una prospettiva terapeutica: i sintomi psichici sono spesso reazioni a situazioni che non possono essere sopportate (la perdita della casa provoca, per esempio, una disintegrazione a più livelli: individuale-­personale, familiare-­coniugale, socio-­economico / culturale-­economico). Rievocare le esperienze soggettive e intersoggettive permette di attivare un senso di coerenza e di continuità del sé, strutturando la vita psichica: testimonianza terapeutica, dunque, capace di ricreare calore (Renos K. Papadopoulos, 2006).

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Esemplare appare la seguente citazione che mostra quanto possa essere realmente poco categorizzabile il fenomeno: “Ho raccontato un po’ del mio passato: non perché lo conosciate, ma perché sappiate che non lo conoscerete mai” (Wiesel, 2009). Secondo uno studio condotto in Olanda (2007/2008) tramite questionari rivolti a fornitori di prestazioni di salute a richiedenti l’Asilo, è emerso che vi sono quattro aree che l’infermiere dovrebbe indagare nel primo contatto con un migrante (J. Suurmond et al., 2013): Valutazione delle condizioni e dei bisogni di salute nel momento dell’incontro (spesso fratture, diabete o ITA trascurati): molto tempo deve essere dedicato alla discussione dei vissuti traumatici, oltre che descrivere lo scopo delle domande poste, l’operatore deve essere sicuro che le domande vengano comprese (non come fattori giudicanti bensì come fattori di conoscenza terapeutica). Valutazione dei rischi di salute: l’operatore sanitario non utilizza linee guida ma fonda la sua indagine su categorie di rischi quali la posizione vulnerabile legata al viaggio (prima, durante e dopo, rischi di infezioni, malattie somatiche, vaccinazioni, ecc.), la storia medica e le condizioni che favoriscono la resilienza. Fornire informazioni rispetto al sistema di salute del Paese ospitante: succede spesso che il richiedente l’Asilo arrivi nel Paese ospitante con alte aspettative di salute;; è anche dunque compito del curante quello di reindirizzare le aspettative. Per fare questo è necessario tradurre le specifiche informazioni nelle differenti lingue. Fornire un’educazione terapeutica ad esempio inerente l’attività fisica, la sessualità sicura, consigli per il sonno, ecc. La scienza infermieristica è da una parte un processo di ricerca clinica e dall’altra un processo di ricostruzione di percorsi e di senso tramite le relazioni e i legami. In questi processi hanno un ruolo fondamentale la cultura, gli aspetti socio-­economici, politici e i vissuti (Ciano, 2011). I curanti che si trovano confrontati con i rifugiati ascoltano racconti inimmaginabili, carichi di brutalità e di sofferenze causate da violazioni dei diritti umani e ingiustizie. Il curante si trova così ad essere confrontato con pazienti che cercano di superare il passato, mentre allo stesso tempo sono alle prese con la pressione di adattamento, povertà ed emarginazione. Alcuni riguardi che il curante può assumere per tutelare la propria sofferenza psichica e per non sentirsi inadeguato o frustrato (spesso le storie raccontate si scontrano con l’immaginario collettivo dato dai mass media) sono: supervisioni regolari, non essere l’ultima persona ad aver ascoltato la storia di sofferenza, non essere spaventato dall’essere sciocco, banale, o portatore di risata, praticare esercizio o attività extra-­lavorativa, conoscere e riconoscere i segni precoci di burn-­out, ascoltarsi, praticare attività con significato spirituale (religione, credo, ecc.), partecipare a riunioni di reparto regolarmente (supporto reciproco), richiedere e dare feedback (Mental Health Guide, 2015). Il curante ha il compito di comprendere le spiegazioni culturali della malattia (idiomi predominanti, espressioni dei sintomi e modo di comunicare il bisogno di assistenza), il senso di gravità dei sintomi in relazione con le norme culturali di riferimento, l’appellazione locale della malattia o del sintomo utilizzato per identificare il problema, l’identità culturale dell’individuo (antropopoiesi), i fattori culturali legati all’ambiente psicosociale e al livello di funzionamento, gli elementi culturali nella relazione tra individuo e clinico (Guerci & et al., n.d.). Gli idiomi sono culturali e la cultura dà forma alla sofferenza (funzione patoplastica), ma ciò non coincide necessariamente con la funzione patogena di produzione del disturbo. I fornitori di cura possono dunque avere in alcuni casi un ruolo secondario e di supporto piuttosto che primario (etnomedicina) (Guerci & et al., n.d.).

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Mediazione interculturale Il mediatore interculturale (linguistico – culturale) permette di “far transitare il discorso espresso da una lingua ad un’altra avvalendosi della capacità di mediare la parola, il pensiero, la conoscenza, l’interazione ed il legame individuale o di gruppo tra persone di culture differenti” (Soldati & Crescini, 2006). Il mediatore permette di creare un codice condiviso traducendo non solamente il linguaggio parlato bensì ciò che esso custodisce al suo interno: la cultura (Rechsteiner, 2018). Il mediatore non ha obbligatoriamente conoscenze delle due lingue e dei valori che le informano, non è colui che traduce ma è colui che crea legami, spazi di transizione che permettono alla persona di sentirsi più vicina alle origini e offre un contenimento emotivo che permette di prendere fiato dopo molto tempo (InterCulture, 2008). L’incontro con il mediatore in ospedale porta l’infermiere a “stare in gruppo”;; questo permette di attuare pratiche di doppio ascolto di sé e dell’altro -­ necessaria capacità di restare in contatto con la propria dimensione interiore di sensazioni, emozioni, immagini, rappresentazioni e di riconoscere questa dimensione all’altro -­ e di doppio ascolto in una relazione triangolare (curanti – curati – mediatori). Entrare a far parte di un gruppo multiculturale significa anche far ritorno su di sé (mondo emotivo ed esperienziale di cui siamo portatori) (InterCulture, 2008). Al mediatore è richiesta la capacità di so-­stare nel transito continuo tra luoghi vicini e lontani (capacità di distanziarsi e osservare la propria ma anche l’altrui cultura) (Soldati & Crescini, 2006). Lo spazio di mediazione ha la facoltà di far emergere mondi culturali diversi, permettendo l’emergere di una parola: nell’incontro può avvenire il passaggio del sapere che porta, inevitabilmente, alla costruzione del senso. All’interno della mediazione etnoclinica è compito del mediatore interrogarsi su “quale sia il sistema di pensiero da cui partire per stabilire dei legami nel funzionamento psichico del paziente”, per permettere agli interlocutori di conoscere le culture reciproche. Tramite l’analisi dei saperi che emergono in questi incontri, è possibile ri-­concettualizzare i discorsi attraverso l’ascolto, comparando differenti modi di interpretare le situazioni. La figura di mediatore permette poi di diminuire il sentimento di incomprensione ed estraneità, nel momento in cui ci si trova a esistere in un luogo determinato (Siu, 2017). Quanto riportato finora permette di considerare la clinica in maniera transculturale, come spazio di riscoperta e conferma della lingua e della cultura, come luogo del legame (Soldati & Crescini, 2006). Spazio inteso quindi come recipiente attivo degli avvenimenti. La mediazione culturale (mediazione giardino), a differenza di quella sociale (mediazione casa), fa riferimento a un luogo aperto, libero dagli schemi obbligati, dove può avvenire un incontro alla pari (Siu, 2017). Questo genere di mediazione ha la capacità di ri-­creare legami, trovando un ponte comunicativo senza che la società abbia un potere decisionale in questo processo (non vi è dunque l’obbligo di ottenere risultati, come sancito sulla carta deontologica) (Soldati & Crescini, 2006). In Ticino, per fare un esempio, è stata creata l’agenzia Derman (progetto Salute nell’Ombra, progetto MayDay), che si occupa di fornire servizi quali l’interpretariato (traduzione letterale da una lingua a un’altra e mediazione culturale) e corsi di formazione continua utili agli operatori dei servizi per affrontare in maniera funzionale questo fenomeno. Vi sono tuttavia dei limiti riconosciuti da parte degli operatori di questi centri: giudizio e pregiudizio, etnocentrismo, presunzione di essere tutti uguali (questo impedisce di vedere le diversità), affettività, protocolli non traducibili, ecc. (Terreri, n.d.).

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ANALISI DELLE INTERVISTE Ho scelto di riportare in maniera descrittiva i concetti di rilevante interesse estrapolati dalle interviste integrali (allegate), avvicinandomi alle quattro aree di analisi e occupandomi di confrontare le componenti tematiche trattate con aspetti contenuti nel quadro teorico. Mi rivolgerò ai soggetti di studio con il termine “intervistato” senza applicare distinzione di genere. Conoscenza della persona L’obiettivo è conoscere la persona anche al di là della professione che svolge. Ritengo che un individuo, una volta indossato il camice, porti in reparto il proprio vissuto e agisca anche in base a esso. Le opinioni personali influenzano e possono influenzare l’operato professionale. Il professionista è pur sempre un soggetto. Diventare un infermiere Per cominciare a conoscere l’intervistato è stato importante indagare le motivazioni alla base delle scelte personali che lo hanno portato a intraprendere questa professione (il pensiero che si cela dietro alle azioni);; ho potuto constatare che i curanti hanno un’idea chiara di ciò che il loro ruolo rappresenti (non rilevato nell’intervista n. 4). Come prima scritto, nell’incontro con l’“altro” confluiscono qualità personali e professionali di ogni soggetto, non si può agire una separazione. Mi sono resa conto di come gli intervistati n. 1 e n. 3 abbiano riportato principalmente gli aspetti umani della professione (stress, giudizio, dinamicità), mentre nessuno ha citato aspetti tecnici. Per i curanti la dinamicità e il continuo bisogno di mantenersi aggiornati e pronti al cambiamento è un fattore importante della professione, un continuo divenire e apprendere. Ritengo interessante sottolineare come l’intervistato n. 3 ha posto l’attenzione sulla propria attitudine rispetto alla relazione: si è dunque preoccupato in primis dell’approccio attuato verso l’“altro”. Ritengo importante precisare che l’intervistato n. 4 ha un un’esperienza professionale di un anno (rispetto agli intervistati 1, 2, 3 che hanno rispettivamente: 24, 7 e 8 anni di esperienza). Int. 1: “sicuramente quello che secondo me ci vuole per fare questo lavoro è, vabbè, sicuramente l’impegno, l’impegno a non fermarsi mai, sia dal punto di vista della conoscenza sia dal punto di vista del cambiamento, perché non è una professione statica (…). Buona attitudine che non significa non potersi stressare ma significa trovare delle strategie che permettano di reagire nel modo corretto allo stress.” Int. 3: “proprio a livello professionale evitare di avere un giudizio verso le persone.” Int. 4: “perché mi è sempre piaciuto, prima ho fatto l’OSS e di conseguenza non avevo neanche altre idee in testa, quindi (…).” Tre termini e/o concetti che vengono alla mente pensando al rifugiato Con questa domanda ho voluto indagare l’idea che il curante ha rispetto al soggetto rifugiato. Per poter ottenere una risposta “la più spontanea possibile” è stato chiesto di rispondere di getto, senza riflettere. Ciò che è risultato è l’idea che vi è una sofferenza legata principalmente alla difficoltà del viaggio, al trauma a esso connesso e alla difficoltà linguistica che nel Paese ospite il paziente incontra. Si può notare (int. 4) come spesso termini differenti vengano resi sinonimi, a testimonianza dunque di una rappresentazione mentale errata di un fenomeno. In tutte le interviste risulta una propensione all’empatia, alla sensibilità, all’astensione dal pre-­giudizio e dai luoghi comuni. Nell’intervista 4 tuttavia è possibile riscontrare una difficoltà nel trovare le parole. Int. 1: “umanità, malattia, disperazione.”

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Int. 2: “una persona con una lingua differente, con esperienza e cultura differente, comunque ha bisogno.” Int. 3: “(…) per primo impatto mi viene di aiutarlo perché sappiamo che vengono da situazioni difficili anche di guerra, poi appunto magari vengono in condizioni anche precarie o così, senza mangiare magari da tanto tempo. (…) ehm accoglienza, perché magari spesso vediamo che non parlano italiano quindi si trovano in un luogo anche sconosciuto quindi è importante anche tutto quello che possiamo offrire noi a livello di ospedale.” Int. 4: “migrante, anche se è un sinonimo, qualcuno che è partito da lontano ed è venuto qua. Vabbè viaggio, difficoltà e mmh.. non è evidente.” Il primo contatto con il “diverso” Le differenze culturali appaiono come fattore di curiosità;; abbordare ciò che non si conosce e uscire dall’abitudine è da sempre qualche cosa che permette una crescita ma anche una messa in gioco personale e professionale rilevante: richiede energie e impegno. Appare la volontà di conoscere la storia della persona per dare un senso agli interrogativi, diventare co-­narratori della storia in divenire dell’“altro” per dare e ridare un senso e una direzione (anche alle nostre azioni). Ricominciare a tessere un nuovo pezzo di vita in una realtà nuova e sconosciuta al paziente. L’importanza di valorizzare una pianificazione delle cure pensata ad hoc con e per l’ospite in base ai suoi vissuti, alle abitudini, ai bisogni -­ permettere così l’espressione della propria persona, l’autoefficacia, rimettere il paziente nella posizione di avere il controllo della propria esistenza -­ consente di riconoscergli la facoltà di scegliere (limitata spesso a causa dell’isolamento). Avere un’esperienza all’estero (Int. 2) e trovarsi a essere il “diverso”, aiuta a non avere paura di trovarsi di fronte a situazioni nuove. Il primo intervistato propone il tema di ciò che ci è stato insegnato culturalmente (altruismo, umanità, ecc.) e di come questo tuttavia a volte può scontrarsi con l’umanità e con la soggettività che ci appartiene (pur facendo parte di una determinata cultura, noi stessi possediamo sfaccettature dettate dalle nostre credenze più intime). La problematica linguistica, già durante queste prime domande, appare come ostacolo alla creazione di un rapporto di fiducia curante-­curato. Int. 1: “rimane una cosa nuova a cui non siamo tanto abituati perché culturalmente anche se siamo abituati all’umanità, all’altro, all’altruismo, però sicuramente qualche cosa scatena in noi, qualcosa di nuovo a cui non siamo sempre abituati. Però quello che mi scatta (…) è capire e cercare di capire davvero il loro vissuto.” Int. 2: “io quando incontro il diverso sono piuttosto curiosa, spaventata no, forse dato dall’esperienza di essere stata via 6 mesi.” Int. 3: “a me provoca curiosità, comunque voler conoscere la storia anche se a volte c’è questo problema della barriera linguistica.” Medicine di altri popoli Conoscere le medicine di altri popoli, le credenze e le volontà dei soggetti permette di creare un ponte comunicativo importante. Con questa domanda ho potuto indagare quali rappresentazioni gli operatori possiedono. Chiedendo all’intervistato 4 di approfondire il concetto, mi sono resa conto dell’assenza di rappresentazione mentale di quelle che potrebbero essere le richieste proposte dai rifugiati: una mancanza esplicitata di conoscenza culturale di altri popoli. Dalle risposte risulta una volontà di agire valorizzando gli aspetti culturali dei soggetti;; tuttavia nella pratica raramente questo avviene.

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Int. 1: “sì, diciamo che loro si sono curati poco, cioè loro, queste persone che vengono, poi magari hanno anche spesso la barriera linguistica, non so, quindi è difficile indagare spesso quale era il loro passato, spesso sono giovani che non hanno mai avuto bisogno di andare dal medico.” Int. 2: “però, se è, perché non metterle in atto?” Int. 3: “il fatto di individualizzare le cure è sempre da praticare (…) compatibilmente con gli ordini che ci può dare il medico.” Int. 4: “(…) se è possibile perché no, (…) non saprei neanche cosa potrebbero chiedere.” Trascorso migratorio del curante Conoscere il vissuto del curante permette di comprendere i pensieri e le rappresentazioni che stanno a monte di determinate azioni. Vivere un’esperienza migratoria permette di diventare l’ “altro” di qualcuno. Il vissuto esperienziale di migrazione positivo o negativo influenza l’approccio interpersonale, il ricordo permette di leggere oltre le parole che un rifugiato ci riporta. Ognuno di noi è portatore di un bagaglio esperienziale e culturale che, immancabilmente, segna il nostro agire quotidiano anche nelle relazioni. Int. 1: “no. Cioè sono venuta dall’Italia a qui. Un po’ di migratorio c’è”. Int. 2: “inizialmente il mio viaggio di 6 mesi l’ho vissuto come migrazione, ero l’unica bianca quindi tutti mi guardavano”. Accoglienza e assistenza infermieristica L’incontro con l’ “altro” è anche sempre un incontro con noi stessi, con le nostre emozioni e pensieri;; ma cosa succede quando l’ “altro” è un altro “diverso”, un soggetto che si distanzia dalla normale casistica dei pazienti? L’aspetto che emerge maggiormente riguarda la difficoltà linguistica: ponte comunicativo fondamentale sia per la creazione di relazioni di fiducia sia per questioni pratiche come gli insegnamenti terapeutici o la comunicazione di diagnosi. Inoltre, cosa succede quando non solo la lingua parlata è differente, ma differente è anche il significato che viene dato al concetto di salute e malattia? L’emotività dell’operatore e le ripercussioni sulla presa a carico. Il mutamento del ruolo Anche in questo caso evidenti sono i concetti di empatia (comprendere il vissuto della persona, il perché una persona agisce in un certo modo, capacità primaria di riconoscere lo stato d’animo altrui) e di astensione del giudizio. Risulta evidente anche il concetto di messa in atto delle difese personali (retrocedere di fronte a situazioni che mettono paura) e il modo in cui, immancabilmente in quanto esseri umani, le nostre emozioni giocano un ruolo importante sulle azioni. Confrontando le interviste n. 1 e n. 3, è possibile notare che, se da un lato conoscere le sofferenze porta ad attivare un meccanismo di aiuto e ammirazione rispetto all’audacia dimostrata, dall’altro taluni comportamenti (consapevolmente causati proprio da queste sofferenze) portano inevitabilmente l’infermiere a tutelarsi, distanziandosi dalla situazione. Siamo esseri sociali e il nostro comportamento cambia in base alle situazioni e alle persone con cui ci relazioniamo. Le emozioni influenzano dunque il nostro agire, ed è proprio per questo essenziale saperle riconoscere e contestualizzare (riunioni in équipe) per riuscire a comprendere da cosa sono scaturite (esperienze di vita precedenti dell’Int. 3, vissuti, ecc.). Le emozioni che l’incontro con l’“altro” suscita, caratterizzano di conseguenza l’organizzazione pratica della presa a carico. Int. 1: “(…) l’idea di che razza di viaggio si sono fatte queste persone, perché erano nel loro Paese è lì che scatta proprio il meccanismo di sostegno e aiuto.

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È un po’ questa umanità che scatta (…). Quindi conoscere ci fa capire perché, quindi non è che non vuole capire (il paziente che scappa dalla camera di isolamento), ma è perché c’è un disagio grande.” Int. 2: “lo stato emotivo ha ripercussioni sulla presa a carico, sicuramente sì.” Int. 3: “di solito cerco di essere come il primo giorno (…) però se il paziente diventa aggressivo verbalmente e fisicamente, faccio un po’ fatica a rimanere impassibile (…) quindi tendo un po’ a retrocedere, più che altro come situazione di difesa non perché lo giudico o così.” Struttura dell’assistenza infermieristica al rifugiato Come riportato nell’intervista n. 4, non esistono focus standard;; è l’operatore che valuta la situazione e stabilisce i focus e macrofocus richiesti dalla situazione. Generalmente, come riportato dai primi tre intervistati, gli aspetti che vengono presi in considerazione sono relativi alla comunicazione e all’isolamento. Inoltre, come riportato nell’intervista n. 1, vengono indagate le problematiche fisiche (corpo malato di un soggetto già fragile). L’intervistato n. 3 pone attenzione alla presa a carico a lungo termine, considera importante conoscere la persona che ci si trova a curare tramite una raccolta dati (che dovrebbe essere fatta di prassi a tutti i pazienti ma che, come riferitomi, spesso incontra difficoltà di applicazione a causa delle barriere linguistiche), e l’aspetto inerente la dimissione (continuum delle cure). Int. 1: “(…) noi apriamo il focus ammissione, cioè la descrizione di quello che sappiamo perché molto spesso quando arrivano non abbiamo una storia (…) per esempio magari non abbiamo il nome e il cognome e la data di nascita perché purtroppo a volte non riusciamo a identificarli o loro non si fanno riconoscere. (…) poi sicuramente il focus che si lega a tutte quelle che sono le problematiche relative fisiche, poi noi ci attiviamo subito contattando la mediatrice culturale che è una figura nuova all’interno dell’ospedale (…) e ovviamente se necessario attiviamo altre figure che operano in reparto.” Int. 2: “(…) viene aperto solitamente il focus isolamento goccioline perché la maggior parte vengono ricoverati per TBC (…). Per quello che è la comunicazione c’è proprio il focus alterazione della comunicazione dove proprio lì descrivi la problematica linguistica.” Int. 3: “di solito le entrate che abbiamo noi avvengono sempre tramite PS e quindi abbiamo già una serie di indicazioni sulla problematica che potrebbe avere il paziente. Cerchiamo di fare una raccolta dati entro le 48 ore (…) capire da dove viene (…) quindi proprio capire una volta che viene dimesso se dobbiamo chiamare il centro asilanti o le guardie di confine.” Int. 4: “non ci sono focus standard.” Ospedale che accoglie Le risposte a questa domanda sono state differenti tra loro. È possibile notare come il primo intervistato si sia subito concentrato sul termine accoglienza rispetto al bisogno e al diritto di accesso ai servizi (es. sentire la famiglia nel Paese di origine). Il secondo intervistato ha puntato maggiormente sulla tematica inerente il comportamento. In entrambi i casi gli intervistati hanno riportato l’intento di agire in favore e per il bene del paziente: tenere in considerazione un corpo malato e una psiche sofferente, mettersi nei panni di, considerare la lontananza dal luogo conosciuto e chiamato casa, riconoscere e ricercare modalità di azione (e riconoscere come queste possono avere conseguenze a livello comportamentale). Tutte tematiche che ci riportano ai concetti di Nursing transculturale e competenze transculturali.

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È possibile notare una differenza di approccio tra il primo intervistato e l’ultimo: da una parte quasi automaticamente viene fatto di più e diverso rispetto a un paziente “normale”, differentemente avviene come si può evincere nell’intervista 4 secondo la quale tutti sono trattati allo stesso modo. Int. 1: “in reparto abbiamo messo questi iPad che così i ragazzi possono utilizzare internet, fare le chiamate proprio perché ci siamo resi conto che chiusi in camera, magari con la televisione solo nella lingua che non conoscevano (…) tante volte gli permettiamo di chiamare attraverso il nostro centralino in accordo con le risorse umane che almeno una volta, all’arrivo, possono parlare con il Paese di origine se hanno la possibilità.” Int. 2: “io non accetto qualunque comportamento (…) poi una domanda me la faccio del perché uno mi tratta così, probabilmente dovuto alla patologia, probabilmente è dovuto ai vissuti o a un mio atteggiamento che l’ha infastidito.” Int. 4: “il rifugiato viene trattato come una persona che vive qui, che non ha dei trascorsi, diversi trascorsi, che non fa differenze. E come non gli diamo di meno non penso abbiano bisogno di più (…) forse hanno bisogno dal lato.. non sapendo la lingua.” Priorità alla dimissione A livello infermieristico principalmente vi è il compito di trasmettere le informazioni relative al paziente alle strutture che si occuperanno della presa a carico post-­degenza, questo per garantire una continuità. Come riportato nell’intervista 4 l’operatore, prima della dimissione, si deve assicurare che il paziente abbia un luogo in cui recarsi e che, in accordo con la mediatrice o con la struttura ospitante, possa continuare eventuali cure. Tutti gli intervistati hanno trasmesso lo stesso concetto: gli infermieri non hanno il compito in questo contesto di occuparsi di quegli aspetti (psicologici e non) che non riguardano prettamente la malattia o l’immediato. Int. 1: “(…) cioè nella mia idea sarebbe bello poterli integrare. Prima della dimissione sicuramente insieme alla mediatrice viene fatto un lavoro piuttosto che tramite il centro asilanti, c’è uno scambio di informazioni.” Int. 2: “non è che facciamo molto noi”. Int. 3:” importante che la gestione venga attuata anche a lungo termine, per esempio se deve prendere dei farmaci mi assicuro che li prenda anche dopo (…) comunico per garantire la continuità.” Int. 4: “mah, sicuramente che abbia un posto dove andare.” Problematiche Attraverso questo capitolo il mio intento è quello di indagare le barriere, i limiti, le difficoltà e le preoccupazioni che accompagnano l’operato del professionista nella presa a carico del paziente rifugiato. Nelle interviste emergono fattori di difficoltà legati a differenti sistemi complessi: sanitari, di regolamentazione, giuridici. Il mio scopo è quello di far emergere alcune tematiche che gli infermieri sentono come maggiormente incisive e limitanti, dando voce a frustrazioni che accompagnano, quasi inevitabilmente, le professioni della cura e come queste, di conseguenza, si riversano sulla presa a carico. Interessante è potermi confrontare con gli intervistati domandando loro quali cambiamenti sarebbe auspicabile apportare. Problemi e barriere Barriera linguistica e differente significato dato alla situazione vissuta sono elementi riportati molte volte dagli operatori e rappresentano alcuni degli ostacoli maggiori dell’assistenza infermieristica al rifugiato.

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Malgrado i progressi in ambito di mediazione interculturale reperire fonti di sostegno (sia che si tratti di traduzione o comprensione culturale) 24/7 non è ancora possibile. L’operatore che si trova a curare una sofferenza (fisica e psichica) si confronta con l’impossibilità di comunicare con il proprio paziente, spesso oltretutto in isolamento per lunghi periodi. Difficoltà anche nella creazione di un legame di fiducia che potrebbe e dovrebbe favorire la compliance e l’aderenza terapeutica. Come riportato nella prima intervista, si presenta spesso una problematica a livello di consapevolezza della propria malattia da parte del paziente e le aspettative possono essere differenti rispetto alle modalità di cura. Vi può essere una difficoltà per il curante a ricercare una partecipazione, a permettere un auto-­sviluppo nella cura, un’auto-­gestione e autonomia del paziente nel processo di guarigione e presa a carico. Una difficoltà a comprendere se realmente un paziente stia ascoltando e recependo le spiegazioni o i consigli: può nascere una frustrazione sia per il paziente, che non riesce a comprendere, sia per l’operatore che non riesce a farsi comprendere. Un’altra problematica rilevante è quella relativa alla sfera comportamentale: aggressività, fuga e introversione (coperta sulla testa) sono comportamenti che gli infermieri intervistati hanno associato a condizioni di trauma (viaggio, isolamento). Come è possibile notare nell’intervista 2, la degenza si suddivide in tre momenti: un primo momento in cui vi è la scoperta e lo studio reciproco (distanza, curiosità), un momento in cui la conoscenza prende avvio e, infine, il momento in cui per entrambe le parti si presenta la necessità di una separazione. Nell’intervista 3 viene riportato come il paziente utilizzi gesti non verbali (gli appelli di aiuto e sostegno possono essere espressi anche in maniera implicita): questo richiede un’interpretazione dei comportamenti da parte del personale. Int. 1: “è ovvio che la barriera linguistica è un grosso problema. Quindi spesso abbiamo la necessità di coinvolgere gli interpreti tramite la mediatrice culturale per capire effettivamente quali sono i loro bisogni. (…) Tantissimi ragazzi magari con la TBC, quindi costretti in camere di isolamento magari per un mese, o anche di più, magari sottoposti ad esami impegnativi, magari invasivi, e tante volte quello che si vede dall’altra parte è un disagio perché non capisce bene che deve stare in camera, deve mettersi la mascherina, di qui di lì, magari non mangia o chiede da mangiare troppo e non può, quindi magari c’è un po’ questa difficoltà nostra di capire, magari c’è proprio un limite legato al fatto che nella loro cultura il curarsi: se sto bene io non ho niente, il fatto che non hanno sintomi per loro stanno bene quando però magari non lo stanno proprio. (…) C’è difficoltà ad entrare in relazione con queste persone (…) Abbiamo un po’ di problemi con l’interpretariato, spesso sabato e domenica (o in certi orari) non c’è. (…) Generalmente son sempre problematiche di salute poi magari scopri che ci sono problematiche comportamentali a seguire, ovvio, è capitato. (…) Noi abbiamo proprio difficoltà di indumenti, perché proprio a volte non hanno indumenti, le cose, ecc.” Int. 2: “(…) spesso sono in isolamento, ci vedono mascherati, entriamo giusto per fare quello che dobbiamo fare e usciamo, probabilmente anche per le difficoltà linguistiche. Poi secondo me il “metà percorso” è la parte migliore per entrambi, sia da parte nostra che da parte loro. Poi arriva il momento finale, se tu vuoi, dove probabilmente più da parte loro ma anche da parte nostra, spesso c’è un po’ una sofferenza a livello di non farcela più, nel senso che spesso loro iniziano ad essere anche aggressivi perché vogliono uscire, non riescono a capire il motivo del perché sono qua (…) e poi anche per noi diventa sofferente perché da una certa parte, bisogna dirlo, spesso diciamo “caspita sono qua, serviti e riveriti per curarsi, noi cerchiamo di fare il possibile e poi loro ci trattano cosi.”

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Int. 3: “ci son stati aggressività anche fisica, rifiuto alle cure, anche l’aspetto comunque di isolamento, che già magari una persona deve stare isolata per motivi medici, in più non ti rivolge la parola, mette una coperta sopra alla faccia.. quindi lui stesso si crea una barriera di comunicazione.. ma io cerco di capire il motivo chiedendo magari anche ai colleghi se sanno il motivo del perché facciano così, quello sì.” Int. 4: “la fuga. Che anche lì non è evidente dopo, devi attivare diverse risorse per andare a cercare la persona. L’aggressività, il rifiuto delle cure.” Presenza di discriminazioni all’interno del reparto Succede che il trattamento del paziente rifugiato sia carente rispetto a quello del paziente autoctono a causa di pregiudizi, rappresentazioni, stereotipi, non-­conoscenza delle culture e dei valori. Il rischio è che vengano a mancare quei diritti fondamentali dell’uomo che tanto si cerca di tutelare quotidianamente. Secondo quanto riportato nella quarta intervista, le riunioni di équipe non vengono svolte con l’obiettivo di prevenire eventuali discriminazioni, ma solamente per permettere agli operatori di elaborare situazioni vissute. Secondo quanto riportato nella prima intervista, alcuni degli atteggiamenti discriminatori potrebbero essere collegati alla mancanza di tempo, al carico lavorativo e allo stress degli operatori. L’intervistato 1 afferma che l’accoglienza (in relazione alla discriminazione) in generale è buona;; tuttavia si evince dalle interviste successive che spesso il rifugiato viene considerato come un soggetto che richiede troppe attenzione e che non si accontenta. Sovente il rischio è che, senza rendersene conto (nuocere celato dietro ad affermazioni o gesti all’apparenza banali), vengano a mancare i principi che regolano i ruoli degli operatori sanitari come per esempio quello di Health advocacy, comunicatore o promotore della salute. Int. 1: “anche se è vero che però alla fine qualcuno ha queste uscite nel momento di stress però devo dire che l’accoglienza di tutti all’interno del reparto è buona, non ho mai avuto la sensazione che ci sia gente che non si avvicina o che dice in modo molto negativo o in termini razzisti. Lo vivo più magari in situazioni in cui c’è carico di lavoro pesante e ecco.” Int. 2: “ho vissuto e visto comportamenti differenti degli operatori, assolutamente sì questo. Soprattutto a livello medico, ma non medico di reparto, ma altri medici.” Int. 3: “in reparto sicuramente il pregiudizio l’ho vissuto (…) ho visto qualcuno che ha trattato con un po’ di superficialità (…) per un pregiudizio.” Int. 4: “mah diciamo che.. posso dirlo?.. tipo “che rompiscatole, che rottura, sono qui sono curati, diventano aggressivi.. cioè sei qui, sei in un ospedale hai la televisione, anche tra virgolette gratis”. Queste cose poi non vengono affrontate in équipe, rimangono lì, sospese.” Persona rifugiata e paziente rifugiato Con questo argomento il mio intento è stato quello di esplorare l’opinione che gli intervistati hanno rispetto al rifugiato fuori dall’ospedale e rispetto al rifugiato malato: l’uno con un carico esperienziale dato dal viaggio, da una storia frammentata e da una nuova vita in divenire, l’altro che, oltre a tutto questo, si ritrova ricoverato con un corpo malato, un corpo che rappresenta l’unico mezzo per andare avanti. Importanza è volta all’aspetto richiedente del rifugiato, caratterizzato da una fragilità manifestata attraverso molteplici bisogni soggettivi e oggettivi.

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Come riportato nell’intervista 2 il curante pone l’accento sull’importanza dell’entourage sociale e di come l’isolamento, invece, costituisca un fattore di rischio per la salute e il benessere del curato. Le aspettative che una persona si fa del Paese in cui cerca rifugio spesso vengono infrante da realtà ben differenti. Int. 2: “arriva qui dove magari pensa di riuscire a trovare l’oro (…), il paziente rifugiato ha doppio trauma. Anche perché spesso la persona rifugiata è insieme ai suoi compari, nel senso hanno fatto lo stesso viaggio, vengono dalla stessa nazione, parlano la stessa lingua, e qua non c’è nessuno (in ospedale)”. Int. 3: “ma per me sono la stessa cosa (…) a livello di trauma secondo me sono sullo stesso livello.” Flussi migratori I flussi migratori sono un fenomeno presente e in costante aumento. Ho voluto indagare come questo viene vissuto nella realtà ospedaliera (risorsa, barriera o entrambe le cose): in generale vi è consapevolezza del fatto che la migrazione sia un fenomeno naturale, crescente e inarrestabile. Il passaggio di soggetti migranti in ospedale è vissuto principalmente come risorsa grazie alle nuove conoscenze (mediche e umane) che il fenomeno apporta. Int. 1: “io l’ho sempre vissuta come risorsa nel senso che non è una cosa nella mia idea che si può fermare o che si può impedire.” Int. 2: “(…) come crescita, vabbè, conoscenza di nuove malattie, nuove culture, nuovi modi di approcciarsi. Come barriera se tu vuoi è un po’ il fatto che spesso rimangono qua comunque per diverso tempo.” Int. 3: “cioè è un po’ la realtà delle cose, se prima non c’erano adesso ci sono (…). In ospedale credo che sia comunque una risorsa.” Int. 4: “no, una risorsa non lo so, non saprei in che modo. Una barriera, non propriamente una barriera, perché sono persone.” Strategie di risoluzione dei problemi All’interno di quest’area sono trattati gli aspetti che riguardano le fonti a cui gli infermieri attingono. Le tematiche trattate hanno permesso una comprensione del modo in cui viene favorita la creazione di spazi e tempi nei quali l’infermiere può prendersi cura del curato, anche mediante l’ausilio di altre figure professionali (come, per esempio, la mediatrice culturale) ma anche mediante figure specifiche che intervengono quando il disagio diviene non più gestibile (polizia). È stato molto interessante scoprire come proprio l’équipe, in assenza di protocolli o mezzi, si sia attivata per rendere dignitosa la degenza del paziente (iPad, interpreti ricercati tra le altre figure ospedaliere, ecc.). Gli ostacoli nella cura sono sicuramente numerosi, le difficoltà che si incontrano (tempi, risorse, comportamenti, limiti) possono portare a conseguenze sfavorevoli soprattutto per quanto riguarda la presa a carico ottimale e olistica del paziente. Le migliorie da effettuare sono ancora molte e alcune sono richieste dagli operatori stessi;; tuttavia gli sviluppi e i miglioramenti apportati hanno permesso una crescita importante di questo ospedale nel rispetto dell’accesso a cure di qualità per ogni individuo. Protocolli e/o risorse materiali reperibili La partecipazione e la collaborazione di alcuni intervistati nel migliorare l’esperienza ospedaliera dei soggetti rifugiati mi ha portata a una maggiore consapevolezza di come i valori personali vengono riportati nella pratica (intervista 1 e 3).

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La figura della mediatrice è fonte di miglioramento importante: permette di creare un ponte culturale comunicativo importante, assume il ruolo di accompagnatrice, sostegno e care-­giver (sia per il paziente, sia per il curante che in lei vede una figura di aiuto). Il mediatore permette di avvicinare diversità. Le interviste indicano come i ruoli del profilo di competenze SUP emergono e dovrebbero essere attuati da un infermiere che si occupa di un paziente rifugiato e come, in situazioni di carenza di risorse (es. mancanza dell’interprete) vi sia creatività nel creare mezzi comunicativi (es. fotocopie con immagini per i menù). L’operatore sanitario assume il ruolo di promotore della salute (rispetto dell’isolamento, ricerca dell’aderenza terapeutica, trasmissione di informazioni, ecc.), comunicatore (mediatrice, fotocopie), Health advocacy (racconto bibliografico), esperto (corsi di aggiornamento), membro di un team (lista dei dipendenti dell’ente che parlano determinate lingue, consulti dietetici, riunioni di reparto). Come si può evincere dall’intervista 4, all’interno dell’ospedale vi è una trasmissione di informazioni e collaborazione da parte di differenti figure professionali. Questo è vissuto dall’intervistato come risorsa importante dato il facile accesso al pc 24h/24h. In molte interviste emergono le componenti dell’interdisciplinarità e della complessità del sistema e come queste influiscono sul ruolo infermieristico. Int. 1: “noi attiviamo la mediatrice, è una figura nuova che per noi ha dato molto sostegno anche proprio per capire la cultura della persona perché noi molte volte non abbiamo idea di.. magari gli proponiamo del cibo che non potremmo. Diciamo che lei è un’ottima risorsa. (…) A volte dobbiamo proprio chiamare la polizia quando escono (dall’isolamento), o i securini per piantonare la camera. (…) Possibilità di proporre delle alternative al menù, abbiamo una serie di fotocopie in cui al posto della scritta abbiamo la foto per proporre bene il menù, dietiste che hanno un impatto importantissimo per l’alimentazione, la ri-­alimentazione, l’educazione. (…) Abbiamo allestito un armadio dove magari la gente che non usa più alcuni indumenti può lasciarli lì e noi ci serviamo. Quindi li mandiamo poi via con cose nuove, pantaloni nuovi ecco. A volte gli abbiamo comprato anche noi le scarpe.” Int. 2: “abbiamo sicuramente in DoQu una scheda con le varie persone che lavorano all’Ente, che sai possono aiutare con la traduzione.” Int. 3: “avevamo un ragazzo che voleva tagliarsi i capelli solo che noi non abbiamo la macchinetta allora vabbè gliel’ho comprata. (…) Adesso abbiamo appena fatto un corso video e tutto e anche un esamino finale, e questo è stato interessante perché comunque ci ha messo la realtà davanti.” Int. 4: “il mediatore può scrivere su GECO facendo il consulto.” Idee di miglioramento Emerge la necessità di una creazione di spazi per il paziente e per l’équipe: spazi di relazione e di condivisione, luoghi in cui essere e so-­stare nell’esperienza presente (int. 1). Corsi di formazione e aggiornamento continuo, oltre essere parte dei ruoli fondamentali dell’infermiere, sono ritenuti da tutti gli intervistati come fonte di conoscenza, miglioramento e crescita importante (fondamentale considarato il fenomeno migratorio attuale e in continua crescita): questo permetterebbe di lavorare con più consapevolezza, maggiore sicurezza in sé stessi e nelle altre figure (conoscenza anche dei ruoli delle altre figure professionali). Avvicinarsi maggiormente a ciò che non si conosce incuriosisce;; rimanere nell’ignoranza provoca emozioni quali la paura. Int. 1: “il fatto che debbano stare in isolamento e le camere comunque sono piccoline, comunque la possibilità di dare delle camere molto più spaziose, più accoglienti in modo che non si sentano chiusi (per l’interpretariato).

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Un centralino disponibile 24/7 con possibilità di avere delle persone di riferimento (…) Il fatto che veramente ci vogliano più spazi dove l’équipe si possa trovare e condividere momenti”. Int. 2: “magari mettere l’insegnamento per quello che è un pochino anche solo brevi frasi, però magari un infermiere o più infermieri che possano informarsi sulla lingua. Io per esempio non mi ritengo formata per quello che è il fenomeno migratorio.” Int. 3: “secondo me si potrebbe proprio migliorare nella gestione delle nostre risorse, cioè avere proprio più possibilità. Cioè anche adesso la nostra mediatrice culturale è incinta e in maternità, anche l’informazione a noi.. cioè io ora non saprei a chi rivolgermi. Dovrei avere di nuovo un punto di riferimento per le assenze, così. Proprio questa cosa della disponibilità che non è sempre fissa. (…) Secondo me in previsione che comunque ci sarà un aumento di questo fenomeno ecco, sarebbe utile aumentare anche le formazioni.” Risposta professionale a richieste che si distanziano dalla norma Si verificano situazioni in cui la risposta professionale viene trasformata da emozioni negative (int. 2);; in questo caso è possibile notare come vi sia una ricerca di senso, cercare di capire perché una persona agisce in un determinato modo e perché, a seguito di quel comportamento, subentra una determinata emozione. All’interno della quarta intervista è possibile ritrovare alcuni aspetti della modalità relazionale dell’intervistato che già erano emersi nelle prime domande (int. 4 “ospedale che accoglie”). Int. 1: “se la lingua è incomprensibile si cerca di spiegare a gesti, o cercando magari di parlare francese o inglese. Si cerca comunque sempre di entrare in relazione (…), l’attitudine è la stessa con tutti i pazienti.” Int. 2: “poi ci sono quelli che scappano dalla camera di isolamento e questo mi provoca rabbia. Molta rabbia ma rabbia perché mi chiedo.. ok.. mmh.. rabbia dal momento che gli è stato spiegato il motivo del perché lui è in isolamento. Quello.” Int. 4: “in generale è uguale, poi a dipendenza delle necessità può variare.” Sentimenti e strategie di coping La condivisione in équipe è lo strumento riportato da tutti gli intervistati come mezzo per affrontare le difficoltà. Esso permette di condividere un vissuto, mettere a parole le emozioni provate, trovare strategie e non lasciare il curante solo ad affrontare una situazione diversa, difficile e complessa. La mancanza di tempo è riportata (int. 1) come fattore limitante lo svolgimento ottimale e olistico della professione: un tempo per essere e un tempo per fare in cui applicare un saper essere e un saper fare. L’incapacità di riuscire a fare tutto può creare un senso di frustrazione;; tuttavia, come riporta il secondo intervistato, ci sono anche altre figure professionali che collaborano avanzando progetti di miglioramento e sostegno (es. mediatrice culturale). Gli intervistati sembrano riuscire a mantenere quella giusta distanza-­vicinanza che consente loro l’incontro quotidiano con queste situazioni, e tale da ritrovare strategie di coping funzionali al prosieguo professionale. Int. 1: “quando torno a casa fa parte del nostro lavoro capire che c’è il tempo e a volte non c’è, c’è la situazione che permette di farlo. Poi c’è la giornata in cui non vuoi entrare in queste cose… sai dipende dalle situazioni, penso ci siano delle situazioni in cui ce lo si può permettere, e si fa però non si può fare a tutti (…) poi la frustrazione può essere certamente presente”. Int. 2: “(rispetto alla frustrazione) so che comunque qualcosa verrà fatto. Confido nelle altre figure.”

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Int. 3: “sicuramente riconoscere che c’è un problema (…) sempre un debriefing a fine turno mi aiuta a fare un percorso di elaborazione del perché ci si è trovati in una determinata situazione. (…) Informarmi anche magari personalmente se c’è qualche malattia che non conosco.” Int. 4: “alla fine del turno mi sono sentita normale.” DISCUSSIONE All’interno del quadro teorico del mio lavoro di Bachelor sono stati approfonditi temi (situazionali, relazionali e personali) che ho potuto poi ritrovare e rielaborare nel momento di analisi delle interviste. Le tematiche relazionali e personali che interessano ogni individuo si intrecciano inevitabilmente con il lavoro di cura. I momenti di incontro con soggetti che si trovano in una posizione di domandare aiuto sono caratterizzati da relazioni umane ma soprattutto da possibilità di nascita di un legame: legame talvolta doloroso ma che è occasione di un momento presente in cui può avvenire un cambiamento, un nuovo cammino. Come riportato dagli intervistati il bisogno primario è quello di avere a disposizione un luogo (fisico e mentale) e un tempo in cui poter agire questo percorso relazionale: l’approccio interculturale si riferisce anche all’accoglienza intesa come formazione di spazi in cui avvengono gli scambi tra forme culturali differenti oltre che tra vissuti esperienziali di operatori di una stessa équipe (Mantovani, 2016). Dalle interviste si evince il bisogno degli intervistati di creare (e mantenere come nel caso delle riunioni) questi nuovi spazi (mediatore-­paziente-­curante), quantunque esista la consapevolezza di non poter essere sempre ovunque e poter fare tutto con tutti. In tutte le interviste svolte ho potuto constatare che l’aspetto umano (empatia, narrazione) della professione ha prevalso su quello tecnico: è risultata fondamentale la capacità degli infermieri di accogliere i pazienti, di dare valore alla loro esistenza, ponendosi come garanti della loro salute e del loro benessere. Ho constatato prevalentemente una coerenza in quanto detto sia nell’ambito della singola intervista (filo di pensiero lineare) sia a livello di quanto affermato dai differenti intervistati. È tuttavia apparsa anche una linea sottile di ambivalenza e contraddizione (attenzione particolare al passato del paziente ma carenza nell’assistenza che riguarda il futuro: non è che facciamo tutto noi): in un’intervista è riportato (Int. 1) che in équipe vengono affrontate le situazioni in cui si presentano discriminazioni, mentre da parte di altri intervistati il discorso non viene toccato (nei momenti di incontro vengono solamente riportati i vissuti relativi a situazioni che creano scompiglio, non vi è dunque un lavoro di prevenzione alla discriminazione). La migrazione è un fenomeno in continuo aumento ed è vissuto prevalentemente come una risorsa da parte degli infermieri intervistati. Questo fenomeno però richiede, secondo loro, il bisogno di un continuo aggiornamento, una lotta alla dis-­informazione: l’operatore (impreparato per fronteggiare il fenomeno) si trova, nell’incontro con il rifugiato, a entrare nel suo mondo psichico incontrando anche l’orrore vissuto (Bertini et al., 2018). Malgrado questo aspetto di sofferenza, la maggior parte degli intervistati afferma che l’incontro con il “diverso” è fattore di curiosità e di spinta allo sviluppo e al miglioramento delle conoscenze. Proprio a partire da questo aspetto appare ancora più chiara la richiesta di partecipare a percorsi formativi supplementari, che si possono ritrovare nei programmi proposti dalla società del Transcultural Nursing (strategie per la riuscita del rispetto dei diritti umani): utilizzo di una base solida di conoscenze (per scoprire e fornire assistenza culturalmente competente attraverso programmi di ricerca e didattica), linee guida della società infermieristica transculturale per fornire cure culturalmente congruenti di qualità traducibili in salute e benessere, instaurazione e applicazione di un processo di certificazione per infermieri e altri operatori (per assicurare lo sviluppo di competenze culturali, enfatizzare temi dedicati ai diritti umani) (Miller & et al., 2008).

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Secondo Recalcati “lo straniero è colui che porta ad un rinnovamento della vita e non alla distruzione, a una condizione: la vita deve rendere più flessibili i propri confini identitari” (Recalcati, 2017). I professionisti che possiedono maggiori competenze transculturali hanno infatti la capacità d’integrare i pensieri e i pregiudizi riuscendo a percepire la prospettiva dell’altro differente ed evitando la culturalizzazione, gli stereotipi e le discriminazioni (F. Althaus, P. Hudelson, et al., 2010). Sebbene da parte di alcuni intervistati spicchi il principio del non-­giudizio, quasi tutti hanno riportato la problematica ancora presente della discriminazione (verbale o mediata da comportamenti di superficialità): questo rischia di far cadere nella separazione fra bisogni sanitari e contesto in cui essi si presentano. L’essere malato, per di più in un contesto discriminatorio, aumenta le dimensioni di isolamento (Rizzi, 2002). Come riportato dall’UFSP non è la migrazione in quanto tale a provocare patologie fisiche e psichiche, bensì le situazioni che si creano durante il viaggio: sviluppo di timori e ansie, disturbi fisici o psichici, eccessiva attuazione di meccanismi di difesa (UFSP, 2017b). L’incontro con un soggetto che ha vissuto un’esperienza di un viaggio traumatico porta inevitabilmente l’operatore a indagare la sua storia: saper essere -­ che permette al curante di far fronte ai continui cambiamenti e riadattamenti situazionali trovando nuove soluzioni e applicandole alle problematiche che si presentano (es. creazione di brochures per identificazione degli alimenti), indagando i disturbi eterogenei che si possono manifestare (fisici, psichici, metabolici, comportamentali) -­ e un saper fare (F. Althaus, P. Hudelson, et al., 2010). Essere curanti consapevoli di come un trauma può impattare sulla mente e sul corpo di un individuo è fondamentale per la valutazione iniziale, l’impegno e i trattamenti (Mental Health Guide, 2015), così come è fondamentale essere consapevoli e soffermarsi a riflettere sul fatto che le emozioni che scaturiscono dalla relazione con il rifugiato possono influenzare le azioni e modificare l’assistenza infermieristica. Aprirsi all’ascolto permette al rifugiato di recuperare la sua storia dandole forma e significato. Ascoltare è considerato essere un gesto sano che permette di accogliere donne e uomini con percorsi segnati da sogni cancellati, corpi torturati e anime devastate (ASI, 2018). Raccontarsi permette una trasformazione e un’organizzazione del pensiero (Bertini et al., 2018);; il dolore psicologico sofferto dai rifugiati è indescrivibile e la sopravvivenza a esso richiede una capacità di recupero importante. Si dovrebbe per questo favorire la possibilità di attingere a ogni tipo/nuove forme di sostegno personale, sociale e ufficiale: esserci e ascoltare l’esperienza del rifugiato presuppone però abbandonare il noto e il familiare, diventando momentaneamente stranieri a noi stessi (Renos K. Papadopoulos, 2006). Come riportato nelle interviste, l’incontro con il “diverso” e l’allontanamento dal conosciuto porta inevitabilmente il curante (e il paziente) a porsi interrogativi e a confrontarsi spesso con molte frustrazioni: incomprensioni sul significato attribuito culturalmente a un termine (credi e rappresentazioni basate su modelli che possono differire dai nostri), problematiche comportamentali (aggressività, richieste costanti e sempre più pretenziose), scarsa compliance, fughe dalla camera di isolamento, ecc. (Esposito & Vezzarini, 2011). Ho potuto constatare che tutti gli intervistati di fronte a determinati comportamenti, cercano generalmente di indagare le cause che hanno portato il soggetto ad agire in una determinata maniera. Come ci riporta Dubuis, sotto le ferite fisiche si cela una moltitudine di altri traumi (già il viaggio spesso è segnato da separazioni forzate: traumi psicologici di persone vittime di crudeltà e umiliazioni (ASI, 2018). L’isolamento è stato più volte citato nel corso delle interviste come fattore aggravante questi traumi: esso infatti è stato identificato come principale causa di comportamenti problematici quali la fuga e l’aggressività, problema questo che prende rilevanza ancor maggiore se si considera che il più delle volte il paziente non capisce la ragione per cui si trova in isolamento.

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L’articolo 5 della Legge sulla promozione della salute e il coordinamento sanitario prevede che “ogni persona ha il diritto a ricevere prestazioni sanitarie scientificamente riconosciute, secondo i principi di libertà, dignità ed integrità” (Gran Consiglio della Repubblica e Cantone Ticino, 1989). È dunque ancora una volta fondamentale per il curante ricercare ponti comunicativi tali da permettere la piena comprensione da parte del paziente (rischi, trattamento, conseguenze di una non-­aderenza, salute-­malattia), riconsegnandogli così la capacità di essere protagonista della propria vita attraverso scelte, bisogni e doveri. La difficoltà che il paziente può avere nel comprendere il significato (attribuito culturalmente dai curanti) di uno stato di salute/malattia porta spesso l’infermiere a trovarsi ad attuare misure coercitive (es. chiamare la polizia se il paziente scappa dall’isolamento), a sentirsi frustrato o addirittura arrabbiato per la mancanza di aderenza terapeutica e compliance del paziente, e porta il curato a possedere un corpo non compreso e non comprensibile neanche più a lui stesso. Come visto, nel momento del ricovero il corpo del paziente rifugiato viene spogliato e viene a cadere così il confine tra interno ed esterno;; questo aspetto è aggravato dal fatto che il paziente in isolamento non comprende le ragioni di ciò che viene fatto, né il significato di ciò che il curante traduce, e/o non si sente malato (Visiolo, 2004). In merito al discorso sul significato che viene attribuito dai pazienti è importante riconoscere che, in quanto curanti, ci possiamo trovare confrontati con un paradosso con il rischio di applicare solamente una nostra personale chiave di lettura a una certa situazione: non impiegare le nostre categorie di osservazione, e allora nulla potrà essere osservato, oppure impiegarle, osservando così soltanto una proiezione della nostra realtà e mai la realtà (Beneduce, 1997). Il ruolo del mediatore culturale (ponte comunicativo che permette il trialogo paziente-­mediatore-­infermiere) interviene anche in questi casi ed è considerato dagli operatori una risorsa fondamentale e fonte di aiuto, sostegno e crescita in quanto assume il ruolo di co-­diagnosta e care-­giver (Esposito & Vezzarini, 2011). Il lavoro degli intervistati avviene così in collaborazione con la figura del mediatore, degli interpreti, dei nutrizionisti e di quelle figure professionali che possono contribuire al miglioramento dello stato di salute del paziente: questo permette di applicare un approccio basato sull’interdisciplinarità. Anche l’infermiere si trova a sua volta a svolgere un ruolo di mediatore tra le varie figure professionali che via via vengono integrate nel processo terapeutico. Conoscere alcune sfaccettature della soggettività degli intervistati mi ha permesso di indagare i confini e la necessità di sviluppare abilità comunicative attraverso una riflessione (con tutti i dilemmi e le difficoltà) sulle priorità della presa a carico del rifugiato (J. Suurmond et al., 2013). Nelle interviste sono emerse varie barriere duali, provenienti sia dai curanti che dai pazienti: alterità e diversità si incontrano e, come tali, devono essere rispettate. I fattori di diversità portano gli attori a confrontarsi inevitabilmente con l’integrazione delle teorie interculturali, favorendo così il riconoscimento della complessità dei sistemi che si manifesta quando due mondi si incontrano. La questione della lingua è sicuramente un punto cardine e problematico che si è presentato in tutte le interviste. Questa barriera si è mostrata come elemento estremamente limitante per la cura e per la creazione di relazioni di fiducia, malgrado i progressi fatti e le fonti disponibili, e per lo sviluppo della compliance e dell’aderenza terapeutica (WHO, 2003). Il tema della cultura è stato anch’esso filo conduttore e ha permesso di comprendere che vi è propensione alla conoscenza di altre credenze medicali (relativismo culturale), pur non mettendo da parte le proprie norme, i valori, i ruoli condivisi dalla comunità di appartenenza (l’operatore mantiene e possiede un’incorporazione culturale, un corpo che è interfaccia tra lui stesso e il mondo che ha conosciuto) (SUPSI, 2016).

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La cultura in quanto tale sappiamo essere appresa, condivisa, basata su modelli e simboli e, secondo la visione dell’olismo antropologico, oggetti e ambiente si compenetrano giungendo a definirsi reciprocamente, cosicché il tutto risulti maggiore della somma delle singole parti che lo compongono (SUPSI, 2016). Il relativismo culturale, diversamente dall’etnocentrismo, non chiede di abbandonare i valori che la società ci trasmette, ma invita a non rifiutare di principio le alternative (Schultz & Lavenda, 2010), approccio che ho riscontrato in quasi tutti gli intervistati quando è stato chiesto loro cosa pensassero delle medicine di altri popoli. Tuttavia, gli intervistati hanno riportato l’impossibilità di attuare altre medicine, a causa di barriere riscontrate quali lingua, mezzi, tempi e risorse, e la non conoscenza di quali potrebbero essere effettivamente i desideri dei pazienti in analisi (Int. 4). Un altro limite che ho riscontrato nel corso delle interviste è quello relativo alla presa a carico degli aspetti non prettamente inerenti la patologia (es. dimissione, piani di reinserimento sociale, attività di svago, ecc.): nell’International Council of Nurse viene specificato come gli infermieri siano in grado di apportare un contributo importante per incrementare la resilienza nel sistema di salute dei rifugiati (pianificazione, decisioni, sviluppo di politiche di salute appropriate). Gli infermieri hanno la capacità di contribuire al sistema di regole pubbliche come, ad esempio, preparazione di lavoratori nell’ambito della salute, sistemi di presa a carico nella cura, finanziamenti, etica nella salute e altri determinanti di questo tipo (International Council of Nurse, 2015). Gli infermieri devono poter contribuire alla promozione dei diritti umani dei rifugiati;; di conseguenza dovrebbero essere in grado di assumere il ruolo di avvocati della mobilità delle risorse nel momento in cui gli individui si trovano costretti a lasciare il loro Paese di origine (guerre, abusi, ecc.). All’interno del profilo di competenze SUP possiamo ritrovare alcuni ruoli fondamentali che l’infermiere dovrebbe possedere per essere considerato un professionista: comunicatore (sviluppo di rapporti di fiducia nel proprio contesto), Health advocacy (promozione della salute e della qualità di vita dei pazienti e della società nel suo insieme), appartenenza professionale (vincolo all’etica professionale), esperto (conoscenza delle pratiche professionali da attuare all’interno del sistema sanitario (SUPSI, 2011). La complessità del sistema di cura che contraddistingue la presa a carico di un paziente rifugiato pone inevitabilmente il curante di fronte all’esercizio di un lavoro in rete e di coordinazione, portandolo ad assumere anche altri ruoli che, apparentemente, potrebbero distanziarsi dall’atto pratico infermieristico comunemente inteso. Come riportato da Mortari, l’infermiere che opera in ambito di cura deve continuare a essere in grado di favorire un approccio salutogenico (rilevanza della persona prima della malattia) esponendo la propria disponibilità cognitiva ed emotiva. Per attuare questo è dunque compito dell’operatore individuare e promuovere fattori che influiscono positivamente sulla salute del paziente (L. Mortari, 2006). Nel caso specifico è importante costruire partenariati collaborativi con lo scopo di promuovere programmi di salute (tramite superamento della barriera linguistico-­culturale, comprensione socio-­antropoligica, ecc.) (Bertini et al., 2018). Come riportato dagli intervistati, essi cercano sempre di applicare un processo di analisi della situazione alla quale si trovano confrontati, adottando così una cura pensosa (L. Mortari, 2006). Attraverso le interviste mi sono resa conto di come la tematica del “diverso”, colui che si distanzia dal “conosciuto” e che si trova a essere ricoverato in ospedale (solitamente per lunghi periodi e in isolamento) non lascia empaticamente indifferenti i curanti: nel momento in cui è stato permesso loro di so-­stare nella riflessione (tramite l’intervista) essi hanno espresso le loro perplessità, hanno sviluppato un percorso introspettivo e maieutico, hanno cercato risposte e si sono posti nuovi interrogativi sul loro ruolo professionale relativamente al rispetto della dignità e dei diritti di ogni paziente.

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Mi sono resa conto di come, a livello attitudinale, vi sia la volontà di portare e ricercare miglioramenti (aumento delle conoscenze, riconoscimento dei bisogni dei pazienti e degli operatori) e che, allo stesso tempo, a livello di comportamenti e azioni vi sia ancora una limitata consapevolezza della tematica, dell’approccio al paziente rifugiato, delle responsabilità professionali interculturali necessari all’operatore sanitario. LIMITI E OSTACOLI RELATIVI ALLO STUDIO Le difficoltà maggiori che ho riscontrato sono individuabili prevalentemente nella fase preliminare di elaborazione delle interviste, durante la quale ho dovuto fare una scelta tematica e una scrematura importante per potermi concentrare (e di conseguenza sviluppare) su determinati argomenti. Scegliere e indirizzare le domande in maniera pertinente, neutrale, individualizzata e mantenermi distante e oggettiva nel corso degli incontri con gli intervistati -­ cercando di evitare di intervenire con opinioni personali, far trasparire i miei pensieri o le mie perplessità attraverso espressioni facciali, indirizzare risposte anche quando lo sguardo dell’intervistato cercava un consenso, o cercando di rimanere lineare con la scaletta prevista precedentemente -­ sono stati sicuramente gli aspetti di questo lavoro che maggiormente hanno permesso di mettermi in gioco e che contemporaneamente mi hanno messa in difficoltà. Spesso è stato difficile rimanere in silenzio senza portare una personale opinione sugli argomenti trattati. Talvolta è accaduto che l’intervistato ricercasse in me approvazione attraverso lo sguardo, ed è sorta la questione che la risposta del soggetto di studio fosse condizionata da quello che egli si aspettava io mi attendessi. La mia inesperienza in ambito di interviste potrebbe aver influito sul cogliere appieno tutte le opportunità offerte da un mezzo di indagine di questo tipo. Mi sono resa conto infatti solo successivamente e in corso di analisi di quante domande o interrogativi avrei potuto porre agli intervistati. Inoltre, considerati il limite di pagine consentito nel lavoro di Bachelor e la vastità di argomenti tematici da approfondire (anche per la stesura del quadro teorico) mi sono ritrovata ancora una volta di fronte a una scelta rispetto a ciò che ho ritenuto essere prioritario trattare considerato l’obiettivo di studio. La tematica trattata ha naturalmente ulteriori sbocchi di ricerca e di approfondimento possibili, dato che il tema legato alla realtà ospedaliera ticinese è ancora agli albori degli studi. Un vasto materiale generale sul fenomeno della migrazione e sulla questione dei rifugiati (prevalentemente letteratura) ha facilitato la stesura e l’elaborazione teorica del mio lavoro. Per quanto riguarda la scelta del campione di ricerca è stato necessario, per questioni organizzative di reparto, somministrare le interviste unicamente a infermiere donne (scelte dalla capo reparto in base al personale presente in turno). Più di una volta il campione intervistato ha riportato (ancor prima di iniziare l’intervista) che “se vuoi davvero sapere come alcuni la pensano sui migranti dovresti parlare con …”: questo mi ha permesso di capire che la scelta dei soggetti (seppur randomizzata) ha portato a una determinata panoramica di opinioni e non a una visione statistica che rispecchia la realtà ospedaliera. La griglia di intervista mi ha permesso di avere una scaletta da seguire mentalmente;; tuttavia mi sono resa conto che lasciando parlare liberamente il campione e adattando le domande al soggetto preso in analisi è stato possibile cogliere maggiori informazioni rispetto al pensiero individuale. Solo in un secondo tempo, in sede di analisi, ho ricreato un ordine schematico e simile all’ideale iniziale dell’intervista. I risultati ottenuti hanno trovato riscontro nella letteratura citata nel quadro teorico: tuttavia non sono generalizzabili poiché la ricerca svolta ha toccato un campione limitato di convenienza e proveniente da un unico reparto ospedaliero (la randomizzazione della scelta del campione è stata limitata dal carico di lavoro di alcuni infermieri in turno che non hanno potuto/voluto partecipare allo studio). Le conclusioni saranno di conseguenza relative unicamente alle informazioni ottenute.

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Nondimeno, i dati raccolti potranno essere utili per formulare nuove riflessioni in seno all’istituzione presso cui ho somministrato lo studio. CORRELAZIONI CON IL FUTURO RUOLO PROFESSIONALE La stesura di questo lavoro mi ha permesso di comprendere come l’attività dell’infermiere in ospedale rispetto alla tematica del paziente con trascorso migratorio è ancora poco indagata, malgrado gli approfondimenti che recentemente sono stati apportati. Considerata la presenza del fenomeno, essere consapevole dei limiti imposti dalla realtà e di quanto la figura infermieristica possa partecipare al miglioramento dello stato psico-­fisico del paziente rifugiato, mi ha permesso di approfondire e comprendere l’importanza di utilizzare approcci professionali interculturali che permettono di rivestire con efficacia e chiarezza i ruoli (tra agli altri) di promotore della salute, comunicatore, Health advocacy. All’inizio del mio lavoro scrivevo che è solo rimanendo presenti come soggetti pensanti rispetto agli eventi della vita che possiamo guadagnare sapere dall’esperienza (L. Mortari, n.d.). La comprensione professionale dell’esperienza di un ricovero non può unicamente riguardare gli aspetti misurabili e quantificabili della cura, bensì anche le modalità di offerta, l’essenza dunque del care: integrazione dell’assistenza mediata dal fare con l’ascoltare, del sapere con il saper-­esserci, la dimensione della cura con quella della presenza empatica (Artioli & Marcadelli, 2010). Determinati strumenti relazionali (quali il saper-­essere e il saper-­fare) permettono di creare una relazione di aiuto infermiere – paziente, anche mediante l’ausilio di mediatori culturali che favoriscono un ponte fondamentale. La necessità dunque da parte dell’infermiere di utilizzare le abilità comunicative quali l’ascolto attivo della storia traumatica del paziente, l’empatia, il rispetto, l’autenticità, il non giudizio (Camponovo, 2017). Mio desiderio è quello di poter interagire con persone rifugiate promuovendo la dignità che è propria di ogni individuo, ricostituendo tessuti di storie frammentate. In quest’ottica, e in qualsiasi luogo mi troverò a operare, la mia priorità sarà quella di interrogare le rappresentazioni di ogni individuo, creando relazioni di fiducia con il paziente al fine di favorire un’aderenza terapeutica e una presa a carico olistica che punti all’autodeterminazione del soggetto e che permetta a quest’ultimo di riconoscere, mantenere e rafforzare la sua identità.

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CONCLUSIONE E CONSIDERAZIONI PERSONALI In principio mi sono domandata in che modo l’operatore si avvicina al rifugiato che si trova ricoverato in un ospedale ticinese, quali le attitudini messe in gioco, la presa a carico, i bisogni a cui deve rispondere e come vi risponde, quali le difficoltà incontrate. La scelta tematica è stata dettata principalmente dalla volontà di poter diventare in futuro co-­narratrice di storie in divenire, inclusa la mia. Alcuni ideali hanno da sempre abitato la mia persona e ritengo che come soggetti e come professionisti, spetti ad ognuno essere aperto al bisogno, alla domanda e al desiderio dell’“Altro” (dei rifugiati, nello specifico): non fare nulla è contro l’humanus. L’approfondimento teorico e lo studio della pratica infermieristica quotidiana svolto mediante interviste, hanno permesso il raggiungimento parziale degli obiettivi inizialmente prefissati e di rispondere alla domanda di ricerca, anche se nel corso di stesura non sono mancate modifiche strutturali e di contenuto. Attraverso la ricerca sul campo ho potuto indagare e riflettere sulle attitudini che gli infermieri dovrebbero sviluppare per permettere un’assistenza interculturale, e ho potuto sviluppare una visione più dettagliata del fenomeno nella realtà ticinese. Dal lavoro svolto emerge chiaramente la necessità da parte del campione intervistato di approfondire (a livello ospedaliero) la tematica sulla migrazione e sulla presa a carico di pazienti rifugiati in ospedale. Emerge, in quasi tutti i soggetti di studio, l’importanza di dar voce alle fragilità del paziente rifugiato, ai suoi bisogni assistenziali e umani (es. ascolto della storia, necessità di consultare un mediatore culturale), alle problematiche che possono presentarsi (es. comportamentali) o che già pre-­esistono (es. lingua). Quello che appare chiaro a tutti è che si potrebbe fare di più (es. corsi di formazione) e si dovrebbero potenziare i mezzi e le risorse di cui già si è in possesso (es. centralino di interpretariato 24/7, miglioramento della presa a carico dell’isolamento). Gli intervistati mi hanno permesso di comprendere quanto la tematica relativa ai bisogni dei rifugiati venga sentita nella presa a carico ma anche di quanto spesso essa venga considerata secondaria a causa della difficoltà di ricoprire un ruolo interculturale se non si posseggono le giuste conoscenze e competenze cliniche e comunicative. Il ruolo infermieristico, va tuttavia riconosciuto, è mutato nel tempo: oggi il focus prioritario rimane la centralità del paziente. Vi è stata dunque un’evoluzione delle pratiche di cura che si rivolgono principalmente al Care, oltre che al Cure. Il risultato finale di questo lavoro di Bachelor mostra prevalentemente coerenza tra i dati sostenuti nel quadro teorico e quelli raccolti attraverso le interviste. I risultati ricerca sottolineano la priorità di conoscere la storia del paziente, interrogare i vissuti sia per permettere al soggetto di ricreare una continuità biografica che per comprendere le motivazioni che spesso stanno alla base di determinati comportamenti e di conseguenza poter prevenire o meglio gestire la pratica assistenziale di alcune situazioni complesse. Tutto questo è fondamentale soprattutto considerando che l’infermiere è la figura che all’interno dell’ospedale ha la possibilità di creare e mantenere la connessione tra il lato umano della cura e quello prettamente medico-­tecnico. Gli infermieri sono figure con conoscenze medicali ma anche e soprattutto con conoscenze comunicative e relazionali;; sono coloro che passano e che hanno la possibilità di investire più tempo con il paziente. Grande importanza viene data ai momenti di incontro in équipe che, come riportato nelle interviste, dovrebbero ampliarsi come numero di incontri e di argomenti trattati.

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Rispetto a quanto ascoltato e analizzato, mi sento di poter affermare che vi è da parte degli infermieri, e da parte del sistema, il desiderio di attuare tutto quanto sia possibile per migliorare le condizioni di benessere del rifugiato: soggetto che ha vissuto un’esperienza migratoria condizionata e che può presentare disturbi nella sfera psichica (come il DPTS) manifestati mediante comportamenti devianti, soggetto che si trova a non avere più una casa senza averne ancora una nuova (escluso sia dal luogo di provenienza ma anche da quello di accoglienza) (Sayad, 2002). A partire da queste considerazioni mi sono interrogata su quale identità viene conservata e riconosciuta quando il curante si trova a non conoscere neanche il nome del paziente (come riferito nelle interviste, succede che non si riesca a risalire alla raccolta dati del paziente a causa della barriera linguistica). I risultati mostrano che quello che si cerca di fare è dar voce ai bisogni dei pazienti rifugiati con l’intento di rimuovere le barriere (situazionali, professionali, personali), ricreando un senso di coesione umanitaria, ridando forma alla dignità di ogni individuo, senza distinzione di provenienza. Gli operatori sanitari interculturali (infermieri che si trovano a contatto con il rifugiato ma che ancora non hanno acquisito competenze transculturali) si devono orientare sempre più alla facoltà di “far fiorire” offrendo esperienze in cui poter vivere, cure che preservano la vita quando essa viene minacciata da un viaggio, da una nuova realtà o da una storia traumatica, cure che si orientano a riparare le fessure di sofferenza che si possono presentare (L. Mortari, 2006). Un approccio salutogenico che miri dunque, anche, all’utilizzo dei ruoli SUP. Come riportato nelle interviste vi sono sicuramente ancora molte migliorie da attuare, è un processo in continuo divenire, difficile e che richieste impegno da parte di tutti gli attori della cura. La componente interculturale presente nei luoghi di cura ha permesso un confronto con una casistica nuova, portatrice di caratteristiche sociali, culturali, personali e relazionali eterogenee. Ha inoltre permesso una collaborazione con altre figure professionali provenienti da altre discipline (es. sociologia): la figura del mediatore culturale permette di interpretare determinate richieste che magari non rispecchiano la reale necessità, permette di comprendere come determinate emozioni portino a determinati comportamenti, può aiutare il paziente rifugiato a far chiarezza sui ruoli che spesso appaiono come disordinati e complessi e aiutare il curante a comprendere le rappresentazioni di salute e malattia proprie del paziente, così come le eventuali somatizzazioni culturali (Bertini et al., 2018). Prepararsi alla cura dell’altro non significa diventare delle macchine, bensì essere in grado di attuare strategie che permettano una presa a carico olistica, riuscire ad uscire dai propri schemi mentali precostituiti (un’osservazione della realtà differente e un’attribuzione di significati esperienziali differenti) rivolgendosi con empatia, ricettività e responsività (L. Mortari, 2009) al benessere psico-­fisico del paziente rendendolo protagonista della propria cura (autoefficacia): saper leggere oltre il verbale per poter comprendere comportamenti o richieste specifiche. Le pratiche di cura unite alle pratiche infermieristiche transculturali, permetterebbero di lavorare nell’ottica dei pari diritti di accesso alle cure, nel rispetto della dignità di ogni essere umano, permettendo così anche di uscire dalla concezione ancora vigente e separatista di condizione eccezionale o di emergenza per arrivare alla più pura concezione di cura. Cura che tutti gli esseri umani meritano di ricevere. Questo lavoro è stato il capitolo conclusivo di un percorso accademico che mi ha cambiata e segnata profondamente, e la sua redazione è stata da me vissuta in maniera molto intensa.

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Ogni fase di elaborazione è stata impegnativa ed emozionante. In questo percorso c’è stato un momento giusto per tutto: l’idea iniziale e i mille cambiamenti decisionali che sono avvenuti prima della stesura, l’inizio di stesura, la scelta di somministrare interviste, il blocco, la crisi che ha portato poi alla volontà di terminare lo scritto, il bisogno di voler aggiungere sempre qualcosa poiché c’è così tanto ancora da dire e la frustrazione per il limite consentito. Da ultimo la gioia nel vedere che passo dopo passo il lavoro ha cominciato a prendere forma, a prendere vita e struttura, riportando tra le righe anche un po’ di me. La prima parte di questo lavoro è stata sicuramente molto complessa. Riflettere sugli aspetti da trattare nel quadro teorico e successivamente nelle interviste mi ha portata a cambiare idea molte volte: ho aggiunto e tolto argomenti, ho ridotto e contestualizzato il numero e il campione da intervistare. Inizialmente avevo molte idee creative su come avrei voluto portare avanti le interviste (animazioni, domande trabocchetto, filmati) tuttavia valutando la mia inesperienza in questo campo ho deciso che, come prima volta, sarebbe stato meglio applicare delle interviste che limitassero interpretazioni personali. Non mi sono mai ricreduta di aver scelto la tematica inerente i rifugiati;; dovessi ricominciare farei la medesima scelta: è un aspetto che sento far parte di me e del mio futuro personale e professionale. Malgrado la mia limitata conoscenza dello strumento di intervista, questa parte di tesi mi ha gratificata molto: poter scegliere le domande da portare agli intervistati e potermi avvicinare a loro direttamente mi ha permesso di sentirmi ancora più attiva in questo progetto. Mi sono resa conto di come, prima di somministrare le domande, io avessi un’ipotesi errata rispetto a ciò che gli infermieri mi avrebbero detto e raccontato. Le esperienze vissute nei reparti durante i tirocini mi hanno sicuramente condizionata e mi hanno portata ad avere preconcetti e rappresentazioni rispetto alla presa a carico attuata nei confronti del paziente rifugiato. Con molto piacere gli intervistati mi hanno mostrato aspetti di migliorie importanti, mi hanno trasmesso un profondo senso di umanità, la volontà di continuare a migliorarsi per il raggiungimento e l’ottenimento di una cura accessibile a tutti, mi hanno permesso di comprendere che, malgrado i limiti imposti dalla realtà, almeno da parte loro non vige l’indifferenza rispetto a questa tematica. Ho imparato da questa esperienza a sospendere il mio giudizio (senza mai rinnegarlo) e ascoltare le motivazioni che stanno alla base di certi comportamenti mi ha permesso anche di comprendere (pur non condividendo) determinate correnti di pensiero. Spero di essere riuscita a far emergere gli aspetti che ho ritenuto maggiormente importanti per il mio lavoro finale, ritrovando e applicando correlazioni tra gli aspetti teorici e i contenuti emersi dalle interviste, e rispettando gli obiettivi di Tesi SUPSI. La scelta di utilizzare una ricerca di tipo qualitativo mi ha permesso di essere partecipante attiva nella scoperta della realtà ospedaliera e attraverso l’utilizzo delle interviste ho potuto conoscere in maniera critica il vissuto dell’incontro con il rifugiato. La ricerca scientifica di materiale di letteratura mi ha permesso inoltre di sviluppare, almeno in principio (poiché ritengo essere un processo lungo, impegnativo e sempre in fase di strutturazione), la capacità di difendere nella vita quotidiana e nel futuro anche professionale (mediante assunti teorici validi) le mie idee in merito alla tematica, permettendomi di dar voce alle mie opinioni in maniera costruttiva, efficace e incisiva. La tematica dei rifugiati non tocca solamente l’ambito ospedaliero e il ruolo professionale, bensì tocca ognuno di noi come esseri umani, basti pensare a tutti i centri di pertinenza, le stazioni, le piazze, i penitenziari: luoghi in cui circola sofferenza e da cui, oggi come non mai, non possiamo volgere lo sguardo altrove (Medici Senza Frontiere, 2018).

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Nella pratica professionale e nella realtà ticinese, un approfondimento ulteriore potrebbe portare alla creazione di una scala di valutazione per permettere all’infermiere (all’operatore) di valutare lo stato psico-­fisico nel corso di degenza del paziente rifugiato che si trova in isolamento. Questo strumento potrebbe infatti indagare e prevenire determinati stati emotivi o incomprensioni che spesso, come visto, sfociano in comportamenti disturbanti. Mi sono resa conto che uno spazio di riflessione in équipe e con il mediatore -­ dove il soggetto possa ripercorrere il vissuto con un utente -­ permetterebbe da una parte di trovare risposte agli interrogativi che possono subentrare nel corso della presa a carico (paure, preoccupazioni, frustrazioni, rabbie, sofferenze, discriminazioni), dall’altra di trovare quella distanza dalla frenesia di reparto per ricentrarsi sull’obiettivo di ogni erogatore di cura: il bene presente e futuro del paziente. Ritengo importante, come già sopra citato, che questi spazi permettano anche di prevenire le discriminazioni all’interno del reparto. Riflettendo sulla realtà cantonale odierna ritengo che la presenza di una figura infermieristica specializzata nelle cure transculturali potrebbe essere integrata come parte attiva dell’agire quotidiano e sarebbe una fonte di miglioramento a lungo termine. È emerso il desiderio da parte del campione intervistato di poter accrescere le conoscenze in questo ambito, poiché nonostante la grande affluenza le competenze interculturali non sono sufficientemente sviluppate. Sarebbe così interessante proporre a livello ospedaliero dei corsi di formazione e/o aggiornamento che permettano di approfondire la tematica migliorando la presa a carico (come già avviene per gli aspetti tecnici della professione), riconosciuti all’interno della percentuale lavorativa e finanziati dall’Ente o dal Cantone, poiché si tratta del riconoscimento dei diritti e dei bisogni dei pazienti, esseri umani che meritano le migliori cure possibili. L’infermiere stesso potrebbe così operare una cura individualizzata e pensosa rispetto ai bisogni del soggetto rifugiato e trasmettere le conoscenze apprese anche ad altri operatori sanitari. Una delle richieste maggiormente percepite è quella di poter entrare in contatto più facilmente con il paziente rifugiato (superando le difficoltà linguistiche e culturali che si possono presentare);; come riportato dal campione vi è già la presenza in reparto di documenti visivi che permettono, per esempio, l’identificazione di alimenti specifici. Ritengo che per agevolare il superamento della barriera linguistica sarebbe di grande aiuto creare nuovi documenti in cui riportare le principali affermazioni e domande (“hai male, da dove vieni”, ecc.), soprattutto in quelle lingue o idiomi maggiormente riscontrati e per cui è difficile trovare un interprete all’interno dell’ospedale. Questi aspetti di miglioramento mi riportano al titolo della mia tesi;; il ruolo infermieristico di promozione della salute deve oggi poter essere associato al tema della migrazione e dell’incontro con il rifugiato. È necessario senz’altro un grande impegno sia da parte degli operatori ma anche a livello di struttura: risorse materiali (luoghi, tempi e fondi) e fisiche (nuovi infermieri specializzati). Questi investimenti porterebbero a ripercussioni positive a lungo termine: la migrazione e l’accoglienza del rifugiato sono fenomeni in continuo divenire e, come visto, una buona cura previene comportamenti e malattie, oltre che essere fondamentale per il rispetto dei diritti di ogni essere umano. Da ultimo sarebbe interessante somministrare le interviste a un campione più vasto: assistenti di cura, medici, assistenti amministrative, e naturalmente pazienti. Questo permetterebbe di avere un’idea sul funzionamento più generale del reparto e permetterebbe di comprendere se le barriere, le difficoltà e le proposte di miglioramento sono le stesse per tutti o se variano a dipendenza del ruolo che ci si trova ad assumere.

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RINGRAZIAMENTI Desidero ricordare e ringraziare coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questa Tesi. Il professor Vincenzo D’Angelo per la disponibilità, il sostegno e i preziosi suggerimenti. La Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana per aver permesso la mia formazione. Vorrei ringraziare le persone a me più care, che mi hanno accompagnata e incoraggiata in ogni momento che insieme abbiamo affrontato, anche quando la strada mi ha messa di fronte a difficili prove. I miei posti felici non sono luoghi, ma persone. La mia famiglia. I miei nonni, mia mamma, mio papà e Danijel, che sono la mia storia e la mia origine. Lidia, che ha letto tra le righe dei miei silenzi e mi ha insegnato a pretendere sempre l’insolito (purché faccia bene all’anima), portando in ogni giornata condivisa un po’ di poesia. Manuela, mio presente e mio passato, pilastro fisso della mia esistenza. Sergio, credendo in me anche quando io stessa non l’ho fatto, è stato il braccio che mi ha permesso di rialzarmi. Gregory, al mio fianco a ogni passo nel cercare un luogo vivo in cui poter costruire una storia. La mia. Mattia, in qualunque posto io mi troverò a essere porterò sempre dentro di me un po’ di Noi. Chiara G. amica di una vita, casa delle mie esperienze. Jasmine, Chiara L., Rachele, Serena, Timea, Valeria e Anna F. per aver viaggiato con me nel mondo in cerca di emozioni per far delle nostre vite un’avventura. Claudia, Martina, Vanessa, Camilla, Chiara S. e Andrea, per avermi aiutata a sviluppare le mie legittime particolarità, riconoscendo in esse la creazione di attimi indelebili, delicati e potenti. Kizzy, Carlotta, Nicole, Luca, Verena, Carlo, Gabriele e Laura, custodi di sogni espressi in tempi passati e compagni di giorni felici. Agli infermieri Anna P., Francesca, Carla, Patrizia, Elisa, Veronica e Roberto e all’ostetrica Ingrid, per aver sempre creduto nelle mie capacità e per avermi insegnato ispirando in me il desiderio di imparare. Grazie a mia mamma, co-­narratrice della mia storia in divenire. Con la sua vicinanza, il suo amore incondizionato, la sua fiducia e la sua umanità mi ha permesso di dare forma ai miei pensieri e ideali, portandomi a difenderli senza vergognarmene mai. Mi ha trasmesso la capacità di essere, di ridere forte, di cadere perché cade solo chi ha avuto il coraggio di non restare fermo. Mi ha cresciuta impedendo che l’indifferenza facesse parte di me. Mamma, anche se a piccoli passi imboccherò percorsi per cercar da sola quella che sarò, non saremo mai distanti. Come una mediatrice tu so-­sterai nei miei transiti continui tra luoghi vicini e lontani. Mia mamma e le persone citate in questa pagina hanno svolto un ruolo essenziale: senza di loro questo percorso non troverebbe respiro12. Io non sarei la persona che sono oggi. Meritate del mondo ogni sua bellezza. Grazie.

12 Ogni errore o imprecisione nello scritto di Tesi é unicamente a me attribuibile.

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ALLEGATI Quadro teorico di approfondimento Fin dall’inizio del mio percorso ho saputo che la tematica che avrei voluto approfondire sarebbe stata quella relativa all’accoglienza infermieristica del paziente rifugiato negli ospedali cantonali. È stato molto difficile trovare un unico aspetto specifico su cui concentrarmi e per questo motivo ho dovuto allegare alcuni concetti di approfondimento che ho ritenuto essere importanti ma che, per questioni di limite di pagine, non ho potuto inserire prima. Durante gli stage svolti (chirurgia, medicina, psichiatria) mi è capitato di incontrare persone con un percorso migratorio alle spalle e, in particolare, persone richiedenti l’Asilo e rifugiati. Molte sono state le difficoltà che ho riscontrato (prima fra tutte la barriera linguistica: non riuscire a spiegarsi e non riuscire a comprendere). Malgrado la grande affluenza, questo rimane un tassello della realtà ancora poco condiviso e poco trattato dai curanti. Ritengo che tramite la riflessione e l’accoglienza, entrambe le parti (curanti e curati) possano lasciare il segno, diventare passatori di storie di vita, co-­narratori anche della personale storia in divenire. Sono anche convinta che viaggiare, conoscere il mondo, i popoli, le usanze e i costumi, sia il più grande mezzo per conoscere davvero il mio essere: uno scontro quotidiano con diversità inscritte in unità. Secondo un approccio psicoanalitico, la migrazione possiede un valore simbolico: rivolta contro il padre che spinge l’individuo a partire e a intraprendere la ricerca metaforica dei genitori ideali (Lacan, n.d.). Dati preoccupati si ritrovano nelle manifestazioni delle sofferenze psichiche e fisiche dei pazienti migranti rifugiati: In tutta Europa molti giovani inseriti nei centri di accoglienza si suicidano, e un numero ancora più grande si infligge ferite auto-­lesive;; la mancanza di interesse per i loro bisogni fisici e mentali è stata citata come fattore che contribuisce a queste tragedie (Lacan, n.d.). La crescita di migrazione più importante è stata tra il 2012 e il 2015 (conflitto siriano e altri conflitti nella regione). Le traversate verso l’Italia e il rafforzamento delle misure da parte della Francia e dell’Austria hanno incrementato la pressione migratoria sulla frontiera meridionale svizzera (UNHCR, 2018). Spesso la nazionalità è l’unica variabile presente nelle statistiche e questo non permette di comprendere appieno il profilo eterogeneo delle persone che compongono la popolazione straniera (DFE, 2016). Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, il termine migrante si estende come visto a tutte le persone che lasciano il luogo di residenza abituale. Differenti possono essere però le motivazioni: stato giuridico di una persona, carattere volontario o involontario dello spostamento, cause e durata del soggiorno (IOM, 2015). A tutte queste persone deve essere garantito il rispetto dei diritti umani. Per diritti umani si intendono i “diritti di cui ognuno gode unicamente in forza della sua qualità di essere umano, indipendentemente dal colore della pelle e della cittadinanza, dalle convinzioni politiche o religiose, dal ceto sociale, dal sesso o dall’età”. Organizzazioni umanitarie (CICR, ACNUR) prestano aiuto d’urgenza in condizioni di sicurezza precaria (DFAE, 2016).

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Alcuni articoli presenti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DFAE, 2016): Art.1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Art.2: Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altro genere, origine nazionale o sociale, ricchezza, nascita o altra condizione. Art.3: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Art.6: Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica. Art.14: Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi Asilo dalle persecuzioni Art.18: Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione;; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. Molti sono gli indicatori d’integrazione associati a variazioni dello stato di salute: ne è esempio il fatto di arrivare in Svizzera con un’età inferiore ai 14 anni;; questo aspetto è associato a una salute soggettiva e a un equilibrio psichico peggiore, e a problemi fisici maggiori (Alexis Gabadinho et al., 2007). Tramite il riconoscimento dei principali determinanti della salute possiamo inoltre considerare altri aspetti che incidono sulla salute degli individui e, di conseguenza, agire su di essi: Allegato immagine 1 (I determinanti della salute, n.d.).

Al centro del sistema ritroviamo l’individuo con le caratteristiche biologiche (sesso, età, patrimonio genetico che sono determinanti non modificabili). Questo modello rileva una gerarchia di valore tra i differenti determinanti della salute;; ci permette altresì di comprendere l’importanza che gli aspetti sociali e culturali giocano nella vita di un soggetto e come la stereotipizzazione e le discriminazioni possano influenzare negativamente il sistema salute (welfare europeo fondato sul diritto alla salute e visione multisettoriale contenuto nella dichiarazione di Alma Ata) (Commission on social determinants of health, 2007).

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Il termine stereotipo, dal greco “stereo” (rigido) e “tupos” (impronta), venne coniato alla fine del XVIII° sec. in tipografia. Le caratteristiche degli stampi di cartapesta avevano determinate caratteristiche: rigidità, fissità, ripetitività. Gli stereotipi sono dunque generici, semplicistici, ripetitivi, empirici, riduttivi e incongrui (SUPSI, 2016). Hamilton e Trolier (1986) riportano che “uno stereotipo è una struttura cognitiva che contiene la conoscenza, le credenze e le aspettative possedute da un soggetto a proposito di un certo gruppo umano. Può essere positivo o negativo, acquisito attraverso l’esperienza personale o in seguito al processo di apprendimento sociale” (SUPSI, 2016). Di seguito un modello esplicativo che mette in relazione migrazione e salute (Moreau-­Gruet & Luyet, 2011): Allegato immagine 2

Le malattie che appaiono sempre più spesso nel soggetto migrante, e definite “da degrado”, sono patologie da raffreddamento (con frequenti recidive), patologie correlate a cattiva alimentazione, patologie osteo-­muscolari, genito-­urinarie, ostetrico-­ginecologiche e dermatologiche. Vi sono poi le malattie cosiddette “della povertà”, quali TBC, scabbia, pediculosi, malattie funginee e veneree (Aletto & Di Leo, 2003). La patologia “da sradicamento” sembra essere l’esito sia di un disadattamento sociale e culturale (conseguente all’atto migratorio), sia della marginalità legale, lavorativa e abitativa a cui il migrante, troppo spesso, è costretto (Favaro & Tognetti-­Bordogna, 1989). A livello psichico, il DPTS (disturbo da stress post traumatico) è stato introdotto nell’ICD nel 1978 e nel DSM nel 1980 con lo scopo di definire e studiare i casi di patologia psichica che compaiono (con caratteristiche simili) successivamente a un evento traumatico (Colombo & Mantua, 2001). Normalmente di fronte a un pericolo esterno, l’essere umano possiede due meccanismi difensivi: la paura e l’ansia. Questi segnali inducono all’evitamento del pericolo e avvisano della possibile emergenza dell’angoscia (il rischio è anche quello di una ritualizzazione di situazioni traumatiche).

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Angoscia come incontro con la realtà della morte, vuoto senza parole. Il trauma psichico diviene così una minacciosa intrusione all’interno dell’apparato psichico della vittima, il passato diviene iperpresente e il futuro non esiste, non c’è possibilità di progettare. La ripetizione dell’evento traumatico può divenire così un tentativo di ricostruzione della propria continuità. Le vittime di torture hanno vissuto, per esempio, l’intento di una deculturazione del soggetto, privazione identitaria, culturale e sociale. La tortura infatti è una pratica che ha lo scopo di azzerare culturalmente riducendo al silenzio il soggetto sottoposto alla tortura (Lalli, 2005). L’approccio di presa a carico deve essere così esteso a differenti fattori quali: le condizioni pre-­migratorie, le circostanze di migrazione, le condizioni sociali, il livello di integrazione 13 , le procedure legali e l’attitudine generale del paese accogliente. Questo deve essere fatto tenendo conto delle barriere che si possono incontrare: a livello del paziente, a livello del curante, a livello del sistema (F. Althaus, P. Hudelson, et al., 2010). Allegato immagine 3

13 Integrarsi rappresenta una sfida in quanto si tratta di assorbire il nuovo, imparare a utilizzarlo al meglio, senza rinunciare al vecchio, che è radice e sicurezza. All’arrivo nella nostra realtà, il migrante sperimenta un conflitto: necessità di confondersi con gli altri per non sentirsi emarginato e desiderio di distinguersi per continuare a sentirsi sé stesso. Questo conflitto genera disagio, sofferenza, ma anche crescita (Ciano, 2011).

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Di seguito schematizzato l’arrivo in Svizzera del soggetto migrante richiedente l’Asilo. (SEM, 2017) Allegato immagine 4

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La mediazione, l’ermeneutica e la transculturalità: Tre sono le caratteristiche collegabili al tema della mediazione interculturale (Bertini et al., 2018):

-­ Il mediatore si colloca come terzo tra gli immigrati e gli attori sociali -­ Si tratta di un processo che si svolge nel tempo attraverso la fiducia, il dialogo e la

negoziazione -­ Questo processo crea dei ponti fra due universi sociali e culturali

Livelli di comprensione tra curante e curato (Bertini et al., 2018):

-­ Prelinguistico: riconoscere la difficoltà a riconoscere e descrivere i propri vissuti interiori (Illness14 vs Disease15)

-­ Linguistico: riconoscere le difficoltà dovute alle diverse lingue (inizialmente problema lessicale, successivamente quello legato all’attribuzione di significati)

-­ Metalinguistico: comprensione dei doppi sensi, dei sottintesi, della diversità dei valori simbolici attribuiti alle parole

-­ Culturale: differenze di usi e costumi -­ Metaculturale: scelte ideologiche o di fede religiosa

Da sempre, all’interno dei gruppi sociali, esiste la figura del mediatore, colui che può rappresentare differenti ruoli (portavoce, depositario di un sapere, risolutore dei conflitti, ecc.). Originariamente i mediatori si ritrovavano infatti nelle piazze delle città e lì si occupavano di favorire gli scambi (bestiame, immobili, matrimoni) (Soldati & Crescini, 2006). Il termine mediazione richiama uno stato di continuo cambiamento che coinvolge due parti, passaggio da un ordine a un altro. La radice etimologica della parola richiama ai termini: medico, medium, medicina, meditazione. Richiama inoltre il passaggio da uno stato di malessere/disagio a uno più gradevole, andando a superare il motto “homo homini lupus” che ha accompagnato molti di noi durante i corsi di latino al liceo (InterCulture, 2008). L’ermeneutica è invece l’“arte o tecnica dell’interpretazione, si organizza attorno alla figura del comprendere rispetto a quella dello spiegare. Oggetto non è il dato ma l’esperienza ed il vissuto” (Soldati & Crescini, 2006). Secondo quanto riportato in un articolo apparso su “Il Caffè” intitolato “I migranti. Salute e strutture”, l’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio si troverebbe in prima linea nella cura dei richiedenti l’Asilo poiché attrezzato dal punto di vista medico-­infermieristico e con un mediatore culturale a disposizione. Solamente l’anno passato (2017) i migranti ricoverati presso l’OBV sono stati 250, e tra questi, 50 donne hanno partorito;; 1’800 le consulenze ambulatoriali (PS, laboratori, ginecologia). Tuttavia i controlli non sono mai semplici, soprattutto se si considera che molte persone provengono da campi di prigionia, e si ritrovano, ancora una volta, bloccati in una stanza (Il caffè, 2017).

14 Malattia per come questa è presente nella coscienza individuale. Vissuto individuale di malattia (Guerci & et al., n.d.). 15 Malattia in quanto sindrome individuata da un insieme di tecniche e definita entro un vocabolario specialistico. Etichetta dotta della malattia (Guerci & et al., n.d.).

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L’interprete inoltre può giocare un ruolo fondamentale: assoluzione del dovere all’informazione per l’ottenimento del consenso, consente accesso indiscriminante ai servizi sanitari, aumenta la sicurezza nella diagnosi e nella terapia promuovendo la qualità e il successo del trattamento, ecc. (Croce Rossa Svizzera, 2015). M. Leininger stabilì, come visto nel quadro teorico, le basi teoriche per una pratica infermieristica transculturale. Il modello Sunrise e la metodologia di ricerca etno-­infermieristica sono oggi accettati in tutto il settore infermieristico come metodi di organizzare informazioni culturali su cui basare le competenze culturali della cura (Glittenberg, n.d.).

(Leininger & et al., 2005).

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Metodologia di approfondimento Perché l’intervista? Il mio lavoro non si è occupato di misurare né quantificare;; esso ha esplorato e cercato di comprendere i fenomeni poco conosciuti e complessi, si è interrogato sull’esperienza degli infermieri nella relazione con i rifugiati. Una delle fondamentali caratteristiche della ricerca qualitativa è quella di fondarsi sull’importanza di studiare i fatti, le azioni, le norme, ecc., dando ampio spazio al punto di vista e alla prospettiva di chi viene studiato, “guardare attraverso gli occhi delle persone che si stanno studiando”. Questo prevede anche un utilizzo della dimensione empatica con le persone intervistate (Gianturco, 2005). La definizione del problema Il carattere qualitativo o quantitativo è dato dalla formulazione del problema, ovvero dalla tipologia di domande che il ricercatore si pone sulla realtà empirica. La definizione di un problema si pone qualora un generico interesse personale è tradotto in problema scientifico: dall’idea iniziale di investigare qualcosa fino alla conversione in un problema investigabile (domande conoscitive/ipotesi di ricerca) (Gianturco, 2005). Disegno di ricerca Ho scelto di rivolgermi a un campione limitato di partecipanti (quattro infermiere): interrogativo sull’esperienza dei partecipanti in questo determinato contesto, sulle loro attività e sulle interazioni che si creano, sui significati che attribuiscono alle situazioni e sui processi che portano a determinate situazioni o comportamenti (Caiata, 2017). Ho cercato, in ogni caso, di standardizzare il significato di ciascuna domanda, mantenendo una gestione della relazione d’intervista flessibile e con direttività minore rispetto all’intervista strutturata, chiedendo spontaneità e autenticità nelle risposte (non elaborazione anticipatoria alla risposta, “risposta di getto”) (Gianturco, 2005). Contesto di ricerca

-­ Medicina 1 (reparto con maggior numero di ricoveri di rifugiati), OBV (EOC), Mendrisio. -­ Ufficio del capo reparto (setting adeguato) -­ Durata approssimativa dell’intervista: 30 min. (conoscenza, intervista, rielaborazione –

conclusione, congedo). L’intervista più lunga è durata 35 minuti, la più breve circa 25 minuti.

Partecipanti e campionamento Popolazione intesa come insieme dei soggetti sui quali viene svolta la ricerca (infermieri). Campione (numerosità proporzionale alla rappresentatività) inteso come sottoinsieme della popolazione cui vengono applicati gli strumenti di indagine (infermieri specifici). Campionamento: procedimento attraverso il quale vengono selezionati dalla popolazione di riferimento i soggetti che faranno parte del campione (Palumbo & Garbarino, 2004). Il campione (quattro infermiere) randomizzato è stato scelto a discrezione dell’Ente mediante autoselezione ed è stato identificato mediante sigle (anonimato, confidenzialità, diritto a ritirarsi in qualsiasi momento dallo studio) (Palumbo & Garbarino, 2004).

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o Le persone intervistate sono state scelte nel momento in cui mi sono ritrovata in reparto, a dipendenza del carico di lavoro che possedevano, nessuno ha dunque avuto alcun tipo di preavviso. Vi sono stati due infermieri che si sono rifiutati di partecipare (carico giornaliero eccessivo).

o Caratteristiche degli intervistati: 4 donne, esperienze professionali differenti (1 neo-­laureata, 1 infermiera capo-­reparto, 2 infermiere attive in ospedale da 7/8 anni).

o 1 intervistata possiede passato migratorio, le altre 3 sono nate e cresciute in Ticino.

o L’intervista è stata svolta oralmente, seguendo un copione scritto. o Due interviste sono state svolte in una giornata, le altre due a distanza di 4 giorni. o Per questioni di spazio, tempistiche, contesto e competenze limitate nell’utilizzo di

questo strumento, le interviste non sono state indirizzate ai pazienti rifugiati. Le intervistate sono state considerate come testimoni chiave (coloro che offrono utili conoscenze di carattere generale) e come soggetti privilegiati/ specializzati (coloro che offrono informazioni rilevanti per l’obiettivo dello studio) (Gianturco, 2005).

-­ Audio-­registrazione delle interviste (previo consenso delle intervistate) con conseguente trascrizione (nessuna modifica è stata apportata).

-­ Utilizzo di un approccio fenomenologico di analisi dei dati per sondare il modo in cui le infermiere integrano nella loro esperienza questo fenomeno (organizzazione di significato in gruppi di temi (Colaizzi) (Matiti & et al., 2005).

-­ Indagine di esperienze, opinioni e valori, emozioni e sentimenti, conoscenze, sensazioni e background.

-­ Raccolta, elaborazione, interpretazione dei dati e conclusioni. -­ Utilizzo di un approccio induttivo, poiché più adatto dove poco si sa del fenomeno dello

studio (Burnard et al., 2008). Variabili (intese come sondaggio di dimensioni: attitudini e pratiche) Le interviste sono state da me direttamente svolte;; ha fatto seguito un resoconto di intervista in cui esse sono state riportate in maniera narrativa. Le interviste sono state eseguite in due momenti differenti per permettere una comprensione delle difficoltà di eventuali formulazioni e per permettere un cambio dell’équipe presente in reparto. Tutte le domande sono state a-­valutative, con lo scopo di indagare le attitudini, le preoccupazioni e le motivazioni alla base di un determinato comportamento del singolo e/o del gruppo (non è stato indagato il giusto/sbagliato). Talvolta è stato necessario distanziare apparentemente la domanda dalla tematica focale: meccanismo atto a permettere un’espressione il più possibile veritiera del vissuto e delle opinioni delle infermiere intervistate. Le intervistate hanno ascoltato le domande in sede di intervista. Delle sotto-­domande hanno costituito delle ipotesi orientative (per comprendere quali aspetti valeva la pena indagare maggiormente). Da domande di ricerca a domande di intervista. Mi sono occupata di trasformare le sotto-­domande in domande di intervista organizzate in una griglia di intervista. La mia ricerca è stata di tipo non-­standard poiché l’intenzione era di cogliere dei meccanismi all’opera senza pretesa di generalizzare i risultati (Palumbo & Garbarino, 2004).

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Bias (errori) Dati primari: tutti i materiali che il ricercatore ha creato nel corso dell’indagine, contestualmente al procedere (Gianturco, 2005). Dati secondari: tutti i materiali pre-­esistenti alla ricerca che hanno potuto costituire i principali dati su cui lavorare (Gianturco, 2005). Un alto livello di generalità di un item aperto significa scarsa significatività delle risposte, con conseguente pericolo di multidimensionalità (Palumbo & Garbarino, 2004). Vantaggi Lo stile flessibile di questo genere di interviste permette di ottenere una ricchezza di informazioni, favorisce la trasmissione di informazioni relative alla sfera intima e personale dell’intervistato, fornisce l’opportunità di chiarire e ordinare in vario modo le domande in un’interazione diretta, personalizzata, flessibile e spontanea (Gianturco, 2005). Autorizzazioni e consenso L’autorizzazione alla somministrazione delle interviste è stata ottenuta mediante uno scambio elettronico tra me, il mio Direttore di Tesi Prof. Vincenzo D’Angelo, il responsabile del Dipartimento Sanità SUPSI Prof. Graziano Meli e l’Ente Ospedaliero Cantonale OBV di Mendrisio. Mi sono occupata di elaborare un documento (Consenso Informato) in cui ho spiegato il mio intento e in cui ho chiesto l’autorizzazione allo svolgimento della ricerca. Successivamente, dopo aver ricevuto il via libera da parte del mio Professore e attraverso accordo telefonico con la capo reparto del reparto di Medicina 1, ho concordato la prima data di incontro per svolgere le interviste in reparto.

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Consenso informato Studio a cura di Véronique Borcic, studentessa in Cure infermieristiche 3° anno accademico, formazione Bachelor DEASS -­ SUPSI Gentile signora, Egregio signore, Con il presente documento ci rivolgiamo a Lei per chiedere l'autorizzazione a partecipare al nostro progetto. Lo studio riguarda l’approccio infermieristico al paziente rifugiato. Per tale ragione le inviamo il presente documento informativo sull’indagine. Per approfondire ulteriori elementi potrà contattarci. Lo studio è condotto dalla studentessa Véronique Borcic in collaborazione con il signor Vincenzo D’Angelo, docente-­ricercatore designato quale direttore di tesi. Il lavoro sarà condotto nell’ambito dell’elaborazione del lavoro di tesi che permetterà allo studente di conseguire il titolo di Bachelor of Science in Cure Infermieristiche, formazione offerta dal Dipartimento economia aziendale sanità e sociale (DEASS) della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). Intendiamo effettuare questa indagine per conoscere e riconoscere le problematiche che emergono più frequentemente dal punto di vista dell’operatore nell’incontro con il rifugiato in ospedale, rilevando l’esperienza di ciascun professionista attraverso il proprio racconto. Altro obiettivo è quello di individuare le strategie e gli interventi attuati per la presa a carico, sviluppare la capacità critica nell’affrontare un tema di rilevanza etica con risvolto pratico e sviluppare alcune competenze per favorire la relazione di cura tra curante e curato con trascorso migratorio. Materiali e metodi Verrà svolta una ricerca di tipo qualitativo, tramite l’utilizzo di interviste a domande aperte durante colloqui individuali, con l’obiettivo di raccogliere l’esperienza ed il punto di vista soggettivo degli intervistati. Gli infermieri intervistati proverranno dai reparti di medicina 1/2 dell’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio (ospedale del territorio con maggior numero di ricoveri di richiedenti l’Asilo e rifugiati);; questo dovrebbe avvenire entro la fine del mese di Giugno 2018. Tali interviste indagheranno, tramite esempi concreti, aspetti della persona intervistata, la tematica dell’accoglienza e assistenza infermieristica, le problematiche e le strategie per risolvere queste problematiche. La sua partecipazione a questo studio è volontaria, se ora decide di partecipare potrà comunque ritirarsi in qualsiasi momento dallo studio senza alcuna motivazione. Lo studio prevede la rilevazione dei dati sopra indicati garantendo l’anonimato e il rispetto del segreto professionale. Rispettiamo tutte le disposizioni legislative in materia di protezione dei dati. I suoi dati sono utilizzati solo nel quadro dello studio in questione. Tutte le persone coinvolte sono tenute al rispetto del segreto professionale. Per maggiori informazioni non esiti a contattarci direttamente al seguente recapito: Vincenzo D’Angelo, docente-­ricercatore, [email protected] Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale SUPSI Stabile Piazzetta, via Violino 11, CH-­6928 Manno T+41 (0)58 666 64 00 La ringraziamo calorosamente per la sua attenzione. Le ricordiamo che ha la facoltà di porre domande in qualsiasi momento. Graziano Meli Responsabile formazioni Bachelor Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale

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Griglia di intervista Le interviste saranno effettuate facendo riferimento alla seguente griglia che si baserà su alcuni temi principali (approfonditi nel corso dell’intervista in maniera a-­valutativa) che ho scelto di trattare.

-­‐ Possibilità di utilizzare strumenti devianti rispetto al tema centrale -­‐ Dagli aspetti emotivi agli aspetti cognitivo-­professionali. Risposte di getto e libere, senza

riflessione prolungata -­‐ La mia intenzione sarà quella di spiegare azioni e non opinioni, comprendendo i fenomeni

causa-­effetto -­‐ Saranno richiesti esempi concreti

CONOSCENZA DELLA PERSONA TEMI

-­‐ Genere ed età, da quanto tempo è infermiera/e?

-­‐ Perché è diventata/o infermiera/e? à quali i valori, le caratteristiche e le attitudini che non possono mancare nella sua professione?

-­‐ 3 termini che le vengono in mente se pensa alla parola “rifugiato”

-­‐ Come vive il primo contatto con “il diverso“ (ripercussioni sulla pratica)? à conosce e

crede nelle medicine di altri popoli? Ritiene di poterle mettere in atto se richiesto dalla persona? Vi sono dei rischi professionali e/o personali nel farlo?

-­‐ Ha avuto un trascorso migratorio?

ACCOGLIENZA E ASSISTENZA INFERMIERISTICA TEMI

-­‐ In che modo (esempio concreto) si struttura l’assistenza infermieristica al rifugiato (chi fa cosa, quando, quali le priorità e bisogni)? perché questo ordine? à Quali focus/ macrofocus apre in queste circostanze? Quali domande vengono poste e in che modo?

-­‐ Il suo ruolo nell’assistenza muta nel corso della presa a carico (cambiamenti emotivi e

pratici)? Perché? à a chi si rivolge?

-­‐ Ospedale che accoglie. Cosa significa? Oggi l’OBV può essere riconosciuto come ospedale che accoglie? In che misura rispetto al passato?

-­‐ Quando pensa al futuro del rifugiato, quali ritiene essere le priorità? Come vengono indagate nel corso della degenza?

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PROBLEMATICHE TEMI

-­‐ Allontanarsi dal “conosciuto“ spaventa? Perché? Come si sente alla fine del turno?

-­‐ Persona rifugiata e paziente rifugiato: come vengono integrati e interpretati i due concetti? à problemi di salute e/o problemi di comportamento? Quali le emozioni che si presentano?

-­‐ Quali i problemi riscontrati nell’accoglienza e durante la degenza? E quali le barriere?

A cosa le ricollega?

-­‐ I flussi migratori come crescita, come barriera o come entrambi gli elementi? In che misura?

STRATEGIE DI RISOLUZIONE DEI PROBLEMI TEMI

-­‐ Se l’esperienza con l’utente risulta essere difficile, quali strategie di coping consapevoli mette in atto?

-­‐ Vengono stabiliti dei ruoli oppure tutti gli infermieri si occupano dei pazienti rifugiati? Perché?

-­‐ Ci sono dei protocolli o delle risorse materiali/non materiali reperibili? (comunicazione,

classificazione delle priorità, continuità delle cure)à Sono di facile accesso? Esistono degli strumenti facilitatori? Sono risolutivi? Mediatore o interprete?

-­‐ In che modo cambia la risposta professionale a richieste che si distanziano dalla norma

lavorativa? (esempi concreti) à come sono vissuti questi aspetti e in che modo si distanziano dalla norma? Quale è considerata essere la norma?

-­‐ Quali dovrebbero essere i miglioramenti?

-­‐ Ritiene di essere sufficientemente formata/o e di avere gli strumenti per una presa a carico che vada oltre l’assistenza infermieristica? In che misura?

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Interviste integrali Intervista n°1

-­‐ Donna -­‐ Età: 46 anni -­‐ Infermiera dal 1994

QUALI I VALORI E LE CARATTERISTICHE CHE DEVE AVERE L’INFERMIERIE? Eh.. (ride). Sicuramente perché mi piaceva la professione. Poi avevo anche un discorso di famiglia legato a una zia che era stata infermiera e che mi ha trasmesso un po’ l’idea di fare questa formazione. Diciamo che rispetto all’idea iniziale quando ti ci trovi è completamente diverso;; sicuramente quello che secondo me ci vuole per fare questo lavoro è vabbè sicuramente l’impegno, l’impegno a non fermarsi mai, sia dal punto di vista della conoscenza sia dal punto di vista del cambiamento, perché non è una professione statica, il fatto di avere una buona attitudine alla relazione, il fatto di avere una buona attitudine proprio allo stress. Buona attitudine che non significa non potersi stressare ma significa trovare delle strategie che permettano di reagire nel modo corretto allo stress. E poi sicuramente l’attaccamento alla professione che se uno ci crede ce l’ha, se non ci crede è più difficile (ride). Deve piacere questo lavoro. Indubbiamente. I PRIMI 3 TERMINI CHE TI VENGONO IN MENTE CON LA PAROLA “RIFUGIATO” Eh. Adesso mi hai bloccato con questa domanda di botto. Mah sicuramente mi viene in mente “umanità, malattia e disperazione.” IL PRIMO CONTATTO CON IL RIFUGIATO, CON IL DIVERSO QUINDI, COME È VISSUTO DA TE? Mah sicuramente è una cosa relativamente nuova, perché comunque ci capitano diversi casi ma rimane una cosa nuova a cui non siamo tanto abituati perché culturalmente anche se siamo abituati all’umanità, all’altro, all’altruismo, però sicuramente qualche cosa scatena in noi anche qualcosa di nuovo a cui non siamo sempre abituati. Però quello che mi scatta, quello che mi scatta a me quando vedo queste persone, è capire e cercare di capire davvero il loro vissuto: chissà da dove sono arrivati, chissà che cosa hanno dovuto patire per arrivare qui. Per cui quello che cerchiamo di fare è poterli accogliere nel migliore dei modi anche se non sempre abbiamo la possibilità di farlo. LA QUESTIONE EMOTIVA HA DUNQUE DELLE RIPERCUSSIONI NELLA PRESA A CARICO? Sì beh, proprio il fatto di provare pena, che non è pena ma passami il termine, comunque l’idea di che razza di viaggio si sono fatte queste persone, perché erano nel loro paese è li che scatta proprio il meccanismo di sostegno e aiuto. È un po’ questa umanità che dicevo che scatta, d’impulso vorresti proteggerli ma non si può magari sempre. VI È UN INCONTRO CON ALTRE MEDICINE, CON MEDICINE DI ALTRI POPOLI RISPETTO AL TEMA DELLA CURA? Sì diciamo che loro si sono curati poco, cioè loro, queste persone che vengono, poi magari hanno anche spesso la barriera linguistica, non so, quindi è difficile indagare spesso quale era il loro passato, spesso sono giovani che non hanno mai avuto bisogno, che so, di essere malato, o di andare dal medico.

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Mai personalmente mi è successo che qualcuno mi chiedesse di essere curato secondo i suoi canoni medicali. TU HAI AVUTO UN PERCORSO MIGRATORIO? No. Cioè sono venuta dall’Italia a qui. Sì, un po’ di migratorio c’è. Cioè qua che poi prima ero a Faido quindi l’ho sentito un po’ di più. IN CHE MODO, TRAMITE ESEMPI CONCRETI, SI STRUTTURA L’ASSISTENZA INFERMIERISTICA AL RIFUGIATO (ES. QUALI FOCUS, MACROFOCUS) Uh.. Questo magari ti faccio parlare.. noi vabbè apriamo ammissione (cioè la descrizione di quello che sappiamo perché molto spesso quando arrivano non abbiamo una storia, cioè abbiamo, mi ricordo, per esempio magari non abbiamo il nome e cognome e la data di nascita perché purtroppo a volte non riusciamo a identificarli o loro non si fanno riconoscere. In effetti abbiamo un ragazzo con nome sconosciuto, e fa una certa.. Poi, vabbè, appunto focus ammissione e poi sicuramente il focus che si lega a tutte quelle che sono le problematiche relative fisiche;; poi noi ci attiviamo subito contattando la mediatrice culturale che è una figura nuova all’interno dell’ospedale, noi comunque in ogni caso a prescindere l’attiviamo e ovviamente se necessario attiviamo altre figure che operano in reparto. È ovvio che come ti dicevo la barriera linguistica è un grosso problema. Quindi spesso abbiamo una necessità di coinvolgere gli interpreti tramite appunto la mediatrice culturale per capire effettivamente quali sono i loro bisogni. La mediatrice viene contattata di routine: noi in genere quando abbiamo anche altre situazioni particolari che non è solo il rifugiato che arriva dall’Africa, ma situazioni in cui c’è una lingua differente, noi attiviamo ecco la mediatrice. È una figura nuova che per noi ha dato molto sostegno anche proprio per capire la cultura proprio della persona perché noi molte volte non abbiamo idea di.. Magari gli proponiamo del cibo che non potremmo. Diciamo che lei è un’ottima risorsa. LA MEDIATRICE AIUTA AD INDAGARE LE PRIORITÀ ASSISTENZIALI DELLA PERSONA? Sì sì,, cioè, diciamo che a volte, magari riusciamo a capirlo noi con le persone che parlano inglese altre volte è proprio la mediatrice che permette questo. IL TUO RUOLO NEL CORSO DELL’ASSISTENZA, CON I CAMBIAMENTI EMOTIVI CHE CI POSSONO ESSERE CONOSCENDO LA PERSONA CON IL SUO VISSUTO TRAUMATICO, MUTA? Assolutamente sì, sì, sì. Sì perché io mi immagino, abbiamo avuto tantissimi ragazzi magari con la TBC, quindi costretti in camere di isolamento magari per un mese, o anche di più, magari sottoposti ad esami impegnativi, magari invasivi, e tante volte quello che si vede dall’altra parte è un disagio perché non capisce bene che deve stare in camera, deve mettersi la mascherina, di qui di lì, magari non mangia o chiede da mangiare troppo e non può quindi magari c’è un po’ questa difficoltà nostra di capire che se continuano a suonare.. Ma non è solo perché magari nella sua lingua si spiega, ma magari c’è proprio un limite legato al fatto che nella loro cultura il curars.. Se sto bene io non ho niente, il fatto che non hanno sintomi per loro stanno bene quando però magari non lo stanno proprio. Ecco a volte è proprio difficoltoso, però capire la storia, capire come sono arrivati, capire che magari hanno dei parenti che so giù..

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Cioè questa cosa sicuramente smorza un po’ questa cosa di dire “cavoli continua a scappare dalla camera, l’abbiamo detto 100 volte, abbiam già chiamato l’interprete..”. A me è successo un caso, e questo proprio mi ha lasciato, per legarmi a questo discorso, proprio un po’ basita. Era un paziente che continuava ad uscire e una volta è scappato proprio anche dal balcone. Abbiamo dovuto, perché a volte dobbiamo proprio anche chiamare la polizia quando escono, lui aveva un vissuto di un tragitto fatto in una barca, al buio, chiuso dentro. Quindi ritrovarsi in una camera chiuso dentro, con spesso le finestre chiuse perché spesso quando c’è il rischio di fuga chiudiamo.. lo faceva impazzire. Quindi conoscere ci fa capire perché, quindi non è che non vuole capire, ma è perché c’è un disagio grande. IL CONTRARIO È MAI SUCCESSO? ALL’ARRIVO DARE TUTTI SÉ STESSI CERCANDO DI CAPIRE LA STORIA E POI RENDERSI CONTO CHE LE MOTIVAZIONI NON GIUSTIFICANO GLI ATTEGGIAMENTI? Mah, sì a volte succede, ma proprio perché secondo me c’è difficoltà ad entrare in relazione con queste persone. OSPEDALE CHE ACCOGLIE. L’OBV OGGI PUÒ ESSERE CONSIDERATO UN OSPEDALE CHE ACCOGLIE? Mmh... c’è ancora tanto lavoro da fare. Però penso che comunque si è già mosso tanto. È difficile poi sapere cosa si dovrebbe fare, perché ci sono tante cose che poi è difficile poterle.. Mmh.. cioè ti dico il fatto che debbano stare in isolamento e le camere comunque sono piccoline, comunque la possibilità di dare delle camere molto più spaziose, più accoglienti in modo che non si sentano chiusi, però, cioè, alla fine la struttura è questa non è che possiamo dire creiamo delle camere ad hoc. Però, ecco, quella potrebbe essere sicuramente un’idea. Diciamo che però comunque ci stiamo muovendo anche noi, nel senso che abbiamo fatto si che, che ne so, in reparto abbiamo messo questi iPad che così i ragazzi possano utilizzare internet, fare le chiamate.. proprio perché ci siamo resi conto che chiusi in camera, magari con la televisione solo nella lingua che non conoscevano, e soprattutto son tutti ragazzi che hanno tutti il telefonino ma poi magari arrivano dal centro asilanti e non sono carichi, devono aspettare diversi giorni, internet non funziona eccellentemente.. Ecco con questo sistema diciamo che con questo strumento, che è un’idea che è nata dall’idea di una nostra collega.. Perché non lo facciamo arrivare e l’abbiamo proposto alle risorse umane. E ti assicuro che nella sua banalità quanto possa aver fatto la differenza con alcuni di loro. Veramente. Perché magari appunto anche loro hanno Facebook, piuttosto che hanno altri sistemi di comunicazione. Anche perché non poter magari parlare sempre con le loro famiglie magari è un peso. Tante volte gli permettiamo di chiamare attraverso il nostro centralino in accordo con le risorse umane che almeno una volta, all’arrivo, possono parlare con il Paese di origine se hanno la possibilità. PENSANDO AL FUTURO DEL RIFUGIATO DOPO LA DEGENZA, QUALI SONO LE PRIORITÀ? Mah.. La priorità è sempre quella di ritornare al centro asilanti in genere, perché vengono da lì. Poi dire dove possano andare. Cioè nella mia idea sarebbe bello poterli integrare, cioè.. Prima della dimissione sicuramente insieme alla mediatrice viene fatto un lavoro piuttosto che tramite il centro asilanti c’è uno scambio di informazioni. Anche il medico che lascia la ricetta magari spiega tutto, spiega quanto deve fare il trattamento. Questo assolutamente viene fatto un po’ come per tutti i pazienti. C’è un intermediario o passiamo direttamente tramite l’interprete sempre.

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Abbiamo un po’ di problemi con l’interpretariato, spesso sabato e domenica non c’è ed è capitato che in alcuni casi avevamo proprio bisogno per entrare in relazione. E questo è proprio una cosa che abbiamo segnalato alle risorse umane è un lavoro che dobbiamo fare. Proprio perché sarebbe proprio bello che nel momento in cui abbiamo bisogno ci siano, e non è sempre cosi. Magari l’interprete è già occupato da qualche parte e ci dice “no, non c’è nessuno”, oppure il sabato e la domenica appunto o dopo una certa ora (mi è capitata una notte che avevamo bisogno e non abbiamo potuto chiamare nessuno). Questo potrebbe essere un aspetto di miglioramento importante. Un centralino disponibile 24/24 con possibilità di avere delle persone di riferimento. ALLONTANARTI DAL CONOSCIUTO SPAVENTA? Ah sì, quello spaventa tantissimo però stimola incredibilmente. Ed è riconoscere le storie delle persone, penso sia arricchente. Poi penso ci sia chi non frega niente ma questa cosa ha una valenza. SPAVENTA QUINDI C’È UN COINVOLGIMENTO IMPORTANTE? COME TI SENTI QUANDO RIENTRI A CASA? Senz’altro, è una cosa positiva. Poi a volte trovi delle mazzate tremende che poi porti a casa. Quando torno a casa fa parte del nostro lavoro capire che c’è il tempo e a volte non c’è, c’è la situazione che permette di farlo. Poi c’è la giornata in cui non vuoi entrare in queste cose.. Sai dipende dalle situazioni, penso ci siano delle situazioni in cui ce lo si può permettere, e si fa;; però non si può fare a tutti. Questo che non posso fare a tutti, almeno come capo reparto, poi magari come infermiera che si occupa di meno pazienti ha la possibilità di farlo di più. Poi la frustrazione può essere certamente presente a volte sì, a volte ce ne si fa anche una ragione perché non si può arrivare dappertutto. PERSONA RIFUGIATA E PAZIENTE RIFUGIATO Sono la stessa cosa. Generalmente son sempre problematiche di salute poi magari scopri che ci sono problematiche comportamentali a seguire, ovvio, è capitato, però.. Sì, no delle problematiche comportamentali ci sono: per esempio una ragazza che usciva dalla camera e si accasciava lì davanti perché non voleva più entrare. Ecco noi vediamo spesso questo, il fatto che vogliono andare via, vogliono andare via da qua nonostante sia magari un posto, soprattutto capita nel posto dove magari hai l’aria condizionata, hai la televisione, che ne so ti danno comunque da mangiare.. Però l’idea loro non è rimanere ma andare via il prima possibile. E poi dopo ci si chiede perché, a volte riesci a capirli e intuirli però poi non sono persone che si aprono così, cioè probabilmente anche la loro cultura, il loro essere.. Sai noi abbiamo una cultura occidentale dove fai un graffietto e piangi loro arrivano con dei problemi che ti dici caspita come fai a stare in piedi, non lamentarti o.. Probabilmente è proprio la cultura così cioè… questa forza. NON HAI MAI SENTITO, RISPETTO AI COMPORTAMENTI, FRASI ACCUSATORIE? Sì, sì, assolutamente sì, dal personale assolutamente sì. L’aspettativa del paziente è solo quella di poter comunicare con la famiglia, grande aspettativa a volte che proprio mamma mia.. Per me è comprensibile, per qualcuno probabilmente no. Di fatto qualche volta quando lo sento mi arrabbio perché..

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O anche sul cibo loro non sono persone che hanno modo di spiegarsi, non so .. Ehm, veramente, forse è culturale il fatto che nonostante abbiano vissuto queste angherie, nonostante che a volte vengano picchiati, a volte veramente hanno, fanno una vita che ci si chiede veramente come si fa a non aprirgli le porte, a non abbrr.. cioè veramente capisci;; come si fa? E però purtroppo loro queste cose non è che te le buttano addosso, loro cioè è una cosa loro e non è che pretendono.. Cioè hanno avuto un vissuto così.. Questo, secondo me .. Si vabbè magari appunto pretendono di chiamare casa, oppure ce n’era uno che voleva continuare a mangiare ma lo capisco, se è mesi che non mangia è ovvio che se gli porti lui vorrebbe continuare a mangiare roba.. È capitato che dicono “eh, questi qua continuano a chiamare, vogliono sicuramente mangiare, non può perché hanno il rischio del re-­fiding quindi non si può”.. Però chiaramente se hanno fame da mesi ma anch’io se potessi suonare e chiederlo e le prime due volte me lo portano e la terza no io ci provo no? QUANDO SENTI QUESTE COSE A LIVELLO DI AZIONE COME CAPO REPARTO COSA SUCCEDE? A volte direttamente al singolo, a volte durante il punto della situazione, noi abbiamo alle 9 un punto in cui tutti ci troviamo e presentiamo il caso e cerchiamo tutti poi un po’ di prendere in considerazione.. Cioè accolgo anche il vissuto perché non penso che sia facile nemmeno dall’altra parte. Il vissuto viene accolto: cioè non è che vado lì e massacro, cerco di capire la situazione approfondendola io per prima, anche la situazione dei ragazzi e smorzando un po’ la cosa però alla fine è comprensibile. Anche se è vero che però alla fine qualcuno ha queste uscite nel momento di stress però devo dire che l’accoglienza di tutti all’interno del reparto è buona, non ho mai avuto la sensazione che ci sia gente che non si avvicina o che dice in modo molto negativo o in termini razzisti. Lo vivo più magari in situazioni in cui c’è carico di lavoro pesante e ecco allora.. Magari queste persone suonano 50 volte, piuttosto che magari scappano o devi stare lì davanti alla porta a vedere che non scappino.. Capisci che il carico e il disagio è legato al carico di lavoro alto e non alla persona in particolare. A me non è mai capitato di sentire cose pesanti, ma se dovesse succedere ovviamente io segnalerei alla mia diretta superiore e cercherei di capire perché, come per altre cose. I FLUSSI MIGRATORI: BARRIERA, RISORSA, O ENTRAMBE LE COSE? Dipende, io l’ho sempre vissuta come risorsa nel senso che non è una cosa nella mia idea che si può fermare o che si può impedire. Sì, assolutamente come risorsa, come crescita. Come crescita ma anche personale. Finché li vedi in televisione ma poi li incontri, sono arricchenti. STRATEGIE PER FAR FRONTE ALLE EMOZIONI? COPING Sicuramente cerco di elaborarla, c’è sempre un perché ti muove determinate cose. Cerco di elaborarla poi se vedo che è una cosa mia ok, magari la condivido con le mie colleghe o colleghi con cui ho una certa confidenza. In équipe cerchiamo di condividerle, non è sempre possibile però vedo che è richiesto, nel senso che loro lo richiedono molto. Ovviamente non è che siamo qua una ditta specializzata, però nel limite del possibile cerchiamo di ovviamente prendere a carico, non sempre come si vorrebbe.. Anche se il vissuto loro è che ci vorrebbero sicuramente più spazi, e questa è una cosa che sicuramente abbiamo già portato avanti, il fatto che veramente ci vogliano più spazi dove l’équipe si possa trovare e condividere momenti.

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PROTOCOLLI, RISORSE MATERIALI E NON MATERIALI -­‐ mediatrici -­‐ interpreti -­‐ possibilità dell’iPad -­‐ non ci sono veri e propri protocolli (ovvio a volte dobbiamo chiamare i securini perché

dobbiamo piantonare la camera) -­‐ possibilità di proporre delle alternative al menù, abbiamo una serie di fotocopie in cui al

posto della scritta abbiamo la foto per proporre bene il menù -­‐ dietiste che hanno un impatto importantissimo per l’alimentazione, la ri-­alimentazione,

l’educazione IN CHE MODO CAMBIA LA RISPOSTA PROFESSIONALE A RICHIESTE CHE SI DISTANZIANO DALLA NORMA – LA SITUAZIONE DEL RIFUGIATO – LA RISPOSTA DELL’INFERMIERE Se la lingua è incomprensibile si cerca di spiegare a gesti, o cercando magari di parlare francese o inglese. Si cerca comunque sempre di entrare in relazione, non entrare fare la medicazione e via, ma l’attitudine è la stessa con tutti i pazienti, anzi si cerca sempre di entrare in relazione. Un’altra cosa che non ti ho detto è che abbiamo un elenco di persone che lavorano in ospedale che sappiamo conoscere alcune lingue tipo l’arabo. Quindi ecco abbiamo anche questa come risorsa interna (ecco se abbiamo bisogno chiamiamo ecco il collega dell’alberghiero che parla arabo e lo chiamiamo perché abbiamo bisogno un attimo per una traduzione) si cerca comunque sempre di avere un approccio uguale, per quello che ho visto io non ho visto differenze. IN QUANTO PERSONA E INFERMIERA RITIENI DI POSSEDERE UNA FORMAZIONE SUFFICIENTE PER FAR FRONTE ALLA SITUAZIONE MIGRATORIA ODIERNA? Assolutamente no, io credo che ci vorrebbero dei corsi. I PAZIENTI RIFUGIATI HANNO DEGLI INFERMIERI APPOSITI OPPURE TUTTI GLI INFERMIERI SI OCCUPANO DI RIFUGIATI? No, al momento di équipe siamo tutti nella stessa. Tutti si occupano di tutte le casistiche. Non abbiamo quello che ha la particolarità di lingua, ovvio come in tutti i pazienti c’è quello che si approccia meglio, quello sì da un occhio più avanti se vedo che .. C’è la persona molto.. un po’ più chiusa, ecco magari cerco di magari non assegnarlo a lui, però non è sempre così semplice, è difficile. L’unica cosa è davvero questa barriera linguistica anche per le cose più semplici e base come hai sete, hai la febbre..o dire ti devi lavare, vuoi una mano. Le cose più banali. Ecco un’altra cosa che non ti ho detto è che abbiamo allestito un armadio, perché noi abbiamo proprio difficoltà di indumenti, perché proprio a volte non hanno indumenti, le cose ecc., e abbiamo un armadio giù dove magari la gente che non usa più alcuni indumenti può lasciarli li e noi ci serviamo. Quindi li mandiamo poi via con cose nuove, pantaloni nuovi ecco.. A volte gli abbiamo comprato anche noi le scarpe (mi è capitato di comprare le scarpe ad un ragazzo, un numero immenso, era in giro in ciabatte, quasi inverno, e come me come molti altri).

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Al piano di sopra è capitato di comperare giochi per bambini, secondo me è stato molto bello perché gli hanno dato proprio il camerone a 4, e li han lasciati.. e han perso comunque voglio dire 3 letti, che potevano essere riutilizzati, però visto che erano 3 bimbi piccoli per poterli far stare insieme. E poi gli infermieri han portato giochi, vestiti, quindi comunque devo dire che non trovo persone che sono assolutamente contro. Intervista n°2

-­‐ Donna -­‐ Età: 29 anni -­‐ Infermiera da 7 anni

PERCHÉ SEI DIVENTATA INFERMIERA? QUALI SONO LE CARATTERISTICHE E I VALORI CHE L’INFERMIERE DEVE AVERE? Beh sicuramente pazienza, amore per il prossimo, voglia di mettersi sempre in gioco e... beh, il poter essere di aiuto ad una persona in un momento di bisogno. 3 TERMINI PER LA PAROLA RIFUGIATO Se penso al rifugiato qui è una persona con una lingua differente, una persona con esperienza e cultura differente, una persona che comunque ha bisogno. L’ESPERIENZA CON IL DIVERSO CHE SI DISTANZIA DALLA NORMA. COME L’ASPETTO EMOTIVO INFLUENZA LA PRATICA? Beh sicuramente il fatto che loro hanno vissuti differenti, o comunque culture differenti, questo implica tantissimo. Perché comunque tanti arrivano e sono davvero spaventati, bisogna comunque davvero vedere il passato che hanno, spesso arrivano e sono stati in prigione, o picchiati, maltrattati e quindi questo sicuramente... Io quando incontro il diverso sono piuttosto curiosa, spaventata no no. Forse dato dall’esperienza di essere stata via 6 mesi quindi quello no, assolutamente. CONOSCI E CREDI NELLE MEDICINE DI ALTRE POPOLI? HAI MAI INCONTRATO ALTRE MEDICINE? No mai: però se è, perché non metterle in atto se possiamo? Non penso ci sarebbero delle ripercussioni. HAI AVUTO UN TRASCORSO MIGRATORIO? Inizialmente il mio viaggio di 6 mesi l’ho vissuto come migrazione, ero l’unica bianca quindi tutti mi guardavano. Poi più vai in là più ci fai l’abitudine e ti senti a casa. A LIVELLO PRATICO COME SI STRUTTURA L’ASSISTENZA AL RIFUGIATO? Dopo che viene ricoverato attiviamo la mediatrice culturale quindi gran parte del lavoro ce lo fa lei come attivare il traduttore;; solitamente appunto loro per motivi di salute vengono messi in isolamento, quindi comunque spesso loro ci vedono tutti imbragati poverini, e però bene o male, almeno io è come faccio con gli altri... non è che...

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Viene aperto solitamente il focus isolamento goccioline perché la maggior parte vengono ricoverati per TBC;; per quello che è la patologia viene aperto il focus inerente l’atto respiratorio, tosse soprattutto. Per quello che è la comunicazione c’è proprio il focus alterazione della comunicazione dove proprio lì descrivi la problematica linguistica. Ogni tanto ci troviamo in difficoltà con gli interpreti, cioè se non c’è la mediatrice c’è il servizio qualità eventualmente che possiamo contattare. Ma quando non c’è la mediatrice culturale o il weekend spesso ci siamo trovati in difficoltà. In questo caso ci arrangiamo nel senso che contattiamo il centro asilanti, e tramite loro... Noi comunque abbiamo una scheda in cui ci sono i vari numeri di telefono. LA TUA ATTITUDINE E IL TUO RUOLO CAMBIA NEL CORSO DELLA DEGENZA? Lo stato emotivo ha ripercussioni sulla presa a carico, sicuramente sì. Inizialmente forse più da parte loro che da parte nostra. Nel senso che spesso sono in isolamento, ci vedono mascherati, entriamo giusto per fare quello che dobbiamo fare e usciamo, probabilmente anche per le difficoltà linguistiche. Poi secondo me il metà percorso è la parte migliore per entrambi, sia da parte nostra che da parte loro. Poi arriva il momento finale, se tu vuoi, dove probabilmente più da parte loro ma anche da parte nostra, spesso c’è un po’ una sofferenza a livello di non farcela più, nel senso che spesso loro iniziano ad essere anche aggressivi perché vogliono uscire, non riescono a capire il motivo del perché sono qua, spesso sono qui anche solo di passaggio, vogliono andare in Germania o dov’è... e quindi per loro diventa soffrente. E poi anche per noi poi diventa sofferente perché da una certa parte, bisogna dirlo, spesso diciamo “caspita sono qua, serviti e riveriti per curarsi, noi cerchiamo di fare il possibile e poi loro ci trattano cosi”. Quindi ecco la frustrazione può essere assolutamente presente, paura no, ma perché non mi è mai capitato... Però c’è stata una situazione in cui abbiamo dovuto chiamare due pattuglie della polizia. COME AFFRONTI LE EMOZIONI (A CASA O IN REPARTO?) Se ne parla. OSPEDALE CHE ACCOGLIE Ah beh, dovrebbe essere braccia aperte, nel senso che accogli chiunque a prescindere dal suo stato e cerchi di fare il possibile per farlo stare meglio. Ma assolutamente io non accetto qualunque comportamento. Io porto rispetto a dipendenza ovviamente della patologia del paziente, soprattutto a livello psichiatrico, io porto rispetto però pretendo comunque anche un po’ di rispetto che poi a volte viene a mancare. Poi a volte a dipendenza del paziente che hai davanti lasci correre oppure a volte glielo fai anche un po’ notare. Poi una domanda me la faccio del perché uno mi tratta così, probabilmente è dovuto alla patologia, probabilmente è dovuto a vissuti o a un mio atteggiamento che l’ha infastidito. AD OGGI L’OBV PUÒ ESSERE CONSIDERATO OSPEDALE CHE ACCOGLIE? Sicuramente c’è ancora da fare, però abbiamo già fatto tanto con la mediatrice. PRIORITÀ ASSISTENZIALI ANCHE PER UNA EVENTUALE DIMISSIONE Beh sicuramente... Cosa penso... non è che facciamo molto noi nel senso che a dipendenza di dove viene...

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Cioè se viene dal centro asilanti li si rimanda al centro asilanti, poi sono loro che si occupano di tutto. Se invece vengono direttamente dalla stazione o dal confine sono le guardie di confine... Quindi noi in sé per il post... cioè oltre a dove ci dicono loro di collocarli non facciamo. HAI MAI AVUTO UN SENSO DI FRUSTRAZIONE ARRIVATA A CASA? No, assolutamente no. Cioè nel senso. Dipende. Non è che... So che comunque qualcosa verrà fatto. Confido nelle altre figure. PERSONA RIFUGIATA E PAZIENTE RIFUGIATO Beh… il fatto che in tutte e due le persone il vissuto è sempre lo stesso. Se io penso ad un paziente rifugiato penso che comunque è stato tolto da una vita probabilmente straziante, arriva qui dove magari pensa di riuscire a trovare l’oro tra virgolette, viene subito messo in un ospedale, dove ci sono persone nuove, dove l’ambiente è nuovo, dove viene rinchiuso in una stanza perché appunto è in isolamento... Quindi tra paziente rifugiato e persona rifugiata questo sta un po’ nel, mmh, ecco... Il paziente rifugiato ha un doppio trauma. Anche perché spesso la persona rifugiata è insieme ai suoi compari, nel senso hanno fatto lo stesso viaggio, vengono dalla stessa nazione, parlano la stessa lingua... e qua non c’è nessuno. A LIVELLO DI RICOVERI, CI SONO PROBLEMATICHE COMPORTAMENTALI? Assolutamente sì. Spesso sono aggressivi, più che verbalmente fisicamente, spesso sono strafottenti in alcune occasioni, ma questo non vuol dire che... probabilmente dato proprio dal loro passato. Però sono delle cose che vengono, che almeno io noto. Però ci sono anche quelli tranquilli, spaventati, molto. Poi ci sono quelli che scappano dalla camera di isolamento e questo mi provoca rabbia. Molta rabbia ma rabbia perché mi chiedo... ok... mmh... rabbia dal momento che gli è stato spiegato il motivo del perché lui è in isolamento. Quello. BARRIERE

-­‐ Lingua -­‐ Interpreti non contattabili 24h/24h -­‐ Culture differenti

Però trovo che il linguaggio sia alla base, perché una volta che hai il linguaggio riesci a comprendere anche la cultura, quello che ha vissuto... Poi dipende tu che persona sei;; questo influenza il fatto che una persona si confidi sul proprio vissuto. FLUSSO MIGRATORIO: BARRIERA, CRESCITA, ENTRAMBE LE COSE Nella realtà ospedaliera un po’ come entrambe le cose. Come crescita, vabbè, conoscenza di nuove malattie, nuove culture, nuovi modi di approcciarsi. Come barriera se tu vuoi è un po’ il fatto che spesso rimangono qua comunque per diverso tempo. A livello di tempo non trovo difficoltà perché spesso sono autonomi, non mi creano... QUANDO VIENE RICOVERATO UN PAZIENTE RIFUGIATO TUTTI GLI INFERMIERI POSSONO OCCUPARSENE? Sì.

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PROTOCOLLI E RISORSE MATERIALI E NON MATERIALI A CUI FAR CAPO SE NON C’È LA MEDIATRICE? Beh, sì. Abbiamo sicuramente in DoQu, una scheda con le varie persone che lavorano all’Ente, che sai possono aiutare con la traduzione, quindi potrei provare a contattare loro, anche perché questo è a vantaggio della persona, so che è all’interno dell’Ente quindi so che c’è comunque anche per loro il segreto professionale. In ogni caso non gli vado a spiegare grandi cose ma vado a spiegare solo quello che ho bisogno di tradurre. Poi abbiamo il tablet, e... sinceramente basta. RICHIESTE DEL PAZIENTE RIFUGIATO POSSONO ESSERE DIFFERENTI

-­‐ QUALI SONO LE RICHIESTE PIÙ FREQUENTI -­‐ COME CAMBIA LA RISPOSTA AD UNA SITUAZIONE CHE SI DISTANZIA DALLA

NORMA Allora le richieste principali sono: cibo, quindi hanno fame (spesso ti chiedono gelato, ovomaltina, zwieback). Poi vabbè, spesso ti chiamano perché ti chiedono di poter uscire perché vogliono uscire. Oppure ti chiamano spesso perché non riescono a capire il perché devono restare in camera. Rispetto ai pazienti “normali” ho vissuto e visto comportamenti differenti degli operatori, assolutamente sì questo. Soprattutto a livello medico, ma non medico di reparto, ma altri medici. MIGLIORAMENTI Beh, sinceramente, farei, proporrei che magari, visto che fanno le formazioni per imparare l’inglese e queste cose, magari mettere l’insegnamento per quello che è un pochino anche solo brevi frasi, però magari un infermiere o più infermieri che possano informarsi sulla lingua. Io per esempio non mi ritengo formata per quello che è il fenomeno migratorio. Cioè per quello che è gestire la terapia sì, però per tutto il resto no. Ma anche per la cultura, adesso è vero che sono tanti anni che li seguiamo però sai che lui è somalo quest’altro é... ecc., più che altro per loro. Intervista n°3

-­‐ Donna -­‐ Età: 31 anni -­‐ Infermiera da 8 anni

QUALI I VALORI E LE CARATTERISTICHE DI UN INFERMIERE, PERCHÉ SEI INFERMIERA? Ok, allora, secondo me è importante essere altruisti, comunque avere un approccio di apertura verso il prossimo, volere anche aiutare chi ha bisogno senza comunque anche un giudizio di valore, proprio a livello professionale evitare di avere un giudizio verso le persone. RIFUGIATO. 3 PAROLE Ehm, aspetta. Mmh... Beh persona, ehh… spesso, mi viene in mente che comunque ha bisogno di aiuto per primo impatto mi viene di aiutarlo perché sappiamo spesso che comunque vengono da situazioni difficili anche di guerra. Poi appunto magari vengono in condizioni anche precarie o così, senza mangiare magari da tanto tempo. Quindi la prima cosa che mi viene in mente è aiuto, sì.

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Ehm… accoglienza, perché magari spesso vediamo che non parlano italiano quindi si trovano in un luogo anche sconosciuto;; quindi è importante anche tutto quello che possiamo offrire noi a livello di ospedale. L’INCONTRO CON IL DIVERSO, COSA PROVOCA A LIVELLO EMOTIVO? A me provoca curiosità, comunque voler conoscere la storia anche se a volte c’è questo problema della barriera linguistica, anche se parlo inglese e francese e anche tedesco ecco. Però a volte parlano tigrino, come dire, farsi... non lo conosco. Però è vero che abbiamo delle risorse poi in ospedale che ci permettono poi di comunicare. MEDICINE DI ALTRI POPOLI. TI È MAI CAPITATA COME RICHIESTA? Sì quello... no quello… Il fatto di individualizzare le cure è sempre da praticare, sia con il rifugiato sia con tutte le persone. Nel senso compatibilmente con gli ordini che ci può dare il medico. Per esempio so che spesso le colazioni le preferiscono un po’ dopo, non ci sono problemi, o magari anche certi cibi magari loro non li mangiano, o mangiano diverso quindi cerchiamo di andare incontro, sì. TRASCORSO MIGRATORIO? No, io no no. Personalmente no. COME SI STRUTTURA L’ASSISTENZA INFERMIERISTICA? Allora, mah di solito le entrate che abbiamo noi avvengono sempre tramite pronto soccorso, non è che abbiamo delle entrate elettive. E quindi abbiamo già una serie di indicazioni sulla problematica che potrebbe avere il paziente, che so, potrebbe essere sospetta TBC, isolamento, non isolamento. Quindi noi seguiamo un po’ le direttive mediche. Poi la cosa che ci importa in maggior luogo è anche sapere le sue usanze. Poi se sappiamo già che c’è una barriera linguistica ci attiviamo per cercare di evitarla, abbiamo comunque a disposizione l’iPad, quindi abbiamo degli strumenti, sia loro per comunicare, cerchiamo di capire i suoi bisogni, a volte magari ci chiedono di chiamare subito i genitori, o comunque dire che adesso sono in sicurezza. Ecco un po’... FOCUS E MACROFOCUS Per me è importante sapere e scrivere se è isolato o non isolato, la lingua, quindi come si esprime. se ha parenti vicino, dei numeri di contatto. E poi proprio capire da dove viene perché c’è l’asilante e il rifugiato che sono due cose diverse, quindi proprio capire una volta che viene dimesso se dobbiamo chiamare il centro asilanti o le guardie di confine... quindi capire un po’... per il paziente. Quindi cerchiamo di fare una raccolta dati, qualcosina. Mah, dipende poi dal fatto della comunicazione e dal fatto dell’isolamento se riusciamo a fare subito o meno la raccolta dati. E dalla comunicazione. Se si esprime, di solito andiamo subito perché dovrebbe essere fatto entro le 48h;; e se invece non si esprime meglio comunque aspettare un mediatore culturale che ci può aiutare a trovare un traduttore in modo da avere poi delle informazioni più idonee e più adeguate.

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IL RUOLO E LA PRESA A CARICO CAMBIA CONSEGUENTEMENTE AL TUO STATO EMOTIVO NEL CORSO DELLA DEGENZA? Mah, di solito cerco di essere come il primo giorno;; però beh, so che è una cosa mia, se il paziente diventa aggressivo verbalmente e fisicamente, faccio un po’ fatica a rimanere impassibile, perché comunque è una cosa che mi dà molto fastidio. Poi ho avuto anche esperienze personali mie, quindi lì tendo un po’ a retrocedere, più che altro come situazione di difesa, non perché lo giudico o così. DIFESE PERSONALI Mah, sicuramente riconoscere che c’è una problematica, poi noi abbiamo la fortuna che da poco facciamo sempre un debriefing a fine turno, quindi ci troviamo nella nostra équipe e diciamo come è andata un po’ la nostra giornata, e in quel caso lì io tendo ad esprimere comunque le mie emozioni. Quindi poi sento un po’ gli altri che magari hanno qualche consiglio da darmi oppure non so, magari proporre al paziente un sostegno emozionale più ravvicinato per poter capire come mai... Può essere fatto, proprio dare importanza a lui che magari è un suo sfogo, magari ha dolore e non riesce ad esprimere, no? Quindi mi aiuta fare un percorso di elaborazione del perché ci si è trovati in una determinata situazione. STRUMENTI DI AIUTO

-­‐ interpretariato -­‐ per l’arabo abbiamo dei colleghi interni che possiamo chiamare -­‐ da quando è stato inserito nel cambiare del tempo, sono cambiati gli orari. Ora possiamo

chiamarli solo in certi orari;; quindi diventano una barriera, appunto si toglie un po’ la possibilità di comunicare.

OSPEDALE CHE ACCOGLIE Mah, per me ospedale che accoglie vuol dire che comunque si accoglie il paziente utilizzando un tono gentile, gli si fa vedere come funziona la camera, la televisione, si fa vedere proprio un po’ l’ambiente dove sta, gli si spiega le principali cure che verranno attuate, per esempio proprio se deve fare qualche esame specifico come la gastroscopia che è un esame invasivo, queste cose devono essere chiare. OGGI L’OSPEDALE ACCOGLIE? Secondo me si potrebbe proprio migliorare nella gestione delle nostre risorse, cioè avere proprio più possibilità. Cioè anche adesso la nostra mediatrice culturale è incinta e in maternità, anche l’informazione a noi.. cioè io ora non saprei a chi rivolgermi. Dovrei avere di nuovo un punto di riferimento per le assenze, così. Proprio questa cosa della disponibilità che non è sempre fissa. PAZIENTE RIFUGIATO E PRIORITÀ ASSISTENZIALI A LUNGO TERMINE È importante che la gestione venga attuata anche a lungo termine, per esempio se deve prendere dei farmaci mi assicuro che li prenda anche dopo;; magari comunico con il centro asilanti dove comunque deve andare per garantire la continuità.

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È MAI SUCCESSO DI ESSERE SPAVENTATA DAL NON SAPERE COSA FARE? No, quello no. Più che altro se c’è una diagnosi che magari mi spaventa un po’ perché devo capire se è tanto contagiosa, o così... ma in tal caso comunque prima mi informo in internet e guardo un attimino così so come gestirmi. PERSONA RIFUGIATA E PAZIENTE RIFUGIATO Ma per me è la stessa cosa, ogni paziente è anche persona e ogni persona è anche paziente perché ha bisogno di cure quindi li vedo... Spesso però magari hanno solo bisogno beni di prima necessità come una dimora, cibo, una doccia... A livello di trauma secondo me sono sullo stesso livello. PROBLEMI COMPORTAMENTALI No. Ci son stati aggressività anche fisica, rifiuto alle cure, anche l’aspetto comunque di isolamento, che già magari una persona deve stare isolata per motivi medici, in più non ti rivolge la parola, mette una coperta sopra alla faccia... Quindi lui stesso si crea una barriera di comunicazione... Ma io cerco di capire il motivo, chiedendo magari anche ai colleghi se sanno il motivo del perché facciano così, quello si... Beh, alla fine se informi il paziente che deve stare in camera per motivi medici, che stanno facendo le indagini, che gli spieghi tutto e sei sicuro che lui ha compreso, alla fine come si fa con qualunque persona che ti scappa. Si cerca o di fare consenso che almeno lui si assume le responsabilità, firma e se ne va, oppure se scappa dopo noi abbiamo i protocolli. Magari all’inizio potevo fare fatica a capire, adesso dopo 8 anni la rabbia è già passata, è come se ci ho fatto un po’, non so, che può essere possibile anche una cosa del genere, senza che... Ecco non possiamo avere il controllo su tutto. FENOMENO IN AUMENTO: FLUSSO IN REPARTO COME RISORSA, BARRIERA O ENTRAMBE LE COSE Mmh. Mah, eh... ormai... Cioè è un po’ la realtà delle cose, se prima non c’erano e adesso ci sono è perché ci sono stati dei problemi di questi Paesi anche a livello di guerra e così... In ospedale credo che sia comunque una risorsa, sì sì. STRATEGIE DI COPING:

-­‐ confrontarmi con l’équipe, come detto -­‐ informarmi anche magari personalmente se c’è qualche malattia che non conosco

LA PRESA A CARICO È FUNZIONALE (TUTTI GLI INFERMIERI SI OCCUPANO DI TUTTI I PAZIENTI RIFUGIATI)? Mah, io penso che se ognuno di noi sia professionale, che si spera, che se ha fatto la scuola e che dovrebbe avere un atteggiamento di apertura e tutto... secondo me van bene tutti. Solo che è ovvio che bisognerebbe vedere se le persone stesse hanno dei pregiudizi nel loro vissuto. In reparto il pregiudizio sicuramente l’ho vissuto. Mah, guarda sinceramente ho visto anche qualcuno che ha trattato con un po’ di superficialità, non so come dire, non è menefreghismo, ma superficialità, una via di mezzo delle persone per un pregiudizio.

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ALTRE RISORSE Anche magari se non hanno i vestiti noi abbiamo un armadio che possiamo dargli qualcosa, poi come detto la mediatrice, l’iPad... Poi ogni tanto anche io, avevamo un ragazzo che voleva tagliarsi i capelli solo che noi non abbiamo la macchinetta, allora, vabbè gliel’ho comprata, perché alla fine dico, mi ha fatto piacere, ne aveva bisogno allora, ecco, gliel’ho presa io non è che mi sono fatta problemi... MIGLIORAMENTI AD OGGI – PRESA A CARICO O ASSISTENZA? Mah, io li vedo abbastanza sullo stesso piano nel senso che assistenza è anche presa a carico, li vedo un po’ simili come termini. Miglioramenti secondo me, l’unica cosa, questa cosa dei pregiudizi che possono causare un’assistenza o una presa a carico non del tutto ottimale, ecco. Per superarli, beh, dipende dalla persona;; beh, magari non so… fare dei filmati, non so, per far vedere veramente come sono le cose perché per esempio anche i telegiornali tu li guardi e non è che sia sempre spiegato proprio bene, magari mettono anche loro del loro, invece sai, proprio una cosa professionale senza scopo di pubblicità e queste cose qua;; proprio una cosa trasparente di come stanno le cose. FORMAZIONE INFERMIERISTICA: È OGGI SUFFICIENTE? Mah, allora adesso abbiamo appena fatto un corso con video e tutto e anche un esamino finale, e quello è stato interessante perché comunque ci ha messo la realtà davanti. Infatti ci hanno chiesto anche “secondo te quanti migranti ci sono...” e queste cose. No, non so se è stato fatto a livello generale, ma noi tutto OBV l’abbiamo fatto. Però non so se solo infermieri o anche assistenti di cura, adesso dovrei informarmi. Sarebbe utile per tutti e poi, sia con l’esame, sia meno, però proprio avere una situazione chiara di come stanno le cose... Già quello secondo me è stato utile, però bisogna andare avanti. Io ho finito 8 anni fa e ci avevano fatto alla fine della scuola una piccola infarinatura, però era un modulo così semplice, non è che ci hanno dato proprio… Secondo me in previsione che comunque ci sarà un aumento di questo fenomeno, ecco, sarebbe utile aumentare anche le formazioni. Intervista n°4

-­‐ Donna -­‐ Età: 22 anni -­‐ Infermiera da quasi 1 anno

PERCHÉ SEI DIVENTATA INFERMIERA, QUALI VALORI? Perché mi è sempre piaciuto, fin da piccola: prima ho fatto l’OSS e di conseguenza l’infermiera. Non avevo neanche altre idee in testa, quindi... Mah, sicuramente valore, sarà un valore il rispetto, l’accoglienza appunto parlando... Cioè trattare tutti uguali. Boh, adesso il tema è i rifugiati, se uno è rifugiato non cambia niente da un’altra persona che vive qui. Che non possono mai mancare... eh, ma tutto... l’ho scelto così, non mi vengono...

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3 PAROLE PER RIFUGIATO Migrante, anche se è un sinonimo, qualcuno che è partito da lontano ed è venuto qua. Vabbè, viaggio, difficoltà e, mmh... non è evidente. Ehm… non mi viene la parola. Ci penso, se caso dopo... CONTATTO CON IL DIVERSO -­ CONSEGUENZE EMOTIVE Mah, diciamo che è difficile, perché uno, non parlano l’italiano, e anche magari anche francese e inglese, quindi le lingue un po’ più comuni non le parlano. Quindi è molto difficile rapportarsi con loro. Poi loro ti chiedono spesso se tu parli la loro lingua o se c’è qualcuno che la parla, ma ovviamente sono lingue difficili. Quindi lo trovo difficile, difficoltoso, non è evidente. Mah, diciamo che per le cose vissute qui in questo annetto, eh... Mi sono capitate due occasioni in cui sì, mi spaventava perché, vabbè, la gestione prima di tutto non era facile... diventando… loro erano anche particolarmente aggressivi e lì sì, non era evidente. MEDICINE TRADIZIONALI E DI ALTRI POPOLI Non mi è mai successo, se dovesse succedere penso che dipende da cosa chiedono... se è possibile perché no? Poi se chiedono che so... non saprei neanche cosa potrebbero chiedere. TRASCORSO MIGRATORIO? No. IN CHE MODO SI STRUTTURA L’ASSISTENZA AL RIFUGIATO? Mah, di norma all’inizio nulla di diverso da una persona: adesso dico, normale. Poi si cerca di attivare la mediatrice culturale: ovvio non c’è sempre, lavora ad una piccola percentuale. Però si cerca di attivare lei e con lei poi di cercare un traduttore o un interprete che possa parlare la sua lingua. Oppure se sono disponibili qua si cerca la lista dei dipendenti che parlano la stessa lingua. Poi a dipendenza del paziente e del rifugiato che cosa vuole, perché c’è magari chi è qui in Svizzera, ha già i documenti, e quindi di conseguenza tornerebbe al centro da cui è venuto;; invece c’è chi proprio al confine lo portano qui: quindi lì si cerca di capire cosa vuole lui, se chiedere Asilo qui o in Italia. FOCUS E MACROFOCUS Non ci sono dei focus standard: si valuta se di norma quello del mediatore. Si scrive se è stato attivato e tutto quanto. Il mediatore può scrivere su GECO facendo il consulto. NEL CORSO DELLA PRESA A CARICO GLI STATI EMOTIVI HANNO VARIATO IL TUO OPERATO? Mah, diciamo che all’inizio era gestibile, perché al paziente è stato spiegato appunto perché e che aveva la tubercolosi e che doveva fare il trattamento. Solo che non avendo sintomi, loro stando bene dicevano, non capivano perché dovevano stare isolati e non uscire. Dopo che si cercava di spiegare quanto doveva restare cominciava a non essere più compliante e di conseguenza da lì, da quando non erano più complianti, in un caso uno è diventato proprio aggressivo;; si è dovuto far intervenire la polizia. Lì insomma... In generale all’inizio magari se non lo conosci con la lingua, ci parli perché ci parli ma... Dopo quando capisci com’è, è diverso.

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OSPEDALE CHE ACCOGLIE Mah, sicuramente che non ha barriere. Il rifugiato viene trattato come una persona che vive qui, che non ha dei trascorsi, diversi trascorsi. Che non fa differenze. E come non gli diamo di meno, non penso abbiano bisogno di più. Nel senso. Forse hanno bisogno di più dal lato, non sapendo la lingua... non riuscendo a capirsi subito forse han bisogno di più attenzioni da quel lato lì. Perché anche con l’interprete... Con la raccolta dati, anche lì c’è solo da discutere per la lingua, il resto no. PRIORITÀ PER LA DIMISSIONE Mah, sicuramente che abbia un posto dove andare. Che abbia tutti i documenti e tutte le carte per andare, poi a dipendenza di quello che vuole fare. Con le strutture, nella mia esperienza una volta mi è successo di trasmettere la terapia alla guardia di confine perché poi le terapie in Italia sono differenti;; ma non ci siamo messi in contatto poi con le strutture in Italia. ALLA FINE DEL TURNO COME TI SENTI? Normale. COME INTEGRI I CONCETTI DI PAZIENTE RIFUGIATO E PERSONA RIFUGIATA Mah. Paziente, ma non diverso dal punto di vista generale, ma diverso perché ha bisogno di altre attenzioni. Una persona che diciamo sta bene anche se non se ne rende conto, magari perché ha altre preoccupazioni, sì magari sta bene fuori ma non hai una famiglia, non hai un posto dove vivere. Paziente ha quella preoccupazione in più di trovarsi un posto che... DURANTE LA DEGENZA, QUALI BARRIERE ULTERIORI INCONTRI? La fuga. Che anche lì non è evidente dopo: devi attivare diverse risorse per andare a cercare la persona. L’aggressività, il rifiuto delle cure. I MOTIVI DI CERTI COMPORTAMENTI SONO STATI INDAGATI? Per quanto riguarda l’aggressività e la fuga il motivo era lo stesso. Non sapendo, sì, sapevano cosa avevano, ma proprio per l’isolamento loro stavano bene e non dovevano stare... Non comprensione della patologia. Con un paziente era già stato trattato in Italia, però prendeva e non prendeva la terapia, non ha capito le pastiglie, a che cosa servissero e non era mai stato isolato. Questo è stato indagato come vissuto, sì. Con la mediatrice di solito parlano, e lei ci dice poi un po’ il vissuto, da dove sono partiti. TU HAI POTUTO ELABORARE CON QUALCUNO QUESTI VISSUTI? Diciamo che è una cosa di équipe, non é... Quando ci sono questi tipi di vissuti... è una cosa di équipe perché devi attivare talmente tante risorse che diciamo che da sola... FLUSSI IN AUMENTO, IN OSPEDALE: BARRIERA, RISORSA O ENTRAMBE LE COSE? No, una risorsa non lo so, non saprei in che modo. Una barriera, non propriamente una barriera, perché sono persone. Parlando in generale non sono una barriera perché sono comunque cose nuove ed esperienze nuove.

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QUALI MECCANISMI DI COPING METTI IN ATTO? Mah, diciamo che appunto ci rimani un po’, perché poi se diventano aggressivi con te e con tutti gli altri. Ne ho parlato in équipe e, in quel caso lì specifico, non ero da sola. FIGURE SPECIFICHE CHE SI PRENDONO A CARICO O TUTTI SI OCCUPANO DI TUTTI? Tutti in egual misura. RISORSE MATERIALI E NON MATERIALI So che se contatti la mediatrice lei ti fornisce determinate cose. E so che c’è il cartellino, l’opuscolo per l’interpretariato per noi, che possiamo contattarlo in caso lei non ci fosse. Tipo di notte il mediatore non c’è e ci arrangiamo come possiamo. RISPOSTA PROFESSIONALE A SITUAZIONI CHE SI DISTANZIANO, CAMBIA RISPETTO AL PAZIENTE NORMALE? No, cioè nel senso, in generale è uguale;; poi a dipendenza delle necessità può variare. QUALE È IL PAZIENTE NORMALE RISPETTO AL RIFUGIATO? Non c’è differenza. MIGLIORAMENTI Mah, più che altro è la barriera linguistica. Cioè se si riuscisse ad avere una comprensione chiara e quant’altro: cioè, tante barriere verrebbero giù. RITIENI SUFFICIENTE LA FORMAZIONE PER I FLUSSI MIGRATORI? Beh, lavoro da un anno, ho avuto un paio di esperienze, però no. A livello di équipe, secondo me dei corsi e degli approfondimenti sarebbero utili a tutti, anche all’assistente amministrativa che entra anche solo per chiedere i pasti. Anche lì la lingua. Poi ci sono le problematiche della religione in cui mangi questo, non mangi quell’altro... In generale l’équipe, non so se l’anno scorso o due estati fa, c’è stato proprio il boom di ricoveri di rifugiati e lì penso che dopo un po’ i colleghi siano più preparati di me che ho cominciato da un anno. QUANDO SI PRESENTANO PROBLEMI COMPORTAMENTALI O RICHIESTE PARTICOLARI, COSA SI SENTE IN REPARTO? Mah, diciamo che... Posso dirlo? Tipo: “che rompiscatole, che rottura, sono qui, sono curati, diventano aggressivi... Cioè sei qui, sei in un ospedale, hai la televisione, anche tra virgolette gratis.. Queste cose poi non vengono affrontate, rimangono lì, sospese.

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Lavoro di tesi approvato in data: …………….