Tesi: I battuti nella tradizione costruttiva dei popoli del mediterraneo

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Ai miei genitori, ai miei nonni, che mi hanno insegnato a guardare. A nonno Carlo

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SommarioINTRODUZIONE .......................................................................................................... 3 PRINCIPI COSTRUTTIVI .......................................................................................... 6 1) STRUTTURA PORTANTE IN LEGNO ................................................................ 9 1. 1 IL MATERIALE......................................................................................................... 9 1.2 SOLAI IN LEGNO: LA STRUTTURA ........................................................................... 14 2) I BATTUTI DI GESSO ........................................................................................... 25 1.1 ORIZZONTAMENTI: PAVIMENTAZIONI E COPERTURE .............................................. 25 2.2 MURATURE E SUPERFICI VERTICALI ...................................................................... 29 3) I BATTUTI DI CALCE .......................................................................................... 31 3.1 MURATURE E SUPERFICI VERTICALI ...................................................................... 31 3.2 ORIZZONTAMENTI: PAVIMENTAZIONI E COPERTURE .............................................. 33 Scutulata pavimenta ............................................................................................... 40 Terrazzi alla veneziana .......................................................................................... 47 Terrazzi di graniglia genovese............................................................................... 55 Lastrico napoletano ............................................................................................... 57 Tradizioni costruttive eoliane: ittata i lttrucu ............................................. 69 3.3 IL BATTUTO DI CALCE NELLE VOLTE...................................................................... 74 La costa e le isole campane ................................................................................... 74 4. BATTUTI DI TERRA ............................................................................................. 88 4.1 BATTUTI DI TERRA ARGILLOSA: ORIZZONTAMENTI................................................ 91 4.2 IL MATTONE CRUDO .............................................................................................. 93 4.3 IL PIS E IL TORCHIS-PIS ...................................................................................... 95 Costruzioni in terra cruda in Calabria .................................................................. 99 Le pinciare abruzzesi ........................................................................................... 101 La terra cruda in Francia .................................................................................... 103 Architetture di terra africane ............................................................................... 105 La terra cruda in Turchia .................................................................................... 110 BIBLIOGRAFIA GENERALE ................................................................................ 112 SITOGRAFIA ............................................................................................................ 115

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IntroduzionePrimitive dimore, le caverne vennero abbandonate non appena luomo si rese conto non solamente dellesistenza del fuoco, ma anche delle potenzialit che molti materiali possedevano. La necessit di ripararsi, e meglio di delimitare uno spazio nel quale le proprie esigenze potessero essere soddisfatte, condusse allimmediata trasformazione degli elementi che, in relazione alla latitudine e longitudine, la natura poteva fornire. Tra questi sicuramente il legno, la roccia e la terra. Senza considerare le prime capanne in legno, labilit e lastuzia costruttiva delluomo si manifestarono non tanto nellassemblaggio dei singoli materiali, considerati come conci murari o tronchi legnosi, quanto nella loro trasformazione fisica, talvolta chimica, attraverso passaggi tanto semplici quanto intelligenti. Nei paesi del Mediterraneo labbondanza di talune materie prime, favorite da condizionamenti economici e dai continui scambi culturali tra le diverse etnie, ha comportato la nascita di una architettura povera improntata su uno stile pressoch comune, ma senza dubbio basata sulla medesima tecnica costruttiva: la tecnica del battuto. Attraverso pochi principi, piuttosto pratici che teorici, luomo riesce a rendere materie plastiche il terreno sul quale cammina e la roccia che caratterizza il suo paesaggio, e ne aumenta le potenzialit attraverso laggiunta degli additivi pi originali, quali conchiglie, crusca di riso, paglia o sangue di bue, ancora in relazione alle disponibilit territoriali. In questo senza dubbio agevolato dalla ricchezza e dalla qualit delle materie prime che lambiente mediterraneo gli offre: i suoli in maggioranza argillosi e ricchi di minerali, il clima in prevalenza favorevole. Costruire in battuto significa dunque ottenere da un impasto di terra ed acqua unottima argilla per ergere un muro, significa sovrapposizione e compattazione di strati materici per procurarsi una superficie monolitica. Nel contempo ladozione di questa tecnica ha permesso sin dallantichit la veloce ed economica edificazione di vere e proprie citt, in Mesopotamia, Egitto, Africa, Grecia e nellintero ambito mediterraneo, dove, accanto alle maestose piramidi e ai palazzi reali minoici, che vedevano movimentazione di uomini e mezzi, nacquero numerose citt prive di qualsiasi pretesa. 3

Luso della terra cruda e, soprattutto a partire dallet romana, del battuto di calce si diffusero non solo per questioni economiche, ma anche per la frequente necessit di realizzare labitazione con i mezzi pi immediati ed i materiali pi facili da reperire. Infine esso divenuto in molti casi una vera e propria tradizione: ancora oggi circa un terzo della popolazione mondiale vive in case di terra e innumerevoli sono i restanti esempi di battuto. La concretizzazione di questa tecnica, e le forme compositive che da essa derivano, da sempre contribuiscono alla definizione di un vero e proprio tono mediterraneo, manifesto di interazione tra orografia e costruzione, tipologia e tecnica, luce ed ombra oltre il linguaggio architettonico1.

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figg. 1-2, esempi di architetture mediterranee in battuto di calce sullisola di Santorini e, in basso, in terra cruda nelle ghorfas tunisine ad Ouled Sultane. Nonostante la diversit dei materiali adottati si nota come luso della stessa tecnica abbia portato alla definizione delle stesse forme architettoniche, accentuate da un agglomerazione fitta e articolata.

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Principi costruttiviIl Donghi ci fornisce una semplice definizione: Si dice battuto in genere ogni pavimento formato con una massa tenera allatto dello stendimento, e che si indurisce col tempo, diventando resistente e compatta, senza soluzioni di continuit e senza commessure.2 Al di l delle condizioni economiche e sociali che ne hanno permesso la diffusione, la regola del battuto permette la realizzazione di un masso, pavimentale, di copertura o altro, monolitico che, anche in relazione allelevato spessore, presenta notevoli qualit. Il metodo di base prevede la sovrapposizione di pi impasti, i quali componenti sono scelti con criterio, che vengono appunto battuti singolarmente e nel complessivo per riuscire ad ottenere lespulsione dei liquidi naturalmente presenti, una perfetta coesione tra le parti e quindi un corpo unitario. La battitura veniva effettuata con gli strumenti pi svariati, ma costante era lattenzione che si poneva nel non frantumare i componenti, n danneggiare il supporto sottostante. Sebbene la sola sabbia non possa garantire alcuna sicurezza statica, un buon esempio pu essere fornito dai castelli di sabbia, in cui lacqua rende linerte una massa plastica, questa viene plasmata e costipata a colpi di mestola. Ancora lo stesso principio costruttivo permette, nelle zone pi fredde, agli inuit di realizzare accoglienti igloo: la neve pi fitta e resistente viene modellata in blocchi tramite anche lausilio di leggeri colpi ed infine i blocchi sono sovrapposti e compattati tra loro allo stesso modo. Oltre questi due casi estremi, che tuttavia rendono lidea, molto spesso non si ricorre ad un singolo componente e la sovrapposizione di pi strati eterogenei permette un ottimo isolamento acustico, la struttura pesante e compatta offre una buona inerzia termica, essendo inoltre porosi i materiali di base, lumidit catturata come in una spugna che assorbe e rilascia ciclicamente. Nonostante le capacit assorbenti, si pu in questo senso parlare di impermeabilit. Infine la pavimentazione in battuto non prevede alcun tipo di giunzioni, che facilmente si presterebbero a divenire nidi di polvere e microbi dannosi alligiene. La tecnica ben si presta, come gi detto, alle disponibilit e carenze di materia prima che variano da un luogo allaltro, pur senza compromettere il risultato finale dellopera. Per tali motivi possibile e anzi necessario operare una classificazione dei battuti pi che in relazione al contesto geografico, in dipendenza del materiale di base, per cui si

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possono elencare: i battuti di gesso, di terra, quelli di calce da cui derivano il terrazzo alla veneziana, il pavimento in graniglia genovese e il lastrico napoletano. Essendo di massa tenera allatto dello stendimento, ciascuno di questi tipi di battuto ben si presta alla realizzazione di vari elementi costruttivi, quali murature, coperture voltate, e coperture piane, allimpermeabilizzazione delle pi svariate superfici, sia orizzontali, nel caso comune dei pavimenti, sia verticali, se si fa riferimento a interni di pozzi e cisterne, ancora obliqui nel caso di parapetti di scale. Infine, per la notevole resistenza dei manufatti, le parti di un lastrico rovinoso venivano come ritagliate a colpi di scalpello dalla lastra di base e potevano essere riutilizzate per i fini pi vari, sui gradini a rivestimento, come conci murari, davanzali, chiave di volta negli archi, mensole degli architravi e pi raramente come stipiti di porte e finestre. Da un confronto tra lastrici di diverso materiale, gesso, calce, ecc, le diversit sono date ovviamente dalle differenti qualit che le stesse risorse offrono in termini di facilit di realizzazione e comportamento in opera. Relativamente ai battuti, il gesso potrebbe forse occupare il gradino pi basso, addirittura prima della terra, poich per natura esso si fa sensibile allacqua, ai corpi esterni, non sempre se ne ha disponibilit e tanto meno il trasporto si rende semplice. La terra non offre sicuramente maggiori garanzie di durezza ma, per quanto possa presentarsi una materia rudimentale, si presta a realizzare le superfici pi varie, sia orizzontali che verticali. In ogni caso largilla, se non anche di prima qualit, pu ricavarsi in ogni luogo ed essere impastata a creare materiale edilizio. Sicuramente la calce, infine, costituisce la pi nobile risorsa impiegata nel confezionamento dei battuti. Essa assicura resistenza e durabilit, ma soprattutto la sua versatilit ha permesso di porre in opera i pi rudi pavimenti di coccio, con cui i romani rifinivano le strade, sia i noti mosaici che a Venezia trovarono diffusione. Nei vari manufatti si nota che le diversit, pi che riguardare le tecniche e gli strumenti che tutto sommato sembrano imitarsi, sono invece legate alla diversit di risorse che lambiente mediterraneo fornisce. Cos lo stesso solaio, con travi a testa alterna, a semplice o doppia orditura, che a Napoli sfruttava il legno di castagno, presso le oasi tunisine si sosteneva grazie a tronchi di palme da dattero; se a Napoli si usava colmare linterasse tra travi successive con una tessitura di panconcelli, rami dello stesso

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castagno, gli Eoliani dovevano giocoforza optare per le cannizzate, non essendo le isole generose in legname. Una uguale variet di tradizioni proposta dalla letteratura tecnica, o meglio dalle sue fonti che si propongono spesso, accanto agli esempi che per primo Vitruvio ha fornito, di testimoniare come uno stesso masso potesse essere confezionato con gli stessi materiali in proporzioni diverse, o con le medesime proporzioni di materiali differenti. Talvolta si pu inoltre essere confusi dal numero di casi cui uno stesso termine pu rimandare, se considerato in un ambito piuttosto che in un altro. Basti pensare come in Campania veniva impropriamente detto pavimento alla veneziana, un battuto realizzato sfruttando il lapillo bianco locale.

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Cfr. G. Gambardella, La casa del mediterraneo, ed. Officina, Napoli 1993. Cfr. D. Donghi, Manuale dellarchitetto, vol. I parte II, ed. Tor. 1935 Torino

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1. Struttura portante in legno

1. 1 Il materiale Il legno stato il primo materiale da costruzione adoperato dalluomo, prima ancora della pietra. Gli stessi templi etruschi, romani e greci nacquero dallassemblaggio di legno e mattoni seccati al sole, per poi evolversi in vere e proprie carpenterie in pietra i cui elementi decorativi, sostiene Vitruvio, rimandano di continuo alla originaria trabeazione. Di detto materiale se ne fatto largo e vario uso nel tempo fino alla prima met del XIX secolo. Il legno quale materiale da costruzione ricavato da alberi di alto fusto ed strutturalmente anisotropo, costituito da fibre a sviluppo longitudinale tra loro saldate da legami deboli che conferiscono ad esso doti di resistenza e leggerezza ( 6001200 kg/mc a fronte dei 2400 /mc del cls). Tra i materiali usati dalluomo in edilizia, il legno il primo che offre resistenza pari a trazione e a compressione, purch sollecitato parallelamente alla direzione delle sue fibre3, ed ancora tensioni di rottura a compressione e trazione superiori a quelle dei normali calcestruzzi. La resistenza meccanica tuttavia funzione inversa della quantit di umidit presente nel materiale, cio essa tanto maggiore quanto pi secco il legno e per tali motivi i legnami si sottopongono a stagionatura fino a raggiungere un livello di umidit pari a circa il 15% (essiccazioni maggiori risultano inutili in relazione agli scambi igrometrici con lambiente). Lessiccazione tradizionale poteva effettuarsi in maniera artificiale, con stufe e camere calde, ed in modo naturale come avveniva tradizionalmente accatastando il legname in depositi aperti per due, tre o sei anni. Le cataste, dette volgarmente cavalli, dovevano disporsi in modo da assicurare ad ogni pezzo la necessaria ventilazione. Per alcune specie, inoltre, era eliminata la linfa immergendoli nellacqua corrente per un anno e stagnante per due. Col modo artificiale si produce nel legno una resistenza minore. Il legno presenta ottima resistenza acustica ed una resistenza termica sette volte superiore a quella del laterizio, nonch dilatazioni minime sotto sbalzi di temperatura. Inoltre, contrariamente a quanto si crede, il legno delle strutture non la causa prima di un incendio, sotto lazione del fuoco esso si ricopre infatti di uno strato di

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carbonizzazione che ritarda la penetrazione del fuoco e permette di conservare in un intervallo di tempo notevole le sue caratteristiche di resistenza meccanica e stabilit dimensionale. Per rendere i legni pi resistenti al fuoco, un tempo si usava spalmarli con un mastice a base di silicato di potassio, ossia un solido amorfo, solubile in acqua ed in alcool, detto appunto vetro solubile, e con temperatura di fusione intorno ai 1000C. Tutti i caratteri tecnologici del materiale variano principalmente in funzione della specie legnosa ed possibile classificare i legnami da costruzione in base alle propriet meccaniche, elastiche e fisiche ed anche in base alla pezzatura, propriet che si riconoscono meno nelle latifoglie da essenza tenera, mediamente nelle conifere e maggiormente nelle latifoglie da essenza semidura e dura.4 A parit di specie legnosa, il carico di sicurezza influenzato da: elementi di carattere generale comuni a tutte le specie, come la direzione delle fibre, ampiezza e frequenza dei nodi5; elementi caratteristici di una specie, come il numero di anelli per cm di raggio. In base a tali considerazioni il Bertagnin6 individua tre categorie di legname da costruzione (tab. 1 e 2). Il Giordano, ancora, definisce tre categorie ammissibili di legnami in edilizia e per ognuna di esse fornisce i valori dei carichi di sicurezza dei principali legni italiani7: quelli a compressione, lungo le fibre, variano da 60 a 120 Kg/cmq, riducendosi, perpendicolarmente alle fibre, da 15 a 30 Kg/cmq; quelli a flessione da 70 a 135 Kg/cmq; quelli a trazione da 45 a 130 Kg/cmq; quelli a taglio da 4 a 12 Kg/cmq. Vitruvio, infine, consiglia luso di ischio piuttosto che di quercia, essendo questo pi debole allumidit, e vieta il ricorso al cerro, al faggio o al frassino, qualit di legno che non riescono a durare nel tempo.8 Materiale molto generoso, il legno va comunque adeguatamente protetto tramite trattamenti o accorgimenti tecnici per evitare una qualunque degradazione chimica o fisica che ne riduca la portanza, la resistenza allabrasione ed alla flessione, o pi semplicemente la resa estetica. La letteratura tradizionale riporta minuziosamente come operare a partire dalla pianta9, la quale va scortecciata verso maggio, lasciata morire e abbattuta in novembre, dopo aver eliminato tutti i succhi vegetali tramite una profonda incisione longitudinale al fusto. Lo Sganzin10 ritiene a tal proposito che sia pi efficace incidere circolarmente al piede dellalbero, pi che scortecciarlo, cos da fermare il corso de succhi. Buona

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attenzione va inoltre posta al terreno dal quale la pianta nasce, in quanto un suolo umido produce un legno detto grasso, leggero, di fibre molli e di bassa resistenza, che facile a piegarsi quando il carico sovrastante comincia a piegarlo; un suolo asciutto comporta di contro un legno dalle fibre piene e compatte che si conserva nel tempo11. Principale causa di degrado lumidit. In un ambiente umido la travatura lignea tende ad assorbire acqua ed a rilasciarla man mano che si prosciugano le parti in muratura.

tab. 1 Caratteristiche dei legnami e assortimenti, da Tampone G., Il restauro delle strutture in legno, hoepli 1996.

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Perdendo lumidit essa si spacca e si fessura cagionando, oltre che la deformazione e lindebolimento della struttura, una via pi rapida ai funghi per raggiungere la zona centrale del legno dove esiste ancora dellumidit e quindi materiale adatto alla loro vita.12 Il proliferare dei funghi da legno, detti domestici, favorito da temperature variabili tra 2226C e dalle resine di abeti, larici, pini, ecc. La loro presenza si manifesta solo nella fase finale, e cio quando la trave ormai internamente cava e priva di alcuna resistenza, sotto forma di marciume bianco o rosso. Per questi motivi gi nella Bibbia essi sono denominati la lebbra delle case.13 I batteri attaccano sia lalbero vivo, che il legname abbattuto, ma non sono dannosi e possono causare al pi lalterazione del colore, mentre animali quali coleotteri, termiti, formiche e vespe, si nutrono del legno secco e ne causano la tarlatura. Contro i parassiti si iniettavano nel tronco sostanze antisettiche (solfato di rame, cloruro di zinco, solfato di ferro) e per maggiore resistenza agli agenti atmosferici lo stesso tronco era spalmato con vernici a base di resina, olio e catrame a formare uno strato impermeabile.

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tab. 2 , Tampone G., opera citata.

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1.2 Solai in legno: la strutturaIn Campania luso del legno a costituire elementi di partizione o chiusura orizzontale maggiormente diffuso lungo il litorale e nellentroterra flegreo e vesuviano, pi che nelle isole e lungo la costiera amalfitana, data la maggiore possibilit di procurarsi localmente il legname. Nei trattati settecenteschi si annoverano, tra le essenze pi diffuse nellentroterra regionale, il castagno, il pioppo, la quercia, labete ed il faggio dei boschi di Gragnano, Arienzo, Persano, SantAgata dei Goti, Cervinara ed altri ancora. Generalmente si prediligeva il castagno selvatico (e non quello da frutto, meno compatto e resistente a causa appunto della riproduzione) alla quercia, pi sensibile allumidit, e allabete, facilmente deteriorabile in presenza di calce. Il faggio ed il pioppo, di minore resistenza, erano usati per lo pi per rivestimento e lavori di falegnameria. Qualunque fosse stato la specie legnosa adottata, essa andava usata per lintero manufatto, evitando il ricorso ad altre essenze che avrebbero presentato coefficienti elastici e termici differenti. Secondo limportanza dellambiente e della disposizione o meno di controsoffittature, a sostegno del solaio si ponevano travi di legno di fusto, ricavate da tronchi semplicemente scortecciati, oppure travi segate, da tronchi segati e squadrati a spigoli vivi. In questultimo caso leliminazione di una buona parte del legno dal tronco originario comportava una minore resistenza meccanica della trave, alla quale si cercava di rimediare usando un legno pi maturo e comunque non realizzando mai una sezione quadrata. In genere si considerava sufficiente un rapporto h/b pari a 2/1. La disposizione canonica prevedeva che le travi fossero allineate parallelamente al muro meno lungo del locale da coprire e che quelle a sezione tonda fossero disposte in modo da alternare sugli appoggi la cima ed il piede, equilibrando cos la distribuzione dei carichi. La testate erano portate nella muratura, oppure poggiate su mensole in mattoni o pietra. Nel caso di muri secondari la trave era fatta passare fino alla faccia esterna, cos da trasmettere meglio la pressione allappoggio; in muri di conveniente spessore, invece, le testate erano portate per circa i due terzi degli stessi in appositi vuoti chiamati volgarmente caraci e poggiati su cuscinetti di mattoni.

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figg. 3-4, intradosso di un solaio ligneo a travi di legno di fusto.

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figg. 5-6, rinforzo strutturale del solaio tramite una ginella daccetta e cuneo di contrasto.

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figg. 7-8, una successione di panconcelli chiude una vecchia botola. visibile il lastrico polverino.

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figg. 9, intradosso di in un solaio a travi squadrate e chiancarelle, tra i pezzi mancanti possibile scorgere il lastrico, perfettamente piano e compatto. fig. 10

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Talvolta, quando i muri erano gi stati costruiti, si realizzavano le caraci per tutto lo spessore di uno dei muri, ottenendo quelli che a Napoli si dicevano buchi a passatore, da cui appunto passavano le travi fino a trovare nel muro opposto le corrispondenti caraci. Nel definire la posizione delle travi era conveniente che le due estreme rimanessero aderenti ai muri del locale, per una giusta continuit di carichi dal pavimento alla tamponatura. Inoltre era opportuno che una trave capitasse quasi precisamente al centro della stanza, per potervi appendere una lumiera. Per resistere allumidit interna alla muratura, le testate erano murate senza malta n gesso, che corrodono il legno, ma con argilla ad assorbire acqua. Alle volte, soprattutto per legnami grezzi, si spalmavano le estremit delle travi due volte con catrame vegetale (detto di Norvegia) a caldo, oppure con il catrame minerale, pi denso perch proveniente dalle officine del gas. Si usava anche proteggerle con fogli di cartone bitumato o scatole di ferro, ma le soluzioni migliori prevedevano la circolazione dellaria attorno al legno tramite canaletti o fori di aerazione adeguatamente protetti con filtri di lamiera, per impedire che i topi potessero rifugiarvisi. Una soluzione intelligente si ritrova anche nelle case di Pompei, nelle quali i vani dei muri sono foderati con mattoni (fig. 1-2). Volendo del tutto evitare di incassare le travi nella muratura, si realizzavano ai lati dei muri delle banchine di mattoni aggettanti, oppure delle mensole in pietra compatta e resistente (in Campania la pietrarsa, la pietra lavica), chiamate pulvini o dormienti. Su di essi e parallelamente al muro poggiava una lunga trave squadrata, detta corrente ofig. 11

fig. 12

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filarola e subito sopra le travi in senso ortogonale. A volte comunque i gattoni potevano essere sostituiti da zanche di ferro di cui un estremo impiombato14 nella muratura e piegato a coda di rondine. Sulle travi principali, poste ad interasse di circa 90 cm, si ponevano tavole di legno, ma soprattutto, nel napoletano, elementi in castagno di minori dimensioni ricavati dal taglio longitudinale dei rami, dette chiancole, chiancarelle o panconcelli.15 La naturale irregolarit dei rami non permetteva il loro perfetto accostamento, dunque prima di passare alla posa in opera del materiale sciolto si riempivano i vuoti con piccole stecchette di legno dette riempitoie e si ricopriva lassito realizzando il masso pavimentale. Nel Triveneto e in altre regioni italiane la struttura lignea variava notevolmente, si faceva infatti ricorso a travi squadrate, sulle quali le chiancole erano sostituite da tavole solitamente di abete o larice, poste alla foggia sansovina. Il tavolato era distribuito in due ordini ortogonali tra loro, e spesso tra i due strati di legname si interponevano impasti di laterizi e gesso o calce. Su questo supporto si realizzava il pavimento a smalto. Altre volte si disponeva un solo strato di tavole. Esse, tutte di dimensioni identiche, erano allora chiodate alle travi principali e assemblate tra loro a maschio e femmina, perch potessero avere il doppio ruolo di pavimento e di soffitto. I giunti tra le tavole, al fine di rendere pi gradevole laspetto del solaio allintradosso, erano poi ricoperti con regoletti pi o meno sagomati.16 Oltre alle tipologie comuni, quando le luci da coprire si fanno notevoli, si possono trovare strutture pi complesse, ossia le travi armate o ancora i solai composti, che evitavano il ricorso alle travi di grande dimensione, pi costose e meno resistenti. Le travature armate erano semplicemente ottenute sovrapponendo due travi e legandole tramite incastri e inchiavardature, per evitare anche lo scorrimento mutuo. Altre volte le travi erano accostate in orizzontale o ancora si realizzava la vera e propria armatura integrando la sezione lignea con uno o pi tiranti laterali. Questi erano posti alle testate tramite scatole di ghisa, attraversavano la grossezza dei legni e poggiavano su piccole sezioni di sostegno in ghisa o ferro. Poste poi in tensione con tenditori a manicotto o ad anello, contrastavano lincurvatura della trave. Si aveva un arcaico sistema di precompressione.

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fig. 13, esempio di caraci a passatore in una muratura di tufo.

I solai composti, infine, nascevano pi che altro come prova di bravura dei maestri. Si ricordano i solai alla Serlio, in cui ciascuna trave, partendo dal muro, poggia sulle travi ortogonali che incontra, e funge allo stesso modo da sostegno; il solaio a scomparti, costituito essenzialmente da poligoni inscritti luno nellaltro; il solaio a cassettoni, nel quale alle travi principali si incastrano i travicelli che sorreggono il tavolato17. Allintradosso dei solai, per motivi igienici ed estetici, si realizzavano controsoffittature in modi assai vari. Allintradosso dei solai venivano realizzate lincartata e la graticola. Lincartata era un rivestimento di carta dipinta con la quale si ricoprivano le travi e le valere per nascondere le sconnessure tra le parti e gli eventuali difetti. Le incartate avevano nomi diversi: ad aria erano quelle con fondo ad unico colore, alla Bisquit se ricche di ornamenti, a cassettoni se i motivi rimandavano alla suddivisione tipica del cassettonato, infine a disegno quando caratterizzate da raffigurazioni.

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Per graticola si intendeva una rete di elementi lignei principali e secondari incastrati tra loro, la quale veniva collegata al solaio tramite pezzi di legno e serviva per distendere la tela della controsoffittatura. Ancora lintradosso poteva essere mascherato lastre di cotto o tegole sorrette da uncini metallici, ma il sistema pi particolare era costituito dalle volte ad incannucciata. Si trattava in realt di finte volte, senza alcuna capacit portante, ottenute tramite laccostamento di piccoli elementi lignei, appunto canne, disposti a disegnare la forma di un intradosso e legate da sottili strati di malta aerea. Sulle incannucciate si applicavano tele dipinte o da decorare. Altri tipi di plafoni in gesso erano armati con una trama di canna palustre, di bamb o di flessibili righette di legno, intrecciate come per una stuoia e fermate con chiodi e fili di rame o spago sotto le travi del solaio.

fig. 14, intradosso di un solaio ligneo a travi squadrate.

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G. Branca, nel suo Manuale di architettura, corretto ed accresciuto, quarta ed. 1769, riporta: Ogni legno per lunghezza di sua fibra resistente eccessivamente pi che per larghezza. In larghezza ritira, e cresce secondo le stagioni, in lunghezza non fa molto sensibile: perci nella composizione di telai, e simili, si taglino sempre i regoli per lungo, e nel riempirne con tavole la luce sincastrino quelle senza inchiodarle, e dove per larghezza possano crescere si lasci lincastro abbondante.. 4 Tra le principali essenze dolci si comprendono il pioppo, lontano, la betulla, il tiglio, il salice. Delle essenze forti ricordiamo la quercia con le sue numerose qualit, il faggio, il castagno selvatico, il noce, il larice nostrano ed il larice dAmerica Tra le conifere tenere vi sono il pino, labete bianco e rosso; tra le dure il larice ed il cipresso. G. Astrua (cfr. Manuale pratico del mastro muratore, ed. Hoepli, 1976) indica lutilizzo pi opportuno per ciascuna specie legnosa ed in particolare: Col pino nostrano si fanno travi da impiegarsi grossolanamente squadrate, per copertura dei tetti, solai e simili nonch per armature da ponteggi in travetti e travettoni, tondoni e per palafitte, sbadacchiature, puntelli; esso ha la fibra corta, per cui si presta meno ad una lavorazione fina...Col larice, di fibra densissima, impregnato di resina, molto forte e resistente, si fanno travature di ogni dimensione, portata e resistenza al carico...Con la quercia, legname molto duro e di meno facile lavorazione, si fanno travature per tetti...Col castagno selvatico (quello da marroni ha una fibra inconsistente) si fanno travi da tetto, palafitte.. 5 I nodi sono i punti di attacco dei rami al tronco attorno ai quali si formata una zona di struttura diversa e pi dura. Sono nodi vivi quelli che si saldano bene alla struttura e non costituiscono pericolo per le resistenze meccaniche, ma danneggiano gli strumenti di lavoro; sono detti invece morti quei nodi che si distaccano facilmente, lasciando vuoti che indeboliscono la struttura. 6 Cfr. B. Bertagnin, Chiusure orizzontali e di copertura nelledilizia tradizionale, 1984. 7 Cfr. G. Giordano, Tecnologie del legno. Le prove ed i legnami di pi frequente impiego, vol. III, Torino, 1976. 8 Cfr. Vitruvio M. Pollione, De Architectura, edizione a cura di Ed. Studio Tesi, Pordenone 1990, capo primo, libro settimo. 9 Cfr.G.Branca, op. citata, ... si dovr avvertire che sopratutto qualsivoglia legname vuole essere tagliato a luna scemante, ed in stagione opportuna, e con venti settentrionali e meglio con la dritta tramontana... la stagione da cominciare dallautunno fino al principio della primavera, essendo in questo tempo ogni legname privo dumore per aver gi maturato il frutto. Quegli arbori poi, che non fanno frutto, si possono tagliare alla luna dagosto, e gennaio, perch in questi tempi o sono sfogati con le frondi e fiori, o non sono ancora preparati per germogliare.. 10 Cfr. G.M.Sganzin, Programme ou resum des leons dun cours de construction, trad. Italiana di Cadolini, 1832 Milano. 11 Cfr. F.C.Boube, le costruzioni di legno, Napoli, ed. Benedetto Pellerano 1892. 12 Cfr. R.Cormio, I costruttori edili e limpiego del legno nei solai e nei soffitti, 1941. 13 Nel Pentateuco della Bibbia, 1200 A., si descrive anche il modo usato per combattere i funghi. Si scrive di cavare le pietre in cui si diffusa la piaga (i funghi si nutrono delle materie organiche pi svariate e sono capaci di proliferare persino sulla roccia), lo smalto delle case e qualsiasi altra cosa infetta e gettarla fuori della citt. 14 Per impiombatura si intendeva quella operazione con la quale, facendo colare il piombo fuso nei buchi predisposti, si incastrava stabilmente un pezzo di metallo in una muratura; allo stesso modo si adoperava gesso a costituire ingessature. 15 In Campania ancora oggi si usano alcuni termini tradizionali: i legni tondi sono detti pali fino ad un diametro di 30 cm, i pali con lunghezza fino a 20 m sono detti abetelle. I sostacchini sono pali di abete grossolanamente squadrati, di dimensioni medie 1215 cm, usati nella costruzione di ponti di servizio; le pedarole, elementi analoghi di minore lunghezza, sono adoperate a sostegno dei piani di tavole. Sotto il nome di travi si includono sia i legnami tondi, con diametro superiore a 20 cm, sia quelli squadrati a sezione variabile da 15x25 a 35x45 cm. I travicelli hanno diametro minore, ma comunque mai inferiore a 10 cm, oppure sezione variabile da 11x11 a 3x3 cm, in funzione della quale si distinguono rispettivamente il muralone, il murale, il muraletto, il correntino ed il listello. I legni di altezza di molto inferiore alla grossezza sono detti tavole o panconi. Le tavole di abete hanno base variabile tra 26 e 39 cm ed assumono nomi differenti in funzione dellaltezza. Si distinguono tavola da ponte (6 cm), palancola (5,5 cm), tavola ordinaria (3 cm), scuretta (2 cm), mezzanella(1,5 cm), terzina(1 cm). Inoltre a Napoli i rami di castagno non scortecciati e lunghezza variabile vengono detti barre, bolde, ginelle. Erano ginelle daccetta quelle di diametro medio,poste ortogonalmente sotto lorditura principale, allo scopo di rafforzare il solaio. Minore lunghezza avevano in successione le ginelle bastarde e quelle darm I rami di lunghezza minore fornivano, divisi in due nel senso longitudinale, fornivano i panconcelli, usati a copertura dellinterasse. Questi erano di sega quando ottenuti con tale attrezzo,

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oppure a spacco, se sezionati in due punti, divisi e stagionati. Nel secondo caso si ottenevano resistenze maggiori. 16 Cfr. D. Donghi, Manuale dellarchitetto, vol. I parte II, ed. Tor. 1935 Torino. 17 Particolare il caso dei cassettoni mobili che si avevano nelle sale pompeiane pi lussuose: in essi meccanismi cambiavano decorazione ad ogni portata, o facevano scendere dal soffitto profumi, fiori, corone sui commensali.

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2. I battuti di gessoI battuti di gesso erano realizzati principalmente nelle zone in cui labbondanza di pietra di gesso rendeva il materiale poco costoso. Farlo infatti arrivare dai luoghi di produzione, nel caso questi fossero particolarmente distanti, risultava poco economico, dal momento che il gesso perde peso allatto della calcinazione e data la scarsa qualit del battuto che se ne otteneva. Se non posto in opera immediatamente dopo la cottura, infatti, il sole riscalda la polvere di gesso e la fa fermentare, lumidit ne diminuisce la forza e laria ruba una buona parte dei suoi minerali, e questo diminuisce la compatibilit con gli altri materiali ed aumenta il rischio di screpolature. Tale battuto, vista lattitudine del materiale ad assorbire lumidit e la velocit con cui lo stesso tende a far presa e indurimento, veniva destinato esclusivamente agli spazi chiusi e perfettamente asciutti.

1.1 Orizzontamenti: pavimentazioni e coperture

Per realizzarlo si utilizzava del gesso18 a presa lenta, detto da pavimento, ottenuto con la cottura a circa 9501300 gradi delle rocce di selenite e la successiva macinazione in mulini allaria aperta, con mole o pilloni19. Questo processo di cottura trasformava il gesso in modo che non possedesse pi la minima molecola dacqua e gli permetteva di avere una resistenza sicuramente maggiore del gesso semidrato. Esso acquistava facolt di presa lenta, dura, solida20. Un gesso ben cotto lo si riconosceva al tatto, ossia dalla consistenza pastosa e collosa. Al contrario un gesso mal calcinato o con presenza di impurit, quali sabbia ovvero ossidi di ferro, risultava friabile e screziato, in questo caso esso era usato come fertilizzante nei terreni. A seguito della cottura e macinazione la farina difig. 15, mazzapicchio di legno per battuti in gesso

gesso era impastata con acqua21 a temperatura

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ambiente ed eventualmente, per ritardare la presa, si aggiungevano degli additivi, con i quali era possibile guadagnare da 15 minuti a 1015 ore. I ritardanti erano ingredienti di pratica dosatura ed avevano le derivazioni pi svariate. Oltre a posticipare la presa del gesso, ne procuravano nel contempo un maggiore indurimento, una maggiore solidit e impermeabilit. Tra i principali additivi possiamo ricordare: lammoniaca, nella dose di 50g/l; la glicerina, in quantit dell1,2%, poich influisce anche sulla solubilit e le propriet adesive; zucchero, amido e destrina, che tuttavia favoriscono la fragilit; lacqua distillata, che dona ai manufatti anche una superficie pi liscia e meno porosa;22 colla forte da ebanisti, preferibilmente poco gelatinosa; calce spenta, in rapporto di 1 parte di calce e 6 parti di gesso; alcool, senza superare la dose del 25% che provoca la fragilit del manufatto; allume, disciolto in acqua calda e in dosi del 1550%.23; latte in qualunque forma; colla di farina, composta da grano, amido, riso, fecola; carbonato di calce impalpabile.24

Inoltre, volendo assicurare al prodotto finale una maggiore resistenza al gelo e soprattutto allumido, si alterava la naturale sensibilit del gesso allacqua aggiungendo allimpasto della malta un mastice detto piccardo, ottenuto con la lavorazione di 1 parte di calce viva in polvere con 9 parti di malta di gesso. Dopo aver compattato e livellato il terreno, eventualmente il letto di ghiaia, ci si assicurava che fosse abbastanza umido da poter gradualizzare la presa dello strato superiore. Per agevolare le operazioni si ripartiva la zona su cui lavorare in fasce tramite listelli posti paralleli ogni metro circa e tra i quali la massa fluida veniva versata ed energicamente battuta. Durante queste prime fasi ci si assicurava che tra il masso e le murature perimetrali ci fosse la giusta distanza, poich il gesso, al contrario della calce, aumenta di volume una volta impastato. Il giunto era definito dallesperienza del mastro operaio, anche in relazione allestensione delle superfici, allumidit dellambiente e alle variazioni termo-igrometriche tipiche della zona. Il minimo errore avrebbe causato il rialzo del supporto e la conseguente fessurazione.

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Distribuita la malta sulla superficie con una stecca di livellamento, per effettuare la battitura si attendevano almeno ventiquattro ore, durante le quali si aveva il primo consolidamento del masso, che avrebbe portato in evidenza le prime fessurazioni e screpolature, e avrebbe permesso agli operai di potersi muovere senza arrecare alcun danno alla struttura. Loperazione di battitura iniziava dalla prima fascia verso lultima e avveniva tramite dei battitori in legno e ferro o, pi spesso, con dei mazzapicchi, strumenti costituiti da una base semicilindrica con raggio da 10 a 12 cm, ed un manico di lunghezza variabile in funzione dellaltezza delloperaio. Lutensile era realizzato in legno di faggio, pertanto il peso non risultava eccessivo. Scopo della battitura era di eliminare tutte le screpolature ed imperfezioni, ma anche quello di far ridiventare elastico lo strato gi indurito, facendo risalire alla superficie tutta lacqua che il masso ancora possedeva, la quale, lasciata indisturbata, nellasciugarsi avrebbe reso il manufatto poroso e meno resistente. Per rallentare per il processo di essiccazione si inumidivano costantemente le superfici e si procede cos per circa nove giorni e ad intervalli regolari di 5-6 ore, per permettere alle screpolature di riformarsi ed essere nuovamente richiuse. Una volta trasudata tutta lacqua e perse completamente le screpolature, il pavimento era levigato con una cazzuola e con pietra arenaria fine ed acqua e se ne sigillavano le inevitabili soffiature con malta. Per ottenere poi una certa le durezza ed aumentarne capacit

impermeabili, il lavoro era trattato pi volte con una particolare soluzione, la quale poteva essere costituita da olio di lino, cera dapi e acquaragia, olio di ricino, ecc. Qualunque fosse ladditivo usato, questo non doveva in ogni caso esserefigg. 16-17, cazzuola e stecca di livellamento utilizzate per la realizzazione del battuto.

tanto

concentrato

da

occludere le porosit e non poter penetrare a fondo, e veniva steso con un pennello di setole scaldando

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la superficie con lampade a saldare. Lultima operazione prevedeva la lucidatura a cera, per migliorare maggiormente la protezione del manufatto e qualche volta i massi in battuto di gesso erano anche suscettibili di decorazione, ottenibile tramite laggiunta di pigmenti coloranti nella malta appena confezionata. Era necessario che i pigmenti avessero natura minerale, solitamente si trattava di ossidi coloranti, perch in caso contrario il gesso avrebbe aggredito la sostanza colorante vanificando il tempo impiegato per la decorazione. Tale trattamento veniva esteso a superfici pi o meno grandi, potendo anche isolare spazi multiformi tramite stampi e sagome di legno trattati con acqua e sapone, sostanza che fungeva da disarmante. In alternativa si incideva la massa e si riempivano le incisioni con la stessa malta colorata. Era possibile ottenere effetti colorati facendo assorbire al manufatto delle miscele liquide, durante la fase di essiccazione per facilitarne la penetrazione fino ad almeno 2 cm. Con locra gialla si riusciva ad esempio a ottenere il colore del mattone, con locra e del nero si dava alla superficie la sembianza del granito. Il gesso, comunque, non riesce da solo a dare un aspetto uniforme del proprio colore e tanto meno a mantenerla tale, a causa soprattutto delle variazioni atmosferiche. Per aiutarlo si mescolava allimpasto del carbonato di calce tritato finissimo. Nel caso non si intendesse servirsi di decorazioni, spesso sul masso erano poggiati quadretti di terra cotta, pietra o marmo, a maggiore protezione del supporto. Allo stesso modo, anche se meno frequentemente, i battuti in gesso potevano essere realizzati allestradosso di solai interpiano, su supporto voltato o ligneo, e in questultimo caso risultavano necessari alcuni accorgimenti. Si provvedeva a proteggere il legname dallumidit dellimpasto tramite bitume, ma principalmente era importante verificare la stabilit delle travature, perch la minima oscillazione avrebbe provocato linsorgere di crepe nel manufatto in gesso. Per diminuire questo pericolo un buon rimedio consisteva nel costruire il sottofondo in modo che si conformasse una superficie curva pi alta al centro, e scavare nella muratura laterale solchi di 4 cm circa. In questo modo, una volta consolidatosi, il battuto funzionava come un arco, spingendo contro la muratura allorch fosse mancato anche il minimo sostegno dal piano sottostante.

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2.2 Murature e superfici verticali Luso del gesso era limitato essenzialmente alle pavimentazioni, ma si poteva fare ricorso ad esso per il rivestimento25 di pareti laddove se ne volesse sfruttare il potere ignifugo. Il gesso, infatti, in presenza di eccessivo calore, perde per evaporazione lacqua di cristallizzazione e quindi il minore o maggiore spessore che lo strato in gesso poteva avere aumentava di gran lunga la resistenza al fuoco della struttura. Raramente si fatto utilizzo di pareti in blocchi di gesso. Questi venivano confezionati con pasta di solo gesso, nella quale erano mescolati pezzetti di canna, paglia, o altra fibra rigida per aumentare la resistenza interna e assicurarsi una maggiore curabilit. Limpasto prendeva la forma di mattone allinterno di stampi in legno, nei quali era ben costipato a colpi di cazzuola, e lasciato essiccare affinch assumesse le dovute propriet. Lessiccamento si riteneva concluso quando il gesso non lasciava untuosit al tatto e quando, avvicinandolo con un ferro acuminato, non si lasciava penetrare. Lo Sganzin descrive luso di quadrelli di gesso di dimensioni 50 x 32 x 68 cm, che si posavano a coltello, ricavando nello spessore degli incavi dove colare il gesso di legatura.26

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Il De Cesare nella sua La scienza dellarchitettura applicata, (Tipi di G. Bellinzone, Napoli 1856), individua tre variet di gesso: il gesso comune o da presa, usato spesso per il confezionamento delle malte; il gesso sfoglioso o falso talco, composto di fogli sottilissimi il pi puro e produce una malta di qualit migliore, detta scagliola; il gesso detto falso alabastro, simile ad un marmo e poco utilizzato perch pi debole del comune. 19 I gessi macinati si chiamavano gessi crivellati e si distinguevano in gessi stacciatie gessi dallo staccio di tela a seconda che fossero vagliati per mezzo duno staccio di crini, oppure tramite della tela, per ottenere la polvere pi sottile. 20 Cfr. D. Frazzoni, Il gesso e i suoi vari usi, Hoepli 1934. 21 A tal proposito D. Frazzoni scrive: Fatto il seminato di gesso in quantit di acqua maggiore della proporzione voluta per i gessi, si mescola per ottenere che da tutte le parti del vaso la miscela venga smossa e manipolata, tanto da diventare tutta un bel pur, e dopo di ci si pu attendere unora per applicarla, o meglio per iniziare il lavoro. Durante la posa in opera della pasta, la parte di questa rimasta nel vaso bisogna mantenerla mescolata affinch lacqua, che tarda ad essere imbevuta dalla materia causa il suo lento dissolvimento, fermatasi alla superficie dellimpasto venga nuovamente imbevuta e messa a disposizione immediata dei grani grossi e non ancora disciolti. In questo modo si comprender che lacqua non deve scarseggiare per favorire il grado di assorbimento che ha il gesso da pavimento.. 22 Cfr. T. Turco, Il gesso: lavorazione, trasformazione, impieghi, Hoepli 1962. 23 Lallume, ossia allume di potassio, un composto chimico costituito da molecole di potassio ed alluminio legate a molecole di acqua di cristallizzazione. Quando i cristalli di allume vengono scaldati, parte dellacqua di cristallizzazione si dissocia e questo sembrava favorire il rallentamento del processo di presa nei battuti di gesso. 24 Il Rondelet, nel suo Trattato teorico e pratico dellarte di edificare, consiglia di stemperare la malta di gesso in una soluzione di acqua, fuliggine e colla di Fiandra. 25 In Plinio, nella Storia delle arti antiche, si legge: il gesso molto gentil cosa per fare figurine, fogliami e ghirlande di edifici. 26 Cfr. G. M. Sganzin, Programmi ovvero riassunti di un corso di costruzioni, traduzione italiana di Cadolini, 1832, Milano.

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3. I battuti di calceLa realizzazione dei battuti di calce testimoniata sin dal tempo di romani e greci, da autori come Plinio e Vitruvio, che a lungo ne hanno fatto oggetto delle proprie trattazioni. Alcuni autori ipotizzano che la scoperta della calce sia stata fatta casualmente poco dopo quella dei mattoni, come conseguenza dellincendio di qualche edificio costruito in pietra calcarea per cui, gettando acqua per spegnere le fiamme, le pietre si scioglievano. Nel tempo, poi, allesecuzione tradizionale si sono aggiunte tecniche pi evolute, che prevedevano nuovi strumenti e nuovi materiali.

3.1 Murature e superfici verticali In passato la calce era usata, seppur raramente, anche per fare buoni mattoni. Si utilizzava calce di buona qualit, che veniva resa di consistenza plastica e miscelata con criterio a sabbia fina o polvere di pietre tenere. Con limpasto cos ottenuto si riempivano gli stampi, avendo cura di comprimerlo con pestoni per aumentare la densit, e di coprirlo con sabbia. Questa assorbiva Infine si lacqua dava rifiutata tempo alla dalla calce, di costituendo una crosta di particolare durezza. materia consolidarsi pienamente, e occorrevano anche due anni perch si ottenesse una resistenza pari quasi a quella delle rocce tenere.fig. 18

Un secondo tipo di blocchi di calce erano detti prismi o cantoni. Questi venivano realizzati impastando la calce con della sabbia o ghiaia di natura silicea, il composto era posto in fosse triangolari ricavate nel terreno, inserendo delle scaglie di pietra di grandezza fissata. Formati in questo modo i prismi, li si ricopriva con 30 cm circa di terra per lasciarli sepolti da uno a tre anni, volendo ottenere una tenacit maggiore. Una volta confezionati, tali blocchi erano usati in sostituzione della pietra da taglio.1

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fig. 19, una vecchia cisterna.

Il battuto di calce era molto utilizzato, miscelato con particolari componenti, anche come impermeabilizzazione delle pi svariate superfici, come nel caso di cisterne, pozzi, palmenti e altri simili ricettacoli dacqua. Gi Vitruvio raccomandava il ricorso a massicci intonaci, composti di ben tre strati. Il primo di questi, dello spessore di 811 cm, era formato di malta e scaglie di pietra; il secondo, di 3 cm, si costituiva di pozzolana o mattone pesto; infine il terzo era uno spessore molto sottile di malta di calce e polvere finissima di mattoni. Il cappotto cos ottenuto era battuto fino a richiamare alla superficie tutta lacqua dellimpasto, al fine di garantire una duratura compattezza. Nel napoletano le pareti delle vasche rivestite con battuto, che assumeva nel caso particolare il nome di grottone,2 vedevano il rivestimento applicato in spessore costante di 45cm, e ridotto per battitura di circa un terzo. Le poche fasi costruttive prevedevano che il supporto verticale fosse quanto pi possibile regolarizzato, poi su di esso era steso uno strato di malta idraulica, confezionata con calce e lapillo fine o pozzolana nel rapporto di 2 a 1. La malta era distribuita dal basso verso lalto in strisce orizzontali di circa 30cm e raccordi di 15 cm nelle zone dangolo3. Il tutto era infine compattato con colpi di mazzola, portati

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alternativamente dallalto in basso e da sinistra verso destra. La battitura durava circa due giorni e , data la ristrettezza dei luoghi nei quali si operava, i battitori erano al massimo tre. Molto spesso, in particolare sulle isole, limpermeabilizzazione delle cisterne era formata da un battuto di calce e ferrugine. La ferrugine di qualit migliore proveniva da Lucrino, di colore molto scuro e consistenza vischiosa essa era stesa sui muri delle vasche a uso intonaco in spessore di 34 cm, e poi battuta con una mazzoccola per circa 6 giorni. In questo modo si chiudevano tutti le porosit, ottenendo una compattezza marmorea. Le stesse cisterne potevano essere egregiamente intonacate tramite la stesura di una malta di cenere di carbon fossile e calce, nominata nel gergo cinerata, di ottima presa nellacqua.

3.2 Orizzontamenti: pavimentazioni e coperture La trattazione pi antica prevedeva che la ruderatione, ossia la pavimentazione, venisse edificata su un supporto resistente e uniforme in ogni sua parte, e questo per evitare la comparsa di fratture che ne avrebbero Compromesso funzionalit. Nel caso di battuti al pian terreno, Vitruvio consiglia di esaminare la compattezza del ed laddove suolo e di procedere ad appianamenti assodamenti necessario. Quando invece il masso era da realizzare su supporto ligneo, per solai intermedi, era necessario assicurarsi che i naturali movimenti delle travature, dovuti a fenomeni di la

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ritiro e deformazione del legno, fossero del tutto indipendenti, e quindi non impediti, dalla rigidezza delle murature perimetrali, evitando in tal modo nei pavimenti crepe a destra e a sinistra4. Sul solaio ultimato, ad evitare che la calce del masso superiore corrodesse il legno, si disponeva uno strato di felci o paglia. Sul piano cos sistemato si disponeva il primo strato, detto statumen o statuminatio, composto da malta di calce frammista a pietrame della grandezza di un pugno e tondeggiante, per diminuire il rischio di danni al supporto e aumentare la costipazione. Sopra si poneva il rudus o rudere5, un battuto di calce e pietrisco di pezzatura minuta e carattere spesso idraulico, in rapporto di 1 parte di malta e 3 parti di pietrisco, nel caso di primo impianto, oppure di 2 a 5 per restauri e rifacimenti. La superficie veniva poi rassodata a colpi di mazzeranghe di legno da unabile squadra di operai fino a che lo spessore complessivo del primo e secondo strato, di norma intorno ai 30 cm, si fosse ridotto di almeno un quarto. A questo punto il battuto poteva considerarsi ultimato, nel caso non avesse particolari pretese decorative, ma nel volergli conferire maggiore resistenza e finitezza, si procedeva alla stesura di un terzo ed ultimo strato: il nucleus o nucleo grasso.6 Tale strato era costituito da 1 parte di malta pi fine e 3 parti di frantumi di laterizio, a formare il cocciopesto, in base allesigenza di ottenere uno strato maggiormente impermeabile e resistente, ed era spesso almeno 12 cm. La superficie non era sottoposta ad energica battitura, ma semplicemente regolarizzata tramite fratazzo o cazzuola. Su di essa si disponevano eventualmente le tesserae, tirate a squadra e livella.7 Operando la somma delle varie altezze, si ottiene una grossezza complessiva di 45 cm, cos suddivisa: statuminatio, 1015 cm; rudus, 22 cm; nucleus, 12 cm.

Nel caso di battuti allaria aperta, su solai di copertura si prevedevano maggiori accorgimenti per aumentare le condizioni di resistenza e sicurezza. Per evitare che le gelate invernali e le varie escursioni termiche provocassero eccessive reazioni nel legno e danneggiassero di conseguenza i pavimenti, dopo aver fatto un primo tavolato occorreva farne un altro disposto ortogonalmente (coaxatio transversa), e chiodare le teste delle tavole alle travi affinch non si piegassero. Poi si disponeva un conglomerato di calce e pietrisco nella proporzione di due parti a cinque, battuto fino al rigetto dei colpi. Infine si realizzavano i restanti strati come gi detto per gli altri casi, e su di essi,

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definito il senso delle pendenze, si disponeva il pavimento di tesserae le cui giunzioni erano da trattare ogni anno con sansa, per impedire che il gelo si infiltrasse. In casi particolari si stendeva al di sopra del rudus, per mezzo di malta di calce, uno strato di tegulae bipedales, tegole in laterizio di lato pari a circa 60 cm, conformate in modo che i lembi maschio potessero e unirsi a Le femmina.

giunzioni erano sigillate con un impasto di calce ed olio, che, una volta solidificato, impediva qualsiasi infiltrazione dacqua. Luso del battuto di calce non comunque da attribuire ai soli romani. Vitruvio accenna ad un battuto realizzato in Grecia dalle particolari capacit assorbenti, usato in appartamenti invernali o in sale da banchetto al pian terreno. Per la realizzazione si effettuava inizialmente uno sbancamento fino ad una profondit di 60 cm e, rassodato il terreno, se ne imponeva una certa inclinazione per agevolare lo scolo di eventuali liquidi verso lesterno. Sul suolo cos compattato si poneva un primo spessore di calcinacci e malta in funzione di vespaio e subito sopra uno strato di carbone di mezzo piede che veniva energicamente battuto. la superficie era completata con un impasto di calce, sabbia e cenere a costituire il masso pavimentale, della grossezza di circa 16cm. Il colore era terreo, ma poteva essere lisciato con larenaria ed assumere laspetto di un pavimento nero. Il battuto alla greca forniva notevoli vantaggi di coibenza, esplicata dallo strato di carbone, ed igienicit, poich i liquidi eventualmente versati sul pavimento erano immediatamente assorbiti dalla porosit della superficie e potevano rifluire verso il canale posto al piede dello sbancamento. Sullesempio di Vitruvio numerosi sono stati poi coloro che, come costruttori e studiosi, si sono cimentati nella definizione di questi pavimenti. Pi che differenziarsi per le tecniche, in realt, essi adattarono le stesse alla variet di materiali e risorse disponibili. Agli inizi del novecento il Donghi descrive il battuto di calce alla russa, che consiste di una parte di calce sfiorita allaria e due parti di ghiaia, che vengono bagnate con sangue di bue in piccola quantit. In questo adattamento lo statumen era

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figg. 22-23, sezione di un vecchio lastrico presso Lauria(Potenza). Dal basso si individuano la trave portante, le chiancarelle, i cocci del nucleus, il lastrico ed infine il masso cementizio di pi recente disposizione.

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fig. 24, battuto terraneo in calce.

costituito da un letto di sabbia ben bagnato e compattato, per non sottrarre acqua allo strato superiore, mentre un impasto di pietrisco, sabbia e calce idraulica veniva battuto a definire il rudus. La particolarit dello strato finale consisteva nellaggiunta del sangue di bue, che contiene numerosi minerali tra cui potassio, sodio e zinco i quali accrescono lidraulicit della calce e con essa realizzano legami chimici molto forti, accrescendo la solidit del masso. Per ottenere una finitura migliore, allora limpasto doveva comprendere 10 parti di calce lavorata fina, una parte di farina di segale e il tipico sangue bovino. La massa veniva stesa con la cazzuola a piccole superfici e lasciata riposare per un lungo periodo, avendo cura di gradualizzare il ritiro nei primi giorni tramite una continua umidificazione. La superficie finale era passata con olio di lino e poteva essere decorata con colori ad olio o con lo stesso sangue.

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La tecnica del cocciopesto viene di norma, erroneamente, fatta derivare da quella pi antica dellopus signinum, ed ripresa nella trattazione di pi autori. La confusione tra i due composti dovuta al fatto che quasi sempre, alle nelle fonti antiche, il signino citato in relazione strutture intonaci, realizzati spesso in cocciopesto. Non aiuta inoltre la moltitudine di termini usati per nominare la tecnica dei laterizi pestati. Sebbene letteratura gran parte tecnica della sia idrauliche, ai pavimenti, agli

consultabile in base ad uno dei due termini senza problemi, la distinzione tra le due miscele invece risulta conglomerato, e il signino una malta. Nella sua preparazione non compare traccia di laterizio, se non in Plinio, bens la calce era mescolata a sola sabbia e pietrame pezzatura. Lautentica tecnica del cocciopesto viene descritta da pi autori, tra cui il Rondelet, che suggerisce un impasto costituito di una parte di calce efigg. 25-27, esempi di opus signinum a Pompei. Nel terzo caso sullo strato finale sono state aggiunte delle tessere in marmo disposte ordinatamente come elemento decorativo.

necessaria, il

poich un

cocciopesto

duro

di

piccola

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tre parti e mezzo di tegole e mattoni8, gettato in un solo momento e steso con rastrelli a punte di ferro. Per economia era anche permesso sostituire una parte di cocci con una di pietrame, a discapito per della solidit finale. Buona regola era utilizzare mattoni di buona cottura, e mai cotti due volte perch darebbero una malta meno resistente. Steso lo strato si lascia riposare per uno o due giorni, e cio il tempo necessario per poter camminare sul masso senza danneggiarlo, e poi si batte con una zanca fino a sentire la reazione della cazzuola. Dopo aver lasciato asciugare per una giornata vi si passa sopra uno strato di 4 cm di tegole polverizzate miste a calce spenta, stese con cazzuole pi sottili e dal manico pi lungo. I battuti di cocciopesto, pur presentando una superficie particolarmente grossolana, non mancavano in durevolezza e soprattutto in resistenza allacqua, favorita questa dalla buona quantit di argilla cotta. Pur tuttavia essi erano usati di regola negli spazi allaperto.

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Scutulata pavimentaNelle stanze e in tutti gli spazi nei quali si avessero particolari pretese estetiche, e per le superfici maggiormente soggette ai traffici, limpasto di cocci e malta del nucleus veniva arricchito con grossi frammenti di ceramica o marmo, le crustae, gettati a caso sulla superficie o disposti a formare precisi disegni. In alternativa, e per un effetto pi curato, si veniva a creare un quarto strato, un supranucleus, molto sottile e della stessa malta dello strato sottostante. Esso era solitamente steso dagli stessi mosaicisti per potervi collocare le tessere. La superficie veniva poi regolarizzata battendo leggermente con la cazzuola oppure passandovi sopra una grossa pietra cilindrica come fosse stata un rullo. Luso del mosaico quale elemento tecnico e decorativo nasce probabilmente in Grecia, come evoluzione dei primi pavimenti in cui i rudimentali ciottoli colorati vennero col tempo regolarizzandosi fino a che i mosaicisti si resero conto che frantumando le pietruzze potevano ottenere elementi piani, pi adeguati alla realizzazione di un pavimento. Il taglio in seguito si affin, e i mezzi ciottoli divennero cubi, quelli che Vitruvio definisce tesserae. Plinio conferma la Grecia come luogo di origine dellarte musiva, ed a testimonianza dellaccuratezza che le composizioni spesso assumevano descrive il mosaico che a Pergamo era detto la casa non spazzata, perch rappresentava con piccole tessere di vario colore i resti di un pasto come lasciati l sul pavimento. Sicuramente un furbo espediente per ridurre le fatiche della manutenzione domestica. A Roma si soleva indicare questi pavimenti con il nome di scutulata, termine che ancora oggi individua tutti i pavimenti fatti a scaglie, o crustae, e non un tipo in particolare. Linterpretazione deriverebbe dalluso che del termine hanno fatto pi autori, il Palladio riferendosi al manto ornato di macchie irregolari dei cavalli pezzati, Plinio indicando la tela del ragno, ecc. I pavimenti con scaglie realizzati un tempo possono essere raggruppati principalmente in tre tipi: mosaici di tessere su fondo bianco, su fondo nero, e mosaici su fondo di cocciopesto. Nei pavimenti a fondo nero il contrasto di colori era ottenuto tramite linserzione di scaglie di tonalit molto chiara, solitamente marmi(giallo antico, africano, serpentino e

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granito), tagliate rettangolari o in forma di poligono e disposte con un certo ordine. Lo scutulatum con il fondo bianco costituiva una forma meno pregiata per il largo uso di tessere di calcare, piuttosto che di marmo. Queste erano distribuite sulla superficie nei colori pi disparati, verde, rosso, giallo, e spesso si utilizzavano scaglie nere a realizzare motivi a scacchiera. Raramente alle scaglie di calcare si accompagnavano alcune di cotto. Infine lornamentazione realizzata su cocciopesto prevedeva disegni geometrici ottenuti mediante linserzione di tessere bianche accostate per angolo, o di scaglie pi o meno grandi disseminate alla rinfusa con lintento di ottenere un vivace contrasto di colori tra il fondo rosso del battuto e le tonalit delle pietre9.

fig. 28, mosaico di Alessandro e Dario a Pompei nella casa del Fauno. Tale disegno dimostra come la tecnica del mosaico policromo sia divenuta perfetta soprattutto nellItalia meridionale, a tal punto da permettere ai mosaicisti di gareggiare con i pittori. Alle esecuzioni come questa, particolarmente realistiche, dato il nome di opus vermiculatum.

Nelle opere pi moderne il terrazzo a mosaico, detto anche piantato, veniva eseguito allo stesso modo che presso i romani, solo che il collocamento dei pezzetti di marmo, assortiti per colore e forma, veniva eseguito con laiuto di modelli di cartone in modo da ottenere precisi disegni. Tale tecnica era detta a spolvero. I cartoncini, detti appunto spolveri, erano posti sulla superficie da decorare, e, per tracciare i contorni del disegno si incidevano con una punta dacciaio e si segnava la traccia con carbone pesto, oppure con un mastice di lino e nero fumo. Per operare si

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disponevano separatamente i pezzetti di marmo tutti dello stesso colore, grazie allo stesso modello sul quale sono lasciati liberi solo i fori dello stesso colore. Dopo aver effettuato la rotatura con una grossa pietra arenaria, per rendere pi netti i contorni si segnavano con una punta di acciaio tagliente, e si riempiva il taglio con nero di fumo ed olio di noce. Le stesse decorazioni potevano poi essere ottenute definendo la superficie da trattare tramite sagome di legno, che ne marcavano le campiture. Per iniziare il lavoro si disponeva la prima fila di pezzetti di marmo sul bordo dei legni, per poi completare la campitura dellintera area. Gi dal XII secolo, poi, si faceva uso, in sostituzione del marmo o del calcare, di pezzetti di pasta di vetro oppure di ceramica, i quali, sebbene meno brillanti e luminosi, permettevano di ottenere una maggiore ricchezza di colori. I pezzetti erano cubici o a prisma poligonale ed erano realizzati con argilla fina e silice mescolate coi necessari colori, compattate a secco e poi cotte. Il mosaico si realizzava incorniciando il lavoro con delle assi di legno, poste di taglio, e, su una lastra di vetro si collocavano i pezzetti di ceramica seguendo il disegno di base, e sigillandone poi gli interstizi con malta. Il resto del telaio-cassa era riempito con cocci e malta e, una volta indurito, il lavoro era capovolto e posato dove necessario, su un sottofondo precedentemente preparato.

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fig. 29

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figg. 30-31

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figg. 32-33

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Cfr. Cavalieri di San Bertolo N., Istituzioni di architettura pratica ed idraulica, Roma 1826-27. Plinio consigliava anche di fare le cisterne con cinque parti di rena, due di calce e poca ghiaia, da pestare con pali ferrati. 3 Il Cavalieri di San Bertolo, op. citata, descrive la composizione di un particolare tipo di stucco a suo parere adattissimo a sarcire le fessure delle cisterne. Esso si compone di uguali parti di pece liquida e grasso, fatte bollire in grossi pentoloni e lasciate a seguito raffreddare. Successivamente unito a giuste dosi di calce viva, il composto assume la consistenza di una pasta, capace di sarcire qualsiasi crepa e di bloccare le infiltrazioni. 4 Cfr. Vitruvio M. Pollione, De architectura, ed. Studio Tesi, Pordenone 1990, libro settimo parte prima. 5 Il nome rudus deriva dal fatto che la malta di calce venisse impastata con frammenti di vecchie case, prima realizzate in mattoni dargilla e con i pezzi delle tegole che scoppiavano nelle fornaci. Tali mattoni erano pestati e accorpati alla malta per conferirle una certa idraulicit. Si parla di malta di cocciopesto. 6 Plinio il Vecchio, nella sua Storia delle arti antiche, parla di nucleo crasso sex digitos induci, ossia di nucleo grasso o anima dello spessore di sei dita. 7 Vitruvio scrive ad regular et libellam. 8 Il Reynaud, in Trattato di architettura,(G. Antonelli editore, Venezia 1875), pagg. 32-33, porta notizia di un cocciopesto confezionato con tre parti di calce mora padovana, ottenuta dai colli Euganei e fortemente idraulica, due parti di sabbia e due di frantumi di laterizi. 9 Cfr. M. L. Morricone, Pavimenti romani, Roma 1971.2

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Terrazzi alla venezianaIl terrazzo o battuto alla Veneziana, al pari del lastrico Napoletano, costituisce una evoluzione e reinterpretazione dei battuti di calce vitruviani. Da questi si distinguono prendendo anche il nome di pavimenti a smalto, per le elevate propriet idrauliche che i componenti conferiscono loro, la maggiore impermeabilit e lucentezza delle superfici, tipica appunto di una lavorazione a smalto. Il terrazzo alla Veneziana, definito anche da alcuni autori battuto marmoreo1 per levidente bellezza del manufatto finale, conferma la validit delle applicazioni e teorizzazioni romane, ma con apporti vari circa i materiali, gli strumenti, frutto del riconosciuto lavoro dei terazzieri veneziani, i quali ne fecero una vera e propria arte. Limpostazione veneziana sar poi seguita anche in altre parti non solo dellItalia, adattandola logicamente alle disponibilit di materie prime dei luoghi. Un esempio era dato da quello che i napoletani definivano impropriamente

pavimento alla veneziana2, in cui le parti di marmo dellimpasto erano frammiste a dosi di lapillo bianco e detriti di mattoni.

Il vero terrazzo comunque quello che nella citt lagunare si realizzava seguendo regole ben precise, tra cui prima di tutte quella che imponeva lafig. 34, gli attrezzi usati dagli operai veneti. Da sinistra: la becanela, il manico in ferro al quale era agganciata larenaria per orsare, il rullo e lo staccio.

realizzazione dei manufatti su supporti ben stabili. Visto infatti lelevato spessore e il peso che

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questi battuti venivano ad assumere, in funzione soprattutto della presenza del marmo, essi erano messi in opera, sia allaperto che al chiuso, su volte di mattoni, solai lignei, o preferibilmente al piano terreno. Solitamente i solai realizzati nel Triveneto presentavano elevata rigidezza, perch costituiti da una doppia orditura di tavole, poste ortogonalmente sopra grosse travi squadrate. Si trattava dei solai alla Sansovina, di cui si gi detto nelle pagine precedenti. Le volte di cotto permettevano di tutelare maggiormente il manufatto durante la battitura, ma necessitavano che limpasto superiore fosse mantenuto umido sino al completamento delle lavorazioni, onde evitare di sottrarre acqua alla calce dunione delle pianelle laterizie. Infine, qualora il battuto fosse terraneo, risultava dobbligo ottenere asciutto ed assodato il suolo, ed utilizzare materiali di pi elevata qualit, poco porosi in modo da non innescare fenomeni di risalita capillare dellacqua, tondeggianti per un migliore ammorsamento e compattazione. Superiormente allimpalcato ligneo, voltato o terraneo, si disponeva il primo strato utile, che nella trattazione sette-ottocentesca prendeva il nome di fondo, di materiale misto e assai resistente. Tale fondo consisteva in uno spessore di circa 10 cm, contenente una parte di buona calcina e tre parti di rottami di tegole e polvere di mattoni. Era possibile anche usare frantumi di vecchi battuti, pezzi di argilla ben cotti o ancora operare in economia con un impasto di 1/3 di scaglie di pietre, 1/3 di tegole ed uno di calce, non ottenendo per unopera particolarmente solida. Lo strato era steso con un rastrello a punte di ferro, o ancora tramite cazzuole, che nella tradizione veneta potevano dirsi: cazzola da terazzer, con lama triangolare ed appuntita, adoperata nella fase iniziale; cazzola quadra, dalla lama rettangolare, per la battitura pi leggera; cazzolin, dalle dimensioni minori, usato per la rifinitura delle superfici in particolare negli angoli e nei bordi.

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fig. 35, alcuni stampi in legno usati per la definizione dei mosaici. Erano posti sulla superficie, vi si lavorava intorno e, ultimata la campitura esterna, si procedeva a decorare quella interna.

Una volta distribuito in maniera costante sulla superficie, il materiale era lasciato asciugare per uno o due giorni a seconda della stagione. Il fondo cos realizzato assolveva alle stesse funzioni dellantico statumen. Grazie allelevato spessore smorzava leffetto dei colpi, proteggendo il supporto sottostante, si opponeva alleventuale risalita dellacqua e migliorava il potere di isolamento termico ed acustico del pacchetto finale. Trascorso il tempo necessario anche alla comparsa delle prime fessurazioni, il masso era battuto per pi giorni, interponendo dei periodi di riposo, seguendo alternativamente le due direzioni di sviluppo della pianta3, tramite una battitoia di ferro lunga e dritta, leggermente convessa al di sotto, la quale si ripiega in un gomito per poter essere comodamente impugnata e maneggiata. Lo Sganzin definisce in tal modo la zanca, uno strumento in ferro lungo circa 40 cm, ripiegato due volte a gomito. In realt in questo caso la battitura era detta leggera, e poteva distinguersi da quella pesante ottenuta tramite limpiego di becanele ovvero batipali. Questi erano costituiti alla base da un pezzo di legno di forma cilindrica, avente funzione di massa battente, rinforzato da una fascia metallica e sostenuto tramite due lunghi manici, che permettevano agli operai, seduti oppure ritti, di portare energiche botte.

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Si arrestava la battitura allorch lo spessore dello strato era diminuito di almeno un quinto e si era registrato il rigetto dei colpi. Attese ulteriori 24 ore, il masso era integrato da un secondo strato, la coperta4, steso uniformemente in spessore 6 cm, formato da un impasto di calce e polvere di mattoni, ovvero polvere di marmo e pozzolana. Lacqua era limitata alla minima quantit necessaria per dare omogeneit allimpasto e conferire allo stesso uno stato di consistenza umido-plastico. Tale secondo strato prevedeva di norma gli stessi componenti che erano gi parte del fondo, ma dalla granulometria inferiore e dalle pi spiccate caratteristiche idrauliche, onde migliorare le resistenze finali. La battitura era pi delicata ed effettuata solo dopo un giorno di pausa.5

Sulla coperta si realizzava lultimo strato, che fungeva da rivestimento e decorazione e poteva essere ottenuto essenzialmente in due maniere. Nel primo caso, sullo smalto ancora tenero, si spargevano in ordine di grandezza i pezzetti di marmo colorati, della grandezza circa di una noce, come per effettuare una semina cosicch questi si conficcassero nello spessore. Pi le scaglie erano grosse, maggiore sarebbe risultata la resistenza del pavimento e di conseguenza il suo costo. I migliori terrazzi erano realizzati con tessere di lato non inferiore al centimetro, dallaltezza da 2 a 3 cm e le facce spianate con la martellina per il perfetto combaciamento tra i pezzi6. Terminata la semina si innaffiava con acqua e si faceva scorrere sulla superficie un grosso cilindro di pietra, detto volgarmente colona, di 80 cm di lato e 30 cm di diametro, chefig. 36, uno scenografico mosaico presso S. Marco.

permetteva

il delle

completo pietruzze

ammorsamento nella malta.

In altri casi i pezzetti di marmo erano poste non direttamente sopra la coperta, ma si inserivano in un nuovo strato, simile al supernucleus dei mosaici pi antichi, composto

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da tegole polverizzate miste a poca calce spenta nel rapporto 1:1. Questo strato aveva uno spessore costante di 4 cm e veniva steso con cazzuole lunghe, strette, e di manico pi rilevato che nelle cucchiaie comuni. Sullo strato si ripeteva la battitura, ma con minor vigore e finch i pezzetti fossero completamente internati nello smalto. La fase finale, nella realizzazione di tali battuti, prevedeva la levigatura o rotatura, e la lucidatura, effettuate dopo un periodo di riposo di circa dodici giorni. La superficie era levigata tramite orsi, formati da una grossa pietra arenaria usata come un rullo, oppure sagomata a forma di mattone e fissata ad un gambo di legno per essere maneggiata. Lorsatura procedeva per giorni sostituendo gradualmente la pietra arenaria ruvida a quella pi fine. Durante loperazione il terrazzo era continuamente lavato con acqua per poterne giudicare laspetto e la finitura. Per riempire gli eventuali solchi e rimuovere le irregolarit e venutesi a creare, si versava nelle stesse una colla finissima composta di calce e qualche terra colorata, sulla quale era ripassato un orso di pietra tenera. Finalmente il battuto era lustrato con una cazzuola e spalmato di olio di lino ben caldo o cera, in modo da accrescerne bellezza e consistenza. Nella letteratura tecnica si definisce terrazzo anche un tipo di pavimento realizzato usando il cemento in sostituzione della calce. In questo il fondo aveva spessore di 6 cm ed era composto di cemento e ghiaia in rapporto di 1:5. Sul secondo strato, molto sottile, in calce e polvere di mattoni, si conficcavano le pietruzze del mosaico. Al di sopra era versata una poltiglia di acqua e cemento per accompagnare lorsatura. Una volta trascorsi i tempi necessari allasciugatura e allindurimento, si procedeva allordinaria lucidatura.

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fig. 37

figg. 4-11, fasi di posa in opera di un terrazzo. 1,2,3) Per agevolare le operazioni si ripartisce la zona su cui lavorare in fasce tramite listelli posti paralleli ogni metro circa e tra i quali gli inerti vengono sparsi. 5,6) La massa fluida viene versata e stesa tramite una stecca di metallo, si modellano gli angoli e si preparano i contorni dei motivi; 7,8) Le giunzioni tra fasce adiacenti sono regolarizzate e lintera superficie viene passata al rullo. Immediatamente dopo si proceder con la battitura e, trascorsi 12 giorni circa, la superficie verr orsata con arenaria fine e lucidata con olio di lino.

figg. 38-39

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figg. 40-41

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figg. 42-43

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Terrazzi di graniglia genoveseIn Liguria la realizzazione di pavimenti seminati alla foggia di quelli di Venetia si diffonde sin dal XVII secolo, ad opera degli stessi terrazzieri veneziani. Solamente qualche secolo dopo, verso il 1800, tale arte decorativa si ritiene assimilata a tal punto da potersi distaccare dalla maniera veneta, e sviluppare una parte della tradizione costruttiva locale. Le pavimentazioni in graniglia genovese fondevano i caratteri del mosaico bizantino e romano con quelli del terrazzo veneziano, e di essi presentavano caratteri analoghi sicuramente per ci che concerne la realizzazione pratica. Nei documenti storici si fa riferimento alla stesura dei soliti tre strati, fondo, coperta e supernucleus, rispettivamente livellati e battuti a colpi di mazzabecco, alla rullatura e levigatura con pietra arenaria(lorso prendeva a Genova il nome di frettun) e alla lucidatura con olio. Ci che invece permette una distinzione dei suddetti pavimenti con quelli eseguiti nella laguna, laccuratezza e la precisione che i motivi su di essi realizzati assumevano. A Genova la tecnica del terrazzo si innesta su quella tradizionale pi ricca delle pavimentazioni in marmo ad intarsi policromi e, con lapporto di quella tipicamente ligure dei selciati in acciottolato a mosaico, sviluppa col tempo caratteristiche autonome. Verso la met del 1800, in particolare, la tecnica della graniglia raggiunge il massimo della sua raffinatezza sia per la composizione del decoro, che per la ricchezza dei materiali impiegati. Il marmo bianco di Carrara, giallo Siena, rosso Levanto, giallo Bardiglio, ma anche la madreperla, il corallo ed il lapislazzuli erano utilizzati a realizzare sui pavimenti decorazioni simili a stucchi. I motivi ornamentali spaziavano da geometrie, come rosoni e greche, a elementi zoomorfi, fitomorfi, quali leoni o cigni, ancora antropomorfi e floreali.

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Cfr. G. Curioni, Larte di fabbricare, Lavori generali di Architettura, Idraulica, ed. A. F. Negro, Torino 1865. 2 Nel tariffario OO.PP. del comune di Napoli, anno 1912, si legge: Pavimento a mosaico, detto alla veneziana, semplice a getto, con massetto di lapillo bianco gittato di 0,05 e battuto, e strato superiore di calce idraulica e cemento con detriti di mattoni, breccioline e marmo alla rinfusa, con fascia in giro con detriti di marmo di diversi colori, compreso la cilindratura, larrotatura e la lucidatura ad olio e cera, tutto compreso.4,50 lire/mq. Nel caso vi fosse qualche ornato in pi il prezzo aumentava di 0,50 lire/mq. 3 Cfr. G. M. Sganzin, op. citata, scrive: si batte per giorni una volta per il lungo della stanza e poi per il largo, fino al rigetto dei colpi. 4 Il Curioni, in Larte di edificare, (ed. Negro, Torino 1865), individua diversamente i tre strati, per composizione e spessore dei singoli strati, poich la grossezza complessiva riesce la stessa. Egli definisce il primo, di calce e pozzolana o polvere di marmo, massicciata, alto circa 13 cm e steso con badile e rastrello, battuto con mazzapicchio. Su questo, dopo un intervallo di circa quattro giorni, si distende con la cazzuola un secondo strato di malta e tritume di laterizi in grossezza di 3 cm, e si lascia far presa per 24 ore. Infine si prepara una terza malta cementizia, detta stucco, composta di calcina e polvere di marmo impastati con abbastanza acqua. Sullo stucco si ponevano le tessere secondo le stese procedure dette sopra.5

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Il Donghi, riporta i materiali e le quantit occorrenti per la realizzazione di un terrazzo alla veneziana: rottami di mattoni . . . 0,11 mc colori di terra . . . . . . . .0,40,5 Kg polvere di mattoni . . . 0,24 mc calce spenta . . . . . . . . .0,06 mc olio di lino . . . . . . . . . . 0,2 Kg. pezzetti di marmo . . . .14 Kg

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A. Sacchi, ne Leconomia di fabbricare, ( pag. 435, ed. Hoepli, Milano 1878), riferisce che le tesserae del mosaico andrebbero fatte per convenienza e accuratezza in forma di tronco di piramide con le due basi quadrate, luna con il lato di 1015 mm, laltra col lato da 69 mm. Esse dovrebbero piantarsi nel calcestruzzo con la base maggiore verso lalto, come gi facevano gli antichi non solamente nelle pavimentazioni.

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Lastrico napoletanoIl lastrico napoletano costituisce il secondo tipo di pavimento a smalto, e, rispetto al tipo veneziano, possiede non poche variazioni. Per le sue qualit esso assunse nel napoletano anche il nome di lastrico a massello o a tenuta. Innanzitutto esso era utilizzato non solamente per ambienti interni, come per i terrazzi, ma anche a copertura degli edifici, e per tali motivazioni le sue propriet di resistenza risultavano particolarmente accresciute anche dalluso del lapillo. Le modalit di realizzazione dei battuti in calce e lapillo risultavano legate agli usi costruttivi locali, pertanto possibile notare alcune differenze nella stessa Campania tra i massi realizzati dagli isolani, piuttosto che nellentroterra napoletano. La struttura a supporto dei lastrici poteva essere piana, e in tal caso si gi accennato ai solai tipici del caso, oppure ad intradosso curvo o a calotta, totalmente rinfiancato o ben visibile allesterno. Le fasi costruttive restavano comunque le stesse in entrambi i casi. Prendendo in esame un prima prevedeva lassito ricoperto letto calce finissimo di e con battuto su supporto ligneo, la operazione che fosse un malta di lapillo dello

spessore di circa 7 cm. Sebbene perfettamente compattato con fratazzo e cazzuola, il massetto subiva la perdita, dal soffitto, di polvere bianca e da questo veniva detto incalcinatura o meglio lastrico polverino. Successivamente si realizzava uno strato costituito da terreno e materiale poroso quale calcinacci e lapillo bianco, oppure confezionato con malta pozzolanica, arena comune, calce spenta e rottami diversi1; tale strato prendeva il nome di arriccio ed aveva spessore di 13 cm per i lastrici di copertura e 8-9 cm per il rivestimento dei solai intermedi. Esso aveva la duplice funzione di garantire un migliore isolamento acustico e realizzare una sorta di cuscinetto tra i panconcelli ed il masso superiore. Prima che il pacchetto fosse completato, infatti, ogni peso gravava sullassito ed era dobbligo prestare attenzione al

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momento della battitura. Terminate tutte le fasi costruttive, invece, il solaio assumeva caratteri di monoliticit e la trasmissione dei carichi rimandava allo schema statico di una trave su pi appoggi. Sullarriccio era eseguito il masso pavimentale in malta di calce e lapillo, anche esso opportunamente costipato a realizzare il battuto a smalto detto a Napoli lastrico. Esso prendeva il nome di lastrico solare ovvero a cielo, se a copertura del manufatto, mentre per i solai interpiano si distinguevano lastrici intersuolo e cordonati. Il primo non necessitava di rivestimento poich costituito da uno strato di calce e lapillo nero di 12 cm, e assumeva colorazione rossastra per lelevata presenza di silicati, alluminati ed ossidi di ferro componenti il materiale vulcanico. Poteva anche essere coperto con uno strato sottile di conglomerato (smalto) e prendeva il nome di lastrico incollato. Il lastrico incollato, o a stucco lucido, era ottenuto stendendo sul masso di base due sottili strati rispettivamente di malta di calce e sabbia silicea, e calce e polvere di marmo di spessore 20 e 2 mm. Su questi erano poste le fasce e tracciati i decori con lo stesso impasto di calce e marmo, aggiungendo per i coloranti. La lucidatura era ottenuta per mezzo di un ferro assai caldo passato sulla superficie. Il tipo cordonato, invece, prevedeva uno strato di circa 15 cm di calce e lapillo bianco, di minore qualit rispetto al nero. Il rivestimento (di pianelle, marmette di cemento, ecc.) veniva applicato con 2 cm di malta di calce solo dopo aver opportunamente rigato, ossia cordonato, la base con la cazzuola, garantendo cos una buona aderenza. Si utilizzava in particolare battere la superficie con una cazzuola avente da un lato due o pi cordoni sporgenti, in modo da incidere sulla stessa dei solchi. Per i lastrici a cielo o lastrici solari, dovendo essi presentare maggiore resistenza alle intemperie e agli agenti atmosferici, si era soliti realizzare prima un letto di lapillo bianco e poi uno strato superiore di lapillo nero, di maggiore affinit con la calce e tenacit sotto i colpi della battitura, e che fa miglior prova del bianco allo scoperto2. In particolare, dello strato totale, i due terzi inferiori erano in smalto di lapillo bianco, il terzo superiore in lapillo nero. Lo spessore iniziale di circa 21 cm si riduceva a battitura completa di circa un terzo. Inoltre in assenza di lapilli era possibile usare taglime di tufo ed argilla, ma essendo in questo modo il battuto pi pesante era necessario diminuire linterasse tra le travi ad evitare uneccessiva inflessione della piastra che avrebbe comportato la sua rottura ( il lastrico non sopporta che infinitesime deformazioni elastiche).3 Qualunque fosse stato il tipo di lastrico da gettare, restava in ogni caso dobbligo seguire le operazioni base che nel gergo si dicevano rispettivamente: mettere in sodo, indicando

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la stesura dellimpasto sullarriccio; dopo aver spianato il masso, lo si lasciava riposare per un giorno, poi si cominciava a battere spruzzando costantemente acqua di calce, si diceva dare di tondo; infine con mazzeranghe pi piccole, le pianelle, si aumentavano i colpi fino al loro rigetto, per tirare a cacciare. Una volta realizzato il manufatto, questo andava coperto con paglia o stuoie, e lasciato a riposo per un paio di mesi o pi a seconda della stagione. Gli inerti e i diversi materiali a composizione del masso erano tutti reperiti in loco o comunque trasportati dai paesi vicini laddove necessario. Sebbene Napoli possedesse alcune cave di calcare, il materiale di migliore qualit, e purezza media o elevata4 risultava concentrato soprattutto nelle province di Salerno e Caserta. Grande importanza avevano i giacimenti di Leucio e Maddaloni nel casertano, mentre nella provincia salernitana si coltivavano gi ai primi del 1900 calcari mesozoici a Nocera, Sarno e Pagani, si lavoravano le cave di Buccino e Campagna, Sala Consilina; Montecorvino e Laurino.5 Particolarmente pregevole era la calce di Equa, posta a mezza costa della penisola sorrentina tra Castellammare e Sorrento, poich essa nella calcinazione non lasciava alcun residuo, e mescolata alla pozzolana e alla sabbia produce una malta molto grassa, compatta e di un bel grigio chiaro.6 La calce veniva mescolata con pozzolana, pomici o lapilli, a costituire una buona malta idraulica, detta malta di cocciopesto nel caso particolare in cui ai suddetti materiali si sostituissero mattoni pestati. Secondo le buone norme costruttive, occorreva mescolare il lapillo con calce estinta da otto giorni, ben sciolta e ridotta alla consistenza di latte. Si agitava poi il miscuglio tenendolo costantemente umido con latte di calce, quindi si lasciava riposare tale malta per una giornata. Nelle 24 ore avveniva una sorta di riscaldamento e fermentazione, per cui se limpasto era diventato troppo secco, risultava necessario mescolarlo nuovamente, aggiungendovi latte di calce, detto dai nostri muratori succo, ripetendo le precedenti operazioni fino a che si fosse ottenuto il giusto grado di consistenza. La pozzolana una sabbia vulcanica, derivante da rocce piroclastiche prive di cristalli a causa del rapido raffreddamento subito una volta espulse dai vulcani. Si costituisce di ceneri vulcaniche, brandelli lavici vetrificati e detriti vitrei. Essa si rinveniva a quote poche profonde nei paesi dellentroterra napoletano.

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Le pozzolane flegree, di Bacoli e Monte di Procida erano dette forti per poterle distinguere da quelle vesuviane dolci, che possedevano minori qualit idrauliche7, colore pi scuro e grana pi grossa, tipiche dellarea di S.Anastasia. Le pomici sono brandelli di lava porosi e leggeri, dalla struttura schiumosa derivante dal brusco raffreddamento della lava fusa, che ha imprigionato i gas nella massa (poi evaporati) in minuscole bollicine. Le pomici pi piccole costituiscono il lapillo ovvero rapillo nel gergo muratorio. Per esse, come per le pozzolane, non esistono delle vere e proprie cave, ma piuttosto sono considerati sottoprodotti delle cave di tufo giallo presenti a Pollena, S. Anastasia, Torre del Greco e Torre Annunziata. Oggi lestrazione consentita solo allo scoperto, mentre in passato era effettuata realizzando cunicoli poco al di sotto del livello stradale.8 Le pomici hanno colore grigio chiaro, giallognolo o marrone, talvolta anche nero. Da esse derivano rispettivamente il lapillo bianco di cava o nostrale, il lapillo intufato o giallognolo(polverulento ed estremamente fragile, mal resisteva alla battitura) e quello nero o vesuviano. Nellinsieme tutti i frammenti di lave vulcaniche, dalla forma irregolare e a spigoli vivi, porosi e di colore nero, erano d