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FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE, SOCIOLOGIA, COMUNICAZIONE CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE E TECNOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE Il terrorismo nei manuali di storia DI MAURO DE ROBERTIS LOMBARDI CATTEDRA DI STORIA CONTEMPORANEA E DELLA COMUNICAZIONE RELATORE: GLORIA GABRIELLI CORRELATORE: MARIA ROMANA ALLEGRI A.A. 2012-2013

TESI MAURO DE ROBERTIS LOMBARDI - … · CAPITOLO TERZO Analisi della manualistica didattica 3.1 Carlo Cartiglia, Storia e lavoro storico, Loescher, 1985 pag. 183 3.2 Alberto De Bernardi,

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FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE, SOCIOLOGIA, COMUNICAZ IONE

CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE E TECNOLOGIE D ELLA

COMUNICAZIONE

Il terrorismo nei manuali di storia

DI MAURO DE ROBERTIS LOMBARDI

CATTEDRA DI STORIA CONTEMPORANEA E DELLA

COMUNICAZIONE

RELATORE: GLORIA GABRIELLI

CORRELATORE: MARIA ROMANA ALLEGRI

A.A. 2012-2013

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Indice Introduzione pag. 1

CAPITOLO PRIMO Didattica della storia 1.1 La storia come disciplina pag. 3 1.2 Fonti e testo storico pag. 9 1.3 Storia generale e storia globale pag. 14 1.4 Storia e memoria pag. 23 CAPITOLO SECONDO Interpretazioni del terrorismo 2.1 Il primo dibattito scientifico italiano (1977-1984) pag. 45 2.2 Storiografia, pubblicistica, uso pubblico della storia pag. 140 2.3 Divulgazione pag. 169

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CAPITOLO TERZO Analisi della manualistica didattica 3.1 Carlo Cartiglia, Storia e lavoro storico, Loescher, 1985

pag. 183

3.2 Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, I tempi della storia, B. Mondadori, 1986 pag. 188 3.3 Antonio Brancati, Popoli e civiltà, La nuova Italia, 1990 pag. 193 3.4 Gabriele De Rosa, L’età Contemporanea, Minerva Italica, 1990 pag. 210 3.5 Carlo Capra, Giorgio Chiottolini, Franco Della Peruta, Corso di storia, Le Monnier, 1992 pag. 225 3.6 Giuseppe Galasso, Storia, Bompiani, 1995

pag. 239

3.7 Franco Gaeta, Pasquale Villani, Claudia Petraccone, Corso di storia, Principato, 1996

pag. 259

3.8 Carlo Cartiglia, Nella storia, Loescher, 1997 pag. 265 3.9 Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia, Zanichelli, 1999

pag. 273

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3.10 Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, I fili della memoria, Laterza, 2000 pag. 285 3.11 Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Storia dal 900 ad oggi, Editori Laterza, 2005 pag. 304 3.12 Simona Colarizi, Guido Martinotti, La memoria e il tempo, Einaudi scuola, 2006 pag. 315 Conclusioni pag. 329 Bibliografia pag. 339

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Introduzione

In questa tesi verrà analizzato il modo in cui i manuali di storia, di diversi autori ed editori, in uso nelle scuole secondarie di secondo grado, hanno preso in esame gli anni del terrorismo e dello stragismo in Italia, per rendere evidenti le differenze in questa rappresentazione, sia a livello testuale sia iconografico, nel periodo che va dagli anni '80 ai giorni nostri.

Dopo aver illustrato gli aspetti fondamentali della disciplina storica nel primo capitolo, in particolare per quanto riguarda le fonti e il testo storico, mi sono occupato del concetto di memoria così come è stato utilizzato nel tempo e nelle sue diverse accezioni all’interno delle scienze sociali da alcuni studiosi. Mi sono quindi soffermato sul rapporto tra storia e memoria, che è alla base dell’indagine sul racconto manualistico.

Il secondo capitolo è stato invece dedicato alle interpretazioni del terrorismo, a cominciare dal primo dibattito scientifico italiano (1977-1984), comprendente due filoni: il principale, quello costituito dalle analisi degli scienziati sociali che miravano principalmente ad individuare le ragioni dell’esplosione del terrorismo in Italia, e il secondo invece,

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minoritario, rappresentato dalle analisi storiografiche, che avevano come obiettivo l’elaborazione di una più complessa indagine attorno al “problema storico del terrorismo” italiano.

Ampio spazio è stato anche riservato all’imponente pubblicistica che si è occupata dei cosiddetti “anni di piombo”, comprendente anche opere strumentalizzate e banalizzate dal linguaggio giornalistico e politico e da opinionisti e polemisti, secondo lo schema dell’uso pubblico e dell’uso o forse abuso politico di questa storia. Si tratta di un punto fondamentale da tenere presente quando si cerca di analizzare un periodo storico come quello preso in esame, caratterizzato da vicende che non si sono mai veramente risolte e restano di fatto ancora aperte dal punto di vista giudiziario. Se un certo “uso” pubblico può essere legittimo, secondo l’interpretazione di alcuni storici, certamente è piuttosto discutibile un uso politico della storia che si ponga al di fuori di un qualsivoglia fondamento scientifico. Tutta la storia, in particolare quella contemporanea, è sottoposta a questo rischio e a questo utilizzo, ma nel caso dello stragismo e della storia di quegli anni, come si può immaginare, si tratta di un rischio altissimo.

Infine nel terzo capitolo ho analizzato il racconto degli anni di piombo in tredici manuali di storia contemporanea, tra i più diffusi in Italia, tenendo presente le tre chiavi di lettura precedentemente analizzate: il rapporto con la memoria, quello con la storiografia e il suo uso pubblico.

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CAPITOLO PRIMO

Didattica della storia

1.1 La storia come disciplina

La disciplina storica è il risultato di un continuo lavoro di

ricerca, il cui esito è veder nascere sempre nuove ipotesi e

nuove reinterpretazioni del passato: quello che credevamo

scontato e che apparteneva al nostro sapere può essere messo in

discussione e mutare in seguito alla scoperta di nuovi

documenti, di oggetti o di materiali iconografici, per il

semplice assunto che la storia si serve delle “fonti” e che esse

possono tornare alla luce da un momento all'altro. D'altra parte,

le stesse fonti già conosciute possono aver bisogno di essere

rilette e reinterpretate quando il collegamento con altre

discipline e la crescita di nuove sensibilità lo ritiene necessario.

A questo riguardo esemplificativa è la frase del più importante

filosofo del Novecento e storico di rilievo, Benedetto Croce

(1866-1952), il quale sosteneva che “ogni vera storia è storia

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contemporanea”1, per sottolineare che tra passato e presente vi

è un legame indissolubile: lo storico infatti include gli stimoli

del quotidiano nel suo lavoro. Da tutte queste considerazioni ne

discende che la storia è, come tutte le altre scienze moderne,

una disciplina in continuo movimento. Secondo Marc Bloch2,

tra i doveri dello storico c'è quello di lavorare con onestà

intellettuale, per effettuare una ricostruzione che si basi su

prove sicure, senza pregiudizi di nessun tipo. Egli inoltre

sostiene la necessità che ogni libro di storia dia conto del

percorso di ricerca seguito, che inizi dalle domande e dalle

ipotesi formulate e illustri il tipo di lavoro svolto sulle fonti. Al

contrario delle scienze naturali e matematiche, la storia non

appoggia i propri risultati sulla verifica sperimentale: diverse

visioni del passato infatti si contendono il primato della verità

storica senza che una di esse possa rivendicarla

definitivamente.

1 “Teoria e storia della storiografia”, Adelphi, Milano, 2001 (ed. orig. 1913)

2 M. Bloch, “Apologia della storia o Mestiere di storico”, Einaudi, Torino,

1998 (ed. orig. 1949)

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Lo storico e l'insegnante di storia devono non tanto cercare di

perseguire una teorica oggettività della storia ma, come

sostenuto da Marc Bloch, essi devono operare secondo una

“onesta sottomissione alla verità” 3, che consiste nel seguire un

metodo documentale rigoroso, nel presentare risultati basati

sulle fonti, esposti in modo verificabile, facendo presente gli

elementi sui quali si basano le proprie tesi e rifiutando

pregiudizi che risultino in contraddizione con i documenti. Una

volta seguiti questi criteri, è legittimo che lo storico includa nel

suo lavoro le sue idee e la sua passione intellettuale e civile, a

patto che ne faccia un uso molto riconoscibile. In poche parole

egli deve distinguere l'interpretazione dei fatti dalla loro

narrazione. A questo proposito sono particolarmente adatte le

parole del grande medievista Jacques Le Goff rivolte agli

insegnanti: “Io non credo all'obiettività, la credo impossibile. Io

credo all'onestà. L'onestà è tutto ciò che si dice francamente. E

credo che l'insegnante, senza abusarne e senza ripeterlo in

continuazione, dica ai suoi allievi almeno due o tre volte

all'anno: ‘Io la penso così’, aggiungendo subito: ‘Altri pensano

3 Ibid.

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che...’”4. Per la storia contemporanea questo diventa molto

difficile, talmente si può essere coinvolti come cittadini.

Per la storia gli eventi e i fenomeni sono irripetibili: una

dimensione lineare e sequenziale, quella di un “prima” e di un

“dopo”, risale alle origini della disciplina, che infatti fin

dall'inizio vuole spiegare i fatti alla luce della azione umana,

che si esprime in un tempo rettilineo. Esiste in ogni momento

della storia un forte legame dei fenomeni con ciò che è venuto

prima di essi. La “categoria della durata”5, definizione di Marc

Bloch, può essere compresa facendo riferimento ad una forza

d'inerzia che tiene legata una data società alle proprie

caratteristiche che la identificano.

Si può comprendere il concetto di continuità facendo

riferimento a particolari espressioni di una data realtà storica:

un tipo di clima o un tipo di rappresentazione mentale. Si tratta

di considerare tutto ciò che costituisce il profondo e che

4 Jacques Le Goff, “Dalla ricerca all'insegnamento: il caso del Medioevo”,

Firenze, La Nuova Italia, 1991

5 M. Bloch, “Apologia della storia o Mestiere di storico”, op. cit.

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consente a una società di continuare a riconoscere se stessa

come tale. Sul concetto di continuità si inserisce la trama del

cambiamento, che non è sempre veloce: ogni società umana è

infatti attraversata da un permanente stato di instabilità,

esemplificato dal fatto che coloro i quali la compongono si

susseguono in conseguenza del ciclo biologico della vita e

della morte.

Compito dello storico è quello di individuare nel tessuto del

divenire i punti essenziali: i mutamenti e gli aspetti di

continuità e di discontinuità con le precedenti fasi. Come

scriveva Bloch: “Ebbene, questo tempo reale è, per natura, un

continuum. Ma è anche continuo cambiamento. Dall'antitesi tra

questi due attributi sorgono i grandi problemi della ricerca

storica” 6.

La durata del tempo storico consta quindi di continuità e

cambiamento. Uno dei compiti preliminari e irrinunciabili dello

storico riguarda l'inserire, tramite la data, i fatti oggetto di

indagine sulla scala temporale: non può infatti esserci opera

6 Ibid.

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storiografica senza questa indicazione. L'insieme ben definito

di una serie di date riferite a uno specifico oggetto di studio

costituisce una cronologia. La costruzione di questa è già

dunque il frutto di una scelta di primo livello, in quanto

necessita di una selezione preliminare degli eventi considerati

essenziali. Dal punto di vista didattico, le date e le cronologie

rappresentano un problema all'interno della disciplina storica:

proprio a causa di queste lo studio della storia viene troppo

facilmente tacciato di nozionismo. Lo studio della storia è

infatti per molti studenti ridotto a memorizzare un numero di

date a cui sono legati determinati eventi.

Ad un livello più elevato, e quindi di importanza

fondamentale, troviamo la periodizzazione. Essa è

esemplificativa del lavoro dello storico, che è essenzialmente

interpretativo: consiste nell'inquadrare il fenomeno di studio

sulla retta temporale, indicandone i due limiti estremi,

permettendo quindi una visione di sintesi dello stesso. Tra i

vari tipi di periodizzazioni troviamo quelle convenzionali,

accettate quasi da tutti (storia antica, medievale e moderna) ma

tuttavia spesso oggetto di ulteriori sistemazioni; quelle entrate

nell'uso corrente; quelle fatte proprie e quindi ricorrenti nel

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senso comune (il ventennio fascista) e, infine, altre che sono

ancora oggi fonte di dibattito. Nessuna di esse tuttavia è esente

da rischi e ambiguità, dato il carattere plastico e soggetto a

continui aggiustamenti della disciplina storica. Possiamo

concludere sottolineando l'importanza del concetto di

periodizzazione soprattutto dal punto di vista didattico, in

quanto integra le indicazioni date dalla cronologia con il

carattere problematico della storia.

1. 2 Fonti e testo storico

Il passato lascia sul nostro percorso una serie di tracce, ed esse

spesso a nostra insaputa ci accompagnano nella vita quotidiana,

basti pensare ai resti del passato che vediamo nelle nostre città,

ai documenti di vario tipo, agli oggetti custoditi nei musei ed al

nostro stesso linguaggio e mentalità. Questi relitti del passato

però diventano una fonte storica solamente nel momento in cui

vengono utilizzati dagli storici. C'è bisogno quindi di farli

“parlare”, di renderli utili alla conoscenza storica,

organizzando una serie di domande e ipotesi da cui partire per

ottenere da essi delle precise informazioni, da inserire poi in

un'interpretazione che ha la sua espressione nel testo storico.

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Lo scopo principale è, infatti, oltre a reperire fonti ritenute

adeguate, quello di attivarne le potenzialità per i fini che si

propone la ricerca. In particolar modo, per l'età moderna e

contemporanea, sono tutti concordi nel ritenere che la massa

delle fonti disponibili è di solito sterminata e quindi non

dominabile da un ricercatore solo. Durante la ricerca sulle

fonti, poi, ne emergono sempre di nuove e quindi il ricercatore

finisce per comprenderne più di quelle iniziali nel suo lavoro.

Questo è vero in particolar modo per quelle fonti che lo storico

utilizza all'inizio, le cosiddette “indirette” o “secondarie” o

“derivate”. Esse corrispondono alla storiografia già esistente

sull'argomento di ricerca, ovvero sono l'insieme delle

conoscenze formatesi in passato grazie allo studio e

all'interpretazione che altri studiosi hanno fornito del materiale

inizialmente “grezzo”, accompagnate alla riflessione teorica. Il

primo punto da seguire nella ricerca storica è quindi quello di

raccogliere ed esaminare la bibliografia aggiornata

sull'argomento che si vuole trattare. Le fonti primarie, invece,

sono le testimonianze dirette, di qualsiasi tipo, che dal passato

arrivano a noi. Alcuni esempi sono le fonti scritte originali,

tenute in archivi pubblici e privati, le fonti a stampa (libri,

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giornali, opuscoli, ecc.), le fonti iconografiche (dipinti e

pitture), le fonti sonore (discorsi di personaggi importati del

passato e registrazioni varie), le fonti visive, gli oggetti, i

manufatti, le costruzioni ecc. Qualsiasi elemento che abbia

caratteristiche interne chiare e di cui si conosca il contesto nel

quale viene utilizzato può essere considerato come una fonte

storica. Le fonti primarie, tuttavia, non sono sempre facilmente

reperibili, basti pensare agli archivi e alle biblioteche private,

delle quali non si può sempre usufruire.

Per quanto riguarda l'analisi critica delle fonti primarie, questa

si snoda in quattro fasi che spesso si svolgono

contemporaneamente7. L'esame critico delle fonti, però,

riguarda anche quelle secondarie o derivate. Tutto il lavoro di

ricostruzione storica ha come sbocco finale la scrittura di un

testo. All'interno di esso possiamo trovare tre livelli

fondamentali, che ci rivelano le intenzioni di chi lo ha scritto. Il

primo livello, che rappresenta anche la struttura fondante del

testo storico, è il livello informativo, che possiamo considerare

7 Decifrazione, esame del contenuto, prova dell'autenticità e definizione

del grado di attendibilità.

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come livello logico-grammaticale dal punto di vista linguistico,

nel senso che viene tenuto insieme dalle normali componenti di

coesione e coerenza sintattica. Con questo livello lo storico

“intende trasmettere ai lettori una somma di conoscenze

concernenti il passato (i fatti e le interpretazioni)” 8. Il secondo

livello è quello persuasivo o retorico. Vi sono vari processi di

tipo retorico che possono essere adoperati per rendere la

narrazione più convincente: la scelta delle informazioni e il

loro ordine nel testo, la scelta dei termini da usare e la

posizione del narratore. Tutti questi elementi, a parità di

informazione, tendono a far diventare il discorso più o meno

significativo e convincente. Infine, troviamo il terzo livello del

testo, quello teorico o ideologico, che sta alla base di tutta la

ricostruzione: esso si esprime attraverso il linguaggio, che è

adeguato al tempo e al luogo dello storico tramite le

convenzioni dell'epoca. L'attività del ricercatore è inoltre

organizzata da alcuni concetti specifici, che operano

continuamente a livello quasi inconscio del suo discorso:

pensiamo ai concetti di continuità e cambiamento esplicitati 8 J. Topolski, “Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica”,

Bruno Mondadori, Milano, 1997

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sopra, che scandiscono la durata del tempo storico, al principio

di coerenza, che consiste nel completare e creare collegamenti

all'interno del discorso e alla dinamica tra conservazione e

rivoluzione. Esiste poi una dimensione teorica vera e propria,

interna o proveniente da altre discipline limitrofe ma diverse

(teorie antropologiche, economiche e sociologiche). Queste

vengono percepite come preesistenti al discorso storiografico e

rappresentano uno dei punti di forza della storia che, pur

avvalendosi di strumenti concettuali diversi, li adatta quasi

costringendoli a confrontarsi con la concretezza della storia

dell'uomo nel tempo, che non è sottomessa a nessuna teoria

preconfezionata. Basti pensare alla resistenza opposta dagli

storici all'adozione di moduli teorici definiti (materialismo

storico, idealismo, economia politica classica, psicoanalisi),

che deriva appunto dall'idea secondo la quale i fatti stessi,

studiati in tutte le loro sfaccettature, si spieghino da soli. La

dissoluzione di un impero, ad esempio, non è imputabile a

nessuna teoria dello stato o economica, ma piuttosto al prodotto

di una serie spiegabile di circostanze e situazioni immerse nella

quotidianità.

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1.3 Storia generale e storia globale

Il concetto di “storia generale” è di difficile definizione: essa

può essere concepita come un’immagine del mutamento che ha

riguardato l'umanità dalla preistoria ai giorni nostri. Una

rappresentazione, quindi, organizzata in un sistema e composta

dalle diverse conoscenze a cui si è arrivati tramite lo studio dei

differenti settori dell'esperienza umana del passato. In astratto

quindi essa coincide con l'intero sapere storico. Nella realtà,

tuttavia, possiamo riassumerla nelle grandi opere storiografiche

complessive (come la storia del mondo Cambridge), oppure

sintetizzarla nei programmi di insegnamento. L'espressione

“storia generale” è impiegata quasi esclusivamente, infatti, per

indicare l'ambizione dell'insegnamento della storia nel

trasmettere una forma complessiva, ma sintetica, della

conoscenza storica raggiunta in una data epoca. Essa è quindi

soprattutto un genere storiografico, che comprende in primis i

manuali scolastici e universitari, che sono evidentemente delle

summae del sapere storico e rientrano in assoluto tra i libri più

venduti. Questo fa sì che ci si trovi di fronte al paradosso per

cui una tra le più diffuse pubblicazioni di genere storico ne

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riguardi un altro che non è oggetto di ricerca scientifica.

Attorno al concetto di storia generale si è focalizzata negli

ultimi decenni una discussione sul modo in cui si insegna la

storia: mentre per alcuni “una comune solida ‘fascia’ di sapere

storico diacronico e critico dovrebbe costituire il comune

denominatore dei vari ordini di scuole”9, per altri invece “la

storia generale tradizionale produce negli studenti un senso di

noia, un senso comune e stereotipi che restano saldi anche

quando si diventa esperti di qualche campo di ricerca, produce

una pessima concettualizzazione di storia, produce un senso di

completezza della conoscenza che non induce a cercare nuove

conoscenze”10. Vediamo quindi di ricostruire brevemente il

dibattito sull'insegnamento della storia tramite il manuale

scolastico, non solo in Italia ma anche in Europa e nei paesi

extraeuropei, che vede confrontarsi storici, insegnanti e

pedagogisti alla luce di un ripensamento in modo critico,

connesso alle problematiche attuali di un nuovo modo di 9 P. Bevilacqua, “Sull'utilità della storia per l'avvenire delle nostre scuole”,

Donzelli, Roma, 1997

10 I. Mattozzi, “Pensare la nuova storia da insegnare”, Società e Storia,

1998 (2002), pp. 787-814

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intendere la storia. La prima accusa rivolta alla storia generale

è quella di essere una storia dell'umanità eurocentrica e

connotata da un forte spirito nazionalistico.

Quello stesso spirito che, come sottolinea Luigi Cajani, è

retaggio di un modello creato intorno alla metà dell'800 e volto

a costruire l'identità della nazione: “Un vero e proprio

instrumentum regni, che gli stati-nazione usavano per formare,

attraverso la scuola, il buon patriota” 11. Un modello lontano

anni luce dal processo di modernizzazione della storia e dallo

spirito universalistico e cosmopolita creatosi nel Settecento

illuminista, che proponeva invece, come sostenuto dallo storico

tedesco autore di manuali Ludwig August Schlozer, nel 1772

“Una storia mondiale che comprenda tutti gli stati e tutti i

popoli del mondo”12. Una storia “senza patria e senza orgoglio

nazionale”, capace di estendersi “a tutte le terre che ospitano

11

L. Cajani, “L'insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria:

appunti per un dibattito” in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”,

n. 2, 2004, p. 319

12 Ibid. p. 321

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società umane”, abbracciando “con lo sguardo tutta la scena,

sulla quale in qualsiasi tempo abbiano recitato gli esseri

umani”. Un progetto evidentemente molto diverso fu quello

auspicato un secolo più tardi nella neonata nazione italiana dal

Ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino che,

nell'ambito dell'inchiesta Scialoja13 sull'istruzione secondaria –

sottolinea sempre Cajani – affermava a proposito

dell'insegnamento della storia: “Io dico che è tanto difficile

compiere una buona storia italiana che io sarei contento che

(gli studenti) sapessero un po' della greca e dopo fosse la storia

italiana. La storia dei paesi che furono in contatto col nostro si

dovrà far dopo. In fatto di storia sarei restrittivo e mi

contenterei che ognuno sapesse la storia del proprio paese”14.

Nonostante questa impostazione si sia andata modificando nel

corso del tempo, grazie anche al fatto che tra il 1953 e il 1958

il Consiglio d'Europa organizzò una serie di sei convegni, con

13

Cfr. L. Montevecchi, M. Raichic (a cura di), “L'inchiesta Scialoja sulla

istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875)”, Ministero dei

Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1995.

14 L. Cajani, “Il mondo come orizzonte. Apologia dell'insegnamento della

storia mondiale nella scuola”, in “Innovazione educativa”, n. 4, 2000, p. 11.

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il fine di eliminare dai manuali di storia i pregiudizi e gli

atteggiamenti polemici nei confronti dei vari stati europei e di

individuare gli elementi di un quadro europeo della storia che

si sostituisse agli approcci nazionali15, l'identità storica

nazionalistica – come ha mostrato Giuliano Procacci16 nella sua

analisi comparata dei libri di testo di molte parti del mondo –

resta ancora obiettivo centrale17. Tuttavia alcuni progressi nel

corso degli anni sono da rilevare: nei manuali di storia degli

stati aderenti all'unione europea il punto di vista si è spostato

15

Cfr. L. Cajani, “L'insegnamento della storia mondiale nella scuola

secondaria: appunti per un dibattito”, op. cit., p. 322-323.

16 Cfr., G. Procacci, “Carte d'identità. Revisionismi, nazionalismi e

fondamentalismi nei manuali di storia”, Carocci, Roma 2005

17 Su questo tema, con particolare attenzione alla manualista storica, si è

svolto a Roma un Convegno nel dicembre 2003 (11-12 dicembre) dal titolo

Insegnare la storia in un mondo globalizzato, organizzato dalla Fondazione

Istituto Gramsci e dalla Presidenza della Provincia di Roma. Cfr. V.

Federico, “Insegnare la storia in un mondo globale”. Una riflessione sui

manuali di storia a livello internazionale in “Società e storia”, n. 103, 2004,

pp. 385-389

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19

sempre più dalla dimensione nazionale a quella europea18. Si è

passati così a una coscienza storica europea pacificata. Uno

spostamento di accento quindi importante, ma che rimane

tuttavia tutto interno al contesto europeo, senza andare a

toccare le rappresentazioni delle altre parti del mondo, che

continuano ad essere trascurate. Questa impostazione

eurocentrica è evidente nei manuali di molti paesi europei,

accomunati dal fatto che del resto del mondo si parla solo

quando questo entra in contatto con l'Europa: è il caso del

colonialismo e della decolonizzazione. I manuali quindi,

continua Cajani, pur non proponendo esplicitamente

un’ideologia europea, la creano nei fatti implicitamente,

concentrando l'attenzione sulla storia di tale continente.

Conseguenza di questo è che gli studenti acquisiscono a scuola

un immagine deforme della storia. Il tipo di insegnamento

etnocentrico non è comunque un’esclusiva europea, ma è

diffuso ovunque nel mondo come ad esempio in Giappone, in

America Latina e nel mondo islamico. In questi ultimi anni

18

L. Cajani “Il mondo come orizzonte. Apologia dell'insegnamento della

storia mondiale nella scuola”, in “Innovazione educativa”, n. 4, 2000, p. 9-

13

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20

sembrano venire fuori dalla cultura occidentale un insieme di

elementi che vanno verso un superamento di questa limitatezza

dell'insegnamento della storia e verso un ritorno a

quell'orizzonte mondiale che la contraddistingueva nel

Settecento. Si tratta di fattori di tipo didattico, sociale e

scientifico. Sul piano didattico, l'attività di controllo dei

manuali ha portato a una sempre maggiore cognizione delle

manipolazioni dell'insegnamento della storia e sviluppato una

critica negativa. Sul piano sociale, la crescente immigrazione di

extraeuropei ha posto a vari stati europei la questione di un

cambiamento in senso multiculturale della scuola. Vi è inoltre

da tenere presente il diffondersi nell'opinione pubblica

dell'attenzione al processo di globalizzazione, che ha portato a

dare uno sguardo non soltanto al presente, ma anche al passato

su una scala mondiale. Infine la stessa disciplina storica ha

compiuto negli ultimi tre decenni importanti passi avanti nello

studio della storia mondiale come sistema, dando quindi un

aggiuntivo impulso al rinnovamento dei contenuti

dell'insegnamento. Il primo tassello verso l'introduzione della

dimensione mondiale nell'insegnamento della storia è stato

posto negli USA negli anni '90, ed è esemplificativo per capire

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21

quali siano gli elementi favorevoli e quali le difficoltà per

l'attuazione di questa riforma. L’abitudine scolastica in quel

paese vede due curricoli separati di storia, uno di storia

statunitense ed uno di storia non statunitense. Fino agli anni '80

il primo era contrassegnato da una particolare attenzione verso

l'élite bianca, mentre il secondo si sostanziava in una storia

della “Western civilization”, praticamente simile al modello

eurocentrico insegnato in Europa. Negli anni '80 questa

impostazione venne animatamente messa in discussione dai

gruppi etnici di origine non europea che vivono negli Usa,

ovvero afroamericani, asiatici, latinos e natives americans, i

quali iniziarono tutti a reclamare che nelle scuole venisse loro

insegnata quella che consideravano essere la propria storia, e

non più quella dei bianchi dominatori. Come reazione al

monoculturalismo fino ad allora imperante si ebbe così un

multiculturalismo conflittuale19. La risposta fu incarnata da una

revisione dei programmi di storia, affidata al National Center

for History in the School, basata sull’inserimento nella storia

19

Gary B. Nash, Charlotte Crabtree, Ross E. Dunn, “History on Trial. Culture

Wars and the Teaching of the Past”, Alfred A. Knopp, New York, 1999, p.

99.

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22

statunitense dei gruppi sociali ed etnici fino ad allora non presi

in considerazione e per la storia non statunitense sulla

costruzione di un quadro mondiale.

Questi nuovi programmi, i “National Standards for History”,

vennero presentati all'opinione pubblica e al Senato alla fine

del 1994, venendo duramente criticati da parte dei

repubblicani, che li accusarono di denigrare e diffamare gli

USA e l'Occidente. Ben presto però le acque si calmarono ed

una nuova versione degli Standard, contenente alcune

modifiche che tuttavia non tradivano il loro spirito originario,

venne pubblicata ed entrò in vigore poco dopo20.

Il suddetto episodio evidenzia come i valori particolaristici

rappresentino ancora il principale ostacolo da superare per

giungere ad un insegnamento della storia libero da

condizionamenti politici. Dopo la meritevole opera di revisione

dei manuali, pare fondamentale quindi, secondo Cajani,

compiere un ulteriore passo: scrivere una storia mondiale che

esponga le comuni linee di sviluppo della storia dell'umanità in 20

“National Standards for History, Basic Edition”, National Center for

History in the Schools, Los Angeles, 1996.

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tutti i luoghi e in tutti i tempi, per superare in questo modo le

innumerevoli storie locali che oggi vengono insegnate nel

mondo. Un quadro di storia mondiale, nel quale le varie storie

locali, la cui conoscenza è necessaria alla formazione del

cittadino, dovranno essere inserite coerentemente, “senza

patria, senza orgoglio nazionale”.

1. 4 Storia e memoria

In questo paragrafo mi occuperò del concetto di memoria così

come è stato utilizzato nel tempo e nelle sue diverse accezioni

all’interno delle scienze sociali da alcuni studiosi, in quanto

essenziale per lo svolgimento di questo lavoro e del suo

rapporto con la storia. In questa tesi infatti verrà preso in esame

il modo in cui i manuali di storia, di diversi autori ed editori, in

uso nei licei hanno affrontato il periodo degli anni di piombo in

Italia, per rendere evidenti le differenze in questa

rappresentazione sia a livello testuale sia iconografico, nel

periodo che va dagli anni '80 ai giorni nostri. L'analisi specifica

dei manuali analizzati sarà effettuata sottoforma di schede ad

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hoc e sarà utile a comprendere come la didattica sia importante

nel trasmettere la memoria degli anni di piombo alle diverse

generazioni.

Il nome di Pierre Nora è associato alla così denominata “nuova

storia”, la quale pone la memoria al centro del rinnovamento

storiografico. Gli storici appartenenti a questo filone recepirono

in pieno le tesi sociologiche di Halbwachs sulla memoria di cui

parlerò più avanti. La “nuova storia”, quindi, rivaluta il dialogo

con le altre scienze sociali e si pone come una storia attenta alle

realtà concrete (materiali, mentali e culturali) degli individui

immersi nella vita quotidiana. Essa assume quindi la memoria

come proprio oggetto, allo scopo di prendere in considerazione

sia il conflitto fra le differenti interpretazioni del passato sia la

relatività della conoscenza storica e il suo uso politico. L’opera

più famosa di Nora è quella composta da 7 volumi e intitolata

“I Luoghi Di Memoria”, da lui diretta e curata negli anni

Ottanta. Il saggio introduttivo al primo volume è intitolato “Tra

Storia e Memoria. La problematica dei luoghi” ed è dedicato a

La Rèpublique e ai suoi monumenti, alle sue commemorazioni

e alle questioni pedagogiche che la riguardano. I successivi 3

volumi invece si concentrano su La Nation, i suoi paesaggi, i

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confini del territorio nazionale, l’immagine dello Stato e il

patrimonio della nazione (i musei, i monumenti storici e altre

istituzioni di memoria). Gli ultimi 3 volumi sono infine

dedicati a Les France, e vi vengono trattati i temi dei conflitti e

delle condivisioni in campo politico, religioso e geografico e

delle tradizioni.

Il concetto di Luogo di Memoria è destinato ad avere grande

successo sia nell'ambito della ricerca storica sia per ciò che

riguarda lo sviluppo di pratiche culturali, che consistono

nell'allestimento e nella promozione di luoghi commemorativi.

Proprio negli anni della pubblicazione dell'opera citata questi

cominciano ad avere un importante ruolo pubblico e ad essere

promossi da studiosi, operatori culturali e istituzioni. I luoghi

di memoria possono essere reali e quindi autentici, in

conseguenza del fatto che in quel particolare “sito” si è

prodotto un evento assunto nella memoria come importante

(come ad esempio Auschwitz), oppure immaginari o virtuali,

quando fanno riferimento all’immaginario collettivo.

I luoghi di memoria emergono quando in una società è

avvertito qualche segnale di crisi: come prodotto di un

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intreccio tra un'esperienza storica vissuta e le pratiche

commemorative e rituali. Fra le ragioni della loro nascita Nora

individua la debolezza delle memorie spontanee (dei gruppi e

delle famiglie). Un fenomeno da inquadrare nella rottura

determinata dal passaggio, in Europa, dalla società tradizionale

a quella moderna e nei fenomeni della “mondializzazione”,

della “democratizzazione”, della “massificazione” e della

“mediatizzazione”, che hanno trasformato le strutture politiche,

economiche e istituzionali delle società occidentali, così come

le pratiche stesse dell’elaborazione del passato. Nora spiega

come nell'intera Europa si sia assistito ad una crisi

dell'orizzonte memoriale nazionale e, partendo da questo,

illustra il suo progetto di fare una storia della memoria. Egli

scrive “La sparizione rapida della nostra memoria nazionale mi

sembrava richiedere un inventario dei luoghi in cui essa si è

selettivamente incarnata e che, attraverso la volontà degli

uomini o il lavoro dei secoli, ne sono rimasti come i simboli

più eclatanti: feste, emblemi, monumenti e commemorazioni

ma anche elogi, dizionari e musei”21.

21

P. Nora, Presentation, 1984, in Id., Les lieux de mèmoire. Vol. 1, La

Rèpublique, Paris, Gallimard, p. VII

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I luoghi di memoria hanno sempre a che fare con entrambe le

dimensioni attraverso cui si esplicita la conoscenza del passato:

la storia e la memoria. Esse sono viste da Nora come due

dimensioni distanti: egli descrive la memoria come spontanea e

ricca di emozioni e la storia come riflessiva e universale. La

memoria risulta imprevedibile: può rimanere inattiva per

lunghi periodi per poi riemergere ed imporsi improvvisamente.

La storia invece è sempre critica e sospettosa della memoria, e

proprio questa oscillazione continua tra storia e memoria è la

caratteristica fondante della complessità dei luoghi di memoria

e dell’interesse che essi suscitano. In essi si riflette quindi il

campo di tensione e la relazione profonda e multiforme che c’è

tra storia e memoria.

I luoghi di memoria rappresentano dei punti di

“cristallizzazione o abbreviazione narrativa della memoria

collettiva”22. Nora individua tre diverse categorie di luoghi:

22

B. Binder, Luogo della memoria, 2002, in N. Pethes, J. Ruchatz (a cura di),

Dizionario della memoria e del ricordo, Milano, Mondadori, pp. 291-292.

Vedi anche R. Calzoni, Luoghi della memoria, 2007, in E. Agazzi, V.

Fortunati (a cura di), Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari, op. cit.,

pp. 531-545

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materiali (archivi, monumenti, musei, biblioteche e i luoghi

commemorativi), simbolici (anniversario o pellegrinaggio) e

infine funzionali (autobiografia, testamento o manuale

scolastico). Tramite essi è possibile inscrivere nel discorso

pubblico una storia comune, da trasmettere di generazione in

generazione, capace di intrecciare la memoria, in quanto

portatrice di simboli in grado di suscitare identificazione e

senso di appartenenza, con i processi di costruzione

dell'identità collettiva e nazionale23. È nel contesto della

differenza tra storia e memoria che si materializza l’interesse

della sociologia per il tema della memoria. Questi due concetti

si differenziano, infatti, per il modo di porsi in confronto al

passato: mentre la storia lo fissa e se ne separa in maniera

netta, la memoria non se ne separa, ma lo fa suo

rielaborandolo, sottoponendolo alle esigenze individuali o

collettive del presente e orientandolo al futuro. Considerare la

memoria come un oggetto sociologico vuol dire fare attenzione

al modo in cui gli individui, i gruppi o l’intera società si

23

Sui legami tra memoria e identità cfr. L. Sciolla, Memoria, identità e

discorso pubblico, 2005, in M. Rampazi, A.L. Tota (a cura di), Il linguaggio

del passato, op. cit.

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29

riferiscono al passato, a come esso viene modificato,

ricostruito, elaborato, riprodotto o, in alcune circostanze

cancellato e a come la memoria diviene matrice di simboli e di

significati condivisi o almeno riconoscibili dai membri di una

data società o di un dato gruppo. La memoria quindi rientra tra

i temi di indagine della sociologia perché essa da sempre

indaga il problema “delle condizioni e dei modi con cui una

società permane e si riproduce nel corso del tempo come

insieme di pratiche, di simboli e di significati riconoscibili da

parte dei suoi membri”24. Mentre una ricerca storica indurrebbe

a dare nuove interpretazioni, l'approccio della sociologia della

memoria è diverso: “Volendo delineare la specificità

dell'approccio sociologico da un punto di vista disciplinare, si

può sottolineare che gli storici sono interessati più alla

ricostruzione, all'interpretazione del passato, mentre i sociologi

sono interessati prevalentemente alle modalità con cui la gente

ripensa, reinterpreta e elabora il passato. La memoria è sempre

qualcosa, riferita a qualcuno che ricorda nel presente. La fonte

24

P. Jedlowki, M. Rampazi (eds.), “Il senso del passato. Per una sociologia

della memoria”, Milano, Angeli, 1991, 13.

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30

dello studio sociologico della memoria sono gli esseri umani

del presente e le pratiche sociali connesse” 25.

Maurice Halbwachs, pioniere degli studi sociologici sulla

memoria, separa il concetto di memoria dal termine storia: il

bisogno di scrivere la storia nasce quando vengono a mancare

tutti i testimoni di un evento o di un periodo passato. Secondo

la concezione di Halbwachs, la storia corrisponde, più o meno,

a quella contenuta all’interno dei libri di scuola. La storia

divide nettamente un fatto da un altro in quanto “divide la serie

dei secoli in periodi così come la materia di una tragedia si

divide in tanti atti” 26. Per quanto riguarda la memoria, invece,

essa nel corso del tempo si modifica, si sfarina in alcuni punti

ricostituendosi in altri. Con le parole di Halbwachs: “il ricordo

è in grandissima parte una ricostruzione del passato operata

con l'aiuto di dati presi dal presente, e preparata d'altronde da

altre ricostruzioni fatte in epoche anteriori, dalle quali

25

Tota (ed.), “La memoria come oggetto sociologico: intervista ad

Alessandro Cavalli”, in: A. Tota (ed. ), “La memoria contesa. Studi sulla

comunicazione sociale del passato”, Milano, Angeli, 2001, 31.

26 M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, Milano, Unicopli, 1987, p. 89

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31

l'immagine originale è già uscita abbondantemente alterata”27.

Uno dei punti fondamentali della teoria di Halbwachs concerne

l'adeguamento della memoria al presente, la cosiddetta

“funzione sociale della memoria”. A volte infatti si ha

l’esigenza di ricordare – o meglio “ricostruire” – un passato

condiviso, per riaffermare la propria identità di gruppo. Il

modello generale che ne deriva porta a pensare che le

ricostruzioni modifichino in maniera continuativa l'immagine

di un evento passato, adeguandosi di volta in volta alle

necessità del tempo presente, contribuendo in questo modo a

plasmare la memoria e a creare rappresentazioni del passato

instabili.

Un ulteriore aspetto su cui principalmente si concentra il

pensiero di Halbwachs è l'identità di chi ricorda. A ricordare

non è mai l'individuo preso singolarmente, ma è sempre il

gruppo o la società di cui egli è fa parte. Anche nel caso in cui

un individuo ricordi episodi della propria vita passata, lo fa

facendo riferimento a norme, valori e simboli presenti nella

27

M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, op. cit. p. 80

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propria società. La memoria, per Halbwachs, non ha la sua

sede “nello spirito, né nel cervello, ma piuttosto nella società o

meglio nella coscienza collettiva dei gruppi umani concreti” 28.

In pratica, quando ricordiamo “non siamo mai soli” 29 ma lo

facciamo sempre tramite la presenza, esterna o interiorizzata,

degli altri individui del gruppo di cui facciamo parte. I ricordi

individuali hanno quindi la necessità di essere compresi nel

“quadro” della società di appartenenza per essere riassemblati e

riconosciuti dagli altri individui.

Secondo questa prospettiva, la memoria individuale non è altro

che “un punto di vista sulla memoria collettiva” destinato a

mutare continuamente “a seconda del posto che occupa al suo

interno”30. Quando Halbwachs parla di “ricostruzione” lo fa

quindi considerando la memoria come un costrutto sociale,

qualcosa che risiede nella collettività e non nell'individuo. Pur

non avendo mai Halbwachs definito il termine memoria

28

P. Jedlowski, “Introduzione”, in: M. Halbwachs, “La memoria collettiva”,

op. cit. p. 26

29 M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, op. cit. p. 38

30 Ibid. p. 61.

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collettiva, i suoi scritti rappresentano la fonte principale da cui

i sociologi che hanno trattato il tema della memoria hanno fatto

partire le loro seguenti e più specifiche riflessioni. La memoria

collettiva è prima di tutto prodotto del continuo interagire tra

gli individui della società. Le relazioni fra gli appartenenti al

gruppo modificano la memoria, favorendo nuove elaborazioni

a seconda di ciò che è necessario nel presente. In secondo

luogo, la “memoria collettiva” si muove in un "quadro" in cui

simboli, credenze e valori, nati dall'interazione fra gli individui

che fanno parte di un gruppo, sono socialmente ritenuti comuni

e tramandati. La memoria collettiva produce aneddoti, storie di

vita, racconti e simboli che diventano una risorsa che fa si ci si

possa riferire al passato in modo tale da essere riconosciuti dai

membri dello stesso gruppo, se non dell'intera società di

appartenenza. La memoria è, in questo senso “una produzione

culturale in senso proprio, che prende forma, si struttura e muta

nel tempo e nello spazio sociali”31. La produzione culturale di

memoria si riferisce alle cosiddette “pratiche sociali di

memoria”, consistenti negli oggetti e nelle forme culturali in 31

C. Leccardi, Presentazione, in: A. Tota (ed.), La memoria contesa. Studi

sulla comunicazione sociale del passato, Milano, Angeli, 2001, p. 11

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cui la memoria si fissa “esteriorizzandosi” e “oggettivandosi”.

È negli oggetti, nei modi di dire, che la memoria si cristallizza

e arriva alla collettività in forma oggettivata ed esteriorizzata. È

attraverso le pratiche sociali che alla memoria viene dato un

ordine, e qui viene preparata per la sua trasmissione,

“istituzionalizzata”. Lo scopo della “funzione sociale della

memoria” è quello di ripristinare l'identità di gruppo e di creare

una situazione di coesione al suo interno. In questo senso, la

memoria è sovente oggetto di negoziazione, tanto che i passati

"difficili" – come quelli che si riferiscono alle stragi – sono

spesso causa di conflitto fra i gruppi di una stessa società o, a

volte, anche fra gli individui di uno stesso gruppo.

Questo è particolarmente vero nel caso della memoria degli

anni di piombo, periodo che comprende solitamente un arco di

tempo che va dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni

Ottanta, caratterizzato dal terrorismo e dalle stragi, e che

rappresenta una ferita ancora aperta all’interno della comunità

nazionale italiana. Si tratta di un periodo che sconta un'assenza

cronica di memoria condivisa, come spiegato da Cinzia

Venturoli: “Una memoria ed una storia sottoposte all’uso

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pubblico e all’uso politico, quindi, una memoria a cui sovente

si chiede di mutarsi in oblio in nome di una non così chiara

pacificazione nazionale e per la costruzione di una ‘memoria

condivisa’ che implica la dimenticanza e il silenzio su molti

fatti, come se si ritenesse necessario e legittimo cancellare

eventi e protagonisti” 32.

Al riguardo basti pensare alle polemiche suscitate dalla scelta

della data per il giorno della memoria dedicato “alle vittime del

terrorismo e delle stragi di tale matrice”, che ha tra i suoi

intenti quello di “conservare, rinnovare e costruire una

memoria storica condivisa in difesa delle istituzioni

democratiche” e che è stato istituito con la legge numero 56 del

4 maggio 2007. Il giorno scelto è stato quello del 9 maggio,

anniversario della morte di Aldo Moro, avvenuta nel '78, ma

tale scelta è stata duramente contestata dalla maggior parte

delle associazioni costituite dai familiari delle vittime del

terrorismo e delle stragi, che ritenevano più rappresentativa la

32

C. Venturoli, “Stragi fra memoria e storia. Piazza Fontana, piazza della

Loggia, la stazione di Bologna: dal discorso pubblico all'elaborazione

didattica”, Libreria Bonomo Editrice, 2007

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data del 12 dicembre, anniversario della strage di piazza

Fontana, avvenuta nel '69.

Su un altro livello si colloca la critica dello storico De Luna

che ritiene sia necessaria “più storia, meno memoria”.

Egli considera la memoria “ufficiale” come un risultato

“straripante ed elefantiaco” dell’unione tra l’attività legislativa

(la giornata del ricordo appunto) e il risalto delle agenzie

mediatiche. Il passato, quindi, è soggetto a continui

“aggiustamenti”, a seconda dei bisogni presenti del gruppo che

si fa testimone e promotore di una particolare memoria

collettiva. La fase da cui le rielaborazioni del passato devono

ipoteticamente partire consiste nel processo di selezione. Non

tutto il passato sarà selezionato come importante per le

necessità di chi ricorda nel presente. Esistono, anzi, passati

“scomodi”, che si scontrano con l'ordine socialmente costituito

entrato a far parte della realtà di senso comune e che, quindi,

non trovano spazio nell'universo simbolico di riferimento. Il

mancato collocamento di alcuni eventi passati nell'universo

simbolico si deve attribuire, in molti casi, al fatto che certe

ricostruzioni del passato ne contraddicono altre già presenti e

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considerate come legittime nella memoria collettiva. Quando

un episodio del passato si scontra con una rappresentazione

legittima e accettata dalla società, non troverà facilmente

collocazione nell'universo simbolico. In questa ottica, la

memoria non genera solo ricostruzioni di segno positivo, ma

anche oblio. Memoria e oblio sono entrambe azioni sociali

“messe in atto sulla base di meccanismi di selezione che

permettono al tempo stesso di plasmare una determinata

rappresentazione del passato e di farne un essenziale strumento

di appartenenza”33. Quando si ricostruisce un evento del

passato, occorre necessariamente dare il via a una selezione fra

i numerosi fatti e i dettagli minimi che lo sostanziano. È già a

partire da questo momento, dovuto all'impossibilità oggettiva

di ricostruire il passato in maniera totale, che l'oblio attua la sua

azione sulle rappresentazioni del passato. L'oblio è, quindi, il

risultato non di una semplice dimenticanza, ma di un processo

consapevole, che contribuisce a plasmare il passato in

rappresentazioni sociali accettate e riconosciute come

legittime. Le guerre e le stragi rappresentano il “luogo” dove a 33

C. Leccardi, “Presentazione”, in: A. Tota (ed. ), “La memoria contesa.

Studi sulla comunicazione sociale del passato”, Milano, Angeli, 2001, p. 11

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una vasta produzione di memoria se ne affianca una,

ugualmente rilevante, di oblio.

A questo proposito, è necessario riflettere sull'esistenza di un

gran numero di memorie collettive in conflitto tra loro. Perché

una di queste memorie venga istituzionalizzata e riconosciuta

come quella legittima, è necessario che le altre vengano messe

da parte e consegnate all'oblio. La rappresentazione del passato

è in certi contesti fondamentale per la continuità e la

sopravvivenza di un gruppo. Quando più gruppi entrano in

conflitto tra loro per quanto riguarda la definizione del passato,

essi si confrontano quasi sempre specularmente anche per

l'affermazione della propria identità e per gli interessi del

presente: “Accade sempre più spesso che differenti

rappresentazioni sociali del passato si trovino a competere fra

loro nell'arena dei mercati culturali e politici, al fine di fissare e

legittimare socialmente una data versione di un certo evento.

Tale competizione si fa tanto più accesa quanto più si tratta di

passati controversi, incompiuti, difficili da ricostruire e da

legittimare. Si tratta di forme di negoziazione degli immaginari

sociali [...] che nella contemporaneità passano sempre più

attraverso la ricomposizione di memorie in conflitto, di

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versioni ufficiali in competizione con altre più o meno

accreditate, di ricostruzioni ufficiose tutte da legittimare.

Queste guerre simboliche mettono sempre in scena anche

processi in cui sono in gioco sia le definizioni dei corsi di

azione e degli eventi che furono, sia le immagini usate per

rappresentarli”34.

Per quanto riguarda il ricordo degli anni di piombo, questa

tragica stagione non è totalmente sprofondata nel passato al

punto di rimanere indelebilmente incisa sulle pagine dei libri di

scuola. Molti dei protagonisti di quel periodo, infatti, sono oggi

personaggi pubblici e molte di quelle vicende non si sono mai

veramente risolte, restando di fatto ancora aperte dal punto di

vista storico e giudiziario, tanto che il loro passaggio alla storia

scritta non si può considerare definitivamente concluso. Inoltre,

gli individui che oggi sono in età adulta possono dirsi a buon

diritto testimoni di quel periodo e sono in grado di raccontarlo,

di ricostruirlo individualmente e collettivamente, rendendo,

34

A. Tota, “Le città della memoria: introduzione”, in: A. Tota (ed. ), “La

memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato”, Milano,

Angeli, 2001, p. 17

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40

almeno dal punto di vista della sociologia della memoria, quasi

illegittima la sua fissazione nelle pagine dei libri di scuola. La

“mancata fissazione” di quel periodo appartenente alla recente

storia italiana si desume dalle negoziazioni che frequentemente

avvengono per la sua ridefinizione e rivalutazione.

Sono le cosiddette pratiche sociali di memoria a darci l'esempio

concreto di come gli attentati e le stragi avvenuti durante gli

anni di piombo si siano portati dietro lunghi strascichi. I

conflitti sociali sulla definizione del passato che fanno

riferimento agli anni di piombo si proiettano spesso sugli

“oggetti della memoria”. Un esempio, riportato da Tota in uno

studio dedicato alle commemorazioni della strage di Bologna35,

è la mozione proposta da un consigliere comunale di Bologna

per eliminare l'aggettivo “fascista” dalla lapide che ricorda le

vittime della strage della stazione, avvenuta il 2 agosto 1980, e

che attribuisce all'eversione nera l'attentato. Nei fatti si trattò

35

A. Tota (ed. ), “La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale

del passato”, Milano Angeli, 2001; A. Tota, “La città ferita. Memoria e

comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980”, Bologna, Il

Mulino, 2003.

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41

proprio di una strage di stampo fascista, ma la mozione del

consigliere comunale Nicolò Rocco di Torrepadula

(appartenente alla lista civica di destra “la tua Bologna”)

sarebbe scaturita dall'idea che il cosiddetto “clima di

pacificazione nazionale” dovrebbe essere perseguito anche

eliminando le classificazioni degli attentati passati.

Fortunatamente questo tentativo di privare la storia dei suoi

significati è stato fermato.

Il problema dell’assenza di unità e di accordo fra le

rappresentazioni sociali del passato che riguardano gli eventi

accaduti durante il periodo degli anni di piombo impedisce di

collocare in maniera ufficiale quegli eventi nell'universo

simbolico a cui apparteniamo. Si tratta infatti di un passato

ancora non del tutto “spiegato”, in parte irrisolto e con

moltissime zone d’ombra. Quando si incontrano problemi a

collocare un episodio passato nell'universo simbolico, è il

segno che la sua rappresentazione non è ancora soddisfacente o

perché non completa o perché di essa esistono varie versioni in

conflitto tra loro. Le zone oscure e gli “scheletri nell'armadio”

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42

della storia di un paese mettono a rischio la continuità del

gruppo.

Un altro motivo che rende difficile la ricostruzione della

complessa storia di quegli anni e il loro studio è il problema

delle fonti. In Italia infatti ci troviamo di fronte ad una carenza

di fonti relative a temi specifici come appunto il terrorismo e la

violenza politica. Quelle più rappresentate e utilizzate sono

quelle giudiziarie, insieme ai documenti raccolti o prodotti

dalle commissioni parlamentari d'inchiesta, mentre gli archivi

dei ministeri sono di difficile accesso. Esistono tuttavia

numerose e differenti esperienze che hanno dato vita ad archivi

e centri di documentazione vari, in cui è possibile ritrovare

fonti sui temi del terrorismo. Si tratta di realtà che non

appartengono alle sedi istituzionali ufficiali e per questo

indicative di una partecipazione diffusa sul territorio e di una

sensibilità storica e politica, fattori che contribuiscono alla

salvaguardia della memoria storica. Questi archivi però

scontano difficoltà economiche e logistiche ed è auspicabile

una sinergia fra le diverse realtà, da cui partire per trovare un

linguaggio comune che possa far collaborare queste realtà

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43

differenti che condividono lo scopo ultimo dello sviluppo della

cultura della partecipazione attiva, della responsabilità civile e

della cittadinanza consapevole. Il convegno “Archivi in rete

per non dimenticare: terrorismo, stragi, violenza politica,

movimenti e criminalità organizzata”, tenutosi a Roma il 19

dicembre 2006 presso la sede della Casa della memoria e della

storia, ha avuto come tema proprio la creazione di una rete per

valorizzare e diffondere i documenti e le fonti ed è stato

l'occasione adatta per fare il punto sulle ricche esperienze

presenti sul territorio nazionale, caratterizzate tuttavia da una

scarsa attenzione da parte delle istituzioni centrali e locali. I

partecipanti hanno descritto diverse esperienze e realtà:

dall’archivio di Radio Popolare, estremamente prezioso per

ricostruire quei particolari anni, al CEDOST (Centro di

documentazione storico politica su stragismo, terrorismo e

violenza politica), che si occupa tra l’altro di conservare

materiale relativo alle stragi e al terrorismo e di fornire alle

scuole la possibilità di percorsi particolari al suo interno, fino

alle associazioni dei familiari delle vittime di stragi e

terrorismo, che sono spesso preziosissimi depositi di

documentazione e di testimonianze.

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45

CAPITOLO SECONDO

Interpretazioni del terrorismo

2.1 Il primo dibattito scientifico italiano (1977-

1984)36

I primi tentativi di dare una spiegazione al terrorismo in Italia

furono contemporanei alle sue manifestazioni: si trattava di

studi che cercavano di superare le riflessioni dei partiti, dei loro

periodici ed intellettuali, e allo stesso modo le ricostruzioni dei

giornali o i contributi provenienti dalla sinistra

extraparlamentare, che avevano fino a quel momento

monopolizzato l’accesa discussione nel paese37, soffermandosi

36

Questo saggio costituisce un capitolo di un volume dedicato alle

interpretazioni del terrorismo italiano in corso di pubblicazione 37

Anche questa discussione è ancora tutta da ricostruire. Per alcune prime

valutazioni (critiche) delle interpretazioni più ideologiche e politiche (e

spesso partitiche) si veda: P. Feltrin, E. Santi, “Il terrorismo di sinistra: le

interpretazioni”, Progetto, 1, 1981, pp. 48-54; L. Ciampi, “Violenza sociale e

violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Analisi e interpretazioni

sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, Franco Angeli, Milano,

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46

però sul problema delle origini ideologiche del terrorismo e

sull’individuazione delle responsabilità della sua esplosione e

diffusione.

Le prime analisi di questo ampio, vivace e importante dibattito

scientifico furono effettuate nel biennio 1977-1978 e si

protrassero fino al 1984, anno a partire dal quale si assistette in

Italia da un lato alla fine di una vera discussione per quanto

riguarda il terrorismo, e dall’altro al prendere forma, grazie al

lavoro di alcuni studiosi e dell’Istituto Cattaneo, di un “nuovo

corso” degli studi. Possiamo individuare due filoni in questa

prima discussione scientifica: il principale è quello costituito

dalle analisi degli scienziati sociali, che miravano

principalmente a rispondere al “perché” fosse esploso il

terrorismo in Italia, il secondo invece, minoritario, è

rappresentato dalle analisi storiografiche, che avevano come

obiettivo l’elaborazione di una più complessa indagine attorno

al “problema storico del terrorismo” italiano.

1983, pp. 58-59 e 61-63; G. Pasquino, D. della Porta, “Interpretations of

Italian Left-Wing Terrorism’’, in P. H. Merkl (ed.), Political Violence and

Terror. Motifs and Motivations, University of California Press, Berkeley –

Los Angeles –London, 1986, p. 174 ss.

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47

Le riflessioni degli scienziati sociali furono elaborate nel pieno

dell’ondata terroristica e si concentravano sull’analisi delle

condizioni del terrorismo e della violenza politica (ritenute

spesso oggettive), e allo stesso tempo sui fattori scatenanti e i

“meccanismi genetici”38. Le elaborazioni si sostanziavano in

grandi quadri teorici, delle interpretazioni complessive che

spiegavano il terrorismo e la violenza politica tramite un’unica

chiave di lettura che si potrebbe definire “monogenetica”,

analizzandoli e considerandoli talvolta come un fenomeno

unitario e senza distinzioni sia tra terrorismo “rosso” e “nero”,

sia tra violenza del “partito armato” e violenza del “movimento

armato”.

La gran parte di questi studi era poi esplicitamente critica nei

confronti delle analisi di tipo “dietrologico” e “complottistico”,

che già da allora iniziavano a dominare la pubblicistica. In tutti

questi lavori, infine, era netto il rifiuto di letture che tendessero

a interpretare il terrorismo solamente in chiave di aberrazione,

follia o psicopatologia individuale. In questo dibattito è

38

P. Feltrin, E. Santi, “Il terrorismo di sinistra’’, op. cit. p. 49

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48

possibile individuare due grandi gruppi di ipotesi39. Il primo si

concentrò sulla “descrizione del soggetto terrorista”,

analizzando gli atteggiamenti psicologici, le variabili, i

processi e le condizioni culturali e sociali che si riteneva

avessero potuto contribuire a generare il fenomeno.

D’altra parte scarso successo ebbero in questo periodo

interpretazioni in “chiave ideologica”. Ci furono analisi di

questo tipo che cercavano appunto di rintracciare anche in

alcuni elementi ideologici le ragioni della scelta armata e della

clandestinità, come quelle di Carlo Marletti40 e di Nando dalla

39

Riprendiamo questa distinzione, modificandola però sensibilmente, da

alcune riflessioni svolte da Donatella della Porta a proposito della

letteratura sul terrorismo in generale: cfr. D. della Porta, G. Pasquino (a

cura di), Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti,

Germania e Giappone, Il Mulino, Bologna, 1983, pp. 19 e 29 40

C. Marletti, “Immagini pubbliche e ideologia del terrorismo’’ in L.

Bonanate (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico, Franco Angeli,

Milano, 1979 pp. 181-253. Marletti inoltre fu probabilmente lo studioso

che in questo primo dibattito pose maggiore attenzione anche al problema

dei rapporti tra terrorismo e mass media e alla questione dell’immagine

del terrorismo nei mezzi di comunicazione: cfr. oltre al saggio appena

citato, C. Marletti, “Il terrorismo moderno come strategia di

comunicazione. Alcune considerazioni a partire dal caso italiano”, in R. Villa

(a cura di), La violenza interpretata, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 191-211;

C. Marletti, ’’Terrorismo e comunicazioni di massa’’, in G. Pasquino (a cura

di), La prova delle armi, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 121-171; C. Marletti,

Media e politica. Saggi sull’uso simbolico della politica e della violenza nella

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Chiesa41 in campo sociologico e di Massimo Cacciari42 in

campo filosofico. Tuttavia, interpretazioni che individuavano

nella dottrina professata da un gruppo la causa unica della

nascita e della diffusione della violenza ebbero poca

diffusione43, a differenza invece di quanto

comunicazione, Franco Angeli, Milano, 1984. Su tali temi, spesso in quegli

anni al centro della discussione anche extra-scientifica, si soffermarono in

quel periodo anche altri studi. Cfr. soprattutto G. Statera (a cura di),

Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Analisi e

interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, op. cit. 41

N. dalla Chiesa, “Del sessantotto e del terrorismo: cultura e politica tra

continuità e rottura’’, Il Mulino, 273, 1981, pp. 53-94 42

M. Cacciari, “Per una de-costruzione dell’immagine monolitica del

terrorismo’’, in Terrorismo. Verso la seconda Repubblica?, Stampatori,

Torino, 1980, pp. 60-83 43

L’unico studio di tipo scientifico che in quegli anni privilegiò l’ideologia

come fattore di spiegazione del terrorismo italiano può essere considerato

quello dello storico cattolico delle dottrine politiche Claudio Vasale.

Scriveva quest’ultimo nel 1980: “le pagine che seguono partono dal

presupposto che la materia organica (o vivente) del terrorismo

contemporaneo non può trovare la sua origine che in seno alla materia

vivente e questa sta nella realtà culturale (e ideologica) e non

nell’ambiente (politico, economico, istituzionale) senza del quale,

certamente, non si sviluppa e non alligna’’. Cfr. C. Vasa e, Terrorismo e

ideologia in Italia. Metamorfosi della rivoluzione, Armando, Roma, 1980

(citazione p. 11).

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50

contemporaneamente accadeva nel dibattito politico e

giornalistico44.

Il secondo gruppo di ipotesi considerò invece il terrorismo

come la manifestazione più grave della “crisi italiana”, che

aveva diverse sfaccettature a seconda del punto di vista dello

studioso (sociale, politica, culturale, etica, religiosa,

economica, ecc. ) e/o come la reazione o una delle reazioni

dovute al malfunzionamento o alla debolezza e gli errori del

“sistema” politico e sociale45.

44

Grande successo ebbe in particolare la tesi elaborata dal giornalista

Giorgio Bocca, secondo il quale “padre’’ ideologico del terrorismo rosso

doveva essere considerato il ’’cattocomunismo’’: ’’non solo perché –

osservava Bocca – alcuni dei terroristi più noti come Renato Curcio,

Margherita o Mara Cagol, Maurizio Ferrari, Giorgio Semeria e altri sono

stati dei cattolici praticanti cosi come Alberto Franceschini, Roberto

Ognibene, Prospero Gallinari e altri sono stati iscritti al partito comunista;

ma per il modo totalizzante, proprio dei cattolici e dei comunisti, di porsi di

fronte alla vita e alla società, perché è cattolico e comunista il bisogno di

risposte totali e definitive, il rifiuto del dubbio, la sostituzione del dovere

ragionato con la fede, il bisogno di chiesa, di autorità, di dogma,

giustificato dal solidarismo sociale e l’attesa dell’immancabile paradiso, in

cielo o in terra”. Cfr. G. Bocca, Il terrorismo italiano (1970-1978), Rizzoli,

Milano, 1978 (citazioni a pp. 7-8). 45

Cfr. G. Pasquino, D. della Porta, “Interpretations of Italian Left-Wing

Terrorism”, op. cit. p. 174. Scarsa fortuna ebbero invece nel dibattito di

quegli anni letture “meso–sociologiche’’ del terrorismo tutte incentrate sul

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51

Vediamo adesso le più importanti interpretazioni diffuse nel

dibattito scientifico italiano tra fine anni Settanta e inizio anni

Ottanta, che afferiscono al primo gruppo di ipotesi, quelle della

descrizione del soggetto terrorista in chiave psicologico-

psichiatrica. Le riflessioni di questo tipo, sostenute e fondate

soprattutto su grandi quadri teorici e formulate come

interpretazioni complessive e monocausali, condividevano tutte

la critica decisa nei confronti delle spiegazioni del terrorismo

in termini di psicopatologia in riferimento soprattutto al

terrorismo di sinistra. La prima interpretazione fu quella che

volle provare a spiegare il terrorismo, ma in generale tutta la

violenza eversiva, come un fenomeno legato al “mondo

giovanile”.

L’ipotesi venne formulata nei primi anni ’80 dallo psicologo

dell’età evolutiva Guido Petter e venne fondata sull’

“osservazione partecipante” che egli stesso aveva realizzato nel

corso degli anni Settanta presso l’Università di Padova. Egli

“gruppo’’ (e sulla sua dimensione ideologica e organizzativa). Sulle “teorie

meso-sociologiche’’ (o “mesospiegazioni’’) in relazione al terrorismo cfr. D.

della Porta, ’’Terrorismo’’, 2, ’’Il terrorismo nel mondo contemporaneo’’,

(voce) in Enciclopedia delle scienze sociali, VIII, Istituto della Enciclopedia

italiana, Roma, 1998, pp. 601-602.

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scriveva: “molti di coloro che sono stati arrestati in questi

ultimi tre anni per atti di violenza eversiva e terrorismo, siano

essi appartenenti alle BR, a Prima Linea, ad altre formazioni

analoghe, o all’Autonomia organizzata, sono giovani fra i 20 e

i 25 anni. Giovani al momento dell’arresto, ma certo ancora più

giovani nel momento in cui, anni prima, aveva avuto inizio la

loro attività nei gruppi eversivi”. Si dovevano quindi analizzare

i “meccanismi psicologici che, a causa della presenza e

dell’influenza di certe condizioni sia personali che ambientali”,

avevano “portato molti giovani ad aderire alle formazioni

eversive”, e considerare anche quelli che avevano “poi reso

possibile la loro permanenza per mesi e talvolta per anni in tali

formazioni e la loro partecipazione attiva all’organizzazione e

all’esecuzione di atti di violenza”. Infine bisognava indagare

quei meccanismi che avevano “determinato (dopo l’arresto) la

loro uscita volontaria e improvvisa dal ruolo eversivo seguita

da pentimento, o (in altri casi) l’abbandono graduale e

silenzioso di tale ruolo”46.

46

G. Petter, ’’Aspetti psicologici della violenza eversiva’’, in C. Ceolin (a

cura di), Università, cultura, terrorismo, Franco Angeli, Milano, 1984, pp.

94-95.

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53

L’ipotesi di Petter era che la “decisione di entrare nel mondo

dell’eversione” potesse scattare solo se “diverse condizioni”

fossero state “tutte compresenti” e si fossero combinate

“insieme in una costellazione”47.

La prima di queste condizioni ‒ scriveva Petter ‒ è costituita

dal senso di frustrazione, prolungato e generalizzato, che molti

giovani hanno provato in questi anni, vivendo dentro una

scuola spesso tenacemente ancorata al passato, in attesa da

decenni di una riforma che non viene mai, sorda ai problemi

degli adolescenti, o in una società caratterizzata da una

profonda crisi di valori, da un susseguirsi di gravi scandali che

hanno sconvolto il mondo politico, dalla speculazione sfrenata,

dalla vita alienante delle città cresciute in modo disordinato, da

una crisi economica che si fa sempre più drammatica. In molti

casi la frustrazione è poi stata sperimentata anche su un piano

più strettamente personale, per situazioni di insuccesso

scolastico, per gravi conflitti familiari, per la prospettiva delle

difficoltà da affrontare al termine della scuola per l’inserimento

47

Ibid. pp. 95-96.

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54

nel mondo del lavoro e per il quasi certamente lungo periodo di

disoccupazione giovanile48.

Una seconda condizione era rappresentata dalla “tendenza,

presente in una parte dei giovani” che vivevano “una situazione

di frustrazione, a reagire ad essa in modo anomalo,

inadeguato”. Come la tradizione psicologica dimostrava già da

tempo, infatti, si poteva “reagire in vari modi alle situazioni

frustranti”: sia in “modo sano, positivo” sia in “altri modi, assai

meno adeguati”. Tra questi ultimi troviamo “l’aggressione

generalizzata a tutto e a tutti oppure orientata verso certe

persone che sono reputate, a ragione o a torto, come cause

dirette della frustrazione”. Un’aggressione – aggiungeva Petter

‒ che poteva “manifestarsi in molti modi, dalla derisione

all’insulto, alla minaccia, al danneggiamento o alla distruzione

di oggetti, a veri e propri atti di violenza contro le persone”.

Accanto a questo “modo inadeguato di reagire”, “non

incompatibile ma spesso anzi coordinato ad esso”, Petter ne

individuava nel mondo dei giovani un altro: la “regressione”.

Si trattava del ritorno a modi semplificati di vedere la realtà,

48

Ibid. p. 96.

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55

che caratterizzavano fasi precedenti dello sviluppo psicologico

ed erano state ormai da tempo superate: il “volere tutto e

subito”, una maggiore suggestionabilità, la perdita della propria

identità nell’adesione al gruppo, una diminuzione del “senso

della realtà” e cioè della capacità di distinguere con chiarezza

ciò che è reale o fattibile e ciò che è solo illusorio, e soprattutto

la tendenza a ritenere che certi itinerari siano assai più semplici

di come in realtà sono, che certi obiettivi possano essere

raggiunti subito, in forma diretta, e non solo attraverso un

paziente lavoro di preparazione.

Nel nostro caso tutto questo si è tradotto nel rifiuto, ad

esempio, di affrontare percorsi indiretti per il conseguimento di

obiettivi complessi (e quindi nella pratica dell’ “esproprio

proletario”, o nella richiesta pressante del “voto politico”), o

nell’idea che si potesse realizzare in tempi brevi la rivoluzione,

o che vi fosse davvero un proletariato pronto a insorgere

compatto alle parole d’ordine di una minoranza49.

Queste due prime condizioni, “di carattere per così dire

personale”, non sarebbero bastate senza un “supporto, ed anzi

49

Ibid. pp. 96-97.

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56

una vera e propria giustificazione ideologica, nella dottrina di

certi cattivi maestri”. Questa constatazione polemica

rappresenta una costante in questi primi studi “a caldo”

condivisa anche da Petter. Egli infatti scriveva che “da un lato

si è teso a presentare l’insurrezione e la rivoluzione come

obiettivi a portata di mano, dall’altro, sono stati presentati

come metodi leciti per conseguire questi obiettivi la pratica

dell’illegalità di massa e della violenza diffusa”. Tutto questo

aveva portato a una “radicale trasfigurazione di valori”.

Giovani “già tendenzialmente portati alle vie brevi e alle

risposte aggressive” avevano “assai presto avvertito che tali

forme d’azione normalmente considerate negative dalla società

riscuotevano invece l’approvazione del gruppo e che il saperle

compiere con decisione era una qualità valutata come

altamente positiva”50.

Una quarta condizione necessaria a far perdurare gli effetti

delle altre era costituita dall’ “esistenza di possibilità concrete

per un duplice processo di aggregazione e segregazione”.

Come spiegato da Petter: i giovani hanno anche avuto a

50

Ibid. pp. 97-98.

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57

disposizione sia degli spazi fisici in cui ritrovarsi tra loro con

una certa continuità (le Case dello Studente, gli Uffici studenti

di varie facoltà, divenuti di loro dominio esclusivo, i locali per

assemblee quasi subito egemonizzate da loro), sia dei mezzi

per stare comunque costantemente in contatto (in particolare

una rivista e una radio). Tutto questo ha reso possibile la loro

aggregazione in gruppi stabili e relativamente chiusi (la “rete

dei Comitati di lotta”). Ma proprio questi caratteri del gruppo

di cui facevano parte hanno portato anche ad una loro

sostanziale segregazione dal resto della popolazione

studentesca, con la quale pure apparentemente si mescolavano.

Questo duplice carattere di “aggregazione” e di “segregazione”

ha favorito lo sviluppo graduale di una situazione di “delirio

collettivo”: uso qui questo termine nel suo significato tecnico,

per indicare quel processo che consiste nell’inoltrarsi sempre

più in una realtà illusoria scambiandola per quella vera con la

quale si perde via via il contatto, un processo reso possibile dal

fatto che, da un certo momento in avanti, si tende a parlare solo

con le persone che hanno lo stesso atteggiamento e le stesse

convinzioni, dato che alle altre vengono riservati solo la

polemica o l’attacco. In tale situazione non solo vengono a

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58

mancare punti di riferimento esterni essenziali per un costante

controllo delle proprie posizioni, ma vi è un processo di

reciproca esaltazione della distorsione nel modo di percepire e

valutare la realtà51.

L’ultima condizione individuata da Petter era la seguente:

l’atteggiamento di “incertezza”, di “eccessiva tolleranza, o

anche di disimpegno da parte di molti”(“docenti delle scuole

medie e superiori”, “autorità pubbliche” e la “stessa

cittadinanza”) che “avrebbero dovuto a vario titolo intervenire

per prevenire o contenere l’eversione”. Tutto questo,

concludeva Petter, aveva potentemente contribuito a diffondere

sia un’idea di liceità sia un’idea di impunità, derivante dalla

constatazione che grandissima parte degli atti di violenza

compiuti non erano di fatto seguiti da provvedimenti di alcun

tipo. Questo generale atteggiamento di eccessiva tolleranza, di

agnosticismo e disimpegno, ha certamente avuto un suo peso.

Non dobbiamo dimenticare che, soprattutto nell’età

adolescenziale, l’idea di ciò che si è o il giudizio su ciò che si

51

Ibid. pp. 99-100.

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59

fa si vengono elaborando anche sulla base di come ci si sente

considerati e trattati dagli altri52.

Una seconda interpretazione di tipo psichiatrico-criminologico

fu quella del terrorismo come “guerra fantastica”. A formularla

furono nei primi anni Ottanta due docenti di Medicina

criminologica e psichiatrica forense italiani: Franco Ferracuti53

e Francesco Bruno. Secondo questi studiosi, “etichettare i

terroristi, tutti i terroristi, come infermi di mente” sarebbe stato

“un comodo modo per risolvere il problema”, demonizzando i

protagonisti, ma non avrebbe risposto alla “realtà, né clinica, né

sociale”. Tuttavia, “alcuni aspetti psichiatrici” vi erano nel

terrorismo italiano ed era rilevante conoscerli54.

52

Ibid. pp. 100-101. 53

Occorre ricordare che Ferracuti svolse un ruolo anche operativo-

istituzionale durante gli “anni di piombo”. Egli fu infatti nominato tra gli

esperti del ministero degli Interni durante il sequestro Moro. Su questa sua

partecipazione piuttosto controversa, in ragione soprattutto della sua

iscrizione alla loggia massonica P2, cfr. A. C. Moro, Storia di un delitto

annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998. 54

F. Ferracuti, F. Bruno, “Psychiatric Aspect of Terrorism in Italy’’, in I. L.

Barak-Glantz, C. R. Huff (eds. ), The Mad, the Bad, and the Different. Essays

in Honor of Simon Dinitz, Lexington Books, Lexington, 1981, pp. 206-207.

Per la traduzione dall’inglese di questo saggio si è fatto riferimento alla sua

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La “Distinzione preliminare”55 dei due studiosi differenziava i

terrorismi rosso e nero non solo dal punto di vista ideologico

ma anche “in base ai loro aspetti psichiatrici”: infatti “nel

terrorismo di destra i membri sono soggetti spesso

psicopatologici, e l’ideologia è vuota; nel terrorismo di sinistra

l’ideologia è al di fuori della realtà, ma i membri sono più

normali e fanatizzati”56. I terroristi neri, quindi, erano

caratterizzati da una deviazione patologica della personalità, se

non in alcuni casi da vera e propria psicosi: “l’ideologia che

ispirava il terrorismo di destra” andava interpretata come un

“sicuro rifugio psicologico per giovani inquieti e persino

disturbati a livello psicologico”. I due studiosi precisavano che

l’esperienza clinica aveva “confermato chiaramente questa

versione italiana pubblicata in F. Bruno, Note sul Terrorismo. Appunti per

una ricerca criminologica, UGRIS, Roma, 1984, pp. 50-66. 55

F. Ferracuti, F. Bruno, “Italy: A Systems Perspective’’, in A. P. Goldstein,

M. H. Segall (eds. ), Aggression in Global Perspective, Pergamon Press, New

York, 1983, p. 307. Per la traduzione di questo saggio si è fatto riferimento

a un lavoro di Ferracuti che ne riprende integralmente alcuni passaggi: cfr.

F. Ferracuti, ’’Aspetti socio-psichiatrici del terrorismo’’, in Id. (a cura di),

Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, IX,

Forme di organizzazioni criminali e terrorismo, Giuffrè, Milano, 1988, pp.

219-236. 56

F. Ferracuti, F. Bruno, “Psychiatric Aspect of Terrorism in Italy’’, op. cit.

pp. 207 e 209.

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ipotesi”: tra i terroristi di destra (che sono stati esaminati più

frequentemente di quelli di sinistra, sia durante i processi, dal

momento che sono spesso sottoposti a perizia psichiatrica, sia

clinicamente, poiché i loro genitori hanno chiesto un ausilio

psichiatrico) sono molto più frequenti le personalità disturbate,

affette da stati borderline, o persino psicotiche. Questi soggetti

sono spesso individualistici, incapaci di resistere allo stress,

come ad esempio l’imprigionamento (in carcere talvolta si

suicidano), incapaci di collegarsi tra loro in strutture

organizzate al di fuori di una debole pseudo-gerarchia militare.

“Persino quando – aggiungevano ‒ non esistono stati di chiara

patologia psichica, la loro personalità di base ha le

caratteristiche della personalità autoritario-estremista”. In

pratica queste riflessioni implicavano che: “il terrorismo nero

può essere estremamente pericoloso non solo e non tanto per

l’ideologia eversiva che lo pervade, quanto per la sua generale

imprevedibilità e capacità di distruzione”57.

Per quanto riguarda i terroristi di sinistra invece “raramente”

essi avevano presentato “scompensi profondi della

57

Ibid. p. 209.

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personalità”: essi, di solito, hanno buona capacità di resistere

allo stress, di organizzarsi in gruppo, di sostenersi e di

diffondere le proprie ideologie. L’adesione alle proprie

convinzioni ideologiche è sempre salda ed il più delle volte

incrollabile. Molto interessante è notare come persino coloro

che operano la scelta di collaborare con lo Stato tendono non

solo a giustificare, ma anche a razionalizzare tale scelta in un

contesto ideologicamente accettabile58. Il terrorista di sinistra

era quindi di solito “normale”, un individuo che, “mentalmente

sano”, era stato “coinvolto attivamente in azioni rivoluzionarie,

terroriste o di guerriglia”59. E fu proprio su di essi che si

concentrò lo studio di Ferracuti e Bruno, elaborando la teoria

socio-psichiatrica della “guerra fantastica”60.

Questa ipotesi partiva dalla constatazione che “il rapporto con

la morte” potesse costituire un interessante elemento

“dinamico” della personalità del terrorista: l’istinto biologico

alla sopravvivenza per l’individuo e per la società è l’autorità

58

Ibid. p. 208. 59

Cfr. F. Ferracuti, F. Bruno, “Italy: A Systems Perspective’’, op. cit. p. 307 e

F. Ferracuti, “Aspetti socio-psichiatrici del terrorismo’’, op. cit. pp. 220-221. 60

La teoria venne elaborata insieme da Ferracuti e da Bruno in un saggio

del 1983 e sostenuta dal primo anche in altri contributi.

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che vieta l’accettazione della morte. L’uomo sfugge alla morte

usando ogni meccanismo disponibile, ma particolarmente

attraverso uno speciale atteggiamento psicologico che è stato

definito come l’“illusione dell’immortalità”, attraverso il quale

l’uomo vive ogni giorno come se la morte non esistesse, o non

lo riguardasse. L’“unica condizione”‒ sostenevano Bruno e

Ferracuti ‒ nella quale “questo atteggiamento verso la morte”

era “drasticamente mutato”(e “l’istinto di sopravvivenza”

appariva “inoperante”) era “la guerra”: “in una situazione di

guerra l’uomo appare pronto a uccidere e a essere ucciso, le

forme più aberranti di aggressione sono messe in atto da

culture altamente civilizzate, e ogni soldato può commettere

omicidi. La guerra permette il dominio della morte sulla vita e

dunque la legittimazione del terrore”.

Per questi motivi il “terrorista normale” era “equivalente a un

soldato, al di fuori del tempo e dello spazio, che vive nella

realtà una guerra che esiste solo nella sua fantasia”. Ciò si

rifletteva negli scritti dei terroristi e nei loro atteggiamenti

dopo la cattura nel dichiararsi “prigionieri di guerra”. La guerra

fantastica – sostenevano Ferracuti e Bruno ‒ naturalmente è

solo parziale, in quanto è reale solo per uno dei due

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contendenti: costui adotta valori, norme e comportamenti di

guerra contro un altro gruppo, generalmente più grande, nel

tentativo di risolvere un conflitto basato su torti legittimi o

illegittimi. Una guerra fantastica non è né accettata né

riconosciuta dal gruppo opposto che, in effetti, tende a negarla.

La guerra fantastica è, pertanto, un fenomeno in svolgimento,

in continuo equilibrio instabile tra due possibili processi

stabilizzanti: o il passaggio alla guerra reale, o il terrore

diffuso. La guerra fantastica diveniva “reale” solo se

riconosciuta dal “nemico” e si trasformava in “terrorismo

quando, essendo incapace di costringere il nemico ad accettare

uno stato di guerra”, il gruppo che aveva cominciato le ostilità

doveva “limitarsi a molestarlo e a tentare di destabilizzarlo

attraverso l’utilizzazione e la diffusione della paura”.

Sul rapporto tra guerra, violenza e terrorismo si concentrò in

modo assai differente anche l’analisi dello psicanalista Franco

Fornari, che riguardava il terrorismo a livello mondiale ma che

si concentrava anche sulla situazione più specificatamente

italiana. Fornari sosteneva che sia il terrorismo contro lo stato

(come ad esempio quello dei Tupamaros sudamericani, dei

gruppi irlandesi e soprattutto delle Brigate Rosse) che quello

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tra stati differenti dovesse essere interpretato come “figlio

dell’equilibrio del terrore” e della relativa “crisi della guerra”61.

L’analisi di Fornari del terrorismo partiva dal “confronto tra

capitalismo e comunismo, visti come scontrantisi nell’area dei

bianchi (cioè Russia, America del Nord, Europa e America del

Sud) con rapporti di distruzione dominati dall’equilibrio del

terrore”. “Costretto a rinunciare alla guerra” – osservava

Fornari ‒ “l’ordine planetario post-atomico” sembrava “in

realtà incontrarsi con il terrorismo come un capovolgimento

dell’antico rapporto tra il cittadino e lo Stato”. Lo “stato

pre‒atomico proibiva al singolo cittadino l’uso della violenza

per monopolizzarla, attraverso la guerra, come il sale e i

tabacchi”. “Il singolo cittadino, in quanto terrorista”, sembrava

“invece aspirare al monopolio della violenza” proprio quando

lo stato si sentiva “obbligato a rinunciarvi, in base alla legge

dell’equilibrio del terrore”. Eliminato il rito della guerra, i

popoli erano rimasti, secondo Fornari, senza poter “esportare il

lutto”, facendo rimanere nel privato il terrore della morte.

61

Fornari si riferiva qui di alcuni punti di riferimento già sviluppati in

precedenti lavori dedicati alla psicanalisi della guerra e della situazione

nucleare: F. Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano, 1966 e Id.

Psicanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano, 1970.

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L’angoscia di morte era tuttavia riemersa e, come avvenuto

presso i popoli primitivi, era stata spostata sui capi-stregoni dai

quali si temeva di essere uccisi. Ciò era quanto avvenuto in

Italia e non solo negli anni Sessanta, durante i quali si era

diffusa un’ansia isterica nei confronti di una possibile

“persecuzione da parte del proprio sistema (il proprio

stregone!)”. Da questo discende che il terrorismo appariva a

Fornari come l’“espressione”, l’“epifania del terrore nascosto

dall’equilibrio del terrore”, come il “figlio dell’equilibrio del

terrore”: i rapporti di distruzione, dominati dal deterrente

atomico, sono al grado zero, denominato equilibrio del terrore.

Quando si sono espressi, lo hanno fatto sempre sulla pelle

altrui (Cuba e Vietnam) e arrivando in ambedue i casi sull’orlo

dell’abisso, senza però mai caderci dentro. Si può quindi dire

che le forze atomiche di distruzione abbiano portato

nell’universo ambiguo dell’equilibrio del terrore una relazione

bizzarra tra capitalismo e comunismo, nel senso che essi

coesistono, non come se fossero amici, ma come se non fossero

nemici. Vediamo così che l’enorme potenziale distruttivo è

stranamente amministrato da un rapporto tra capitalismo e

comunismo, assorbito dal rapporto tra imperi, senza che

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colpisca i due nemici opposti. Dove va allora a finire tale

tensione distruttiva? La mia risposta è che il terrorismo è figlio

dell’equilibrio del terrore62.

Allo stesso modo di Fornari, anche il filosofo Emanuele

Severino individuava nell’equilibrio atomico il fattore cruciale

per comprendere l’esplosione del terrorismo di entrambe le

matrici in Italia, criticando duramente però le analisi elaborate

da Fornari. Egli infatti riteneva che, in relazione al terrorismo

italiano, bisognasse partire da due “ipotesi interpretative” fino

ad allora non “smentite”: la prima sosteneva che Stati Uniti e

Unione Sovietica non intendessero scatenare il conflitto

atomico decisivo che elimini definitamente l’avversario.

Questo atteggiamento non era momentaneo: entrambi si

sarebbero resi conto che dopo l’urto non esisterebbe un

“vincitore”, nel senso elementare e primario che usualmente

diamo a questo termine, e forse neanche più la razza umana. La

seconda ipotesi riguardava l’evidenza del fatto che sulla terra si

62

F. Fornari, ’’Terrorismo e equilibrio del terrore’’ , Città&Regione, 10-11,

1977, pp. 80-90. Una prima sintetica interpretazione in chiave psicanalitica

del terrorismo, seppur sensibilmente differente rispetto a questa elaborata

nel 1977, era stata suggerita da Fornari già in “Psicanalisi del terrorismo’’,

Corriere della Sera, 26 giugno 1974.

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diffonde sempre più rapidamente un processo di

emancipazione dei popoli poveri da quelli ricchi, delle classi

sfruttate da quelle sfruttatrici, dei gruppi dalle istituzioni, dei

giovani dagli adulti, delle femmine dai maschi, degli

emarginati e anormali dagli inseriti e normali, delle azioni

umane dalle leggi e dalle tradizioni, di tutti gli altri popoli e

Stati dal monopolio delle due superpotenze mondiali

dominanti. Da queste due ipotesi discendevano alcune

conseguenze. La prima era che la “volontà delle due

superpotenze di evitare il conflitto atomico” costituiva “il fatto

stabilizzante più potente” esistente sulla terra: “il fondamentale

interesse comune degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica è di

perpetuare indefinitamente l’attuale rapporto di forze e quindi

l’ordine oggi esistente nel mondo”. La seconda era che la

“pressione dal basso verso l’alto” rappresentava per Severino

invece “il maggior fattore destabilizzante del nostro tempo”.

Ciò era valido anche per la situazione economico-politica

italiana che era “determinata” dall’“equilibrio di forze tra le

superpotenze”. La conferma di queste due ipotesi era data

dall’esplosione del terrorismo in Italia: all’interno

dell’equilibrio atomico infatti la politica comunista del

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“compromesso storico”, e quindi l’avanzata del PCI, aveva un

effetto “destabilizzante” ed era ostacolata, pur con motivi

opposti, da entrambe le superpotenze, mentre il terrorismo

paradossalmente costituiva un “fattore stabilizzante”, poiché

arginava questa avanzata.

L’ultima ipotesi elaborata in ambito psicologico fu quella che

interpretava il terrorismo fondamentalmente come espressione

di atteggiamenti radicali ed estremisti. Il più importante

rappresentante di questo filone interpretativo fu Gabriele Calvi,

docente di psicologia sociale che riteneva di considerare

l’estremismo politico, il radicalismo e il terrorismo “come un

nodo di problemi”, anche se i termini facevano “riferimento a

comportamenti specifici e distinguibili”. Tutti fenomeni diversi

quindi, ma uniti dall’avere “alla loro base” una “stessa

dinamica mentale”: se si pensa – scriveva Calvi ‒ che il

radicalismo consiste nell’abbandono di ogni tattica

temporeggiatrice e moderata al fine d’imporre un profondo

cambiamento sociale e politico, che l’estremismo propone il

cambiamento senza moderazione, a tempi brevi, e sovente in

forma rivoluzionaria, e che il terrorismo è essenzialmente un

tentativo di provocare l’immediato cambiamento di una

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situazione politica sotto la pressione di gravi minacce, ricatti o

violenze diretti a una collettività, i termini di una comune

dinamica psicologica sono facilmente ravvisabili. Vi erano

quindi diverse “caratteristiche psicodinamiche” che

costituivano il “fondo comune” degli “estremisti di ogni

estrazione e vocazione”: radicaleggianti, estremisti e terroristi

hanno una visione pessimistica della realtà, non credono negli

altri, non sono sostenuti dal rigoglio della speranza. Essi non

dispongono, poi, che di un solo progetto, non ne hanno altri di

scorta. Pensano in modo monotematico, quasi in modo

monomaniacale. Il loro è l’unico progetto corretto, adatto,

applicabile: altri non ve ne sono, o meglio, non è possibile

elaborarne63.

La categoria dell’estremismo venne usata come criterio di

spiegazione del terrorismo anche in ambito politologico. In

questo senso esso era concepito come una “categoria” centrale

e costante della cultura politica. Il più importante sostenitore di

questa ottica di interpretazione fu Gian Mario Bravo, che se ne 63

G. Calvi, “Dalla cultura della violenza alla cultura della pace’’,

introduzione in G. Calvi, M. Martini (a cura di), L’estremismo politico.

Ricerche psicologiche sul terrorismo e sugli atteggiamenti radicali, Franco

Angeli, Milano, 1982, pp. 10-12.

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occupò in varie pubblicazioni tra il 1977 e il 1982. Egli

definiva prima di tutto il terrorismo come espressione del

“pensiero estremista”, per poi considerare quest’ultimo come

fenomeno totalmente estraneo alla teoria e alla tradizione del

marxismo-leninismo e al movimento operaio. L’interpretazione

di Bravo si collocava chiaramente su elementi caratterizzanti la

tradizione marxista64 ed era simile a quella elaborata in questi

stessi anni da importanti esponenti del PCI65. Secondo Bravo, il

64

Significativo è a tal proposito quanto Bravo osservava nell’Avvertenza del

suo volume del 1977: cfr. G. M. Bravo, Critica dell’estremismo. Gli uomini,

le correnti, le idee del radicalismo di sinistra, il Saggiatore, Milano, 1977, p.

7. 65

Il direttore di Rinascita, Adalberto Minucci, in uno dei più importanti

contributi di elaborazione teorica compiuti in ambito comunista, osservava

ad esempio nel 1978: “Il movimento marxista e tutta la concezione della

politica e della storia che prende le mosse dall’opera di Marx sono nati e si

sono sviluppati come rottura e come antitesi radicale nei confronti di ogni

ideologia che faccia leva sull’azione individualistica e in particolare sul

terrorismo. Il passaggio “dall’utopia alla scienza’’ segnò un rifiuto definitivo

delle concezioni demiurgiche tipicamente piccolo-borghesi di coloro che

Marx definiva sprezzantemente “alchimisti della rivoluzione’’, che

credevano di poter “anticipare sul processo di sviluppo rivoluzionario, di

spingerlo artificialmente alla crisi, d’improvvisare una rivoluzione “senza

curarsi delle condizioni materiali oggettive che la rendono possibile. Nel

corso della sua attività di dirigente del movimento operaio, Karl Marx ha

dovuto condurre più volte una lotta senza quartiere contro ideologie e

prassi della violenza terroristica[. . . ]. Chi avesse la pazienza di rileggersi le

requisitorie che[…] Marx pronunciò contro avversari che pretendevano di

collocarsi alla sua sinistra, vi troverebbe l’anticipazione delle analisi e degli

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marxismo legittimava la violenza, ma solo quella che era

“intesa quale mezzo contingente e occasionale” e non come

“fine”, e soprattutto quella esercitata dalle masse o dalle

avanguardie capaci di interpretare la sensibilità delle masse66.

A differenza quindi della violenza terroristica, che era

essenzialmente individuale, settaria, irrazionale ed

“esclusivamente borghese”67. Non era quindi esatto individuare

nel marxismo-leninismo le radici del fenomeno terroristico.

Bravo ricordava: “sempre il movimento operaio e il marxismo,

il socialismo, hanno respinto ogni manifestazione esasperata,

argomenti che noi comunisti adottiamo contro gli estremisti e i violenti di

oggi. Quanto a Lenin basterebbe ricordare la sua critica distruttiva contro

la Narodnaja Volija, la setta dei terroristi russi di fine Ottocento. Ed è stato

Lenin, del resto, a consegnarci la prima sistematica denuncia contro

l’estremismo. I “classici’’ del marxismo, in altre parole, non hanno mai

lasciato adito a dubbi circa il fatto che l’elemento soggettivo, che deve

combinarsi con le condizioni oggettive per dar luogo a un processo di

rivoluzione sociale, è rappresentato esclusivamente dal movimento

consapevole e dall’organizzazione politica delle grandi masse. Il terrorismo

e l’azione individuale si risolvono sempre in un ostacolo e nella negazione

di questo ruolo delle masse’’ (A. Minucci, Terrorismo e crisi italiana,

intervista di J. Kreimer, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 42-43).

66 G. M. Bravo, “Violenza e terrorismo nel pensiero politico

contemporaneo’’, in La violenza, perché, numero monografico di I

problemi di Ulisse, LXXXVI, 1978, p. 18. Si veda anche l’analisi del giurista

Pio Marconi, [ intervento] in Terrorismo e stato della crisi, numero

monografico di La questione criminale, 1, 1979, pp. 9-21. 67

G. M. Bravo, L’estremismo in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 133.

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vale a dire terroristica, della forza impetuosa e incontrollata, in

quanto espressione di individualismo, di settarismo, di

soggettivismo borghese, di irrazionalità, di avventurismo, e

infine frutto di comportamenti delinquenziali”. Ne discendeva

quindi che per trovare le reali “matrici storiche e teoriche della

violenza estremistica contemporanea” e dell’ondata terroristica

in Italia si doveva andare “molto al di là della problematica

socialista e di classe”68.

Secondo Bravo, l’estremismo era un’“entità politica”, un

fenomeno paragonabile parafrasando Lenin a una “malattia”.

Esso era apparso a partire dalla rivoluzione francese e poi si era

presentato con straordinaria “continuità” sia sulla scena politica

italiana che su quella di altri popoli e nazioni69. Bravo indicava

poi con precisione quelli che definiva i sei “elementi

prevalenti” che avevano sempre caratterizzato, e continuavano

a farlo, l’estremismo nelle sue manifestazioni, distinguendolo

nettamente dalla tradizione marxista-leninista:

68

G. M. Bravo, “Violenza e terrorismo nel pensiero politico

contemporaneo’’, op. cit. p. 18. 69

G. M. Bravo, “Critica dell’estremismo, op. cit. pp. 10-11 e Id.

L’estremismo in Italia, op. cit. pp. 7-8 e 18.

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1) L’estremismo è collegabile all’irrazionalismo, a modi di

pensare e ad atteggiamenti non conformi a ragione. Le sue

attività pratiche sono sempre segnate dalla non razionalità.

2) L’estremismo è il prodotto di una forma esasperata di

volontarismo. Esso collega i progetti di rinnovamento della

società a pure valutazioni personali, ad atti di volontà esemplari

di singoli o di cellule ristrette. Questi sono giudicati bastanti

per procedere alla trasformazione del sistema di produzione e

per la rivoluzione.

3) L’estremismo è sempre prodotto da uno stato di esaltazione

soggettiva.

4) Un’altra componente dell’estremismo è data

dall’impazienza. Engels e Lenin parlarono di “impazienza

rivoluzionaria”. L’azione è accompagnata da una sostanziale

immaturità e, ancora, da incapacità di comprendere “il presente

sociale”.

5) Segno decisivo dell’estremismo è il settarismo, il suo

richiamarsi alla setta, al gruppo ristretto e segreto, quale

modello di organizzazione.

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6) Infine, componenti costanti dell’estremismo sono la

ribellione e l’insurrezione. Vale a dire modelli che

storicamente non sono stati in grado di portare alla rivoluzione,

o non intendono pervenirvi. Sono fini a se stessi e si

esauriscono abitualmente nell’atto ribellistico e

insurrezionistico. In questo prevalgono gli elementi contingenti

e nichilisti70.

Da queste considerazioni Bravo traeva la funzione che

l’estremismo aveva da sempre svolto nella storia:

“l’estremismo, specie quando si accompagna al terrorismo,

peggiora la situazione esistente, rappresenta un regresso, un

ritorno a condizioni arretrate, spesso provoca una vera ondata

reazionaria. In ogni caso, congiunto o meno al terrorismo,

l’estremismo procura vantaggi solo alle classi dominanti”71.

Per quanto riguarda l’Italia, “manifestazioni estremiste”

secondo Bravo avevano accompagnato la storia nazionale sin

dai primi mesi successivi all’Unità e, da allora, avevano

ininterrottamente costituito un filo rosso della cultura politica.

70

Ibid. pp. 13-14. 71

Ibid. p. 10.

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76

Tra di esse Bravo citava Bakunin e l’anarchismo, il

sindacalismo rivoluzionario, il fascismo, Bordiga, il nuovo

operaismo nato nella seconda metà degli anni cinquanta e

“tanta parte della nuova sinistra” sorta negli anni Sessanta72.

Premesso questo, Bravo considerava il terrorismo esploso alla

fine degli anni Sessanta e sviluppatosi successivamente come

la nuova “forma”, la nuova ed ultima espressione storica

dell’animo e del pensiero estremista. Nel suo volume del 1982,

L’estremismo in Italia, pubblicato con la casa editrice del PCI,

egli infatti scriveva: “le cause ideali dell’estremismo e del

terrorismo non sono soltanto nei decenni più recenti della

nostra storia. Resta infatti sempre forte la tradizione di

irrazionalità, la tendenza reazionaria che copre gran parte della

storia civile italiana, dal Risorgimento in poi. Resta costante il

pericolo di una democrazia gracile, che non è mai riuscita a

crescere, sempre soffocata, spinta indietro e mortificata dai ceti

reazionari”. Non a caso, a parlare per primi di “pandistruzione”

e di “soluzione finale” erano stati proprio Bakunin e gli

anarchici più accesi dell’Ottocento, poi i fascisti, poi i terroristi

di oggi. Franco Freda, il neonazista veneto, parla di

72

Ibid. pp. 20-66.

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77

“distruzione del sistema”, di eversione totale, e così parlano di

“distruzione del sistema” anche formazioni come quelle

dell’Autonomia e delle Brigate Rosse73. Il terrorismo-

estremismo italiano, accomunato da un medesimo modo di

pensare, appariva a Bravo come fenomeno unitario seppur con

colori diversi. Egli notava infatti: “sarebbe più esatto

denunciare la presenza in Italia di un unico estremismo, e

quindi di un unico movimento estremista, costituito da più

partiti armati alle dipendenze di diverse direzioni tattiche”. Ma

convogliato in un’unica direzione ideale. Dunque il movimento

estremista si ammanta, a seconda delle epoche, ora di rosso ora

di nero, e si suddivide in correnti, separate talora

organizzativamente ma convergenti nello scopo: la caduta

rovinosa del sistema democratico74.

Tra tutte le analisi effettuate “a caldo” per descrivere il

“soggetto terrorista” ebbero maggiore fortuna e diffusione

quelle di tipo sociologico. Tutte erano accomunate dal ritenere

che vi fossero in Italia alcuni particolari ceti sociali che

avevano trovato nel terrorismo, così come nella violenza

73

Ibid. pp. 79-80. 74

Ibid. p. 91.

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78

politica, uno strumento utile e a volte addirittura unico per

difendere e dare forza alle proprie posizioni. L’identità di

questi ceti era però interpretata in due modi diversi: il primo

sottolineava l’esistenza e la diffusione di un nuovo tipo di

lavoratore industriale75, il secondo e più diffuso riteneva di

interpretare il terrorismo e la violenza più in generale come la

manifestazione di ceti marginali. I due sociologi che ritennero

opportuno analizzare i meccanismi di emarginazione

all’interno della società italiana furono Statera76 e soprattutto

Ferrarotti, la cui posizione ebbe maggiore eco nel dibattito.

Egli fu fortemente critico verso ogni “lombrosiana”

spiegazione psicologica in chiave di aberrazione o di

disadattamento77, ritenendo che le origini della violenza

andassero individuate nella realtà sociale e nelle “condizioni

75

Per una sintesi di questa interpretazione, cfr. G. Pasquino, D. della Porta,

“Interpretations of Italian Left-Wing Terrorism’’, op. cit. p. 178. 76

G. Statera, “Violenza sociale ed emarginazione’’, in Id. (a cura di),

Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70, op. cit. pp. 15-

34. 77

Cfr. F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano: violenza comune e

violenza politica’’, in La violenza, perché, op. cit. p. 123 e Id. Alle radici

della violenza, Rizzoli, Milano, 1979, pp. 22-23, 45 e 91-92.

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materiali di vita”78. In una serie di interventi tra il 1977 e il

1978 e nel fortunato volume Alle radici della violenza,

pubblicato da Rizzoli nel 1979, Ferrarotti individuava le

ragioni ultime del boom di criminalità e del terrorismo

nell’Italia degli anni Settanta nelle “conseguenze della

trasformazione non orientata – selvaggia ‒ della società

italiana”79 e in primis nella presenza e nella crescita di nuovi

ceti marginali prodotti dall’incepparsi e dal rimanere

incompiuto del processo di industrializzazione e dalle

conseguenti “crisi di condizioni di vita e di valori” 80: la

tragedia attuale dell’Italia deriva dal semplice fatto che

l’industrializzazione italiana si è inceppata, che l’Italia è un

paese industriale solo a metà, sospeso fra un mondo contadino

che non c’è più e una cultura industriale che non c’è ancora. I

benefici indubbi dell’industrializzazione non arrivano a toccare

l’insieme della popolazione. Anzi, il processo di 78

F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano: violenza comune e

violenza politica’’, op. cit. p. 125. 79

Ibid. p. 131. 80

Quanto ad esse cfr. F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano:

violenza comune e violenza politica’’, op. cit. pp. 130-131; Id. Alle radici

della violenza, op. cit. pp. 141-143; Id. “Riflessioni e dati su dodici anni di

terrorismo in Italia (1969-1981)’’, in M. Galleni (a cura di), Rapporto sul

terrorismo, Rizzoli, Milano, 1981, pp. 436-437.

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industrializzazione produce lacerazioni gravi, approfondisce il

solco fra chi sta bene e chi sta peggio, fra chi ha lavoro

regolare stabile e protetto e chi non ce l’ha. Questo solco è più

grave, appare incolmabile in quelle situazioni in cui

l’industrializzazione è stata bloccata. Allora non c’è più

speranza per molti. I giovani devono affrontare un avvenire

incerto: il traffico fra le generazioni, che un tempo si svolgeva

con soddisfacente regolarità, è ora congestionato81. Sulle orme

di altri studiosi della “società marginale” egli parlava di

“società negativa” sostenendo: “non è tanto una ‘seconda

società’ quanto invece il risvolto negativo, la controparte e

insieme il ‘prodotto dialettico’ della società normale, razionale,

capace di progettare razionalmente il proprio avvenire”. E

aggiungeva: “è appena il caso di chiarire che, metafore a parte,

la “società negativa” è una società di disperati. La sua esistenza

è caratterizzata dalla cronica precarietà dei mezzi elementari di

sussistenza e dalla mancanza quasi totale di sistemi di

significato, di possibilità di partecipazione”. In “senso proprio”

81

F. Ferrarotti, Alle radici della violenza, op. cit. pp. 53-54.

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si trattava di “una società di esclusi”82. Scriveva Ferrarotti: “il

terrorismo è l’espressione d’una disperazione genuina di strati

sociali abbastanza ampi”, “un grido di allarme, un disperato

bisogno di venire riconosciuti, di esistere”: “la violenza rende

visibili” 83. Ciò era ancora più valido in relazione ai giovani

marginali. Essi – concludeva Ferrarotti ‒ da un punto di vista

culturale sono incapaci di una elaborazione teorica generale e

da un punto di vista economico non possono o non vogliono

entrare in questo mercato del lavoro che o li rifiuta o se li

accetta li reprime. Si danno allora alla sola possibilità che gli

resta aperta: cercano di rendersi visibili con la violenza, in

parte per sopravvivere e in parte per sfogare le loro pulsioni

elementari. In alcuni comportamenti criminali di giovani e

giovanissimi che psicologi, criminologi e sociologi denunciano

come privi di motivazione, io invece scorgo proprio questo:

che la violenza in apparenza gratuita è una specie di atto di

presenza84.

82

F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano: violenza comune e

violenza politica’’, op. cit. pp. 126-127. Cfr. anche Id. Alle radici della

violenza, op. cit. pp. 54-55. 83

F. Ferrarotti, Alle radici della violenza, op. cit. pp. 9 e 23. 84

Ibid. p. 15.

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82

Una diversa prospettiva della categoria della “emarginazione”

nel senso di condizione umana venne usata per spiegare

l’esplosione e la natura del terrorismo in alcune analisi di tipo

teoretico-filosofico. Gli emarginati erano quindi tutti coloro i

quali sentivano come repressa la propria condizione

“esistenziale” a causa del “desiderio” ed era in quest’ultimo

che andava rintracciata la radice profonda del diffondersi della

violenza terrorista. Il filosofo cattolico Pietro Prini sintetizzò

efficacemente questa interpretazione, convinto che sarebbe

stato “certamente un errore di miopia interpretare i vistosi

aspetti del fenomeno odierno della violenza senza riferirli ad

un modello teorico” che desse loro una “certa coerenza logica e

insieme una motivazione”. Individuò proprio nel “desiderio”

tale elemento unificante: “il tema del ‘desiderio’ ‒ sosteneva ‒

è diventato l’insegna comune non soltanto dell’intellighentia

radicale, ma anche delle tensioni e delle ossessioni di una larga

parte della contestazione del ‘68 e di quella di oggi, ancora più

esasperata di rabbia ‘allo stato selvaggio’ contro le istituzioni

di una società accusata di essere repressiva e alienante”. L’“ala

violenta del nuovo radicalismo”, proseguiva sempre Prini, era

sorta, in effetti, proprio sulla base di un’“ideologia freudiano-

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marxista” fondata sui concetti di “repressione” e di

“alienazione”. In particolare, in “questa ideologia della

violenza”, si accoglievano solo alcuni aspetti di Marx e di

Freud. Spiegava Prini: “di qui è avvenuto questo fenomeno

singolare del nostro tempo ‒ e di cui non si è forse ancora

misurata l’importanza sul piano politico ‒ che il desiderio, e

non più primariamente il bisogno, è esplicitamente proposto

come molla della rivolta, che non si configura più come

rivoluzione, ma come una insurrezione permanente contro ogni

vincolo sociale ed ogni imposizione statuale”. I “desideri” nei

quali andavano rintracciate le origini del terrorismo erano

quelli espressi violentemente da coloro che si sentivano per

vari motivi emarginati in questa o in quella “condizione” della

vita associata (e che si rifiutavano di rispettare “quella suprema

legge della convivenza civile, che è la compossibilità dei

desideri”). La “protagonista” di questa nuova “prospettiva

insurrezionale o della violenza distruttiva e intimidatoria” non

era pertanto più la “classe operaia, nel suo progetto di

liberazione dall’alienazione del lavoro e dunque dal bisogno

che attraverso il lavoro dovrebbe farsi spinta di umanizzazione

e incivilimento”, ma era invece la “condizione giovanile o

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84

femminile, civile o economica, etnica o razziale, o comunque

di tutti coloro che si riconoscono in una categoria sociale di

emarginati o repressi nella propria vitalità desiderante”.

Il secondo gruppo di ipotesi all’interno del dibattito scientifico

si basa sulla idea che la vera origine della violenza e del

terrorismo fosse da individuare in “malattie” o disfunzioni del

“sistema”. Da questo ne conseguiva che il terrorismo doveva

essere interpretato come il sintomo più inquietante della “crisi

italiana” e/o come una delle reazioni contro il

malfunzionamento e gli errori del “sistema”. Da questa

prospettiva, le diverse interpretazioni possono essere distinte a

seconda del “livello, o sfera” in cui individuavano le

“condizioni” determinanti per la nascita del terrorismo85. Al

primo livello culturale è riconducibile l’interpretazione che

vide nel terrorismo una risposta alla crisi dei valori tradizionali;

al secondo, che è quello politico, quella che spiegò il

terrorismo come una risposta al blocco del sistema. Per quanto

riguarda la prima interpretazione, il sostenitore più convinto è

85

G. Pasquino, D. della Porta, “Interpretations of Italian Left – Wing

Terrorism’’, op. cit. p. 180. Cfr. anche P. Feltrin, E. Santi, “Il Terrorismo di

sinistra: le interpretazioni’’, op. cit. p. 49.

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stato senza ombra di dubbio il sociologo Sabino Acquaviva con

il suo libro pubblicato nel 1979 dal titolo Guerriglia e guerra

rivoluzionaria in Italia. In quel volume, infatti, e in altri

contributi di quel periodo, Acquaviva individuava nel “rifiuto”,

nella “crisi”, o meglio, nel “collasso”, nella “disgregazione dei

valori dominanti”, 86 il punto iniziale e la condizione

fondamentale del meccanismo che aveva portato al terrorismo.

Egli sottolineava la crisi del marxismo ma soprattutto

l’importanza di quella dei “valori religiosi”87, di cui aveva già

86

S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano,

1979, pp. 16-17 e 28. 87

Secondo Acquaviva, la “crisi religiosa’’ era stata davvero cruciale ai fini

della nascita della rivolta e di una larga “disponibilità alla violenza’’ (S.

Acquaviva, “Terrorismo e guerriglia in Italia’’, in Id. Terrorismo e guerriglia

in Italia. La cultura della violenza, scelta antologica a cura di G. M.

Pozzobon, Città Nuova Editrice, Roma, 1979, p. 9): “la perdita dei valori

religiosi (normale nella nostra società), come dei significati ultimi

dell’esistenza, fa si che molti di coloro che soddisfacevano il loro bisogno di

totalità nella religione, oggi cerchino di soddisfarlo nell’ambito di

movimenti che danno questo senso di totalità’’ (S. Acquaviva, Guerriglia e

Guerra rivoluzionaria in Italia, op. cit. pp. 54-55). Si era cioè venuta a

creare una vera e propria “connessione psicologica fra l’assoluto religioso e

l’assoluto politico”che aveva “portato molti di coloro che militavano in

organizzazioni cattoliche, specie se tese al rinnovamento interiore e

sociale, a militare nelle organizzazioni rivoluzionarie’’ (S. Acquaviva,

“Terrorismo e guerriglia in Italia’’, p. 10).

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86

parlato nel libro Il seme religioso della rivolta88. Il processo

così avviato, attraverso la fase successiva dell’“elaborazione

ideologica di un modello di società alternativo rispetto a quello

esistente”89 e dell’“aggregazione di tipo ideologico dei

movimenti politico-culturali” in cui era cresciuta “l’ideologia

della guerriglia e del terrorismo”90, aveva dato luogo alla

formazione della violenza e del terrorismo in ragione anche di

altri “presupposti”(una “crisi socio-economica” che aveva

creato “disfunzioni nel sistema”91; l’esistenza di una

“predisposizione alla violenza politica radicata in una violenza

diffusa non ancora politica”92; lo scenario internazionale).

Secondo Acquaviva, “molto spesso” esistevano le “condizioni

economico-sociali per lo sviluppo della rivolta”. Tuttavia,

perché nascesse una “guerra rivoluzionaria”, era necessario

“una specie di “detonatore della rivolta”. Esso poteva essere

individuato nel processo di disgregazione e riaggregazione

88

S. Acquaviva, Il seme religioso della rivolta, Rusconi, Milano, 1979. 89

S. Acquaviva, [ intervento] in Terrorismo come e perché, tavola rotonda

con S. Acquaviva, L. Bonanate, G. C. Caselli, F. Mancini e F. Stame,

Mondoperaio, aprile 1979, p. 13. 90

S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, op. cit. p. 17. 91

S. Acquaviva, [ intervento ] in Terrorismo come e perché, op. cit. p. 13. 92

S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, op. cit. p. 28.

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sociale e culturale che sempre precede e accompagna la rivolta,

quale che sia la caratteristica che assume: terrorismo,

guerriglia, guerra rivoluzionaria. Infatti, perché si abbia una

rivolta armata più o meno efficace, bisogna che i valori di una

società siano almeno in parte rifiutati. In questo caso la

struttura di potere non è più giustificata e quindi accettata.

Bisogna inoltre che gli individui si aggreghino in gruppi che

facciano propri altri valori antagonisti rispetto a quelli

dominanti. Anche in Italia, come nella Russia di inizio

Novecento o nella Francia del XVIII secolo, si era “assistito a

una trasformazione” che aveva “creato le basi sociali della

rivolta armata prima, e le basi politiche e organizzative poi”.

L’interpretazione della violenza e del terrorismo come

manifestazione della crisi dei valori tradizionali era alla base in

quello stesso periodo del pensiero del filosofo cattolico della

politica Augusto Del Noce, la cui analisi differiva però

profondamente da quella di Acquaviva. Nel discorso di Del

Noce si possono individuare tre distinti momenti. Il primo,

riferito solamente al terrorismo di sinistra, si rifaceva alla

definizione del medesimo come manifestazione del “suicidio

della rivoluzione”. Del Noce sintetizzò così alcuni dei punti

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88

principali della sua interpretazione in una intervista del 1979

concessa a Giuseppe Dall’Ongaro: La “nostra” violenza, o per

lo meno quella che si manifesta con maggiore asprezza, si

alimenta nell’area della cosiddetta Autonomia. E l’Autonomia,

a sua volta, è il prodotto di un incontro tra orfani. Nell’area di

Autonomia sono confluiti gli orfani del comunismo e gli orfani

della contestazione. In Italia c’è il più forte Partito Comunista

dell’Occidente. A mano a mano che questo partito si è

avvicinato, su posizioni legalitarie, alle strutture del potere, a

mano a mano che ha perduto (o è parso perdere) le sue

caratteristiche rivoluzionarie, è aumentata la frangia degli

scontenti, dei delusi, di quelli che si sono sentiti abbandonati,

traditi. A questi si sono affiancati gli orfani della contestazione

giovanile, del movimento studentesco del ‘6893. Questo

“tradimento”, così come il più generale “conflitto” tra Partito

comunista e ultrasinistra terroristica, rivelava un articolato

processo culturale che il filosofo riassumeva con l’espressione

“suicidio della rivoluzione”. All’inizio del suo volume del

1978 con questo stesso titolo, dedicato ad un’analisi del

93

G. Dall’Ongaro, ’’I terroristi sono solo dei sadici’’, Gente, 28 dicembre

1979, pp. 37-38.

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fenomeno rivoluzionario, Del Noce osservava che l’“idea

rivoluzionaria” consisteva sempre ne “l’unità di due momenti,

il negativo come devalorizzazione dell’ordine tradizionale dei

valori, e il positivo come instaurazione di un ordine nuovo”. “Il

suicidio” avveniva, quindi, se “nel processo della realizzazione

i due momenti” si scindevano94. Negli anni Settanta in Italia

era avvenuto esattamente questo. Del Noce era quindi convinto

che la “scissione”95 e la “decomposizione” dell’idea

rivoluzionaria (e dunque il “suicidio della rivoluzione”96)

rappresentassero la ragione principale dell’esplosione del

terrorismo di sinistra. Sempre nel 1978 egli rifletteva: Il Partito

Comunista si presenta come forza d’ordine venendo a

compromesso con le forze esistenti. Il che emargina l’aspetto

eversivo dei rivoluzionari. D’altra parte il rivoluzionario attuale

‒ quello, per intenderci, delle Brigate Rosse ‒ non ha carte

ideali da contrapporre a questo processo. La rivoluzione allora

94

A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978, p. 6. Cfr.

anche quanto dichiarò Del Noce nell’intervista a F. Perfetti, “Le radici della

dissoluzione”, Il Settimanale, 31 maggio 1978, p. 44. 95

A. Del Noce, “La critica all’idea di Rivoluzione è oggi l’unica rivoluzione

culturale necessaria’’ (1978), ora in Scritti di Augusto Del Noce, Circolo

Stato e Libertà, Roma, 1978, p. 74. 96

F. Perfetti, “Le radici della dissoluzione”, op. cit. pp. 44-45.

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si decompone: da una parte il compromesso e dall’altra

l’assassinio fisico97. Da questo ne discende che in fondo –

concludeva Del Noce ‒ il “carattere principale” del brigatismo

(e l’attentato contro Moro confermava questa analisi) era

proprio “quello della opposizione della rivoluzione al

compromesso, della rivendicazione della rivoluzione nei

confronti del compromesso”: ma questa stessa rivendicazione

che cos’altro è se non un aspetto del processo decompositivo

della rivoluzione? Infatti per un verso la rivoluzione rientra

nell’ordine, per l’altro verso si risolve nel terrorismo. Ad un

compromesso di vertice corrisponde un compromesso di

“sottosuolo”. Quest’ultimo è privo di una sua base ideologica,

anche se avverte la morte della rivoluzione, e non può

esprimersi che nell’assassinio. Non è in grado di oltrepassare

questa soglia. E tutto ciò non fa altro che confermare la

decomposizione dell’idea rivoluzionaria, il suicidio insomma

della rivoluzione98.

97

Ibid. p. 45. 98

Ibid. Cfr. anche A. Del Noce, “La critica all’idea di Rivoluzione è oggi

l’unica rivoluzione culturale necessaria’’, op. cit. pp. 73-75.

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Era tuttavia necessario secondo Del Noce individuare anche

altre ragioni e condizioni che avevano contribuito in maniera

essenziale a definire specificatamente la violenza terrorista

esplosa negli anni Settanta. Il discorso di Del Noce, quindi,

andava oltre il brigatismo rosso. Il secondo livello dell’analisi a

differenza del primo si muoveva su un piano esclusivamente

filosofico. Il punto di partenza di quest’interpretazione

“transpolitica” della violenza era la constatazione di quello che

Del Noce definiva come il “crollo”, la “caduta” dell’“etica

tradizionale”99: “l’esperienza comune – scriveva ‒ dice che

oggi è scomparsa quella che per i metafisici era una legge

dell’essere, per i filosofi laici una forma eterna dello spirito,

l’etica”100. Del Noce si riferiva al “rifiuto” della “laica morale

kantiana”101, le origini del cui “congedo” risalivano ai primi

anni Sessanta. L’esplosione della violenza andava capita alla

luce di questo processo. Una “semplicissima, e tuttavia

generalmente inosservata, considerazione terminologica”

mostrava, del resto, la “legittimità” di questa ipotesi: “qual è ‒

99

G. Dall’Ongaro, ’’I terroristi sono solo dei sadici’’, op. cit. p. 38. 100

A. Del Noce, “Lenin non fu un ‘giacobino’’’, Prospettive nel mondo,

settembre-ottobre 1978, p. 12. 101

Ibid.

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si chiedeva Del Noce – l’esatto contrapposto linguistico del

termine ‘violenza’ se non quello di ‘rispetto’? E tutti sanno

quanta parte abbia il ‘rispetto’ nelle due maggiori opere di

morale dei tempi moderni, la Critica della ragion pratica di

Kant e i Principi di scienza morale di Rosmini”102. Secondo

Del Noce, la “liquidazione dell’etica” tradizionale era

all’origine non solo della violenza tout court, quanto

soprattutto di quella da lui definita come “violenza

rivoluzionaria”: “la nobilitazione della violenza è legata

all’idea filosofica di rivoluzione totale, cioè come passaggio

dal regno della necessità al regno della libertà, in una realtà

qualitativamente ‘totalmente altra’; passaggio che implica una

frattura radicale, necessariamente violenta, con la storia sinora

trascorsa. La rivoluzione non potrà perciò avvenire in nome dei

principi etici tradizionali, perché essi, o sono parole vuote

(giustizia, libertà) o legittimazioni-mistificazioni dell’ordine

esistente. L’idea di rivoluzione totale importa la liquidazione

dell’etica. Il pensiero in termini di violenza succede a questa

102

A. Del Noce, “Violenza e secolarizzazione della gnosi’’, op. cit. p. 196.

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liquidazione”103. La crisi dell’etica aveva quindi costituito la

premessa della violenza “rivoluzionaria” e “creatrice”104.

Tuttavia la vera “radice” di essa andava individuata ancora più

lontano: “nella riaffermazione della struttura di pensiero

gnostico”105 e in particolare, nell’emergere di un nuovo

gnosticismo, di una “riaffermazione della gnosi dopo il

cristianesimo”106, di una “gnosi rivoluzionaria” che intendeva

“la seconda creazione come creazione di un mondo nuovo” e

costruiva l’orizzonte di radicale rifiuto della società attraverso

il concetto di “rivoluzione totale”107: “All’atteggiamento

ascetico di liberazione dal mondo si sostituisce l’atteggiamento

rivoluzionario della violenza creatrice. In una prospettiva

storicistica, oggetto del rifiuto appare cioè una determinata

realtà storica, e alla disposizione pessimistica si sostituisce

l’attivistico-volontaristica. In conclusione, noi dobbiamo dire

che viviamo nel periodo della decomposizione della nuova

103

A. Del Noce, “Il problema filosofico della violenza’’, in Violenza. Una

ricerca per comprendere, op. cit. pp. 8-9. 104

Ibid. pp. 9 e 12. 105

Ibid. p. 10. 106

A. Del Noce, “L’insidia gnostica’’, in Ordine e disordine. Settimo incontro

romano (1979), Volpe, Roma, 1980, p. 164. 107

Ibid. p. 165.

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gnosi, e che la nuova valutazione della violenza è la più

sensibile espressione della riaffermazione della gnosi, contro il

pensiero classico e contro il pensiero cristiano insieme”108. Del

Noce aggiunge infine un terzo e ultimo tassello alla sua analisi:

quello del “sadismo”. Egli osservava che,

“contemporaneamente al crollo dell’etica tradizionale,

dell’etica kantiana-religiosa”, si avvertiva “un rinnovato

interessamento per Sade e la sua opera”. Sade veniva

“riscoperto come ‘maestro’, come un indagatore delle realtà

oscure latenti nella coscienza umana”. Secondo Del Noce a

promuovere questa “riabilitazione” e a far riscoprire, anche a

livello delle masse, il sadismo era stata soprattutto una certa

“cultura di tipo radical-chic”. Da questa “componente nuova”

ne discendeva la qualità e il particolare tipo di violenza

“affermatasi con la caduta dell’etica, con la caduta del

“rispetto”. Era stata infatti questa “componente sadica” che

aveva influenzato il “carattere specifico” della violenza

esercitata dai terroristi e che aveva generato la dura “ferocia”

da essi mostrata109. Tra le interpretazioni che collegavano

108

A. Del Noce, “Il problema filosofico della violenza “, op. cit. p. 12. 109

Ibid.

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l’origine del terrorismo “alle condizioni” e alle “disfunzioni”

della “sfera politica”110 quella che legava il terrorismo al

blocco del “sistema” fu quella più diffusa. Tra i primi a

sostenerla, da metà anni Settanta, ci fu il politologo Giorgio

Galli111, seppur a livello embrionale e riferendosi

esclusivamente alla destra radicale. Negli anni seguenti, essa

sarebbe stata sostenuta molto frequentemente e con sfumature

diverse nella discussione politico-giornalistica. A formularla in

maniera più rigorosa ed elaborata fu il politologo

dell’Università di Torino Luigi Bonanate autore di una serie di

interventi apparsi tra il 1977 e il 1983. In uno di essi Bonanate

spiegava la sua posizione in questo modo: “Se si confrontano i

110

Ibid. p. 181. 111

Cfr. G. Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Mondadori,

Milano, 1974, pp. 19 ss. Cfr. a tal proposito anche quanto ha osservato G.

Pasquino, “Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo: ipotesi e

prime verifiche’’, in Id. (a cura di), La prova delle armi, op. cit. pp. 209-210.

Negli anni successivi, nelle sue “Opinioni’’ apparse sul rotocalco Panorama

(e poi, più compiutamente, nel 1986 in Il Partito armato), Galli avrebbe

esteso la sua interpretazione anche al terrorismo di sinistra. Cfr. F.

Mancini, Terroristi e riformisti, Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 52-53 (e anche

l’analisi elaborata dallo stesso Mancini in questo volume rientra per molti

aspetti nel filone interpretativo del “sistema bloccato’’: cfr. G. Pasquino,

“Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo’’, op. cit. p. 179) e la

testimonianza dello stesso Galli, in Il partito armato, Kaos, Milano, 1993 (1°

edizione 1986), p. 368.

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diversi focolai terroristici nel mondo e nella storia (intendo il

terrorismo in modo comprensivo di tutti i suoi tipi) è

difficilissimo, se non impossibile, scoprire corrispondenze

univoche, rapporti certi di causa-effetto: i più diversi tipi di

Governo hanno fatto del terrorismo, modelli di società opposti

hanno suscitato terrorismo analoghi; la stessa storia del sistema

internazionale, pur nel mutare delle sue fasi strutturali, non è

esente da episodi terroristici. Ora, la sola generalizzazione che

sembra accomunare fenomeni così disparati è quella che

considera il terrorismo come insorgenza sintomatica di una

situazione bloccata, sia a livello interno sia a livello

internazionale. Che il terrorismo venga considerato sintomo

che qualcosa non va può esser giusto, ma è anche ovvio: il fatto

è piuttosto che la funziona sintomatica dell’apparizione della

fattispecie terroristica preannuncia l’esistenza di una situazione

di blocco, che altrimenti avrebbe potuto essere giudicata ancora

normale (apparentemente). Se non implicasse troppo il

riferimento alla malattia (e il terrorismo non lo è), si potrebbe

dire che l’apparizione del terrorismo consente una sorta di

“diagnosi precoce”. Di che? Del fatto che un determinato

assetto strutturato (sia una società statuale, sia il sistema

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internazionale, nel complesso, o nei suoi sottosistemi) sta

avvicinandosi, o è già entrato, in una fase di blocco, cioè di

incapacità a svolgere i suoi compiti se non in modo ripetitivo,

di rinnovarsi adeguandosi a nuove esigenze o nuovi stimoli, di

svilupparsi e di autoregolarsi. La situazione di blocco sarebbe

in altri termini quella di un sistema che ha talmente consolidato

le sue basi, la sua organizzazione strutturale, da non consentire

alcuna innovazione, di quale tipo che sia. Il terrorismo è allora

un sintomo non di un prossimo collasso, ma al contrario (e

allora non è più ovvio) del fatto che il sistema in questione è

entrato in una fase di immobilità autoperpetuantesi, che invece

di intaccarne la solidità (almeno a breve o medio termine) lo

rende talmente solido che riesce a neutralizzare qualsiasi

attacco”112.

“Il terrorismo – notava Bonanate intervenendo a una tavola

rotonda organizzata dalla rivista del PSI Mondoperaio ‒ si

112

L. Bonanate, “Dimensioni del terrorismo politico”, in Id. (a cura di),

Dimensioni del terrorismo politico, op. cit. pp. 176-177. Cfr. anche Id.

“Terrorismo, lotta politica e violenza’’, op. cit. pp. 37-38. Un ulteriore

approfondimento dell’ipotesi (in relazione anche allo specifico caso

italiano), attraverso soprattutto la specificazione del “nesso blocco-

governabilità’’, sarebbe stato elaborato da Bonanate nel già ricordato

saggio del 1983 “Terrorismo e governabilità’’.

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caratterizza proprio per la sua mancanza di autonomia e di

originalità. È sempre una risposta, mai un intervento

spontaneo”113. Nel 1979, in un ampio saggio dedicato alle

“Dimensioni del terrorismo politico”, Bonanate applica la sua

interpretazione generale al caso specifico del terrorismo

italiano esploso negli anni Settanta. Egli definisce infatti anche

quello italiano come un sistema politico “indistruttibile”, “con

una classe dirigente solidissima non soltanto perché non si

ricambia, ma piuttosto perché riesce ad assorbire qualsiasi

innovazione”. Bastava pensare nel caso italiano “alla capacità

della classe politica democristiana di assorbire il centrosinistra,

senza che la politica delle riforme facesse sostanziali

progressi”, oppure “al processo del compromesso storico che,

certo, può essere considerato come una grande prova di

flessibilità e dinamicità del sistema, ma forse anche del suo

contrario: e cioè la neutralizzazione della più grande forza

teoricamente anti-sistema esistente in Italia, il PCI” 114. Anche

113

L. Bonanate, [intervento] in Terrorismo come e perché, tavola rotonda

con S. Acquaviva, L. Bonanate, G. C. Caselli, F. Mancini e F. Stame,

Mondoperaio, aprile 1979, p. 14. 114

L. Bonanate, “Dimensioni del terrorismo politico”, in Id. (a cura di),

Dimensioni del terrorismo politico, op. cit. p. 177.

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l’interpretazione del sociologo Alberto Melucci è basata

sull’ipotesi di un legame fondamentale tra terrorismo e sistema

bloccato pur differendo in alcuni aspetti fondamentali rispetto a

quella di Bonanate. Melucci infatti dava più importanza al

rapporto tra sistema bloccato e società in movimento

sottolineando l’importanza di prendere in considerazione, per

la prima volta in relazione al caso italiano, insieme al sistema

politico anche un altro elemento: i movimenti sociali (o

collettivi). Melucci individuava quattro elementi fondamentali

per comprendere i risultati dei processi collettivi negli anni

Settanta e soprattutto la “crisi” e “lo sviluppo dell’azione

collettiva verso la violenza, fino all’esito del terrorismo”115.

Questi elementi erano:

1) La crisi economica internazionale che aveva colpito “tutti i

paesi capitalistici” e che in Italia aveva trovato un terreno

115

A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni

individuali, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 115.

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particolarmente adatto rendendo più numerosi i suoi “effetti

dirompenti”116;

2) L’istituzionalizzazione delle forze di sinistra, comprendendo

partiti e sindacati;

3) La “chiusura” del sistema politico e la sua “incapacità di

dare risposta a nuove domande collettive, sempre più

generalizzate”(con la conseguente “mancanza” per le

“domande conflittuali” di “sbocchi” e di “canali istituzionali

per esprimersi”)117;

4) La “duplice distorsione nel processo di modernizzazione e

formazione dei movimenti”118.

Melucci partiva dagli avvenimenti del 1968 (cioè dall’insieme

dei fenomeni politici e sociali che questo anno simbolizza).

Essi avevano rappresentato “il primo momento di congiunzione

tra un importante processo di modernizzazione del paese e

l’apparizione embrionale di nuovi movimenti antagonisti”.

116

Ibid. p. 113. 117

A. Melucci, Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli,

Milano, 1977, pp. 157 e 166. 118

A. Melucci, L’invenzione del presente, op. cit. p. 113.

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“All’origine del ciclo di lotte iniziato nel ‘68” vi erano stati in

particolare “due tipi di domande”: “domande di

modernizzazione” che accompagnavano “il passaggio della

società italiana verso il capitalismo maturo” e “domande

antagoniste legate alla formazione embrionale di nuovi conflitti

di tipo post-industriale”119. Convinto che fosse necessario

“analizzare gli eventi in chiave di sistema e non come pura

sequenza, mostrando i nessi che legano domande, risposte e

effetti”120, Melucci analizzava quali fossero state le “risposte di

sistema” (“sotto l’angolo del sistema politico”) all’“emergere

di nuove domande collettive”. Sul “versante istituzionale o

della capacità di governo”, egli vedeva tre risposte principali.

La prima era stata la “riforma restrittiva”: il mutamento

istituzionale, le riforme che vengono dal sistema politico, sono

sempre l’effetto di forti processi conflittuali e non di una

dinamica autonoma di innovazione. Le riforme sono concesse

solo come ultima ratio e nella misura più restrittiva possibile.

Ne consegue un andamento discontinuo, parziale, saltuario, dei

processi di modernizzazione, che difficilmente arrivano ad

119

Ibid. pp. 99-100 e 127. 120

Ibid. p. 129.

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intaccare la logica profonda delle istituzioni a cui si applicano.

Questo uso riduttivo dell’intervento di riforma produce spesso

una sovrapposizione del nuovo sul vecchio, che si risolve in un

aggravio dei problemi invece che in una loro soluzione.

Secondo Melucci la “repressione” era stata la “risposta più

abituale del sistema politico, soprattutto nella fase di

formazione delle domande collettive”, mentre la terza risposta

era rappresentata dall’ “uso strumentale della violenza di

destra” e del “terrorismo fascista”121. Per “completare il quadro

delle risposte di sistema” occorreva per Melucci considerare

anche il “potenziale di rappresentanza che alle domande

emergenti ‘era stato’ offerto dalle forze politiche di

opposizione, che avrebbero dovuto o potuto esserne interpreti”.

“Le risposte su questo versante” gli apparivano sintetizzabili

“come iper-politicizzazione e come sotto-rappresentanza”,

rispettivamente, da parte della “nuova sinistra” e del PCI. Le

organizzazioni della nuova sinistra, che erano state “in qualche

modo l’unico canale di rappresentanza diretta delle nuove

domande”, le avevano “costrette entro un quadro organizzativo

e ideologico” che aveva fatto “dello scontro con lo stato

121

Ibid. pp. 108-109 e 127.

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l’obiettivo principale delle lotte”. Si era avuta, pertanto, in

questo caso una “trascrizione delle domande in termini

rigidamente politici (leninisti), anche laddove queste si erano

radicate nei problemi della “società civile” e della vita

quotidiana”. Le risposte istituzionali avevano “prodotto una

focalizzazione di tutte le energie conflittuali sulla inefficienza

degli apparati di stato e sul blocco del sistema politico”. “Da

parte del PCI” si doveva invece parlare di vera e propria “sotto-

rappresentanza”. Il PCI aveva infatti “dapprima ignorato il

potenziale di innovazione rappresentato dai nuovi attori

conflittuali (che si era espresso nel voto a sinistra delle elezioni

politiche del 1968)”, poi ne aveva “raccolto i frutti in termini

prevalentemente strumentali, rifiutando tuttavia di dare

riconoscimento e legittimità ai contenuti e agli attori di nuovi

conflitti”. Per quanto concerneva il PCI (e i sindacati), Melucci

individuava nel processo di “istituzionalizzazione” il motivo

fondamentale per comprendere l’adesione di molti militanti al

terrorismo. Sul fronte dei “movimenti sociali” che avevano

“reso questa istituzionalizzazione possibile”, questa aveva

infatti portato a un “effetto inevitabile di creazione di residui”.

“Le aspettative mobilitate nella fase delle lotte” non erano state

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“soddisfatte dalla conclusione ‘realistica’ all’interno dei canali

istituzionali”. Il risultato “inevitabile” era stato che si arrivasse

a “frange di militanti delusi” che facevano “appello alla

purezza originaria del movimento” e che lottavano contro il

“tradimento” degli obiettivi iniziali122. In un contesto di crisi

internazionale queste “risposte di sistema” alle domande poste

dai nuovi movimenti antagonisti avevano portato, per Melucci,

a tre “effetti”123. Il primo era una “modernizzazione distorta”:

gli effetti della modernizzazione avviata dalle lotte della fine

degli anni Sessanta erano stati “progressivamente” deformati

dalla “chiusura e dalla inefficienza del sistema politico”, così

come di “una élite arroccata nella difesa dello status quo”,

nonché dai “processi disgregativi legati alla crisi economica” e

dalla “risposta riduttiva e/o repressiva alle domande

emergenti”124. L’“effetto di distorsione”125 aveva coinvolto

anche l’evoluzione dei movimenti. “Come il processo di

modernizzazione fallisce nella sua portata più ampia,

caricandosi di tutte le contraddizioni di una società bloccata e

122

Ibid. pp. 111-115. 123

Ibid. p. 128. 124

Ibid. p. 103. 125

Ibid. p. 108.

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dipendente, così anche la formazione di nuovi movimenti viene

gravemente marcata dalle specifiche condizioni in cui si

realizza. Intrecciati con le spinte alla modernizzazione e

costretti a misurarsi con la chiusura sempre più rigida del

sistema politico, i nuovi contenuti antagonisti si trovano

progressivamente deviati verso la necessità di resistere alla

repressione, di lottare per l’apertura delle istituzioni, di

difendersi dalla violenza di destra e dall’oscuro disegno delle

trame nere. Immobilizzati sul terreno difensivo e angusto della

lotta contro la chiusura delle istituzioni e contro il disfacimento

del sistema politico, i contenuti emergenti dei nuovi movimenti

non vengono riconosciuti nella loro portata innovativa e si

trovano respinti al ruolo di fenomeni residuali”126. Un secondo

“effetto di sistema” era stato, per Melucci, la “trasformazione

dell’azione collettiva”. Le principali “vie” di tale

trasformazione erano state “l’istituzionalizzazione, in

particolare nella forma di selezione e ricambio di un personale

politico modernizzante per le organizzazioni di sinistra; e la

decantazione di nuove domande antagoniste legate

126

A. Melucci, “Appunti su movimenti, terrorismo, società italiana”, Il

Mulino, 256, 1978, p. 258.

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all’identità”127. Terzo, ed ultimo, effetto di sistema era stato la

“decomposizione” dell’azione collettiva. Il terrorismo aveva

rappresentato la “risposta collettiva” più significativa e

drammatica alla decomposizione dei movimenti. In questa

ottica esso era stato, “paradossalmente”, la “filiazione”, il

“risultato più radicale e l’antitesi più profonda dei nuovi

movimenti antagonisti” a cui era stato “impedito di esprimersi

sul loro terreno proprio “e che erano “stati progressivamente

spinti a misurarsi con le contraddizioni di una società

bloccata”128.

Un secondo filone minoritario di questa prima discussione

scientifica sul terrorismo in Italia fu rappresentato dalle analisi

storiografiche che volevano elaborare un’indagine

metodologicamente diversa da quella delle scienze sociali,

raggiungendo in questo modo risultati più complessi. La

spiegazione del terrorismo (di entrambe le matrici) in chiave di

“blocco del sistema” venne formulata nel biennio ‘80-‘81

127

A. Melucci, L’invenzione del presente, op. cit. pp. 127 e 129. 128

Ibid. pp. 116 e 118.

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anche da Nicola Tranfaglia129 uno dei primi storici che si

concentrò sul fenomeno: egli rintracciava nel caso italiano tutte

le principali componenti che di solito rendevano “bloccato” un

sistema politico e cioè mancato ricambio delle autorità, assenza

di alternanza partitica, fallimento del riformismo e infine

fenomeni di mutamento socio-economico130. Tranfaglia, pur

condividendo e accettando l’interpretazione del terrorismo

come risposta, elaborata da Bonanate131, ne elaborò una

versione originale e non monocausale in cui l’“elemento

essenziale di catalizzazione”, rappresentato dalla “situazione di

blocco”, veniva analizzato insieme a un gruppo di altre “cause

e circostanze legate alla storia italiana nel lungo periodo e

129

N. Tranfaglia, “Radici storiche e contraddizioni recenti nella crisi

italiana’’, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana. Crisi di un

sistema, Franco Angeli, Milano, 1981, pp. 21-38 (si tratta del testo

dell’intervento che Tranfaglia svolse nel corso del convegno di studio

tenutosi presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova nel

maggio del 1980) e N. Tranfaglia, “La crisi italiana e il problema storico del

terrorismo’’, in M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, op. cit. pp.

477-544. 130

Riprendo questa sintesi delle componenti principali della “teoria’’ del

“sistema bloccato’’ da G. Pasquino, “Sistema politico bloccato e insorgenza

del terrorismo’’, op. cit. pp. 180-183. 131

Oltre a quanto avrebbe osservato in “La crisi italiana e il problema

storico del terrorismo’’ (alle pp. 517-518), cfr. anche N. Tranfaglia, “Radici

storiche e contraddizioni recenti nella crisi italiana’’, op. cit. pp. 35-36.

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all’incontro tra una certa tradizione dei movimenti

rivoluzionari del ventesimo secolo e le grandi aspettative del

‘68” 132.

La tesi di Tranfaglia vedeva un nesso essenziale tra

l’esplosione dei terrorismi e la “crisi italiana”. L’origine della

crisi, secondo lui, andava individuata nella frantumazione del

centrismo e soprattutto nel fallimento dell’esperienza

riformatrice del centrosinistra (giudizio assai diffuso tra i

sostenitori della tesi del blocco del sistema). A una

significativa “rivoluzione economica e sociale”, evidente

almeno fino al 1962, non aveva “corrisposto una ‘rivoluzione’

politica ma neppure una risposta della classe dirigente e in

generale dei partiti politici tale da attenuare il divario crescente

tra società politica e società civile”. In questo particolare

contesto andava compresa l’esplosione del terrorismo.

Tranfaglia individuava una serie di cause “importanti”,

essenziali per dare una spiegazione storica del fenomeno: la

crisi economica dei primi anni Settanta, con la conseguente

disoccupazione giovanile; lo sviluppo di un marxismo-

132

N. Tranfaglia, “La crisi italiana e il problema storico del terrorismo’’, op.

cit. pp. 517-518.

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leninismo dai “caratteri fortemente soggettivi e messianici”;

altri fattori culturali legati alla tradizione ideologica della

sinistra italiana e ai nuovi valori emersi col ’68 (l’ “ottimismo

rivoluzionario” e la questione della violenza); la divisione delle

forze di sinistra e la “diaspora”, il “succedersi continuo di

scissioni e scontri all’interno dei gruppi della sinistra

parlamentare”; l’ “iniziata attuazione del “compromesso

storico” che, coincidendo con la “crisi mortale delle maggiori

organizzazioni della sinistra extraparlamentare e l’allargarsi

dell’area autonoma”, aveva avuto “anche l’effetto di far trovare

migliaia di giovani avversi più o meno confusamente al

“sistema dei partiti” senza nessun referente politico con il quale

fare i conti e dal quale ricavare indicazioni di condotta”; infine,

il “timore d’una drastica svolta di destra” e di una involuzione

autoritaria133. Tutti questi elementi tuttavia per quanto

importanti costituivano per Tranfaglia solo delle cause minori.

La “causa centrale” andava rintracciata infatti nel carattere

bloccato del sistema. Da un lato infatti veniva evidenziata

l’incapacità tradizionale della classe politica di saper fornire

risposte adeguate ai processi socio-economici in corso e il

133

Cfr. ibid. pp. 488-536.

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110

“divario radicale” tra questa e il paese che si era ancor più

allargato nel biennio ’69-’70. Dall’altro veniva evidenziato il

carattere bloccato del sistema politico, che spingeva a una vera

e propria “disperazione da immobilismo”. Di conseguenza le

cause (e la responsabilità) del terrorismo andavano individuate

più sul piano oggettivo delle condizioni, che sul piano

soggettivo della scelta dei terroristi134. Tranfaglia concluse il

suo contributo del 1981 in maniera critica nei confronti di chi

ipotizzava che il fenomeno terroristico fosse uno strumento o

addirittura una creazione di potenze straniere. Pur non

escludendo infatti che, di fronte al possibile ingresso del PCI al

governo, si fossero mobilitati “corpi separati” e servizi segreti

italiani e fosse ritenuto, pur senza indizi, che fosse possibile

134

Ancora qualche anno dopo, Tranfaglia ribadì con chiarezza: “A rendere

possibile l’esito terroristico hanno concorso […] innanzitutto la risposta

insufficiente della classe dirigente, che tra l’altro ha mostrato per anni una

colpevole tolleranza di fronte a fenomeni di violenza diffusa nelle fabbriche

e nelle scuole (non parliamo qui del ’68 ma di quello che accade dal ’71 al

’75) e poi la situazione di blocco del sistema politico italiano che la scelta

comunista del “compromesso storico’’ non ha superato ma semmai

aggirato, creando a sua volta un vuoto a sinistra, nell’opposizione, che ha

disorientato migliaia di militanti del movimento e ha avallato la sensazione

[…] di una situazione chiusa, senza più spazio per chi fosse al di fuori di

quella logica’’ (N. Tranfaglia, “Percorsi del terrorismo. Il ’68, i ‘gruppi’ e la

crisi degli anni Settanta’’, op. cit. p. 36).

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111

“che i servizi segreti dell’una e dell’altra coalizione”, e quelli

dei paesi che all’una e all’altra si richiamavano “pur essendone

formalmente fuori”, avessero teso “a mobilitarsi proprio in

questo momento” e avessero individuato “nelle Brigate rosse

un interlocutore privilegiato al quale fornire aiuti nella

prospettiva comune di fermare la ‘marcia’ del PCI nelle

istituzioni e di mantenere la situazione nel vecchio equilibrio

caratteristico di tutto il dopoguerra”, Tranfaglia rifiutava

ipotesi che individuassero le origini e lo stesso sviluppo del

terrorismo rosso principalmente in iniziative o complotti di

centrali straniere. Altri due storici dell’Università di Padova,

Severino Galante e Angelo Ventura, dedicarono studi al

“problema storico del terrorismo italiano”. I loro lavori erano

molto diversi da quelli di Tranfaglia e da quelli di quasi tutti gli

scienziati sociali protagonisti in quegli anni. Mentre infatti da

una parte ci si muoveva su un piano interpretativo cercando

una spiegazione complessiva del fenomeno terroristico,

Galante e soprattutto Ventura preferirono un taglio ricostruttivo

e si concentrarono sulle origini (soprattutto ideologiche) dei

terroristi, in particolare quelli di sinistra.

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112

Galante si propose di ricostruire le “origini” del “partito

armato”, ovvero – come scriveva – di quel “peculiare soggetto

partitico” che aveva teorizzato e praticato “l’intera gamma

della violenza politica – psicologica e fisica – come

fondamentale forma di lotta per il conseguimento dei suoi fini

tattici e strategici”. Di conseguenza egli cercò di svolgere

un’indagine esaminando sia le analisi teoriche, che avevano

“generato la scelta di caratterizzare in termini militari un

intervento politico nello specifico contesto italiano”, sia “la

singolare struttura organizzativa” della quale si era “avviata la

costruzione in virtù di quella scelta”. Da ciò risultava evidente

che “tra tutti gli spezzoni teorici, politici e organizzativi

dell’estremismo di sinistra i quali, all’inizio degli anni Settanta

“avevano imboccato” la strada della lotta armata “era stato

principalmente” il gruppo di Potere operaio” quello che aveva

“occupato indubbiamente un posto di particolare rilievo tanto

per la relativa dignità della dimensione analitica quanto per lo

sforzo innovativo sul terreno della tematica organizzativa”. Ciò

non voleva dire “ridurre alla matrice esclusivamente operaista

una realtà politica” come il “partito armato”, ma tuttavia

appariva indubbio a Galante che proprio in Potere operaio

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113

andasse individuata “la componente più qualificante e originale

di tale realtà, quella dotata di maggiore potenziale espansivo e

di più consistente radicamento in strati non infimi né secondari

della società italiana”.

L’analisi di Galante si concentrò sulla fase di incubazione del

“partito armato”. Egli individuò così sin dall’inizio, sulla base

dell’esame degli organi di stampa di Potere Operaio, la

presenza di un legame essenziale tra idea di abbattimento dello

Stato, violenza, organizzazione e partito, un nesso che

affondava le radici nella peculiare “diagnosi sulla crisi italiana

compiuta dai capi operaisti” e che era alimentato da essa. ”Fin

dagli inizi”– sosteneva Galante ‒ quello della violenza (anche

di tipo “offensivo”) aveva rappresentato un tema “ben presente

nella teoria e nella pratica del gruppo”: gli “operaisti scelsero

di giocare tutte le loro possibilità sulla carta della violenza”.

Nella sua ricostruzione già nel dicembre del 1970, “l’elemento

della violenza politica” (non più solo “sociale”) aveva assunto

“un ruolo centrale nella strategia di Potere operaio”, il quale

aveva proclamato “allora apertamente, per la prima volta,

l’obiettivo di costruire il “partito dell’insurrezione”, definendo

“discriminante e decisiva” la scelta della “violenza

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rivoluzionaria”. E questa scelta non era stata, “fin d’allora”,

“né frutto di esasperata rivolta morale alla violenza del sistema

né, tanto meno, inevitabile reazione difensiva di fronte agli

attacchi antidemocratici delle ‘trame nere’”; né questa scelta

era stata giustificata nel nome di alcuna motivazione razionale.

Anzi: anche quando la violenza era presentata come strumento,

essa non appariva uno strumento, bensì lo strumento della lotta

politica: assolutizzato. Ancora metafisica, dunque. Per gli

uomini di Potere operaio la violenza andava, comunque, più

che giustificata, organizzata. E qui emergeva il nesso

essenziale tra idea di abbattimento dello Stato, violenza,

organizzazione e partito. Proprio questa necessità di

“organizzare” la violenza, aveva indotto infatti diversi

importanti esponenti di Potere operaio, già nel 1971, a vedere

sempre più come necessario il “partito”. Secondo la

ricostruzione di Galante, infatti, lo “scontro con lo Stato”

richiedeva il ricorso alla violenza organizzata e “imponeva” la

“necessità del partito”: “l’unica risposta efficace allo Stato-crisi

‒ feroce moderno Leviatano, mero potere, pura repressione –

non poteva consistere che nella distruzione di quella forma, la

più alta, del dominio capitalistico. E un compito così radicale

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esigeva uno strumento altrettanto radicale: la violenza

organizzata e concentrata in partito”135.

Analogamente a Galante anche Ventura, nei diversi saggi

elaborati tra il 1980 e il 1984, concentrò la propria analisi (pur

con qualche ipotesi anche sul periodo successivo) sul problema

delle origini e della matrice del “partito armato” individuandole

sempre in Potere Operaio136. Questo gruppo dell’estrema

135

S. Galante, “Alle origini del partito armato’’, Il Mulino, 275, 1981, pp. 444-487. Cfr. anche (sostanzialmente identico) Id. “Teoria e organizzazione di un partito armato: da Potere operaio all’Autonomia organizzata’’, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana, op. cit. pp. 477-523. 136

Ventura espresse una dura critica nei confronti dell’interpretazione di Tranfaglia proprio per aver cancellato “Potere operaio dalle origini della lotta armata’’ e “rimosso’’ Autonomia dalla storia del terrorismo, dando cosi luogo a un “caso assai significativo di grossolana mistificazione storica’’. A. Ventura, “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’, in D. della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984, nota 86, p. 122. Riferendosi al contributo di Tranfaglia apparso nel 1981 nel volume curato da Galleni, Ventura scriveva: “Completamente ignorato è il ruolo di Potere operaio; soltanto verso la fine del lungo scritto si accorge di Autonomia, come se comparisse soltanto nel 1975, per parlarne con un’ambiguità e una reticenza che toccano il grottesco (Autonomia si colloca in una posizione “di attesa-dialogo nei confronti di chi ha fatto la scelta della clandestinità e della lotta armata’’; la responsabilità dei suoi leader consisterebbe soltanto negli “appelli idealistici [sic] all’azione immediata e alla lotta illegale“). Naturalmente, pour cause, ignora programmaticamente i documenti e i fatti più significativi. È questo un caso limite, che induce a riflettere sulla nota tesi shumpeteriana dell’irresponsabilità degli intellettuali. Una tesi non accettabile in generale,

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sinistra veniva infatti definito dallo storico come “il principale

vettore politico – ideologico della lotta armata, il terreno di

cultura e il motore propulsivo del terrorismo, il ceppo

originario dal quale rampolleranno i rami di diverse

‘formazioni combattenti’, le strutture dell’‘illegalità di massa’ e

del terrorismo diffuso”137. Nel saggio del 1980 apparso sulla

Rivista storica italiana (il primo in assoluto elaborato in sede

storiografica) e in altri contributi apparsi in anni successivi,

Ventura criticava alcune delle principali interpretazioni

proposte dalle scienze sociali. In particolare contestava la tesi

di Ferrarotti secondo cui il terrorismo aveva profonde radici nei

meccanismi di emarginazione sociale. Secondo Ventura infatti,

tale interpretazione cadeva di fronte ai “confronti

internazionali” (bastava fare riferimento alle “ben più esplosive

sacche di emarginazione sociale e razziale esistenti negli Stati

Uniti”) e contrastava con l’evidenza che “tra i capi e i gregari

del partito della lotta armata” si trovavano “in stragrande

ma che sembra assai suggestiva e pertinente se riferita a particolari tipi di intellettuali’’. A. Ventura, “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, in C. Ceolin (a cura di), Università, cultura, terrorismo, op. cit. pp. 41-42. 137

A. Ventura, “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’, op. cit. p. 121.

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maggioranza intellettuali, tecnici, impiegati, operai ‘garantiti’

delle grandi fabbriche, studenti per lo più di estrazione

borghese”138. Inoltre, “la culla e l’epicentro del terrorismo” si

trovavano “nelle città del nord”, mentre seguendo la tesi di

Ferrarotti, il terrorismo avrebbe dovuto “svilupparsi soprattutto

nel Mezzogiorno e nelle isole, dove più consistenti e

drammatici” erano “i fenomeni di emarginazione”139.

Secondariamente, Ventura evidenziava i limiti del tentativo di

Acquaviva di spiegare l’origine del terrorismo col vuoto creato

dalla disgregazione del sistema dei valori. Tale ipotesi centrava

“indubbiamente un aspetto importante del problema”, ma non

aiutava “minimamente a capire perché la crisi della religione,

della famiglia, della morale e via dicendo, che è fenomeno

diffuso su scala mondiale, specie nelle società industriali,

generi proprio e soltanto in Italia un terrorismo di tale

138

A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano’’, Rivista storica italiana, I, 1980, pp. 125-126 (si tratta del testo originale, arricchito soltanto di alcune aggiunte e delle note, della prolusione pronunciata da Ventura l’8 febbraio 1980 all’inaugurazione dell’anno accademico 1979-1980 dell’Università di Padova). 139

A. Ventura, “Il terrorismo: le radici e il contesto”, in L’università per la democrazia contro la violenza mafiosa e politica (Palermo, 15-16 giugno 1980), Le edizioni dell’art. 9, Palermo, 1982, p. 25.

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virulenza”140. Infine Ventura criticava definendola

“manifestamente infondata”141 anche l’interpretazione di

Bonanate del terrorismo come risposta a una situazione

bloccata. A suo parere, essa poteva “forse applicarsi ad altri

paesi, ma non all’Italia”: “qui infatti il terrorismo è nato con le

‘trame nere’ per bloccare il tentativo riformatore del centro-

sinistra, volto ad allargare le basi della democrazia e gli spazi

di libertà, a modificare in senso progressivo i rapporti

economici e di potere tra le classi; ed è proseguito poi nella

fase del terrorismo ‘rosso’ col fine dichiarato di contrastare il

crescente potere dei sindacati e il ‘compromesso storico’:

tendenze, comunque vogliamo giudicarle, volte bensì a

consolidare il sistema politico e sociale italiano, ma non senza

modificarlo profondamente”142. Critico nei confronti di queste

“semplificazioni” che davano una “visione parziale, e talvolta

fuorviante, della realtà storica”143e convinto del carattere

140

A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. pp. 126-127. 141

A. Ventura, ’’Il terrorismo: le radici e il contesto”, op. cit. p. 26. 142

A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italiano” op. cit. p. 126. 143

A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. p. 125.

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“estremamente complesso del fenomeno”144, Ventura effettuò

la propria ricerca sulla base di una ricca documentazione e

secondo un metodo ricostruttivo caratterizzato da un’analisi dei

“diversi fattori” che, nello “specifico contesto storico” italiano,

avevano contribuito alla nascita del terrorismo145. Ventura

innanzitutto cercò di individuare il soggetto: ovvero il “partito

della lotta armata”146 identificandolo con l’intero “fronte

eversivo” di sinistra. Convinto che il “nodo centrale della trama

terroristica” andasse individuato nel “rapporto dialettico tra

terrorismo e ‘illegalità di massa’, tra Br, Prima Linea e

Autonomia operaia”, Ventura riteneva – e questa fu la sua

contestata147 tesi ‒ che si dovesse parlare di “uno stesso

144

A. Ventura, “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’, op. cit. p. 77. 145

Ibid. 146

A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. p. 127. 147

Si veda in particolare il durissimo intervento di D. Fiorot, “Il problema del terrorismo italiano: considerazioni critiche sulla prolusione del prof. Angelo Ventura’’, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana, op. cit. pp. 565-580. Ventura avrebbe brevemente (ma non meno duramente) replicato a Fiorot in “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, op. cit. nota 11, p. 40. Per comprendere polemiche così aspre appare forse opportuno ricordare anche il clima infuocato (particolarmente a Padova) all’indomani dell’inchiesta giudiziaria promossa dalla Procura della Repubblica a carico dell’Autonomia organizzata e condotta dal giudice Pietro Calogero. Per la

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disegno politico complessivo” e di “una strategia unitaria di

lotta”, e dunque di un solo “partito della lotta armata”148. Egli

distinse quattro fasi nello sviluppo del terrorismo “rosso”

dedicandosi all’analisi della “genesi”, delle “vicende” e delle

“strutture” di questo partito. La prima era quella più importante

e dunque sulle “origini” (1969-1972) Ventura concentrò la sua

analisi. Il “partito della lotta armata” ‒ notava lo storico ‒ era

nato “come contraccolpo delle grandi lotte operaie dell’

“autunno caldo” del ’69, quando l’eccezionale vittoria della

linea contrattuale “aveva aperto “una fase di forte ripresa dei

posizione di Ventura (di sostanziale condivisione, soprattutto per aver messo “in luce il percorso politico-militare e organizzativo di Potere operaio e Autonomia organizzata, le loro strutture clandestine terroristiche, i rapporti con le Brigate Rosse, l’intensa circolazione di militanti, armi e documenti tra le diverse formazioni eversive’’) di fronte all’inchiesta di Calogero (e degli altri magistrati) e al “polverone alzatosi dopo il 7 aprile’’, cfr. A. Ventura, “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, op. cit. pp. 38-43. Occorre aggiungere che, nel già ricordato saggio “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’ pubblicato nel 1984 (si veda in particolare a tal riguardo la nota 150 a p. 148), Ventura avrebbe anche fatto diversi riferimenti, di tipo quasi esclusivamente “documentario’’ e “fattuale’’, alla Requisitoria del sostituto procuratore Pietro Calogero nel procedimento contro Autonomia (così come pure a numerose altre requisitorie di altri magistrati). 148

A. Ventura, “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, op. cit. pp. 36-37.

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sindacati” che aveva spiazzato “nell’isolamento i gruppi

estremistici, come Potere operaio e Lotta continua, formati per

lo più da intellettuali e studenti d’estrazione borghese, che in

quella imponente ondata di agitazioni operaie avevano creduto

di trovare finalmente la verifica delle teorie che erano venuti

elaborando negli anni Sessanta, la grande occasione storica

rivoluzionaria”. L’“autunno caldo” si era concluso invece con

un “successo sindacale senza precedenti nella storia della

Repubblica”. Il “grande movimento del biennio ’68-‘69” aveva

generato “così una straordinaria affermazione del prestigio e

del potere dei sindacati”. La “presunta ‘autonomia’ operaia,

teorizzata dai gruppi estremistici come indipendenza e

contrapposizione della ‘classe’ ‒ la ‘rude razza pagana’ della

mitologia operaistica ‒ rispetto ai sindacati e ai partiti storici

del movimento operaio e socialista”, si era dimostrata perciò

“alla prova dei fatti un’illusione ideologica”. E di conseguenza

il “disegno rivoluzionario degli intellettuali operaisti” aveva

visto “venir meno quella che avrebbe dovuto costituire la sua

base di massa, la forza d’urto che sembrava a portata di mano”.

L’organizzazione e la centralizzazione erano divenute così,

“direttive fondamentali e prioritarie”. Ventura osservava che

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“parallelamente”, ”attraverso un analogo processo”, il

“Collettivo Politico Metropolitano di Curcio” aveva compiuto

la “scelta della lotta armata” e generato “le Brigate Rosse

(novembre 1970)”. Quasi un anno dopo nacque “l’apparato

militare clandestino di Potere Operaio”, che si affiancava

“nella lotta armata alle BR e ai GAP di Feltrinelli”: “la

discriminante della lotta armata – secondo Ventura ‒

contrappone nettamente queste organizzazioni a tutti gli altri

gruppi della nuova sinistra, tra i quali tuttavia si distingue

ancora, fino al 1973, per una adesione almeno teorica alla

scelta “militarista”, l’ambigua e oscillante posizione di Lotta

Continua, alcuni spezzoni della quale continueranno anche in

seguito a gravitare verso l’area della lotta armata”. Le tre

formazioni clandestine secondo Ventura, avevano intrecciato

“sin dalle origini stretti rapporti logistici e operativi”. Dopo la

morte di Feltrinelli spiegava Ventura: “scioltisi i GAP, i

superstiti confluiscono nelle BR, ma queste, individuate e

duramente colpite dall’azione degli inquirenti, sono costrette a

loro volta a calarsi nella più rigorosa clandestinità, e debbono

quindi abbandonare il terreno dell’azione di massa”. Veniva

così a determinarsi una “sorta di divisione del lavoro

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all’interno del fronte della lotta armata”. Tra il 1972 e il 1973

si venne “configurandosi” la “strategia e le strutture del partito

della lotta armata e della guerra civile”, il quale – e questo era

il punto centrale dell’interpretazione di Ventura ‒ era unico. La

sua storia era “intessuta di lotte di frazione, politiche e di

potere, di contrasti ideologici e di rivalità personali, di scissioni

e aggregazioni”. Tuttavia tutto ruotava attorno a uno stesso

“asse centrale politico-organizzativo e nell’ambito d’una

comune strategia complessiva”. La seconda fase della storia del

terrorismo (1973-1977) su cui Ventura si è soffermato più

rapidamente era stata caratterizzata da una “crescente

convergenza e omogeneizzazione tra i diversi filoni del partito

della lotta armata”. Determinante in questo senso era stata la

“funzione egemonica esercitata dall’asse centrale del partito

della lotta armata”, che si era determinata “nella convergenza

di Autonomia Operaia e BR”: convergenza – osservava

Ventura – che si fondava sul principio che la lotta armata,

come affermato da Toni Negri nel 1974, rappresentava “il solo

momento strategico fondamentale”, il “filo rosso

dell’organizzazione”, ovvero che era “intorno alla guerriglia”

che si costruiva “il movimento di resistenza e l’area

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dell’autonomia”. La terza fase (1977) era stata contraddistinta,

secondo Ventura, dall’escalation del terrorismo, dallo sviluppo

impetuoso di un nuovo “movimento” e dalla esplosione di

“contraddizioni nel partito armato”. I “grandi cortei che a

Roma (12 Marzo), Bologna, Milano e Padova” avevano

consentito “a nuclei “guerriglieri” di Autonomia di attaccare a

mano armata, sparando contro la polizia e assaltando le

armerie” avevano aperto una “fase” nuova. Il delitto Moro, che

aveva innalzato “lo scontro nel “cielo della politica” ad un

livello difficilmente rapportabile all’esigenza di massificare la

lotta armata” aveva aperto, a parere di Ventura, l’ultima fase,

quella “critica” del partito armato. L’ala di Autonomia,

“rimasta spiazzata nella condotta dell’affare Moro” aveva

reagito “aspramente, definendo le BR ‘variabile impazzita’ del

movimento”, ma aveva raccolto “la sfida sullo stesso terreno,

rilanciando il terrorismo ai più alti livelli, intensificando il

cosiddetto ‘terrorismo diffuso’ e scatenando la violenza di

“massa”, vale a dire le azioni squadristiche”. Da parte loro,

invece le BR, ”preoccupate di recuperare consensi”, avevano

aggiustato “il tiro, riguadagnando con sanguinosi attentati a

dirigenti industriali l’originario terreno della fabbrica”. Un

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secondo nucleo dell’analisi di Ventura fu funzionale a

identificare la “natura sociale e culturale” del “partito della

lotta armata”, e a farlo “a partire dall’ideologia “. Il nucleo

ideologico del partito armato era per Ventura chiaro:

“Sviluppando sino alle conseguenze più radicali il nucleo

teorico originariamente elaborato da Mario Tronti a metà degli

anni Sessanta, gli ideologi di Potere Operaio compiono fino in

fondo il percorso, spesso confuso e contraddittorio, che dal

marxismo-leninismo conduce al nichilismo, dalla dialettica

all’irrazionalismo, dalla critica del capitalismo al rifiuto della

società industriale, dall’operaismo al populismo”149.

Soprattutto se si guardava ai due “passaggi fondamentali” di

tale concezione (“la riduzione della teoria a mero momento

della prassi, della lotta di classe” e quindi “la negazione

radicale della dialettica e della ragione”), era soprattutto il

“fondo irrazionalistico di questa concezione”150 – che Ventura

non esitava a definire di chiara “miseria teorica”151 – a

emergere con “prepotenza”. Ultimo passaggio del percorso di

149

A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italian”’, op. cit. pp. 141-142. 150

Ibid. p. 144. 151

A. Ventura, “Il terrorismo: le radici e il contesto”, op. cit. p. 40.

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Ventura era l’analisi della “dimensione politica”, che

riconduceva “in una diversa e più generale prospettiva, all’altra

faccia del terrorismo, considerato come funzione dei conflitti

internazionali di potenza e della crisi politica italiana”152. Da

questo punto di vista, il terrorismo andava visto in rapporto con

l’azione degli “apparati occulti degli Stati” (“spesso operanti

autonomamente e talvolta anche in contrasto con gli organi del

potere politico”) quali “strumenti attivi e soggetti di politica

interna ed estera”, e con “le degenerazioni mafiose della lotta

politica in Italia”153. Ventura era contrario a una “teoria del

complotto”154 e convinto invece che “le organizzazioni

eversive e terroristiche neofasciste e, a maggior ragione quelle

di sinistra”, costituissero “per lo più movimenti per così dire

spontanei ed endogeni, nati e sviluppatisi originariamente in

modo autonomo, con propria storia politica e ideologica”155.

Tuttavia, consapevole di trovarsi in questo caso “su un terreno

estremamente infido per lo storico”156, egli si dichiarava

152

A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italiano”’, op. cit. p. 127. 153

Ibid. p. 147. 154

Ibid. p. 148. 155

A. Ventura, ’’Il terrorismo: le radici e il contesto”, op. cit. p. 44. 156

A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. p. 150.

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“certo” di una cosa: “nessuna organizzazione terroristica, che

non affondi le radici in tensioni etniche o in una disgregazione

generale del sistema quale certo non si dà in Italia, può

svilupparsi e operare intensamente per così lungo periodo

senza coperture e appoggi ad alto livello, nazionali o esterni.

Tutti i confronti internazionali lo comprovano”157. Ciò era vero

tanto per il terrorismo “nero” quanto per quello “rosso”. Anche

“la più prudente valutazione storica” doveva dunque

“ammettere che forze potenti e occulte” avevano agito “quanto

meno per coprire e utilizzare il partito armato, soprattutto dopo

che le indagini sulla strage di Piazza Fontana, quelle sulla

‘Rosa dei Venti’ condotte dal giudice Tamburino, ed altre

analoghe inchieste su episodi eversivi, avevano bruciato le

trame ‘nere’”. Non era “minimamente pensabile – osservava

Ventura – che gli efficienti servizi di sicurezza delle principali

Potenze, dell’Ovest e dell’Est” si fossero disinteressati

“completamente” del “partito della lotta armata”158. Anche per

lo studioso di oggi, il dibattito che ebbe luogo tra il 1977 e il

1984 rappresenta un caso di notevole interesse pur con tutti i

157

Ibid. p. 147. 158

Ibid. pp. 150-151.

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limiti di molte di queste prime riflessioni. Si trattava di analisi

che andavano verso un piano diverso rispetto a quello

ideologico o politico-partitico. I limiti della loro “scientificità”

erano dati in alcuni casi da un atteggiamento particolarmente

“militante” del singolo studioso, ma più spesso erano evidenti

soprattutto il contesto “emergenziale” nel quale questi primi

studi erano stati concepiti e la drammatica “attualità” della

sfida da affrontare. Questo spiega, da un lato, la presenza in

questi contributi di un tono spesso “partecipato” e preoccupato,

così come di un livello prescrittivo e operativo, accanto a

quello semplicemente descrittivo-interpretativo, e, dall’altro, il

significativo ruolo, il peso e l’influenza che su tali riflessioni,

che pure ambivano a essere scientifiche, continuavano a

esercitare convinzioni, valutazioni e talvolta pregiudizi legati

alle culture politiche di appartenenza di ciascuno studioso. Un

secondo limite di molte di queste interpretazioni può invece

essere individuato nella loro pretesa di validità assoluta e nella

ambizione a formulare una spiegazione unitaria e complessiva.

Il problema di gran parte di queste ipotesi va, quindi,

rintracciato nella loro aspirazione a spiegare da sole il

terrorismo, riducendo un fenomeno molto complesso a

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un’unica chiave interpretativa e a una causa unica. Il terzo

limite è rilevato da Ventura già dal 1980: alcune di queste

interpretazioni, “anziché procedere induttivamente

dall’osservazione del fenomeno” cercavano di “descriverne

apoditticamente le presunte ‘condizioni oggettive’”, ponendo

così non sempre in primo piano l’“oggetto specifico della

ricerca, cioè il terrorismo: la sua genesi, lo sviluppo,

l’ideologia e l’organizzazione, in una parola la sua storia”. Ma

– come ha ammonito uno dei più importanti storici del

“fenomeno” terrorista – “vedere nelle ‘condizioni oggettive’ la

chiave per la comprensione del fenomeno del terrorismo nella

nostra epoca vuol dire inseguire una chimera”159. Dopo questo

primo dibattito viene privilegiato l’approccio della Resource

mobilization theory (RMT, teoria della mobilitazione delle

risorse)160, allora dominante nella sociologia dei movimenti

sociali. Esso è rappresentato dall’analisi del sociologo

americano Sidney Tarrow che si estrinseca in termini di cicli di

159

W. Laqueur, ’’Introduzione alla edizione italiana’’, in Id, Storia del terrorismo, Rizzoli, Milano, 1978, p. 6. 160

La Resource mobilization theory, create negli anni Settanta, costituisce la spina dorsale e una delle correnti fondamentali della sociologia anglosassone dei movimenti sociali. Si basa sull’analisi razionale e strategica delle organizzazioni, delle risorse e delle opportunità.

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mobilitazione (cycle of protest o cycle of collective action).

Ovvero: “Un’ ondata, prima crescente poi decrescente, di

azioni collettive legate tra loro, e delle rispettive reazioni”161.

Un ciclo di mobilitazione si apre quando alcuni “conflitti

strutturali” incontrano una “struttura delle opportunità

politiche” (SOP) favorevole. I conflitti possono essere di due

tipi. Il primo è quello politico: negli anni della Guerra fredda il

PCI è escluso dalle alleanze di governo nonostante i suoi

successi elettorali (conventio ad excludendum). Questa

situazione rinforza l’egemonia democristiana e l’assenza di

ricambio (Tarrow riprende quindi la tesi del blocco del sistema

politico). Il secondo è quello sociale: il passaggio dell’Italia

“verso il capitalismo maturo” conduce a una ristrutturazione

profonda della società. Viene fuori una nuova classe media che

non si sente rappresentata dagli organismi tradizionali. Come

conseguenza poi di un numero importante di spostamenti

interni dal Sud agricolo verso il Nord industrializzato nasce

una parte della classe operaia giovane e aperta nei riguardi

161

Sidney Tarrow, Cycles of collective action: between moments of madness and the repertoire of contention, in Mark Traugott (a cura di), Repertoires and Cycles of Collective Action, Duke University Press, Durham-London 1995, p. 95.

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131

delle contestazioni sessantottine. La SOP è definita

globalmente da quattro elementi: il grado di apertura o di

chiusura delle istituzioni, la stabilità o l’instabilità degli

schieramenti, la presenza o l’assenza di alleati influenti a

sostegno di un dato movimento, l’esistenza di frammentazioni

nelle classi dirigenti. Secondo Tarrow, l’esperienza del

centrosinistra al potere apre la SOP e influisce nel determinare

dissidi tra i partiti. Alcuni successi ottenuti all’inizio del ciclo,

come ad esempio lo Statuto dei lavoratori del 20 maggio 1970,

accrescono la vulnerabilità del sistema e favoriscono le

rivendicazioni. Le date prese in considerazione da Tarrow (dal

1966 al 1973) escludono la metà degli anni Settanta. Tranne

quando l’autore propone una “legge generale” (che come è

stato dimostrato confrontando gli anni di piombo con altri

fenomeni simili, generale non è): quando vengono

istituzionalizzati i gruppi contestatari che hanno dato il via al

ciclo, la maggioranza smobilita ed ecco radicalizzarsi lo

scontro armato che esprime una speranza perduta162. La

162

Sidney Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990. Il concetto di SOP ha dato luogo a una lunga serie di definizioni. I criteri aumentano a tal punto che alcuni dubitano della sua utilità (per esempio, Olivier Fillieule).

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nozione di SOP non permette di studiare nel profondo i temi

dell’alternanza al governo o della capacità di alleanza tra i

gruppi extraparlamentari e i sindacati e partiti politici

tradizionali, i quali sono fondamentali per comprendere la

situazione dell’Italia. Consente invece di evidenziare un altro

aspetto: il livello di repressione, che secondo Donatella della

Porta è una specie di barometro della SOP. Paragonando la

situazione dell’Italia e quella della Repubblica Federale

Tedesca, la politologa e sociologa mostra come nel nostro

paese le misure repressive siano state più brutali e allo stesso

tempo meno selettive. Basti ricordare che tra il 1947 e il 1969

quasi 90 manifestanti o scioperanti italiani sono morti sotto il

fuoco della repressione dei conflitti di lavoro, contro una

dozzina in Francia. I feriti sono stati 674, gli arrestati circa

Generalmente è accettata anche la confutazione della “legge generale’’: a seconda dei contesti la mobilitazione è favorita dall’apertura o dalla chiusura della SOP. Le prospettive derivate da tale nozione ne mettono in luce i limiti della prima versione: il trasferimento del carattere oggettivo, per il ricercatore della SOP, in una percezione soggettiva attraverso gli attori. Questo determina che una condizione necessaria non è sufficiente finchè non è colta dagli attori stessi. D’altro canto i promotori del processo politico (Doug McAdam, Sidney Tarrow e Charles Tilly) ne hanno preso coscienza in Dynamics of Contention, dove passano a teorizzare una comprensione “situata’’ (in relazione a una data congiuntura) e soprattutto soggettiva della SOP.

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80.000. Tra il 1970 e il 1979 sono morte 21 persone. Questi

dati portano a sollevare dubbi sulla imparzialità delle forze

dell’ordine che sembrano essere l’incarnazione delle correnti

più reazionarie163. La seconda particolarità è data dall’intensità

a livello cognitivo ed emotivo, dell’esperienza del fascismo,

simile a quella del Giappone e della Germania, gli altri due

paesi toccati dal fenomeno della lotta armata. In questo periodo

in Italia il ricordo della guerra resta presente e l’attivismo di

estrema destra è inflessibile (Ordine nuovo, Ordine nero,

Avanguardia Nazionale). Tra il 1969 e il 1975 l’83 per cento

delle azioni di violenza politica, e 63 vittime su 92 sono

riconducibili a formazioni neofasciste. I militanti della sinistra

extraparlamentare giustificano gli scontri denunciando

l’aggressività originaria “fascista” e la complicità delle forze

dell’ordine. Si rifanno tuttavia anche alla tradizione

resistenziale e al concetto della lotta di classe. A tutto questo si

deve aggiungere l’utilizzo della violenza fascista quale

strumento di contro mobilitazione da parte della DC164. Ovvero

la complicità di una parte dello Stato nella strategia della 163

Isabelle Sommier, La violence politique et son deuil, op. cit. 164

Alberto Melucci, L’ invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali, il Mulino, Bologna 1982, p. 110.

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tensione, nel golpe e negli attentati di estrema destra. Il primo,

quello di piazza fontana, inaugura una lunga serie di “stragi di

Stato”, chiamate in questo modo per la collusione tra i servizi

segreti e i terroristi che, dal dicembre del 1969 all’agosto del

1980 (con la strage di Bologna), provocano 127 morti e 506

feriti. Alla fine degli anni Ottanta, con la “svolta culturale”

della sociologia dei movimenti sociali, più attenta ai valori e

alle esperienze di vita degli attivisti, maggiore attenzione viene

rivolta ai singoli processi di radicalizzazione. Tramite tale

prospettiva microsociologica, alcuni elementi vengono

reinterpretati alla luce del vissuto dei protagonisti. Non si

indagano più le cause ma le dinamiche degli eventi. All’inizio

gli studiosi seguono i meccanismi soggettivi di

rappresentazione dello Stato come nemico, nel lento passaggio

dalla categoria iniziale di avversario. La strage di piazza

Fontana è il simbolo del “trauma originale”, la “scissione

irreparabile”, la “fine dell’innocenza”, come riportato dai

protagonisti165. Questo evento estremizza le sensazioni

negative nei confronti dello Stato, latenti dal fascismo. La

tensione cresce dopo i fatti successivi all’attentato, in particolar

165

Isabelle Sommier, La violence politique et son deuil, op. cit.

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modo dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Intanto le

stragi di Stato continuano con cadenza periodica estremizzando

la polarizzazione tra destra e sinistra: Gioia Tauro il 22 luglio

1970 (6 morti e 50 feriti), piazza della Loggia a Brescia il 28

maggio 1974 (8 morti e 94 feriti), l’Italicus il 4 agosto dello

stesso anno (12 morti e 48 feriti), Bologna il 2 agosto 1980 (85

morti e 200 feriti). In un secondo momento vengono affrontate

le dinamiche di socializzazione alla violenza. Al riguardo sono

evidenziati due meccanismi: da un lato gli scontri con

l’estrema destra; dall’altro, le logiche di opposizione all’interno

della sinistra extraparlamentare. Donatella della Porta

sottolinea che in Italia come in Germania lo Stato viene

considerato il “nemico assoluto”166. Sia gli italiani che i

tedeschi giustificano le loro azioni con motivi di tipo morale e

hanno una visione ed un’esperienza dell’attività politica

totalizzanti. Tuttavia si differenziano per le situazioni che

portano all’escalation della violenza e le relative

giustificazioni: gli scontri con i neofascisti in Italia e una

sensazione di isolamento crescente in Germania. Tra gli altri 166

Donatella della Porta, Social Movements, Political Violence and the State. A Comparative Analysis of Italy and Germany, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 149-164.

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elementi che aumentano l’escalation dell’estrema sinistra

italiana in questo periodo, vi è la tendenza a misurare il valore

rivoluzionario a seconda delle propensioni al combattimento

dei militanti che, contando sulle doti fisiche, consentono a uno

schieramento di primeggiare rispetto agli altri. Questa

competizione interna spiega la concomitanza, dal 1972, tra le

svolte militariste di Potere operaio e di Lotta continua. Inoltre

fa capire il motivo per cui i loro servizi d’ordine saranno i vivai

delle future organizzazioni clandestine. Il 38 per cento di

attivisti di gruppi armati infatti proviene proprio dalla sinistra

extraparlamentare e l’84 per cento dalle frange autonome. In un

contesto simile appare la seconda formazione armata per

importanza cioè Prima linea fondata nel 1976 da alcuni

militanti “orfani” di Lotta Continua. Mentre molti autonomi

confluiscono nei Proletari armati per il comunismo (PAC), da

Lotta continua e da Potere operaio nascono i Nuclei armati

proletari (NAP), le Formazioni comuniste combattenti (FCC),

le Formazioni comuniste armate (FCA), le Unità comuniste

combattenti (UCC), i Comitati comunisti rivoluzionari

(COCORI). La “competizione” dura fino a quando i brigatisti

non affermano la propria supremazia. Per le BR le varie tappe

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dell’escalation della violenza (1973-1974, 1977-1978) sono

occasioni per rafforzare la propria struttura clandestina in

maniera centralizzata. In questo modo sono meno vulnerabili

all’antiterrorismo diventando il rifugio degli altri attivisti. In

terzo luogo si analizzano le reti militanti e le relazioni tra i

protagonisti. L’avvocato Claudio Novaro analizza la storia di

venti amici della val di Susa che entrano in Prima linea167. Su

1214 attivisti studiati da Donatella della Porta, 843 hanno una

persona conosciuta nel gruppo. Nel 74 per cento dei casi, il

nuovo arrivato ne ha più di uno; nel 42 per cento, più di

sette168. La sociologa italiana considera il reclutamento una

specie di “conversione” (nel senso di Peter L. Berger e Thomas

Luckmann)169 che obbedisce a facilitating factors (precedenti

esperienze di violenza e “fedeltà a un amico”) e a precipiting

factors (solidarietà verso un conoscente arrestato o reazione

dopo la morte di un altro)170. Il passaggio di una persona alla

167

Claudio Novaro, Reti di solidarietà e lotta armata, in Raimondo Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, il Mulino, Bologna 1990. 168

Donatella della Porta, op. cit. p. 167. 169

Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 2009. 170

Donatella della Porta, op. cit. p. 170.

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lotta armata può avvenire senza una presa di coscienza alla

base. Il legame di affetto tra i militanti è tenuto in vita dalla

eccitazione derivante dal correre rischi insieme in una dinamica

propria dei piccoli gruppi con al massimo cinque persone. I

legami sono più significativi delle volontà dei singoli. Questa

logica spiega bene il motivo per cui le posizioni si

estremizzano nel momento in cui il ciclo di protesta è al

termine o quasi. L’avanzare degli studi e delle ricerche

comprende mano a mano dimensioni macro, meso e

microsociologiche dando una visione più completa. Alcune

aree tuttavia, non sono state ancora analizzate o lo sono state in

maniera superficiale. Non ci si è occupati infatti degli elementi

di lunga durata della storia italiana: la condizione di estraneità

dello Stato e il ritorno periodico dei meccanismi di ribellione

sociale. Sono rare anche le analisi delle condizioni

socioeconomiche che rappresentano l’humus delle

contestazioni degli anni Sessanta e Settanta. Questa mancanza

è da imputare:

1) Al declino di un approccio marxista dei movimenti sociali in

termini di lotta di classe

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2) Alla fortuna che gode una visione generazionale

3) A una visione generazionale che sia coerente con le

implicazioni storiografiche del periodo

4) Ad analisi indirizzate preferibilmente verso i fenomeni

eccezionali, e all’uso di strumenti empirici e teorici diversi da

quelli usati per capire il funzionamento dell’azione collettiva e

del sistema politico.

Da questo deriva la necessità di capovolgere la prospettiva, al

fine di evitare di condurre una analisi infinita sulla lotta armata.

Bisognerebbe infine trattare l’argomento da un punto di vista di

ampio respiro evitando di cadere nelle tesi cospirazioniste (che

trasformano ad esempio i brigatisti in agenti della Stasi o dei

servizi segreti italiani, come suggerito da alcune

“testimonianze”). Molto importante è prendere in

considerazione il contesto internazionale per capire i legami e

le influenze reciproche tra i gruppi italiani e quelli stranieri nel

contesto della contestazione del ‘68 e anche per ricostruire il

ruolo dell’Italia nella Guerra fredda, la parte svolta dal piano

Gladio nella strategia della tensione e più in generale il peso

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della NATO. Le analisi a riguardo sono parziali e compaiono

di solito negli studi sul terrorismo nero a tutt’oggi troppo

sporadici.

2.2 Storiografia, pubblicistica, uso pubblico della

storia

Secondo Jedlowski, mentre la memoria ha la funzione di

preservare l’identità, la storiografia ha, o dovrebbe avere, il

compito di ricostruire con mezzi e metodi scientifici, ciò che è

accaduto171. Gallerano ci fa poi riflettere sulla funzione della

storiografia: funzione pubblica della storiografia; regolazione

della memoria e dell’oblio per plasmare i tratti dell’identità

collettiva di una comunità e distinguerla dalle altre; costruire,

attraverso il passato, un progetto e una profezia del futuro:

sono i connotati visibili dell’impresa storiografica fino ai tempi

recenti e mai completamente dismessi; e sono, al tempo stesso,

gli elementi forti di ciò che contraddistingue l’uso pubblico

171

P. Jedlowski, memoria, in dizionario di Storiografia, pbm storia.

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della storia172. Inoltre, e non si deve sottovalutare, la

storiografia è base anche della manualistica scolastica e della

possibilità di avere capisaldi e cardini su cui fare perno per la

costruzione e la divulgazione di sensati, coerenti studi e

ragionamenti; la storiografia ci può fornire fondamenti

sufficientemente scientifici tali da fare uscire temi come quello

delle stragi dalla polemica pubblica, e soprattutto politica, e

dalla sensazione di totale mistero in cui, a volte, si tende a

volerli avvolgere. “Laddove la storiografia si ritrae, subentra il

giornalismo” afferma Mario Isnenghi173, e ancor di più quando

subentra il giornalismo, sovente, e soprattutto rispetto al tema

del terrorismo, subentra la polemica e la strumentalizzazione

che, evidentemente, frenano e impediscono la comprensione.

Per quanto riguarda i manuali, questo aspetto verrà

approfondito nel terzo capitolo, quando ne analizzerò di diversi

dal punto di vista della casa editrice, dell’autore e dell’anno di

pubblicazione.

172

N. Gallerano, Le verità della storia scritti sull’uso pubblico del passato, Manifestolibri, Roma, 1999, p. 43. 173

M. Isnenghi, La Marcia su Roma, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 313

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142

Come abbiamo già visto precedentemente, cercare di tracciare

un bilancio dei lavori storiografici e non che hanno come tema

le stragi avvenute in Italia in età repubblicana e quindi i

terrorismi di entrambe le matrici porta ad analizzare un insieme

di opere disomogeneo e a volte contraddittorio. L’evidenza dei

fatti ci evidenzia come il lavoro storico in questo campo sia

condizionato da numerosi problemi e difficoltà, primo fra tutti

quello delle fonti. Un tema fondamentale e più volte affrontato

in particolare da Paola Carucci174, che fece un’approfondita

analisi delle poche fonti disponibili e delle grandi difficoltà del

reperimento di altri documenti importanti per l’analisi di questi

avvenimenti. Le fonti più rappresentate e utilizzate, insieme ai

documenti raccolti o prodotti dalle commissioni parlamentari

d’inchiesta, sono quelle giudiziarie: l’utilizzo delle fonti

giudiziarie è importante per la ricostruzione del passato.

Questo è vero in tutti i luoghi e tempi. Vale soprattutto quando

un importante tratto di storia è profondamente legato al

174

P. Carucci, Fonti documentarie sulle stragi, in C. Venturoli (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi, Marsilio, Venezia, 2000. Un ulteriore analisi degli archivi è in A. Giannuli, L’armadio della Repubblica, supplemento a L’Unità, Roma, 2005

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143

fenomeno criminale175. Spesso, per quanto riguarda in primis la

strage del 2 agosto 1980, sono state pubblicate le sentenze o le

requisitorie per iniziativa dell’Associazione dei familiari delle

vittime. Indubbiamente l’intreccio fra storia e indagini

giudiziarie è complesso. Tuttavia lo scopo del giudice è diverso

da quello dello storico, come è ovvio che sia. Al riguardo Marc

Bloch176 aveva affrontato questo tema e Carlo Ginzburg177

sottolineava che compito dello storico è la ricostruzione, la

contestualizzazione e la comprensione degli avvenimenti, non

la condanna o la assoluzione; lo storico, inoltre, ha il diritto di

scorgere un problema là dove un giudice deciderebbe un non

luogo a procedere. Nel nostro caso però è anche avvenuto che i

giudici si siano trovati a dover fare il lavoro di

contestualizzazione, quasi a supplire o affiancare il lavoro degli

storici che, soprattutto negli anni in cui si svolgevano i primi

processi era, forse anche comprensibilmente, carente178.

175

G. Tamburrino, Ricerca storica e fonti giudiziarie, in C. Venturoli, Come studiare, op. cit. p. 75 176

M. Bloch, Apologia della storia o mestiere dello storico, Einaudi, Torino, 1991, pp. 123-127 177

C. Ginzburg, Il giudice e lo storico, Einaudi, Torino, 1991. 178

L. Grassi, in C. Venturoli, Come studiare, op. cit. p. 117.

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Fra i primi studi in cui si analizzavano in modo sistematico i

temi di cui parliamo dobbiamo ricordare l’importante lavoro

elaborato da Franco De Felice nel 1989, nel quale l’autore

cercava di mettere a punto una prima teorizzazione e

proponeva una interpretazione, una contestualizzazione e una

analisi delle radici degli avvenimenti. In un convegno

organizzato dall’Istituto Gramsci di Roma nel ventennale della

strage di Piazza Fontana, De Felice propose una “ipotesi di

approccio alla storia dell’Italia repubblicana verificando

l’aderenza realistica e le possibilità euristiche di una categoria

generale come ‘doppio Stato’”179, propose una analisi sul

reciproco condizionamento fra Costituzione repubblicana e

sistema di alleanze internazionali, sul “nesso nazionale-

internazionale”180, sul ruolo di compressione democratica

svolto dagli apparati dello stato visibile con la procrastinazione

dell’attuazione del dettato costituzionale e rallentando le

riforme, fino ad arrivare alla violenza e all’illegalismo degli

anni Sessanta, introducendo la categoria del doppio Stato.

Questo lavoro di De Felice ha profondamente segnato non solo 179

F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi Storici’’,

luglio/settembre, anno 30, 1989, p. 493 180

F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, op. cit. p. 499.

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la storiografia ma anche un pubblico molto più vasto degli

studiosi di storia. La rigorosa analisi effettuata in quel saggio,

caratterizzato dalla complessità dei concetti e dell’argomentare,

cercava di mettere a fuoco i condizionamenti internazionali

iscritti nello scenario della guerra fredda che si esprimevano,

secondo questa interpretazione, anche in una doppia lealtà

richiesta ai gruppi dirigenti europei. Franco De Felice rifuggiva

da qualsiasi tesi del complotto in modo esplicito e ripetuto,

mettendo sul tappeto questioni molto rilevanti per la

comprensione di quel periodo della storia repubblicana. I

problemi sono sorti nell’interpretazione e nell’uso che di queste

categorie è stato fatto nei momenti successivi la loro

formulazione181. Nel saggio di De Felice troviamo l’analisi di

temi molto interessanti: il rapporto fra nazionale e

internazionale e gli effetti distortivi provocati in Italia dalla

“doppia lealtà” a cui si faceva riferimento, la particolare

asprezza del conflitto che i politici erano chiamati a sostenere

sul piano interno e la crisi di legittimità della classe dirigente.

Secondo De Felice, il dilagare della violenza di quegli anni

181

L. Paggi, prefazione, in F. De Felice. La questione della nazione

repubblicana, GLF editori Laterza, Roma, 1999.

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rimanda alla compresenza di contrasti non ricomponibili. Lo

storico suggeriva proposte di discussione. “La seconda parte di

questo articolo è dedicata all’individuazione, all’emergere e

all’operare del doppio Stato in Italia, fondata come è su

materiale molto ricco ma prevalentemente indiziario, accentua

ancora di più il carattere problematico di questo saggio:

l’obiettivo ancora una volta non è di proporre una

sistemazione, sia pure per grandi linee, del materiale

accumulato (inchieste, processi, contributi analitici ecc.) ma

sollevare domande e formulare ipotesi”182. De Felice

sottolineava come il suo tentativo fosse quello di definire una

ipotesi generale che “nelle grandi linee, tenga presenta la

pluralità di piani che sottendono e interagiscono nello sviluppo

di tale fenomeno: rimane un approccio generale”183. La

prematura scomparsa dello studioso ha impedito

l’approfondimento e lo sviluppo dell’indagine storiografica.

Altri storici hanno ripreso poi questa analisi, in particolare

Tranfaglia che nella storia d’Italia di Einaudi pubblica, fra

l’altro, un saggio intitolato proprio Un capitolo del “doppio 182

F. De Felice, Doppia lealtà e doppio stato, op. cit. p. 499. 183

Ivi, p. 533.

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stato”. La stagione delle stragi e dei terrorismi, 1969-84184. Il

lavoro di De Felice e la sua proposta delle categorie di doppio

stato e di doppia lealtà ha avuto un destino molto contrastato,

ha avuto critiche che entravano nel merito dell’interpretazione

e della collocazione del partito comunista nella storia

repubblicana185, ma il saggio è incorso anche in interpretazioni

non sempre adeguate, spesso infatti non è stata recepita a pieno

la volontà dell’autore di allontanarsi da qualsivoglia tipo di

interpretazione complottistica della storia repubblicana e il

concetto di doppio Stato è anche entrato a fare parte del

linguaggio politico e giornalistico corrente, spesso banalizzato

ed estremizzato186. Questo atteggiamento è un altro punto

fondamentale da tenere presente quando si cerchi di analizzare

un periodo storico come quello preso in esame: l’uso pubblico

e l’uso, o forse l’abuso, politico di questa storia. Se un certo

“uso” pubblico può essere legittimo, secondo l’interpretazione

di alcuni storici, certamente è piuttosto discutibile l’uso

184

N. Tranfaglia, , Un capitolo del “doppio stato’’. La stagione delle stragi e

dei terrorismi, 1969-84, in Storia dell’Italia Repubblicana, Vol. 3 L’Italia

nella crisi mondiale dell’ultimo ventennio, Einaudi, Torino, 1994 185

G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio stato, in Belardelli (et al),

Miti e storia dell’Italia unita, il Mulino, Bologna, 1999. 186

G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio stato, op. cit. p. 211.

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politico della storia che si ponga al di fuori di un qualsivoglia

fondamento scientifico187. Allo stesso modo accade che siano i

politici ad utilizzare la storia, o le sue falsificazioni, per le loro

strategie. Tutta la storia e massimamente quella

contemporanea, è sottoposta a questo rischio e a questo utilizzo

ma nel caso dello stragismo e della storia di quegli anni come

si può immaginare è altissimo. Quindi alcuni politici,

giornalisti, opinionisti e polemisti si dilettano in modo

consistente a utilizzare, banalizzare e stravolgere e

strumentalizzare la storia degli anni ‘70 e ‘80. E così che anche

il saggio di De Felice, sobrio nelle argomentazioni, ”dubbioso

e aperto nelle connessioni, delicato nel discutere impostazioni e

tesi lontanissime dalle sue, un saggio di riflessione” è stato

trascinato in polemiche estremamente aspre, con accenti spesso

caricaturali sostenuti anche da alcuni storici che si sono inseriti

in queste polemiche sia sui quotidiani sia in saggi, a volte

banalizzando i concetti per poi stigmatizzarli188. Le polemiche

non sono utili all’analisi storiografica. La banalizzazione delle

interpretazioni ha portato ad identificare nell’ipotesi del doppio 187

A. d’Orsi, Basta con la manipolazione dei fatti storici, in “micromega’’,

1/2004, p. 73 188

E. Galli della Loggia, “Corriere della sera’’, 16 marzo 1998.

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Stato l’aver postulato la presenza di un complotto e quindi gli

storici che hanno ripreso questa definizione sono stati bersaglio

di accuse di complottismo189. A volte nel pieno delle polemiche

si negano anche fatti realmente accaduti e non si ritiene

possibile che esistano avvenimenti e situazioni della storia

italiana ancora in parte non conosciute o per cui ancora non

abbiamo trovato chiavi di lettura e analisi convincenti, che,

pare invece quasi naturale. Ovviamente non possiamo leggere

la storia nazionale come una lunga e organica sequenza di

strategia occulte organizzate, preferibilmente, da menti

straniere, cosa che ancora viene fatta, ma d’altra parte non è

possibile analizzare la storia repubblicana senza indagarne

anche le zone più oscure, i contesti nazionali ed internazionali,

le strutture politiche e di intelligence. La critica rigorosa e

l’incrocio di quante fonti si hanno a disposizione, mai come su

questi temi, deve essere garanzia di accuratezza del lavoro

storiografico e della sua lontananza, per quanto possibile, dalla

polemica politica. Anche le periodizzazioni sono controverse,

del resto molto lungo è il periodo di cui ci occupiamo e

l’inclusione degli avvenimenti in un periodo ipotizzato come

189

G. Sabatucci, op. cit. p. 216

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omogeneo non fa altro che alterarne la comprensione, così

come si è già anticipato.

Per quanto riguarda il ruolo della violenza è interessante un

saggio che Leonardo Paggi propose in un convegno anche in

questo caso organizzato dall’Istituto Gramsci di Roma nel

1998, nove anni dopo quello prima citato. Un convegno

intitolato “doppia lealtà e doppio Stato nella storia

repubblicana”, in cui si intendeva riprendere, sviluppare e forse

sottrarre il tema alle strumentalizzazioni e alle banalizzazioni

cui si è già fatto cenno. Paggi190 evidenziò alcuni punti di

riferimento dell’intreccio violenza e democrazia cercando di

capire quale scopo abbiano avuto le differenti manifestazioni di

violenza a cui abbiamo assistito durante gli anni repubblicani e

provando ad inserire questa analisi nel lungo periodo191. Paggi

sottolinea come ogni periodo ed ogni tipo di violenza vadano

colti anche nella loro specificità. Ecco infatti un altro pericolo

per la storiografia: non declinare temporalmente, estendendo

definizioni a periodi troppo lunghi e diversi rischiando una

190

L. Paggi, Violenza e democrazia nella storia della Repubblica, in “Studi

Storici’’, ottobre/dicembre, anno 39, 1998. 191

L. Paggi, op. cit. p. 937.

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omogeneizzazione che falsa la comprensione. Le definizioni

che si utilizzano ci possono portare su campi scivolosi e di

scarso rigore scientifico. Molto rappresentativa di questo

rischio è “strategia della tensione”. Questa definizione in

maniera inversa rispetto a quella di doppio Stato è infatti nata

da un giornalista che sull’Observer pochi giorni dopo la strage

di Piazza Fontana affermava come in Italia fosse in atto una

“strategia della tensione”. Definizione che ebbe un gran

successo, fu recepita dall’opinione pubblica e che ora, di

nuovo, viene affermata o negata in base all’utilizzo politico che

se ne intende farne. A questo proposito bisogna fare

riferimento al saggio di Franco Ferraresi192, sociologo che nel

suo testo Minacce alla democrazia, la destra radicale in Italia ci

ha fornito un essenziale punto di riferimento. Da sottolineare il

fatto che si sono misurati su temi come il terrorismo e la

violenza molto più spesso i sociologi che gli storici. Al

riguardo è importante ricordare l’interessante lavoro

dell’Istituto Cattaneo in cui, a fianco dell’analisi del terrorismo

di estrema sinistra si pubblicarono, a cavallo degli anni ’90,

192

F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia

della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano, 1995.

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saggi e ricerche anche su stragismo e neo fascismo. Il volume

di Ferraresi, di cui l’ultima edizione risale al 1995, consta di

ricostruzioni e analisi sui gruppi della destra neo-fascista, sulla

violenza e sulle stragi. Il rischio che alcuni studiosi e fra i quali

lo stesso Ferraresi ci mostrano molto chiaramente è quello,

reale per chi tratta questi temi, di cadere in fraintendimenti e

nella ricerca di qualcosa in cui conchiudere tutti gli eventi.

Quasi a voler individuare un ipotetico e metafisico “grande

vecchio”. Ferraresi individua due possibili definizioni e usi

della locuzione strategia della tensione. Una “massimalista”

“che è appartenuta a certi filoni della sinistra, è una

interpretazione che vede una sorta di complotto universale

gestito dal ‘grande vecchio’, che passa attraverso diverse

possibili scansioni che sono il piano del capitale, lo Stato

imperialista delle multinazionali”193. L’altra possibile

interpretazione invece, che nega l’esistenza di questo

fenomeno, è quella “minimalista”: ”La strategia della tensione

non è mai esistita, è l’invenzione di qualche magistrato rosso,

193

F. Ferraresi, Un inquadramento storico nella ricostruzione della

strategia della tensione, in “Anpi oggi’’, La democrazia ha bisogno di verità.

La memoria di Milano strage di piazza Fontana, anno VIII-n, 2/3, marzo

1997, p. 19.

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delle toghe rosse che hanno cercato di vedere, in un certo

numero di vicende tragiche della nostra storia, un complotto

unificato; ma invece le istituzioni sono rimaste salde, gli organi

dello stato hanno sempre reagito in maniera corretta. Ci è stata

forse qualche deviazione, ma parlare di una strategia è una cosa

insensata e non dimostrata”194. Entrambe sono interpretazioni

estreme, lontane da quella più logicamente e storicamente

fondata, interpretazioni legate all’uso politico della, di questa,

storia. Un’altra definizione è stata trovata per distinguere non

solo terrorismo e stragismo ma gli anni ‘60 e ‘70: “guerra

civile fredda o a bassa intensità” o “guerra civile strisciante”.

Marco Grispigni ne fa un analisi approfondita: “Per indicare un

quindicennio della storia dell’Italia repubblicana, caratterizzato

con forza da conflitti sociali e dall’irruzione di nuovi soggetti

nell’agone politico e culturale, ho utilizzato, assieme a molti

altri studiosi, la definizione di ‘stagione dei movimenti’. In

contrapposizione a questa definizione. soprattutto nei lavori

provenienti dall’area di ex-autonomia operaia e da quella di

alcuni partecipanti alla lotta armata, ne è stata proposta un’altra

forte e precisa, quella di ‘guerra civile’, coniugata, con un

194

Ivi, pp. 19-20

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residuo di pudore, con una serie di parafrasi qualitative e

quantitative come ‘strisciante’, ‘fredda’, o ‘a bassa

intensità’”195. Lo stesso autore sottolinea che non si tratta:

“dell’unico caso di uso improprio di concetti storiografici”196.

In questo excursus non ritroviamo molti saggi e monografie

specifiche e pochi lavori sono usciti in anni successivi la fine

del ‘900, se non il volume di Francesco Biscione del 2003, in

cui viene affrontata l’analisi del Sommerso della Repubblica,

così come l’autore definisce le stragi, i piani eversivi e la

violenza inevitabilmente a questi legata. La ricerca del nesso

tra il “sommerso” e le attività destabilizzanti ha portato l’autore

a ritornare ad un contesto prettamente nazionale scorgendo

nelle tensioni e nelle intenzioni di mutare profondamente il

quadro politico-istituzionale nonché nella vicenda della P2

punti essenziali per la comprensione della storia di quegli

avvenimenti. Si devono, poi, considerare i testi che sono

scaturiti dal lavoro delle commissioni parlamentari d’inchiesta,

a cominciare dalla lunga intervista a Giovanni Pellegrino

195

M. Grispigni, 1977, Manifestolibri, Roma, 2006, pp. 99-100. 196

A suo avviso uno dei testi che per primo utilizzava questa definizione

era stato Il nemico interno, di Cesare Bermani pubblicato da Odradek nel

2003. M. Grispigni, op. cit. pp 101-103

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presidente dell’ultima commissione stragi197. La proposta di

relazione avanzata dallo stesso Pellegrino, e mai approvata

dalla Commissione, è poi stata in parte pubblicata198, così come

materiali raccolti e commentati, come nel volume di Paolo

Cucchiarelli e Aldo Giannuli199. Inoltre, le commissioni hanno

pubblicato moltissimo del materiale da loro prodotto o

raccolto. Le pubblicazioni curate dalla libreria del Senato non

sono tuttavia sempre facilmente consultabili. Oltre ai saggi e ai

volumi specifici è interessante prendere in considerazione

anche le storie della Repubblica in cui però spesso lo spazio

riservato a questi temi è scarso. Cucchiarelli e Giannuli hanno

calcolato infatti come in media l’1 per cento delle pagine delle

storie della Repubblica siano dedicate a questi temi200. Non

così facile è anche trovare testi che servano alla narrazione del

contesto e della complessità degli anni ‘70-‘80, gli anni di

piombo: ulteriore definizione adottata comunemente ma 197

G. Fasanella, C. Sestieri, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso

Moro, Einaudi, Torino, 2000. 198

Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle

cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Giovanni

Pellegrino, Luce sulle stragi. Per la comprensione dell’eversione e del

terrorismo, Lupetti, Milano, 1996. 199

P. Cucchiarelli e A. Giannuli op. cit. 200

P. Cucchiarelli, A. Giannuli, Lo Stato parallelo, op. cit.

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riduttiva e probabilmente fuorviante. Questa situazione limita

anche la divulgazione e il racconto agli studenti. Non sono tanti

i testi che ci aiutano a trasmettere queste conoscenze ma la

situazione sta cambiando: nei testi di Craveri201, Colarizi202,

Ginsborg203 si trovano più che cenni a questi temi. In uno in

particolare, Il paese mancato di Guido Crainz204, ci si sofferma

sulla ricostruzione della società di quel tempo raccontando un

clima culturale e sociale che raramente è stato così delineato in

cui l’autore inserisce in modo deciso e decisivo la storia delle

stragi. Oltre al già citato complottismo anche la dietrologia

rappresenta uno degli altri non sempre felici neologismi creati

in questo ambito di studio per indicare l’esasperata ricerca di

qualcosa di occulto e di “misterioso” dietro ogni evento: un

rischio da tener presente ed evitare. L’aggettivo misterioso e il

sostantivo mistero hanno intrigato i giornalisti, gli altri soggetti

che oltre agli storici e ai sociologi e ai giudici e magistrati si

sono occupati di stragi ed eversione. Molti testi sono stati

201

P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, TEA, Milano, 1995. 202

S. Colarizi, Biografia della prima Repubblica, Roma, Laterza, 1996. 203

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, op. cit. P. Ginsborg,

L’Italia del tempo presente, op. cit. 204

G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta,

Torino, Donzelli, 2003.

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prodotti da questi dedicati appunto ai misteri e ai segreti

d’Italia, come vengono definiti anche se meno numerosi di

quelli che si occupano di terrorismo brigatista. Il definire gli

accadimenti di quegli anni dalle stragi al terrorismo come

avvolti nel mistero non fa altro che allontanare dalla possibilità

di comprendere in modo più puntuale gli eventi. Fare leva sulla

“misteriosità” appunto attira lettori, intriga appassionati di

gialli ma è un ulteriore conferma del fatto che questi

accadimenti della storia contemporanea non siano conoscibili

in modo “scientifico”. Avere a che fare con un mistero nelle

società antiche significava “confrontarsi con una cronica

mancanza di conoscenze”, e inoltre questa non conoscenza

permaneva anche nel caso di un aumento delle stesse205: questa

specie di alone persistente di inconoscibilità resta anche nella

percezione attuale e di conseguenza ciò allontana dalla

comprensione e dalla volontà di affrontare questi temi. Nella

maggior parte di questi lavori giornalistici ci si discosta dal

lavoro storiografico per quanto riguarda le fonti e le analisi,

soffermandosi su alcuni avvenimenti o proponendo sequenze di

205

E. Esposito, La memoria sociale. Mezzi per comunicare e modi di

dimenticare, Laterza, Bari-Roma, 2001, p. 55.

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fatti ritenuti analoghi e collegati fra loro. I giornalisti e i

sociologi si sono anche interessati a temi come la costruzione

della memoria e il ruolo delle associazioni delle vittime206. Alle

vittime infatti è dedicato uno degli ultimi testi pubblicati su

questi temi, dal titolo I silenzi degli innocenti207. In questo

testo, curato dal giornalista Fasanella e da Antonella Grippo nel

cui sottotitolo si legge: “dopo anni di silenzio la parola

finalmente a loro: a chi non ha mai avuto modo di raccontare la

verità”, troviamo testimonianze di parenti e amici di persone

uccise dal terrorismo. Tra i lavori dei giornalisti troviamo

anche le interviste o la raccolta delle memorie dei protagonisti,

frequenti nel terrorismo di estrema sinistra. Nel caso dello

stragismo invece, raramente gli appartenenti ai gruppi neo-

fascisti hanno raccontato la loro esperienza o si sono impegnati

in una analisi dello stragismo208. In questo ambito è importante

206

A. L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della

strage di Bologna, 2 agosto 1980, Bologna, Il Mulino, 2003. 207

G. Fasanella, A. Grippo, I silenzi degli innocenti, Bur, Milano, 2006. 208

G. Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista

neo-fascista quasi per caso Baldini e Castoldi, Milano, 1992.

V. Vinciguerra, Ergastolo per la libertà. Verso la verità sulla strategia della

tensione, Arnaud, Firenze, 1989; V. Vinciguerra, La strategia del

depistaggio, Edizioni il fenicottero, Sasso Marconi, , 1993.

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il lavoro di Sergio Zavoli209, trasposizione della trasmissione

televisiva la notte della Repubblica sulla storia dei terrorismi

italiani e i recenti volumi tratti dalla trasmissione televisiva

Misteri d’Italia210 condotta da Carlo Lucarelli. Per quanto

riguarda il substrato culturale e le caratteristiche sociali,

politiche e organizzative dei gruppi neofascisti troviamo pochi

testi, tra cui quello di uno storico che ha analizzato i neofascisti

dopo il 1977211. Tra i testi di tipo giornalistico che cercano di

raccontare avvenimenti legati fra loro due hanno caratteristiche

esemplificative. Il primo è il lavoro di Gianni Flamini212 in cui

si definisce il “partito del golpe”, una struttura delineata

dall’insieme di vari pezzi: una parte dei politici al potere,

neofascisti e settori dei servizi segreti che sotto la guida

statunitense, secondo l’autore, è dietro alle stragi e al

209

S. Zavoli, op. cit. passim. 210

C. Lucarelli, Nuovi misteri d’Italia: i casi di Blu notte, Einaudi, Torino,

2004. 211

G. Cingolani, La destra in armi. Neofascisti italiani tra ribellismo ed

eversione 1977-1982, , Editori Riuniti, Roma, 1996. 212

G. Flamini, Il partito del golpe. Le strategie della tensione e del terrore

dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Bovolenta, Ferrara,

1981-1985.

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terrorismo. Il secondo è quello di Biacchessi213 che elenca le

stragi di piazza fontana, di piazza della loggia e della stazione

di Bologna per poi fare riferimento all’attentato alla redazione

del quotidiano “Il Manifesto” avvenuto nel 2001. Come già

accennato precedentemente, le difficoltà nel reperimento delle

fonti (che si spera di veder diminuire anche grazie agli archivi

stranieri, alla catalogazione di documenti legati alle

Commissioni parlamentari o alla valorizzazione degli archivi di

Centri di documentazione o delle Associazioni), polemiche,

uso pubblico e politico hanno condizionato in maniera incisiva

la riflessione storiografica, che dovrebbe invece essere uno dei

motori della ricerca e conseguentemente della divulgazione e

della conservazione della memoria. Gli storici non detengono

più, in questo e in altri temi della storia contemporanea, il

“monopolio” dell’analisi e dell’esposizione del passato: “Di

fatto, gli storici nella società odierna hanno perduto il

monopolio della parola sul passato, anche di quella

specialistica. Quello dello storico non è che uno dei discorsi

che si mescolano nel vortice del discorso sociale sul

213

D. Biacchessi, Ombre nere. Il terrorismo di destra da Piazza Fontana alla

bomba al “Manifesto’’, Mursia, Milano, 2002.

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passato”214. Inoltre lo spezzettamento dei soggetti legittimati a

produrre discorsi storici favorisce manipolazioni e distorsioni

di ogni tipo, trasformando l’uso pubblico della storia in una

ampia terra di nessuno: la storia e la memoria rischiano di

diventare strumento di lotta politica quotidiana. Sul terreno

dell’uso pubblico della storia l’impatto dei media mostra la sua

forza particolare con l’incessante emissione di informazione

storica o pseudo informazione (sui giornali, nei programmi

televisivi, in opere cinematografiche), i media si sostituiscono

ai tradizionali luoghi della storia e della memoria. “La memoria

pubblica è distinta dalla storiografia. In essa non agiscono, se

non in forma occasionale gli storici, agiscono attori politici e

istituzioni, agiscono la grande stampa e i mezzi di

comunicazione di massa”215. Non si può chiedere alla

storiografia di essere rimedio alla memoria assente, o parziale o

fuorviata visto che in questo, come in altri casi, “nonostante i

suoi sforzi, la storiografia non potrà mai colmare le lacune di

una memoria mutilata”216. Quello che si chiede alla storiografia

214

R. Robin, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della

memoria, Ombre corte, Verona, 2005, pp. 24-25 215

G. Santomassimo, op. cit. p. 229. 216

E. Traverso, op. cit. p. 36

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è di appropriarsi di uno spazio che dovrebbe essere degli storici

e degli strumenti specifici del loro mestiere, mentre come si è

visto, rispetto ai nostri temi, agli storici si aggiungono, o forse

si sostituiscono altri soggetti quali giornalisti e polemisti.

Anche per quanto riguarda le stragi di quegli anni la situazione

degli studi è simile. La strage di piazza Fontana, una strage coi

capelli bianchi come è stata definita217, è uno degli episodi più

affrontati, fin dai primi momenti successivi all’esplosione della

bomba: il testo la strage di stato, infatti usci nel giugno 1970,

quindi pochi mesi dopo il 12 dicembre 1969 con il resoconto di

una controinchiesta (consuetudine di quegli anni) molto

interessante e dettagliata. La definizione usata, adatta a quel

testo e a quel contesto, è successivamente entrata nel senso

comune e nelle polemiche che ancora si pongono ad ostacolo

della comprensione dei fenomeni. Piazza Fontana, e la morte di

Giuseppe Pinelli, furono a lungo all’attenzione di diversi

soggetti, basti pensare ai lavori di Dario Fo ad esempio o alle

inchieste giornalistiche una fra tutte quella di Camilla Cederna:

217

P. Barbieri, P. Cucchiarelli, La strage coi i capelli bianchi: la sentenza per

Piazza Fontana. Editori riuniti, Roma, 2003.

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Pinelli, una finestra sulla strage218. I protagonisti della

controinformazione erano di solito militanti della sinistra,

principalmente del movimento e dei gruppi extraparlamentari,

giornalisti e, a volte, avvocati. Dopo la strage del 12 dicembre

nacque poi il Comitato per la Libertà di Stampa e per la lotta

contro la repressione che diede vita nel 1970, su iniziativa di

Marco Nozza, al “Bollettino di Controinformazione

Democratica” in cui si cerca di analizzare la morte di Pinelli e

il coinvolgimento degli anarchici negli attentati e nella strage.

Questo bollettino, che arrivò a tirare 5.000 copie è stato

definito: “prova dell’inquietudine professionale che investe una

zona nevralgica e come strumento di lavoro e di collegamento

tra mondo giornalistico e nuova Sinistra che allarga il campo di

risonanza delle lotte democratiche del movimento”219. Nel

1975 l’esperienza del bollettino finisce lasciando il segno di

una grande attenzione rivolta dalla sinistra militante, e dagli

anarchici, verso le vicende legate alla strage di piazza Fontana.

Uno dei volumi più interessanti fra quelli di

controinformazione è il già citato La strage di stato che ebbe un 218

C. Cederna, Pinelli, una finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano, 1971. 219

A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta. Gruppi, movimenti e conflitti

sociali, R. Massari editori, Bolsena, 1998, p. 41.

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notevole successo editoriale: nel 1971 infatti superò le

centomila copie che negli anni successivi divennero mezzo

milione220. In questo testo vennero pubblicate notizie sulla

strage, su Pinelli e sugli anarchici, sui gruppi neofascisti e sui

loro collegamenti con i servizi segreti italiani e stranieri, sui

rapporti con la giunta dei colonnelli greci e sul gruppo di

estrema destra IV agosto guidato da Costas Plevris. Questo

testo, tra il settembre e l’ottobre del 1970, subì denunce per

diffamazione da parte di numerose persone che ne richiesero

anche il ritiro dal commercio su tutto il territorio nazionale221.

La strage di stato, controinchiesta militante per stessa

ammissione degli autori, testimonia una delle caratteristiche

della strage del 12 dicembre che è presente anche in altre

modalità di trasmissione della memoria, cioè la forte

caratterizzazione politica: la strage è studiata, raccontata,

ricordata dalla sinistra in una memoria che più che divisa è

separata, anche a livello politico. Da un lato troviamo infatti gli

220

Boatti, op. cit. p. 277 221

Giorgio Almirante, Enrico Frattini, Giuseppe (Pino) Rauti, Junio Valerio

Borghese, Giovanni Ventura fra gli altri. M. Baldi, Processi a un libro, in I.

Manniasa, La strage di stato. Un libro che ha fatto epoca, ristampa per il 12

dicembre 1993, op. cit. p. VI.

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anarchici e il movimento, dall’altro la sinistra parlamentare e

l’Anpi, dall’altro ancora le Istituzioni che, spesso, più che

ricordare scivolano sugli anniversari. Un altro interessante testo

sulla strage di piazza Fontana è quello di Giorgio Boatti222 che

analizza questo evento anche rispetto all’impatto che la strage

ha avuto sugli italiani, sui politici, sull’opinione pubblica.

Dopo la sentenza del 2002 è stato pubblicato il testo di Barbieri

e Cucchiarelli La strage con i capelli bianchi. La sentenza per

piazza Fontana223, un testo la cui copertina ripropone un

particolare della copertina de La strage di Stato e in cui, dopo

una settantina di pagine di contestualizzazione e

puntualizzazione delle vicende processuali vengono pubblicati

stralci di alcuni capitoli della sentenza del 2002. A

dimostrazione del fatto che ancora una volta, si privilegiano le

fonti giudiziarie decidendo di pubblicarle, integralmente o

parzialmente, come se potessero “parlare” da sole. Anche il cd

rom di Saverio Ferrari dal titolo Piazza Fontana la verità c’è è

costruito sulle sentenze. Il pubblicare le sentenze, è una scelta

222

G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969. Il giorno dell’innocenza

perduta, Feltrinelli, Milano, 1993. 223

P. Barbieri e Cucchiarelli, La strage con i capelli bianchi. La sentenza per

piazza Fontana, Roma, Editori Riuniti, 2003.

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che spesso anche i famigliari delle vittime hanno fatto,

soprattutto riguardo alla strage di Bologna. In questo caso la

pubblicazione è stata decisa con l’intento di divulgare la

sentenza, la “verità giudiziaria”. Con lo stesso scopo adesso le

sentenze sono presenti anche sul sito internet dell’Associazione

stessa224. Anche per la strage di piazza della Loggia sono state

stampate alcune sentenze ma quella di Brescia è stata forse la

strage a cui meno è stata data importanza da parte di giornalisti

o storici: oltre alle sentenze, negli anni Ottanta a firma di

Roberto Chiarini e Paolo Corsini sono usciti due testi, Da Salò

a piazza della Loggia in cui si ricostruisce la storia del

neofascismo225 e l’altro incentrato sulla strage226. Nel

trentesimo anniversario, su iniziativa dell’Associazione dei

famigliari delle vittime, è stato pubblicato un volume in cui

sono presenti diversi contributi di approfondimento

storiografico, di commemorazione, rivolti alla scuola e sulla

224

www.stragi.it 225

Chiarini R. - Corsini P. (a cura di), Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco

d’ordine neofascismo radicalismo di destra a Brescia (1945-1974), Franco

Angeli, Milano, 1983 226

Chiarini R. - Corsini P, La città ferita. Testimonianze riflessioni e

documenti sulla strage di piazza della Loggia, Centro bresciano

dell’antifascismo e della Resistenza, Brescia, 1985.

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trasmissione della memoria i cui autori sono storici, sociologi,

amministratori locali da Giovanni de Luna a Piero Ignazi a

Giovanna Marini227. Alla strage di Bologna sono stati dedicati

numerosi e diversi lavori dalle sentenze228 alle poesie dedicate

alle 85 vittime229. Uno dei primi libri usciti a riguardo fu un

libro fotografico edito dal Comune di Bologna e un testo che

nel sottotitolo si autodefiniva “controinchiesta su un attentato

che vogliamo dimenticare”: ci riferiamo ad Agosto è un pesce

sventrato di Alfredo Taracchini230. Questo volume di piccole

dimensioni e stampato in proprio, ripercorre attraverso i

quotidiani e i settimanali la strage e le prime indagini,

proponendo alcune considerazioni su questo e su altri eventi 227

Casa della memoria, 1974 28 maggio 2004 30 esimo. Anniversario della

strage di piazza Della loggia “Brescia: la memoria, la storia’’ testimonianze,

riflessioni, iniziative, Brescia 2005. 228

Si veda, ad esempio: De Luttis G. (a cura di), La strage: l’atto di accusa

dei giudici di Bologna, Editori Riuniti, Roma, 1986, Associazione familiari

vittime strage di Bologna (a cura di), Sentenza della Quinta Corte di Assise

contro Pazienza Musumeci Belmonte e altri, Moderna Editrice, Bologna,

1986, Associazione familiari vittime strage di Bologna (a cura di), Strage

alla stazione di Bologna. Sentenza della Corte Suprema di Cassazione a

Sezioni Penali Riunite, Tip. Visconti, s. l, 1992. 229

G. P Testa. Antologia per una strage: Bologna 2 agosto 1980, Bovolenta,

Ferrara, 1980. Ristampato nel 2005 per i tipi di Minerva. 230

A. Taracchini, Agosto è un pesce sventrato. Controinchiesta su un

attentato che vogliono dimenticare, Il pesce solubile/edizioni, Bologna,

1981.

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che da piazza Fontana in poi sono accaduti in Italia: diverso

quindi dalla controinchiesta sulla strage di Milano, ma utile

nella ricostruzione dei primi giorni successivi lo scoppio della

bomba e al riguardo delle prime indagini. Da notare come

l’autore parli a nemmeno un anno dalla strage di un attentato

che si vuole dimenticare. Nel 1989 Torquato Secci, presidente

dell’Associazione dei famigliari delle vittime, scrisse il testo

Cento milioni per testa di morto in cui possiamo trovare sia la

descrizione della strage e dei soccorsi, sia le prime fasi

dell’Associazione sia i processi, un testo che può essere ancora

una interessante introduzione ai temi legati a questa strage. Per

la strage di Bologna, l’unica che ha visto sentenze di condanna

passate in giudicato, si trovano testi che si occupano dei due

condannati231 e del processo232 ed anche testi in cui si

231

G. Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista

neofascista quasi per caso, Baldini e Castoldi, Milano, 1992 232

F. Raugei, op. cit. passim.

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espongono perplessità sulla condanna233 ed in cui di sostiene

l’innocenza di Ciavardini234.

2.3 Divulgazione

La letteratura, allo stesso modo della ricerca storiografica, è

uno strumento di indagine fondamentale per chi aspira a

comprendere una “stagione della storia”, i desideri di coloro

che ne hanno preso parte, e per sottolineare inoltre il fatto che

quella stagione è esistita davvero e che dei modi di agire e di

vivere si sono modificati. Possiamo affermare che dal 1967 al

1980 si sia consumata una “stagione” della storia italiana degna

di tale nome, e che la letteratura abbia tratto ispirazione da quel

momento storico e ne sia stata segnata. La mancanza di

distanza storica, ostacolo per lo storico, è per la letteratura un

vantaggio in quanto collima profondamente con la complessità

233

Comitato “E se fossero innocenti?’’ (a cura di), Strage di Bologna: oltre il

verdetto. Testimonianze di innocenza per Mambro e Fioravanti, Vulkano

Edizioni, Roma, 1995. 234

G. Semprini, La strage di Bologna e il terrorista sconosciuto. Il caso

Ciavardini, Bietti, Roma, 2003.

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degli anni Settanta italiani, nei quali sono presenti lotte

politiche, rivolte personali, conflitti sociali e generazionali. Nel

recente Anni Settanta235, Giovanni Moro, figlio di Aldo,

sostiene che il presente approccio a quel periodo sarebbe

caratterizzato da una “malattia” della memoria e del ricordo.

Uno dei sintomi è l’incapacità di andare oltre i conflitti che

sono ancora vivi nella memoria. Il problema sta nel definire

quegli anni con delle parole adatte: nessuna è scontata in

quanto simbolizzano conflitti politici e ideologici. Ognuna

delle fasi e delle lotte verificatesi durante quelli che Calvino

definiva come “gli anni intorno al 1968” ha conosciuto

denominazioni specifiche che si riferivano ogni volta ad aspetti

diversi: il “maggio strisciante” degli studenti collegato con la

importante mobilitazione operaia dell’“autunno caldo” nel

1969; il periodo della “strategia della tensione” che inizia con

la strage di piazza Fontana, a cui ne fanno seguito molte altre

(la strage del 12 dicembre 1969 era una “strage di Stato”); la

lunga stagione delle “lotte”, dei “movimenti”, delle “rivolte”;

la cupa stagione del “terrorismo” o della “lotta armata” etc. La

definizione “anni di piombo” (che viene dal titolo del film di

235

Giovanni Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007.

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Margarethe von Trotta Die bleierne Zeit del 1981) ha la meglio

solo retrospettivamente: tende a riportare la logica complessiva

di questi anni allo scontro violento se non al terrorismo, e

risulta molto ambigua in quanto il “piombo” pare sempre

essere quelli degli avversari. In La notte che Pinelli236, dove è

presente “la vecchia storia del ferroviere anarchico che venne

giù dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano”,

Adriano Sofri ha ultimamente rimarcato l’importanza delle

parole e dei fatti che possono scaturirne in una riflessione sulla

violenza e sulla sua “grammatica”, ricordando l’importanza di

avere un punto di vista etico e di una storicizzazione scrupolosa

(definita da Sofri il “corpo a corpo con il contesto”), e questa

visione è sicuramente una di quelle possibili per combattere

contro le “patologie” della memoria: la letteratura può

rappresentare una mediazione utile e consentire di ridare senso

ai fatti e alle parole. Fare un resoconto della letteratura della

“stagione delle rivolte” si può rivelare un compito difficile,

dato che siamo di fronte a un gran numero di testi dai svariati

livelli retorici. A questo si aggiunge il punto di vista

individuale di ogni autore, la data di redazione e il pubblico a

236

Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio, Palermo 2009.

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cui si rivolgono. Una lettura militante come ad esempio il libro

di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, Porci con le ali

(1976)237, nel quale si esprimeva con ironia la parola d’ordine

secondo la quale “il privato è politico” e dove veniva mescolata

la voglia di rivoluzione con la liberazione sessuale non ha

evidentemente lo stesso stile del romanzo Il nome della rosa238

scritto da Umberto Eco nel 1980 metafora degli anni di piombo

e del fallimento dell’estrema sinistra italiana: “Una storia molto

brutta, [ …] perché insegna […] come dall’amore di penitenza

e dal desiderio di purificare il mondo possa nascere sangue e

sterminio”. Allo stesso modo non possiamo dare la stessa

importanza a un testo scritto ai giorni nostri da un ex

protagonista degli anni Settanta e al romanzo di uno scrittore

che pur non avendo vissuto quegli anni di lotte ne trae spunto.

In alcuni casi, in particolar modo nella letteratura poliziesca

contemporanea, gli anni di piombo divengono una specie di

genere letterario a parte, suscettibile di venire declinato

all’infinito in vari modi. Esemplificativo della ricchezza e della

complessità della produzione letteraria ispirata in vari modi alla 237

Marco Lombardo Radice, Lidia Ravera, Porci con le ali, nuova edizione,

Mondadori, Milano 2001. 238

Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980.

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stagione della storia italiana di cui stiamo trattando è il fatto

che alcune delle opere di due scrittori di primo piano del XX

secolo ovvero Pasolini e Sciascia, appaiano profondamente

segnate da questa esperienza della quale si sono fatti testimoni.

Il 14 novembre 1974 Pier Paolo Pasolini pubblica sul “Corriere

della Sera” un articolo che più tardi sarà eloquentemente

reintitolato Il romanzo delle stragi239.In esso Pasolini riafferma

l’impegno dello scrittore, e più in generale dell’intellettuale,

nelle lotte politiche del suo tempo. Insistendo sulla frase “io

so”, egli stabilisce un rapporto di filiazione tra il suo intervento

e il famoso “j’accuse” di Emile Zola. Tuttavia lo scrittore

Pasolini “sa” in virtù della sua stessa condizione e della sua

“voce” di scrittore: “Io so perché sono un intellettuale, uno

scrittore, che cerca di […] immaginare tutto ciò che non si sa o

che si tace”. Il testo evidenzia in questo modo la funzione della

letteratura come strumento di conoscenza del reale che

permette di ricostruire un sapere, di suggerire una verità

all’interno della realtà. Quest’ultima nell’Italia degli anni

Settanta ha preso la forma stessa di un “romanzo”: “Credo che 239

L’articolo è uscito sul “Corriere della Sera’’ del 14 novembre 1974 con il

titolo Che cos’è questo golpe? Oggi si legge in Pier Paolo Pasolini, Saggi

sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 362-367.

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sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che

non abbia cioè attinenza con la realtà”. Petrolio invece, che

Pasolini inizia a scrivere nel 1972 rappresenta un tentativo

tramite la forma romanzesca di rivelare di più sulla storia

italiana di quegli anni. In Petrolio Pasolini rifiuta la linearità

tradizionale del romanzo a favore di una struttura “a brulichio”:

il libro è un formicolio di note simili a tessere di un puzzle, nel

tentativo appunto di suggerire il brulichio, le numerose

implicazioni della realtà politica dell’Italia degli anni Settanta,

suggerendo la figura di un nuovo “Potere” anonimo, totalitario

e polimorfo, oltre che innominabile (“Io so. Ma non ho le

prove. Non ho nemmeno indizi”) del quale Pasolini segnala

l’avvento nei suoi scritti politici dell’epoca. La redazione di

Petrolio viene brutalmente interrotta dalla morte violenta

dell’autore nel novembre del 1975. Petrolio resta così il

progetto incompleto di scrivere il “romanzo” della storia

italiana degli anni Settanta. Il romanzo poliziesco è la forma

letteraria preferita da Leonardo Sciascia: negli anni Settanta nei

quali pubblica Il contesto (1971)240 egli riformula il genere allo

240

Leonardo Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971. Il

testo è stato adattato per il cinema da Francesco Rosi nel 1976 con il titolo

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scopo di portare avanti un’indagine accurata sulle forme del

potere. Il contesto ha un sottotitolo ironico (Una parodia) come

ad indicare una farsa, il travestimento di un’opera che in un

contesto diverso dalla società italiana degli anni Settanta

avrebbe potuto essere seria. La parodia pervade la forma del

romanzo poliziesco, di cui Sciascia trasmette l’incapacità di

risolvere un enigma, di far venire fuori una verità che si trova

fuori dal testo, e che malgrado tutto il testo fotografa. Il testo

non esprime una risposta coerente, capace di portare chiarezza

e verità e ancora meno offre la possibilità finale di una

proclamazione sociale di tale verità. Paradossalmente,

l’obiettivo di confondere le carte fa si che si riveli quel “potere

invisibile”, un mondo che ha la caratteristica principale proprio

nell’essere cifrato. Cercare di fare chiarezza, equivale sia per

chi indaga e per chi legge o scrive, a correre il rischio di farsi

ammazzare. A partire dalle prime manifestazioni della

“strategia della tensione”, con Il contesto, la forma della fiaba

politica svela non la verità che rimane irraggiungibile, ma le

cause e le espressioni dell’occultamento, i meccanismi di

difesa del potere politico. Il contesto, il cui bersaglio preferito

di Cadaveri eccellenti.

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erano il PCI e la sua natura di partito falsamente rivoluzionario,

rappresentava una denuncia della collusione tra l’opposizione e

il sistema statale, tra la “ragione di partito” e “la ragion di

Stato”: una fiaba sull’organizzazione mafiosa del potere. Todo

modo (1974)241, che ha come bersaglio lo Stato democristiano

ha la forma di una fiaba sul potere nel momento in cui esso è

rappresentato come fondato solamente sulla lotta fratricida per

preservarsi, perdendo ogni riferimento ideologico e religioso.

Quello che colpisce nell’opera di Sciascia è la facoltà

premonitrice della letteratura, la lettura della realtà che essa

fornisce: quella del futuro “compromesso storico” con Il

contesto, quella del sacrificio di Aldo Moro con Todo modo. È

come se il testo di Sciascia fosse così portatore della violenza

del contesto sociopolitico dell’Italia degli anni Settanta che “si

ha la sensazione che il suo mondo immaginario coincida con la

realtà quotidiana”242. Nell’autunno successivo all’assassinio di

Moro, Sciascia (che farà parte successivamente della

“Commissione d’inchiesta sull’affare Moro”) pubblica un libro

241

Leonardo Sciascia, Todo modo, Einaudi, Torino 1974. L’opera è stata

portata sul grande schermo nel 1976 da Elio Petri. 242

Claude Ambroise, Polemos, prefazione a Leonardo Sciascia, Opere 1971-

1983, Bompiani, Milano 1989, p. XXIII.

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intitolato L’affare Moro, un altro esempio di come la letteratura

abbia la capacità di decifrare la realtà politica contemporanea o

di suggerirne il carattere indecifrabile. Sciascia fa della storia

di Moro una storia “già come scritta, […] già opera

letteraria”243. Ritroviamo dunque l’idea già ricordata a

proposito di Pasolini, che la realtà dell’Italia degli anni Settanta

sia profondamente letteraria per sua natura e che il compito

dello scrittore sia rivelarne la forma. L’analisi testuale delle

lettere che Moro scrisse durante la prigionia244 fa si che

Sciascia possa confutare quanti avevano tentato all’interno

dello stesso partito di considerare non valida la sua parola. Per

Sciascia infatti è nelle pieghe più nascoste del testo che è

presente una parte, seppur piccola di verità. Andando ad

analizzare la produzione degli attori – diretti o indiretti ‒ degli

anni Settanta ci troviamo di fronte a testi molto diversi tra loro

con un intreccio di livelli retorici. È difficile distinguere tra

autobiografia, testimonianza, diario, finzione e pamphlet. Una

delle caratteristiche di questa letteratura è di mantenere

costante la tensione tra il punto di vista attuale, quello del

243

Leonardo Sciascia, Opere 1971-1983, op. cit. p. 544. 244

Oggi raccolte con il titolo di Ultimi scritti, Piemme, Milano 2003.

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giudizio a posteriori, e il ricordo vivo delle lotte e dell’impegno

di quegli anni. In altre parole, questi testi rappresentano la

sopravvivenza nella memoria dei conflitti degli anni Settanta. È

il caso ad esempio di Dario Fo, che inizia a pubblicare opere

teatrali e testi militanti proprio negli anni Settanta (Mistero

Buffo del 1969, Morte accidentale di un anarchico del 1970,

dedicato alla morte del militante anarchico Giuseppe Pinelli,

Non si paga, non si paga!, del 1974, e infine Marino libero,

Marino è innocente245 del 1998 sull’incriminazione di Adriano

Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi per l’omicidio

del commissario Calabresi, del 1972). Un altro esempio è

offerto da Luce D’Eramo, che in Nucleo zero (1981)246

descrive la lotta armata. Le stesse tensioni sono presenti nei

testi scritti in prigione o che hanno come tema la prigione. Il

punto di vista carcerario è esemplificativo di una letteratura che

prova a descrivere anni ormai passati, caratterizzati da

momenti di impegno, ma dentro un quadro individuale che

mantiene vive le tracce di quel passato doloroso. Fra tutti

citiamo i testi di uno dei fondatori storici delle Brigate rosse,

245

I testi di Dario Fo sono editi da Einaudi. 246

Luce D’Eramo, Nucleo Zero, Mondadori, Milano 1981.

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Renato Curcio. Che uniscono spesso resoconto personale e

riflessione sulla condizione carceraria. È per esempio il caso di

La soglia (1996)247, riflessione sull’uscita di prigione, o di Nel

bosco di Bistorco (1999)248 scritto con Nicola Valentino e

Stefano Petrelli che riflette sulla reclusione partendo da un

lavoro sui sogni dei prigionieri e sulla loro espressione

linguistica. Queste esperienze di Renato Curcio non sono

isolate e la letteratura funge spesso da strumento per resistere

alla prigione denunciandone la durezza. Da citare i testi di

Geraldina Colotti249, Barbara Balzerani250, Valerio Morucci251,

Adriana Faranda252, oppure su un piano più romanzesco Gli

invisibili (1987)253 di Nanni Balestrini. Un’altra testimonianza

interessante che prende la forma di una scrittura letteraria si

247

Renato Curcio, La soglia, Sensibili alle foglie, Roma 1996. 248

Id. Nel bosco di Bistorco, Sensibili alle foglie, Roma 1999. 249

Geraldina Colotti, Per caso ho ucciso la noia, Voland, Roma 1997; Id.

Certificato di esistenza in vita, Bompiani, Milano 2005. 250

Barbara Balzerani, La sirena delle cinque, Jacabook, Milano 2003; Id.

Compagna luna, Feltrinelli, Milano 1998. 251

Valerio Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme, Milano

1999; Id. La peggio gioventù, Rizzoli, Milano 2004; Id. Patrie galere, Ponte

alle Grazie, Firenze 2008. 252

Adriana Faranda, Il volo della farfalla, Rizzoli, Milano 2006. 253

Nanni Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano 2007.

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trova nei testi di Giampaolo Cassitta254, ex funzionario

dell’amministrazione penitenziaria italiana che negli anni

Settanta lavoro nella celebre prigione speciale dell’Asinara: la

scrittura intensa, l’incrocio dei punti di vista rivelano ancora

una volta la sopravvivenza di tensioni e conflitti appartenenti al

passato. Questo aspetto sfocia in alcune presentazioni generali

di quegli anni.

È ad esempio il caso di alcune opere che riecheggiano

chiaramente un valore letterario nonostante uno stile scarno

come i ricordi di Enrico Fenzi, Armi e bagagli255. Questa messa

in scena dei conflitti passati si ritrova allo stesso modo nella

pièce teatrale scritta da Toni Negri e Raffaella Battaglini,

Settanta256. La forza del testo sta nel confronto tra due livelli

temporali, gli anni Settanta e il presente: è messa in scena una

coppia di militanti dilaniata dalla lotta armata e dalla

detenzione di uno dei protagonisti. I due, trent’anni più tardi, si

254

Giampaolo Cassitta, Supercarcere Asinara. Viaggio nell’isola dei

dimenticati, Frilli, Genova 2002(in collaborazione con Lorenzo Spanu); Id.

Asinara. Il rumore del silenzio, Frilli, Genova 2005. 255

Enrico Fenzi, Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate rosse, Costa e Nolan,

Genova 1987. 256

Toni Negri, Raffaella Battaglini, Settanta, Derive e approdi, Roma 2007.

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ritrovano e quella tensione ancora viva torna a galla insieme a

domande senza risposta su un impegno politico che sembra

superato anche se conserva la sua intensità iniziale.

La stessa intensità si ritrova nell’opera di Erri De Luca, nei cui

testi è espresso chiaramente questo nesso stretto tra livelli

retorici e ricordo sempre vivo delle lotte (Aceto, arcobaleno257,

Lettere da una città bruciata258). Anche la scelta della

letteratura poliziesca rappresenta questa volontà di far

perpetuare il passato e le sue passioni. Ne troviamo

testimonianze caratteristiche in autori coinvolti a vario titolo

negli anni Settanta come Massimo Carlotto259, Cesare

Battisti260, Valerio Morucci261 o Alberto Franceschini262.

257

Erri De Luca, Aceto, arcobaleno, Feltrinelli, Milano 1992. 258

Id. Lettere da una città bruciata, Dante e Descartes, Napoli 2002. 259

Massimo Carlotto, Il fuggiasco, E/O, Roma 1996; Id. Arrivederci amore,

ciao, E/O, Roma 2001. 260

Cesare Battisti, L’ultimo sparo. Un delinquente nella guerriglia italiana,

Derive e Approdi, Roma 1998. 261

Valerio Morucci, Klagenfurt 3021, Fahrenheit 451, Roma 2005. 262

Alberto Franceschini, La borsa del presidente. Ritorno agli anni di

piombo (in collaborazione con Anna Samueli), Ediesse, Roma 1997.

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183

CAPITOLO TERZO

Analisi della manualistica didattica

3.1 Carlo Cartiglia, Storia e lavoro storico,

Loescher, 1985

Loescher è una casa editrice italiana, fondata a Torino nel 1861

dal tedesco Hermann Loescher, nipote di Benedictus Gotthelf

Teubner. È specializzata in opere scolastiche, testi universitari

e classici, ma la sua fama è legata in particolare all'attività nel

campo della lessicografi, con il IL (vocabolario Italiano-Latino)

curato da Luigi Castiglioni e Scevola Mariotti, il GI

(vocabolario Greco-Italiano curato da Franco Montanari) e

molti altri dizionari. Nel 1989 la casa editrice Zanichelli

acquistò la totalità delle azioni Loescher dalla famiglia di

Maurizio Pavia. La famiglia Pavia, di origine biellese come la

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184

più nota famiglia Sella, deteneva il pacchetto azionario dagli

anni del Fascismo, periodo durante il quale, per le leggi razziali

fasciste, fu costretta ad affidarsi a prestanome. Nel 2013

acquisisce il catalogo della Casa Editrice D'Anna, che diventa

dunque un marchio dell'editore torinese.

Carlo Cartiglia è direttore editoriale Loescher. Per la medesima

casa editrice ha pubblicato tra gli altri Ieri, domani. Con

espansione online. Per la scuola media vol. 1-2-3; Ieri,

domani. Temi, parole e immagini della storia. Per la scuola

media vol. 1-2-3; Storia e ricerca. Laboratorio. Per le scuole

superiori vol. 1-2-3.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il tema del terrorismo è inserito inizialmente in un paragrafo

riassuntivo che vuole “indicare alcune fondamentali linee di

sviluppo politico, economico, sociale dell’Italia degli ultimi 20

anni” . Ogni argomento viene trattato brevemente con a lato

l’indicazione delle pagine successive in cui può essere

approfondito.

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Il “terrorismo politico” è inserito in un arco di tempo che va

dal 1969 al 1982, in cui si susseguono la sua “nascita,

sviluppo, e, infine, sostanziale arretramento e sconfitta”.

Troviamo un generico riferimento a “bande” vicine ai fascisti

ritenute responsabili di attentati e stragi tra cui “bombe fasciste

in una banca a Milano nel 1969”, in piazza a Brescia e sui

treni nel ’74 e alla stazione di Bologna nel 1980. Il riferimento

invece a quelli che vengono definiti “gruppi che si dicevano

vicini agli ideali della rivoluzione sociale” è più preciso, in

quanto Cartiglia cita come i più importanti tra essi le Brigate

Rosse e Prima linea, responsabili di un lungo elenco di

assassinii che comprende “poliziotti, carabinieri, sindacalisti,

magistrati, uomini politici” sino ad arrivare all’apice raggiunto

nel ’78 con l’uccisione del rappresentante più importante della

Democrazia cristiana, Aldo Moro. Come possiamo notare per

quanto riguarda le stragi, oltre a non citare il luogo dove esse

sono avvenute (per quanto riguarda Milano e Brescia), manca

l’indicazione del numero delle vittime. Sempre in riferimento

alle vittime poi, l’unica citazione anagrafica è quella di Aldo

Moro.

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186

All’interno dell’approfondimento ritroviamo innanzitutto il

riferimento all’anno 1969 come quello d’inizio del terrorismo

“nelle sue forme più organizzate e più vili”. Una minaccia che

tuttavia non proviene solamente dai gruppi di opposta matrice a

cui si è già fatto riferimento precedentemente e che “agiscono

sovente in modo isolato e con pochissimi collegamenti con la

società nel suo complesso”. Cartiglia sottolinea infatti come

altri pericoli probabilmente maggiori “nascono a volte da

alcuni centri di potere-come i Servizi segreti-che operano

senza controllo all’interno dello Stato” e sono di complessa

identificazione, in quanto garantiti ai piani alti o perché

immuni data la loro consistenza di “organismi separati”.

Come si può notare, il riferimento ai servizi segreti è

caratterizzato da avverbi ed espressioni che esprimono dubbi e

incertezze e non è collegato a fatti specifici.

Sono presenti inoltre 4 tabelle differenti. La prima indica il

numero di Attentati e violenze in Italia dal 1969 al 1980,

suddividendoli tra attentati alle cose, violenze, morti e feriti in

agguati. La seconda fa riferimento al numero delle vittime in

attentati provocati da organizzazioni terroriste di destra o di

sinistra, negli anni ’69-’72-’74-’75-’76-’77-’78-’79-’80. La

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terza ripartisce le vittime per grandi zone d’Italia del Nord,

Centro e Sud, facendo riferimento a stragi, agguati e altre

circostanze. La quarta, infine, indica le categorie sociali a cui

appartengono le vittime, con il numero maggiore rilevato per

quanto riguarda Forze dell’ordine e studenti.

Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, troviamo due

immagini accompagnate da questa didascalia “Due tra i

momenti più tragici nello scatenamento del terrorismo. Roma,

marzo 1978. Automobili vuote crivellate di colpi, segno sul

terreno dei morti, polizia, gente che osserva:sono appena

avvenuti il rapimento di A. Moro e il massacro della sua

scorta. Stazione di Bologna, agosto 1980. Treni devastati e

macerie”.

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3.2 Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, I

tempi della storia, B. Mondadori, 1986263

Pearson Paravia Bruno Mondadori SpA, in breve PPBM SpA,

è una società per azioni italo-americana impegnata nel campo

dell'editoria. La società è nata nel 2000 con il nome PBM

Editori, dall'unione delle case editrici Paravia e Bruno

Mondadori (il nome della nuova società deriva dalle iniziali

delle case editrici menzionate). Nel 2006 la società è stata

acquisita da Pearson PLC, un gruppo editoriale e mediatico

anglo-americano, il quale le ha poi assegnato il controllo del

ramo aziendale Pearson Education, a sua volta proprietario di

Pearson Longman. In seguito l'azienda è stata rinominata col

nome attuale, che unisce la precedente denominazione con

quella del gruppo.

Alberto De Bernardi insegna Storia contemporanea

all’Università degli Studi di Bologna. Si è occupato di storia 263

Gli stessi autori hanno pubblicato un manuale intitolato Storia del

mondo Contemporaneo, B. Mondadori, 1990, nel quale il tema del

terrorismo viene affrontato nella medesima maniera

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sociale, con studi sulla società rurale italiana tra Ottocento e

Novecento e sul movimento operaio e contadino, allargando

poi le prospettive di ricerca in direzione della storia del

fascismo, dell’antifascismo e dei movimenti di protesta

nell’Italia contemporanea.

Scipione Guarracino ha insegnato Metodologia della storia

presso la facoltà di Scienze politiche di Firenze.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il tema del terrorismo è inserito in un paragrafo riassuntivo

denominato “La geografia degli eventi”, che tocca vari

accadimenti ritenuti significativi. Viene evidenziato uno stretto

rapporto tra i movimenti di protesta studenteschi e operai del

biennio ‘68-‘69 e molti sviluppi che hanno contraddistinto le

vicissitudini del Paese nel difficile decennio successivo, tra i

quali spicca l’“oscura e drammatica trama del terrorismo”.

I primi anni Settanta si aprono con l’esplosione di una bomba

alla Banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana a

Milano, avvenuta il 12 dicembre ’69 “proprio alla conclusione

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delle lotte sindacali”. Essa rappresenta solo l’inizio di una

serie di stragi e attentati che continuano nel ’73 alla questura di

Milano, nel ’74 a piazza della Loggia a Brescia e sul treno

Italicus e nel 1980 alla stazione di Bologna. Questi atti sono

ricondotti dai due autori ad un generico “terrorismo di destra

in collusione con più oscure forze internazionali”, il cui

obiettivo è condurre l’Italia verso una soluzione autoritaria o

“destabilizzare” il Paese nell’importante bacino strategico del

Mediterraneo. Sembra emergere la volontà da parte dei due

autori di sottolineare come il disegno di destabilizzazione fosse

indirizzato ad arginare lo spostamento a sinistra dell’asse

politico italiano, che poteva preludere ad una democrazia

dell’alternanza grazie alla quale sarebbe rientrato nel gioco

politico anche il PCI. Si evidenzia inoltre come

l’individuazione dei mandanti delle stragi è stata resa

impossibile da “l’inerzia, le coperture, le connivenze gravi

nella magistratura, nell’esercito e negli organismi statali e di

governo”.

Il clima già teso è ulteriormente esasperato da “una crisi

economica di enorme gravità e di lunga durata” che ha inizio

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nei primi anni Settanta. Parimenti a quanto accadde sul piano

economico, anche per quanto riguarda quello sociale la crisi

portò alla nascita di un numero consistente di fenomeni mai

visti prima come “l’emarginazione sociale dei giovani in cerca

di lavoro nelle grandi metropoli, la crisi della famiglia

tradizionale, lo sviluppo della malavita organizzata con il suo

seguito di rapine, sequestri di persona, delitti, droga” . I due

autori inseriscono e accomunano poi l’esplosione del

terrorismo “di matrice anticapitalistica e rivoluzionaria” a

questo insieme di “drammatici fenomeni” secondo

un’interpretazione che vede le origini del terrorismo in una

dimensione anche sociologica (cfr. interpretazione F.

Ferrarotti). Alla base di tutti questi fenomeni sono annoverate

le false speranze del ’68 per numerosi gruppi di giovani, che

per anni hanno cercato di cambiare in maniera netta la società;

la mancanza di progetti di vita appaganti; l’“estraneità di

modelli di comportamento comuni per una massa di giovani

operai, studenti, tecnici e laureati”. Il “partito armato” quindi,

con il mostruoso obiettivo di “fare giustizia dei potenti e dei

capitalisti per conto della classe operaia”, si è reso

responsabile di una prolungata serie di assassinii che

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raggiungono l’apice con il rapimento e la morte di Aldo Moro,

politico democristiano che stava cercando con fatica la chiave

per giungere ad un accordo tra democristiani e comunisti,

ampliando in questo modo l’orizzonte della vita politica

italiana. L’attacco sferrato allo Stato democratico favorì la

formazione di “governi di unità nazionale” formatisi in

seguito, grazie anche al maggiore peso elettorale raggiunto dal

partito comunista italiano, con “l’obiettivo di aggregare

intorno a un programma di risanamento economico e politico

il più vasto arco di adesioni parlamentari”. Tali governi sono

giudicati positivamente, in quanto capaci di aver agito contro la

crisi economica e il terrorismo. Tuttavia appaiono slegati

dall’assassinio di Moro, che invece portò ad una accelerazione

nel voto di fiducia da parte dei comunisti il giorno del suo

rapimento e che quindi contribuì alla instaurazione del

secondo. Possiamo notare come non si faccia riferimento

all’organizzazione terroristica più importante, le Brigate Rosse,

ma venga usato il termine “partito armato” il quale comprende

tutti i gruppi clandestini. Il concetto di compromesso storico,

inoltre, è trattato in maniera generica, tanto è vero che questo

termine specifico non è neanche citato, ma si fa riferimento ad

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un generico accordo tra PCI e DC senza riferimenti diretti a

Berlinguer e al Partito comunista. La sconfitta del terrorismo,

secondo gli autori, risale all’inizio degli anni ’80, quando gli

equilibri governativi si erano modificati a favore del

pentapartito.

Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, non è presente

alcuna immagine nel testo.

3.3 Antonio Brancati, Popoli e civilta’, la nuova

italia, 1990.

La casa editrice La Nuova Italia fu fondata a Venezia nel 1926

da Elda Bossi e dal marito Giuseppe Maranini. Dopo una breve

parentesi a Perugia, si trasferì nel 1930, sotto la direzione di

Ernesto Codignola, a Firenze. Nel capoluogo toscano ebbe sede

nel 1958 in piazza Indipendenza al numero 29. Attualmente La

Nuova Italia è un marchio della RCS Libri.

Antonio Brancati, studioso emerito pesarese, svolge un’intensa

attività scientifica espressa nella pubblicazione di numerose

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opere di cultura locale e nazionale. È noto per i suoi testi di

Storia dedicati alle scuole di ogni ordine e grado, nei quali ha

reso operativa la sua particolare riforma didattica, ottenendo

numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali. Direttore

della Biblioteca e dei Musei Oliveriani dal 1974 al maggio

2009 (attualmente ricopre la carica di presidente onorario), ha

curato anche la rivista Studia Oliveriana fondata dal professor

Scevola Mariotti. Per la Fondazione Cassa di Risparmio di

Pesaro ha progettato e realizzato la collana Aletheia, di cui è il

curatore.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

In linea con altri manuali, il fenomeno del terrorismo viene

introdotto a partire dalla strage di piazza Fontana, che per

Brancati ha avuto come unico scopo quello di impedire lo

spostamento a sinistra dell’asse politico italiano, sulla scia

della spinta nella stessa direzione impressa al paese dal

movimento del ’68 e dall’autunno caldo del ’69: “Il 12

dicembre 1969, nel salone della Banca Nazionale

dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, l’esplosione di

una bomba ad alto potenziale provocò una strage: 16 morti e

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88 feriti. Le inchieste e le vicende giudiziarie successive non

giunsero mai a fare luce sul tragico evento. Mandanti ed

esecutori materiali rimasero impuniti. Tuttavia gli elementi che

riuscirono ad accertare nel corso degli anni consolidarono

l’ipotesi che si fosse trattato di un’azione terroristica maturata

negli ambienti dell’estrema destra neofascista. Era stato, in

sostanza, il tentativo di gettare il Paese nel caos e di provocare

una spirale di violenza che creasse le condizioni di una svolta

autoritaria. L’obiettivo era chiaro: bloccare la spinta a

sinistra emersa nella società italiana nel 1968 e ricacciare

indietro un movimento operaio che, nel 1969, si era rivelato

maturo e forte. La strategia della tensione o del terrore

inaugurata a piazza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per

molti anni una costante nella cronaca politica del nostro

Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze

compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e

neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine

Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a

manovre preparatorie di azioni golpiste”. Emerge quindi

come, nonostante il mancato accertamento della verità

giudiziaria (all’interno della quale non si fa riferimento alla

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vicenda di Pinelli), la strage si possa ricondurre quasi

sicuramente agli ambienti dell’estrema destra neofascista.

Piazza Fontana rappresenta infatti l’inizio di quella che viene

indicata col termine di “strategia della tensione” o del terrore:

creare una situazione di disordine e violenza in Italia affinché

fosse necessaria una svolta autoritaria. Vengono citate diverse

organizzazioni terroristiche neofasciste e neonaziste

(Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero)

responsabili di un gran numero di attentati e stragi, effettuati

contemporaneamente a tentati golpe. Quasi a sottolineare un

rapporto di consequenzialità, Brancati, immediatamente dopo

l’analisi del terrorismo di destra, fa riferimento al terrorismo di

segno opposto: “Nel corso degli anni Settanta l’attacco allo

Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno

opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il

terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si

proclamavano ‘comuniste’ (i Nuclei Armati Proletari, Prima

Linea e, soprattutto, le Brigate Rosse)”. Pur citando anche in

questo caso varie organizzazioni, quindi, viene evidenziato il

ruolo preminente delle Brigate Rosse. Tuttavia mi pare venga

messa in dubbio l’effettiva riconducibilità al comunismo delle

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stesse, dato che viene sottolineato come esse “si proclamavano

comuniste”. Viene effettuato quindi un parallelo tra i due

terrorismi, sottolineando uguaglianze e differenze: “Se i

terroristi neri si muovevano tra stragi e preparativi golpisti, gli

estremisti rossi preferivano gli attentati individuali contro

bersagli scelti per il loro significato simbolico: magistrati,

poliziotti, giornalisti, dirigenti di azienda. Gli obiettivi finali

delle due azioni eversive, ovviamente, erano divergenti. Gli

obiettivi intermedi, invece, erano simili: destabilizzare la

società italiana, provocare una lacerazione irreversibile del

tessuto democratico, far precipitare la situazione verso uno

scontro frontale e verso la violenza diffusa”. In realtà gli

obiettivi che entrambi i terrorismi si erano prefissati non furono

raggiunti, poiché la democrazia italiana si rivelò più salda di

quanto ci si aspettasse e capace di resistere all’attacco del

terrorismo nero, che Brancati descrive dettagliatamente nel suo

tentativo di gettare nel panico il cittadino medio, ignaro e

spaventato di quanto stava accadendo attorno a lui: “Messa

duramente alla prova, la democrazia italiana si dimostrò molto

più salda di quanto si sospettasse. Le stragi più atroci tra la

folla pacificamente riunita, gli attentati a treni e stazioni pieni

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di gente in partenza per le ferie, non provocarono le reazioni

violente e incontrollate che i mandanti si attendevano, pronti

evidentemente ad operare un’immediata stretta reazionaria”.

Allo stesso modo i terroristi rossi, sulla cui origine comunista

Brancati si dimostra come abbiamo visto scettico, non

riuscirono ad avere delle basi di massa e a diffondersi nelle

fabbriche. I loro proclami non ebbero infatti il seguito sperato,

facendo della lotta armata “sempre una scelta individuale”.

Anche la protesta sociale e politica, pur vivace nei momenti più

duri dello scontro di classe e di fronte alla grande repressione

poliziesca e giudiziaria che fece seguito alla stagione di lotte

68-69, non si lasciò contaminare se non in minima parte dal

“partito armato” clandestino. Le circostanze elencate furono la

premessa della sconfitta dei due terrorismi. Possiamo notare

quindi un netto distacco tra le lotte politiche di quegli anni e il

fenomeno del terrorismo che, anzi, protagonista principale di

quel periodo denominato “anni di piombo” (espressione che

ricorre in molti manuali) ebbe l’effetto di danneggiarle,

obbligando sulla difensiva partiti e sindacati con il conseguente

esaurirsi della spinta a sinistra.

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Restarono vive le battaglie per i diritti civili, anch’esse un

portato del movimento sessantottino, la più nota delle quali era

destinata a spaccare in due la società civile e la società politica.

Il referendum per il divorzio, infatti, creò nel paese una

tensione crescente che alimentò, secondo Brancati, l’attivismo

dei gruppi terroristi. Il primo sequestro, ai danni del giudice

Mario Sossi, segna l’inizio dell’ offensiva terroristica delle BR.

Possiamo leggere infatti: “Le organizzazioni terroristiche,

tentando evidentemente di fare leva sulla tensione prodotta nel

Paese dallo scontro frontale nel corso della campagna per il

referendum, intensificarono infatti le loro azioni. Nell’aprile

1974, alla vigilia della consultazione popolare, i terroristi di

sinistra delle Brigate Rosse rapirono il magistrato genovese

Mario Sossi, liberandolo solo dopo trentacinque giorni di

prigionia. Ancora più tragico il bilancio dell’attività degli

estremisti neofascisti: una strage con 8 morti e 94 feriti in

piazza della Loggia a Brescia (28 maggio) ed un’altra con 12

morti e 105 feriti per un attentato al treno ‘Italicus’ nei pressi

di San Benedetto Val di Sambro sulla linea Bologna-Firenze (4

agosto), proprio mentre venivano scoperti campi di

addestramento paramilitari e progetti più o meno elaborati per

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l’attuazione di un colpo di Stato”. Come per piazza Fontana, è

poi riportato il numero delle vittime delle altre due stragi

effettuate dalla stessa matrice neofascista: 8 morti e 94 feriti

per quanto riguarda piazza della Loggia a Brescia (28 Maggio)

e 12 morti e 105 feriti riferibili al treno “Italicus” (4 Agosto).

Anche in questo caso l’attività neofascista è intrecciata alla

scoperta di piani per un tentativo di golpe.

Ad incrementare le tensioni interne al movimento

dell’estremismo di sinistra interveniva in quegli anni anche la

proposta berlingueriana di un compromesso storico, cui

Brancati attribuisce un valore positivo. In conseguenza a ciò,

vengono brevemente indicate le misure del nuovo governo

Andreotti (29 luglio 1976-16 gennaio 1978) appoggiato dal

PCI: “Forte della disponibilità del PCI espressa dopo

trent’anni di opposizione, il nuovo governo potè operare con

una certa incisività sul piano economico alla ricerca di un

contenimento dell’inflazione e della riduzione del deficit della

bilancia dei pagamenti. Le richieste sindacali si fecero meno

pressanti, la lotta alle evasioni fiscali più incisiva, il ricorso ad

una maggiore entrata fiscale meno sofferta, la spesa pubblica

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per quanto possibile più limitata. Nello stesso tempo oltre a

negoziare un consistente prestito con il Fondo Monetario

Internazionale e con la Cee, si potè procedere alla

svalutazione della lira con benefici riflessi sui prodotti

destinati all’esportazione, i quali diventarono più competitivi

sui mercati esteri. Politica, dunque, di oculato appoggio al

governo, portata avanti con molto senso di responsabilità dal

PCI anche a scapito di profonde delusioni della sua base e

crescenti malumori della sinistra interna, la quale vedeva

ammorbidita la linea del partito”.

Tra i maggiori critici del PCI, accusato di aver tradito le sue

origini rivoluzionarie, troviamo inoltre Autonomia operaia, un

insieme di gruppi che dominavano l’area dell’estremismo

extraparlamentare di sinistra. Essi vengono descritti come

spesso simpatizzanti o addirittura fiancheggiatori del

terrorismo di sinistra, che reclutava militanti tra le loro file:

“L’area dell’estremismo extraparlamentare di sinistra, inoltre,

identificò nel PCI – accusato di aver tradito le sue origini

rivoluzionarie e di essersi socialdemocratizzato – il nemico

principale contro cui scagliarsi. Questa area, nel 1977,

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appariva largamente dominata dai gruppi detti Autonomia

operaia, spesso simpatizzanti o addirittura fiancheggiatori del

terrorismo di sinistra che tra le loro file reclutava militanti.

L’autonomia fece presa soprattutto fra i giovani ed egemonizzò

un movimento di vaste proporzioni, che dette vita nel corso del

1977 a una serie di manifestazioni tumultuose e violente.

Numerosi gli scontri con la polizia, trasformati spesso in

episodi di autentica guerriglia urbana. Costante la

contrapposizione con il PCI e con il sindacato di sinistra, la

Cgil. L’episodio più clamoroso in questo senso si ebbe

all’università di Roma, quando gli ‘autonomi’ impedirono con

la violenza un comizio del leader della Cgil, il comunista

Luciano Lama”.

Oltre alla contrapposizione con il PCI, è sottolineata quindi

anche quella con la Cgil, il sindacato di sinistra, rappresentata

dall’episodio avvenuto alla Sapienza. Il PCI venne a trovarsi

quindi in una situazione difficile, ulteriormente sottolineata in

questo modo: “Oggetto di durissimi attacchi, premuto dalla

sua stessa base, che considerava troppo passiva la dirigenza

del partito di fronte ad un governo che deprimeva il potere di

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acquisto dei salari e risultava impotente a dominare l’ordine

pubblico, il PCI si trovò in una situazione difficile: l’appoggio

esterno al governo rischiava di avere un prezzo troppo alto,

senza tradursi in concreti vantaggi politici. Inevitabile

l’ennesima crisi e solo il rapimento di Aldo Moro, attuato con

cinica determinazione da un commando delle Brigate Rosse il

16 marzo 1978 in via Fani a Roma a breve distanza

dall’abitazione dello statista e costato la morte all’intera sua

scorta, fece accelerare i tempi della votazione della fiducia ad

un nuovo monocolore democristiano sempre sotto la

presidenza di Andreotti, ma con l’appoggio di tutti i partiti

dell’arco costituzionale concesso dalle Camere nel giro di

poche ore: una specie di ‘solidarietà nazionale’ in un momento

di gravissima emergenza, nel quale era in gioco l’integrità

dello Stato e della stessa classe politica, che lo guidava e che il

9 maggio – a 54 giorni dal rapimento – dovette assistere

pressocchè impotente al ritrovamento del cadavere dello

statista democristiano in un auto abbandonata nei pressi delle

sedi centrali del PCI e dalla DC”.

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Il rapimento di Moro ad opera delle Brigate Rosse, quindi, ha

l’effetto di accelerare la formazione del già previsto governo

monocolore democristiano di “solidarietà nazionale” sotto la

presidenza di Andreotti, ma con l’appoggio dato alle camere in

poco tempo di tutti i partiti compreso il PCI. Un governo

necessario in un momento di gravissima emergenza, acuita dal

ritrovamento del cadavere dello statista democristiano dopo 54

giorni di prigionia. Viene ricordata poi la morte, avvenuta nello

stesso difficile momento, del pontefice Paolo VI, il quale: “Il

16 aprile aveva inviato un accorato e nobile appello alle

Brigate Rosse per perorare la liberazione di Moro”.

Il paragrafo 6 è intitolato: “L’attacco al cuore dello stato” e al

suo interno troviamo delineate le conseguenze politiche del

rapimento e assassinio di Aldo Moro. Possiamo leggere infatti:

“Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro erano stati episodi

di estrema gravità, destinati ad avere pesanti ripercussioni sul

clima politico generale. Le Brigate Rosse avevano colpito ‘il

cuore dello Stato’ attraverso il più prestigioso personaggio del

partito di maggioranza: una figura chiave nei complessi e

delicati rapporti tra i partiti che stavano delineando la nascita

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di un quadro politico del tutto nuovo. Con Moro era

scomparso il teorizzatore di una linea di dialogo graduale e

prudente, ma certamente destinata ad approdi inediti: forse la

diretta partecipazione dei comunisti al governo, in un’ipotesi

di solidarietà nazionale imposta dall’emergenza (economica,

dell’ordine pubblico e anche morale per il continuo dilagare

degli scandali e della corruzione), forse la creazione delle

condizioni per un’alternanza democratica nella gestione del

potere, comunque la fine della pregiudiziale che per trenta

anni aveva escluso i comunisti dall’area di governo. Con la

morte di Moro gli spiragli di dialogo, appena aperti, erano

destinati a richiudersi rapidamente”.

Nel paragrafo 7, infine, troviamo in primo luogo il riferimento

alla strage di Bologna: “In questo periodo – grazie anche alla

perspicacia e alla fermezza del generale dei carabinieri, Carlo

Alberto Dalla Chiesa (1920-1982) fu intensificata con successo

la lotta al terrorismo, sempre attivo e pronto a colpire in modi

e forme feroci e spietate sia da destra (particolarmente grave

l’attentato alla stazione centrale di Bologna affollata per

l’esodo estivo, il 2 agosto 1980, con 76 morti e oltre 200 feriti,

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8 dei quali deceduti nei giorni successivi) sia da sinistra”.

Successivamente, a chiusura del paragrafo, vengono descritti i

motivi che hanno portato il terrorismo al declino: “Anche il

terrorismo di sinistra, enucleatosi in numerosi gruppi armati,

continuava infatti ad agire attraverso una lunga serie di

sequestri, rapine e scontri a fuoco, di fronte ai quali l’apparato

dello Stato sembrava non essere in grado di intervenire con

rapidità ed efficacia risolutive. Tuttavia, dopo avere raggiunto

l’apice della violenza con il rapimento e il delitto Moro, il

terrorismo rosso iniziava a vivere la stagione di un lento ma

progressivo declino: evidente risultato di una più decisiva e

capillare azione delle forze dell’ordine, del logoramento delle

organizzazioni eversive, duramente provate dai contrasti

interni e dal fenomeno del ‘pentitismo’, ma, soprattutto, della

tenuta della democrazia italiana”

Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, sono riportate

un’immagine e una vignetta: l’immagine è presente all’interno

del secondo paragrafo ed è accompagnata da una didascalia che

recita: “Un clima di violenza generalizzata, cui si risponde da

parte dello Stato con un consistente rafforzamento della

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polizia, costituisce uno degli aspetti caratterizzanti la società

italiana degli anni Settanta. Mentre sono in corso lotte

studentesche e agitazioni dei gruppi giovanili – cui si riferisce

la fotografia di Uliano Lucas che mostra l’assalto di un gruppo

di dimostranti alla sede dell’Msi di via Mancini a Milano nel

1975 – l’Italia farà la pesante esperienza del terrorismo

organizzato, che dal 1974 in poi tenta di abbattere le istituzioni

repubblicane. L’acme della spirale di violenza che investe il

Paese viene raggiunta nella primavera del 1978 con il

rapimento e l’assassinio – da parte delle Brigate Rosse – di

Aldo Moro, l’esponente più illustre di quella collaborazione,

anche a livello politico, fra democristiani e comunisti che tra il

1976 e il 1979 era stata suggerita sia da ragioni ideali sia

dalla gravità della situazione interna. Il 1978 segna, però,

anche l’inizio del declino del terrorismo, non essendo riuscita

la violenza organizzata a indurre la popolazione a fare propri i

principi e i programmi dei brigatisti, che poco a poco finiscono

per trovarsi sempre più isolati. Ciononostante essi

continueranno a colpire ripetutamente al punto che nel corso

del 1981 si contano ancora 791 attentati con un tragico seguito

di morti e di feriti, soprattutto tra le forze di polizia. L’81 è

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anche l’anno che vede il sequestro del generale americano

della Nato James Lee Dozier, liberato qualche settimana più

tardi grazie ad un’azione dei Nocs, i corpi speciali

antiterrorismo organizzati dal Ministero degli Interni. Nel

frattempo un evidente ripensamento sul passato più o meno

recente tende ad incrinare dall’interno la solidità delle file

terroristiche: nel febbraio 1980, in seguito all’arresto di alcuni

brigatisti, compare il fenomeno del ‘pentitismo’ con quello,

conseguente della collaborazione con gli organi dello Stato. È

da allora per l’appunto che l’organizzazione terroristica

subisce i colpi più incisivi grazie anche ad una apposita legge,

che prevede consistenti diminuzioni di pena per quanti,

rifiutando il terrorismo, si mostrano disposti a collaborare

contro di esso”. La vignetta invece è presente all’interno del

settimo paragrafo ed è descritta in questo modo: “La gravità

della situazione interna del Paese nel 1976 – determinata

soprattutto dall’intensificazione del terrorismo ‘rosso’ e

‘nero’, accomunati dall’intenzione, più o meno scopertamente

espressa, di voler distruggere le istituzioni democratiche e

repubblicane nate dall’antifascismo e dalla Resistenza –

indusse i due maggiori partiti italiani, la Democrazia Cristiana

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e il Partito Comunista, ad accordarsi per una collaborazione,

consolidata subito dopo l’assassinio di Aldo Moro (maggio

1978). La vignetta di Giorgio Forattini, pubblicata nel luglio

’76 sul quotidiano ‘La Repubblica’, è ispirata all’avvenimento

e in particolare al cosiddetto ‘governo delle astensioni’

guidato dall’onorevole Giulio Andreotti, che per la prima volta

dal 1947 permetteva ai comunisti di riaffacciarsi nell’area di

governo. Efficace e curioso l’accostamento della coppia

Berlinguer-Andreotti a quella Togliatti-De Gasperi, attiva nei

più difficili anni del secondo dopoguerra, al tempo dei primi

tre ‘governi di unità nazionale’ o di coalizione dei partiti

antifascisti a guida degasperiana ( 1945-1947)”. Sono presenti

infine due testi-documenti all’interno di un approfondimento

che si intitola Cosa scrivono gli storici. Il primo Il bipartitismo

imperfetto e la lotta armata è tratto dal testo di G. Galli, Storia

del partito armato 1968-1982, Milano, Rizzoli, 1986. Il

secondo invece, intitolato Per una più ampia analisi del

fenomeno terroristico in Italia, consiste in un’intervista

effettuata da Giuseppe De Carli sulle origini ideologiche del

terrorismo al ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio

Rognoni.

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3.4 Gabriele De Rosa, L’Età Contemporanea,

Minerva Italica, 1990.

La Casa editrice nasce nel 1952 a Bergamo come casa editrice

scolastica, in un contesto di grande fervore imprenditoriale. Per

tutta la sua esistenza, la Minerva Italica è sempre stata fra le

più importanti case editrici per la scuola in Italia. Nella sua

produzione ha sempre mantenuto un carattere prevalentemente

didattico, rivolgendosi a tutti gli ordini di scuola, dalle

elementari alle medie, fornendo servizi didattici e formativi

sempre molto curati rivolti agli insegnanti. Nel 1989 viene

acquisita dalla “Elemond Scuola” e, insieme alla “Arnoldo

Mondadori Scuola”, costituisce il primo nucleo di quello che

diventerà successivamente il Gruppo “Elemond-Divisione

Scuola”, in cui la Minerva verrà fusa nel 1991.

Gabriele De Rosa è stato professore ordinario di Storia

contemporanea nelle università di Padova, Salerno (di cui fu

rettore) e Roma. Nella sua attività di storico si è concentrato sul

movimento cattolico in Italia e sulla Democrazia Cristiana: è

riconosciuto come uno dei più importanti autori italiani su

entrambe le materie. Egli inoltre è stato autore di numerosi

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saggi di storia sociale e religiosa, e di altrettanti manuali per le

scuole medie e superiori. Il suo nome è legato alla

pubblicazione di numerosi saggi su Alcide De Gasperi e Luigi

Sturzo, in particolare di diversi epistolari di quest'ultimo, col

quale strinse amicizia nel 1954. Oltre che storico è stato anche

politico: fu eletto senatore della Repubblica Italiana nella X e

nella XI Legislatura, rivestendo nel 1993 il ruolo di

capogruppo della Democrazia Cristiana.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il tema del terrorismo è preso in esame in un capitolo dal titolo:

“Crisi economica e dissociazione politico-sociale nell’Italia di

oggi” . Viene trattato inizialmente nel paragrafo 5, intitolato:

“Dall’eccidio di Piazza Fontana all’assassinio di Aldo Moro è

un crescendo pauroso di delitti terroristici”. Possiamo notare

come in questa analisi si faccia un elenco cronologico degli

avvenimenti più importanti: “Il fenomeno più terribile che ha

scosso profondamente la coscienza del Paese, per la sua

crudeltà e orrenda criminalità, è stato il terrorismo, che

proprio dal 1969 ha incominciato a salire in un crescendo

pauroso sino al 1980. Volendo adottare una datazione,

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potremmo incominciare dall’eccidio di Piazza Fontana a

Milano il 12 dicembre 1969. Nella sede della Banca Nazionale

dell’Agricoltura fu fatta esplodere una bomba ad alto

potenziale. Ci furono 16 morti e 90 feriti. Nonostante un lungo

e complesso processo, non si è ancora pervenuti ad individuare

i colpevoli”. Non viene data alcuna rilevanza, quindi, al

coinvolgimento dei servizi segreti e dei neofascisti nella strage

di Piazza Fontana, sottolineando solamente in maniera generica

come ci sia stato un complesso processo senza colpevoli. La

strage di Piazza fontana viene considerata “la madre di tutte le

stragi” , perché è da qui che De Rosa fa partire l’escalation

della violenza terrorista. Ciononostante, nessun riferimento

specifico ai procedimenti giudiziari e alle persone coinvolte

nelle indagini sul terrorismo di destra è presente nel testo. Una

delle ragioni per cui ciò accade è da ricercare nella difficoltà di

individuare i colpevoli, a causa della lunghezza dei processi e

del coinvolgimento di settori dei servizi segreti e di apparati

delle forze di sicurezza, coinvolgimento che emergerà molto

dopo la pubblicazione del manuale. “Da allora fu un fitto

susseguirsi di attentati contro sedi di partiti, di giornali, di

industrie, di conflitti tra fazioni studentesche di destra e di

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sinistra, di episodi di vera e propria guerriglia urbana contro

le forze dell’ordine. Nell’agosto del 1970 compare il primo

volantino delle Brigate Rosse, a Milano, alla Siet-Siemens. Nel

marzo 1972 incominciano i sequestri di persona e i ‘processi

proletari’, mentre si assiste a un aumento continuo delle

rapine. Il 28 maggio 1974 è il giorno della strage di Piazza

della Loggia a Brescia. Nel corso di un comizio antifascista

viene fatto esplodere un ordigno che provoca 8 morti e

centinaia di feriti. Il paese è sconvolto dalle immagini di

questa strage. Il 4 agosto 1974, attentato al treno Italicus,

diretto da Roma a Monaco. Una bomba esplode nella quinta

carrozza sotto una galleria appenninica, a poca distanza dalla

stazione di San Benedetto Val di Sambro: 12 morti e 48 feriti” .

Anche gli avvenimenti relativi al terrorismo di sinistra –

eccetto il caso Occorsio – vengono presentati in forma di

elenco dal carattere informativo più che interpretativo:

“Sindacalisti, magistrati, commissari e agenti di polizia,

carabinieri, giornalisti vengono ‘puniti’ con ferimenti alle

gambe o assassinati. Fra gli uccisi il commissario di polizia

Luigi Calabresi, i magistrati Francesco Coco, Vittorio

Occorsio, Riccardo Palma, Gerolamo Tartaglione, il

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giornalista Walter Tobagi. Tra i feriti il giornalista Indro

Montanelli, Emilio Rossi, direttore del ‘Telegiornale’. Il 16

novembre 1977 è ferito a morte il giornalista Carlo Casalegno.

Il 16 marzo 1978 in via Fani a Roma viene sequestrato il

presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro dalle BR.

Gli uomini della sua scorta sono massacrati: il maresciallo

Oreste Leonardi e gli agenti di scorta, Raffaele Jozzino,

Francesco Zizzi e Giulio Rivera. Il 9 maggio 1978 in una

macchina abbandonata a Roma in via Caetani è ritrovato il

corpo di Aldo Moro, ucciso con raffiche di mitra dai brigatisti

rossi. Il 29 gennaio 1979 è assassinato a Milano il giudice

Emilio Alessandrini. Il 13 luglio 1979 è ucciso a Roma il

tenente colonnello Antonio Varisco. Il 12 febbraio 1980 è

assassinato nell’atrio della Facoltà di Scienze politiche a

Roma, dove insegnava diritto amministrativo, Vittorio

Bachelet, ex presidente dell’Azione Cattolica, vice Presidente

del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel settembre

1982 è assassinato a Palermo il generale Carlo Alberto Dalla

Chiesa; il 16 aprile 1988 è assassinato nella sua casa di Forlì,

il senatore democristiano Roberto Ruffilli, impegnato nei

progetti delle riforme istituzionali. Questa sequenza di delitti è

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solo indicativa: dovremmo aggiungere, tra gli altri, anche i

nomi dei carabinieri e dei poliziotti, che sono caduti nella lotta

contro i terroristi, neri e rossi”.

In questo lungo elenco possiamo osservare, per prima cosa,

come il nome del commissario Calabresi non venga legato alla

morte di Pinelli e alle indagini su Piazza Fontana, inoltre non

viene fatto alcun riferimento alla strage della stazione di

Bologna, avvenuta il 2 Agosto del 1980. Viene citato invece,

ed è uno dei pochi casi in cui ciò accade, il giornalista Carlo

Casalegno, il primo giornalista ucciso durante gli anni di

piombo. L’assassinio del generale Dalla Chiesa, invece, mi

pare venga inserito in maniera inopportuna: la sua morte infatti

è avvenuta per mano mafiosa. Nel paragrafo conclusivo, De

Rosa dichiara che il terrorismo è stato sconfitto sul piano

politico e su quello pratico, grazie all’operato delle forze

dell’ordine: “Se l’obiettivo delle formazioni terroristiche, dalle

Brigate Rosse a Prima Linea, era di destabilizzare lo Stato,

questo non è stato raggiunto: lo Stato non solo ha resistito, ma

ha inferto, mercè l’azione dell’arma dei carabinieri e della

polizia che hanno raggiunto un grado elevato di preparazione,

ai 180 gruppi terroristici, di cui ben 140 della sinistra

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eversiva, colpi durissimi. Interi gruppi, con i loro capi, sono

stati sbaragliati”. Vengono quindi nominate solamente

organizzazioni terroristiche di sinistra e non si fa cenno a

quelle di estrema destra che, secondo De Rosa, sono comunque

numericamente inferiori.

Un particolare rilievo viene dato alla componente ideologica

dei gruppi terroristi, tanto da dedicare a questo aspetto un

paragrafo dal titolo “Non vi è dubbio che il terrorismo ha una

sua struttura ideologica”, nel quale l’autore si sofferma sulle

varie interpretazioni del complesso fenomeno. Possiamo

leggere infatti: “C’è chi ha visto nel terrorismo un fenomeno

endogeno, nato da processi disgregativi e dirompenti formatisi

all’interno della nostra società civile: altri vi hanno visto un

fenomeno di importazione, che ha saputo utilizzare uno stato

psicologico e intellettuale di ribellismo anarcoide e sovversivo,

enucleatosi nei momenti più drammatici della crisi delle

ideologie marxiste-leniniste. Da una simile interpretazione

rimarrebbe escluso il terrorismo di destra, minoritario rispetto

al primo, ma che con il primo concorrerebbe a raggiungere gli

stessi scopi di destabilizzare lo Stato”. Ci troviamo quindi di

fronte ad un’analisi del fenomeno che prende in considerazione

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prevalentemente il terrorismo di sinistra: “L’interpretazione

del terrorismo come fenomeno strategicamente gestito fuori

dal nostro Paese condurrebbe a prospettare l’ipotesi di una

specie di guerra per procura […] Questa ipotesi sino ad oggi

non appare sufficientemente documentata: troppo scarse sono

le prove di collusioni internazionali, per ammettere l’esistenza

di un piano di guerra per procura. La prima ipotesi, quella che

attribuisce al terrorismo origini interne, si presenta ancora

oggi come la più plausibile”. De Rosa, quindi, sposa la prima

ipotesi dell’origine endogena del terrorismo. Riprende inoltre il

concetto, già enunciato nel titolo, della struttura ideologica del

terrorismo: essa ha fatto presa tra molta gioventù, soprattutto

degli Atenei, pur non esprimendo un pensiero politico e civile

“organico e ben individuato”. I molti gruppi terroristici,

infatti, sono caratterizzati da uno spontaneismo “disarticolato”

che si unifica nell’esaltazione del gesto delittuoso. Per quanto

riguarda i loro punti di riferimento: “Ma i brigatisti collocano

sullo stesso piano tanto l’imperialismo americano che il

socialimperialismo sovietico, così come venne denunciato da

Mao Tse-Tung. Essi ritengono che i due imperialismi non siano

altro che ‘due variabili specifiche del modo di produzione

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capitalistico, in questa fase, capitalismo privato e capitalismo

di stato’. […] I ‘teorici’ delle Brigate Rosse ripudiano il

partito Comunista italiano, il suo programma e la sua storia,

da Gramsci a Togliatti; ripudiano anche i sindacati. Indicano

inoltre come nemici la Democrazia Cristiana, il ministero del

Tesoro, la Banca d’Italia, i magistrati e i ‘giornalisti –

consulenti’. Trasformando la vittima in puro simbolo del

potere, la violenza si giustifica con se stessa, o si giustifica con

l’inesorabilità di un convincimento rivoluzionario,

completamente dissociato da ogni legame civile, umano e

religioso”.

De Rosa insiste sulle forme di connivenza con il terrorismo che

sorgono spontaneamente in certi settori della società

particolarmente permeabili alle parole d’ordine del terrorismo,

trasmesse in una pluralità di modi: dai libri, ai giornali, ai

volantini, alle radio private, ad un certo tipo di accademia, ad

alcuni settori della giustizia e, come strumenti di propaganda

del terrorismo, attraverso un certo tipo di libri, una stampa

fiancheggiatrice, cattedre, giudici e partiti della sinistra. “Tra il

sogno funereo, tragico, mostruoso del terrorista e certo

consenso che si è formato attorno ad esso fra gli studenti, in un

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certo mondo snob di borghesia intellettualoide che giuocava a

far la rivoluzione, e negli ambienti di fabbrica, c’è la

‘mediazione’ di un linguaggio che ha educato a una specie di

metafisica della violenza: libri che insegnavano i metodi della

guerriglia, una stampa fiancheggiatrice del terrorismo,

‘dottrine’ che esaltavano l’equidistanza tra Stato e imprese del

terrorismo, cattedre a servizio della ‘rivoluzione’ che

plagiavano intelligenze fragili di adolescenti, intimidazioni di

massa e ricatti nelle aule universitarie, un permissivismo

dilagante a tutti i livelli, di cui si sono resi complici anche

giudici e partiti della sinistra”. Il suo giudizio definitivo è

lapidario: “Il terrorismo italiano ha radici private, è il

prodotto di una minoranza, che ha cercato di aggregare

attorno alle sue parole d’ordine quanti avevano motivi per

negare l’ordine e la giustizia dello Stato: dalla delinquenza

comune ai carcerati agli autonomi dell’ultra sinistra” .

De Rosa è convinto inoltre che “Il terrorismo è un prodotto

anche della dissociazione fra società politica e società civile”

– come lui stesso scrive titolando un nuovo paragrafo ancora

dedicato a questo argomento. In esso troviamo innanzitutto un

riferimento ai terrorismi di altre nazioni, come quello tedesco e

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francese, che tuttavia, a differenza di quello italiano, sono stati

ben presto sconfitti dallo Stato. Possiamo leggere infatti:

“Quello italiano è durato molto più a lungo, né si può dire che

sia estinto, dal momento che, dopo ogni sconfitta, ha

dimostrato capacità di autoalimentarsi. […] Il terrorismo

invece dell’età post-industriale ha già una sua collocazione

storica, non se ne potrà prescindere nel raccontare le vicende

italiane degli anni Settanta e Ottanta. Lo Stato si è trovato

impreparato di fronte ad esso, quasi sorpreso di scoprire un

mondo sconosciuto rispetto a quello gestito negli anni del

‘miracolo economico’. Si è prodotta dalla fine degli anni

Settanta una disarmonia fra lo Stato e la sua base sociale, una

dissociazione tra società politica e società civile, tra il

linguaggio dei partiti e il comportamento delle masse: si

tengano presenti i grandi movimenti di immigrazione interna, i

caotici processi di urbanizzazione, lo spopolamento massiccio,

inarrestabile delle campagne del Sud, con i radicali mutamenti

di mentalità, che hanno distrutto la possibilità di richiami e

percezioni di valori tradizionali etici e religiosi. Lo stesso

clero, e non solo la classe dirigente, è apparso inadeguato a

far fronte a una crisi di così vaste proporzioni”. Lo stesso tipo

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di analisi era condivisa da Moro che, con parole presaghe, in

un discorso alla Camera il 2 dicembre 1974 individuava in

parte le radici del terrorismo nel distacco tra società politica e

società civile: “Il Paese non ha trovato, evolvendo, un suo

assetto definitivo e accettabile […] Non si tratta di

sovrastrutture, ma di fenomeni di base. E sarebbe vano

approntare piccoli rimedi a fronte di cause importanti. C’è una

sproporzione, una disarmonia, una incoerenza fra società

civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni, e società

politica […] Non è solo intermittente la nostra economia, ma è

discontinua, nel suo stesso impetuoso fiorire, la vita sociale;

stanca la vita politica, sintesi inadeguata e talvolta impotente

dell’insieme economico-sociale del Paese […] Questa Italia

disarmonica e disordinata è però infinitamente più ricca e viva

dell’Italia più o meno assestata del passato. Ma questa è solo

una piccola consolazione. Perché anche nel crescere e del

crescere si può morire”.

De Rosa, inoltre, rifiutava anche l’interpretazione del

terrorismo come “strategia della tensione”, che ai suoi occhi

appariva solo come una formula “escogitata” per spiegare un

fenomeno che aveva ben altre radici: “Per spiegare le imprese

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del terrorismo, si escogitò fra la fine degli anni Sessanta e i

primi anni Settanta la formula della ‘strategia della tensione’:

si sosteneva, soprattutto dalla stampa di sinistra, che era in

atto una sorta di complotto fra estremisti di destra e servizi di

sicurezza per destabilizzare lo Stato democratico. L’opinione

pubblica era smarrita, anche perché i poteri pubblici

mostravano di essere impreparati ad affrontare una situazione

così tesa, nella quale, oltre le gesta criminali dei terroristi,

operavano anche grossi movimenti studenteschi, con finalità

fiancheggiatrici delle colonne armate del brigatismo rosso”.

Possiamo qui evidenziare due punti importanti. Il primo

riguarda l’uso del termine “strategia della tensione”, che viene

attribuito tuttavia alla stampa di sinistra. Pur essendo difficile

parlare di uso politico della storia in questa circostanza, non è

però possibile non accennare al fatto che De Rosa fosse uno

storico molto vicino alle posizioni della Democrazia Cristiana e

dunque non era facile per lui accettare l’ipotesi, peraltro non

pienamente dimostrata, di un coinvolgimento di settori deviati

dello Stato. Il secondo punto degno di nota è l’accusa esplicita

rivolta ai movimenti studenteschi, che vengono definiti

“fiancheggiatori dei terroristi”.

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A fare da catalizzatore delle tensioni, inoltre, vi era anche la

difficile situazione economica interna brevemente descritta,

legata ai governi di centro-sinistra succedutisi in quegli anni.

L’insoddisfazione per l’immobilismo dei governi DC/PSI si

manifestava poi chiaramente in occasione delle elezioni

amministrative del 1975 e delle politiche dell’anno successivo,

che videro il voto di protesta riversarsi in modo massiccio sul

PCI: “Dalle elezioni politiche del 1976 usciva il primo

‘governo delle astensioni’, guidato da Giulio Andreotti:

governo tutto democristiano, che potè formarsi grazie

all’astensione dei partiti dell’‘arco costituzionale’, come si

diceva allora, identificati nei partiti che avevano varato la

Costituzione: dai liberali ai repubblicani ai socialisti ai

comunisti. La novità era costituita dal fatto che fra i partiti

dell’astensione era appunto il partito Comunista, guidato da

un leader di grande prestigio politico: Enrico Berlinguer […]

La proposta più famosa e discussa del nuovo leader comunista

fu quella del ‘compromesso storico’: una sorta di grande

intesa e alleanza fra comunisti, socialisti e cattolici per

rispondere agli attentati e alle manovre, più o meno nascoste,

contro le istituzioni democratiche e per dare nuovo slancio alla

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politica delle riforme. […] Non vi è dubbio che con la sua

proposta Berlinguer dava la massima prova della duttilità del

Partito Comunista nella nuova prospettiva strategica di una

sempre maggiore associazione del comunismo italiano alle

sorti e alle regole delle democrazie occidentali”. La proposta

di Berlinguer venne seguita fin da subito con interesse da

Moro: “Il leader della DC, Aldo Moro, seguì con attenzione

questa evoluzione interna del PCI, ne comprese le novità e

ritenne che potesse percorrersi insieme un tratto di cammino

per superare l’emergenza. Pur parlando di una ‘terza fase’

della Democrazia Cristiana, non sembra che Moro la vedesse

realizzabile attraverso il ‘compromesso storico’. Convinto

della necessità di una maggiore compenetrazione fra società

politica e civile e di più forti intese fra i partiti di massa per

quella politica di riforme, richiesta dai cambiamenti del Paese,

non riteneva che la DC potesse abbandonare quel ruolo di

centralità nella vita politica del Paese, nella quale si

riassumeva l’eredità di Alcide De Gasperi. Tuttavia le Brigate

Rosse credettero di individuare in Moro con la sua politica di

‘solidarietà nazionale’, tendente a compromettere il ruolo

della sinistra marxista attraverso il potere, il maggiore nemico

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della rivoluzione comunista: lo rapirono e lo assassinarono”.

Come possiamo vedere, la morte di Moro è legata alla

“minaccia” che le Brigate Rosse vedevano in lui in quanto

sostenitore di una politica di “solidarietà nazionale”.

3.5 Carlo Capra, Giorgio Chittolini Franco Della

Peruta, Corso di storia, Le Monnier, 1992.

Le Monnier è una casa editrice italiana, di proprietà del gruppo

Mondadori. Fondata a Firenze nel 1837 dal francese Felice Le

Monnier (1806 – 1884), già tre anni dopo la sua istituzione

vide la nascita della più famosa tra le sue collane, la

“Biblioteca nazionale italiana”. Ceduta nel 1859 alla Società

Successori Le Monnier, l’azienda fu rilevata nel 1922 da

Armando Paoletti, che la rivitalizzò con il ripristino della

“Biblioteca nazionale” e l’avvio della collana “Studi e

documenti sulla storia del Risorgimento”, diretta da Giovanni

Gentile. Attenta a partire dagli anni Sessanta all’editoria

scolastica, la casa editrice ha pubblicato riviste politico-

letterarie e scientifiche di rilievo quali Pegaso, Il Ponte, Studi

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italiani di filologia classica, La Cultura. Tra le altre

pubblicazioni si cita il Vocabolario illustrato della lingua

italiana curato da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli. Nel 1999

la Le Monnier – che ebbe tra i collaboratori personalità come

Vittore Branca e Giovanni Spadolini (come direttore dei

Quaderni di storia e, dal 1976 al 1994, come presidente della

società) – entrò a far parte del gruppo Arnoldo Mondadori

Editore.

Franco Della Peruta, docente di Storia del Risorgimento

all'Università di Milano, è stato socio corrispondente

dell'Accademia dei Lincei e presidente dell'Istituto lombardo di

storia contemporanea. Ha inoltre diretto o condiretto importanti

riviste quali Movimento operaio, Studi storici, Società e storia,

Storia in Lombardia. Studioso del Risorgimento di ispirazione

marxista, ha indagato con particolare attenzione le correnti

democratiche e socialiste, curando, tra l'altro, scritti di Carlo

Pisacane, Filippo Buonarroti e l'importante raccolta degli

Scrittori politici dell'Ottocento (Milano-Napoli, Riccardo

Ricciardi, 1969).

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Carlo Capra ha al suo attivo un quarantennio di insegnamento

universitario in Storia moderna, trascorso presso l'Università

degli Studi di Milano. Capra, oltre che professore ordinario di

Storia moderna e di Storia dell'età dell'Illuminismo, è stato

anche nella stessa sede Direttore di Dipartimento e

Coordinatore del Dottorato di ricerca in Storia. I suoi studi

(attestati da oltre 150 pubblicazioni) hanno riguardato in

prevalenza il Settecento riformatore, in particolare nella

Lombardia austriaca e l'età rivoluzionaria e napoleonica in

Francia e in Italia. Carlo Capra è condirettore della collana

Studi e ricerche storiche presso l'editore FrancoAngeli e della

collana Biblioteca del Settecento italiano presso le Edizioni di

Storia e Letteratura di Roma. Presiede inoltre il Comitato

scientifico dell'Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri,

ed è direttore responsabile della rivista Archivio Storico

Lombardo.

Giorgio Chittolini insegna Storia medievale presso la Facoltà di

Lettere e Filosofia dell’Università di Milano ed è presidente

della Fondazione Centro Studi sulla Civiltà del Tardo

Medioevo di San Miniato.

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§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il tema del terrorismo è inserito in un capitolo denominato La

vita politica italiana dal 1968 ai giorni nostri. È importante

prima di tutto rilevare come i tre autori dedichino

un’importanza diversa ai terrorismi di diversa matrice: mentre

quello nero infatti è brevemente trattato, quello rosso è

analizzato in un paragrafo intitolato Il Terrorismo, a

dimostrazione del fatto che i tre autori considerino quello rosso

come il terrorismo per eccellenza. A quest’ultimo è inoltre

dedicato un documento il cui contenuto descriverò più avanti.

Il terrorismo nero agisce all’interno della “strategia della

tensione”, considerata dagli autori come un progetto teso a

destabilizzare tramite una serie di attentati, effettuati quasi

certamente da neofascisti collegati con i servizi segreti, e il cui

obiettivo è giungere a una svolta autoritaria. Come accade

anche in altri manuali, l’inizio di questa strategia è indicato

nella strage di piazza Fontana: “Questa strategia prese l’avvio

con la strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969),

dove l’esplosione di una bomba nei locali della Banca

nazionale dell’agricoltura provocò 17 morti e un centinaio di

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feriti. La polizia addebitò inizialmente l’attentato agli

anarchici, ma la versione ufficiale si sgretolò presto mentre

sospetti sempre più fondati si addensavano su gruppuscoli di

neofascisti collegati ai servizi segreti”. Viene sottolineata

quindi la falsità della versione ufficiale e il prosieguo delle

indagini verso colpevoli più attendibili, pur non facendo

riferimento alla vicenda Pinelli. La “svolta autoritaria” citata

precedentemente viene esplicitata tramite il riferimento al

tentato golpe: “Nel dicembre 1970 ci fu poi il tentativo di colpo

di Stato di Junio Valerio Borghese, già comandante della X

flottiglia MAS durante la Repubblica di Salò, che riuscì a

occupare per alcune ore il Ministero dell’interno”. Vengono

elencati poi gli altri gravi attentati che nel tempo hanno

costantemente riproposto il tentativo di trascinare nel caos

l’Italia: “Strage di piazza della Loggia a Brescia (dove nel

maggio 1974 una bomba scoppiata durante una manifestazione

antifascista fece otto morti), nell’attentato al treno ‘Italicus’

(agosto 1974, con 12 morti) e nella gravissima esplosione

provocata il 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione

ferroviaria di Bologna, che fece 85 vittime”.

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Alla nascita del terrorismo rosso è dedicato un intero paragrafo

intitolato – come detto – Il terrorismo. L’origine del fenomeno

è legata a doppio filo dagli autori ai gruppi della sinistra

extraparlamentare: i gruppi più estremisti della stessa infatti

vengono indicati come il terreno fertile in cui esso affonda le

sue radici. L’analisi ideologico-dottrinaria, considerata spesso

avulsa dalla realtà dagli autori, considera il PCI come nemico

della rivoluzione: “Il PCI aveva tradito la causa della

rivoluzione, era divenuto riformista, e andava combattuto allo

stesso modo del sistema capitalistico e dei partiti della

borghesia”. Il passaggio alla violenza e alla lotta armata

clandestina era quindi inevitabile per arrivare all’obiettivo

finale, che era quello della rivoluzione in cui sarebbero stati

distrutti il capitalismo e lo Stato “borghese”. L’attacco del

terrorismo rosso iniziò nel 1970 con la nascita dei gruppi

clandestini, primo fra tutti quello delle Brigate Rosse,

considerate la più : “decisa organizzazione terroristica di

estrema sinistra italiana”. Viene sottolineato come l’attività

delle Brigate Rosse, fondate da Curcio nel 1970, sia stata

caratterizzata da una escalation: “dopo una serie di attentati

incendiari dimostrativi cominciò a sequestrare magistrati e

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dirigenti aziendali”. È citata poi la presenza di un piccolo

gruppo, i GAP (Gruppi armati proletari), legati

all’imprenditore ed editore Feltrinelli, della cui morte non si

hanno notizie certe: “morì nel 1972 in circostanze rimaste

oscure nel tentativo di sabotare un traliccio dell’alta tensione

vicino a Milano”. Oltre agli ex militanti di Potere Operaio

scioltosi nel 1973, altri due gruppi sposano la strategia

terroristica in quegli anni: i Nuclei armati proletari (NAP) e

Prima linea, entrambi tra il 1975 e il 1976. Quest’ultimo è

anche l’anno che viene indicato come quello di una svolta

importante, dato che le Brigate Rosse passano all’azione

cruenta. Oltre alle “gambizzazioni” vengono elencati i primi

veri e propri omicidi a sangue freddo: “Tra gli altri i

giornalisti Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il sindacalista

comunista Guido Rossa e il professore cattolico Vittorio

Bachelet”. Il bilancio dell’attività violenta iniziata nel ‘76 e

conclusasi nell’82 parla di una lunga scia di sangue: “Questa

sequela di violenze delle Brigate Rosse e degli altri gruppi che

ne seguirono l’esempio provocò fino a tutto il 1982 più di 160

vittime”.

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La forte contiguità tra le Brigate Rosse e la sinistra

extraparlamentare è ulteriormente approfondita facendo

riferimento ai fatti del ’77. Si sottolinea innanzitutto come

“L’attività delle Brigate Rosse fu giustificata sul piano

ideologico dai gruppi di Potere operaio e Lotta continua” ,

gruppi la cui azione era caratterizzata dalla cosiddetta

“illegalità di massa”, una forma di lotta sociale che

comprendeva l’occupazione delle case e gli “espropri

proletari” , danni ai negozi e ai supermercati. Inoltre erano

frequenti manifestazioni di massa nelle scuole e nelle strade e

violenti scontri con le forze dell’ordine che raggiunsero l’apice

nel 1977. Proprio questo è infatti indicato come l’anno in cui:

“ci fu una ripresa in forme esasperate e radicalizzate del

movimento studentesco e giovanile sessantottesco”. Il

“movimento del ’77”, all’interno del quale: “si esprimevano

anche un malessere esistenziale dei giovani e la delusione di

quelle speranze di rinnovamento globale che erano seguite al

‘68” vide l’egemonia di Autonomia operaia, fortemente critica

verso i sindacati e il PCI. Fu contro di essi infatti che il

movimento fu indirizzato e a conferma di questo è riportato

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l’episodio della cacciata violenta del segretario della CGIL

Luciano Lama durante un comizio alla Sapienza di Roma.

Gli “opposti estremismi” – come vennero genericamente

definiti – poterono agire a lungo a causa di una risposta dello

Stato che fu per lungo tempo debole, fino a quando a capo

della lotta al terrorismo fu chiamato il generale dei carabinieri

Carlo Alberto Dalla Chiesa, descritto come “abile e risoluto”,

caratteristiche che sono attribuite alla sua figura nella maggior

parte dei manuali. Si deve a Dalla Chiesa quindi la progressiva

demolizione della struttura delle Brigate Rosse, avvenuta

tuttavia dopo il sequestro e l’omicidio Moro di cui si darà

conto nel paragrafo successivo. Inoltre: “Un apporto notevole

alla lotta contro il terrorismo venne da una legge del 1980 che

concedeva forti riduzioni di pena agli imputati che avessero

collaborato con la giustizia” portando infatti molti di questi

“pentiti” a dare alle forze dell’ordine indicazioni molto utili

per le indagini. I tre autori sottolineano comunque come, oltre a

quanto già detto, i fattori fondamentali della sconfitta del

terrorismo furono rappresentati dalla: “reazione di rigetto della

grande maggioranza degli italiani” e dal mancato consenso

della classe operaia al progetto rivoluzionario.

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Al “caso Moro” come già accennato precedentemente, è

dedicato un paragrafo specifico, separato dall’analisi generale

del terrorismo e intitolato: La “solidarietà nazionale” e

l’uccisione di Aldo Moro. La morte dell’allora presidente della

DC è posta alla fine di un’accurata ricostruzione della

situazione politico-economica di quegli anni. Innanzitutto si

sottolinea come si andasse profilando un “sensibile

spostamento a sinistra del paese”, del quale si

avvantaggiavano i comunisti, i quali: “avevano combattuto con

grande determinazione il terrorismo polemizzando duramente

con i gruppi extraparlamentari” e allontanatisi sempre più da

Mosca rappresentavano ormai un esempio di pluralismo

democratico. Il primo segnale dello spostamento a sinistra fu

nel maggio ’74 la “pesante sconfitta della DC nel referendum

indetto per l’abrogazione del divorzio. Contro ogni previsione

Il referendum, sostenuto anche dalla Chiesa e dal Msi, non

passò e a favore del divorzio si pronunciò più del 59 per cento

degli elettori”. Il risultato del referendum e le altre numerose

campagne a favore dei diritti civili di quegli anni dimostrarono

come il processo di modernizzazione e secolarizzazione della

società italiana avesse fatto importanti passi in avanti. Lo

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spostamento a sinistra dell’elettorato fu sancito invece dalle

elezioni regionali del giugno ’75 che videro “una netta

affermazione dei comunisti (33%), un buon risultato dei

socialisti e un calo democristiano”. Allo stesso modo le

politiche del ’76 confermarono questa tendenza con i comunisti

al 34, 4%, la DC stabile e i partiti minori che raccoglievano

pochi consensi. Questo esito elettorale aveva reso non

percorribile la costituzione di una maggioranza parlamentare di

centro o di centro-destra: tale evidenza portò una parte dei

democristiani, convinti da Moro che viene definito “il grande

tessitore” a voler sposare la linea del compromesso storico che

in quegli anni andava delineandosi. La diversa linea strategica

elaborata dal nuovo segretario Berlinguer, descritto dagli autori

come “un uomo di profonda onestà morale e intellettuale,

misurato e alieno dalla retorica”, consisteva infatti in una

collaborazione tra i comunisti, i socialisti e i cattolici resasi

necessaria a suo avviso di fronte alla crisi economica e al

pericolo di una svolta autoritaria come quella avvenuta in Cile.

L’operazione era giudicata possibile da Berlinguer in quanto:

“La DC non era un partito organicamente reazionario dal

momento che al suo interno esisteva una forte componente

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popolare e progressista”. Viene sottolineato inoltre

l’atteggiamento realistico di Berlinguer che, conscio

dell’ostilità degli Stati Uniti ad un governo allargato al PCI

nonostante i progressi di cui si è prima parlato nei confronti

della democrazia che il partito aveva fatto, diede la

disponibilità ad “appoggiare dall’esterno un governo di

coalizione, senza l’ingresso diretto dei comunisti nel

ministero”. Nell’agosto ’76 si arrivò quindi alla nascita del

“governo di solidarietà nazionale”, monocolore DC,

presieduto da Andreotti, altresì detto della “non sfiducia”,

avendo ottenuto in parlamento l’astensione di tutti i partiti

dell’arco costituzionale: comunisti, socialisti del PSI e del

PSDI, repubblicani e liberali. L’astensione del PCI viene

descritta come determinante e significativa: per la prima volta

infatti dal 1947 il partito non era più all’opposizione. Viene

ulteriormente sottolineato il ruolo di Berlinguer che,

appoggiando le misure prese dal governo in materia

economica, dimostratesi poi adeguate a fronteggiare la crisi,

sottolineò “l’esigenza di introdurre nel paese una maggiore

“austerità”, con un implicito invito a moderare le richieste

salariali accolto dalle confederazioni sindacali”. Oltre che per

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affrontare la crisi economica, il contributo dei comunisti al

governo fu fondamentale, come gli autori hanno già

precedentemente sottolineato, per “combattere il terrorismo e

difendere la democrazia”. Essi infatti: “diedero nell’estate

1977 il loro consenso a misure che ampliavano i poteri della

polizia, alla quale la legge reale del 1974 aveva già attribuito

la facoltà di fermare i sospetti di terrorismo e di trattenerli per

48 ore senza che nessuno potesse comunicare con loro” . Il

1978 è indicato come un punto di svolta: i comunisti infatti,

appoggiati dai repubblicani, avanzarono la richiesta di fare

parte di un governo di emergenza nazionale in maniera più

attiva, venendo respinti dai settori moderati della DC e dal

divieto degli Stati Uniti, che si manifestò pubblicamente con

una dichiarazione dell’amministrazione Carter. La soluzione di

compromesso alla quale si giunse, ovvero la costituzione di un

nuovo monocolore Andreotti con questa volta il voto

favorevole dei partiti precedentemente astenutisi, è il contesto

in cui viene inserito il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro.

Possiamo leggere infatti: “Fu a questo punto che le Brigate

Rosse, nell’intento di colpire il progetto del compromesso

storico, misero a segno la loro azione più clamorosa, il

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rapimento di Moro e l’uccisione degli uomini della sua scorta

effettuati a Roma la mattina del 16 marzo 1978, proprio il

giorno in cui Andreotti si accingeva a presentare alla Camera

il suo nuovo ministero, che vedeva i comunisti inseriti nell’area

di governo”. Aldo Moro viene considerato dalle Brigate Rosse

quindi, come il simbolo del compromesso storico e in quanto

tale condannato a morte. Inoltre il loro obiettivo era quello di

“imporre alle autorità della repubblica una trattativa per

salvare la vita di Moro in cambio della liberazione di un

gruppo di terroristi detenuti”: un tentato ricatto che, qualora

avesse avuto esito positivo, le avrebbe legittimate nei confronti

dello Stato. Per scongiurare questo grave rischio fu imposta la

linea della fermezza da parte del nuovo governo Andreotti,

dalla maggioranza del paese e delle forze politiche in

particolare comunisti e repubblicani. Una parte residua invece

delle forze politiche era favorevole a una trattativa per ragioni

di tipo umanitario o politico. Le Brigate Rosse decisero allora

“il barbaro omicidio di Moro, il cui cadavere fu ritrovato il 9

maggio in una strada del centro di Roma”. Viene sottolineato

in ultima battuta da parte degli autori come l’assassinio del

politico democristiano ebbe l’effetto opposto di quello voluto

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dalle Brigate Rosse, creando il vuoto attorno ad esse, ed inoltre

viene riconosciuto come l’inizio del declino del terrorismo.

È presente un documento riferito al rapimento di Aldo Moro:

“Aldo Moro, presidente del Consiglio e possibile candidato

alla presidenza della repubblica, fu rapito dalle Brigate Rosse

il 16 marzo 1978 in piena Roma. Ecco la cronaca

dell’avvenimento nella ricostruzione di un noto giornalista e

cultore di storia contemporanea, Giorgio Bocca”. All’interno

del documento è presente anche una foto di Aldo Moro

descritta dalla seguente didascalia: “La foto di Aldo Moro nel

“carcere del popolo” diffusa dalle BR”. Inoltre per quanto

riguarda l’iconografia troviamo in un altro paragrafo anche una

foto relativa a piazza Fontana: “La Banca nazionale

dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano venerdì 12

dicembre 1969, poco dopo l’esplosione”.

3.6 Giuseppe Galasso, Storia, Bompiani, 1995.

Bompiani è una casa editrice italiana fondata da Valentino

Bompiani nel 1929 a Milano. Negli anni Trenta Bompiani

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trova le prime alleanze che daranno identità alla propria casa

editrice. Vi collaborano Cesare Zavattini, Antonio Banfi (poi,

al suo posto, Enzo Paci e infine Umberto Eco, che dagli anni

cinquanta dirige collane di studi e vi pubblica fedelmente i

propri scritti), quindi Elio Vittorini (che vi pubblica anche i

propri scritti) e dagli anni settanta Antonio Porta, poi Mario

Andreose, Elisabetta Sgarbi (sorella del critico d'arte Vittorio e

direttrice del quadrimestrale Panta) e Giovanni Reale.

Un'impresa originale e molto apprezzata è stata il Dizionario

delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le

letterature, uscito per la prima volta nel 1946 e aggiornato

negli anni (con anche una versione su CD-Rom del 2002).

L'ultima edizione è del 2005. Nel 1972 la proprietà passa alla

FIAT, che con la finanziaria IFI (poi diventata Exor) acquista

la Sonzogno, la Fratelli Fabbri e la ETAS, per poi diventare dal

1990 il gruppo RCS, al quale appartengono anche la Sansoni,

la Rizzoli, La Nuova Italia, la Marsilio Editori, l'Archinto e

percentuali d'altre case editrici.

Nato a Napoli nel 1929, Galasso vince nel 1956-58 una borsa

di studio messa a disposizione dall'Istituto Italiano per gli Studi

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Storici, di cui sarebbe divenuto successivamente segretario.

Dopo la laurea in lettere, conseguita presso l'Università

Federico II di Napoli, ha ottenuto la libera docenza nel 1963 ed

ha insegnato nelle università di Salerno, Cagliari e Napoli. È

ordinario di Storia Medievale e Moderna presso l'ateneo

federiciano dal 1966. È stato eletto preside della Facoltà di

Lettere e filosofia della stessa università dal 1972 al 1979. È

attualmente docente di storia moderna all'università Suor

Orsola Benincasa di Napoli. Esponente del Partito

Repubblicano Italiano, dal 1970 al 1993 ha rivestito l'incarico

di consigliere comunale a Napoli, di cui è stato anche assessore

alla Pubblica Istruzione dal 1970 al 1973. Nel 1975 fu eletto

sindaco della città, ma rinunciò all'incarico perché

impossibilitato a costituire una giunta. È stato membro della

Camera dei deputati per il Partito repubblicano nella IX

legislatura (dal 1983 al 1987). Il suo impegno politico è

proseguito anche nella X e XI legislatura. All'attività

accademica e politica, Galasso ha intrecciato anche un'intensa

attività giornalistica in veste di editorialista. Ha collaborato e

collabora a numerosi quotidiani e periodici nazionali: Il

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Mattino di Napoli, il Corriere della Sera, La Stampa e

L’Espresso , per citare i principali.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il tema del terrorismo è affrontato all’interno del capitolo

intitolato “L’Italia dal centro-sinistra alla riforma elettorale”.

Il primo riferimento è alla strage di piazza Fontana del 12

dicembre ’69, quando lo scoppio di una bomba all’interno della

Banca dell’Agricoltura causò la morte di 17 persone e

numerosi feriti. Viene riportato come dell’attentato “rimasto

oscuro” fu accusato nella prima fase delle indagini l’anarchico

Valpreda. In seguito tuttavia gli indizi si concentrarono su una

“pista nera” collegata ai neofascisti Freda e Ventura e a

“trame dei servizi segreti interni e internazionali” . La strage

di piazza Fontana viene considerata infatti, in linea con altri

autori, come la prima tappa di una “strategia della tensione”

dispiegatasi in una “lunga stagione di attentati” con l’obiettivo

di portare smarrimento nell’opinione pubblica italiana, per

arrivare fino a un cambiamento istituzionale. I contorni di

questa strategia risultano comunque non ben definiti: per

quanto riguarda il gran numero di attentati infatti viene

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evidenziato come “spesso non furono chiariti né gli esecutori

né i moventi”.

Un insieme di episodi di vario tipo, avvenuti negli anni

immediatamente successivi alla strage di piazza Fontana, sono

indicati dall’autore come la spia di un riorientamento a destra

dell’opinione pubblica “quale contraccolpo degli avvenimenti

di quei mesi”. Innanzitutto le elezioni amministrative che

inaugurarono i consigli regionali del ’70 furono segnate dal

rallentamento del PCI e dalla seppur limitata crescita del MSI.

Di lì a poco alcuni rappresentanti dello stesso Movimento

Sociale si resero protagonisti della cosiddetta “rivolta di

Reggio Calabria”, scaturita dalla mancata nomina della città a

capoluogo regionale e per fermare la quale il governo fu

costretto “a intervenire con reparti dell’esercito”. Vi era

quindi una concreta possibilità che il malessere diffuso del

Mezzogiorno andasse ad alimentare un tipo di protesta

controllata dal neofascismo. Un ulteriore segnale di

orientamento conservatore arrivò “dalle manifestazioni della

‘maggioranza silenziosa’, svoltesi a Milano e soprattutto a

Roma” dove era maggiore la presenza del MSI. Il breve elenco

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è chiuso da un nuovo pericolo riconducibile al terrorismo di

destra: il tentato golpe del principe Borghese, leader del Fronte

Nazionale. L’episodio, “anch’esso rimasto oscuro” al pari di

piazza Fontana – sottolinea Galasso – riconfermò il legame

dell’eversione nera con “strutture dello Stato e complicità

internazionali”. Notiamo quindi come esso sia collegato alla

strategia della tensione precedentemente delineata.

Il nuovo governo di stampo centrista, scaturito dalle elezioni

del ’72 e presieduto da Andreotti, fa da sfondo a quello che

l’autore indica come “l’inizio del terrorismo” . L’autore, che

considera l’eversione di entrambe le matrici come

estremamente pericolosa, inserisce l’esordio di quella rossa in

una situazione già grave dal punto di vista sociale ed

economico “nonostante il clima di stabilità e di fiducia che il

nuovo governo voleva ispirare”. Le “prime azioni terroristiche

di gruppi clandestini rivoluzionari” sono effettuate quindi

dalle Brigate Rosse e dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica,

dalla vecchia sigla delle formazioni partigiane), questi ultimi

fondati dall’editore Feltrinelli, la cui morte viene descritta

come avvenuta in circostanze dubbie. Vengono inoltre citati i

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NAP (Nuclei Armati Proletari) e Prima Linea, formatisi

successivamente. Specularmente l’autore fa riferimento anche

ai gruppi eversivi di destra, citando quelli ritenuti più

significativi ed attivi fin dagli anni Sessanta come Ordine

Nuovo, Avanguardia Nazionale e più tardi i NAR (Nuclei

Armati Rivoluzionari). L’inizio degli anni Settanta vide anche

l’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi,

episodio da ricondurre alle prime indagini della già citata

strage di piazza Fontana: egli fu ritenuto infatti responsabile

“dai gruppi rivoluzionari di aver provocato la morte ‘non

accidentale’ dell’anarchico Giuseppe Pinelli” durante un

interrogatorio immediatamente successivo alla strage di piazza

Fontana.

Il problema dell’ordine pubblico andò ulteriormente ad

aggravarsi nel 1974, anno che fece da cornice ad una serie di

gravi episodi. Il 28 maggio infatti una bomba esplose in piazza

della Loggia a Brescia mentre era in corso un comizio

sindacale, provocando 8 morti e 100 feriti. Il 4 agosto poi altri

12 morti e 48 feriti furono causati da un attentato al treno

Italicus. Entrambi questi avvenimenti vengono ricondotti quasi

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con certezza da Galasso all’area del neofascismo: “Le

responsabilità di organizzazioni neo-fasciste parvero allora

più consistenti”. Tornavano tuttavia le già citate “complicità di

apparati ‘deviati’ dello Stato” e il riferimento a “disegni”

internazionali, i cui dettagli iniziavano pian piano ad emergere

grazie al chiarimento di vicende come quella della “Rosa dei

Venti”, un’organizzazione clandestina di destra i cui principali

esponenti furono svelati in quel periodo. Oltre che per

l’eversione nera, quello stesso anno fu significativo per il salto

di qualità del terrorismo di opposta matrice: le Brigate Rosse

infatti “compirono il loro primo clamoroso gesto, il sequestro

del magistrato genovese Sossi, chiedendo, per il suo rilascio, la

liberazione di detenuti appartenenti al gruppo rivoluzionario

“XXII ottobre”.

Ancor prima dell’escalation del fenomeno terroristico, in uno

scenario caratterizzato dai continui incidenti tra polizia e

manifestanti e tra gruppi di estrema destra ed estrema sinistra,

il neosegretario del PCI Berlinguer lanciò la linea del

“compromesso storico”. Preoccupato dal golpe avvenuto in

Cile e dal conseguente drammatico fallimento delle forze di

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sinistra di quel Paese, Berlinguer “affermò che era illusorio

pensare che la sinistra potesse governare un paese come

l’Italia solo con il 51 per cento dei voti”, e che era necessario

quindi giungere a un grande accordo tra i partiti di massa,

“espressione delle grandi componenti ideali e sociali della vita

italiana”. Galasso sottolinea come, nonostante la proposta di

Berlinguer fosse vista all’interno del PCI come la naturale

prosecuzione della ricerca di Togliatti delle “vie nazionali al

socialismo”, presentasse dei contenuti e delle prospettive

comunque originali rispetto alla tradizione comunista, dato il

contesto storico in cui veniva lanciata. Essa veniva infatti non

solo dopo i fatti del Cile, di cui si è fatto cenno

precedentemente, ma anche in seguito a quelli slovacchi e alla

decadenza complessiva del sistema sovietico, partendo quindi

“da un’implicita accettazione della collocazione

internazionale dell’Italia”. Il compromesso storico inoltre, si

affiancava a un’altra idea che stava a cuore a Berlinguer,

ovvero “quella dell’austerità, del recupero, cioè, di valori di

semplicità propri della tradizione operaia contro il

consumismo”, necessari alla classe lavoratrice per rendersi

prima attrice dell’uscita dell’Italia dalla crisi economica,

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politica e morale che la tormentava da anni. Gli stessi aspetti

della posizione di Berlinguer la rendevano istantaneamente

antitetica “alle motivazioni ideali, alle prospettive politiche,

alla stessa composizione sociale (assai più composita di quella

classe operaia cui si rivolgeva prevalentemente l’appello del

segretario comunista) delle nuove formazioni della sinistra,

eredi del Sessantotto e dell’autunno caldo.” Il risultato del

referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, che vide il 59, 1

per cento degli italiani esprimersi per il mantenimento della

legge, simbolo di un’ormai diffusa affermazione dei cosiddetti

“diritti civili”, compattò il fronte di chi riteneva “il dialogo con

il PCI – la “strategia dell’attenzione” come disse allora Aldo

Moro –” il possibile rimedio per uscire dalla situazione critica

del Paese. D’altra parte Berlinguer al XIV Congresso del PCI

aveva riproposto la formula del compromesso storico “tra tutte

le forze popolari e democratiche per salvare l’Italia” ,

sottolineando come ciò non avrebbe influenzato la collocazione

internazionale del Paese, che fungeva anzi da ago della bilancia

nei rapporti Est-Ovest. Le elezioni amministrative del ’75, che

rilevarono uno spostamento a sinistra dell’elettorato, “diedero

a questo processo politico una repentina accelerazione”. Il

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successo del PCI, che sfiorò con il 33, 4 per cento dei voti il

“sorpasso” alla DC infatti, “sembrò premiare anche la linea di

indipendenza da Mosca proposta da Berlinguer”. Gli incontri

del segretario del PCI con quelli del Partito comunista francese

e dello spagnolo sembrarono dare a questa linea un respiro

europeo. Il cosiddetto “eurocomunismo” fu visto come un

punto di arrivo democratico dei partiti comunisti

dell’occidente, nonché come l’inizio di una nuova forza

politica progressista.

L’inizio di “una stagione di lutti che si è poi voluta chiamare

con il nome di “anni di piombo”(dal bel film della regista

Margarethe von Trotta, dedicato alle non meno drammatiche

vicende del terrorismo tedesco di quegli anni)” viene fatto

risalire da Galasso all’anno successivo delle elezioni a cui si è

appena fatto riferimento: il ’76 infatti vide, dopo i primi

episodi di “gambizzazioni”, il salto di qualità del terrorismo,

rappresentato dal primo omicidio ad opera delle Brigate Rosse,

che assassinarono il procuratore della Repubblica di Genova

Francesco Coco. In quegli stessi anni inoltre l’opinione

pubblica aveva visto esplodere lo scandalo Lockheed, un

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nuovo episodio di malaffare politico che andava a toccare tra

gli altri anche il capo dello Stato Giovanni Leone. Fu tuttavia la

legge sull’aborto a causare le dimissioni del governo Moro in

carica e a portare a nuove elezioni politiche, che si rivelarono

fondamentali per l’attuazione del compromesso storico. Esse

videro infatti la “polverizzazione” delle forze minori e la

conseguente contrazione del quadro politico, rendendo quasi

necessaria la linea auspicata dal segretario comunista. Il

governo nascente infatti, un monocolore DC presieduto da

Andreotti e aperto ai comunisti, venne definito della “non

sfiducia” in quanto si instaurò grazie all’astensione di PSI,

PCI, PSDI, PRI e PLI. L’eccezionalità della sua formazione

viene indicata dall’autore come lo specchio dell’instabilità

complessiva della situazione italiana. Inoltre la presenza del

PCI nell’area della maggioranza governativa portò a una

“maggior disponibilità al dialogo da parte del movimento

sindacale” e a una “maggiore vivacità della vita

parlamentare”, tanto da parlare di una “centralità del

Parlamento”.

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La partecipazione del PCI al governo di solidarietà nazionale

viene indicata da Galasso come la causa dell’esasperazione

dell’estremismo di sinistra che “al tradimento del PCI

contrapponeva ora la strategia dell’‘Autonomia operaia’” ,

indirizzata a portare il proletariato di fabbrica con il

movimento giovanile e studentesco su livelli di decisa

alternativa al sistema. L’episodio simbolo di questa

contrapposizione fu l’interruzione da parte degli studenti di

“Autonomia” di un comizio del segretario della Cgil Luciano

Lama, che aveva sposato in pieno la linea del segretario

Berlinguer. Ci furono inoltre, sempre contro la linea del

compromesso storico, continue proteste studentesche: a

Bologna nel marzo ’77, dove morì lo studente Lo Russo; a

Roma nell’aprile-maggio, con la morte della giovane Giorgiana

Masi e ancora a Bologna nel settembre ’77, quando ci fu un

corteo di 60.000 studenti.

Questo clima di massima tensione vide “una ripresa del

terrorismo, rivolto ora contro rappresentanti del mondo

dell’informazione.” Galasso sottolinea come il convincimento

dei gruppi clandestini fosse che “colpendo ‘al cuore’ lo Stato,

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si sarebbe inasprita la situazione politica e sociale”

velocizzando quindi il passaggio di fasce del proletariato,

sottoproletariato e universo giovanile all’azione eversiva.

Viene effettuato quindi l’elenco dei giornalisti “gambizzati”

dopo l’assassinio del presidente dell’Ordine degli avvocati di

Torino, Fulvio Croce: il vicedirettore del quotidiano genovese

Il Secolo XIX Vittorio Bruno, il direttore del Giornale nuovo

Indro Montanelli, il direttore del TG1 Emilio Rossi.

“L’episodio più grave avvenne a Torino, dove il 16 novembre

’77 fu ucciso il vicedirettore della ‘Stampa’, Carlo

Casalegno”. Possiamo notare quindi come Galasso citi,

insieme a pochi altri autori di manuali, la presenza dei

giornalisti tra gli obiettivi dei terroristi, facendo particolare

riferimento a Casalegno che fu il primo a cadere per mano

terroristica.

All’interno del PCI si sviluppava il convincimento che

l’astensione senza diretta partecipazione al governo fosse

deleteria, in quanto portatrice delle critiche citate

precedentemente senza alcun tipo di vantaggi. A questo

proposito il cosiddetto “strappo da Mosca” rappresentato dal

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discorso che Berlinguer tenne a Mosca per il sessantesimo

anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, nel quale dichiarò

che lo scopo del PCI era “realizzare una società nuova,

socialista, che garantisse tutte le libertà personali e collettive,

civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la

possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della

vita, sociale, culturale e ideale”, venne visto dal leader

repubblicano La Malfa come la dimostrazione “di un processo

di democratizzazione ormai irreversibilmente compiuto e,

quindi, di una legittimazione del PCI alla piena partecipazione

al governo”. Contro questa ipotesi si manifestarono potenti

resistenze nella DC, confermate da una dichiarazione ufficiale

del Dipartimento di Stato americano (12 gennaio 1978), che

consigliava ai partiti democratici dell’occidente di evitare

accordi con i comunisti. Grazie all’ennesima negoziazione di

Moro, si giunse da un lato a un programma di governo

concordato tra il PCI e la DC, e dall’altro al voto favorevole

del PCI che tuttavia procrastinava il suo ingresso concreto nel

governo. Il compromesso raggiunto in questo modo doveva

esplicitarsi in un nuovo governo monocolore DC con a capo

Andreotti, che doveva presentarsi alla Camera il 16 marzo ’78

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per ottenere la fiducia. Alle 9 del mattino del medesimo giorno

tuttavia Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse, che

assassinavano nell’agguato i cinque uomini della sua scorta. In

conseguenza a ciò il voto di fiducia al governo venne

accelerato. Galasso sottolinea come “il significato politico di

opposizione al compromesso storico da parte delle Br con il

loro gesto era chiaro”.

Lo stesso autore definisce poi i cinquantacinque giorni passati

tra il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, avvenuto il 9

maggio ’78, come “tra i più drammatici nella storia dell’Italia

contemporanea”. Su di essi riflette, sottolineando come sulle

ragioni e i responsabili del rapimento si sia nel corso di questi

anni esercitata una sconfinata produzione pubblicistica e

storiografica, in quella che egli definisce la mancanza “di un

totale chiarimento della vicenda attraverso successive e

controverse indagini giudiziarie”. I giorni del rapimento

furono segnati dalle richieste dei brigatisti, inizialmente

esplicitate nella liberazione di dodici detenuti e respinte dal

cosiddetto “partito della fermezza” rappresentato in primis

dalla DC e dal PCI ma anche dal PRI e dalle forze minori,

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contrario a ogni negoziazione con i brigatisti che sembrasse

come una concessione dello Stato. A esso si contrappose un

“partito della trattativa” , fondamentalmente rappresentato dal

PSI e da parti della sinistra radicale ed estrema, che reputavano

invece possibile arrivare alla liberazione di Moro con un

compromesso tale da non intaccare il prestigio dello Stato.

Dello stesso avviso era tra l’altro lo stesso Moro, che dalla sua

prigione faceva arrivare messaggi di sofferente agonia,

destinati a inquietare e a dividere ancor più l’opinione

pubblica. Un altro motivo di incertezza era dato in quei giorni

dal prosieguo delle indagini, mai effettivamente efficaci, con

errori e mancanze inaspettate. La forte intesa tra DC e PCI nei

giorni del rapimento, caratterizzati dai comunicati delle BR,

dalle missive di Moro e dagli appelli alla ragione, tra cui

spiccava quello del Papa Paolo VI, sembrava dare vigore

all’intesa sui cui era basato il governo Andreotti. La scomparsa

di Moro tuttavia fece mancare il sostegno su cui si basava il

possibile accordo tra la DC e il PCI, la negoziazione tra le

componenti conservatrici della prima e i dubbi del secondo di

non perdere consensi alla sua sinistra. Il giudizio finale di

Galasso sul caso Moro appare lapidario: “La morte di Aldo

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Moro apparve sotto questo aspetto una sconfitta del partito

della fermezza, un inutile sacrificio tributato al compromesso

storico”.

L’assassinio di Moro non fu comunque l’ultimo atto del

terrorismo, che anzi tra il ’79 e l’’80 fece registrare “una

ripetuta serie di attentati”. I gruppi di Prima Linea e delle

Brigate Rosse uccisero infatti il giudice Alessandrini, il

giornalista Walter Tobagi e il vicepresidente del Consiglio

Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet. Le confessioni

del brigatista Peci, arrestato nel febbraio dell’80, diedero

tuttavia il via a una prima serie di perquisizioni e arresti sotto il

comando dei reparti speciali del generale dei carabinieri Carlo

Alberto Dalla Chiesa e della magistratura. L’azione di

contrasto crebbe in maniera significativa due anni dopo “con la

cosiddetta ‘legislazione premiale’ che introduceva rilevanti

sconti di pena per i ‘pentiti’, le cui confessioni consentissero la

scoperta di altri nuclei brigatisti e delle loro sedi.” Il

fenomeno del pentitismo si rivelò quindi uno strumento

fondamentale per la fine del terrorismo. Lo stesso periodo

tuttavia fu segnato dall’attentato di Bologna, definito come il

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più grave di quegli anni. Il 2 agosto ’80, infatti, una bomba

esplosa alla stazione ferroviaria del Capoluogo emiliano causò

la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200. Quasi un

mese prima, in un episodio che Galasso definisce come

“anch’esso oscuro”, ovvero l’esplosione nel cielo di Ustica di

un aereo di linea in volo da Bologna a Palermo, erano morte 81

persone. L’attentato di Bologna “ripropose subito la realtà di

un estremismo di destra, che poteva contare sulla complicità di

settori dei servizi segreti e di legami internazionali” . Possiamo

notare quindi come anche per Bologna venga utilizzato lo

stesso schema delineato precedentemente per definire gli

attentati ricondotti alla destra neofascista. A ulteriore conferma

di ciò “l’ipotesi che trame, organizzazioni segrete, poteri

occulti talvolta d’intesa con poteri visibili si muovessero a

danno della vita democratica del paese” sembrò trovare

conferma nella scoperta di una loggia massonica segreta, la P2,

che sotto il controllo di un inquietante personaggio, Licio Gelli,

e per scopi relativi al dominio della vita politica, riuniva

esponenti dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, del

mondo politico.

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È presente un documento intitolato “I primi passi delle Br”:

“Alberto Franceschini, uno dei protagonisti della stagione del

terrorismo, fondatore delle Brigate Rosse, rievoca in queste

pagine (da Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle BR,

pp.23-28, Milano, Mondadori, 1993), anche prima della

nascita della sua organizzazione, le condizioni ambientali e

psicologiche in cui matura in lui la scelta di una lotta armata

contro il sistema politico-sociale dominante. Una scelta che –

secondo il modo in cui egli sembra viverla – appare a

Franceschini una sorta di legittima prosecuzione della

tradizione rivoluzionaria del movimento operaio”. All’interno

del documento troviamo due immagini: una raffigurante

“Terroristi rossi durante una sparatoria a Milano in via De

Amicis”, l’altra “Fotografia del giudice Sossi diffusa dalle

Brigate Rosse durante il suo rapimento nel 1974”. Sempre dal

punto di vista iconografico è presente una foto riguardante il

rapimento di Moro descritta da questa didascalia: “Via Fani, a

Roma, subito dopo il rapimento di Moro e l’uccisione della sua

scorta il 16 marzo 1978”.

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3.7 Franco Gaeta, Pasquale Villani, Claudia

Petraccone, Corso di storia, Principato, 1996

La Casa Editrice Giuseppe Principato è stata fondata a

Messina da Giuseppe Principato nel 1887. Desideroso di dare

un respiro nazionale alla casa editrice e di superare i limiti del

mercato provinciale, Giuseppe Principato invia il figlio Ettore a

Milano per fare pratica presso l’Editore Treves. Giuseppe

Principato muore nel terremoto di Messina del 1908 e l’attività

della casa editrice si interrompe per alcuni mesi. Il figlio

Ettore, insieme al fratello Manfredi, prende in mano la

conduzione dell’impresa. Consapevole che per l’affermazione

a livello nazionale della casa editrice era necessario pubblicare

testi di alta qualità, stabilisce rapporti con alcuni dei maggiori

studiosi italiani e ne pubblica le opere. Nel 1926 la casa

editrice da Messina viene trasferita a Milano (dopo una breve

parentesi romana): prima nella centralissima via Manzoni, poi

in corso Concordia e infine in via Fauché 10 (dove ha ancora

oggi sede e dove, nella fase culminante della Resistenza,

Concetto Marchesi organizzò riunioni clandestine con

esponenti di primo piano del movimento di liberazione, fra cui

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Lelio Basso, Alessandro Casati, Riccardo Lombardi e Adolfo

Tino). A partire dal dopoguerra, Giuseppe Principato, figlio di

Ettore, assume la guida della casa editrice e orienta la linea

editoriale in senso più strettamente scolastico. La casa editrice

attualmente è una Società per azioni ed ha sede a Milano in via

Fauché, 10.

Pasquale Villani, professore ordinario di storia contemporanea

dell'Università Federico II di Napoli e allievo sia di Benedetto

Croce che di Federico Chabod, ha dedicato la sua carriera di

studioso principalmente alla storia del Mezzogiorno degli

ultimi tre secoli.

Franco Gaeta, professore ordinario, ha insegnato storia

moderna a Roma. Particolare rilievo ha assunto nella sua opera

di studioso delle vicende politico-culturali italiane del

Quattrocento-Cinquecento la storia di Venezia. Ha inoltre

pubblicato importanti saggi di storia contemporanea. Tra i suoi

scritti: Lorenzo Valla. Filologia e storia dell'Umanesimo

italiano (1955); Documenti da codici vaticani per una storia

della Riforma in Venezia (1955); Un nunzio pontificio a

Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro) (1960); Il

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nazionalismo italiano (1965); Il nuovo assetto dell'Europa

(1976); Democrazie e totalitarismi dalla prima alla seconda

guerra mondiale: 1918-1945 (1982); La crisi di fine secolo e

l'età giolittiana (1982).

Claudia Petraccone è professore associato di Storia della

Questione meridionale. Ha collaborato a Studi storici,

Quaderni storici, Storia urbana, Società e storia, Critica

marxista.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il tema dello stragismo, cui è dedicato un intero paragrafo, apre

il capitolo intitolato : “L’Italia dal 1968 a oggi”.

Proprio l’inasprirsi della lotta politica in Italia a partire da

quell’anno in poi è considerata dagli autori la causa di: “alcune

stragi di cui non sono stati mai scoperti i mandanti” . Viene

presentato quindi l’elenco di quelle ritenute più gravi,

comprendente quella di piazza Fontana a Milano nel dicembre

‘69, quella di piazza della Loggia a Brescia nel ‘74 e infine

quella della stazione di Bologna nell’agosto ’80. Notiamo

come per tutte le stragi citate non venga riportato il numero

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delle vittime. Inoltre lo “stragismo” viene indicato come la

manifestazione della cosiddetta “strategia della tensione”,

ovvero il “tentativo di conseguire determinati obiettivi politici”

creando nel paese uno stato di caos. Come possiamo notare,

quindi, gli autori sono piuttosto vaghi nel definire gli obiettivi

delle stragi, inizialmente presentate con contorni piuttosto

indefiniti, e successivamente attribuite “a una manovalanza di

estrema destra, manovrata da settori dei servizi segreti

deviati” secondo “l’ipotesi più accreditata”. Ipotesi che prende

corpo da una evidenza: tutti i magistrati che hanno cercato di

scoprire i mandanti delle stragi si sono trovati di fronte a un

muro invalicabile, deciso a non far trapelare uno spiraglio di

verità.

Inserito nello stesso arco di tempo è “l’esempio della

guerriglia” in America Latina, ritenuto l’ispiratore del

passaggio di alcuni gruppi di estrema sinistra alla lotta armata.

L’America Latina inoltre, e più esattamente il Cile, sono il

teatro del golpe di Pinochet, il quale nel ’73 instaurò una

dittatura militare soffocando il legittimo tentativo delle sinistre

di formare un proprio governo. La paura che una situazione

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simile potesse verificarsi anche in Italia portò nell’autunno del

’73 il neosegretario del PCI Berlinguer a esporre “il progetto

del ‘compromesso storico’, una alleanza tra DC e PCI che

portasse il PCI al governo, evitando però ogni rischio di colpo

di stato”. Possiamo notare come i tre autori non facciano

menzione della dura crisi economica che in quegli anni colpiva

l’Italia, la quale viene ritenuta da molti come uno dei motivi

che portarono al tentativo del compromesso storico. I due

partiti maggiori avevano tuttavia posizioni ancora distanti e

l’approvazione della legge sul divorzio non fece altro che

acuire queste differenze. Inoltre “Nel maggio del 1974 si tenne

un referendum promosso dai cattolici contrari al divorzio che

segnò invece l’affermazione dei partiti e dei movimenti che

erano favorevoli ad esso”. Il risultato di questo referendum

sembrò rappresentare l’inizio della fine del dominio della DC

sulla vita politica italiana. Gli autori sottolineano come quello

stesso anno vide l’entrata in scena dei terroristi delle Brigate

Rosse descritti come oppositori oltre che del “compromesso

storico” di “ogni evoluzione riformistica della situazione

italiana”. Le Brigate Rosse sono inoltre l’unico gruppo

terroristico che viene citato all’interno del sintetico spazio che

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gli autori hanno dedicato alla trattazione del tema dello

stragismo e del terrorismo.

Aldo Moro viene indicato come “l’artefice di questa prima

realizzazione del compromesso storico”: il ’77 è infatti l’anno

del cosiddetto “governo della ‘non sfiducia’” che vide il PCI

entrare nella maggioranza ma non fare parte del governo, dopo

che le politiche dell’anno precedente avevano visto i due partiti

principali raccogliere oltre il 70% dei consensi elettorali. Gli

autori non entrano nel dettaglio di nessuno dei provvedimenti

di natura soprattutto economica che questo governo appoggiato

anche dai comunisti prese. Vengono attribuiti invece diversi

significati al compromesso storico da parte di Berlinguer e

Moro: “mentre per il segretario del PCI esso avrebbe dovuto

segnare una svolta profonda nella politica italiana, per Moro

doveva soprattutto garantire la stabilità governativa”. Viene

sottolineato comunque come la piena realizzazione del

compromesso storico fu molto vicina nel ’78: “dopo trattative

a cui prese parte anche il PCI nacque infatti un nuovo

governo, dal quale però ancora una volta il PCI restò fuori” .

Dopo Il rapimento di Moro, avvenuto il 16 marzo mentre si

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recava alla camera, “il governo, un monocolore democristiano

guidato da Andreotti, ottenne la fiducia anche dei comunisti, in

nome della politica detta di ‘solidarietà nazionale’” . Il

rapimento e l’assassinio di Moro appaiono descritti in maniera

schematica: non vengono riportate infatti le implicazioni

politiche che scaturirono dalla gestione del tentato ricatto da

parte delle Brigate Rosse e il significato che questo assassinio

ebbe nella storia del terrorismo rosso. Aldo Moro è inoltre

l’unica vittima del terrorismo rosso a cui si fa riferimento nel

testo.

Dal punto di vista iconografico è presente l’immagine di una

“Pagina de’ ‘L’Espresso’ dedicata in forma caricaturale al

compromesso storico di Moro e Berlinguer”.

3.8 Carlo Cartiglia, Nella storia, Loescher, 1997

Loescher è una casa editrice italiana, fondata a Torino nel 1861

dal tedesco Hermann Loescher, nipote di Benedictus Gotthelf

Teubner. È specializzata in opere scolastiche, testi universitari

e classici, ma la sua fama è legata in particolare all'attività nel

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266

campo della lessicografi, con il IL (vocabolario Italiano-Latino)

curato da Luigi Castiglioni e Scevola Mariotti, il GI

(vocabolario Greco-Italiano curato da Franco Montanari) e

molti altri dizionari. Nel 1989 la casa editrice Zanichelli

acquistò la totalità delle azioni Loescher dalla famiglia di

Maurizio Pavia. La famiglia Pavia, di origine biellese come la

più nota famiglia Sella, deteneva il pacchetto azionario dagli

anni del Fascismo, periodo durante il quale, per le leggi razziali

fasciste, fu costretta ad affidarsi a prestanome. Nel 2013

acquisisce il catalogo della Casa Editrice D'Anna, che diventa

dunque un marchio dell'editore torinese.

Carlo Cartiglia è direttore editoriale Loescher. Per la medesima

casa editrice ha pubblicato tra gli altri Ieri, domani. Con

espansione online. Per la scuola media vol. 1-2-3; Ieri,

domani. Temi, parole e immagini della storia. Per la scuola

media vol. 1-2-3; Storia e ricerca. Laboratorio. Per le scuole

superiori vol. 1-2-3.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

I fatti legati al terrorismo di entrambe le matrici, come

possiamo vedere già dal titolo del paragrafo in cui sono trattati,

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sono inseriti nel contesto di forte scontro sociale-politico di

quegli anni: “La contestazione. L’esaurimento del centro-

sinistra. Gli ‘Anni di piombo’ e la tenuta del sistema

democratico”. Il movimento di protesta del ’68, inizialmente

dominato dagli studenti che attaccano i vecchi modelli e

strutture educativi, si unisce a quello degli operai “dando in

Italia all’ondata contestativa una profondità di radici prima e

una durata poi senza paragoni in alcun altro paese europeo”.

Cartiglia sottolinea come il governo in carica in quegli anni,

presieduto da Rumor, fosse completamente inadeguato a far

fronte all’ondata di dure agitazioni, culminate, oltre che in

occupazioni all’università, in ripetuti scontri con la polizia. In

questo particolare contesto inoltre è evidenziata la richiesta da

parte “del Movimento sociale e le forze più conservatrici

(compresa la destra della Democrazia Cristiana)” di un

“governo forte”, necessario per arginare la spinta del ‘68.

Questa richiesta appare strettamente legata alla comparsa che

Cartiglia rileva delle “trame nere” che, con l’obiettivo di

abbattere la democrazia, sono tessute in primis da forze

eversive di destra con “l’appoggio mascherato di ambienti

conservatori di vario tipo, e anche di settori dei servizi

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segreti”. La strage di piazza Fontana segna per Cartiglia il

passaggio dall’“autunno caldo” agli “anni di piombo”: “Dopo

vari attentati, il 12 dicembre 1969 nella Banca dell’agricoltura

a Milano, in piazza Fontana, un ordigno provoca una vera

strage, la morte di 16 persone e molti feriti. La responsabilità

viene subito falsamente attribuita ad ambienti di sinistra”.

Troviamo quindi il riferimento all’iniziale depistaggio, pur non

citando la vicenda Pinelli né quella di Calabresi. La strage del

’69 è considerata tuttavia solo “l’inizio di una lunga, ampia e

implacabile azione eversiva reazionaria durata per vari anni”,

che, intrecciatasi a piani di colpi di Stato rispetto ai quali

Cartiglia non entra nello specifico, si è manifestata in altre

stragi come quella di piazza della Loggia a Brescia (maggio

1974), quella del treno Italicus (agosto 1974) e quella

considerata come la più grave, ovvero la strage della stazione

di Bologna (2 agosto 1980), “dove una bomba ha provocato 83

morti e circa 200 feriti”.

L’intento di demolire lo Stato democratico ritenuto inefficiente

accomuna le “forze eversive di destra” con quelle della sinistra

extraparlamentare che, permeate da un “anticapitalismo tanto

radicale quanto confuso e irrazionalistico”, vedono

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nell’azione del Partito comunista il tradimento dell’idea

rivoluzionaria. La nascita del terrorismo di sinistra dei primi

anni ’70 è quindi considerata da Cartiglia il punto naturale di

arrivo dei gruppi extraparlamentari di sinistra. Da quel

momento in poi i terrorismi di entrambe le matrici hanno

prodotto “una situazione sempre più drammatica nel paese”.

L’organizzazione terroristica che spicca fra tutte quelle che

formano “un vero e proprio ‘partito armato’ di sinistra” è

quella delle Brigate Rosse. Notiamo quindi come il concetto di

“partito armato” , utilizzato dallo storico dell’Università di

Padova Severino Galante, ricorra nel testo di Cartiglia come in

quello di altri autori. Il “sequestro di un magistrato a Genova”

rappresenta il primo rilevante segnale del terrorismo di sinistra,

che dopo questo atto si rende protagonista di “rapimenti e

attentati contro membri della classe dirigente” protrattisi per

un sanguinoso decennio.

“Di fronte alla minaccia di scardinamento dello Stato, si

determina un’azione oggettivamente convergente” tra la

politica del PCI e “quella di una parte della Democrazia

cristiana guidata da Moro”: il ’73 è infatti l’anno in cui il

segretario comunista Berlinguer propone la formula del

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“compromesso storico” tra comunisti, democristiani e

socialisti, “in vista dell’apertura di un nuovo e più vasto

processo riformatore”. Come si nota, manca il riferimento

esplicito al rischio paventato da Berlinguer di un’involuzione

autoritaria sul modello di quanto già avvenuto in Cile con il

golpe del ’73. Una componente numerosa della Democrazia

cristiana è tuttavia sfavorevole a quello che Moro ritiene il

necessario inizio di una nuova stagione politica. In

questa’ottica Cartiglia attribuisce notevole importanza alle

elezioni amministrative e politiche tenutesi negli anni ’75 -’76:

entrambe infatti videro la netta affermazione del Partito

comunista con il “chiaro significato di un’insoddisfazione

molto diffusa verso la politica dei partiti di governo e di

un’estesa protesta verso la corruzione legata all’esercizio del

potere”, da cui i comunisti, da sempre all’opposizione sono

ampiamente esclusi. Oltre alla corruzione, quello stesso

periodo è caratterizzato da fattori estremamente negativi come

la crisi economica, un’inflazione che sfiora il 18 per cento e la

sfida del terrorismo. Il risultato delle politiche porta alla nascita

di un governo monocolore democristiano presieduto da

Andreotti, sorretto da una base nuova: “la ‘non sfiducia’ non

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solo dei partiti tradizionalmente alleati della Democrazia

cristiana, ma anche e soprattutto del Partito comunista” che,

sottolinea Cartiglia, “in un momento così grave della vita

nazionale imbocca la strada della collaborazione”. La

posizione del Partito comunista in questo frangente è quindi

vista come indice di grande responsabilità. Il governo così

instaurato è valutato positivamente dall’autore: esso infatti

adotta misure utili in campo economico e di contrasto al

terrorismo. Dopo di esse la richiesta del Partito comunista di

entrare nel governo viene respinta. Tuttavia, sottolineando il

lavoro di Moro in questa direzione, nel marzo ’78 “si forma un

nuovo monocolore Andreotti, con l’ingresso dei comunisti

nella maggioranza parlamentare, che dura fino al gennaio ’79.

Da passiva la solidarietà comunista diventa attiva. La formula

viene definita di ‘solidarietà nazionale’”. Il rapimento di

Moro, avvenuto il 16 marzo ’78, data dell’inizio del nuovo

governo ad opera delle Brigate Rosse, viene definito come

“rimasto di matrice oscura”. Le conseguenze politiche

dell’atto sono invece considerate chiare: “avvantaggia tutte le

forze conservatrici ed estremistiche che avversano il ‘nuovo

corso’ politico patrocinato da Moro”. A riprova di ciò, viene

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sottolineato come dopo la morte dell’allora presidente della

DC: “la sua linea politica viene praticamente liquidata”. Non

viene menzionato il ricatto delle Brigate Rosse e il successivo

dibattito politico che ne scaturì, così come non è sottolineato

un fatto ampiamente riconosciuto: l’assassinio di Aldo Moro

rappresentò l’inizio del declino, insieme ad altri fattori, del

terrorismo rosso.

Viene nuovamente evidenziato da Cartiglia come la strage alla

stazione di Bologna del 2 agosto 1980 rappresenti l’apice

dell’offensiva terroristica. Il fallimento dei terrorismi di

entrambe le matrici è dovuto ad una sola generica evidenza: il

sistema democratico italiano ha retto. Non vi è alcun

riferimento infatti all’opera di figure importanti come il

Generale Dalla Chiesa o al fenomeno del “pentitismo”

È presente una tabella che racchiude gli anni di piombo in un

arco di tempo che va dal ’69 all’87: “Questa tabella riporta le

gesta del terrorismo negli anni in cui ha più imperversato, tra

il 1969 e il 1987; gli attentati sono stati 14591. All’estrema

sinistra sono stati attribuiti (e anche la stessa estrema sinistra

li ha rivendicati) 149 assassini; all’estrema destra 26; al

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terrorismo internazionale 63; le uccisioni non attribuibili con

certezza sono state 181; il totale è 419”.

3.9 Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di

storia, Zanichelli, 1999

La Zanichelli Editore è una casa editrice italiana. Pubblica

principalmente libri di testo, libri universitari e professionali

(testi giuridici e di medicina), opere di consultazione e, in

misura minore, libri di saggistica e divulgazione scientifica. La

società fu fondata a Modena nel 1859 da Nicola Zanichelli. Dal

1866 risiede a Bologna, dove è diventata ben presto un punto di

riferimento della cultura cittadina, pubblicando le opere di

Carducci e Pascoli oltre che i Postuma di Olindo Guerrini e i

Lyrica di Enrico Panzacchi. Ma la vocazione della casa editrice

è stata la diffusione della cultura scientifica. Fu la prima a

tradurre in italiano opere come Sull'origine delle specie per

selezione naturale di Charles Darwin (1864) e Sulla teoria

speciale e generale della relatività di Albert Einstein (1921).

Ad oggi ha tradotto oltre 400 testi fondamentali di scienze

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naturali, fisica, chimica, matematica, economia, medicina,

PSIcologia, linguistica, archeologia, architettura. Fra gli autori

moltissimi premi Nobel per la Medicina, la Fisica e

l’Economia. A fronte dell’editoria scientifica tout court, la

Zanichelli ha concentrato la sua attenzione verso la scuola,

diventando fin dagli esordi una delle case editrici italiane

principali del settore scolastico. Dal 1941 Zanichelli pubblica

lo storico Vocabolario della Lingua Italiana di Nicola

Zingarelli, che, uscito a dispense nel 1917, era fino ad allora

stato pubblicato da Bietti. Nel 1989 l'editore bolognese diventa

socio unico della casa editrice torinese Loescher, specializzata

in libri di testo.

Renato Fabietti è nato il 3 settembre del 1923 a Milano. Studiò

nel capoluogo lombardo presso il liceo classico Berchet. Con

lui in quella scuola c'era anche don Milani, con il quale maturò

un'amicizia durata a lungo. Frequentò l'ambiente letterario

milanese e tra i suoi amici vi era anche l'editore Dino Fabbri.

Combattè la Resistenza e si arruolò nel corpo di liberazione

nazionale come volontario insieme agli inglesi e agli

americani. Finita la guerra si laureò in filosofia con Antonio

Banfi, importante esponente della scuola kantiana in Italia.

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Insegnò in molti licei milanesi. Ha scritto numerosi libri con

Augusto Camera tra cui: Elementi di storia 1 Dal XIV al

XVIIsecolo - Quarta edizione, 1997; Il libro delle risorse per

Elementi di storia 1: Dal XIV al XVII secolo - Quarta edizione,

1997; Prove di verifica con percorsi tematici per Elementi di

Storia 1: dal XIV al XVII secolo, 1997; Elementi di storia 2:

XVIII e XIX secolo - Quarta edizione, 1997; Elementi di storia

3 A: I primi quarant'anni del XX secolo - Quarta edizione,

1998; Prove di valutazione diagnostica e sommativa per

Elementi di storia 3: XX secolo, 1999.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

L’inizio di quello che viene definito “terrorismo nero”

(fascista) viene fatto risalire alla strage di piazza Fontana: il 12

dicembre 1969 infatti una bomba esplode nella Banca

dell’Agricoltura di Milano, causando la morte di 16 persone.

L’orribile attentato è solo il primo di una serie di “crimini

analoghi” ai quali tuttavia non si fa riferimento nel testo. Per

quanto riguarda le indagini invece, i due autori affermano in

maniera perentoria come esse siano rese in gran parte vane

dall’intervento, tra gli altri, anche dei servizi segreti o da

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“schegge impazzite” degli stessi. Al terrorismo nero si unisce

ben presto il terrorismo “che si dichiara ‘rosso e proletario’,

ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo-

borghesi”. Come possiamo notare quindi, questo tipo di

terrorismo viene considerato dagli autori come prodotto della

borghesia e del contesto universitario dell’epoca e non del

proletariato come invece esso si autoproclama. Esso inoltre

viene accomunato al terrorismo nero per quanto riguarda gli

effetti sia a breve, poichè “consegue, oggettivamente, gli stessi

risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini”,

sia a lungo termine, perché dalle tensioni “può nascere solo

un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide”. Il

terrorismo rosso, oltre a ciò, non è giustificabile né

comprensibile nemmeno considerando le carenze e le

ingiustizie “per quanto gravi della società capitalistica

italiana”. Il fenomeno terroristico anzi, più che con categorie

storiografiche e sociologiche, va interpretato secondo gli autori

con gli strumenti della PSIcologia, come emerge dalla lettura

degli approfondimenti inseriti su questo tema nel manuale.

Un’altra lettura invece è dedicata all’assassinio di Moro, unico

omicidio avvenuto per mano terroristica di cui troviamo traccia

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nel testo. Uccidendo il presidente democristiano, le Brigate

Rosse eliminavano una delle figure più eminenti dello Stato,

“colui che, pur fra mille cautele, ha patrocinato il varo del

‘compromesso storico’ cattolico-comunista”. Il risultato delle

elezioni politiche del ’76, infatti, che aveva registrato

l’avanzata del PCI e il mantenimento del consenso elettorale da

parte della DC, aveva fatto emergere, fra le correnti più aperte

di quest’ultima, la convinzione che la pesante condizione

dell’Italia potesse essere proficuamente affrontata solo se fra i

due partiti che cumulativamente esprimevano circa i tre quarti

dell’elettorato italiano si fosse stabilito un clima di apertura

vicendevole e di cooperazione. In questa prospettiva il

democristiano Andreotti era riuscito a formare un governo di

“solidarietà nazionale” con l’astensione del PCI. Gli stessi

comunisti, che avevano partecipato con gli altri “partiti

dell’arco costituzionale” alla preparazione del programma di

governo, erano pronti ad appoggiarlo senza remore col voto

favorevole. L’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta fecero

precipitare il Paese in una rischiosissima situazione, che fu

superata solo grazie all’appoggio dei due maggiori partiti. I due

autori sottolineano poi come all’attacco organizzato nei dettagli

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dalle BR seguirono 55 giorni di prigionia di Moro, durante i

quali i terroristi ricattarono lo Stato creando una spaccatura nel

paese e nella classe politica. Al “partito della fermezza”,

formato dagli irremovibili che consideravano inammissibile

una trattativa con i terroristi, si contrappose un “partito

umanitario” costituito in primis da Bettino Craxi e dai

socialisti, che consigliava di tentare la liberazione di Moro

tramite la “formula di una unilaterale ‘iniziativa umanitaria

dello Stato’”, rilasciando alcuni terroristi allora in carcere. La

linea dell’intransigenza ebbe la meglio grazie principalmente al

fatto che comunisti e democristiani, nelle figure rappresentative

di Berlinguer e Andreotti, non rivelarono il più piccolo segnale

di cedimento, non sottostando ad una trattativa che avrebbe

concesso il riconoscimento politico delle BR e che avrebbe

abbandonato nel più tragico sconforto i familiari dei servitori

dello Stato assassinati in questa e in altre circostanze simili.

Viene evidenziato infine il rilevante contributo al superamento

della crisi dato dall’appello che Paolo VI fece ai brigatisti,

esortandoli a liberare Moro senza nessuna contropartita.

Sono presenti 3 documenti e due letture di approfondimento.

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Il primo documento è dedicato al compromesso storico ed è

intitolato “Berlinguer e il compromesso storico” : “Durante il

XIII Congresso nazionale del PCI, che si svolse a Milano nel

marzo 1972 e si concluse con la nomina di Enrico Berlinguer a

segretario generale del partito, lo stesso Berlinguer presentò

un lungo rapporto nel quale dedicava particolare attenzione

agli sviluppi interni del mondo cattolico. I temi qui enunciati,

ripresi da Berlinguer fra il settembre e l’ottobre del ’73 in una

serie di articoli comparsi sulla rivista Rinascita, costituirono

la premessa ideale della linea politica di collaborazione

cattolico-comunista nota sotto il nome di ‘compromesso

storico’” .

Il secondo documento è dedicato alla prigionia di Aldo Moro,

con il titolo “Moro: lettere dal carcere delle Brigate Rosse” :

“Durante la sua prigionia, Moro scrisse parecchie lettere ai

dirigenti della DC, tentando di convincerli a venire a patti con

le “BR”. Riportiamo due di queste lettere, indirizzate al

segretario della DC Benigno Zaccagnini. Moro si rivolse con

molta speranza anche a Craxi, del quale evidentemente gli era

stato descritto dai suoi carcerieri l’atteggiamento

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‘umanitario’. La lettera a Craxi qui riportata fu pubblicata il 3

Maggio 1978, pochi giorni prima del barbaro assassinio” .

Il terzo documento contiene l’appello di Paolo VI alle Brigate

Rosse ed è intitolato: “Paolo VI: ‘A voi, uomini delle Brigate

Rosse’”: “Il 21 aprile 1978 Paolo VI rivolse ai carcerieri di

Moro l’accorato appello qui integralmente riportato. In un

certo senso lo si poteva considerare (e così lo interpretarono i

capi delle ‘BR’) come un avallo all’intransigenza, in quanto il

papa supplicava che Moro venisse liberato ‘semplicemente,

senza condizioni’. Si poteva però anche ritenere che i Brigatisti

– fallito l’obiettivo principale d’ottenere una sorta di

riconoscimento politico mediante le trattative con lo Stato

italiano – avrebbero apprezzato il fatto d’essere stati

riconosciuti come interlocutori dal papa di Roma, che

rivolgeva loro una supplica. Nella lettera a Craxi che è di una

decina di giorni posteriore, Moro accenna probabilmente

all’appello del papa, scrivendo: ‘é da mettere in chiaro che

non si tratta di inviti rivolti agli altri (cioè ai brigatisti) a

compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar

luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata

trattativa per lo scambio di prigionieri politici’”.

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La prima lettura di approfondimento quindi, come già

accennato, propone l’interpretazione del terrorismo come

fenomeno psicologico, riportando un brano di Giorgio Bocca:

“Rabbia e sogno: terrorismo e contestazione giovanile” . La

scelta del brano da parte degli autori è motivata dalle riflessioni

che il giornalista è stato capace di effettuare in una forma

divulgativa, più accessibile a giovani studenti rispetto a brani

tratti da saggi monografici: “Il terrorismo parrebbe un metodo

di lotta politica tipico dei paesi arretrati, oppressi da regimi

dittatoriali. La sua presenza in una società avanzata e

relativamente aperta, quale era ed è la società dell’Italia

postbellica, pone perciò problemi molto complessi, che si

potrebbero esaminare in profondità solo in un saggio

monografico. Ci sembra però che il brano di Giorgio Bocca,

qui riportato con lievi adattamenti, possa servire, quanto

meno, a innescare una riflessione sull’argomento”.

La seconda lettura è intitolata: “Quella insanguinata

primavera del 1978…” e fa riferimento come già anticipato

all’assassinio di Moro. “In un articolo dell’ottobre ’93 qui in

parte riportato, Arrigo Levi rievoca con autentica commozione

e lucido giudizio l”insanguinata primavera del 1978”: la

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primavera in cui furono trucidati, prima, i cinque uomini della

scorta di Aldo Moro: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio

Rivera, Raffaele Jozzino, Francesco Zizzi; poi, lo stesso Moro.

(dal Corriere della Sera del 17 ottobre 1993).

Dal punto di vista iconografico è presente l’immagine della

strage di piazza Fontana, con la foto del salone centrale della

Banca nazionale dell’Agricoltura sventrata dalla bomba e

accompagnata da una breve didascalia.

Per quanto riguarda l’uccisione di Aldo Moro, gli autori hanno

scelto di riportare le immagini della stampa dell’epoca, in

particolare vengono riportate le foto delle prime pagine del

quotidiano La Repubblica nel giorno del sequestro e in quello

del ritrovamento del corpo nell’auto con la seguente didascalia:

“Dal rapimento all’uccisione: i 55 giorni della prigionia di

Moro, prime pagine del quotidiano la Repubblica, 16 marzo e

10 maggio 1978”.

Nel documento dedicato al “compromesso storico”,

l’immagine prescelta è una foto del 1977 in cui Enrico

Berlinguer ed Aldo Moro si stringono la mano, un’ immagine

che secondo gli autori simboleggia bene ciò che Berlinguer

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auspicava ovvero il “nuovo e grande ‘compromesso storico’

tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande

maggioranza del popolo italiano”. Gli autori nel presentare il

documento vogliono anticipare subito le ragioni della nuova

formula politica, sottolineando come il segretario del PCI

ritenesse “del tutto illusorio” pensare di governare col 51 per

cento, cercando un’alternativa di sinistra . Per superare la crisi

del paese Berlinguer auspicava infatti “la prospettiva politica

di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari

d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari

d’ispirazione cattolica oltre che con formazioni di altro

orientamento democratico”.

All’interno del documento dedicato alle lettere di Moro si trova

“La fotografia di Aldo Moro prigioniero fatta pervenire ai

giornali dalle Brigate Rosse e la medesima fotografia sulla

prima pagina del Messaggero”. Nel documento dedicato alla

lettera del Papa viene invece riprodotto “L’inizio e la fine

dell’autografo messaggio di Paolo VI agli ‘uomini delle

Brigate Rosse’ per la liberazione dell’on. Moro (21 aprile

1978).

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Infine, come simbolo degli anni di piombo, i due autori hanno

scelto alcune opere pittoriche di Valerio Adami, accompagnate

da una didascalia che viene qui integralmente riprodotta: “Anni

di piombo, lotte di piombo, due versioni di Intolerance, pitture

acriliche su tela di Valerio Adami, 1975. Milano, collezione

privata. L’intolleranza spietata delle ragioni altrui, che come

mezzo per affermare le proprie fa scegliere la furia della

sopraffazione e rinnegare il dialogo, domina il decennio 1968-

78 (e oltre). Di quegli anni e di quel clima le tele di Adami qui

riprodotte possono considerarsi l’esemplare resa pittorica.

Picchiatori protervi e attentatori disumani, poliziotti

manganellatori e uomini di potere arroganti, borghesi spauriti

occupano la scena. Hanno volti dissimulati ed enigmatici,

misteriosi come furono – e restano tuttora – misteriose tante

vicende e situazioni di allora. Persino alcuni tecnicismi

dell’artista – i contorni nettamente delimitati da tratti neri, i

colori privi di qualunque chiaroscuro tradizionale, la

‘freddezza’ che sa di pittura metafisica – concorrono a

restituirci il gelo e la cupezza plumbea di anni che furono

anche detti ‘di piombo’ dai proiettili delle armi da fuoco con

cui si esprimevano – o a cui soggiacevano – la logica del

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285

terrorismo e la cultura pseudo-rivoluzionaria, la violenza di

Stato e l’omertà della pubblica opinione. ”

3.10 Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, I

fili della memoria, Laterza, 2000

La Casa editrice Giuseppe Laterza & figli è stata fondata a Bari

il 10 maggio 1901 da Giovanni Laterza (1873-1943) come

naturale prosecuzione dell'attività della Libreria e Tipografia,

fondata dalla famiglia undici anni prima a Putignano. La sua

storia è legata alla figura di Benedetto Croce, massimo

esponente del pensiero filosofico idealista in Italia e uno dei

baluardi dell'antifascismo, che fu per quarant'anni il consulente

della casa editrice, avvalendosi della collaborazione di giovani

studiosi e allievi tra cui Luigi Russo, Guido De Ruggiero e

Giovanni Gentile, che di lì a pochi anni diverranno personaggi

di primo piano nella cultura italiana. Croce, che pubblicò con

Laterza quasi tutte le sue opere e la sua rivista (La critica),

impostò fin dall'inizio la linea editoriale della casa. Con la

morte di Vito Laterza, nel 2001, la gestione della casa editrice

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è passata a Giuseppe Laterza, che segue da Roma l'editoria

universitaria e la saggistica, e a suo cugino Alessandro Laterza,

che segue da Bari soprattutto l'editoria scolastica. Dagli anni

Ottanta la Laterza è diventata la casa editrice di riferimento nel

campo della storia per il biennio e il triennio delle scuole medie

superiori, a partire dalle opere di Andrea Giardina, Giovanni

Sabbatucci e Vittorio Vidotto, ed è significativamente presente

in altri campi, dalla filosofia alle lingue e letterature antiche,

dalla letteratura italiana all’educazione linguistica, dal diritto

alla storia dell’arte.

Anna Bravo è stata professore associato di Storia sociale

all'Università di Torino e ha lasciato l’insegnamento

anticipatamente. Vive e lavora a Torino. Il suo ultimo libro è A

colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza

2008. Sulla deportazione e il genocidio ha pubblicato fra

l’altro: (a cura di) La vita offesa. Storia e memoria dei Lager

nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti (con D. Jalla),

presentazione di Primo Levi, Franco Angeli, Milano 1987, 7°

edizione 2001 e (a cura di ). Una misura onesta. Gli scritti di

memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, (con D.

Jalla), Franco Angeli, Milano, 1994.

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Anna Foa è dal novembre 2000 professore associato di Storia

Moderna alla Facoltà di Lettere, Università di Roma "La

Sapienza". Tra i suoi titoli principali: Storia sociale e culturale

nell'età rinascimentale. Ateismo e magia. Il declino della

concezione magica nel "Dictionnaire" di Pierre Bayle, Ed. dell'

Ateneo, Roma 1980; Giordano Bruno, Bologna, Il Mulino,

1998; Ebrei in Europa dalla Peste Nera all'Emancipazione,

Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 380 (nuova ed. 2001, trad. ingl.:

The Jews of Europe after the Black Death, California

University Press, 2000).

Lucetta Scaraffia è una storica e giornalista italiana. Professore

associato di Storia Contemporanea presso l'Università degli

Studi di Roma La Sapienza, attualmente collabora con i

quotidiani Avvenire, Il Foglio, Corriere della Sera e

l'Osservatore Romano. Negli anni Settanta militò nel

movimento femminista. Si è occupata di storia delle donne e di

storia religiosa, con particolare attenzione alla religiosità

femminile. Tra i suoi titoli : La santa degli impossibili. Vicende

e significati della devozione a Santa Rita, Torino, 1990; Donne

e fede, con Gabriella Zarri, Roma-Bari, 1994; trad. inglese

Women and faith, Cambridge University Press, 1999; Il

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Concilio in convento, Brescia, 1996) e, riguardo ai rapporti fra

la società occidentale e l'Islam: Rinnegati. Per una storia

dell'identità occidentale, Roma-Bari.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

La nascita delle formazioni terroristiche è legata al rapporto

complesso che esse hanno avuto con i gruppi extraparlamentari

di sinistra, ai quali le tre autrici dedicano un’analisi

approfondita e sostanzialmente positiva. La nascita di tali

gruppi avviene tra il 1969 e il 1971, pur fra difficoltà e

defezioni , grazie alla decisione di una parte del movimento

operaio e studentesco di “doversi dare un’organizzazione

stabile, più disciplina, più ideologia, meno spontaneità”. Le

nuove formazioni politiche, che rigettano l’idea di presentarsi

alle competizioni elettorali e quindi di fare parte della politica

tradizionale, nella loro vasta eterogeneità si collocano alla

sinistra del PCI e si pongono in continuità col ’68 nel rifiuto

della negoziazione politica, nel sogno rivoluzionario e,

all’inizio, nell’attesa dello “scontro generale”. I gruppi

extraparlamentari quindi costituiscono la più numerosa “nuova

sinistra” d’Europa, essendo quasi tutti, almeno in principio,

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caratterizzati da una dimensione a metà fra la struttura

centralizzata del partito e il carattere fluido del movimento: è

così per Avanguardia operaia, Potere operaio, Lotta continua e

per il gruppo del Manifesto, il quale ha però un’origine diversa,

essendo stato formato da giovani dirigenti del PCI cacciati con

l’accusa di “frazionismo” per aver dato origine alla rivista

omonima e aver chiesto che si mettesse fine all’ambivalenza

verso l’Unione Sovietica. Viene evidenziato inoltre come il

loro raggio d’azione, per tutta la breve esistenza, oscillerà “fra

i due poli dello scontro, la fabbrica e il sociale”. In maniera

più specifica, essi sono “caratterizzati da un’opposizione dura

ai sindacati e al PCI e abbondantemente ricambiati, coagulano

la parte più radicale delle avanguardie di fabbrica” ,

raccogliendo un ampio favore fra studenti e insegnanti e nei

quartieri popolari. Vengono considerati dalle autrici, in breve,

come una parte ben definita e rilevante della politica italiana

nell’arco di tempo che va dal ’69 al ’76, caratterizzata

dall’attivismo e che “incontra una repressione enormemente

più dura di quella riservata al movimento studentesco” . I

nuovi gruppi, inoltre, si sostanziano anche come lo sfondo per

una militanza come scelta di vita e come uno dei cardini

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fondamentali della socializzazione di quegli anni, arrivando a

formare “quasi una nuova comunità che frantuma le vecchie

cerchie amicali e i recinti culturali regionali”. Viene indicato,

tuttavia, come anche in seguito allo shock subìto dopo la strage

di piazza Fontana, di cui si parlerà in seguito, il credito nelle

capacità di un nuovo tipo di politica si fosse indebolito,

portando i gruppi a rappresentare in forma esasperata

l’ideologia e il modello dei partiti di sinistra. “Straordinarie

energie giovanili furono disperse – scrive Vittorio Foa – nel

riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come

caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero. In

questo senso il Sessantotto, dopo aver fatto la critica più acuta

al vecchio mondo, vi è restato dentro”.

Della politica tradizionale, inoltre, i gruppi prendono anche

molti dei difetti: dal settarismo all’assenza di democrazia

interna, fino alle forzature politiche. La critica delle autrici

continua sottolineando come, pur riuscendo a cogliere in

maniera maggiore e in anticipo rispetto alle altre forze politiche

il significato di lotte impreviste e improvvise, i gruppi

extraparlamentari denotano una difficoltà a confrontarsi con la

nuova situazione che si crea a partire dal ’71-’72, quando lo

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scontro è più vasto ma meno irruento e, in maniera più

accentuata, con la completa regressione delle lotte operaie

iniziata nel ’75. Il rapporto dei gruppi extraparlamentari nei

confronti della violenza viene definito come “in genere

ambivalente e oscillante”: esso si tiene infatti su un distinguo

schematico tra violenza terroristica individuale o di piccole

formazioni e violenza di massa, che era stata presente nella

maggior parte dei movimenti a livello globale e che all’interno

del bollente contesto italiano dei primi anni Settanta viene

ritenuta come “ancora più inadeguata”. I gruppi

extraparlamentari, comunque, per la loro stessa natura che

rifiuta in linea di massima la mediazione politica, sono portati a

considerare la violenza come uno sbocco quasi ovvio in un

contesto che fino al ’71-’72 rimane di attesa dello “scontro

generale”. Inoltre, “Sull’onda della repressione poliziesca che

riporta la morte nelle piazze, delle stragi e della crescita, nei

primi anni Settanta, di gruppi neofascisti legati in varia misura

al Msi” , le occasioni di scontro sono all’ordine del giorno e la

violenza non fa più clamore, venendo organizzata dai servizi

d’ordine delle varie formazioni e programmata quindi come

una possibilità. Viene evidenziato, quindi, come la nuova

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sinistra se da un lato, sia per la propria natura, sia per la

presenza di un contesto particolare caratterizzato da gravi fatti,

pratichi la violenza, dall’altro “con i suoi continui richiami alla

lotta di massa e con la sua stessa presenza organizzativa, fa

anche da argine al terrorismo, svolgendo un ruolo di

dissuasione verso i militanti ideologicamente più vicini a

quell’area”. A ulteriore conferma di ciò, sottolineano le

autrici, la nascita di alcune formazioni terroristiche avviene in

corrispondenza con la crisi e la dispersione dei gruppi.

L’inizio del già citato terrorismo stragista dei primi anni

Settanta, descritto come “il fenomeno più tragico di questi

anni” , viene fatto risalire al 12 dicembre ’69: quel giorno

infatti una bomba era esplosa all’interno della Banca

dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, causando la morte

di 16 persone e decine di feriti. Viene sottolineato come in un

primo momento “gli inquirenti si erano buttati su

un’improbabile pista anarchica arrestando Pietro Valpreda”

ed inoltre il ferroviere Giuseppe Pinelli era deceduto cadendo

inspiegabilmente dalla finestra di una stanza della questura di

Milano nel corso di un interrogatorio. Tuttavia in poco tempo

si era fatta chiara, “grazie alla mobilitazione di intellettuali,

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giornalisti, sinistra extraparlamentare”, non solo la completa

estraneità degli anarchici all’attentato di piazza Fontana, ma

anche la pista che portava al gruppo neofascista veneto di

Franco Freda e Giovanni Ventura, ignorata dai magistrati, e in

linea generale l’intreccio di complicità fra servizi segreti e

gruppi neofascisti. Oltre che a quella di Pinelli, troviamo il

riferimento anche alla vicenda Calabresi: viene evidenziato

infatti come negli anni successivi alla strage di piazza Fontana

le nuove sinistre, e specialmente il quotidiano “Lotta

continua”, si fossero rese protagoniste di una durissima

campagna contro il commissario, “additato come responsabile

della morte di Pinelli”. Nonostante il proscioglimento

dall’accusa, Calabresi sarà ucciso nel ’72 in circostanze a

tutt’oggi non chiare. Piazza Fontana è quindi, come detto, solo

l’inizio di quella che viene definita come “una lunga stagione

di crimini e allarmi manovrati”. A questo tema è dedicata

inoltre una scheda di approfondimento. L’anno successivo agli

eventi di piazza Fontana vide un tentativo di golpe promosso

da Junio Valerio Borghese, un ex comandante dell’esercito di

Salò, episodio che seppur farsesco avvalorò l’esistenza di

legami fra estrema destra e settori dell’esercito e dei servizi

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segreti, le stesse connessioni sottese all’organizzazione

eversiva veneta Rosa dei venti, che organizzava azioni

terroristiche e che venne scoperta nel 1974. Intanto altre bombe

venivano fatte esplodere a caso tra folle di innocenti, come alla

questura di Milano nel 1973, a piazza della Loggia a Brescia

durante una manifestazione sindacale nel maggio ’74, sul treno

Italicus nello stesso anno e, dopo un periodo di quiescenza, alla

stazione di Bologna nel 1980, con 80 vittime.

La convinzione del pericolo di un incombente golpe, quindi,

vista la sua contemporanea riuscita in Grecia e in Cile, viene

considerata dalle autrici come una preoccupazione che influì

enormemente nelle scelte e nel modo di presentare l’azione

politica dei partiti di sinistra. Il nuovo segretario del PCI,

Enrico Berlinguer, lanciò la sola novità politica di questi anni,

il “compromesso storico”: convinto infatti dall’esempio del

Cile che la sinistra non potesse governare da sola neanche con

il 51 per cento dei voti e deciso a non mettersi in una posizione

di contrasto con i cattolici, Berlinguer consigliò nel ’73 una

specie di riedizione dell’unità antifascista tra PCI, PSI e DC,

come mezzo fondamentale per cautelarsi da involuzioni

autoritarie e intraprendere un incontro dei ceti medi con la

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classe operaia. Inizialmente la proposta di Berlinguer rimase

senza risposta e il PCI restò fuori dalla maggioranza.

Oltre al terrorismo di destra, protagonista come si è visto nella

prima metà degli anni ’70, ampio spazio viene dedicato al

terrorismo di sinistra, già attivo con le Brigate Rosse, fondate

nel ’70, le quali “si presentano come la sola vera forza

rivoluzionaria, aliena da qualsiasi mediazione”. Diversamente

dal terrorismo di destra, viene sottolineato come le BR non

prendano in considerazione la tecnica della strage, tendendo

invece a colpire persone isolate, all’inizio con azioni

dimostrative, come ad esempio il rapimento di sindacalisti

moderati e alti rappresentanti del mondo industriale. Il loro

scopo finale è quindi quello di diffondersi fra gli operai

“accelerandone la radicalizzazione in vista dell’atteso sbocco

rivoluzionario”. È inoltre rilevato l’atteggiamento con cui le

sinistre guardano al fenomeno, per lungo tempo sottovalutato

dalle istituzioni, che denota sbigottimento, cautela e incapacità

di comprensione. All’interno del PCI e del sindacato infatti, si

parla di “sedicenti Brigate Rosse”, facendo riferimento a

servizi di sicurezza stranieri e nazionali e inattendibili matrici

fasciste: è arduo rendersi conto che il terrorismo non è né

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un’invenzione di provocatori di destra, né il simbolo di una

zona di periferia disperata, ma un fenomeno che “trova i suoi

aderenti in frange della classe operaia e di studenti, in piccoli

gruppi estremisti transfughi della vecchia e nuova sinistra e di

formazione cattolica e/o marxista”. Pur considerando che

questo tipo di eversione si alimenta nell’incompetenza dello

Stato a impedire le stragi della destra e nella paura di un golpe,

le autrici non hanno dubbi circa le sue matrici ideologiche

precise: esse sono di sinistra. Si sostanziano infatti nel fascino

delle guerriglie sudamericane e del terrorismo palestinese, nella

teoria della “forzatura rivoluzionaria” e nel richiamo, spesso

strumentale, alla resistenza come simbolo dell’iniziativa

popolare armata. A differenza del PCI e del sindacato,

all’interno dei gruppi extraparlamentari le radici di sinistra

delle BR sono immediatamente riconosciute, ma tuttavia “non

si prendono chiaramente le distanze dai loro primi atti

‘esemplari’”.

Tra il ’76 e il ’77 inoltre, contemporaneamente alla crisi della

sinistra extraparlamentare, compaiono altri gruppi come Prima

linea e i Nuclei armati proletari, che a differenza delle Brigate

Rosse rimandano al massimo il momento del passaggio allo

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stato di clandestinità “proprio per non perdere l’illusione di un

cordone ombelicale con gli ambienti proletari cui sono stati

legati”. Nello stesso periodo all’interno delle BR, che hanno

atteso senza risultati un’esplosione rivoluzionaria e sono

passate ai danneggiamenti di sedi sindacali e di partiti, ai

ferimenti e ai primi assassinii, dopo i primi sequestri nasce

l’autoconvinzione di un’imminente svolta autoritaria di tipo

fascista e quindi di un conseguente maggiore impulso allo

scontro sociale. Sulla base di quella che viene definita come

una “analisi rozza e costruita a tavolino”, asserendo di essere

“avanguardia combattente della classe operaia” passano

quindi all’ attacco al cuore dello Stato, ovvero all’omicidio di

singole persone che rappresentano il mondo politico e

istituzionale. L’anno 1976 è quindi considerato l’inizio della

stagione degli omicidi pianificati che, inaugurata dall’uccisione

del procuratore generale di Genova Coco e della sua scorta,

continua negli anni successivi contro qualunque persona venga

definita “simbolo dello Stato” come giornalisti, magistrati,

dirigenti d’azienda, docenti universitari, poliziotti, guardie

carcerarie e anche un operaio, il comunista Guido Rossa, che

aveva contrastato il terrorismo in fabbrica. Il suo omicidio è

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ritenuto di maggior rilevanza in quanto esso si immette nel

filone del “vecchio odio antiriformista”, che vede nei

democratici più virtuosi il primo avversario. Le tre autrici

considerano come “anni di piombo” il periodo della seconda

metà degli anni ’70, in quanto oltre a seminare odio e angoscia

essi “incombono come una cappa sulla società e sulle

coscienze”. In particolar modo viene evidenziato lo

sconvolgente effetto del terrorismo in fabbrica in un contesto

che vede finire l’iniziativa operaia, il sindacato in difficoltà e le

grandi aziende attuare una imponente ristrutturazione. La Fiat

infatti, uno dei bersagli preferiti del terrorismo, vede aumentare

il disorientamento degli operai di fronte a una forza eversiva

totalmente al di fuori del proprio controllo, e il conseguente

rovinarsi dei rapporti di fiducia tra gli operai, con un ambiente

di lavoro che si fa sempre più silenzioso. In questo contesto,

inoltre, la denuncia alla luce del sole di un capo può avere

come conseguenza possibile il suo ferimento ad opera dei

terroristi e la conseguente incriminazione dell’accusatore come

fiancheggiatore o brigatista. Viene evidenziato infine come gli

slogan battaglieri dell’autunno caldo, dopo le concrete azioni

terroristiche, diventino in quel successivo momento indicibili.

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Nonostante l’evidenza dimostri che fra gli operai Fiat solo 62

sono passati alla lotta armata e spesso con posizioni di poca

importanza, “l’ombra della clandestinità di alcuni – scrive

Revelli – finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro”.

In questo clima si realizza la politica di solidarietà nazionale

promossa da Berlinguer con la formula del compromesso

storico. La metà del decennio vede il PCI in una chiara

posizione di forza: esso infatti nel ’68 non ha sconfessato le

lotte degli studenti e ha inoltre condannato l’intervento

sovietico in Cecoslovacchia; subito dopo ha elaborato con i

partiti spagnolo e francese la tesi che porta all’eurocomunismo

come via diversa dal socialismo sovietico; nel ’76, inoltre, lo

stesso Berlinguer ha riconosciuto pubblicamente l’utilità

dell’Alleanza Atlantica, pur tuttavia senza staccarsi da Mosca e

senza lasciare del tutto l’idea di una superiorità del pure

“imperfetto” socialismo. Le elezioni politiche del ’76 vedono

quindi il PCI raggiungere il suo massimo storico con il 34, 4

per cento dei voti, pur restando la DC primo partito con il 38

per cento. Il PCI e in particolare Berlinguer vedono nella

formula del compromesso storico il solo strumento utile ad

avviare una riforma di tipo politico e morale che si estrinsechi

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dalle proprie radici popolari e da quelle della DC. Una

prospettiva che, condivisa da Moro, convive con il suo progetto

di assorbire i comunisti nell’area di governo in una maniera che

eviti lo scotto di trasformazioni improvvise. In conseguenza a

ciò il PCI, nonostante le numerose critiche rivolte alla

degenerazione del sistema partitico, appoggia nell’agosto ’76

un governo Andreotti insieme a tutti i partiti tranne il MSI e i

radicali. La presentazione di un secondo governo Andreotti,

che doveva vedere un maggior coinvolgimento del PCI, vede

nello stesso giorno della sua presentazione, il 16 marzo, il

sequestro di Aldo Moro e il massacro della sua scorta. I caotici

55 giorni seguenti furono caratterizzati dalla divisione dello

schieramento politico davanti al ricatto brigatista di

intraprendere una trattativa con lo Stato per lo scambio di Moro

con alcuni propri prigionieri. Mentre infatti i comunisti e la

quasi totalità della DC, incarnando la “linea della fermezza”

erano rigidamente contrari, i socialisti si dichiaravano

possibilisti. La paura di riconoscere pubblicamente i terroristi

fece prevalere la linea della fermezza nei loro confronti,

portando all’assassinio a sangue freddo di Moro, il cui corpo

venne abbandonato in una strada di Roma. L’episodio della

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morte di Moro, come accade per altri autori, viene visto anche

in questo caso come la premessa per la fine del terrorismo.

Nonostante infatti gli attentati continuino ad aumentare fino al

1980, all’allontanamento di alcuni militanti segue una

diminuzione delle simpatie verso il terrorismo, in particolar

modo verso le BR, che più degli altri gruppi “si propongono –

scrive Vittorio Foa – come ‘uno Stato proletario dentro lo

Stato borghese’, con i loro processi, le loro carceri, e in più,

con la pena di morte”. Il colpo definitivo al terrorismo,

tuttavia, viene individuato nella legge sui pentiti del 1980, la

quale prevedeva denaro e sostanziosi sconti di pena ai membri

che, per qualsivoglia motivazione , avessero rivelato a chi di

competenza i nomi dei compagni, arrivando in qualche caso

alla scarcerazione anche se reo confessi. La conseguenza di

questa politica sarà la diminuzione degli attentati dal 1981 e il

progressivo smantellamento delle organizzazioni.

La prima scheda di approfondimento è dedicata al caso Moro e

si intitola “Moro e la ragione di Stato” . La seconda è invece –

come anticipato – dedicata ai “Misteri Italiani”. Il termine

viene utilizzato per sottolineare come, a distanza di più di

vent’anni, molti aspetti ed eventi del terrorismo e delle stragi

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non siano affatto chiari, tanto che in alcuni casi neppure una

successione di sei, sette, otto processi è bastata a fornire

versioni convincenti. È questo l’effetto di un insieme di fattori,

alcuni dei quali precedentemente accennati, come la

riconosciuta difficoltà delle indagini, i depistaggi e gli

inquinamenti di prove, le intromissioni dei servizi segreti

italiani e stranieri e l’insieme poco chiaro di rapporti fra

strutture segrete o semisegrete e fra criminalità e politica. In

questo vuoto di verità vengono illustrate le due principali linee

interpretative che si sono sviluppate. La prima è quella della

“strategia della tensione” e del “doppio Stato”, la seconda

invece sostiene come sia impossibile parlare di una strategia

unitaria ed occulta dietro le stragi, data la mancanza di ipotesi

credibili.

Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, sono state riportate

tre immagini che per la prima volta trovano spazio tra i

manuali analizzati. La prima è una riproduzione di un

manifesto riferito all’arresto di Valpreda, seguito da questa

didascalia: “La campagna contro l’arresto di Pietro Valpreda

e le esitazioni nelle indagini sulla destra eversiva si vale

dell’opera di intellettuali e artisti. In questo manifesto di Guido

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Crepax per Avanguardia Operaia, militari, fascisti, magistrati,

alto clero e politici appaiono un tutt’uno che incombe

sull’Italia” .

La seconda è riferita alla strage di Bologna, in sostituzione

delle foto sulla strage di piazza Fontana, privilegiate dalla

maggior parte dei manuali : “La stazione di Bologna devastata

dall’attentato del 2 agosto 1980. Attribuito alle organizzazioni

di destra, questo tragico evento, il più grave del genere che si

sia verificato in un Paese occidentale dalla fine della Seconda

guerra mondiale, ha rappresentato l’apice dell’attività del

terrorismo in un intreccio, non ancora del tutto chiarito, con

settori deviati dei servizi segreti e della malavita organizzata”.

La terza immagine è inserita all’interno della scheda dedicata a

Moro ed è l’immagine che più frequentemente si ritrova sui

manuali, qui con una precisazione sull’incrocio geografico

delle strade dal valore simbolico: “Il ritrovamento del

cadavere di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, in via Caetani, a

Roma, non lontano da via delle Botteghe Oscure e da piazza

del Gesù dove avevano sede le direzioni del PCI e della DC” .

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3.11 Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci,

Vittorio Vidotto, Storia dal 900 ad oggi, Editori

Laterza, 2005

La Casa editrice Giuseppe Laterza & figli è stata fondata a Bari

il 10 maggio 1901 da Giovanni Laterza (1873-1943) come

naturale prosecuzione dell'attività della Libreria e Tipografia,

fondata dalla famiglia undici anni prima a Putignano. La sua

storia è legata alla figura di Benedetto Croce, massimo

esponente del pensiero filosofico idealista in Italia e uno dei

baluardi dell'antifascismo, che fu per quarant'anni il consulente

della casa editrice, avvalendosi della collaborazione di giovani

studiosi e allievi tra cui Luigi Russo, Guido De Ruggiero e

Giovanni Gentile, che di lì a pochi anni diverranno personaggi

di primo piano nella cultura italiana. Croce, che pubblicò con

Laterza quasi tutte le sue opere e la sua rivista (La critica),

impostò fin dall'inizio la linea editoriale della casa. Con la

morte di Vito Laterza, nel 2001, la gestione della casa editrice

è passata a Giuseppe Laterza, che segue da Roma l'editoria

universitaria e la saggistica, e a suo cugino Alessandro Laterza,

che segue da Bari soprattutto l'editoria scolastica. Dagli anni

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Ottanta la Laterza è diventata la casa editrice di riferimento nel

campo della storia per il biennio e il triennio delle scuole medie

superiori, a partire dalle opere di Andrea Giardina, Giovanni

Sabbatucci e Vittorio Vidotto, ed è significativamente presente

in altri campi, dalla filosofia alle lingue e letterature antiche,

dalla letteratura italiana all’educazione linguistica, dal diritto

alla storia dell’arte.

Andrea Giardina è uno storico italiano. Si occupa

prevalentemente di storia sociale, amministrativa e politica del

mondo romano e della fortuna dell'antico nel mondo

contemporaneo. Ha insegnato storia antica e storia romana

presso l'Università degli Studi “Gabriele D'Annunzio” di

Chieti, l'Università degli Studi di Firenze, l'Università degli

Studi di Palermo, l'Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

e l'Università di Roma “La Sapienza”. È attualmente professore

ordinario di storia romana presso l'Istituto Italiano di Scienze

Umane. Ha insegnato anche presso l'École Normale Supérieure

e l'École pratique des hautes études di Parigi. È membro

corrispondente dell'Istituto archeologico germanico, membro

dell'Accademia dei Lincei e presidente dell'Istituto italiano per

la storia antica

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Giovanni Sabbatucci è uno storico e docente universitario

italiano. Ha insegnato a lungo all'Università di Macerata. Nel

1997 ha ottenuto il trasferimento alla Università di Roma “La

Sapienza”, dove è tuttora professore ordinario di Storia

Contemporanea. Ha collaborato con L'Espresso, poi alle pagine

culturali del Corriere della Sera. Dal 1994 è editorialista del

quotidiano di Roma Il Messaggero. Collabora talvolta con Il

Mattino ed è ospite di trasmissioni radiofoniche RAI.

Vittorio Vidotto ha insegnato prima Storia moderna e poi

Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere

dell’Università “La Sapienza” di Roma. È responsabile del

settore di Storia e di Politica contemporanea per le opere

enciclopediche dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Autore

di numerosi manuali di Storia contemporanea con Giovanni

Sabbatucci e di Storia moderna con Renata Ago, ha pubblicato

inoltre per la Laterza: Storia d’Italia con G. Sabbatucci (a cura

di, 6 voll.), 1994-1999; Roma capitale (a cura di), 2002;

Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, 2005; Roma

contemporanea, 2006; Atlante del Ventesimo secolo (a cura di,

4 voll.), 2011.

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§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Il primo atto di terrorismo viene individuato nella strage di

piazza Fontana: il 12 dicembre del ’69 infatti, durante il

cosiddetto “autunno caldo”, una bomba esplose a Milano nella

sede della Banca nazionale dell’agricoltura, causando 17 morti

e oltre 100 feriti. Gli autori sottolineano come la gestione delle

indagini fu esemplificativa dell’inadeguatezza che il governo in

carica in quegli anni mostrava di fronte alle inquietudini della

società. Gli apparati dello Stato, infatti, si dimostrarono

incapaci di fare chiarezza sul caso, venendo messi di

conseguenza sotto accusa “dall’opinione pubblica e dalla

stampa di sinistra”, che indicò nell’estrema destra fascista la

matrice politica dell’atto, denunciando inoltre “le pesanti

responsabilità” dei servizi segreti nel depistare le indagini

verso una incerta “pista anarchica”. Le suddette circostanze

fecero parlare di una “strategia della tensione” organizzata

dalle forze di destra per destabilizzare lo Stato democratico e

giungere così a una svolta autoritaria. Ulteriori insidie per la

vita democratica vennero nell’estate del ’70 dalla rivolta di

Reggio Calabria, la quale vide un’intera città, indignata per la

mancata nomina a capoluogo dell’appena nata regione, rendersi

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protagonista di una serie di gravi manifestazioni per l’ordine

pubblico culminate a luglio in una vera e propria insurrezione

guidata da esponenti del MSI. Possiamo notare quindi come gli

autori, pur facendo riferimento alla strategia della tensione, non

citino il golpe borghese avvenuto nello stesso anno dei fatti di

Reggio Calabria.

Gli anni Settanta si caratterizzarono tuttavia anche per un

elevato impegno dei cittadini sul terreno dei diritti civili.

L’onda del successo nel referendum sul divorzio portò a un

elevato consenso verso le forze che lo avevano sostenuto,

aiutato anche dalle critiche al disfacimento della vita pubblica e

dalle diffuse richieste di rinnovamento. Ad intercettare

politicamente questa domanda fu più di tutti il PCI, che nel ’73

propose un rilevante cambiamento strategico. Il suo segretario

Berlinguer infatti affermò la necessità di arrivare a un

compromesso storico, ovvero ad un accordo di lungo periodo

fra le forze comuniste, socialiste e cattoliche, come unico modo

per allontanare i rischi di un’involuzione autoritaria e per

allargare inoltre le basi della politica riformatrice. Di lì a poco

il PCI stabilì dei contatti con i comunisti francesi e spagnoli per

dare vita ad una politica comune in Europa occidentale, con

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caratteristiche diverse da quelle del comunismo sovietico

(eurocomunismo). Il carattere rassicurante della proposta di

Berlinguer, accanto alla persistente “diversità” del partito

dovuta alle sue origini rivoluzionarie, fecero del PCI in questa

particolare fase il punto di arrivo delle numerose e diverse

domande di trasformazione che circolavano nella società

italiana. A conferma di ciò, le elezioni regionali e locali del ’75

videro un vistoso aumento del PCI, che arrivò al 33, 4%, e un

calo della DC che scese al 35, 3%, consentendo il formarsi di

giunte di sinistra in molte regioni del Centro-Nord e in alcuni

tra i maggiori comuni italia. Sulla stessa lunghezza d’onda, le

politiche dell’anno successivo segnarono una ulteriore avanzata

del PCI, che giunse al suo massimo storico col 34, 4%, mentre

la DC recuperò i consensi perduti nelle regionali.

Il risultato delle elezioni del ’76 poneva il problema di una

nuova formula di governo che, data la defezione dei socialisti e

la non percorribilità di un ritorno al centrismo, si sostanziava

nell’unica soluzione fattibile ovvero un coinvolgimento del

PCI nella maggioranza. Si arrivava in questo modo ad agosto

alla costituzione di un governo guidato da Andreotti,

monocolore democristiano, il quale otteneva in Parlamento

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l’astensione di tutti gli altri partiti tranne il MSI e i radicali. Pur

non essendo ancora il “governo di emergenza” con la

partecipazione di tutti i partiti costituzionali, auspicato dalle

sinistre, esso rappresentava comunque una risposta di tutta la

classe politica ad una situazione resa sempre più inquietante

dalla crisi economica e soprattutto “dal dilatarsi del fenomeno

terrorista ora non più solo di destra, ma anche di sinistra”. Un

fenomeno che, rilevano gli autori, considerato nei suoi primi

atti come episodico e fondamentalmente avulso dal tessuto

civile del paese, si rivelerà invece per molti anni come “un

elemento permanente e disgregante della vita politica

italiana”. Oltre ad essere opposti per quanto riguarda la loro

matrice ideologica, si fa notare, i due terrorismi rosso e nero, si

differenziarono anche nel modo di agire. La caratteristica

principale del terrorismo di destra fu il ripetersi di attentati in

luoghi aperti al pubblico con l’ausilio di materiale esplosivo,

che scatenavano stragi indiscriminate con il probabile obiettivo

di diffondere il caos nel paese e facilitare così una svolta

autoritaria. Dopo la già citata strage di piazza Fontana, infatti,

ci furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia nel maggio

’74 e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, ed

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infine l’attentato alla stazione di Bologna con oltre 80 morti

nell’agosto ’80. I tre autori evidenziano come “la ragionevole

convinzione di larga parte dell’opinione pubblica” che

riconduce le stragi a rappresentanti della destra eversiva

appoggiati dai servizi segreti, pur confermata da molti raffronti

investigativi, non ha ancora trovato “( salvo che per Bologna)

una conferma della magistratura giudicante”. Il potere politico

viene indicato come principale responsabile di questa

situazione, in quanto incapace di indirizzare l’azione dei servizi

di sicurezza e colpevole di non aver “posto rimedio alla loro

inefficienza accompagnata da vere e proprie deviazioni” .

A contribuire alla nascita del terrorismo di sinistra fu proprio la

diffusa percezione di uno stato debole e corrotto, insidiato dal

terrorismo di destra e minacciato dalla “psicosi di un colpo di

stato” molto diffusa negli ambienti della sinistra, che contro

questo pericolo giustificava anche risposte violente. Ma il

principio della lotta armata, secondo gli autori, era già ben

presente in tutte le ideologie estremiste e rivoluzionarie riprese

e divulgate dal movimento del ’68. Fu allora che, sulle base

delle suggestioni provenienti dai movimenti di guerriglia

latinoamericana, si formarono i primi gruppi organizzati decisi

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a praticare quanto fino ad allora avevano teorizzato. Il fascino

di “un’esperienza eccezionale” come la clandestinità sembrò

allora irresistibile per molti giovani che provenivano dal

dissolto movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari e

perfino dagli stessi partiti tradizionali, tanto più che l’azione

armata era concepita come lotta esemplare per la classe operaia

“al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema

capitalistico e dello stato borghese”. L’attività terroristica

subisce dunque un’escalation che va dai primi attentati

incendiari ai sequestri di dirigenti industriali, magistrati come il

giudice Sossi, al vero e proprio “assassinio programmato”

come nel caso del procuratore generale di Genova giudice

Coco. Alle BR, autrici di queste azioni , si affiancarono anche i

Nuclei Armati Proletari e Prima Linea.

“Il salto di qualità compiuto dal terrorismo di sinistra” si

verificò contemporaneamente alla prima vera grande crisi

economica del dopoguerra, in parte dovuta all’aumento del

prezzo del petrolio e aggravata da una gestione politica che

alimentava l’inflazione e la spesa pubblica mentre la

disoccupazione, soprattutto giovanile, cresceva a livelli

altissimi. La situazione economica, secondo gli autori, finiva

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per aumentare il disagio nei giovani che non riuscivano a

trovare un posto di lavoro adeguato al loro titolo di studio. Di

qui, lo sviluppo del movimento del ’77, con occupazioni delle

università e violente manifestazioni di piazza “che videro per

la prima volta l’uso frequente di armi da fuoco da parte dei

protagonisti”. Gli autori rilevano come i nuovi gruppi del ’77 ,

tra cui Autonomia operaia, recuperino i vecchi temi

dell’operaismo sessantottino, ma come di quel movimento

abbiano perso invece “l’originario ottimismo rivoluzionario”.

“Spontaneismo e radicalizzazione esasperata” sono invece le

caratteristiche principali del nuovo movimento che ha come

bersaglio “soprattutto la sinistra tradizionale, il PCI e i

sindacati: clamorosa fu l’aggressione di un gruppo di

autonomi a un comizio del segretario della CGL, Lama”

avvenuta all’università di Roma “La Sapienza”. Per alcuni

giovani fu proprio il riflusso del movimento del ’77 a causare il

passaggio alla militanza terroristica, segnata da un “brusca

impennata del terrorismo di sinistra” con 287 attentati

rivendicati da 77 sigle diverse solo nel 1977. “Nel ’79 gli

attentati salirono a 805 e le sigle a 217”. E nel ’78 le Brigate

Rosse “consapevoli di disporre di una diffusa rete di consensi”

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rapirono Aldo Moro e uccisero gli uomini della sua scorta. Il

leader democristiano era il principale artefice della politica di

solidarietà nazionale sancita dall’appoggio del PCI al nuovo

governo democristiano di Giulio Andreotti, che proprio il

giorno del rapimento si presentava alla Camera per ottenere la

fiducia. Seguirono i lunghi 55 giorni della prigionia,

contraddistinti da molte polemiche relative alla decisione di

trattare o meno il rilascio di Moro con i terroristi. Alla linea

della fermezza di di DC e PCI si contrapponeva la linea del

partito socialista e di altri gruppi minori, disposti ad aprire una

finestra di dialogo con i terroristi e per scopi umanitari e motivi

politici. Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro segnò,

secondo gli autori, il punto di massima gravità del fenomeno

terroristico, che però proprio da quel momento cominciò la sua

fase discendente per la “presa di distanze dall’area eversiva da

parte di quanti avevano coltivato fino ad allora ambigue

solidarietà”. Il potenziamento delle forze dell’ordine e il

fenomeno del pentitismo, incoraggiato da leggi che favorivano

la collaborazione con la giustizia in cambio di forti sconti di

pena, sferrò un duro colpo ai gruppi terroristi, scompaginati

dalle denunce dei loro compagni. La legge “destò molte

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perplessità di ordine giuridico e morale, ma diede un notevole

contributo alla sconfitta del terrorismo”.

3.12 Simona Colarizi, Guido Martinotti, La

memoria e il tempo, Einaudi scuola, 2006

La Giulio Einaudi Editore è una delle più importanti case

editrici italiane. Fu fondata a Torino il 15 novembre 1933 da

Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della Repubblica

Luigi Einaudi, all'epoca ventunenne. La casa editrice venne

immediatamente presa di mira dal fascismo: nel 1935 il

proprietario Giulio Einaudi fu prima arrestato e poi inviato al

confino. Sempre impegnata politicamente, l'editrice si avvalse

di collaboratori come Cesare Pavese, Giaime Pintor, Massimo

Mila, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Leone

Ginzburg, quest'ultimo assassinato dai fascisti. Pubblicò nel

dopoguerra i Quaderni e le Lettere dal carcere di Antonio

Gramsci . Ebbe un periodo di crisi negli anni Settanta e

Ottanta, che videro la creazione del progetto Einaudi-

Gallimard, una collaborazione con la casa editrice francese

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Gallimard per proporre sul mercato italiano le celebri edizioni

della Bibliothèque de la Pléiade. Nel 1994 fu acquistata dal

gruppo Mondadori, al quale appartiene tuttora. Nel 1998 ha

rilevato Edizioni di Comunità.

Guido Martinotti è stato professore ordinario di sociologia

urbana all'Università Bicocca, dove ha ricoperto la carica di

prorettore dal 1999 al 2005. È autore di numerose

pubblicazioni nel campo della sociologia urbana tra cui

ricordiamo: Informazione e sapere, Anabasi, Milano 1992;

Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Il Mulino

Bologna 1993; Bisogni informativi, banche dati e territorio

(curato con Enrico Ercole), Consiglio Nazionale delle

Ricerche, Roma, Dicembre 1994; Cittadini si diventa (con Eva

Cantarella), Einaudi scuola, Milano 1996; Perceiving,

Conceiving, Achieving the Sustainable City. A Synthesis

Report, European Foundation for the Improvement of Living

and Working Conditions, Loughlingstown, Co. Dublin, 1997.

Simona Colarizi è professore ordinario di storia contemporanea

all'Università di Roma "La Sapienza". Tra le sue pubblicazioni:

L'opinione degli Italiani sotto il Regime 1929-1943, Laterza,

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1991; Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Laterza, 1994,

1998; Biografia della prima Repubblica, Laterza, 1996; Storia

del Corriere della Sera, Fondazione Corriere della Sera, 2011;

La cruna dell’ago, Laterza, 2006; La tela di Penelope. Storia

della Seconda Repubblica, Laterza, 2012.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Possiamo trovare un primo riferimento ai gruppi terroristici di

entrambe le matrici nel contesto della forte agitazione tipica del

periodo della fine degli anni Sessanta. Il ’68 in particolare

aveva visto operai, studenti e donne impadronirsi delle piazze e

delle strade italiane. Ogni manifestazione era accompagnata da

un corteo e ogni circostanza, riferita a fatti interni o

internazionali, faceva esplodere la protesta di migliaia e

migliaia di persone. A mano a mano che il clima politico si

faceva rovente, poi, le manifestazioni erano sempre più

caratterizzate dalla violenza che i gruppi extraparlamentari,

presenti in tutte le occasioni tra i manifestanti, “teorizzavano

come strumento di lotta”. Lo scontro acceso con la polizia, che

rispondeva allo stesso modo, aveva l’effetto di portare a un

crescendo senza fine di altre proteste seguite da altre violenze.

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Viene evidenziato come alla radicalizzazione e alla

strumentalizzazione degli scontri e delle proteste in atto

contribuissero anche le sigle dell’estrema destra neofascista,

che non si riconoscevano più nel MSI e lo accusavano delle

stesse colpe che gli estremisti di sinistra attribuivano al PCI.

Entrambi infatti sfruttavano la situazione “per i loro fini

fumosamente rivoluzionari”, con la conseguenza che

chiaramente “dalle grida si passava ai bastoni e ai sassi e poi

alle molotov e alle pistole”. All’interno di questo clima

favorevole agivano gli “strateghi della tensione”, con

l’obiettivo di fermare l’intero processo in atto in Italia e

soprattutto lo spostamento a sinistra degli equilibri politici del

paese. Gli autori sottolineano tuttavia come “la svolta

autoritaria non era un progetto definito e, soprattutto, non

esisteva una centrale operativa, un ‘grande vecchio’, che ne

tirasse le fila”, almeno per quanto riguarda gli studi fatti fino

alla scrittura del proprio manuale, rilevando come su questo

aspetto della vicenda italiana il dibattito fra gli storici sia

ancora aperto. Non un progetto ben definito quindi, ma

piuttosto un insieme di ambienti quali settori della destra

eversiva, dirigenti dei servizi segreti, alti ufficiali, politici e

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uomini d’affari che, muovendosi spesso “senza alcun

coordinamento tra loro”, erano accomunati dall’aver fatto

della guerra al comunismo la propria missione di vita.

Alla prima strage, quella di piazza Fontana a Milano, che nel

’69 vide 17 morti e molti feriti a causa dell’esplosione di una

bomba all’interno di una banca, ne seguirono altre per tutti gli

anni Settanta ed oltre, come quella del treno Italicus tra Firenze

e Bologna (1974), quella di piazza della Loggia a Brescia

(1974) e quella della stazione di Bologna (1980). L’intento

iniziale, ovvero quello di portare il paese in uno stato di caos e

insicurezza per giungere ad un governo autoritario, visto a quel

punto come necessario, portò tuttavia ad un risultato diverso:

ovvero quello di “convincere una parte degli estremisti di

sinistra a scendere sullo stesso terreno del terrore” . Le Brigate

Rosse infatti, il gruppo drammaticamente più famoso,

nascevano nel 1970, lasciando alle proprie spalle un gran

numero di sequestri di persone, ferimenti, assassinii e

raggiungendo l’apice con il rapimento e il sequestro nel 1978

del leader democristiano Aldo Moro. I gruppi clandestini rossi,

decisi a combattere lo Stato e le sue istituzioni democratiche,

ne colpivano quindi i simboli, incarnati in figure come giudici,

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poliziotti, giornalisti e politici, tutti quanti accusati di essere

servi di uno Stato venduto alle imprese capitalistiche

multinazionali e sottomesso agli Stati Uniti, considerati il

regno del capitalismo e quindi del male.

Nonostante i gruppi sovversivi fossero delle piccole minoranze,

esse fecero gravare sul Paese un peso notevole, pur non

arrivando ad un collasso della democrazia, che invece in questa

difficile circostanza dette grande prova di solidità, grazie ai

cittadini che dimostravano quanto oramai fosse maturata nel

Paese la coscienza democratica. Tuttavia, innanzi a questo

pericolo, i governi di centro-sinistra sembravano inadeguati e

divisi al proprio interno, privi quindi della forza necessaria per

porsi saldamente alla guida della nazione. Inoltre, come per

tutto l’Occidente, anche in Italia la crisi petrolifera del 1973

innescava una spirale in discesa per l’economia, che si

sostanziava in un’inflazione ormai incontrollabile e in una

crescente mancanza di lavoro. La risposta più adeguata alle due

emergenze, quella del terrorismo e quella economica, appariva

dunque da ricercare in un patto di solidarietà nazionale tra le

due più rappresentative forze politiche, la DC e il PCI, che

erano oramai arrivate vicinissime nei consensi elettorali. I capi

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di governo sarebbero stati costretti a ricorrere a misure non

popolari come l’austerità, bloccando la spesa pubblica e i

salari, e le leggi speciali per combattere i terroristi, ovvero una

serie di disposizioni limitative della libertà. Il “compromesso

storico” tuttavia, scontentava entrambi gli schieramenti: non

piaceva infatti a larghe parti della DC, poichè l’egemonia di

quel partito era fondata quasi totalmente sul proprio ruolo di

unica opposizione al comunismo, non piaceva d’altra parte

neppure ai nuovi elettori del PCI, cioè i ceti medi che lo

avevano recentemente votato nella speranza di un

rinnovamento totale, che comprendesse anche il sistema

politico, allora caratterizzato da un alto grado di corruzione

politica, e infine non piaceva al PSI, che vedeva nell’alleanza

DC-PCI venire meno la propria aspirazione a divenire un

grande partito socialdemocratico sul modello europeo.

Nonostante la notevole crescita elettorale dei comunisti avesse

prefigurato un’ipotesi di alternativa, che avrebbe portato il PCI

a governare con PSI e partiti laici , questa eventualità era stata

considerata non percorribile da Berlinguer, convinto che

giungere ad una situazione del genere senza aver ottenuto una

piena legittimazione a governare per il suo partito avrebbe

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potuto portare al temuto colpo di Stato. Il golpe si era verificato

infatti in Cile, dove nel 1973 il socialista Allende, capo del

governo, era stato ammazzato dai militari guidati dal

sanguinario dittatore Pinochet. Berlinguer quindi, spaventato

dai fatti cileni, temeva i disegni di matrice nera, trovando la

conferma delle sue paure nel susseguirsi delle stragi, “di cui

ancora oggi, nonostante i tanti processi, non si sono accertate

completamente le responsabilità”. La fase della solidarietà

nazionale, durata due anni (dal ’76 al ’78), non vide ancora

comunque la partecipazione piena del PCI che, come le altre

forze politiche, appoggiava i governi monocolori democristiani

in parlamento, non partecipando quindi in maniera diretta agli

esecutivi, i quali tuttavia adempirono agli scopi prefissati. Il

PCI infatti contribuì alla pace sociale e alla legislazione

eccezionale antiterrorismo. Possiamo notare quindi come, oltre

a ribadire la non ancora accertata natura delle stragi, si evidenzi

il ruolo del PCI nel combattere il terrorismo.

Sono presenti due approfondimenti che riguardano il

terrorismo rosso. Nel primo, intitolato “Le Brigate Rosse”,

troviamo un excursus dell’organizzazione eversiva dalle origini

alle Nuove Brigate Rosse. Viene riportata inizialmente

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l’origine di quello che viene definito come un “movimento

eterogeneo”. Il terrorismo di sinistra infatti, nacque nel nostro

Paese come progetto politico di alcuni gruppi estremisti,

convinti del fatto che si potesse scatenare una rivoluzione in

Italia attraverso l’uso continuato della violenza. I due autori

sottolineano come i terroristi rossi, in larga parte “provenienti

dai movimenti extraparlamentari e da cellule operaie” , nati nel

periodo della stagione della contestazione studentesca e delle

lotte operaie del biennio 1968-1969, si ispirassero alle

guerriglie sudamericane e a una “confusa ideologia leninista”.

Tra tutti i gruppi eversivi spiccava quella delle Brigate Rosse,

nate a Milano nell’estate 1970. Inizialmente la composizione

del gruppo fu molto varia. Nella nuova organizzazione infatti si

unirono operai di stabilimenti milanesi, studenti delle

Università di Milano e Trento (come Renato Curcio e

Margherita Cagol) e fuoriusciti dalle file del movimento

giovanile comunista (Alberto Franceschini). Tutti in ogni caso

erano accomunati dalla convizione che il PCI avesse agito

tradendo gli ideali della guerra partigiana e avesse abbandonato

l’obiettivo storico della rivoluzione. Ritenutisi fedeli a questi

ideali, invece, i terroristi erano determinati a dare il via ad una

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nuova stagione di resistenza contro lo “Stato Borghese”,

schiavo del “sistema delle multinazionali”. Mentre i primi

quattro anni della loro attività furono caratterizzati da azioni

dimostrative, come tentativi dinamitardi e sequestri lampo di

industriali, nel ’74 le Brigate Rosse iniziarono a dare vita ad un

vero e proprio “attacco allo Stato”, colpendo i suoi

rappresentanti. La prima azione di questo nuovo corso fu il

sequestro ad aprile del sostituto procuratore Mario Sossi, rapito

e imprigionato dalle BR per alcuni giorni. A questo rapimento,

conclusosi senza spargimento di sangue, fece seguito un più

cruento sviluppo che vide il procuratore Francesco Coco, che

era stato il protagonista delle negoziazioni dell’epoca,

assassinato con la sua scorta. Dopo questo atto tuttavia il

nucleo storico delle Brigate Rosse si era già disperso: nel

settembre ’74 infatti Curcio e Franceschini venivano arrestati e

poco più tardi, durante la liberazione di un ostaggio, i

carabinieri uccidevano Margherita Cagol. La direzione del

gruppo venne assunta a quel punto da Mario Moretti, che

organizzò poco dopo l’azione più clamorosa del terrorismo

italiano: il sequestro del leader della democrazia cristiana Aldo

Moro. Convinto che per combattere in maniera definitiva il

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terrorismo e superare la grande crisi economica di quegli anni

non vi fosse altra soluzione che portare il PCI nell’area

governativa, Moro rappresentava per le BR il bersaglio adatto

per giungere “all’attacco al cuore dello Stato”. Sequestrato il

16 marzo, dopo il massacro della sua scorta, il leader

democristiano rimase nel carcere brigatista per 55 lunghi

giorni, durante i quali fu processato, condannato da un

autoproclamato “tribunale popolare” e, infine, assassinato da

Mario Moretti.

L’uccisione di Moro segnava l’apice di una stagione

dell’emergenza caratterizzata da un’escalation di omicidi, a cui

lo Stato fece fronte con leggi di emergenza e con la creazione

di reparti speciali antiterrorismo dei carabinieri (Gis) e della

polizia (Nocs). Ad un’efficace risposta dello Stato, tuttavia,

seguiva un’estremizzazione della violenza terrorista, che

faceva ancora vittime come magistrati (Vittorio Bachelet),

carabinieri, poliziotti, industriali, e giornalisti (come Walter

Tobagi), lasciandosi alle spalle una lunga scia di sangue e di

orrore che faceva arrivare in poco tempo il numero dei morti a

settanta. Iniziava tuttavia tra gli stessi terroristi una resa dei

conti interna, a cui dettero il via una serie di misure

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antiterrorismo messe in atto dal generale Carlo Alberto Dalla

Chiesa. Le BR, dimezzate dagli arresti e divise da sospetti

interni e rappresaglie contro chi tradiva per assicurarsi qualche

sconto di pena, ricevevano nel 1981 un colpo mortale in

occasione del rapimento del generale James Dozier, al

comando del contingente NATO ubicato a Verona. I

carabinieri infatti, con l’aiuto dei servizi americani, riuscirono

a liberare Dozier ad un mese dal sequestro e ad arrestare tutti i

suoi rapitori che, con le loro confessioni, diedero un contributo

determinante per sgominare l’intera rete terroristica.

L’annientamento definitivo dell’organizzazione clandestina era

ormai vicino, pur verificandosi ancora qualche attacco

brigatista. Inoltre col passare del tempo molti capi storici delle

BR detenuti si allontanavano dalla lotta armata, riconoscendo il

fallimento della loro ideologia. L’atto che tuttavia segnò la fine

della vicenda storica delle Brigate Rosse è l’assassinio da parte

di un gruppo di terroristi superstiti del senatore democristiano

Roberto Ruffilli. Più recentemente, gli assassinii dei consulenti

governativi Massimo d’Antona (1999) e Marco Biagi (2002)

hanno portato alla scoperta di un nucleo proclamatosi “nuove

Brigate Rosse”. nonostante l’individuazione e l’arresto di

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alcuni militanti, resta il timore che si possa aprire in Italia una

nuova stagione di terrorismo politico.

Il secondo approfondimento, tratto da “A. Lepre, Storia della

prima repubblica. L’Italia dal 1943 al 1988”, Il Mulino,

Bologna 1993, pp. 277-278, si intitola: “Origini teoriche e

scopi del terrorismo rosso”. In esso “Aurelio Lepre definisce i

caratteri del terrorismo distinguendolo dalla lotta armata. Il

terrorismo infatti fu concepito dai suoi praticanti come l’inizio

di una lotta armata di massa, che però non ebbe luogo per

l’assenza delle condizioni necessarie. Il terrorismo delle

Brigate Rosse non cercava di provocare stragi, ma prendeva di

mira obiettivi precisi e selezionati (uomini politici, giornalisti

ecc.). Alla sua base vi erano riferimenti ideologici alle lotte di

liberazione dei paesi del Terzo mondo e al maoismo. Lo scopo

che si proponeva era colpire ‘il cuore’ dello Stato, adottando

ad esempio la tattica dei rapimenti. Solo nel 1975 le Brigate

Rosse passarono all’omicidio, uccidendo due militanti del

Movimento sociale italiano”.

È presente inoltre una tabella che illustra “Le date in sintesi.

Dagli anni del benessere alla crisi economica”. In essa il

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periodo che va dal 1969 al 1980 viene indicato come quello

degli anni di piombo in Italia: “Le tensioni e le violenze del

Sessantotto aprono in Italia la lunga stagione delle stragi e del

terrorismo. Estremisti di destra e di sinistra insanguinano il

paese inseguendo vaghi fini rivoluzionari o reazionari. Il

rapimento e l’uccisione del leader della DC Aldo Moro segna

il culmine dell’attacco portato allo Stato, al quale PCI e DC

cercano di rispondere con l’accordo politico del compromesso

storico”.

Dal punto di vista iconografico troviamo, all’interno del

documento dedicato alle Brigate Rosse, una foto di Aldo Moro

con la seguente didascalia: “Un manifesto funebre per il leader

democristiano Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse e ucciso

nel maggio del 1978”.

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Conclusioni

L’analisi dei tredici manuali effettuata in schede ad hoc ci offre una panoramica di come diversi autori e diverse case editrici hanno affrontato il tema del terrorismo e delle stragi, nell’arco di tempo che va dal primo manuale di Cartiglia del 1985 fino all’ultimo di Colarizi e Martinotti del 2006.

L’intento, quindi, non è quello di studiare “i fatti reali”, bensì la loro memoria. Differentemente da quello dello scrittore, come già precedentemente accennato, il lavoro dello storico in questo caso consiste proprio nell’interrogarsi sulle “regole” e le “strategie” d’azione del binomio memoria-oblio. Il presente lavoro ha cercato di farlo in relazione agli anni del terrorismo e dello stragismo, osservati attraverso la loro rappresentazione manualistica. L’importanza del manuale scolastico di storia è data principalmente del fatto che esso rappresenta, per la maggior parte delle persone, l’unico libro di storia che si legga nella vita. Questo è uno dei motivi che portano a dargli particolare attenzione: esso getta le basi di quell’approccio che si avrà in futuro nei confronti del passato. Esso trasmette infatti non soltanto informazioni, bensì anche una cultura del ricordo. Come abbiamo già visto, inoltre, il manuale scolastico si pone

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a cavallo tra storiografia scientifica e divulgazione storica. Con la prima esso condivide, o almeno dovrebbe, i criteri che contrassegnano il lavoro dello storico di professione, che infatti è spesso autore del manuale; della seconda ha il carattere della diffusione. Data la sua natura intermedia, l’analisi di esso si colloca sia all’interno degli studi sul discorso sia nel quadro delle riflessioni sull’uso pubblico della storia.

L’ampio concetto di uso pubblico della storia, definito in precedenza in termini molto generici, ha invece caratteristiche precise per quanto riguarda i manuali. La loro impostazione infatti, come abbiamo visto, risente del background culturale dell’autore e della sua interpretazione dei fatti. E del resto è anche logico che “la dimensione cognitiva si affianchi e si mescoli con quella affettiva, intrisa di valori , predilezioni, scelte non o pre-scientifiche”, come scriveva lo storico Nicola Gallerano, proponendo una definizione più estensiva e, nel contempo, meno pregiudizialmente negativa del concetto di uso pubblico della storia rispetto a quella fornita da Habermas264.

264

L’espressione “uso pubblico della storia” per Habermas è azione di chi

parla di storia in prima persona fuori dalle sedi deputate, con obiettivi

politico-pedagogici espliciti (il consenso) o con finalità ludiche (storia come

bene di consumo) . Gallerano estende il concetto di uso pubblico a tutto

ciò che viene elaborato e trasmesso fuori dai luoghi deputati alla ricerca

scientifica in senso stretto: media, arti e letteratura, scuola, musei,

monumenti, spazi urbani, istituzioni pubbliche e private, storici che

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In questo paragrafo conclusivo tratterò nello specifico come, nell’affrontare il tema del terrorismo e delle stragi nei manuali, gli autori abbiano fatto proprie le interpretazioni storiografiche esposte nel secondo capitolo. In prima battuta tuttavia occorre evidenziare la differenza di spazio dedicato ai due terrorismi: il terrorismo di sinistra infatti, con particolare riferimento al gruppo eversivo più citato ovvero quello delle Brigate Rosse, ha tendenzialmente più peso quantitativo, sia nella trattazione testuale che soprattutto nei documenti o schede di approfondimento, pur non essendo sempre considerato come il più pericoloso. Se andiamo ad analizzare i documenti, infatti, sui sei testi in cui essi sono presenti, in tre casi sono dedicati al terrorismo rosso e in particolare alle BR (Colarizi-Martinotti, Brancati e Galasso), in un caso (Camera-Fabietti) al terrorismo rosso, al rapimento e alle lettere dal carcere di Moro, in un caso (Capra-Chittolini-Della Peruta) soltanto al rapimento di Moro. In un solo caso, il testo di Bravo-Foa-Lucetta-Scaraffia, troviamo oltre ad un approfondimento dedicato a Moro, un altro dal titolo Misteri Italiani, che illustra grossomodo le due linee interpretative che nel tempo si sono sviluppate per dare

comunicano attraverso i media, lavori scientifici di vasto impatto. N.

Gallerano (a cura di), L'uso pubblico della storia, Franco Angeli, Milano,

1995G; E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I

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una spiegazione agli episodi stragisti in un contesto che denota la mancanza assoluta di certezze.

A distanza di più di vent’anni, infatti, molti aspetti delle stragi sono tutt’altro che chiari nonostante una successione in alcuni casi di sei, sette, otto processi, che non è bastata a fornire versioni convincenti. Le ragioni sono dovute ad un insieme di circostanze, “dall’oggettiva difficoltà delle indagini ai depistaggi e inquinamenti di prove, dalle intromissioni dei servizi segreti italiani e stranieri al groviglio di rapporti fra strutture segrete o semisegrete e fra criminalità e politica, dai continui aggiustamenti di versione da parte dei ‘pentiti’ alle rivalità fra procure, dagli insabbiamenti al caos delle indagini alla tendenza di alcuni inquirenti a far “quadrare” a ogni costo le loro conclusioni”265. Partendo da simili premesse, alcuni commentatori tra cui Ventura hanno sposato in pieno l’ipotesi della “strategia della tensione”, che riconduce le bombe e le manovre oscure degli anni Settanta ad un unico disegno di destra il quale, seminando tensione e destabilizzando la democrazia, puntava a sbarrare l’ingresso del PCI nell’area di governo. Possiamo accomunare queste tesi a quelle del già citato “doppio Stato”. Inoltre secondo Tranfaglia “gruppi istituzionali e politici al potere ebbero un

265

I fili della memoria, Anna Bravo-Anna Foa-Lucetta Scaraffia, Laterza

2000

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ruolo centrale nella strategia della tensione e nello sviluppo dei terrorismi, non soltanto di quello nero”.

Per altri studiosi, invece, non si può parlare di una strategia unitaria: gli anni più segnati dalle stragi infatti, quelli tra il 1972 e il 1976 sono caratterizzati dall’aumento elettorale del PCI con il suo conseguente ingresso nell’area di governo, mentre la strage di Bologna, nel 1980, avviene quando l’avanzata elettorale e governativa comunista è oramai ferma. Scrive a proposito di questo lo storico Giovanni Sabbatucci “su chi fossero i burattinai italiani, le menti politiche nostrane dell’intera strategia del terrore, nessuno ha mai formulato non dirò accuse circostanziate, ma neppure ipotesi credibili” . Quel che è certo fu invece un’effettiva attività degli Stati Uniti e della NATO per far sì che l’Italia rimanesse nella sfera d’influenza occidentale e per contrastare le forze che si opponevano a questo. All’interno di questo quadro, e anche al di là di esso, è probabile che si siano intrecciate, scrive ancora Sabbatucci “provocazioni e violenze dimostrative, trame vere e autentiche bufale confezionate per fini di lucro, deliri rivoluzionari di opposto segno e delitti fine a se stessi, ricatti e giochi sporchi sfuggiti di mano ai loro stessi artefici”.

Alla luce di queste due ipotesi, quindi, possiamo notare come la trattazione delle stragi all’interno dei manuali analizzati risenta di questa incertezza della storiografia. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’attribuzione degli attentati e la definizione dei mandanti sono in ogni caso espressi in maniera

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dubitativa e facendo sempre riferimento ad intrecci poco chiari con i servizi segreti e internazionali. Anche la già citata lunghezza dei procedimenti giudiziari relativi a questi episodi, e di conseguenza l’emersione di frammenti di verità in tempi molto dilatati, condiziona la stesura dei manuali stessi. La formula “strategia della tensione”, che per tutti gli autori qui analizzati si inaugura con piazza Fontana, è utilizzata pienamente da Brancati, che inoltre accomuna gli obiettivi intermedi del terrorismo nero a quelli del terrorismo rosso. Viene poi utilizzata con qualche incertezza anche da Capra-Chittolini-Della Peruta, mentre Galasso esprime dubbi riguardo gli esecutori e i moventi e sottolinea come l’attentato di piazza Fontana fu inizialmente attribuito a Valpreda e successivamente ai neofascisti Freda e Ventura; anche nel Gaeta-Villani-Petraccone si parla di “ ipotesi più accreditata”. De Rosa invece è l’unico tra gli autori dei manuali analizzati ad evidenziare come la formula della strategia della tensione venne sostenuta soprattutto dalla stampa di sinistra. Pur essendo difficile parlare di uso politico della storia in questa circostanza, tuttavia non è possibile non accennare al fatto che De Rosa era uno storico molto vicino alle posizioni della Democrazia cristiana e dunque non era facile per lui accettare l’ipotesi, peraltro non pienamente dimostrata, di un coinvolgimento di settori deviati dello Stato.

In tutti gli altri manuali, pur non facendo riferimento alla formula della strategia della tensione, si sottolinea come la matrice politica delle stragi è quasi certamente rintracciabile

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nell’estrema destra che, connivente con i servizi segreti interni e internazionali, voleva gettare il Paese nel caos per giungere ad una dittatura militare. In particolare nel Colarizi-Martinotti si evidenzia come su questi episodi particolari il confronto tra gli storici è ancora aperto dato che, pur essendo quasi sicuramente certi della manovalanza neofascista, il disegno eversivo del “grande vecchio” non è a tuttoggi emerso. Infine è da rilevare che, per quanto riguarda piazza Fontana, le indagini depistate e la prima falsa pista anarchica, con la conseguente morte di Pinelli e Calabresi, trovano poco spazio in tutti i manuali tranne poche eccezioni come il Bravo-Foa-Scaraffia, il Galasso e De Rosa, che cita però solo la morte di Calabresi.

Per quanto riguarda il terrorismo di sinistra, invece, spesso i vari autori di manuali si sono rifatti a più di una interpretazione per spiegare il fenomeno, facendo riferimento soprattutto a quelle diffuse nel primo dibattito scientifico italiano su questo tema avvenuto tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta. Per quanto riguarda il Camera-Fabietti, infatti, ad un’interpretazione del terrorismo come filiazione del “pensiero estremista” sostenuta da Bravo, in particolare sottolineando come esso avesse origini borghesi e non marxiste, si aggiunge quella psicologica del terrorismo come fenomeno legato al “mondo giovanile”. L’interpretazione di Gian Mario Bravo ritorna anche nel Capra-Chittolini-Della Peruta, soprattutto nel considerare la contiguità tra i terroristi e la sinistra extraparlamentare, e nel manuale di Brancati che coerentemente sottolinea più volte il ruolo del PCI e in

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particolare di Berlinguer nella lotta al terrorismo, l’uguaglianza degli obiettivi intermedi dei due terrorismi e la natura spesso simpatizzante o fiancheggiatrice di Autonomia operaia nei confronti del terrorismo.

Per quanto riguarda invece l’interpretazione che si rifà al concetto di “Partito armato”, sostenuta da Severino Galante e Angelo Ventura, oltre che in Brancati essa è presente nel Cartiglia e nel De Bernardi-Guarracino, che fanno anche riferimento alle spiegazioni sociologiche che consideravano il terrorismo come manifestazione di ceti marginali. Nel Cartiglia è presente poi l’interpretazione di Del Noce, che vede il terrorismo come il risultato della delusione per un Partito Comunista che, spostatosi su posizioni legalitarie, aveva “tradito” la rivoluzione. Ritroviamo quest’ultima interpretazione anche nel manuale di Brancati. Per quanto riguarda l’interpretazione più diffusa nella storiografia di sinistra, espressa soprattutto da Tranfaglia, che tra le altre indica come possibile causa dell’esplosione del terrorismo rosso il timore di una drastica svolta a destra e di una involuzione autoritaria, essa è presente nel Colarizi-Martinotti e nel Bravo-Foa-Scaraffia. Infine nel manuale di De Rosa ritroviamo l’interpretazione psicologica del terrorismo come fenomeno legato al “mondo giovanile”, in particolare nella rilevanza che Petter da all’atteggiamento di “incertezza” di “eccessiva tolleranza” o anche di disimpegno da parte di docenti, autorità pubbliche e della stessa cittadinanza che avrebbero dovuto a vario titolo intervenire per prevenire o

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contenere l’eversione. Per quanto riguarda infine le immagini, presenti in sette testi sui tredici analizzati, sette di queste, incluse due vignette, vedono come protagonista Moro, la sua prigionia e il rapimento avvenuto a Via Fani; tre piazza Fontana; due la strage alla Stazione di Bologna; una la strage di piazza della Loggia e in un caso è presente la foto del giudice Sossi diffusa dalle BR durante il suo rapimento.

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