Upload
doannga
View
222
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE, SOCIOLOGIA, COMUNICAZ IONE
CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE E TECNOLOGIE D ELLA
COMUNICAZIONE
Il terrorismo nei manuali di storia
DI MAURO DE ROBERTIS LOMBARDI
CATTEDRA DI STORIA CONTEMPORANEA E DELLA
COMUNICAZIONE
RELATORE: GLORIA GABRIELLI
CORRELATORE: MARIA ROMANA ALLEGRI
A.A. 2012-2013
Indice Introduzione pag. 1
CAPITOLO PRIMO Didattica della storia 1.1 La storia come disciplina pag. 3 1.2 Fonti e testo storico pag. 9 1.3 Storia generale e storia globale pag. 14 1.4 Storia e memoria pag. 23 CAPITOLO SECONDO Interpretazioni del terrorismo 2.1 Il primo dibattito scientifico italiano (1977-1984) pag. 45 2.2 Storiografia, pubblicistica, uso pubblico della storia pag. 140 2.3 Divulgazione pag. 169
CAPITOLO TERZO Analisi della manualistica didattica 3.1 Carlo Cartiglia, Storia e lavoro storico, Loescher, 1985
pag. 183
3.2 Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, I tempi della storia, B. Mondadori, 1986 pag. 188 3.3 Antonio Brancati, Popoli e civiltà, La nuova Italia, 1990 pag. 193 3.4 Gabriele De Rosa, L’età Contemporanea, Minerva Italica, 1990 pag. 210 3.5 Carlo Capra, Giorgio Chiottolini, Franco Della Peruta, Corso di storia, Le Monnier, 1992 pag. 225 3.6 Giuseppe Galasso, Storia, Bompiani, 1995
pag. 239
3.7 Franco Gaeta, Pasquale Villani, Claudia Petraccone, Corso di storia, Principato, 1996
pag. 259
3.8 Carlo Cartiglia, Nella storia, Loescher, 1997 pag. 265 3.9 Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia, Zanichelli, 1999
pag. 273
3.10 Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, I fili della memoria, Laterza, 2000 pag. 285 3.11 Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Storia dal 900 ad oggi, Editori Laterza, 2005 pag. 304 3.12 Simona Colarizi, Guido Martinotti, La memoria e il tempo, Einaudi scuola, 2006 pag. 315 Conclusioni pag. 329 Bibliografia pag. 339
1
Introduzione
In questa tesi verrà analizzato il modo in cui i manuali di storia, di diversi autori ed editori, in uso nelle scuole secondarie di secondo grado, hanno preso in esame gli anni del terrorismo e dello stragismo in Italia, per rendere evidenti le differenze in questa rappresentazione, sia a livello testuale sia iconografico, nel periodo che va dagli anni '80 ai giorni nostri.
Dopo aver illustrato gli aspetti fondamentali della disciplina storica nel primo capitolo, in particolare per quanto riguarda le fonti e il testo storico, mi sono occupato del concetto di memoria così come è stato utilizzato nel tempo e nelle sue diverse accezioni all’interno delle scienze sociali da alcuni studiosi. Mi sono quindi soffermato sul rapporto tra storia e memoria, che è alla base dell’indagine sul racconto manualistico.
Il secondo capitolo è stato invece dedicato alle interpretazioni del terrorismo, a cominciare dal primo dibattito scientifico italiano (1977-1984), comprendente due filoni: il principale, quello costituito dalle analisi degli scienziati sociali che miravano principalmente ad individuare le ragioni dell’esplosione del terrorismo in Italia, e il secondo invece,
2
minoritario, rappresentato dalle analisi storiografiche, che avevano come obiettivo l’elaborazione di una più complessa indagine attorno al “problema storico del terrorismo” italiano.
Ampio spazio è stato anche riservato all’imponente pubblicistica che si è occupata dei cosiddetti “anni di piombo”, comprendente anche opere strumentalizzate e banalizzate dal linguaggio giornalistico e politico e da opinionisti e polemisti, secondo lo schema dell’uso pubblico e dell’uso o forse abuso politico di questa storia. Si tratta di un punto fondamentale da tenere presente quando si cerca di analizzare un periodo storico come quello preso in esame, caratterizzato da vicende che non si sono mai veramente risolte e restano di fatto ancora aperte dal punto di vista giudiziario. Se un certo “uso” pubblico può essere legittimo, secondo l’interpretazione di alcuni storici, certamente è piuttosto discutibile un uso politico della storia che si ponga al di fuori di un qualsivoglia fondamento scientifico. Tutta la storia, in particolare quella contemporanea, è sottoposta a questo rischio e a questo utilizzo, ma nel caso dello stragismo e della storia di quegli anni, come si può immaginare, si tratta di un rischio altissimo.
Infine nel terzo capitolo ho analizzato il racconto degli anni di piombo in tredici manuali di storia contemporanea, tra i più diffusi in Italia, tenendo presente le tre chiavi di lettura precedentemente analizzate: il rapporto con la memoria, quello con la storiografia e il suo uso pubblico.
3
CAPITOLO PRIMO
Didattica della storia
1.1 La storia come disciplina
La disciplina storica è il risultato di un continuo lavoro di
ricerca, il cui esito è veder nascere sempre nuove ipotesi e
nuove reinterpretazioni del passato: quello che credevamo
scontato e che apparteneva al nostro sapere può essere messo in
discussione e mutare in seguito alla scoperta di nuovi
documenti, di oggetti o di materiali iconografici, per il
semplice assunto che la storia si serve delle “fonti” e che esse
possono tornare alla luce da un momento all'altro. D'altra parte,
le stesse fonti già conosciute possono aver bisogno di essere
rilette e reinterpretate quando il collegamento con altre
discipline e la crescita di nuove sensibilità lo ritiene necessario.
A questo riguardo esemplificativa è la frase del più importante
filosofo del Novecento e storico di rilievo, Benedetto Croce
(1866-1952), il quale sosteneva che “ogni vera storia è storia
4
contemporanea”1, per sottolineare che tra passato e presente vi
è un legame indissolubile: lo storico infatti include gli stimoli
del quotidiano nel suo lavoro. Da tutte queste considerazioni ne
discende che la storia è, come tutte le altre scienze moderne,
una disciplina in continuo movimento. Secondo Marc Bloch2,
tra i doveri dello storico c'è quello di lavorare con onestà
intellettuale, per effettuare una ricostruzione che si basi su
prove sicure, senza pregiudizi di nessun tipo. Egli inoltre
sostiene la necessità che ogni libro di storia dia conto del
percorso di ricerca seguito, che inizi dalle domande e dalle
ipotesi formulate e illustri il tipo di lavoro svolto sulle fonti. Al
contrario delle scienze naturali e matematiche, la storia non
appoggia i propri risultati sulla verifica sperimentale: diverse
visioni del passato infatti si contendono il primato della verità
storica senza che una di esse possa rivendicarla
definitivamente.
1 “Teoria e storia della storiografia”, Adelphi, Milano, 2001 (ed. orig. 1913)
2 M. Bloch, “Apologia della storia o Mestiere di storico”, Einaudi, Torino,
1998 (ed. orig. 1949)
5
Lo storico e l'insegnante di storia devono non tanto cercare di
perseguire una teorica oggettività della storia ma, come
sostenuto da Marc Bloch, essi devono operare secondo una
“onesta sottomissione alla verità” 3, che consiste nel seguire un
metodo documentale rigoroso, nel presentare risultati basati
sulle fonti, esposti in modo verificabile, facendo presente gli
elementi sui quali si basano le proprie tesi e rifiutando
pregiudizi che risultino in contraddizione con i documenti. Una
volta seguiti questi criteri, è legittimo che lo storico includa nel
suo lavoro le sue idee e la sua passione intellettuale e civile, a
patto che ne faccia un uso molto riconoscibile. In poche parole
egli deve distinguere l'interpretazione dei fatti dalla loro
narrazione. A questo proposito sono particolarmente adatte le
parole del grande medievista Jacques Le Goff rivolte agli
insegnanti: “Io non credo all'obiettività, la credo impossibile. Io
credo all'onestà. L'onestà è tutto ciò che si dice francamente. E
credo che l'insegnante, senza abusarne e senza ripeterlo in
continuazione, dica ai suoi allievi almeno due o tre volte
all'anno: ‘Io la penso così’, aggiungendo subito: ‘Altri pensano
3 Ibid.
6
che...’”4. Per la storia contemporanea questo diventa molto
difficile, talmente si può essere coinvolti come cittadini.
Per la storia gli eventi e i fenomeni sono irripetibili: una
dimensione lineare e sequenziale, quella di un “prima” e di un
“dopo”, risale alle origini della disciplina, che infatti fin
dall'inizio vuole spiegare i fatti alla luce della azione umana,
che si esprime in un tempo rettilineo. Esiste in ogni momento
della storia un forte legame dei fenomeni con ciò che è venuto
prima di essi. La “categoria della durata”5, definizione di Marc
Bloch, può essere compresa facendo riferimento ad una forza
d'inerzia che tiene legata una data società alle proprie
caratteristiche che la identificano.
Si può comprendere il concetto di continuità facendo
riferimento a particolari espressioni di una data realtà storica:
un tipo di clima o un tipo di rappresentazione mentale. Si tratta
di considerare tutto ciò che costituisce il profondo e che
4 Jacques Le Goff, “Dalla ricerca all'insegnamento: il caso del Medioevo”,
Firenze, La Nuova Italia, 1991
5 M. Bloch, “Apologia della storia o Mestiere di storico”, op. cit.
7
consente a una società di continuare a riconoscere se stessa
come tale. Sul concetto di continuità si inserisce la trama del
cambiamento, che non è sempre veloce: ogni società umana è
infatti attraversata da un permanente stato di instabilità,
esemplificato dal fatto che coloro i quali la compongono si
susseguono in conseguenza del ciclo biologico della vita e
della morte.
Compito dello storico è quello di individuare nel tessuto del
divenire i punti essenziali: i mutamenti e gli aspetti di
continuità e di discontinuità con le precedenti fasi. Come
scriveva Bloch: “Ebbene, questo tempo reale è, per natura, un
continuum. Ma è anche continuo cambiamento. Dall'antitesi tra
questi due attributi sorgono i grandi problemi della ricerca
storica” 6.
La durata del tempo storico consta quindi di continuità e
cambiamento. Uno dei compiti preliminari e irrinunciabili dello
storico riguarda l'inserire, tramite la data, i fatti oggetto di
indagine sulla scala temporale: non può infatti esserci opera
6 Ibid.
8
storiografica senza questa indicazione. L'insieme ben definito
di una serie di date riferite a uno specifico oggetto di studio
costituisce una cronologia. La costruzione di questa è già
dunque il frutto di una scelta di primo livello, in quanto
necessita di una selezione preliminare degli eventi considerati
essenziali. Dal punto di vista didattico, le date e le cronologie
rappresentano un problema all'interno della disciplina storica:
proprio a causa di queste lo studio della storia viene troppo
facilmente tacciato di nozionismo. Lo studio della storia è
infatti per molti studenti ridotto a memorizzare un numero di
date a cui sono legati determinati eventi.
Ad un livello più elevato, e quindi di importanza
fondamentale, troviamo la periodizzazione. Essa è
esemplificativa del lavoro dello storico, che è essenzialmente
interpretativo: consiste nell'inquadrare il fenomeno di studio
sulla retta temporale, indicandone i due limiti estremi,
permettendo quindi una visione di sintesi dello stesso. Tra i
vari tipi di periodizzazioni troviamo quelle convenzionali,
accettate quasi da tutti (storia antica, medievale e moderna) ma
tuttavia spesso oggetto di ulteriori sistemazioni; quelle entrate
nell'uso corrente; quelle fatte proprie e quindi ricorrenti nel
9
senso comune (il ventennio fascista) e, infine, altre che sono
ancora oggi fonte di dibattito. Nessuna di esse tuttavia è esente
da rischi e ambiguità, dato il carattere plastico e soggetto a
continui aggiustamenti della disciplina storica. Possiamo
concludere sottolineando l'importanza del concetto di
periodizzazione soprattutto dal punto di vista didattico, in
quanto integra le indicazioni date dalla cronologia con il
carattere problematico della storia.
1. 2 Fonti e testo storico
Il passato lascia sul nostro percorso una serie di tracce, ed esse
spesso a nostra insaputa ci accompagnano nella vita quotidiana,
basti pensare ai resti del passato che vediamo nelle nostre città,
ai documenti di vario tipo, agli oggetti custoditi nei musei ed al
nostro stesso linguaggio e mentalità. Questi relitti del passato
però diventano una fonte storica solamente nel momento in cui
vengono utilizzati dagli storici. C'è bisogno quindi di farli
“parlare”, di renderli utili alla conoscenza storica,
organizzando una serie di domande e ipotesi da cui partire per
ottenere da essi delle precise informazioni, da inserire poi in
un'interpretazione che ha la sua espressione nel testo storico.
10
Lo scopo principale è, infatti, oltre a reperire fonti ritenute
adeguate, quello di attivarne le potenzialità per i fini che si
propone la ricerca. In particolar modo, per l'età moderna e
contemporanea, sono tutti concordi nel ritenere che la massa
delle fonti disponibili è di solito sterminata e quindi non
dominabile da un ricercatore solo. Durante la ricerca sulle
fonti, poi, ne emergono sempre di nuove e quindi il ricercatore
finisce per comprenderne più di quelle iniziali nel suo lavoro.
Questo è vero in particolar modo per quelle fonti che lo storico
utilizza all'inizio, le cosiddette “indirette” o “secondarie” o
“derivate”. Esse corrispondono alla storiografia già esistente
sull'argomento di ricerca, ovvero sono l'insieme delle
conoscenze formatesi in passato grazie allo studio e
all'interpretazione che altri studiosi hanno fornito del materiale
inizialmente “grezzo”, accompagnate alla riflessione teorica. Il
primo punto da seguire nella ricerca storica è quindi quello di
raccogliere ed esaminare la bibliografia aggiornata
sull'argomento che si vuole trattare. Le fonti primarie, invece,
sono le testimonianze dirette, di qualsiasi tipo, che dal passato
arrivano a noi. Alcuni esempi sono le fonti scritte originali,
tenute in archivi pubblici e privati, le fonti a stampa (libri,
11
giornali, opuscoli, ecc.), le fonti iconografiche (dipinti e
pitture), le fonti sonore (discorsi di personaggi importati del
passato e registrazioni varie), le fonti visive, gli oggetti, i
manufatti, le costruzioni ecc. Qualsiasi elemento che abbia
caratteristiche interne chiare e di cui si conosca il contesto nel
quale viene utilizzato può essere considerato come una fonte
storica. Le fonti primarie, tuttavia, non sono sempre facilmente
reperibili, basti pensare agli archivi e alle biblioteche private,
delle quali non si può sempre usufruire.
Per quanto riguarda l'analisi critica delle fonti primarie, questa
si snoda in quattro fasi che spesso si svolgono
contemporaneamente7. L'esame critico delle fonti, però,
riguarda anche quelle secondarie o derivate. Tutto il lavoro di
ricostruzione storica ha come sbocco finale la scrittura di un
testo. All'interno di esso possiamo trovare tre livelli
fondamentali, che ci rivelano le intenzioni di chi lo ha scritto. Il
primo livello, che rappresenta anche la struttura fondante del
testo storico, è il livello informativo, che possiamo considerare
7 Decifrazione, esame del contenuto, prova dell'autenticità e definizione
del grado di attendibilità.
12
come livello logico-grammaticale dal punto di vista linguistico,
nel senso che viene tenuto insieme dalle normali componenti di
coesione e coerenza sintattica. Con questo livello lo storico
“intende trasmettere ai lettori una somma di conoscenze
concernenti il passato (i fatti e le interpretazioni)” 8. Il secondo
livello è quello persuasivo o retorico. Vi sono vari processi di
tipo retorico che possono essere adoperati per rendere la
narrazione più convincente: la scelta delle informazioni e il
loro ordine nel testo, la scelta dei termini da usare e la
posizione del narratore. Tutti questi elementi, a parità di
informazione, tendono a far diventare il discorso più o meno
significativo e convincente. Infine, troviamo il terzo livello del
testo, quello teorico o ideologico, che sta alla base di tutta la
ricostruzione: esso si esprime attraverso il linguaggio, che è
adeguato al tempo e al luogo dello storico tramite le
convenzioni dell'epoca. L'attività del ricercatore è inoltre
organizzata da alcuni concetti specifici, che operano
continuamente a livello quasi inconscio del suo discorso:
pensiamo ai concetti di continuità e cambiamento esplicitati 8 J. Topolski, “Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica”,
Bruno Mondadori, Milano, 1997
13
sopra, che scandiscono la durata del tempo storico, al principio
di coerenza, che consiste nel completare e creare collegamenti
all'interno del discorso e alla dinamica tra conservazione e
rivoluzione. Esiste poi una dimensione teorica vera e propria,
interna o proveniente da altre discipline limitrofe ma diverse
(teorie antropologiche, economiche e sociologiche). Queste
vengono percepite come preesistenti al discorso storiografico e
rappresentano uno dei punti di forza della storia che, pur
avvalendosi di strumenti concettuali diversi, li adatta quasi
costringendoli a confrontarsi con la concretezza della storia
dell'uomo nel tempo, che non è sottomessa a nessuna teoria
preconfezionata. Basti pensare alla resistenza opposta dagli
storici all'adozione di moduli teorici definiti (materialismo
storico, idealismo, economia politica classica, psicoanalisi),
che deriva appunto dall'idea secondo la quale i fatti stessi,
studiati in tutte le loro sfaccettature, si spieghino da soli. La
dissoluzione di un impero, ad esempio, non è imputabile a
nessuna teoria dello stato o economica, ma piuttosto al prodotto
di una serie spiegabile di circostanze e situazioni immerse nella
quotidianità.
14
1.3 Storia generale e storia globale
Il concetto di “storia generale” è di difficile definizione: essa
può essere concepita come un’immagine del mutamento che ha
riguardato l'umanità dalla preistoria ai giorni nostri. Una
rappresentazione, quindi, organizzata in un sistema e composta
dalle diverse conoscenze a cui si è arrivati tramite lo studio dei
differenti settori dell'esperienza umana del passato. In astratto
quindi essa coincide con l'intero sapere storico. Nella realtà,
tuttavia, possiamo riassumerla nelle grandi opere storiografiche
complessive (come la storia del mondo Cambridge), oppure
sintetizzarla nei programmi di insegnamento. L'espressione
“storia generale” è impiegata quasi esclusivamente, infatti, per
indicare l'ambizione dell'insegnamento della storia nel
trasmettere una forma complessiva, ma sintetica, della
conoscenza storica raggiunta in una data epoca. Essa è quindi
soprattutto un genere storiografico, che comprende in primis i
manuali scolastici e universitari, che sono evidentemente delle
summae del sapere storico e rientrano in assoluto tra i libri più
venduti. Questo fa sì che ci si trovi di fronte al paradosso per
cui una tra le più diffuse pubblicazioni di genere storico ne
15
riguardi un altro che non è oggetto di ricerca scientifica.
Attorno al concetto di storia generale si è focalizzata negli
ultimi decenni una discussione sul modo in cui si insegna la
storia: mentre per alcuni “una comune solida ‘fascia’ di sapere
storico diacronico e critico dovrebbe costituire il comune
denominatore dei vari ordini di scuole”9, per altri invece “la
storia generale tradizionale produce negli studenti un senso di
noia, un senso comune e stereotipi che restano saldi anche
quando si diventa esperti di qualche campo di ricerca, produce
una pessima concettualizzazione di storia, produce un senso di
completezza della conoscenza che non induce a cercare nuove
conoscenze”10. Vediamo quindi di ricostruire brevemente il
dibattito sull'insegnamento della storia tramite il manuale
scolastico, non solo in Italia ma anche in Europa e nei paesi
extraeuropei, che vede confrontarsi storici, insegnanti e
pedagogisti alla luce di un ripensamento in modo critico,
connesso alle problematiche attuali di un nuovo modo di 9 P. Bevilacqua, “Sull'utilità della storia per l'avvenire delle nostre scuole”,
Donzelli, Roma, 1997
10 I. Mattozzi, “Pensare la nuova storia da insegnare”, Società e Storia,
1998 (2002), pp. 787-814
16
intendere la storia. La prima accusa rivolta alla storia generale
è quella di essere una storia dell'umanità eurocentrica e
connotata da un forte spirito nazionalistico.
Quello stesso spirito che, come sottolinea Luigi Cajani, è
retaggio di un modello creato intorno alla metà dell'800 e volto
a costruire l'identità della nazione: “Un vero e proprio
instrumentum regni, che gli stati-nazione usavano per formare,
attraverso la scuola, il buon patriota” 11. Un modello lontano
anni luce dal processo di modernizzazione della storia e dallo
spirito universalistico e cosmopolita creatosi nel Settecento
illuminista, che proponeva invece, come sostenuto dallo storico
tedesco autore di manuali Ludwig August Schlozer, nel 1772
“Una storia mondiale che comprenda tutti gli stati e tutti i
popoli del mondo”12. Una storia “senza patria e senza orgoglio
nazionale”, capace di estendersi “a tutte le terre che ospitano
11
L. Cajani, “L'insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria:
appunti per un dibattito” in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”,
n. 2, 2004, p. 319
12 Ibid. p. 321
17
società umane”, abbracciando “con lo sguardo tutta la scena,
sulla quale in qualsiasi tempo abbiano recitato gli esseri
umani”. Un progetto evidentemente molto diverso fu quello
auspicato un secolo più tardi nella neonata nazione italiana dal
Ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino che,
nell'ambito dell'inchiesta Scialoja13 sull'istruzione secondaria –
sottolinea sempre Cajani – affermava a proposito
dell'insegnamento della storia: “Io dico che è tanto difficile
compiere una buona storia italiana che io sarei contento che
(gli studenti) sapessero un po' della greca e dopo fosse la storia
italiana. La storia dei paesi che furono in contatto col nostro si
dovrà far dopo. In fatto di storia sarei restrittivo e mi
contenterei che ognuno sapesse la storia del proprio paese”14.
Nonostante questa impostazione si sia andata modificando nel
corso del tempo, grazie anche al fatto che tra il 1953 e il 1958
il Consiglio d'Europa organizzò una serie di sei convegni, con
13
Cfr. L. Montevecchi, M. Raichic (a cura di), “L'inchiesta Scialoja sulla
istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875)”, Ministero dei
Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1995.
14 L. Cajani, “Il mondo come orizzonte. Apologia dell'insegnamento della
storia mondiale nella scuola”, in “Innovazione educativa”, n. 4, 2000, p. 11.
18
il fine di eliminare dai manuali di storia i pregiudizi e gli
atteggiamenti polemici nei confronti dei vari stati europei e di
individuare gli elementi di un quadro europeo della storia che
si sostituisse agli approcci nazionali15, l'identità storica
nazionalistica – come ha mostrato Giuliano Procacci16 nella sua
analisi comparata dei libri di testo di molte parti del mondo –
resta ancora obiettivo centrale17. Tuttavia alcuni progressi nel
corso degli anni sono da rilevare: nei manuali di storia degli
stati aderenti all'unione europea il punto di vista si è spostato
15
Cfr. L. Cajani, “L'insegnamento della storia mondiale nella scuola
secondaria: appunti per un dibattito”, op. cit., p. 322-323.
16 Cfr., G. Procacci, “Carte d'identità. Revisionismi, nazionalismi e
fondamentalismi nei manuali di storia”, Carocci, Roma 2005
17 Su questo tema, con particolare attenzione alla manualista storica, si è
svolto a Roma un Convegno nel dicembre 2003 (11-12 dicembre) dal titolo
Insegnare la storia in un mondo globalizzato, organizzato dalla Fondazione
Istituto Gramsci e dalla Presidenza della Provincia di Roma. Cfr. V.
Federico, “Insegnare la storia in un mondo globale”. Una riflessione sui
manuali di storia a livello internazionale in “Società e storia”, n. 103, 2004,
pp. 385-389
19
sempre più dalla dimensione nazionale a quella europea18. Si è
passati così a una coscienza storica europea pacificata. Uno
spostamento di accento quindi importante, ma che rimane
tuttavia tutto interno al contesto europeo, senza andare a
toccare le rappresentazioni delle altre parti del mondo, che
continuano ad essere trascurate. Questa impostazione
eurocentrica è evidente nei manuali di molti paesi europei,
accomunati dal fatto che del resto del mondo si parla solo
quando questo entra in contatto con l'Europa: è il caso del
colonialismo e della decolonizzazione. I manuali quindi,
continua Cajani, pur non proponendo esplicitamente
un’ideologia europea, la creano nei fatti implicitamente,
concentrando l'attenzione sulla storia di tale continente.
Conseguenza di questo è che gli studenti acquisiscono a scuola
un immagine deforme della storia. Il tipo di insegnamento
etnocentrico non è comunque un’esclusiva europea, ma è
diffuso ovunque nel mondo come ad esempio in Giappone, in
America Latina e nel mondo islamico. In questi ultimi anni
18
L. Cajani “Il mondo come orizzonte. Apologia dell'insegnamento della
storia mondiale nella scuola”, in “Innovazione educativa”, n. 4, 2000, p. 9-
13
20
sembrano venire fuori dalla cultura occidentale un insieme di
elementi che vanno verso un superamento di questa limitatezza
dell'insegnamento della storia e verso un ritorno a
quell'orizzonte mondiale che la contraddistingueva nel
Settecento. Si tratta di fattori di tipo didattico, sociale e
scientifico. Sul piano didattico, l'attività di controllo dei
manuali ha portato a una sempre maggiore cognizione delle
manipolazioni dell'insegnamento della storia e sviluppato una
critica negativa. Sul piano sociale, la crescente immigrazione di
extraeuropei ha posto a vari stati europei la questione di un
cambiamento in senso multiculturale della scuola. Vi è inoltre
da tenere presente il diffondersi nell'opinione pubblica
dell'attenzione al processo di globalizzazione, che ha portato a
dare uno sguardo non soltanto al presente, ma anche al passato
su una scala mondiale. Infine la stessa disciplina storica ha
compiuto negli ultimi tre decenni importanti passi avanti nello
studio della storia mondiale come sistema, dando quindi un
aggiuntivo impulso al rinnovamento dei contenuti
dell'insegnamento. Il primo tassello verso l'introduzione della
dimensione mondiale nell'insegnamento della storia è stato
posto negli USA negli anni '90, ed è esemplificativo per capire
21
quali siano gli elementi favorevoli e quali le difficoltà per
l'attuazione di questa riforma. L’abitudine scolastica in quel
paese vede due curricoli separati di storia, uno di storia
statunitense ed uno di storia non statunitense. Fino agli anni '80
il primo era contrassegnato da una particolare attenzione verso
l'élite bianca, mentre il secondo si sostanziava in una storia
della “Western civilization”, praticamente simile al modello
eurocentrico insegnato in Europa. Negli anni '80 questa
impostazione venne animatamente messa in discussione dai
gruppi etnici di origine non europea che vivono negli Usa,
ovvero afroamericani, asiatici, latinos e natives americans, i
quali iniziarono tutti a reclamare che nelle scuole venisse loro
insegnata quella che consideravano essere la propria storia, e
non più quella dei bianchi dominatori. Come reazione al
monoculturalismo fino ad allora imperante si ebbe così un
multiculturalismo conflittuale19. La risposta fu incarnata da una
revisione dei programmi di storia, affidata al National Center
for History in the School, basata sull’inserimento nella storia
19
Gary B. Nash, Charlotte Crabtree, Ross E. Dunn, “History on Trial. Culture
Wars and the Teaching of the Past”, Alfred A. Knopp, New York, 1999, p.
99.
22
statunitense dei gruppi sociali ed etnici fino ad allora non presi
in considerazione e per la storia non statunitense sulla
costruzione di un quadro mondiale.
Questi nuovi programmi, i “National Standards for History”,
vennero presentati all'opinione pubblica e al Senato alla fine
del 1994, venendo duramente criticati da parte dei
repubblicani, che li accusarono di denigrare e diffamare gli
USA e l'Occidente. Ben presto però le acque si calmarono ed
una nuova versione degli Standard, contenente alcune
modifiche che tuttavia non tradivano il loro spirito originario,
venne pubblicata ed entrò in vigore poco dopo20.
Il suddetto episodio evidenzia come i valori particolaristici
rappresentino ancora il principale ostacolo da superare per
giungere ad un insegnamento della storia libero da
condizionamenti politici. Dopo la meritevole opera di revisione
dei manuali, pare fondamentale quindi, secondo Cajani,
compiere un ulteriore passo: scrivere una storia mondiale che
esponga le comuni linee di sviluppo della storia dell'umanità in 20
“National Standards for History, Basic Edition”, National Center for
History in the Schools, Los Angeles, 1996.
23
tutti i luoghi e in tutti i tempi, per superare in questo modo le
innumerevoli storie locali che oggi vengono insegnate nel
mondo. Un quadro di storia mondiale, nel quale le varie storie
locali, la cui conoscenza è necessaria alla formazione del
cittadino, dovranno essere inserite coerentemente, “senza
patria, senza orgoglio nazionale”.
1. 4 Storia e memoria
In questo paragrafo mi occuperò del concetto di memoria così
come è stato utilizzato nel tempo e nelle sue diverse accezioni
all’interno delle scienze sociali da alcuni studiosi, in quanto
essenziale per lo svolgimento di questo lavoro e del suo
rapporto con la storia. In questa tesi infatti verrà preso in esame
il modo in cui i manuali di storia, di diversi autori ed editori, in
uso nei licei hanno affrontato il periodo degli anni di piombo in
Italia, per rendere evidenti le differenze in questa
rappresentazione sia a livello testuale sia iconografico, nel
periodo che va dagli anni '80 ai giorni nostri. L'analisi specifica
dei manuali analizzati sarà effettuata sottoforma di schede ad
24
hoc e sarà utile a comprendere come la didattica sia importante
nel trasmettere la memoria degli anni di piombo alle diverse
generazioni.
Il nome di Pierre Nora è associato alla così denominata “nuova
storia”, la quale pone la memoria al centro del rinnovamento
storiografico. Gli storici appartenenti a questo filone recepirono
in pieno le tesi sociologiche di Halbwachs sulla memoria di cui
parlerò più avanti. La “nuova storia”, quindi, rivaluta il dialogo
con le altre scienze sociali e si pone come una storia attenta alle
realtà concrete (materiali, mentali e culturali) degli individui
immersi nella vita quotidiana. Essa assume quindi la memoria
come proprio oggetto, allo scopo di prendere in considerazione
sia il conflitto fra le differenti interpretazioni del passato sia la
relatività della conoscenza storica e il suo uso politico. L’opera
più famosa di Nora è quella composta da 7 volumi e intitolata
“I Luoghi Di Memoria”, da lui diretta e curata negli anni
Ottanta. Il saggio introduttivo al primo volume è intitolato “Tra
Storia e Memoria. La problematica dei luoghi” ed è dedicato a
La Rèpublique e ai suoi monumenti, alle sue commemorazioni
e alle questioni pedagogiche che la riguardano. I successivi 3
volumi invece si concentrano su La Nation, i suoi paesaggi, i
25
confini del territorio nazionale, l’immagine dello Stato e il
patrimonio della nazione (i musei, i monumenti storici e altre
istituzioni di memoria). Gli ultimi 3 volumi sono infine
dedicati a Les France, e vi vengono trattati i temi dei conflitti e
delle condivisioni in campo politico, religioso e geografico e
delle tradizioni.
Il concetto di Luogo di Memoria è destinato ad avere grande
successo sia nell'ambito della ricerca storica sia per ciò che
riguarda lo sviluppo di pratiche culturali, che consistono
nell'allestimento e nella promozione di luoghi commemorativi.
Proprio negli anni della pubblicazione dell'opera citata questi
cominciano ad avere un importante ruolo pubblico e ad essere
promossi da studiosi, operatori culturali e istituzioni. I luoghi
di memoria possono essere reali e quindi autentici, in
conseguenza del fatto che in quel particolare “sito” si è
prodotto un evento assunto nella memoria come importante
(come ad esempio Auschwitz), oppure immaginari o virtuali,
quando fanno riferimento all’immaginario collettivo.
I luoghi di memoria emergono quando in una società è
avvertito qualche segnale di crisi: come prodotto di un
26
intreccio tra un'esperienza storica vissuta e le pratiche
commemorative e rituali. Fra le ragioni della loro nascita Nora
individua la debolezza delle memorie spontanee (dei gruppi e
delle famiglie). Un fenomeno da inquadrare nella rottura
determinata dal passaggio, in Europa, dalla società tradizionale
a quella moderna e nei fenomeni della “mondializzazione”,
della “democratizzazione”, della “massificazione” e della
“mediatizzazione”, che hanno trasformato le strutture politiche,
economiche e istituzionali delle società occidentali, così come
le pratiche stesse dell’elaborazione del passato. Nora spiega
come nell'intera Europa si sia assistito ad una crisi
dell'orizzonte memoriale nazionale e, partendo da questo,
illustra il suo progetto di fare una storia della memoria. Egli
scrive “La sparizione rapida della nostra memoria nazionale mi
sembrava richiedere un inventario dei luoghi in cui essa si è
selettivamente incarnata e che, attraverso la volontà degli
uomini o il lavoro dei secoli, ne sono rimasti come i simboli
più eclatanti: feste, emblemi, monumenti e commemorazioni
ma anche elogi, dizionari e musei”21.
21
P. Nora, Presentation, 1984, in Id., Les lieux de mèmoire. Vol. 1, La
Rèpublique, Paris, Gallimard, p. VII
27
I luoghi di memoria hanno sempre a che fare con entrambe le
dimensioni attraverso cui si esplicita la conoscenza del passato:
la storia e la memoria. Esse sono viste da Nora come due
dimensioni distanti: egli descrive la memoria come spontanea e
ricca di emozioni e la storia come riflessiva e universale. La
memoria risulta imprevedibile: può rimanere inattiva per
lunghi periodi per poi riemergere ed imporsi improvvisamente.
La storia invece è sempre critica e sospettosa della memoria, e
proprio questa oscillazione continua tra storia e memoria è la
caratteristica fondante della complessità dei luoghi di memoria
e dell’interesse che essi suscitano. In essi si riflette quindi il
campo di tensione e la relazione profonda e multiforme che c’è
tra storia e memoria.
I luoghi di memoria rappresentano dei punti di
“cristallizzazione o abbreviazione narrativa della memoria
collettiva”22. Nora individua tre diverse categorie di luoghi:
22
B. Binder, Luogo della memoria, 2002, in N. Pethes, J. Ruchatz (a cura di),
Dizionario della memoria e del ricordo, Milano, Mondadori, pp. 291-292.
Vedi anche R. Calzoni, Luoghi della memoria, 2007, in E. Agazzi, V.
Fortunati (a cura di), Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari, op. cit.,
pp. 531-545
28
materiali (archivi, monumenti, musei, biblioteche e i luoghi
commemorativi), simbolici (anniversario o pellegrinaggio) e
infine funzionali (autobiografia, testamento o manuale
scolastico). Tramite essi è possibile inscrivere nel discorso
pubblico una storia comune, da trasmettere di generazione in
generazione, capace di intrecciare la memoria, in quanto
portatrice di simboli in grado di suscitare identificazione e
senso di appartenenza, con i processi di costruzione
dell'identità collettiva e nazionale23. È nel contesto della
differenza tra storia e memoria che si materializza l’interesse
della sociologia per il tema della memoria. Questi due concetti
si differenziano, infatti, per il modo di porsi in confronto al
passato: mentre la storia lo fissa e se ne separa in maniera
netta, la memoria non se ne separa, ma lo fa suo
rielaborandolo, sottoponendolo alle esigenze individuali o
collettive del presente e orientandolo al futuro. Considerare la
memoria come un oggetto sociologico vuol dire fare attenzione
al modo in cui gli individui, i gruppi o l’intera società si
23
Sui legami tra memoria e identità cfr. L. Sciolla, Memoria, identità e
discorso pubblico, 2005, in M. Rampazi, A.L. Tota (a cura di), Il linguaggio
del passato, op. cit.
29
riferiscono al passato, a come esso viene modificato,
ricostruito, elaborato, riprodotto o, in alcune circostanze
cancellato e a come la memoria diviene matrice di simboli e di
significati condivisi o almeno riconoscibili dai membri di una
data società o di un dato gruppo. La memoria quindi rientra tra
i temi di indagine della sociologia perché essa da sempre
indaga il problema “delle condizioni e dei modi con cui una
società permane e si riproduce nel corso del tempo come
insieme di pratiche, di simboli e di significati riconoscibili da
parte dei suoi membri”24. Mentre una ricerca storica indurrebbe
a dare nuove interpretazioni, l'approccio della sociologia della
memoria è diverso: “Volendo delineare la specificità
dell'approccio sociologico da un punto di vista disciplinare, si
può sottolineare che gli storici sono interessati più alla
ricostruzione, all'interpretazione del passato, mentre i sociologi
sono interessati prevalentemente alle modalità con cui la gente
ripensa, reinterpreta e elabora il passato. La memoria è sempre
qualcosa, riferita a qualcuno che ricorda nel presente. La fonte
24
P. Jedlowki, M. Rampazi (eds.), “Il senso del passato. Per una sociologia
della memoria”, Milano, Angeli, 1991, 13.
30
dello studio sociologico della memoria sono gli esseri umani
del presente e le pratiche sociali connesse” 25.
Maurice Halbwachs, pioniere degli studi sociologici sulla
memoria, separa il concetto di memoria dal termine storia: il
bisogno di scrivere la storia nasce quando vengono a mancare
tutti i testimoni di un evento o di un periodo passato. Secondo
la concezione di Halbwachs, la storia corrisponde, più o meno,
a quella contenuta all’interno dei libri di scuola. La storia
divide nettamente un fatto da un altro in quanto “divide la serie
dei secoli in periodi così come la materia di una tragedia si
divide in tanti atti” 26. Per quanto riguarda la memoria, invece,
essa nel corso del tempo si modifica, si sfarina in alcuni punti
ricostituendosi in altri. Con le parole di Halbwachs: “il ricordo
è in grandissima parte una ricostruzione del passato operata
con l'aiuto di dati presi dal presente, e preparata d'altronde da
altre ricostruzioni fatte in epoche anteriori, dalle quali
25
Tota (ed.), “La memoria come oggetto sociologico: intervista ad
Alessandro Cavalli”, in: A. Tota (ed. ), “La memoria contesa. Studi sulla
comunicazione sociale del passato”, Milano, Angeli, 2001, 31.
26 M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, Milano, Unicopli, 1987, p. 89
31
l'immagine originale è già uscita abbondantemente alterata”27.
Uno dei punti fondamentali della teoria di Halbwachs concerne
l'adeguamento della memoria al presente, la cosiddetta
“funzione sociale della memoria”. A volte infatti si ha
l’esigenza di ricordare – o meglio “ricostruire” – un passato
condiviso, per riaffermare la propria identità di gruppo. Il
modello generale che ne deriva porta a pensare che le
ricostruzioni modifichino in maniera continuativa l'immagine
di un evento passato, adeguandosi di volta in volta alle
necessità del tempo presente, contribuendo in questo modo a
plasmare la memoria e a creare rappresentazioni del passato
instabili.
Un ulteriore aspetto su cui principalmente si concentra il
pensiero di Halbwachs è l'identità di chi ricorda. A ricordare
non è mai l'individuo preso singolarmente, ma è sempre il
gruppo o la società di cui egli è fa parte. Anche nel caso in cui
un individuo ricordi episodi della propria vita passata, lo fa
facendo riferimento a norme, valori e simboli presenti nella
27
M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, op. cit. p. 80
32
propria società. La memoria, per Halbwachs, non ha la sua
sede “nello spirito, né nel cervello, ma piuttosto nella società o
meglio nella coscienza collettiva dei gruppi umani concreti” 28.
In pratica, quando ricordiamo “non siamo mai soli” 29 ma lo
facciamo sempre tramite la presenza, esterna o interiorizzata,
degli altri individui del gruppo di cui facciamo parte. I ricordi
individuali hanno quindi la necessità di essere compresi nel
“quadro” della società di appartenenza per essere riassemblati e
riconosciuti dagli altri individui.
Secondo questa prospettiva, la memoria individuale non è altro
che “un punto di vista sulla memoria collettiva” destinato a
mutare continuamente “a seconda del posto che occupa al suo
interno”30. Quando Halbwachs parla di “ricostruzione” lo fa
quindi considerando la memoria come un costrutto sociale,
qualcosa che risiede nella collettività e non nell'individuo. Pur
non avendo mai Halbwachs definito il termine memoria
28
P. Jedlowski, “Introduzione”, in: M. Halbwachs, “La memoria collettiva”,
op. cit. p. 26
29 M. Halbwachs, “La memoria collettiva”, op. cit. p. 38
30 Ibid. p. 61.
33
collettiva, i suoi scritti rappresentano la fonte principale da cui
i sociologi che hanno trattato il tema della memoria hanno fatto
partire le loro seguenti e più specifiche riflessioni. La memoria
collettiva è prima di tutto prodotto del continuo interagire tra
gli individui della società. Le relazioni fra gli appartenenti al
gruppo modificano la memoria, favorendo nuove elaborazioni
a seconda di ciò che è necessario nel presente. In secondo
luogo, la “memoria collettiva” si muove in un "quadro" in cui
simboli, credenze e valori, nati dall'interazione fra gli individui
che fanno parte di un gruppo, sono socialmente ritenuti comuni
e tramandati. La memoria collettiva produce aneddoti, storie di
vita, racconti e simboli che diventano una risorsa che fa si ci si
possa riferire al passato in modo tale da essere riconosciuti dai
membri dello stesso gruppo, se non dell'intera società di
appartenenza. La memoria è, in questo senso “una produzione
culturale in senso proprio, che prende forma, si struttura e muta
nel tempo e nello spazio sociali”31. La produzione culturale di
memoria si riferisce alle cosiddette “pratiche sociali di
memoria”, consistenti negli oggetti e nelle forme culturali in 31
C. Leccardi, Presentazione, in: A. Tota (ed.), La memoria contesa. Studi
sulla comunicazione sociale del passato, Milano, Angeli, 2001, p. 11
34
cui la memoria si fissa “esteriorizzandosi” e “oggettivandosi”.
È negli oggetti, nei modi di dire, che la memoria si cristallizza
e arriva alla collettività in forma oggettivata ed esteriorizzata. È
attraverso le pratiche sociali che alla memoria viene dato un
ordine, e qui viene preparata per la sua trasmissione,
“istituzionalizzata”. Lo scopo della “funzione sociale della
memoria” è quello di ripristinare l'identità di gruppo e di creare
una situazione di coesione al suo interno. In questo senso, la
memoria è sovente oggetto di negoziazione, tanto che i passati
"difficili" – come quelli che si riferiscono alle stragi – sono
spesso causa di conflitto fra i gruppi di una stessa società o, a
volte, anche fra gli individui di uno stesso gruppo.
Questo è particolarmente vero nel caso della memoria degli
anni di piombo, periodo che comprende solitamente un arco di
tempo che va dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni
Ottanta, caratterizzato dal terrorismo e dalle stragi, e che
rappresenta una ferita ancora aperta all’interno della comunità
nazionale italiana. Si tratta di un periodo che sconta un'assenza
cronica di memoria condivisa, come spiegato da Cinzia
Venturoli: “Una memoria ed una storia sottoposte all’uso
35
pubblico e all’uso politico, quindi, una memoria a cui sovente
si chiede di mutarsi in oblio in nome di una non così chiara
pacificazione nazionale e per la costruzione di una ‘memoria
condivisa’ che implica la dimenticanza e il silenzio su molti
fatti, come se si ritenesse necessario e legittimo cancellare
eventi e protagonisti” 32.
Al riguardo basti pensare alle polemiche suscitate dalla scelta
della data per il giorno della memoria dedicato “alle vittime del
terrorismo e delle stragi di tale matrice”, che ha tra i suoi
intenti quello di “conservare, rinnovare e costruire una
memoria storica condivisa in difesa delle istituzioni
democratiche” e che è stato istituito con la legge numero 56 del
4 maggio 2007. Il giorno scelto è stato quello del 9 maggio,
anniversario della morte di Aldo Moro, avvenuta nel '78, ma
tale scelta è stata duramente contestata dalla maggior parte
delle associazioni costituite dai familiari delle vittime del
terrorismo e delle stragi, che ritenevano più rappresentativa la
32
C. Venturoli, “Stragi fra memoria e storia. Piazza Fontana, piazza della
Loggia, la stazione di Bologna: dal discorso pubblico all'elaborazione
didattica”, Libreria Bonomo Editrice, 2007
36
data del 12 dicembre, anniversario della strage di piazza
Fontana, avvenuta nel '69.
Su un altro livello si colloca la critica dello storico De Luna
che ritiene sia necessaria “più storia, meno memoria”.
Egli considera la memoria “ufficiale” come un risultato
“straripante ed elefantiaco” dell’unione tra l’attività legislativa
(la giornata del ricordo appunto) e il risalto delle agenzie
mediatiche. Il passato, quindi, è soggetto a continui
“aggiustamenti”, a seconda dei bisogni presenti del gruppo che
si fa testimone e promotore di una particolare memoria
collettiva. La fase da cui le rielaborazioni del passato devono
ipoteticamente partire consiste nel processo di selezione. Non
tutto il passato sarà selezionato come importante per le
necessità di chi ricorda nel presente. Esistono, anzi, passati
“scomodi”, che si scontrano con l'ordine socialmente costituito
entrato a far parte della realtà di senso comune e che, quindi,
non trovano spazio nell'universo simbolico di riferimento. Il
mancato collocamento di alcuni eventi passati nell'universo
simbolico si deve attribuire, in molti casi, al fatto che certe
ricostruzioni del passato ne contraddicono altre già presenti e
37
considerate come legittime nella memoria collettiva. Quando
un episodio del passato si scontra con una rappresentazione
legittima e accettata dalla società, non troverà facilmente
collocazione nell'universo simbolico. In questa ottica, la
memoria non genera solo ricostruzioni di segno positivo, ma
anche oblio. Memoria e oblio sono entrambe azioni sociali
“messe in atto sulla base di meccanismi di selezione che
permettono al tempo stesso di plasmare una determinata
rappresentazione del passato e di farne un essenziale strumento
di appartenenza”33. Quando si ricostruisce un evento del
passato, occorre necessariamente dare il via a una selezione fra
i numerosi fatti e i dettagli minimi che lo sostanziano. È già a
partire da questo momento, dovuto all'impossibilità oggettiva
di ricostruire il passato in maniera totale, che l'oblio attua la sua
azione sulle rappresentazioni del passato. L'oblio è, quindi, il
risultato non di una semplice dimenticanza, ma di un processo
consapevole, che contribuisce a plasmare il passato in
rappresentazioni sociali accettate e riconosciute come
legittime. Le guerre e le stragi rappresentano il “luogo” dove a 33
C. Leccardi, “Presentazione”, in: A. Tota (ed. ), “La memoria contesa.
Studi sulla comunicazione sociale del passato”, Milano, Angeli, 2001, p. 11
38
una vasta produzione di memoria se ne affianca una,
ugualmente rilevante, di oblio.
A questo proposito, è necessario riflettere sull'esistenza di un
gran numero di memorie collettive in conflitto tra loro. Perché
una di queste memorie venga istituzionalizzata e riconosciuta
come quella legittima, è necessario che le altre vengano messe
da parte e consegnate all'oblio. La rappresentazione del passato
è in certi contesti fondamentale per la continuità e la
sopravvivenza di un gruppo. Quando più gruppi entrano in
conflitto tra loro per quanto riguarda la definizione del passato,
essi si confrontano quasi sempre specularmente anche per
l'affermazione della propria identità e per gli interessi del
presente: “Accade sempre più spesso che differenti
rappresentazioni sociali del passato si trovino a competere fra
loro nell'arena dei mercati culturali e politici, al fine di fissare e
legittimare socialmente una data versione di un certo evento.
Tale competizione si fa tanto più accesa quanto più si tratta di
passati controversi, incompiuti, difficili da ricostruire e da
legittimare. Si tratta di forme di negoziazione degli immaginari
sociali [...] che nella contemporaneità passano sempre più
attraverso la ricomposizione di memorie in conflitto, di
39
versioni ufficiali in competizione con altre più o meno
accreditate, di ricostruzioni ufficiose tutte da legittimare.
Queste guerre simboliche mettono sempre in scena anche
processi in cui sono in gioco sia le definizioni dei corsi di
azione e degli eventi che furono, sia le immagini usate per
rappresentarli”34.
Per quanto riguarda il ricordo degli anni di piombo, questa
tragica stagione non è totalmente sprofondata nel passato al
punto di rimanere indelebilmente incisa sulle pagine dei libri di
scuola. Molti dei protagonisti di quel periodo, infatti, sono oggi
personaggi pubblici e molte di quelle vicende non si sono mai
veramente risolte, restando di fatto ancora aperte dal punto di
vista storico e giudiziario, tanto che il loro passaggio alla storia
scritta non si può considerare definitivamente concluso. Inoltre,
gli individui che oggi sono in età adulta possono dirsi a buon
diritto testimoni di quel periodo e sono in grado di raccontarlo,
di ricostruirlo individualmente e collettivamente, rendendo,
34
A. Tota, “Le città della memoria: introduzione”, in: A. Tota (ed. ), “La
memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato”, Milano,
Angeli, 2001, p. 17
40
almeno dal punto di vista della sociologia della memoria, quasi
illegittima la sua fissazione nelle pagine dei libri di scuola. La
“mancata fissazione” di quel periodo appartenente alla recente
storia italiana si desume dalle negoziazioni che frequentemente
avvengono per la sua ridefinizione e rivalutazione.
Sono le cosiddette pratiche sociali di memoria a darci l'esempio
concreto di come gli attentati e le stragi avvenuti durante gli
anni di piombo si siano portati dietro lunghi strascichi. I
conflitti sociali sulla definizione del passato che fanno
riferimento agli anni di piombo si proiettano spesso sugli
“oggetti della memoria”. Un esempio, riportato da Tota in uno
studio dedicato alle commemorazioni della strage di Bologna35,
è la mozione proposta da un consigliere comunale di Bologna
per eliminare l'aggettivo “fascista” dalla lapide che ricorda le
vittime della strage della stazione, avvenuta il 2 agosto 1980, e
che attribuisce all'eversione nera l'attentato. Nei fatti si trattò
35
A. Tota (ed. ), “La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale
del passato”, Milano Angeli, 2001; A. Tota, “La città ferita. Memoria e
comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980”, Bologna, Il
Mulino, 2003.
41
proprio di una strage di stampo fascista, ma la mozione del
consigliere comunale Nicolò Rocco di Torrepadula
(appartenente alla lista civica di destra “la tua Bologna”)
sarebbe scaturita dall'idea che il cosiddetto “clima di
pacificazione nazionale” dovrebbe essere perseguito anche
eliminando le classificazioni degli attentati passati.
Fortunatamente questo tentativo di privare la storia dei suoi
significati è stato fermato.
Il problema dell’assenza di unità e di accordo fra le
rappresentazioni sociali del passato che riguardano gli eventi
accaduti durante il periodo degli anni di piombo impedisce di
collocare in maniera ufficiale quegli eventi nell'universo
simbolico a cui apparteniamo. Si tratta infatti di un passato
ancora non del tutto “spiegato”, in parte irrisolto e con
moltissime zone d’ombra. Quando si incontrano problemi a
collocare un episodio passato nell'universo simbolico, è il
segno che la sua rappresentazione non è ancora soddisfacente o
perché non completa o perché di essa esistono varie versioni in
conflitto tra loro. Le zone oscure e gli “scheletri nell'armadio”
42
della storia di un paese mettono a rischio la continuità del
gruppo.
Un altro motivo che rende difficile la ricostruzione della
complessa storia di quegli anni e il loro studio è il problema
delle fonti. In Italia infatti ci troviamo di fronte ad una carenza
di fonti relative a temi specifici come appunto il terrorismo e la
violenza politica. Quelle più rappresentate e utilizzate sono
quelle giudiziarie, insieme ai documenti raccolti o prodotti
dalle commissioni parlamentari d'inchiesta, mentre gli archivi
dei ministeri sono di difficile accesso. Esistono tuttavia
numerose e differenti esperienze che hanno dato vita ad archivi
e centri di documentazione vari, in cui è possibile ritrovare
fonti sui temi del terrorismo. Si tratta di realtà che non
appartengono alle sedi istituzionali ufficiali e per questo
indicative di una partecipazione diffusa sul territorio e di una
sensibilità storica e politica, fattori che contribuiscono alla
salvaguardia della memoria storica. Questi archivi però
scontano difficoltà economiche e logistiche ed è auspicabile
una sinergia fra le diverse realtà, da cui partire per trovare un
linguaggio comune che possa far collaborare queste realtà
43
differenti che condividono lo scopo ultimo dello sviluppo della
cultura della partecipazione attiva, della responsabilità civile e
della cittadinanza consapevole. Il convegno “Archivi in rete
per non dimenticare: terrorismo, stragi, violenza politica,
movimenti e criminalità organizzata”, tenutosi a Roma il 19
dicembre 2006 presso la sede della Casa della memoria e della
storia, ha avuto come tema proprio la creazione di una rete per
valorizzare e diffondere i documenti e le fonti ed è stato
l'occasione adatta per fare il punto sulle ricche esperienze
presenti sul territorio nazionale, caratterizzate tuttavia da una
scarsa attenzione da parte delle istituzioni centrali e locali. I
partecipanti hanno descritto diverse esperienze e realtà:
dall’archivio di Radio Popolare, estremamente prezioso per
ricostruire quei particolari anni, al CEDOST (Centro di
documentazione storico politica su stragismo, terrorismo e
violenza politica), che si occupa tra l’altro di conservare
materiale relativo alle stragi e al terrorismo e di fornire alle
scuole la possibilità di percorsi particolari al suo interno, fino
alle associazioni dei familiari delle vittime di stragi e
terrorismo, che sono spesso preziosissimi depositi di
documentazione e di testimonianze.
44
45
CAPITOLO SECONDO
Interpretazioni del terrorismo
2.1 Il primo dibattito scientifico italiano (1977-
1984)36
I primi tentativi di dare una spiegazione al terrorismo in Italia
furono contemporanei alle sue manifestazioni: si trattava di
studi che cercavano di superare le riflessioni dei partiti, dei loro
periodici ed intellettuali, e allo stesso modo le ricostruzioni dei
giornali o i contributi provenienti dalla sinistra
extraparlamentare, che avevano fino a quel momento
monopolizzato l’accesa discussione nel paese37, soffermandosi
36
Questo saggio costituisce un capitolo di un volume dedicato alle
interpretazioni del terrorismo italiano in corso di pubblicazione 37
Anche questa discussione è ancora tutta da ricostruire. Per alcune prime
valutazioni (critiche) delle interpretazioni più ideologiche e politiche (e
spesso partitiche) si veda: P. Feltrin, E. Santi, “Il terrorismo di sinistra: le
interpretazioni”, Progetto, 1, 1981, pp. 48-54; L. Ciampi, “Violenza sociale e
violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Analisi e interpretazioni
sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, Franco Angeli, Milano,
46
però sul problema delle origini ideologiche del terrorismo e
sull’individuazione delle responsabilità della sua esplosione e
diffusione.
Le prime analisi di questo ampio, vivace e importante dibattito
scientifico furono effettuate nel biennio 1977-1978 e si
protrassero fino al 1984, anno a partire dal quale si assistette in
Italia da un lato alla fine di una vera discussione per quanto
riguarda il terrorismo, e dall’altro al prendere forma, grazie al
lavoro di alcuni studiosi e dell’Istituto Cattaneo, di un “nuovo
corso” degli studi. Possiamo individuare due filoni in questa
prima discussione scientifica: il principale è quello costituito
dalle analisi degli scienziati sociali, che miravano
principalmente a rispondere al “perché” fosse esploso il
terrorismo in Italia, il secondo invece, minoritario, è
rappresentato dalle analisi storiografiche, che avevano come
obiettivo l’elaborazione di una più complessa indagine attorno
al “problema storico del terrorismo” italiano.
1983, pp. 58-59 e 61-63; G. Pasquino, D. della Porta, “Interpretations of
Italian Left-Wing Terrorism’’, in P. H. Merkl (ed.), Political Violence and
Terror. Motifs and Motivations, University of California Press, Berkeley –
Los Angeles –London, 1986, p. 174 ss.
47
Le riflessioni degli scienziati sociali furono elaborate nel pieno
dell’ondata terroristica e si concentravano sull’analisi delle
condizioni del terrorismo e della violenza politica (ritenute
spesso oggettive), e allo stesso tempo sui fattori scatenanti e i
“meccanismi genetici”38. Le elaborazioni si sostanziavano in
grandi quadri teorici, delle interpretazioni complessive che
spiegavano il terrorismo e la violenza politica tramite un’unica
chiave di lettura che si potrebbe definire “monogenetica”,
analizzandoli e considerandoli talvolta come un fenomeno
unitario e senza distinzioni sia tra terrorismo “rosso” e “nero”,
sia tra violenza del “partito armato” e violenza del “movimento
armato”.
La gran parte di questi studi era poi esplicitamente critica nei
confronti delle analisi di tipo “dietrologico” e “complottistico”,
che già da allora iniziavano a dominare la pubblicistica. In tutti
questi lavori, infine, era netto il rifiuto di letture che tendessero
a interpretare il terrorismo solamente in chiave di aberrazione,
follia o psicopatologia individuale. In questo dibattito è
38
P. Feltrin, E. Santi, “Il terrorismo di sinistra’’, op. cit. p. 49
48
possibile individuare due grandi gruppi di ipotesi39. Il primo si
concentrò sulla “descrizione del soggetto terrorista”,
analizzando gli atteggiamenti psicologici, le variabili, i
processi e le condizioni culturali e sociali che si riteneva
avessero potuto contribuire a generare il fenomeno.
D’altra parte scarso successo ebbero in questo periodo
interpretazioni in “chiave ideologica”. Ci furono analisi di
questo tipo che cercavano appunto di rintracciare anche in
alcuni elementi ideologici le ragioni della scelta armata e della
clandestinità, come quelle di Carlo Marletti40 e di Nando dalla
39
Riprendiamo questa distinzione, modificandola però sensibilmente, da
alcune riflessioni svolte da Donatella della Porta a proposito della
letteratura sul terrorismo in generale: cfr. D. della Porta, G. Pasquino (a
cura di), Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti,
Germania e Giappone, Il Mulino, Bologna, 1983, pp. 19 e 29 40
C. Marletti, “Immagini pubbliche e ideologia del terrorismo’’ in L.
Bonanate (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico, Franco Angeli,
Milano, 1979 pp. 181-253. Marletti inoltre fu probabilmente lo studioso
che in questo primo dibattito pose maggiore attenzione anche al problema
dei rapporti tra terrorismo e mass media e alla questione dell’immagine
del terrorismo nei mezzi di comunicazione: cfr. oltre al saggio appena
citato, C. Marletti, “Il terrorismo moderno come strategia di
comunicazione. Alcune considerazioni a partire dal caso italiano”, in R. Villa
(a cura di), La violenza interpretata, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 191-211;
C. Marletti, ’’Terrorismo e comunicazioni di massa’’, in G. Pasquino (a cura
di), La prova delle armi, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 121-171; C. Marletti,
Media e politica. Saggi sull’uso simbolico della politica e della violenza nella
49
Chiesa41 in campo sociologico e di Massimo Cacciari42 in
campo filosofico. Tuttavia, interpretazioni che individuavano
nella dottrina professata da un gruppo la causa unica della
nascita e della diffusione della violenza ebbero poca
diffusione43, a differenza invece di quanto
comunicazione, Franco Angeli, Milano, 1984. Su tali temi, spesso in quegli
anni al centro della discussione anche extra-scientifica, si soffermarono in
quel periodo anche altri studi. Cfr. soprattutto G. Statera (a cura di),
Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Analisi e
interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, op. cit. 41
N. dalla Chiesa, “Del sessantotto e del terrorismo: cultura e politica tra
continuità e rottura’’, Il Mulino, 273, 1981, pp. 53-94 42
M. Cacciari, “Per una de-costruzione dell’immagine monolitica del
terrorismo’’, in Terrorismo. Verso la seconda Repubblica?, Stampatori,
Torino, 1980, pp. 60-83 43
L’unico studio di tipo scientifico che in quegli anni privilegiò l’ideologia
come fattore di spiegazione del terrorismo italiano può essere considerato
quello dello storico cattolico delle dottrine politiche Claudio Vasale.
Scriveva quest’ultimo nel 1980: “le pagine che seguono partono dal
presupposto che la materia organica (o vivente) del terrorismo
contemporaneo non può trovare la sua origine che in seno alla materia
vivente e questa sta nella realtà culturale (e ideologica) e non
nell’ambiente (politico, economico, istituzionale) senza del quale,
certamente, non si sviluppa e non alligna’’. Cfr. C. Vasa e, Terrorismo e
ideologia in Italia. Metamorfosi della rivoluzione, Armando, Roma, 1980
(citazione p. 11).
50
contemporaneamente accadeva nel dibattito politico e
giornalistico44.
Il secondo gruppo di ipotesi considerò invece il terrorismo
come la manifestazione più grave della “crisi italiana”, che
aveva diverse sfaccettature a seconda del punto di vista dello
studioso (sociale, politica, culturale, etica, religiosa,
economica, ecc. ) e/o come la reazione o una delle reazioni
dovute al malfunzionamento o alla debolezza e gli errori del
“sistema” politico e sociale45.
44
Grande successo ebbe in particolare la tesi elaborata dal giornalista
Giorgio Bocca, secondo il quale “padre’’ ideologico del terrorismo rosso
doveva essere considerato il ’’cattocomunismo’’: ’’non solo perché –
osservava Bocca – alcuni dei terroristi più noti come Renato Curcio,
Margherita o Mara Cagol, Maurizio Ferrari, Giorgio Semeria e altri sono
stati dei cattolici praticanti cosi come Alberto Franceschini, Roberto
Ognibene, Prospero Gallinari e altri sono stati iscritti al partito comunista;
ma per il modo totalizzante, proprio dei cattolici e dei comunisti, di porsi di
fronte alla vita e alla società, perché è cattolico e comunista il bisogno di
risposte totali e definitive, il rifiuto del dubbio, la sostituzione del dovere
ragionato con la fede, il bisogno di chiesa, di autorità, di dogma,
giustificato dal solidarismo sociale e l’attesa dell’immancabile paradiso, in
cielo o in terra”. Cfr. G. Bocca, Il terrorismo italiano (1970-1978), Rizzoli,
Milano, 1978 (citazioni a pp. 7-8). 45
Cfr. G. Pasquino, D. della Porta, “Interpretations of Italian Left-Wing
Terrorism”, op. cit. p. 174. Scarsa fortuna ebbero invece nel dibattito di
quegli anni letture “meso–sociologiche’’ del terrorismo tutte incentrate sul
51
Vediamo adesso le più importanti interpretazioni diffuse nel
dibattito scientifico italiano tra fine anni Settanta e inizio anni
Ottanta, che afferiscono al primo gruppo di ipotesi, quelle della
descrizione del soggetto terrorista in chiave psicologico-
psichiatrica. Le riflessioni di questo tipo, sostenute e fondate
soprattutto su grandi quadri teorici e formulate come
interpretazioni complessive e monocausali, condividevano tutte
la critica decisa nei confronti delle spiegazioni del terrorismo
in termini di psicopatologia in riferimento soprattutto al
terrorismo di sinistra. La prima interpretazione fu quella che
volle provare a spiegare il terrorismo, ma in generale tutta la
violenza eversiva, come un fenomeno legato al “mondo
giovanile”.
L’ipotesi venne formulata nei primi anni ’80 dallo psicologo
dell’età evolutiva Guido Petter e venne fondata sull’
“osservazione partecipante” che egli stesso aveva realizzato nel
corso degli anni Settanta presso l’Università di Padova. Egli
“gruppo’’ (e sulla sua dimensione ideologica e organizzativa). Sulle “teorie
meso-sociologiche’’ (o “mesospiegazioni’’) in relazione al terrorismo cfr. D.
della Porta, ’’Terrorismo’’, 2, ’’Il terrorismo nel mondo contemporaneo’’,
(voce) in Enciclopedia delle scienze sociali, VIII, Istituto della Enciclopedia
italiana, Roma, 1998, pp. 601-602.
52
scriveva: “molti di coloro che sono stati arrestati in questi
ultimi tre anni per atti di violenza eversiva e terrorismo, siano
essi appartenenti alle BR, a Prima Linea, ad altre formazioni
analoghe, o all’Autonomia organizzata, sono giovani fra i 20 e
i 25 anni. Giovani al momento dell’arresto, ma certo ancora più
giovani nel momento in cui, anni prima, aveva avuto inizio la
loro attività nei gruppi eversivi”. Si dovevano quindi analizzare
i “meccanismi psicologici che, a causa della presenza e
dell’influenza di certe condizioni sia personali che ambientali”,
avevano “portato molti giovani ad aderire alle formazioni
eversive”, e considerare anche quelli che avevano “poi reso
possibile la loro permanenza per mesi e talvolta per anni in tali
formazioni e la loro partecipazione attiva all’organizzazione e
all’esecuzione di atti di violenza”. Infine bisognava indagare
quei meccanismi che avevano “determinato (dopo l’arresto) la
loro uscita volontaria e improvvisa dal ruolo eversivo seguita
da pentimento, o (in altri casi) l’abbandono graduale e
silenzioso di tale ruolo”46.
46
G. Petter, ’’Aspetti psicologici della violenza eversiva’’, in C. Ceolin (a
cura di), Università, cultura, terrorismo, Franco Angeli, Milano, 1984, pp.
94-95.
53
L’ipotesi di Petter era che la “decisione di entrare nel mondo
dell’eversione” potesse scattare solo se “diverse condizioni”
fossero state “tutte compresenti” e si fossero combinate
“insieme in una costellazione”47.
La prima di queste condizioni ‒ scriveva Petter ‒ è costituita
dal senso di frustrazione, prolungato e generalizzato, che molti
giovani hanno provato in questi anni, vivendo dentro una
scuola spesso tenacemente ancorata al passato, in attesa da
decenni di una riforma che non viene mai, sorda ai problemi
degli adolescenti, o in una società caratterizzata da una
profonda crisi di valori, da un susseguirsi di gravi scandali che
hanno sconvolto il mondo politico, dalla speculazione sfrenata,
dalla vita alienante delle città cresciute in modo disordinato, da
una crisi economica che si fa sempre più drammatica. In molti
casi la frustrazione è poi stata sperimentata anche su un piano
più strettamente personale, per situazioni di insuccesso
scolastico, per gravi conflitti familiari, per la prospettiva delle
difficoltà da affrontare al termine della scuola per l’inserimento
47
Ibid. pp. 95-96.
54
nel mondo del lavoro e per il quasi certamente lungo periodo di
disoccupazione giovanile48.
Una seconda condizione era rappresentata dalla “tendenza,
presente in una parte dei giovani” che vivevano “una situazione
di frustrazione, a reagire ad essa in modo anomalo,
inadeguato”. Come la tradizione psicologica dimostrava già da
tempo, infatti, si poteva “reagire in vari modi alle situazioni
frustranti”: sia in “modo sano, positivo” sia in “altri modi, assai
meno adeguati”. Tra questi ultimi troviamo “l’aggressione
generalizzata a tutto e a tutti oppure orientata verso certe
persone che sono reputate, a ragione o a torto, come cause
dirette della frustrazione”. Un’aggressione – aggiungeva Petter
‒ che poteva “manifestarsi in molti modi, dalla derisione
all’insulto, alla minaccia, al danneggiamento o alla distruzione
di oggetti, a veri e propri atti di violenza contro le persone”.
Accanto a questo “modo inadeguato di reagire”, “non
incompatibile ma spesso anzi coordinato ad esso”, Petter ne
individuava nel mondo dei giovani un altro: la “regressione”.
Si trattava del ritorno a modi semplificati di vedere la realtà,
48
Ibid. p. 96.
55
che caratterizzavano fasi precedenti dello sviluppo psicologico
ed erano state ormai da tempo superate: il “volere tutto e
subito”, una maggiore suggestionabilità, la perdita della propria
identità nell’adesione al gruppo, una diminuzione del “senso
della realtà” e cioè della capacità di distinguere con chiarezza
ciò che è reale o fattibile e ciò che è solo illusorio, e soprattutto
la tendenza a ritenere che certi itinerari siano assai più semplici
di come in realtà sono, che certi obiettivi possano essere
raggiunti subito, in forma diretta, e non solo attraverso un
paziente lavoro di preparazione.
Nel nostro caso tutto questo si è tradotto nel rifiuto, ad
esempio, di affrontare percorsi indiretti per il conseguimento di
obiettivi complessi (e quindi nella pratica dell’ “esproprio
proletario”, o nella richiesta pressante del “voto politico”), o
nell’idea che si potesse realizzare in tempi brevi la rivoluzione,
o che vi fosse davvero un proletariato pronto a insorgere
compatto alle parole d’ordine di una minoranza49.
Queste due prime condizioni, “di carattere per così dire
personale”, non sarebbero bastate senza un “supporto, ed anzi
49
Ibid. pp. 96-97.
56
una vera e propria giustificazione ideologica, nella dottrina di
certi cattivi maestri”. Questa constatazione polemica
rappresenta una costante in questi primi studi “a caldo”
condivisa anche da Petter. Egli infatti scriveva che “da un lato
si è teso a presentare l’insurrezione e la rivoluzione come
obiettivi a portata di mano, dall’altro, sono stati presentati
come metodi leciti per conseguire questi obiettivi la pratica
dell’illegalità di massa e della violenza diffusa”. Tutto questo
aveva portato a una “radicale trasfigurazione di valori”.
Giovani “già tendenzialmente portati alle vie brevi e alle
risposte aggressive” avevano “assai presto avvertito che tali
forme d’azione normalmente considerate negative dalla società
riscuotevano invece l’approvazione del gruppo e che il saperle
compiere con decisione era una qualità valutata come
altamente positiva”50.
Una quarta condizione necessaria a far perdurare gli effetti
delle altre era costituita dall’ “esistenza di possibilità concrete
per un duplice processo di aggregazione e segregazione”.
Come spiegato da Petter: i giovani hanno anche avuto a
50
Ibid. pp. 97-98.
57
disposizione sia degli spazi fisici in cui ritrovarsi tra loro con
una certa continuità (le Case dello Studente, gli Uffici studenti
di varie facoltà, divenuti di loro dominio esclusivo, i locali per
assemblee quasi subito egemonizzate da loro), sia dei mezzi
per stare comunque costantemente in contatto (in particolare
una rivista e una radio). Tutto questo ha reso possibile la loro
aggregazione in gruppi stabili e relativamente chiusi (la “rete
dei Comitati di lotta”). Ma proprio questi caratteri del gruppo
di cui facevano parte hanno portato anche ad una loro
sostanziale segregazione dal resto della popolazione
studentesca, con la quale pure apparentemente si mescolavano.
Questo duplice carattere di “aggregazione” e di “segregazione”
ha favorito lo sviluppo graduale di una situazione di “delirio
collettivo”: uso qui questo termine nel suo significato tecnico,
per indicare quel processo che consiste nell’inoltrarsi sempre
più in una realtà illusoria scambiandola per quella vera con la
quale si perde via via il contatto, un processo reso possibile dal
fatto che, da un certo momento in avanti, si tende a parlare solo
con le persone che hanno lo stesso atteggiamento e le stesse
convinzioni, dato che alle altre vengono riservati solo la
polemica o l’attacco. In tale situazione non solo vengono a
58
mancare punti di riferimento esterni essenziali per un costante
controllo delle proprie posizioni, ma vi è un processo di
reciproca esaltazione della distorsione nel modo di percepire e
valutare la realtà51.
L’ultima condizione individuata da Petter era la seguente:
l’atteggiamento di “incertezza”, di “eccessiva tolleranza, o
anche di disimpegno da parte di molti”(“docenti delle scuole
medie e superiori”, “autorità pubbliche” e la “stessa
cittadinanza”) che “avrebbero dovuto a vario titolo intervenire
per prevenire o contenere l’eversione”. Tutto questo,
concludeva Petter, aveva potentemente contribuito a diffondere
sia un’idea di liceità sia un’idea di impunità, derivante dalla
constatazione che grandissima parte degli atti di violenza
compiuti non erano di fatto seguiti da provvedimenti di alcun
tipo. Questo generale atteggiamento di eccessiva tolleranza, di
agnosticismo e disimpegno, ha certamente avuto un suo peso.
Non dobbiamo dimenticare che, soprattutto nell’età
adolescenziale, l’idea di ciò che si è o il giudizio su ciò che si
51
Ibid. pp. 99-100.
59
fa si vengono elaborando anche sulla base di come ci si sente
considerati e trattati dagli altri52.
Una seconda interpretazione di tipo psichiatrico-criminologico
fu quella del terrorismo come “guerra fantastica”. A formularla
furono nei primi anni Ottanta due docenti di Medicina
criminologica e psichiatrica forense italiani: Franco Ferracuti53
e Francesco Bruno. Secondo questi studiosi, “etichettare i
terroristi, tutti i terroristi, come infermi di mente” sarebbe stato
“un comodo modo per risolvere il problema”, demonizzando i
protagonisti, ma non avrebbe risposto alla “realtà, né clinica, né
sociale”. Tuttavia, “alcuni aspetti psichiatrici” vi erano nel
terrorismo italiano ed era rilevante conoscerli54.
52
Ibid. pp. 100-101. 53
Occorre ricordare che Ferracuti svolse un ruolo anche operativo-
istituzionale durante gli “anni di piombo”. Egli fu infatti nominato tra gli
esperti del ministero degli Interni durante il sequestro Moro. Su questa sua
partecipazione piuttosto controversa, in ragione soprattutto della sua
iscrizione alla loggia massonica P2, cfr. A. C. Moro, Storia di un delitto
annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998. 54
F. Ferracuti, F. Bruno, “Psychiatric Aspect of Terrorism in Italy’’, in I. L.
Barak-Glantz, C. R. Huff (eds. ), The Mad, the Bad, and the Different. Essays
in Honor of Simon Dinitz, Lexington Books, Lexington, 1981, pp. 206-207.
Per la traduzione dall’inglese di questo saggio si è fatto riferimento alla sua
60
La “Distinzione preliminare”55 dei due studiosi differenziava i
terrorismi rosso e nero non solo dal punto di vista ideologico
ma anche “in base ai loro aspetti psichiatrici”: infatti “nel
terrorismo di destra i membri sono soggetti spesso
psicopatologici, e l’ideologia è vuota; nel terrorismo di sinistra
l’ideologia è al di fuori della realtà, ma i membri sono più
normali e fanatizzati”56. I terroristi neri, quindi, erano
caratterizzati da una deviazione patologica della personalità, se
non in alcuni casi da vera e propria psicosi: “l’ideologia che
ispirava il terrorismo di destra” andava interpretata come un
“sicuro rifugio psicologico per giovani inquieti e persino
disturbati a livello psicologico”. I due studiosi precisavano che
l’esperienza clinica aveva “confermato chiaramente questa
versione italiana pubblicata in F. Bruno, Note sul Terrorismo. Appunti per
una ricerca criminologica, UGRIS, Roma, 1984, pp. 50-66. 55
F. Ferracuti, F. Bruno, “Italy: A Systems Perspective’’, in A. P. Goldstein,
M. H. Segall (eds. ), Aggression in Global Perspective, Pergamon Press, New
York, 1983, p. 307. Per la traduzione di questo saggio si è fatto riferimento
a un lavoro di Ferracuti che ne riprende integralmente alcuni passaggi: cfr.
F. Ferracuti, ’’Aspetti socio-psichiatrici del terrorismo’’, in Id. (a cura di),
Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, IX,
Forme di organizzazioni criminali e terrorismo, Giuffrè, Milano, 1988, pp.
219-236. 56
F. Ferracuti, F. Bruno, “Psychiatric Aspect of Terrorism in Italy’’, op. cit.
pp. 207 e 209.
61
ipotesi”: tra i terroristi di destra (che sono stati esaminati più
frequentemente di quelli di sinistra, sia durante i processi, dal
momento che sono spesso sottoposti a perizia psichiatrica, sia
clinicamente, poiché i loro genitori hanno chiesto un ausilio
psichiatrico) sono molto più frequenti le personalità disturbate,
affette da stati borderline, o persino psicotiche. Questi soggetti
sono spesso individualistici, incapaci di resistere allo stress,
come ad esempio l’imprigionamento (in carcere talvolta si
suicidano), incapaci di collegarsi tra loro in strutture
organizzate al di fuori di una debole pseudo-gerarchia militare.
“Persino quando – aggiungevano ‒ non esistono stati di chiara
patologia psichica, la loro personalità di base ha le
caratteristiche della personalità autoritario-estremista”. In
pratica queste riflessioni implicavano che: “il terrorismo nero
può essere estremamente pericoloso non solo e non tanto per
l’ideologia eversiva che lo pervade, quanto per la sua generale
imprevedibilità e capacità di distruzione”57.
Per quanto riguarda i terroristi di sinistra invece “raramente”
essi avevano presentato “scompensi profondi della
57
Ibid. p. 209.
62
personalità”: essi, di solito, hanno buona capacità di resistere
allo stress, di organizzarsi in gruppo, di sostenersi e di
diffondere le proprie ideologie. L’adesione alle proprie
convinzioni ideologiche è sempre salda ed il più delle volte
incrollabile. Molto interessante è notare come persino coloro
che operano la scelta di collaborare con lo Stato tendono non
solo a giustificare, ma anche a razionalizzare tale scelta in un
contesto ideologicamente accettabile58. Il terrorista di sinistra
era quindi di solito “normale”, un individuo che, “mentalmente
sano”, era stato “coinvolto attivamente in azioni rivoluzionarie,
terroriste o di guerriglia”59. E fu proprio su di essi che si
concentrò lo studio di Ferracuti e Bruno, elaborando la teoria
socio-psichiatrica della “guerra fantastica”60.
Questa ipotesi partiva dalla constatazione che “il rapporto con
la morte” potesse costituire un interessante elemento
“dinamico” della personalità del terrorista: l’istinto biologico
alla sopravvivenza per l’individuo e per la società è l’autorità
58
Ibid. p. 208. 59
Cfr. F. Ferracuti, F. Bruno, “Italy: A Systems Perspective’’, op. cit. p. 307 e
F. Ferracuti, “Aspetti socio-psichiatrici del terrorismo’’, op. cit. pp. 220-221. 60
La teoria venne elaborata insieme da Ferracuti e da Bruno in un saggio
del 1983 e sostenuta dal primo anche in altri contributi.
63
che vieta l’accettazione della morte. L’uomo sfugge alla morte
usando ogni meccanismo disponibile, ma particolarmente
attraverso uno speciale atteggiamento psicologico che è stato
definito come l’“illusione dell’immortalità”, attraverso il quale
l’uomo vive ogni giorno come se la morte non esistesse, o non
lo riguardasse. L’“unica condizione”‒ sostenevano Bruno e
Ferracuti ‒ nella quale “questo atteggiamento verso la morte”
era “drasticamente mutato”(e “l’istinto di sopravvivenza”
appariva “inoperante”) era “la guerra”: “in una situazione di
guerra l’uomo appare pronto a uccidere e a essere ucciso, le
forme più aberranti di aggressione sono messe in atto da
culture altamente civilizzate, e ogni soldato può commettere
omicidi. La guerra permette il dominio della morte sulla vita e
dunque la legittimazione del terrore”.
Per questi motivi il “terrorista normale” era “equivalente a un
soldato, al di fuori del tempo e dello spazio, che vive nella
realtà una guerra che esiste solo nella sua fantasia”. Ciò si
rifletteva negli scritti dei terroristi e nei loro atteggiamenti
dopo la cattura nel dichiararsi “prigionieri di guerra”. La guerra
fantastica – sostenevano Ferracuti e Bruno ‒ naturalmente è
solo parziale, in quanto è reale solo per uno dei due
64
contendenti: costui adotta valori, norme e comportamenti di
guerra contro un altro gruppo, generalmente più grande, nel
tentativo di risolvere un conflitto basato su torti legittimi o
illegittimi. Una guerra fantastica non è né accettata né
riconosciuta dal gruppo opposto che, in effetti, tende a negarla.
La guerra fantastica è, pertanto, un fenomeno in svolgimento,
in continuo equilibrio instabile tra due possibili processi
stabilizzanti: o il passaggio alla guerra reale, o il terrore
diffuso. La guerra fantastica diveniva “reale” solo se
riconosciuta dal “nemico” e si trasformava in “terrorismo
quando, essendo incapace di costringere il nemico ad accettare
uno stato di guerra”, il gruppo che aveva cominciato le ostilità
doveva “limitarsi a molestarlo e a tentare di destabilizzarlo
attraverso l’utilizzazione e la diffusione della paura”.
Sul rapporto tra guerra, violenza e terrorismo si concentrò in
modo assai differente anche l’analisi dello psicanalista Franco
Fornari, che riguardava il terrorismo a livello mondiale ma che
si concentrava anche sulla situazione più specificatamente
italiana. Fornari sosteneva che sia il terrorismo contro lo stato
(come ad esempio quello dei Tupamaros sudamericani, dei
gruppi irlandesi e soprattutto delle Brigate Rosse) che quello
65
tra stati differenti dovesse essere interpretato come “figlio
dell’equilibrio del terrore” e della relativa “crisi della guerra”61.
L’analisi di Fornari del terrorismo partiva dal “confronto tra
capitalismo e comunismo, visti come scontrantisi nell’area dei
bianchi (cioè Russia, America del Nord, Europa e America del
Sud) con rapporti di distruzione dominati dall’equilibrio del
terrore”. “Costretto a rinunciare alla guerra” – osservava
Fornari ‒ “l’ordine planetario post-atomico” sembrava “in
realtà incontrarsi con il terrorismo come un capovolgimento
dell’antico rapporto tra il cittadino e lo Stato”. Lo “stato
pre‒atomico proibiva al singolo cittadino l’uso della violenza
per monopolizzarla, attraverso la guerra, come il sale e i
tabacchi”. “Il singolo cittadino, in quanto terrorista”, sembrava
“invece aspirare al monopolio della violenza” proprio quando
lo stato si sentiva “obbligato a rinunciarvi, in base alla legge
dell’equilibrio del terrore”. Eliminato il rito della guerra, i
popoli erano rimasti, secondo Fornari, senza poter “esportare il
lutto”, facendo rimanere nel privato il terrore della morte.
61
Fornari si riferiva qui di alcuni punti di riferimento già sviluppati in
precedenti lavori dedicati alla psicanalisi della guerra e della situazione
nucleare: F. Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano, 1966 e Id.
Psicanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano, 1970.
66
L’angoscia di morte era tuttavia riemersa e, come avvenuto
presso i popoli primitivi, era stata spostata sui capi-stregoni dai
quali si temeva di essere uccisi. Ciò era quanto avvenuto in
Italia e non solo negli anni Sessanta, durante i quali si era
diffusa un’ansia isterica nei confronti di una possibile
“persecuzione da parte del proprio sistema (il proprio
stregone!)”. Da questo discende che il terrorismo appariva a
Fornari come l’“espressione”, l’“epifania del terrore nascosto
dall’equilibrio del terrore”, come il “figlio dell’equilibrio del
terrore”: i rapporti di distruzione, dominati dal deterrente
atomico, sono al grado zero, denominato equilibrio del terrore.
Quando si sono espressi, lo hanno fatto sempre sulla pelle
altrui (Cuba e Vietnam) e arrivando in ambedue i casi sull’orlo
dell’abisso, senza però mai caderci dentro. Si può quindi dire
che le forze atomiche di distruzione abbiano portato
nell’universo ambiguo dell’equilibrio del terrore una relazione
bizzarra tra capitalismo e comunismo, nel senso che essi
coesistono, non come se fossero amici, ma come se non fossero
nemici. Vediamo così che l’enorme potenziale distruttivo è
stranamente amministrato da un rapporto tra capitalismo e
comunismo, assorbito dal rapporto tra imperi, senza che
67
colpisca i due nemici opposti. Dove va allora a finire tale
tensione distruttiva? La mia risposta è che il terrorismo è figlio
dell’equilibrio del terrore62.
Allo stesso modo di Fornari, anche il filosofo Emanuele
Severino individuava nell’equilibrio atomico il fattore cruciale
per comprendere l’esplosione del terrorismo di entrambe le
matrici in Italia, criticando duramente però le analisi elaborate
da Fornari. Egli infatti riteneva che, in relazione al terrorismo
italiano, bisognasse partire da due “ipotesi interpretative” fino
ad allora non “smentite”: la prima sosteneva che Stati Uniti e
Unione Sovietica non intendessero scatenare il conflitto
atomico decisivo che elimini definitamente l’avversario.
Questo atteggiamento non era momentaneo: entrambi si
sarebbero resi conto che dopo l’urto non esisterebbe un
“vincitore”, nel senso elementare e primario che usualmente
diamo a questo termine, e forse neanche più la razza umana. La
seconda ipotesi riguardava l’evidenza del fatto che sulla terra si
62
F. Fornari, ’’Terrorismo e equilibrio del terrore’’ , Città&Regione, 10-11,
1977, pp. 80-90. Una prima sintetica interpretazione in chiave psicanalitica
del terrorismo, seppur sensibilmente differente rispetto a questa elaborata
nel 1977, era stata suggerita da Fornari già in “Psicanalisi del terrorismo’’,
Corriere della Sera, 26 giugno 1974.
68
diffonde sempre più rapidamente un processo di
emancipazione dei popoli poveri da quelli ricchi, delle classi
sfruttate da quelle sfruttatrici, dei gruppi dalle istituzioni, dei
giovani dagli adulti, delle femmine dai maschi, degli
emarginati e anormali dagli inseriti e normali, delle azioni
umane dalle leggi e dalle tradizioni, di tutti gli altri popoli e
Stati dal monopolio delle due superpotenze mondiali
dominanti. Da queste due ipotesi discendevano alcune
conseguenze. La prima era che la “volontà delle due
superpotenze di evitare il conflitto atomico” costituiva “il fatto
stabilizzante più potente” esistente sulla terra: “il fondamentale
interesse comune degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica è di
perpetuare indefinitamente l’attuale rapporto di forze e quindi
l’ordine oggi esistente nel mondo”. La seconda era che la
“pressione dal basso verso l’alto” rappresentava per Severino
invece “il maggior fattore destabilizzante del nostro tempo”.
Ciò era valido anche per la situazione economico-politica
italiana che era “determinata” dall’“equilibrio di forze tra le
superpotenze”. La conferma di queste due ipotesi era data
dall’esplosione del terrorismo in Italia: all’interno
dell’equilibrio atomico infatti la politica comunista del
69
“compromesso storico”, e quindi l’avanzata del PCI, aveva un
effetto “destabilizzante” ed era ostacolata, pur con motivi
opposti, da entrambe le superpotenze, mentre il terrorismo
paradossalmente costituiva un “fattore stabilizzante”, poiché
arginava questa avanzata.
L’ultima ipotesi elaborata in ambito psicologico fu quella che
interpretava il terrorismo fondamentalmente come espressione
di atteggiamenti radicali ed estremisti. Il più importante
rappresentante di questo filone interpretativo fu Gabriele Calvi,
docente di psicologia sociale che riteneva di considerare
l’estremismo politico, il radicalismo e il terrorismo “come un
nodo di problemi”, anche se i termini facevano “riferimento a
comportamenti specifici e distinguibili”. Tutti fenomeni diversi
quindi, ma uniti dall’avere “alla loro base” una “stessa
dinamica mentale”: se si pensa – scriveva Calvi ‒ che il
radicalismo consiste nell’abbandono di ogni tattica
temporeggiatrice e moderata al fine d’imporre un profondo
cambiamento sociale e politico, che l’estremismo propone il
cambiamento senza moderazione, a tempi brevi, e sovente in
forma rivoluzionaria, e che il terrorismo è essenzialmente un
tentativo di provocare l’immediato cambiamento di una
70
situazione politica sotto la pressione di gravi minacce, ricatti o
violenze diretti a una collettività, i termini di una comune
dinamica psicologica sono facilmente ravvisabili. Vi erano
quindi diverse “caratteristiche psicodinamiche” che
costituivano il “fondo comune” degli “estremisti di ogni
estrazione e vocazione”: radicaleggianti, estremisti e terroristi
hanno una visione pessimistica della realtà, non credono negli
altri, non sono sostenuti dal rigoglio della speranza. Essi non
dispongono, poi, che di un solo progetto, non ne hanno altri di
scorta. Pensano in modo monotematico, quasi in modo
monomaniacale. Il loro è l’unico progetto corretto, adatto,
applicabile: altri non ve ne sono, o meglio, non è possibile
elaborarne63.
La categoria dell’estremismo venne usata come criterio di
spiegazione del terrorismo anche in ambito politologico. In
questo senso esso era concepito come una “categoria” centrale
e costante della cultura politica. Il più importante sostenitore di
questa ottica di interpretazione fu Gian Mario Bravo, che se ne 63
G. Calvi, “Dalla cultura della violenza alla cultura della pace’’,
introduzione in G. Calvi, M. Martini (a cura di), L’estremismo politico.
Ricerche psicologiche sul terrorismo e sugli atteggiamenti radicali, Franco
Angeli, Milano, 1982, pp. 10-12.
71
occupò in varie pubblicazioni tra il 1977 e il 1982. Egli
definiva prima di tutto il terrorismo come espressione del
“pensiero estremista”, per poi considerare quest’ultimo come
fenomeno totalmente estraneo alla teoria e alla tradizione del
marxismo-leninismo e al movimento operaio. L’interpretazione
di Bravo si collocava chiaramente su elementi caratterizzanti la
tradizione marxista64 ed era simile a quella elaborata in questi
stessi anni da importanti esponenti del PCI65. Secondo Bravo, il
64
Significativo è a tal proposito quanto Bravo osservava nell’Avvertenza del
suo volume del 1977: cfr. G. M. Bravo, Critica dell’estremismo. Gli uomini,
le correnti, le idee del radicalismo di sinistra, il Saggiatore, Milano, 1977, p.
7. 65
Il direttore di Rinascita, Adalberto Minucci, in uno dei più importanti
contributi di elaborazione teorica compiuti in ambito comunista, osservava
ad esempio nel 1978: “Il movimento marxista e tutta la concezione della
politica e della storia che prende le mosse dall’opera di Marx sono nati e si
sono sviluppati come rottura e come antitesi radicale nei confronti di ogni
ideologia che faccia leva sull’azione individualistica e in particolare sul
terrorismo. Il passaggio “dall’utopia alla scienza’’ segnò un rifiuto definitivo
delle concezioni demiurgiche tipicamente piccolo-borghesi di coloro che
Marx definiva sprezzantemente “alchimisti della rivoluzione’’, che
credevano di poter “anticipare sul processo di sviluppo rivoluzionario, di
spingerlo artificialmente alla crisi, d’improvvisare una rivoluzione “senza
curarsi delle condizioni materiali oggettive che la rendono possibile. Nel
corso della sua attività di dirigente del movimento operaio, Karl Marx ha
dovuto condurre più volte una lotta senza quartiere contro ideologie e
prassi della violenza terroristica[. . . ]. Chi avesse la pazienza di rileggersi le
requisitorie che[…] Marx pronunciò contro avversari che pretendevano di
collocarsi alla sua sinistra, vi troverebbe l’anticipazione delle analisi e degli
72
marxismo legittimava la violenza, ma solo quella che era
“intesa quale mezzo contingente e occasionale” e non come
“fine”, e soprattutto quella esercitata dalle masse o dalle
avanguardie capaci di interpretare la sensibilità delle masse66.
A differenza quindi della violenza terroristica, che era
essenzialmente individuale, settaria, irrazionale ed
“esclusivamente borghese”67. Non era quindi esatto individuare
nel marxismo-leninismo le radici del fenomeno terroristico.
Bravo ricordava: “sempre il movimento operaio e il marxismo,
il socialismo, hanno respinto ogni manifestazione esasperata,
argomenti che noi comunisti adottiamo contro gli estremisti e i violenti di
oggi. Quanto a Lenin basterebbe ricordare la sua critica distruttiva contro
la Narodnaja Volija, la setta dei terroristi russi di fine Ottocento. Ed è stato
Lenin, del resto, a consegnarci la prima sistematica denuncia contro
l’estremismo. I “classici’’ del marxismo, in altre parole, non hanno mai
lasciato adito a dubbi circa il fatto che l’elemento soggettivo, che deve
combinarsi con le condizioni oggettive per dar luogo a un processo di
rivoluzione sociale, è rappresentato esclusivamente dal movimento
consapevole e dall’organizzazione politica delle grandi masse. Il terrorismo
e l’azione individuale si risolvono sempre in un ostacolo e nella negazione
di questo ruolo delle masse’’ (A. Minucci, Terrorismo e crisi italiana,
intervista di J. Kreimer, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 42-43).
66 G. M. Bravo, “Violenza e terrorismo nel pensiero politico
contemporaneo’’, in La violenza, perché, numero monografico di I
problemi di Ulisse, LXXXVI, 1978, p. 18. Si veda anche l’analisi del giurista
Pio Marconi, [ intervento] in Terrorismo e stato della crisi, numero
monografico di La questione criminale, 1, 1979, pp. 9-21. 67
G. M. Bravo, L’estremismo in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 133.
73
vale a dire terroristica, della forza impetuosa e incontrollata, in
quanto espressione di individualismo, di settarismo, di
soggettivismo borghese, di irrazionalità, di avventurismo, e
infine frutto di comportamenti delinquenziali”. Ne discendeva
quindi che per trovare le reali “matrici storiche e teoriche della
violenza estremistica contemporanea” e dell’ondata terroristica
in Italia si doveva andare “molto al di là della problematica
socialista e di classe”68.
Secondo Bravo, l’estremismo era un’“entità politica”, un
fenomeno paragonabile parafrasando Lenin a una “malattia”.
Esso era apparso a partire dalla rivoluzione francese e poi si era
presentato con straordinaria “continuità” sia sulla scena politica
italiana che su quella di altri popoli e nazioni69. Bravo indicava
poi con precisione quelli che definiva i sei “elementi
prevalenti” che avevano sempre caratterizzato, e continuavano
a farlo, l’estremismo nelle sue manifestazioni, distinguendolo
nettamente dalla tradizione marxista-leninista:
68
G. M. Bravo, “Violenza e terrorismo nel pensiero politico
contemporaneo’’, op. cit. p. 18. 69
G. M. Bravo, “Critica dell’estremismo, op. cit. pp. 10-11 e Id.
L’estremismo in Italia, op. cit. pp. 7-8 e 18.
74
1) L’estremismo è collegabile all’irrazionalismo, a modi di
pensare e ad atteggiamenti non conformi a ragione. Le sue
attività pratiche sono sempre segnate dalla non razionalità.
2) L’estremismo è il prodotto di una forma esasperata di
volontarismo. Esso collega i progetti di rinnovamento della
società a pure valutazioni personali, ad atti di volontà esemplari
di singoli o di cellule ristrette. Questi sono giudicati bastanti
per procedere alla trasformazione del sistema di produzione e
per la rivoluzione.
3) L’estremismo è sempre prodotto da uno stato di esaltazione
soggettiva.
4) Un’altra componente dell’estremismo è data
dall’impazienza. Engels e Lenin parlarono di “impazienza
rivoluzionaria”. L’azione è accompagnata da una sostanziale
immaturità e, ancora, da incapacità di comprendere “il presente
sociale”.
5) Segno decisivo dell’estremismo è il settarismo, il suo
richiamarsi alla setta, al gruppo ristretto e segreto, quale
modello di organizzazione.
75
6) Infine, componenti costanti dell’estremismo sono la
ribellione e l’insurrezione. Vale a dire modelli che
storicamente non sono stati in grado di portare alla rivoluzione,
o non intendono pervenirvi. Sono fini a se stessi e si
esauriscono abitualmente nell’atto ribellistico e
insurrezionistico. In questo prevalgono gli elementi contingenti
e nichilisti70.
Da queste considerazioni Bravo traeva la funzione che
l’estremismo aveva da sempre svolto nella storia:
“l’estremismo, specie quando si accompagna al terrorismo,
peggiora la situazione esistente, rappresenta un regresso, un
ritorno a condizioni arretrate, spesso provoca una vera ondata
reazionaria. In ogni caso, congiunto o meno al terrorismo,
l’estremismo procura vantaggi solo alle classi dominanti”71.
Per quanto riguarda l’Italia, “manifestazioni estremiste”
secondo Bravo avevano accompagnato la storia nazionale sin
dai primi mesi successivi all’Unità e, da allora, avevano
ininterrottamente costituito un filo rosso della cultura politica.
70
Ibid. pp. 13-14. 71
Ibid. p. 10.
76
Tra di esse Bravo citava Bakunin e l’anarchismo, il
sindacalismo rivoluzionario, il fascismo, Bordiga, il nuovo
operaismo nato nella seconda metà degli anni cinquanta e
“tanta parte della nuova sinistra” sorta negli anni Sessanta72.
Premesso questo, Bravo considerava il terrorismo esploso alla
fine degli anni Sessanta e sviluppatosi successivamente come
la nuova “forma”, la nuova ed ultima espressione storica
dell’animo e del pensiero estremista. Nel suo volume del 1982,
L’estremismo in Italia, pubblicato con la casa editrice del PCI,
egli infatti scriveva: “le cause ideali dell’estremismo e del
terrorismo non sono soltanto nei decenni più recenti della
nostra storia. Resta infatti sempre forte la tradizione di
irrazionalità, la tendenza reazionaria che copre gran parte della
storia civile italiana, dal Risorgimento in poi. Resta costante il
pericolo di una democrazia gracile, che non è mai riuscita a
crescere, sempre soffocata, spinta indietro e mortificata dai ceti
reazionari”. Non a caso, a parlare per primi di “pandistruzione”
e di “soluzione finale” erano stati proprio Bakunin e gli
anarchici più accesi dell’Ottocento, poi i fascisti, poi i terroristi
di oggi. Franco Freda, il neonazista veneto, parla di
72
Ibid. pp. 20-66.
77
“distruzione del sistema”, di eversione totale, e così parlano di
“distruzione del sistema” anche formazioni come quelle
dell’Autonomia e delle Brigate Rosse73. Il terrorismo-
estremismo italiano, accomunato da un medesimo modo di
pensare, appariva a Bravo come fenomeno unitario seppur con
colori diversi. Egli notava infatti: “sarebbe più esatto
denunciare la presenza in Italia di un unico estremismo, e
quindi di un unico movimento estremista, costituito da più
partiti armati alle dipendenze di diverse direzioni tattiche”. Ma
convogliato in un’unica direzione ideale. Dunque il movimento
estremista si ammanta, a seconda delle epoche, ora di rosso ora
di nero, e si suddivide in correnti, separate talora
organizzativamente ma convergenti nello scopo: la caduta
rovinosa del sistema democratico74.
Tra tutte le analisi effettuate “a caldo” per descrivere il
“soggetto terrorista” ebbero maggiore fortuna e diffusione
quelle di tipo sociologico. Tutte erano accomunate dal ritenere
che vi fossero in Italia alcuni particolari ceti sociali che
avevano trovato nel terrorismo, così come nella violenza
73
Ibid. pp. 79-80. 74
Ibid. p. 91.
78
politica, uno strumento utile e a volte addirittura unico per
difendere e dare forza alle proprie posizioni. L’identità di
questi ceti era però interpretata in due modi diversi: il primo
sottolineava l’esistenza e la diffusione di un nuovo tipo di
lavoratore industriale75, il secondo e più diffuso riteneva di
interpretare il terrorismo e la violenza più in generale come la
manifestazione di ceti marginali. I due sociologi che ritennero
opportuno analizzare i meccanismi di emarginazione
all’interno della società italiana furono Statera76 e soprattutto
Ferrarotti, la cui posizione ebbe maggiore eco nel dibattito.
Egli fu fortemente critico verso ogni “lombrosiana”
spiegazione psicologica in chiave di aberrazione o di
disadattamento77, ritenendo che le origini della violenza
andassero individuate nella realtà sociale e nelle “condizioni
75
Per una sintesi di questa interpretazione, cfr. G. Pasquino, D. della Porta,
“Interpretations of Italian Left-Wing Terrorism’’, op. cit. p. 178. 76
G. Statera, “Violenza sociale ed emarginazione’’, in Id. (a cura di),
Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70, op. cit. pp. 15-
34. 77
Cfr. F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano: violenza comune e
violenza politica’’, in La violenza, perché, op. cit. p. 123 e Id. Alle radici
della violenza, Rizzoli, Milano, 1979, pp. 22-23, 45 e 91-92.
79
materiali di vita”78. In una serie di interventi tra il 1977 e il
1978 e nel fortunato volume Alle radici della violenza,
pubblicato da Rizzoli nel 1979, Ferrarotti individuava le
ragioni ultime del boom di criminalità e del terrorismo
nell’Italia degli anni Settanta nelle “conseguenze della
trasformazione non orientata – selvaggia ‒ della società
italiana”79 e in primis nella presenza e nella crescita di nuovi
ceti marginali prodotti dall’incepparsi e dal rimanere
incompiuto del processo di industrializzazione e dalle
conseguenti “crisi di condizioni di vita e di valori” 80: la
tragedia attuale dell’Italia deriva dal semplice fatto che
l’industrializzazione italiana si è inceppata, che l’Italia è un
paese industriale solo a metà, sospeso fra un mondo contadino
che non c’è più e una cultura industriale che non c’è ancora. I
benefici indubbi dell’industrializzazione non arrivano a toccare
l’insieme della popolazione. Anzi, il processo di 78
F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano: violenza comune e
violenza politica’’, op. cit. p. 125. 79
Ibid. p. 131. 80
Quanto ad esse cfr. F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano:
violenza comune e violenza politica’’, op. cit. pp. 130-131; Id. Alle radici
della violenza, op. cit. pp. 141-143; Id. “Riflessioni e dati su dodici anni di
terrorismo in Italia (1969-1981)’’, in M. Galleni (a cura di), Rapporto sul
terrorismo, Rizzoli, Milano, 1981, pp. 436-437.
80
industrializzazione produce lacerazioni gravi, approfondisce il
solco fra chi sta bene e chi sta peggio, fra chi ha lavoro
regolare stabile e protetto e chi non ce l’ha. Questo solco è più
grave, appare incolmabile in quelle situazioni in cui
l’industrializzazione è stata bloccata. Allora non c’è più
speranza per molti. I giovani devono affrontare un avvenire
incerto: il traffico fra le generazioni, che un tempo si svolgeva
con soddisfacente regolarità, è ora congestionato81. Sulle orme
di altri studiosi della “società marginale” egli parlava di
“società negativa” sostenendo: “non è tanto una ‘seconda
società’ quanto invece il risvolto negativo, la controparte e
insieme il ‘prodotto dialettico’ della società normale, razionale,
capace di progettare razionalmente il proprio avvenire”. E
aggiungeva: “è appena il caso di chiarire che, metafore a parte,
la “società negativa” è una società di disperati. La sua esistenza
è caratterizzata dalla cronica precarietà dei mezzi elementari di
sussistenza e dalla mancanza quasi totale di sistemi di
significato, di possibilità di partecipazione”. In “senso proprio”
81
F. Ferrarotti, Alle radici della violenza, op. cit. pp. 53-54.
81
si trattava di “una società di esclusi”82. Scriveva Ferrarotti: “il
terrorismo è l’espressione d’una disperazione genuina di strati
sociali abbastanza ampi”, “un grido di allarme, un disperato
bisogno di venire riconosciuti, di esistere”: “la violenza rende
visibili” 83. Ciò era ancora più valido in relazione ai giovani
marginali. Essi – concludeva Ferrarotti ‒ da un punto di vista
culturale sono incapaci di una elaborazione teorica generale e
da un punto di vista economico non possono o non vogliono
entrare in questo mercato del lavoro che o li rifiuta o se li
accetta li reprime. Si danno allora alla sola possibilità che gli
resta aperta: cercano di rendersi visibili con la violenza, in
parte per sopravvivere e in parte per sfogare le loro pulsioni
elementari. In alcuni comportamenti criminali di giovani e
giovanissimi che psicologi, criminologi e sociologi denunciano
come privi di motivazione, io invece scorgo proprio questo:
che la violenza in apparenza gratuita è una specie di atto di
presenza84.
82
F. Ferrarotti, “Riflessioni sul terrorismo italiano: violenza comune e
violenza politica’’, op. cit. pp. 126-127. Cfr. anche Id. Alle radici della
violenza, op. cit. pp. 54-55. 83
F. Ferrarotti, Alle radici della violenza, op. cit. pp. 9 e 23. 84
Ibid. p. 15.
82
Una diversa prospettiva della categoria della “emarginazione”
nel senso di condizione umana venne usata per spiegare
l’esplosione e la natura del terrorismo in alcune analisi di tipo
teoretico-filosofico. Gli emarginati erano quindi tutti coloro i
quali sentivano come repressa la propria condizione
“esistenziale” a causa del “desiderio” ed era in quest’ultimo
che andava rintracciata la radice profonda del diffondersi della
violenza terrorista. Il filosofo cattolico Pietro Prini sintetizzò
efficacemente questa interpretazione, convinto che sarebbe
stato “certamente un errore di miopia interpretare i vistosi
aspetti del fenomeno odierno della violenza senza riferirli ad
un modello teorico” che desse loro una “certa coerenza logica e
insieme una motivazione”. Individuò proprio nel “desiderio”
tale elemento unificante: “il tema del ‘desiderio’ ‒ sosteneva ‒
è diventato l’insegna comune non soltanto dell’intellighentia
radicale, ma anche delle tensioni e delle ossessioni di una larga
parte della contestazione del ‘68 e di quella di oggi, ancora più
esasperata di rabbia ‘allo stato selvaggio’ contro le istituzioni
di una società accusata di essere repressiva e alienante”. L’“ala
violenta del nuovo radicalismo”, proseguiva sempre Prini, era
sorta, in effetti, proprio sulla base di un’“ideologia freudiano-
83
marxista” fondata sui concetti di “repressione” e di
“alienazione”. In particolare, in “questa ideologia della
violenza”, si accoglievano solo alcuni aspetti di Marx e di
Freud. Spiegava Prini: “di qui è avvenuto questo fenomeno
singolare del nostro tempo ‒ e di cui non si è forse ancora
misurata l’importanza sul piano politico ‒ che il desiderio, e
non più primariamente il bisogno, è esplicitamente proposto
come molla della rivolta, che non si configura più come
rivoluzione, ma come una insurrezione permanente contro ogni
vincolo sociale ed ogni imposizione statuale”. I “desideri” nei
quali andavano rintracciate le origini del terrorismo erano
quelli espressi violentemente da coloro che si sentivano per
vari motivi emarginati in questa o in quella “condizione” della
vita associata (e che si rifiutavano di rispettare “quella suprema
legge della convivenza civile, che è la compossibilità dei
desideri”). La “protagonista” di questa nuova “prospettiva
insurrezionale o della violenza distruttiva e intimidatoria” non
era pertanto più la “classe operaia, nel suo progetto di
liberazione dall’alienazione del lavoro e dunque dal bisogno
che attraverso il lavoro dovrebbe farsi spinta di umanizzazione
e incivilimento”, ma era invece la “condizione giovanile o
84
femminile, civile o economica, etnica o razziale, o comunque
di tutti coloro che si riconoscono in una categoria sociale di
emarginati o repressi nella propria vitalità desiderante”.
Il secondo gruppo di ipotesi all’interno del dibattito scientifico
si basa sulla idea che la vera origine della violenza e del
terrorismo fosse da individuare in “malattie” o disfunzioni del
“sistema”. Da questo ne conseguiva che il terrorismo doveva
essere interpretato come il sintomo più inquietante della “crisi
italiana” e/o come una delle reazioni contro il
malfunzionamento e gli errori del “sistema”. Da questa
prospettiva, le diverse interpretazioni possono essere distinte a
seconda del “livello, o sfera” in cui individuavano le
“condizioni” determinanti per la nascita del terrorismo85. Al
primo livello culturale è riconducibile l’interpretazione che
vide nel terrorismo una risposta alla crisi dei valori tradizionali;
al secondo, che è quello politico, quella che spiegò il
terrorismo come una risposta al blocco del sistema. Per quanto
riguarda la prima interpretazione, il sostenitore più convinto è
85
G. Pasquino, D. della Porta, “Interpretations of Italian Left – Wing
Terrorism’’, op. cit. p. 180. Cfr. anche P. Feltrin, E. Santi, “Il Terrorismo di
sinistra: le interpretazioni’’, op. cit. p. 49.
85
stato senza ombra di dubbio il sociologo Sabino Acquaviva con
il suo libro pubblicato nel 1979 dal titolo Guerriglia e guerra
rivoluzionaria in Italia. In quel volume, infatti, e in altri
contributi di quel periodo, Acquaviva individuava nel “rifiuto”,
nella “crisi”, o meglio, nel “collasso”, nella “disgregazione dei
valori dominanti”, 86 il punto iniziale e la condizione
fondamentale del meccanismo che aveva portato al terrorismo.
Egli sottolineava la crisi del marxismo ma soprattutto
l’importanza di quella dei “valori religiosi”87, di cui aveva già
86
S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano,
1979, pp. 16-17 e 28. 87
Secondo Acquaviva, la “crisi religiosa’’ era stata davvero cruciale ai fini
della nascita della rivolta e di una larga “disponibilità alla violenza’’ (S.
Acquaviva, “Terrorismo e guerriglia in Italia’’, in Id. Terrorismo e guerriglia
in Italia. La cultura della violenza, scelta antologica a cura di G. M.
Pozzobon, Città Nuova Editrice, Roma, 1979, p. 9): “la perdita dei valori
religiosi (normale nella nostra società), come dei significati ultimi
dell’esistenza, fa si che molti di coloro che soddisfacevano il loro bisogno di
totalità nella religione, oggi cerchino di soddisfarlo nell’ambito di
movimenti che danno questo senso di totalità’’ (S. Acquaviva, Guerriglia e
Guerra rivoluzionaria in Italia, op. cit. pp. 54-55). Si era cioè venuta a
creare una vera e propria “connessione psicologica fra l’assoluto religioso e
l’assoluto politico”che aveva “portato molti di coloro che militavano in
organizzazioni cattoliche, specie se tese al rinnovamento interiore e
sociale, a militare nelle organizzazioni rivoluzionarie’’ (S. Acquaviva,
“Terrorismo e guerriglia in Italia’’, p. 10).
86
parlato nel libro Il seme religioso della rivolta88. Il processo
così avviato, attraverso la fase successiva dell’“elaborazione
ideologica di un modello di società alternativo rispetto a quello
esistente”89 e dell’“aggregazione di tipo ideologico dei
movimenti politico-culturali” in cui era cresciuta “l’ideologia
della guerriglia e del terrorismo”90, aveva dato luogo alla
formazione della violenza e del terrorismo in ragione anche di
altri “presupposti”(una “crisi socio-economica” che aveva
creato “disfunzioni nel sistema”91; l’esistenza di una
“predisposizione alla violenza politica radicata in una violenza
diffusa non ancora politica”92; lo scenario internazionale).
Secondo Acquaviva, “molto spesso” esistevano le “condizioni
economico-sociali per lo sviluppo della rivolta”. Tuttavia,
perché nascesse una “guerra rivoluzionaria”, era necessario
“una specie di “detonatore della rivolta”. Esso poteva essere
individuato nel processo di disgregazione e riaggregazione
88
S. Acquaviva, Il seme religioso della rivolta, Rusconi, Milano, 1979. 89
S. Acquaviva, [ intervento] in Terrorismo come e perché, tavola rotonda
con S. Acquaviva, L. Bonanate, G. C. Caselli, F. Mancini e F. Stame,
Mondoperaio, aprile 1979, p. 13. 90
S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, op. cit. p. 17. 91
S. Acquaviva, [ intervento ] in Terrorismo come e perché, op. cit. p. 13. 92
S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, op. cit. p. 28.
87
sociale e culturale che sempre precede e accompagna la rivolta,
quale che sia la caratteristica che assume: terrorismo,
guerriglia, guerra rivoluzionaria. Infatti, perché si abbia una
rivolta armata più o meno efficace, bisogna che i valori di una
società siano almeno in parte rifiutati. In questo caso la
struttura di potere non è più giustificata e quindi accettata.
Bisogna inoltre che gli individui si aggreghino in gruppi che
facciano propri altri valori antagonisti rispetto a quelli
dominanti. Anche in Italia, come nella Russia di inizio
Novecento o nella Francia del XVIII secolo, si era “assistito a
una trasformazione” che aveva “creato le basi sociali della
rivolta armata prima, e le basi politiche e organizzative poi”.
L’interpretazione della violenza e del terrorismo come
manifestazione della crisi dei valori tradizionali era alla base in
quello stesso periodo del pensiero del filosofo cattolico della
politica Augusto Del Noce, la cui analisi differiva però
profondamente da quella di Acquaviva. Nel discorso di Del
Noce si possono individuare tre distinti momenti. Il primo,
riferito solamente al terrorismo di sinistra, si rifaceva alla
definizione del medesimo come manifestazione del “suicidio
della rivoluzione”. Del Noce sintetizzò così alcuni dei punti
88
principali della sua interpretazione in una intervista del 1979
concessa a Giuseppe Dall’Ongaro: La “nostra” violenza, o per
lo meno quella che si manifesta con maggiore asprezza, si
alimenta nell’area della cosiddetta Autonomia. E l’Autonomia,
a sua volta, è il prodotto di un incontro tra orfani. Nell’area di
Autonomia sono confluiti gli orfani del comunismo e gli orfani
della contestazione. In Italia c’è il più forte Partito Comunista
dell’Occidente. A mano a mano che questo partito si è
avvicinato, su posizioni legalitarie, alle strutture del potere, a
mano a mano che ha perduto (o è parso perdere) le sue
caratteristiche rivoluzionarie, è aumentata la frangia degli
scontenti, dei delusi, di quelli che si sono sentiti abbandonati,
traditi. A questi si sono affiancati gli orfani della contestazione
giovanile, del movimento studentesco del ‘6893. Questo
“tradimento”, così come il più generale “conflitto” tra Partito
comunista e ultrasinistra terroristica, rivelava un articolato
processo culturale che il filosofo riassumeva con l’espressione
“suicidio della rivoluzione”. All’inizio del suo volume del
1978 con questo stesso titolo, dedicato ad un’analisi del
93
G. Dall’Ongaro, ’’I terroristi sono solo dei sadici’’, Gente, 28 dicembre
1979, pp. 37-38.
89
fenomeno rivoluzionario, Del Noce osservava che l’“idea
rivoluzionaria” consisteva sempre ne “l’unità di due momenti,
il negativo come devalorizzazione dell’ordine tradizionale dei
valori, e il positivo come instaurazione di un ordine nuovo”. “Il
suicidio” avveniva, quindi, se “nel processo della realizzazione
i due momenti” si scindevano94. Negli anni Settanta in Italia
era avvenuto esattamente questo. Del Noce era quindi convinto
che la “scissione”95 e la “decomposizione” dell’idea
rivoluzionaria (e dunque il “suicidio della rivoluzione”96)
rappresentassero la ragione principale dell’esplosione del
terrorismo di sinistra. Sempre nel 1978 egli rifletteva: Il Partito
Comunista si presenta come forza d’ordine venendo a
compromesso con le forze esistenti. Il che emargina l’aspetto
eversivo dei rivoluzionari. D’altra parte il rivoluzionario attuale
‒ quello, per intenderci, delle Brigate Rosse ‒ non ha carte
ideali da contrapporre a questo processo. La rivoluzione allora
94
A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978, p. 6. Cfr.
anche quanto dichiarò Del Noce nell’intervista a F. Perfetti, “Le radici della
dissoluzione”, Il Settimanale, 31 maggio 1978, p. 44. 95
A. Del Noce, “La critica all’idea di Rivoluzione è oggi l’unica rivoluzione
culturale necessaria’’ (1978), ora in Scritti di Augusto Del Noce, Circolo
Stato e Libertà, Roma, 1978, p. 74. 96
F. Perfetti, “Le radici della dissoluzione”, op. cit. pp. 44-45.
90
si decompone: da una parte il compromesso e dall’altra
l’assassinio fisico97. Da questo ne discende che in fondo –
concludeva Del Noce ‒ il “carattere principale” del brigatismo
(e l’attentato contro Moro confermava questa analisi) era
proprio “quello della opposizione della rivoluzione al
compromesso, della rivendicazione della rivoluzione nei
confronti del compromesso”: ma questa stessa rivendicazione
che cos’altro è se non un aspetto del processo decompositivo
della rivoluzione? Infatti per un verso la rivoluzione rientra
nell’ordine, per l’altro verso si risolve nel terrorismo. Ad un
compromesso di vertice corrisponde un compromesso di
“sottosuolo”. Quest’ultimo è privo di una sua base ideologica,
anche se avverte la morte della rivoluzione, e non può
esprimersi che nell’assassinio. Non è in grado di oltrepassare
questa soglia. E tutto ciò non fa altro che confermare la
decomposizione dell’idea rivoluzionaria, il suicidio insomma
della rivoluzione98.
97
Ibid. p. 45. 98
Ibid. Cfr. anche A. Del Noce, “La critica all’idea di Rivoluzione è oggi
l’unica rivoluzione culturale necessaria’’, op. cit. pp. 73-75.
91
Era tuttavia necessario secondo Del Noce individuare anche
altre ragioni e condizioni che avevano contribuito in maniera
essenziale a definire specificatamente la violenza terrorista
esplosa negli anni Settanta. Il discorso di Del Noce, quindi,
andava oltre il brigatismo rosso. Il secondo livello dell’analisi a
differenza del primo si muoveva su un piano esclusivamente
filosofico. Il punto di partenza di quest’interpretazione
“transpolitica” della violenza era la constatazione di quello che
Del Noce definiva come il “crollo”, la “caduta” dell’“etica
tradizionale”99: “l’esperienza comune – scriveva ‒ dice che
oggi è scomparsa quella che per i metafisici era una legge
dell’essere, per i filosofi laici una forma eterna dello spirito,
l’etica”100. Del Noce si riferiva al “rifiuto” della “laica morale
kantiana”101, le origini del cui “congedo” risalivano ai primi
anni Sessanta. L’esplosione della violenza andava capita alla
luce di questo processo. Una “semplicissima, e tuttavia
generalmente inosservata, considerazione terminologica”
mostrava, del resto, la “legittimità” di questa ipotesi: “qual è ‒
99
G. Dall’Ongaro, ’’I terroristi sono solo dei sadici’’, op. cit. p. 38. 100
A. Del Noce, “Lenin non fu un ‘giacobino’’’, Prospettive nel mondo,
settembre-ottobre 1978, p. 12. 101
Ibid.
92
si chiedeva Del Noce – l’esatto contrapposto linguistico del
termine ‘violenza’ se non quello di ‘rispetto’? E tutti sanno
quanta parte abbia il ‘rispetto’ nelle due maggiori opere di
morale dei tempi moderni, la Critica della ragion pratica di
Kant e i Principi di scienza morale di Rosmini”102. Secondo
Del Noce, la “liquidazione dell’etica” tradizionale era
all’origine non solo della violenza tout court, quanto
soprattutto di quella da lui definita come “violenza
rivoluzionaria”: “la nobilitazione della violenza è legata
all’idea filosofica di rivoluzione totale, cioè come passaggio
dal regno della necessità al regno della libertà, in una realtà
qualitativamente ‘totalmente altra’; passaggio che implica una
frattura radicale, necessariamente violenta, con la storia sinora
trascorsa. La rivoluzione non potrà perciò avvenire in nome dei
principi etici tradizionali, perché essi, o sono parole vuote
(giustizia, libertà) o legittimazioni-mistificazioni dell’ordine
esistente. L’idea di rivoluzione totale importa la liquidazione
dell’etica. Il pensiero in termini di violenza succede a questa
102
A. Del Noce, “Violenza e secolarizzazione della gnosi’’, op. cit. p. 196.
93
liquidazione”103. La crisi dell’etica aveva quindi costituito la
premessa della violenza “rivoluzionaria” e “creatrice”104.
Tuttavia la vera “radice” di essa andava individuata ancora più
lontano: “nella riaffermazione della struttura di pensiero
gnostico”105 e in particolare, nell’emergere di un nuovo
gnosticismo, di una “riaffermazione della gnosi dopo il
cristianesimo”106, di una “gnosi rivoluzionaria” che intendeva
“la seconda creazione come creazione di un mondo nuovo” e
costruiva l’orizzonte di radicale rifiuto della società attraverso
il concetto di “rivoluzione totale”107: “All’atteggiamento
ascetico di liberazione dal mondo si sostituisce l’atteggiamento
rivoluzionario della violenza creatrice. In una prospettiva
storicistica, oggetto del rifiuto appare cioè una determinata
realtà storica, e alla disposizione pessimistica si sostituisce
l’attivistico-volontaristica. In conclusione, noi dobbiamo dire
che viviamo nel periodo della decomposizione della nuova
103
A. Del Noce, “Il problema filosofico della violenza’’, in Violenza. Una
ricerca per comprendere, op. cit. pp. 8-9. 104
Ibid. pp. 9 e 12. 105
Ibid. p. 10. 106
A. Del Noce, “L’insidia gnostica’’, in Ordine e disordine. Settimo incontro
romano (1979), Volpe, Roma, 1980, p. 164. 107
Ibid. p. 165.
94
gnosi, e che la nuova valutazione della violenza è la più
sensibile espressione della riaffermazione della gnosi, contro il
pensiero classico e contro il pensiero cristiano insieme”108. Del
Noce aggiunge infine un terzo e ultimo tassello alla sua analisi:
quello del “sadismo”. Egli osservava che,
“contemporaneamente al crollo dell’etica tradizionale,
dell’etica kantiana-religiosa”, si avvertiva “un rinnovato
interessamento per Sade e la sua opera”. Sade veniva
“riscoperto come ‘maestro’, come un indagatore delle realtà
oscure latenti nella coscienza umana”. Secondo Del Noce a
promuovere questa “riabilitazione” e a far riscoprire, anche a
livello delle masse, il sadismo era stata soprattutto una certa
“cultura di tipo radical-chic”. Da questa “componente nuova”
ne discendeva la qualità e il particolare tipo di violenza
“affermatasi con la caduta dell’etica, con la caduta del
“rispetto”. Era stata infatti questa “componente sadica” che
aveva influenzato il “carattere specifico” della violenza
esercitata dai terroristi e che aveva generato la dura “ferocia”
da essi mostrata109. Tra le interpretazioni che collegavano
108
A. Del Noce, “Il problema filosofico della violenza “, op. cit. p. 12. 109
Ibid.
95
l’origine del terrorismo “alle condizioni” e alle “disfunzioni”
della “sfera politica”110 quella che legava il terrorismo al
blocco del “sistema” fu quella più diffusa. Tra i primi a
sostenerla, da metà anni Settanta, ci fu il politologo Giorgio
Galli111, seppur a livello embrionale e riferendosi
esclusivamente alla destra radicale. Negli anni seguenti, essa
sarebbe stata sostenuta molto frequentemente e con sfumature
diverse nella discussione politico-giornalistica. A formularla in
maniera più rigorosa ed elaborata fu il politologo
dell’Università di Torino Luigi Bonanate autore di una serie di
interventi apparsi tra il 1977 e il 1983. In uno di essi Bonanate
spiegava la sua posizione in questo modo: “Se si confrontano i
110
Ibid. p. 181. 111
Cfr. G. Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Mondadori,
Milano, 1974, pp. 19 ss. Cfr. a tal proposito anche quanto ha osservato G.
Pasquino, “Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo: ipotesi e
prime verifiche’’, in Id. (a cura di), La prova delle armi, op. cit. pp. 209-210.
Negli anni successivi, nelle sue “Opinioni’’ apparse sul rotocalco Panorama
(e poi, più compiutamente, nel 1986 in Il Partito armato), Galli avrebbe
esteso la sua interpretazione anche al terrorismo di sinistra. Cfr. F.
Mancini, Terroristi e riformisti, Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 52-53 (e anche
l’analisi elaborata dallo stesso Mancini in questo volume rientra per molti
aspetti nel filone interpretativo del “sistema bloccato’’: cfr. G. Pasquino,
“Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo’’, op. cit. p. 179) e la
testimonianza dello stesso Galli, in Il partito armato, Kaos, Milano, 1993 (1°
edizione 1986), p. 368.
96
diversi focolai terroristici nel mondo e nella storia (intendo il
terrorismo in modo comprensivo di tutti i suoi tipi) è
difficilissimo, se non impossibile, scoprire corrispondenze
univoche, rapporti certi di causa-effetto: i più diversi tipi di
Governo hanno fatto del terrorismo, modelli di società opposti
hanno suscitato terrorismo analoghi; la stessa storia del sistema
internazionale, pur nel mutare delle sue fasi strutturali, non è
esente da episodi terroristici. Ora, la sola generalizzazione che
sembra accomunare fenomeni così disparati è quella che
considera il terrorismo come insorgenza sintomatica di una
situazione bloccata, sia a livello interno sia a livello
internazionale. Che il terrorismo venga considerato sintomo
che qualcosa non va può esser giusto, ma è anche ovvio: il fatto
è piuttosto che la funziona sintomatica dell’apparizione della
fattispecie terroristica preannuncia l’esistenza di una situazione
di blocco, che altrimenti avrebbe potuto essere giudicata ancora
normale (apparentemente). Se non implicasse troppo il
riferimento alla malattia (e il terrorismo non lo è), si potrebbe
dire che l’apparizione del terrorismo consente una sorta di
“diagnosi precoce”. Di che? Del fatto che un determinato
assetto strutturato (sia una società statuale, sia il sistema
97
internazionale, nel complesso, o nei suoi sottosistemi) sta
avvicinandosi, o è già entrato, in una fase di blocco, cioè di
incapacità a svolgere i suoi compiti se non in modo ripetitivo,
di rinnovarsi adeguandosi a nuove esigenze o nuovi stimoli, di
svilupparsi e di autoregolarsi. La situazione di blocco sarebbe
in altri termini quella di un sistema che ha talmente consolidato
le sue basi, la sua organizzazione strutturale, da non consentire
alcuna innovazione, di quale tipo che sia. Il terrorismo è allora
un sintomo non di un prossimo collasso, ma al contrario (e
allora non è più ovvio) del fatto che il sistema in questione è
entrato in una fase di immobilità autoperpetuantesi, che invece
di intaccarne la solidità (almeno a breve o medio termine) lo
rende talmente solido che riesce a neutralizzare qualsiasi
attacco”112.
“Il terrorismo – notava Bonanate intervenendo a una tavola
rotonda organizzata dalla rivista del PSI Mondoperaio ‒ si
112
L. Bonanate, “Dimensioni del terrorismo politico”, in Id. (a cura di),
Dimensioni del terrorismo politico, op. cit. pp. 176-177. Cfr. anche Id.
“Terrorismo, lotta politica e violenza’’, op. cit. pp. 37-38. Un ulteriore
approfondimento dell’ipotesi (in relazione anche allo specifico caso
italiano), attraverso soprattutto la specificazione del “nesso blocco-
governabilità’’, sarebbe stato elaborato da Bonanate nel già ricordato
saggio del 1983 “Terrorismo e governabilità’’.
98
caratterizza proprio per la sua mancanza di autonomia e di
originalità. È sempre una risposta, mai un intervento
spontaneo”113. Nel 1979, in un ampio saggio dedicato alle
“Dimensioni del terrorismo politico”, Bonanate applica la sua
interpretazione generale al caso specifico del terrorismo
italiano esploso negli anni Settanta. Egli definisce infatti anche
quello italiano come un sistema politico “indistruttibile”, “con
una classe dirigente solidissima non soltanto perché non si
ricambia, ma piuttosto perché riesce ad assorbire qualsiasi
innovazione”. Bastava pensare nel caso italiano “alla capacità
della classe politica democristiana di assorbire il centrosinistra,
senza che la politica delle riforme facesse sostanziali
progressi”, oppure “al processo del compromesso storico che,
certo, può essere considerato come una grande prova di
flessibilità e dinamicità del sistema, ma forse anche del suo
contrario: e cioè la neutralizzazione della più grande forza
teoricamente anti-sistema esistente in Italia, il PCI” 114. Anche
113
L. Bonanate, [intervento] in Terrorismo come e perché, tavola rotonda
con S. Acquaviva, L. Bonanate, G. C. Caselli, F. Mancini e F. Stame,
Mondoperaio, aprile 1979, p. 14. 114
L. Bonanate, “Dimensioni del terrorismo politico”, in Id. (a cura di),
Dimensioni del terrorismo politico, op. cit. p. 177.
99
l’interpretazione del sociologo Alberto Melucci è basata
sull’ipotesi di un legame fondamentale tra terrorismo e sistema
bloccato pur differendo in alcuni aspetti fondamentali rispetto a
quella di Bonanate. Melucci infatti dava più importanza al
rapporto tra sistema bloccato e società in movimento
sottolineando l’importanza di prendere in considerazione, per
la prima volta in relazione al caso italiano, insieme al sistema
politico anche un altro elemento: i movimenti sociali (o
collettivi). Melucci individuava quattro elementi fondamentali
per comprendere i risultati dei processi collettivi negli anni
Settanta e soprattutto la “crisi” e “lo sviluppo dell’azione
collettiva verso la violenza, fino all’esito del terrorismo”115.
Questi elementi erano:
1) La crisi economica internazionale che aveva colpito “tutti i
paesi capitalistici” e che in Italia aveva trovato un terreno
115
A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni
individuali, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 115.
100
particolarmente adatto rendendo più numerosi i suoi “effetti
dirompenti”116;
2) L’istituzionalizzazione delle forze di sinistra, comprendendo
partiti e sindacati;
3) La “chiusura” del sistema politico e la sua “incapacità di
dare risposta a nuove domande collettive, sempre più
generalizzate”(con la conseguente “mancanza” per le
“domande conflittuali” di “sbocchi” e di “canali istituzionali
per esprimersi”)117;
4) La “duplice distorsione nel processo di modernizzazione e
formazione dei movimenti”118.
Melucci partiva dagli avvenimenti del 1968 (cioè dall’insieme
dei fenomeni politici e sociali che questo anno simbolizza).
Essi avevano rappresentato “il primo momento di congiunzione
tra un importante processo di modernizzazione del paese e
l’apparizione embrionale di nuovi movimenti antagonisti”.
116
Ibid. p. 113. 117
A. Melucci, Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli,
Milano, 1977, pp. 157 e 166. 118
A. Melucci, L’invenzione del presente, op. cit. p. 113.
101
“All’origine del ciclo di lotte iniziato nel ‘68” vi erano stati in
particolare “due tipi di domande”: “domande di
modernizzazione” che accompagnavano “il passaggio della
società italiana verso il capitalismo maturo” e “domande
antagoniste legate alla formazione embrionale di nuovi conflitti
di tipo post-industriale”119. Convinto che fosse necessario
“analizzare gli eventi in chiave di sistema e non come pura
sequenza, mostrando i nessi che legano domande, risposte e
effetti”120, Melucci analizzava quali fossero state le “risposte di
sistema” (“sotto l’angolo del sistema politico”) all’“emergere
di nuove domande collettive”. Sul “versante istituzionale o
della capacità di governo”, egli vedeva tre risposte principali.
La prima era stata la “riforma restrittiva”: il mutamento
istituzionale, le riforme che vengono dal sistema politico, sono
sempre l’effetto di forti processi conflittuali e non di una
dinamica autonoma di innovazione. Le riforme sono concesse
solo come ultima ratio e nella misura più restrittiva possibile.
Ne consegue un andamento discontinuo, parziale, saltuario, dei
processi di modernizzazione, che difficilmente arrivano ad
119
Ibid. pp. 99-100 e 127. 120
Ibid. p. 129.
102
intaccare la logica profonda delle istituzioni a cui si applicano.
Questo uso riduttivo dell’intervento di riforma produce spesso
una sovrapposizione del nuovo sul vecchio, che si risolve in un
aggravio dei problemi invece che in una loro soluzione.
Secondo Melucci la “repressione” era stata la “risposta più
abituale del sistema politico, soprattutto nella fase di
formazione delle domande collettive”, mentre la terza risposta
era rappresentata dall’ “uso strumentale della violenza di
destra” e del “terrorismo fascista”121. Per “completare il quadro
delle risposte di sistema” occorreva per Melucci considerare
anche il “potenziale di rappresentanza che alle domande
emergenti ‘era stato’ offerto dalle forze politiche di
opposizione, che avrebbero dovuto o potuto esserne interpreti”.
“Le risposte su questo versante” gli apparivano sintetizzabili
“come iper-politicizzazione e come sotto-rappresentanza”,
rispettivamente, da parte della “nuova sinistra” e del PCI. Le
organizzazioni della nuova sinistra, che erano state “in qualche
modo l’unico canale di rappresentanza diretta delle nuove
domande”, le avevano “costrette entro un quadro organizzativo
e ideologico” che aveva fatto “dello scontro con lo stato
121
Ibid. pp. 108-109 e 127.
103
l’obiettivo principale delle lotte”. Si era avuta, pertanto, in
questo caso una “trascrizione delle domande in termini
rigidamente politici (leninisti), anche laddove queste si erano
radicate nei problemi della “società civile” e della vita
quotidiana”. Le risposte istituzionali avevano “prodotto una
focalizzazione di tutte le energie conflittuali sulla inefficienza
degli apparati di stato e sul blocco del sistema politico”. “Da
parte del PCI” si doveva invece parlare di vera e propria “sotto-
rappresentanza”. Il PCI aveva infatti “dapprima ignorato il
potenziale di innovazione rappresentato dai nuovi attori
conflittuali (che si era espresso nel voto a sinistra delle elezioni
politiche del 1968)”, poi ne aveva “raccolto i frutti in termini
prevalentemente strumentali, rifiutando tuttavia di dare
riconoscimento e legittimità ai contenuti e agli attori di nuovi
conflitti”. Per quanto concerneva il PCI (e i sindacati), Melucci
individuava nel processo di “istituzionalizzazione” il motivo
fondamentale per comprendere l’adesione di molti militanti al
terrorismo. Sul fronte dei “movimenti sociali” che avevano
“reso questa istituzionalizzazione possibile”, questa aveva
infatti portato a un “effetto inevitabile di creazione di residui”.
“Le aspettative mobilitate nella fase delle lotte” non erano state
104
“soddisfatte dalla conclusione ‘realistica’ all’interno dei canali
istituzionali”. Il risultato “inevitabile” era stato che si arrivasse
a “frange di militanti delusi” che facevano “appello alla
purezza originaria del movimento” e che lottavano contro il
“tradimento” degli obiettivi iniziali122. In un contesto di crisi
internazionale queste “risposte di sistema” alle domande poste
dai nuovi movimenti antagonisti avevano portato, per Melucci,
a tre “effetti”123. Il primo era una “modernizzazione distorta”:
gli effetti della modernizzazione avviata dalle lotte della fine
degli anni Sessanta erano stati “progressivamente” deformati
dalla “chiusura e dalla inefficienza del sistema politico”, così
come di “una élite arroccata nella difesa dello status quo”,
nonché dai “processi disgregativi legati alla crisi economica” e
dalla “risposta riduttiva e/o repressiva alle domande
emergenti”124. L’“effetto di distorsione”125 aveva coinvolto
anche l’evoluzione dei movimenti. “Come il processo di
modernizzazione fallisce nella sua portata più ampia,
caricandosi di tutte le contraddizioni di una società bloccata e
122
Ibid. pp. 111-115. 123
Ibid. p. 128. 124
Ibid. p. 103. 125
Ibid. p. 108.
105
dipendente, così anche la formazione di nuovi movimenti viene
gravemente marcata dalle specifiche condizioni in cui si
realizza. Intrecciati con le spinte alla modernizzazione e
costretti a misurarsi con la chiusura sempre più rigida del
sistema politico, i nuovi contenuti antagonisti si trovano
progressivamente deviati verso la necessità di resistere alla
repressione, di lottare per l’apertura delle istituzioni, di
difendersi dalla violenza di destra e dall’oscuro disegno delle
trame nere. Immobilizzati sul terreno difensivo e angusto della
lotta contro la chiusura delle istituzioni e contro il disfacimento
del sistema politico, i contenuti emergenti dei nuovi movimenti
non vengono riconosciuti nella loro portata innovativa e si
trovano respinti al ruolo di fenomeni residuali”126. Un secondo
“effetto di sistema” era stato, per Melucci, la “trasformazione
dell’azione collettiva”. Le principali “vie” di tale
trasformazione erano state “l’istituzionalizzazione, in
particolare nella forma di selezione e ricambio di un personale
politico modernizzante per le organizzazioni di sinistra; e la
decantazione di nuove domande antagoniste legate
126
A. Melucci, “Appunti su movimenti, terrorismo, società italiana”, Il
Mulino, 256, 1978, p. 258.
106
all’identità”127. Terzo, ed ultimo, effetto di sistema era stato la
“decomposizione” dell’azione collettiva. Il terrorismo aveva
rappresentato la “risposta collettiva” più significativa e
drammatica alla decomposizione dei movimenti. In questa
ottica esso era stato, “paradossalmente”, la “filiazione”, il
“risultato più radicale e l’antitesi più profonda dei nuovi
movimenti antagonisti” a cui era stato “impedito di esprimersi
sul loro terreno proprio “e che erano “stati progressivamente
spinti a misurarsi con le contraddizioni di una società
bloccata”128.
Un secondo filone minoritario di questa prima discussione
scientifica sul terrorismo in Italia fu rappresentato dalle analisi
storiografiche che volevano elaborare un’indagine
metodologicamente diversa da quella delle scienze sociali,
raggiungendo in questo modo risultati più complessi. La
spiegazione del terrorismo (di entrambe le matrici) in chiave di
“blocco del sistema” venne formulata nel biennio ‘80-‘81
127
A. Melucci, L’invenzione del presente, op. cit. pp. 127 e 129. 128
Ibid. pp. 116 e 118.
107
anche da Nicola Tranfaglia129 uno dei primi storici che si
concentrò sul fenomeno: egli rintracciava nel caso italiano tutte
le principali componenti che di solito rendevano “bloccato” un
sistema politico e cioè mancato ricambio delle autorità, assenza
di alternanza partitica, fallimento del riformismo e infine
fenomeni di mutamento socio-economico130. Tranfaglia, pur
condividendo e accettando l’interpretazione del terrorismo
come risposta, elaborata da Bonanate131, ne elaborò una
versione originale e non monocausale in cui l’“elemento
essenziale di catalizzazione”, rappresentato dalla “situazione di
blocco”, veniva analizzato insieme a un gruppo di altre “cause
e circostanze legate alla storia italiana nel lungo periodo e
129
N. Tranfaglia, “Radici storiche e contraddizioni recenti nella crisi
italiana’’, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana. Crisi di un
sistema, Franco Angeli, Milano, 1981, pp. 21-38 (si tratta del testo
dell’intervento che Tranfaglia svolse nel corso del convegno di studio
tenutosi presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova nel
maggio del 1980) e N. Tranfaglia, “La crisi italiana e il problema storico del
terrorismo’’, in M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, op. cit. pp.
477-544. 130
Riprendo questa sintesi delle componenti principali della “teoria’’ del
“sistema bloccato’’ da G. Pasquino, “Sistema politico bloccato e insorgenza
del terrorismo’’, op. cit. pp. 180-183. 131
Oltre a quanto avrebbe osservato in “La crisi italiana e il problema
storico del terrorismo’’ (alle pp. 517-518), cfr. anche N. Tranfaglia, “Radici
storiche e contraddizioni recenti nella crisi italiana’’, op. cit. pp. 35-36.
108
all’incontro tra una certa tradizione dei movimenti
rivoluzionari del ventesimo secolo e le grandi aspettative del
‘68” 132.
La tesi di Tranfaglia vedeva un nesso essenziale tra
l’esplosione dei terrorismi e la “crisi italiana”. L’origine della
crisi, secondo lui, andava individuata nella frantumazione del
centrismo e soprattutto nel fallimento dell’esperienza
riformatrice del centrosinistra (giudizio assai diffuso tra i
sostenitori della tesi del blocco del sistema). A una
significativa “rivoluzione economica e sociale”, evidente
almeno fino al 1962, non aveva “corrisposto una ‘rivoluzione’
politica ma neppure una risposta della classe dirigente e in
generale dei partiti politici tale da attenuare il divario crescente
tra società politica e società civile”. In questo particolare
contesto andava compresa l’esplosione del terrorismo.
Tranfaglia individuava una serie di cause “importanti”,
essenziali per dare una spiegazione storica del fenomeno: la
crisi economica dei primi anni Settanta, con la conseguente
disoccupazione giovanile; lo sviluppo di un marxismo-
132
N. Tranfaglia, “La crisi italiana e il problema storico del terrorismo’’, op.
cit. pp. 517-518.
109
leninismo dai “caratteri fortemente soggettivi e messianici”;
altri fattori culturali legati alla tradizione ideologica della
sinistra italiana e ai nuovi valori emersi col ’68 (l’ “ottimismo
rivoluzionario” e la questione della violenza); la divisione delle
forze di sinistra e la “diaspora”, il “succedersi continuo di
scissioni e scontri all’interno dei gruppi della sinistra
parlamentare”; l’ “iniziata attuazione del “compromesso
storico” che, coincidendo con la “crisi mortale delle maggiori
organizzazioni della sinistra extraparlamentare e l’allargarsi
dell’area autonoma”, aveva avuto “anche l’effetto di far trovare
migliaia di giovani avversi più o meno confusamente al
“sistema dei partiti” senza nessun referente politico con il quale
fare i conti e dal quale ricavare indicazioni di condotta”; infine,
il “timore d’una drastica svolta di destra” e di una involuzione
autoritaria133. Tutti questi elementi tuttavia per quanto
importanti costituivano per Tranfaglia solo delle cause minori.
La “causa centrale” andava rintracciata infatti nel carattere
bloccato del sistema. Da un lato infatti veniva evidenziata
l’incapacità tradizionale della classe politica di saper fornire
risposte adeguate ai processi socio-economici in corso e il
133
Cfr. ibid. pp. 488-536.
110
“divario radicale” tra questa e il paese che si era ancor più
allargato nel biennio ’69-’70. Dall’altro veniva evidenziato il
carattere bloccato del sistema politico, che spingeva a una vera
e propria “disperazione da immobilismo”. Di conseguenza le
cause (e la responsabilità) del terrorismo andavano individuate
più sul piano oggettivo delle condizioni, che sul piano
soggettivo della scelta dei terroristi134. Tranfaglia concluse il
suo contributo del 1981 in maniera critica nei confronti di chi
ipotizzava che il fenomeno terroristico fosse uno strumento o
addirittura una creazione di potenze straniere. Pur non
escludendo infatti che, di fronte al possibile ingresso del PCI al
governo, si fossero mobilitati “corpi separati” e servizi segreti
italiani e fosse ritenuto, pur senza indizi, che fosse possibile
134
Ancora qualche anno dopo, Tranfaglia ribadì con chiarezza: “A rendere
possibile l’esito terroristico hanno concorso […] innanzitutto la risposta
insufficiente della classe dirigente, che tra l’altro ha mostrato per anni una
colpevole tolleranza di fronte a fenomeni di violenza diffusa nelle fabbriche
e nelle scuole (non parliamo qui del ’68 ma di quello che accade dal ’71 al
’75) e poi la situazione di blocco del sistema politico italiano che la scelta
comunista del “compromesso storico’’ non ha superato ma semmai
aggirato, creando a sua volta un vuoto a sinistra, nell’opposizione, che ha
disorientato migliaia di militanti del movimento e ha avallato la sensazione
[…] di una situazione chiusa, senza più spazio per chi fosse al di fuori di
quella logica’’ (N. Tranfaglia, “Percorsi del terrorismo. Il ’68, i ‘gruppi’ e la
crisi degli anni Settanta’’, op. cit. p. 36).
111
“che i servizi segreti dell’una e dell’altra coalizione”, e quelli
dei paesi che all’una e all’altra si richiamavano “pur essendone
formalmente fuori”, avessero teso “a mobilitarsi proprio in
questo momento” e avessero individuato “nelle Brigate rosse
un interlocutore privilegiato al quale fornire aiuti nella
prospettiva comune di fermare la ‘marcia’ del PCI nelle
istituzioni e di mantenere la situazione nel vecchio equilibrio
caratteristico di tutto il dopoguerra”, Tranfaglia rifiutava
ipotesi che individuassero le origini e lo stesso sviluppo del
terrorismo rosso principalmente in iniziative o complotti di
centrali straniere. Altri due storici dell’Università di Padova,
Severino Galante e Angelo Ventura, dedicarono studi al
“problema storico del terrorismo italiano”. I loro lavori erano
molto diversi da quelli di Tranfaglia e da quelli di quasi tutti gli
scienziati sociali protagonisti in quegli anni. Mentre infatti da
una parte ci si muoveva su un piano interpretativo cercando
una spiegazione complessiva del fenomeno terroristico,
Galante e soprattutto Ventura preferirono un taglio ricostruttivo
e si concentrarono sulle origini (soprattutto ideologiche) dei
terroristi, in particolare quelli di sinistra.
112
Galante si propose di ricostruire le “origini” del “partito
armato”, ovvero – come scriveva – di quel “peculiare soggetto
partitico” che aveva teorizzato e praticato “l’intera gamma
della violenza politica – psicologica e fisica – come
fondamentale forma di lotta per il conseguimento dei suoi fini
tattici e strategici”. Di conseguenza egli cercò di svolgere
un’indagine esaminando sia le analisi teoriche, che avevano
“generato la scelta di caratterizzare in termini militari un
intervento politico nello specifico contesto italiano”, sia “la
singolare struttura organizzativa” della quale si era “avviata la
costruzione in virtù di quella scelta”. Da ciò risultava evidente
che “tra tutti gli spezzoni teorici, politici e organizzativi
dell’estremismo di sinistra i quali, all’inizio degli anni Settanta
“avevano imboccato” la strada della lotta armata “era stato
principalmente” il gruppo di Potere operaio” quello che aveva
“occupato indubbiamente un posto di particolare rilievo tanto
per la relativa dignità della dimensione analitica quanto per lo
sforzo innovativo sul terreno della tematica organizzativa”. Ciò
non voleva dire “ridurre alla matrice esclusivamente operaista
una realtà politica” come il “partito armato”, ma tuttavia
appariva indubbio a Galante che proprio in Potere operaio
113
andasse individuata “la componente più qualificante e originale
di tale realtà, quella dotata di maggiore potenziale espansivo e
di più consistente radicamento in strati non infimi né secondari
della società italiana”.
L’analisi di Galante si concentrò sulla fase di incubazione del
“partito armato”. Egli individuò così sin dall’inizio, sulla base
dell’esame degli organi di stampa di Potere Operaio, la
presenza di un legame essenziale tra idea di abbattimento dello
Stato, violenza, organizzazione e partito, un nesso che
affondava le radici nella peculiare “diagnosi sulla crisi italiana
compiuta dai capi operaisti” e che era alimentato da essa. ”Fin
dagli inizi”– sosteneva Galante ‒ quello della violenza (anche
di tipo “offensivo”) aveva rappresentato un tema “ben presente
nella teoria e nella pratica del gruppo”: gli “operaisti scelsero
di giocare tutte le loro possibilità sulla carta della violenza”.
Nella sua ricostruzione già nel dicembre del 1970, “l’elemento
della violenza politica” (non più solo “sociale”) aveva assunto
“un ruolo centrale nella strategia di Potere operaio”, il quale
aveva proclamato “allora apertamente, per la prima volta,
l’obiettivo di costruire il “partito dell’insurrezione”, definendo
“discriminante e decisiva” la scelta della “violenza
114
rivoluzionaria”. E questa scelta non era stata, “fin d’allora”,
“né frutto di esasperata rivolta morale alla violenza del sistema
né, tanto meno, inevitabile reazione difensiva di fronte agli
attacchi antidemocratici delle ‘trame nere’”; né questa scelta
era stata giustificata nel nome di alcuna motivazione razionale.
Anzi: anche quando la violenza era presentata come strumento,
essa non appariva uno strumento, bensì lo strumento della lotta
politica: assolutizzato. Ancora metafisica, dunque. Per gli
uomini di Potere operaio la violenza andava, comunque, più
che giustificata, organizzata. E qui emergeva il nesso
essenziale tra idea di abbattimento dello Stato, violenza,
organizzazione e partito. Proprio questa necessità di
“organizzare” la violenza, aveva indotto infatti diversi
importanti esponenti di Potere operaio, già nel 1971, a vedere
sempre più come necessario il “partito”. Secondo la
ricostruzione di Galante, infatti, lo “scontro con lo Stato”
richiedeva il ricorso alla violenza organizzata e “imponeva” la
“necessità del partito”: “l’unica risposta efficace allo Stato-crisi
‒ feroce moderno Leviatano, mero potere, pura repressione –
non poteva consistere che nella distruzione di quella forma, la
più alta, del dominio capitalistico. E un compito così radicale
115
esigeva uno strumento altrettanto radicale: la violenza
organizzata e concentrata in partito”135.
Analogamente a Galante anche Ventura, nei diversi saggi
elaborati tra il 1980 e il 1984, concentrò la propria analisi (pur
con qualche ipotesi anche sul periodo successivo) sul problema
delle origini e della matrice del “partito armato” individuandole
sempre in Potere Operaio136. Questo gruppo dell’estrema
135
S. Galante, “Alle origini del partito armato’’, Il Mulino, 275, 1981, pp. 444-487. Cfr. anche (sostanzialmente identico) Id. “Teoria e organizzazione di un partito armato: da Potere operaio all’Autonomia organizzata’’, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana, op. cit. pp. 477-523. 136
Ventura espresse una dura critica nei confronti dell’interpretazione di Tranfaglia proprio per aver cancellato “Potere operaio dalle origini della lotta armata’’ e “rimosso’’ Autonomia dalla storia del terrorismo, dando cosi luogo a un “caso assai significativo di grossolana mistificazione storica’’. A. Ventura, “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’, in D. della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984, nota 86, p. 122. Riferendosi al contributo di Tranfaglia apparso nel 1981 nel volume curato da Galleni, Ventura scriveva: “Completamente ignorato è il ruolo di Potere operaio; soltanto verso la fine del lungo scritto si accorge di Autonomia, come se comparisse soltanto nel 1975, per parlarne con un’ambiguità e una reticenza che toccano il grottesco (Autonomia si colloca in una posizione “di attesa-dialogo nei confronti di chi ha fatto la scelta della clandestinità e della lotta armata’’; la responsabilità dei suoi leader consisterebbe soltanto negli “appelli idealistici [sic] all’azione immediata e alla lotta illegale“). Naturalmente, pour cause, ignora programmaticamente i documenti e i fatti più significativi. È questo un caso limite, che induce a riflettere sulla nota tesi shumpeteriana dell’irresponsabilità degli intellettuali. Una tesi non accettabile in generale,
116
sinistra veniva infatti definito dallo storico come “il principale
vettore politico – ideologico della lotta armata, il terreno di
cultura e il motore propulsivo del terrorismo, il ceppo
originario dal quale rampolleranno i rami di diverse
‘formazioni combattenti’, le strutture dell’‘illegalità di massa’ e
del terrorismo diffuso”137. Nel saggio del 1980 apparso sulla
Rivista storica italiana (il primo in assoluto elaborato in sede
storiografica) e in altri contributi apparsi in anni successivi,
Ventura criticava alcune delle principali interpretazioni
proposte dalle scienze sociali. In particolare contestava la tesi
di Ferrarotti secondo cui il terrorismo aveva profonde radici nei
meccanismi di emarginazione sociale. Secondo Ventura infatti,
tale interpretazione cadeva di fronte ai “confronti
internazionali” (bastava fare riferimento alle “ben più esplosive
sacche di emarginazione sociale e razziale esistenti negli Stati
Uniti”) e contrastava con l’evidenza che “tra i capi e i gregari
del partito della lotta armata” si trovavano “in stragrande
ma che sembra assai suggestiva e pertinente se riferita a particolari tipi di intellettuali’’. A. Ventura, “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, in C. Ceolin (a cura di), Università, cultura, terrorismo, op. cit. pp. 41-42. 137
A. Ventura, “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’, op. cit. p. 121.
117
maggioranza intellettuali, tecnici, impiegati, operai ‘garantiti’
delle grandi fabbriche, studenti per lo più di estrazione
borghese”138. Inoltre, “la culla e l’epicentro del terrorismo” si
trovavano “nelle città del nord”, mentre seguendo la tesi di
Ferrarotti, il terrorismo avrebbe dovuto “svilupparsi soprattutto
nel Mezzogiorno e nelle isole, dove più consistenti e
drammatici” erano “i fenomeni di emarginazione”139.
Secondariamente, Ventura evidenziava i limiti del tentativo di
Acquaviva di spiegare l’origine del terrorismo col vuoto creato
dalla disgregazione del sistema dei valori. Tale ipotesi centrava
“indubbiamente un aspetto importante del problema”, ma non
aiutava “minimamente a capire perché la crisi della religione,
della famiglia, della morale e via dicendo, che è fenomeno
diffuso su scala mondiale, specie nelle società industriali,
generi proprio e soltanto in Italia un terrorismo di tale
138
A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano’’, Rivista storica italiana, I, 1980, pp. 125-126 (si tratta del testo originale, arricchito soltanto di alcune aggiunte e delle note, della prolusione pronunciata da Ventura l’8 febbraio 1980 all’inaugurazione dell’anno accademico 1979-1980 dell’Università di Padova). 139
A. Ventura, “Il terrorismo: le radici e il contesto”, in L’università per la democrazia contro la violenza mafiosa e politica (Palermo, 15-16 giugno 1980), Le edizioni dell’art. 9, Palermo, 1982, p. 25.
118
virulenza”140. Infine Ventura criticava definendola
“manifestamente infondata”141 anche l’interpretazione di
Bonanate del terrorismo come risposta a una situazione
bloccata. A suo parere, essa poteva “forse applicarsi ad altri
paesi, ma non all’Italia”: “qui infatti il terrorismo è nato con le
‘trame nere’ per bloccare il tentativo riformatore del centro-
sinistra, volto ad allargare le basi della democrazia e gli spazi
di libertà, a modificare in senso progressivo i rapporti
economici e di potere tra le classi; ed è proseguito poi nella
fase del terrorismo ‘rosso’ col fine dichiarato di contrastare il
crescente potere dei sindacati e il ‘compromesso storico’:
tendenze, comunque vogliamo giudicarle, volte bensì a
consolidare il sistema politico e sociale italiano, ma non senza
modificarlo profondamente”142. Critico nei confronti di queste
“semplificazioni” che davano una “visione parziale, e talvolta
fuorviante, della realtà storica”143e convinto del carattere
140
A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. pp. 126-127. 141
A. Ventura, ’’Il terrorismo: le radici e il contesto”, op. cit. p. 26. 142
A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italiano” op. cit. p. 126. 143
A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. p. 125.
119
“estremamente complesso del fenomeno”144, Ventura effettuò
la propria ricerca sulla base di una ricca documentazione e
secondo un metodo ricostruttivo caratterizzato da un’analisi dei
“diversi fattori” che, nello “specifico contesto storico” italiano,
avevano contribuito alla nascita del terrorismo145. Ventura
innanzitutto cercò di individuare il soggetto: ovvero il “partito
della lotta armata”146 identificandolo con l’intero “fronte
eversivo” di sinistra. Convinto che il “nodo centrale della trama
terroristica” andasse individuato nel “rapporto dialettico tra
terrorismo e ‘illegalità di massa’, tra Br, Prima Linea e
Autonomia operaia”, Ventura riteneva – e questa fu la sua
contestata147 tesi ‒ che si dovesse parlare di “uno stesso
144
A. Ventura, “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’, op. cit. p. 77. 145
Ibid. 146
A. Ventura, “Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. p. 127. 147
Si veda in particolare il durissimo intervento di D. Fiorot, “Il problema del terrorismo italiano: considerazioni critiche sulla prolusione del prof. Angelo Ventura’’, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana, op. cit. pp. 565-580. Ventura avrebbe brevemente (ma non meno duramente) replicato a Fiorot in “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, op. cit. nota 11, p. 40. Per comprendere polemiche così aspre appare forse opportuno ricordare anche il clima infuocato (particolarmente a Padova) all’indomani dell’inchiesta giudiziaria promossa dalla Procura della Repubblica a carico dell’Autonomia organizzata e condotta dal giudice Pietro Calogero. Per la
120
disegno politico complessivo” e di “una strategia unitaria di
lotta”, e dunque di un solo “partito della lotta armata”148. Egli
distinse quattro fasi nello sviluppo del terrorismo “rosso”
dedicandosi all’analisi della “genesi”, delle “vicende” e delle
“strutture” di questo partito. La prima era quella più importante
e dunque sulle “origini” (1969-1972) Ventura concentrò la sua
analisi. Il “partito della lotta armata” ‒ notava lo storico ‒ era
nato “come contraccolpo delle grandi lotte operaie dell’
“autunno caldo” del ’69, quando l’eccezionale vittoria della
linea contrattuale “aveva aperto “una fase di forte ripresa dei
posizione di Ventura (di sostanziale condivisione, soprattutto per aver messo “in luce il percorso politico-militare e organizzativo di Potere operaio e Autonomia organizzata, le loro strutture clandestine terroristiche, i rapporti con le Brigate Rosse, l’intensa circolazione di militanti, armi e documenti tra le diverse formazioni eversive’’) di fronte all’inchiesta di Calogero (e degli altri magistrati) e al “polverone alzatosi dopo il 7 aprile’’, cfr. A. Ventura, “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, op. cit. pp. 38-43. Occorre aggiungere che, nel già ricordato saggio “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra’’ pubblicato nel 1984 (si veda in particolare a tal riguardo la nota 150 a p. 148), Ventura avrebbe anche fatto diversi riferimenti, di tipo quasi esclusivamente “documentario’’ e “fattuale’’, alla Requisitoria del sostituto procuratore Pietro Calogero nel procedimento contro Autonomia (così come pure a numerose altre requisitorie di altri magistrati). 148
A. Ventura, “La responsabilità degli intellettuali e le radici culturali del terrorismo di sinistra’’, op. cit. pp. 36-37.
121
sindacati” che aveva spiazzato “nell’isolamento i gruppi
estremistici, come Potere operaio e Lotta continua, formati per
lo più da intellettuali e studenti d’estrazione borghese, che in
quella imponente ondata di agitazioni operaie avevano creduto
di trovare finalmente la verifica delle teorie che erano venuti
elaborando negli anni Sessanta, la grande occasione storica
rivoluzionaria”. L’“autunno caldo” si era concluso invece con
un “successo sindacale senza precedenti nella storia della
Repubblica”. Il “grande movimento del biennio ’68-‘69” aveva
generato “così una straordinaria affermazione del prestigio e
del potere dei sindacati”. La “presunta ‘autonomia’ operaia,
teorizzata dai gruppi estremistici come indipendenza e
contrapposizione della ‘classe’ ‒ la ‘rude razza pagana’ della
mitologia operaistica ‒ rispetto ai sindacati e ai partiti storici
del movimento operaio e socialista”, si era dimostrata perciò
“alla prova dei fatti un’illusione ideologica”. E di conseguenza
il “disegno rivoluzionario degli intellettuali operaisti” aveva
visto “venir meno quella che avrebbe dovuto costituire la sua
base di massa, la forza d’urto che sembrava a portata di mano”.
L’organizzazione e la centralizzazione erano divenute così,
“direttive fondamentali e prioritarie”. Ventura osservava che
122
“parallelamente”, ”attraverso un analogo processo”, il
“Collettivo Politico Metropolitano di Curcio” aveva compiuto
la “scelta della lotta armata” e generato “le Brigate Rosse
(novembre 1970)”. Quasi un anno dopo nacque “l’apparato
militare clandestino di Potere Operaio”, che si affiancava
“nella lotta armata alle BR e ai GAP di Feltrinelli”: “la
discriminante della lotta armata – secondo Ventura ‒
contrappone nettamente queste organizzazioni a tutti gli altri
gruppi della nuova sinistra, tra i quali tuttavia si distingue
ancora, fino al 1973, per una adesione almeno teorica alla
scelta “militarista”, l’ambigua e oscillante posizione di Lotta
Continua, alcuni spezzoni della quale continueranno anche in
seguito a gravitare verso l’area della lotta armata”. Le tre
formazioni clandestine secondo Ventura, avevano intrecciato
“sin dalle origini stretti rapporti logistici e operativi”. Dopo la
morte di Feltrinelli spiegava Ventura: “scioltisi i GAP, i
superstiti confluiscono nelle BR, ma queste, individuate e
duramente colpite dall’azione degli inquirenti, sono costrette a
loro volta a calarsi nella più rigorosa clandestinità, e debbono
quindi abbandonare il terreno dell’azione di massa”. Veniva
così a determinarsi una “sorta di divisione del lavoro
123
all’interno del fronte della lotta armata”. Tra il 1972 e il 1973
si venne “configurandosi” la “strategia e le strutture del partito
della lotta armata e della guerra civile”, il quale – e questo era
il punto centrale dell’interpretazione di Ventura ‒ era unico. La
sua storia era “intessuta di lotte di frazione, politiche e di
potere, di contrasti ideologici e di rivalità personali, di scissioni
e aggregazioni”. Tuttavia tutto ruotava attorno a uno stesso
“asse centrale politico-organizzativo e nell’ambito d’una
comune strategia complessiva”. La seconda fase della storia del
terrorismo (1973-1977) su cui Ventura si è soffermato più
rapidamente era stata caratterizzata da una “crescente
convergenza e omogeneizzazione tra i diversi filoni del partito
della lotta armata”. Determinante in questo senso era stata la
“funzione egemonica esercitata dall’asse centrale del partito
della lotta armata”, che si era determinata “nella convergenza
di Autonomia Operaia e BR”: convergenza – osservava
Ventura – che si fondava sul principio che la lotta armata,
come affermato da Toni Negri nel 1974, rappresentava “il solo
momento strategico fondamentale”, il “filo rosso
dell’organizzazione”, ovvero che era “intorno alla guerriglia”
che si costruiva “il movimento di resistenza e l’area
124
dell’autonomia”. La terza fase (1977) era stata contraddistinta,
secondo Ventura, dall’escalation del terrorismo, dallo sviluppo
impetuoso di un nuovo “movimento” e dalla esplosione di
“contraddizioni nel partito armato”. I “grandi cortei che a
Roma (12 Marzo), Bologna, Milano e Padova” avevano
consentito “a nuclei “guerriglieri” di Autonomia di attaccare a
mano armata, sparando contro la polizia e assaltando le
armerie” avevano aperto una “fase” nuova. Il delitto Moro, che
aveva innalzato “lo scontro nel “cielo della politica” ad un
livello difficilmente rapportabile all’esigenza di massificare la
lotta armata” aveva aperto, a parere di Ventura, l’ultima fase,
quella “critica” del partito armato. L’ala di Autonomia,
“rimasta spiazzata nella condotta dell’affare Moro” aveva
reagito “aspramente, definendo le BR ‘variabile impazzita’ del
movimento”, ma aveva raccolto “la sfida sullo stesso terreno,
rilanciando il terrorismo ai più alti livelli, intensificando il
cosiddetto ‘terrorismo diffuso’ e scatenando la violenza di
“massa”, vale a dire le azioni squadristiche”. Da parte loro,
invece le BR, ”preoccupate di recuperare consensi”, avevano
aggiustato “il tiro, riguadagnando con sanguinosi attentati a
dirigenti industriali l’originario terreno della fabbrica”. Un
125
secondo nucleo dell’analisi di Ventura fu funzionale a
identificare la “natura sociale e culturale” del “partito della
lotta armata”, e a farlo “a partire dall’ideologia “. Il nucleo
ideologico del partito armato era per Ventura chiaro:
“Sviluppando sino alle conseguenze più radicali il nucleo
teorico originariamente elaborato da Mario Tronti a metà degli
anni Sessanta, gli ideologi di Potere Operaio compiono fino in
fondo il percorso, spesso confuso e contraddittorio, che dal
marxismo-leninismo conduce al nichilismo, dalla dialettica
all’irrazionalismo, dalla critica del capitalismo al rifiuto della
società industriale, dall’operaismo al populismo”149.
Soprattutto se si guardava ai due “passaggi fondamentali” di
tale concezione (“la riduzione della teoria a mero momento
della prassi, della lotta di classe” e quindi “la negazione
radicale della dialettica e della ragione”), era soprattutto il
“fondo irrazionalistico di questa concezione”150 – che Ventura
non esitava a definire di chiara “miseria teorica”151 – a
emergere con “prepotenza”. Ultimo passaggio del percorso di
149
A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italian”’, op. cit. pp. 141-142. 150
Ibid. p. 144. 151
A. Ventura, “Il terrorismo: le radici e il contesto”, op. cit. p. 40.
126
Ventura era l’analisi della “dimensione politica”, che
riconduceva “in una diversa e più generale prospettiva, all’altra
faccia del terrorismo, considerato come funzione dei conflitti
internazionali di potenza e della crisi politica italiana”152. Da
questo punto di vista, il terrorismo andava visto in rapporto con
l’azione degli “apparati occulti degli Stati” (“spesso operanti
autonomamente e talvolta anche in contrasto con gli organi del
potere politico”) quali “strumenti attivi e soggetti di politica
interna ed estera”, e con “le degenerazioni mafiose della lotta
politica in Italia”153. Ventura era contrario a una “teoria del
complotto”154 e convinto invece che “le organizzazioni
eversive e terroristiche neofasciste e, a maggior ragione quelle
di sinistra”, costituissero “per lo più movimenti per così dire
spontanei ed endogeni, nati e sviluppatisi originariamente in
modo autonomo, con propria storia politica e ideologica”155.
Tuttavia, consapevole di trovarsi in questo caso “su un terreno
estremamente infido per lo storico”156, egli si dichiarava
152
A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italiano”’, op. cit. p. 127. 153
Ibid. p. 147. 154
Ibid. p. 148. 155
A. Ventura, ’’Il terrorismo: le radici e il contesto”, op. cit. p. 44. 156
A. Ventura, ’’Il problema storico del terrorismo italiano”, op. cit. p. 150.
127
“certo” di una cosa: “nessuna organizzazione terroristica, che
non affondi le radici in tensioni etniche o in una disgregazione
generale del sistema quale certo non si dà in Italia, può
svilupparsi e operare intensamente per così lungo periodo
senza coperture e appoggi ad alto livello, nazionali o esterni.
Tutti i confronti internazionali lo comprovano”157. Ciò era vero
tanto per il terrorismo “nero” quanto per quello “rosso”. Anche
“la più prudente valutazione storica” doveva dunque
“ammettere che forze potenti e occulte” avevano agito “quanto
meno per coprire e utilizzare il partito armato, soprattutto dopo
che le indagini sulla strage di Piazza Fontana, quelle sulla
‘Rosa dei Venti’ condotte dal giudice Tamburino, ed altre
analoghe inchieste su episodi eversivi, avevano bruciato le
trame ‘nere’”. Non era “minimamente pensabile – osservava
Ventura – che gli efficienti servizi di sicurezza delle principali
Potenze, dell’Ovest e dell’Est” si fossero disinteressati
“completamente” del “partito della lotta armata”158. Anche per
lo studioso di oggi, il dibattito che ebbe luogo tra il 1977 e il
1984 rappresenta un caso di notevole interesse pur con tutti i
157
Ibid. p. 147. 158
Ibid. pp. 150-151.
128
limiti di molte di queste prime riflessioni. Si trattava di analisi
che andavano verso un piano diverso rispetto a quello
ideologico o politico-partitico. I limiti della loro “scientificità”
erano dati in alcuni casi da un atteggiamento particolarmente
“militante” del singolo studioso, ma più spesso erano evidenti
soprattutto il contesto “emergenziale” nel quale questi primi
studi erano stati concepiti e la drammatica “attualità” della
sfida da affrontare. Questo spiega, da un lato, la presenza in
questi contributi di un tono spesso “partecipato” e preoccupato,
così come di un livello prescrittivo e operativo, accanto a
quello semplicemente descrittivo-interpretativo, e, dall’altro, il
significativo ruolo, il peso e l’influenza che su tali riflessioni,
che pure ambivano a essere scientifiche, continuavano a
esercitare convinzioni, valutazioni e talvolta pregiudizi legati
alle culture politiche di appartenenza di ciascuno studioso. Un
secondo limite di molte di queste interpretazioni può invece
essere individuato nella loro pretesa di validità assoluta e nella
ambizione a formulare una spiegazione unitaria e complessiva.
Il problema di gran parte di queste ipotesi va, quindi,
rintracciato nella loro aspirazione a spiegare da sole il
terrorismo, riducendo un fenomeno molto complesso a
129
un’unica chiave interpretativa e a una causa unica. Il terzo
limite è rilevato da Ventura già dal 1980: alcune di queste
interpretazioni, “anziché procedere induttivamente
dall’osservazione del fenomeno” cercavano di “descriverne
apoditticamente le presunte ‘condizioni oggettive’”, ponendo
così non sempre in primo piano l’“oggetto specifico della
ricerca, cioè il terrorismo: la sua genesi, lo sviluppo,
l’ideologia e l’organizzazione, in una parola la sua storia”. Ma
– come ha ammonito uno dei più importanti storici del
“fenomeno” terrorista – “vedere nelle ‘condizioni oggettive’ la
chiave per la comprensione del fenomeno del terrorismo nella
nostra epoca vuol dire inseguire una chimera”159. Dopo questo
primo dibattito viene privilegiato l’approccio della Resource
mobilization theory (RMT, teoria della mobilitazione delle
risorse)160, allora dominante nella sociologia dei movimenti
sociali. Esso è rappresentato dall’analisi del sociologo
americano Sidney Tarrow che si estrinseca in termini di cicli di
159
W. Laqueur, ’’Introduzione alla edizione italiana’’, in Id, Storia del terrorismo, Rizzoli, Milano, 1978, p. 6. 160
La Resource mobilization theory, create negli anni Settanta, costituisce la spina dorsale e una delle correnti fondamentali della sociologia anglosassone dei movimenti sociali. Si basa sull’analisi razionale e strategica delle organizzazioni, delle risorse e delle opportunità.
130
mobilitazione (cycle of protest o cycle of collective action).
Ovvero: “Un’ ondata, prima crescente poi decrescente, di
azioni collettive legate tra loro, e delle rispettive reazioni”161.
Un ciclo di mobilitazione si apre quando alcuni “conflitti
strutturali” incontrano una “struttura delle opportunità
politiche” (SOP) favorevole. I conflitti possono essere di due
tipi. Il primo è quello politico: negli anni della Guerra fredda il
PCI è escluso dalle alleanze di governo nonostante i suoi
successi elettorali (conventio ad excludendum). Questa
situazione rinforza l’egemonia democristiana e l’assenza di
ricambio (Tarrow riprende quindi la tesi del blocco del sistema
politico). Il secondo è quello sociale: il passaggio dell’Italia
“verso il capitalismo maturo” conduce a una ristrutturazione
profonda della società. Viene fuori una nuova classe media che
non si sente rappresentata dagli organismi tradizionali. Come
conseguenza poi di un numero importante di spostamenti
interni dal Sud agricolo verso il Nord industrializzato nasce
una parte della classe operaia giovane e aperta nei riguardi
161
Sidney Tarrow, Cycles of collective action: between moments of madness and the repertoire of contention, in Mark Traugott (a cura di), Repertoires and Cycles of Collective Action, Duke University Press, Durham-London 1995, p. 95.
131
delle contestazioni sessantottine. La SOP è definita
globalmente da quattro elementi: il grado di apertura o di
chiusura delle istituzioni, la stabilità o l’instabilità degli
schieramenti, la presenza o l’assenza di alleati influenti a
sostegno di un dato movimento, l’esistenza di frammentazioni
nelle classi dirigenti. Secondo Tarrow, l’esperienza del
centrosinistra al potere apre la SOP e influisce nel determinare
dissidi tra i partiti. Alcuni successi ottenuti all’inizio del ciclo,
come ad esempio lo Statuto dei lavoratori del 20 maggio 1970,
accrescono la vulnerabilità del sistema e favoriscono le
rivendicazioni. Le date prese in considerazione da Tarrow (dal
1966 al 1973) escludono la metà degli anni Settanta. Tranne
quando l’autore propone una “legge generale” (che come è
stato dimostrato confrontando gli anni di piombo con altri
fenomeni simili, generale non è): quando vengono
istituzionalizzati i gruppi contestatari che hanno dato il via al
ciclo, la maggioranza smobilita ed ecco radicalizzarsi lo
scontro armato che esprime una speranza perduta162. La
162
Sidney Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990. Il concetto di SOP ha dato luogo a una lunga serie di definizioni. I criteri aumentano a tal punto che alcuni dubitano della sua utilità (per esempio, Olivier Fillieule).
132
nozione di SOP non permette di studiare nel profondo i temi
dell’alternanza al governo o della capacità di alleanza tra i
gruppi extraparlamentari e i sindacati e partiti politici
tradizionali, i quali sono fondamentali per comprendere la
situazione dell’Italia. Consente invece di evidenziare un altro
aspetto: il livello di repressione, che secondo Donatella della
Porta è una specie di barometro della SOP. Paragonando la
situazione dell’Italia e quella della Repubblica Federale
Tedesca, la politologa e sociologa mostra come nel nostro
paese le misure repressive siano state più brutali e allo stesso
tempo meno selettive. Basti ricordare che tra il 1947 e il 1969
quasi 90 manifestanti o scioperanti italiani sono morti sotto il
fuoco della repressione dei conflitti di lavoro, contro una
dozzina in Francia. I feriti sono stati 674, gli arrestati circa
Generalmente è accettata anche la confutazione della “legge generale’’: a seconda dei contesti la mobilitazione è favorita dall’apertura o dalla chiusura della SOP. Le prospettive derivate da tale nozione ne mettono in luce i limiti della prima versione: il trasferimento del carattere oggettivo, per il ricercatore della SOP, in una percezione soggettiva attraverso gli attori. Questo determina che una condizione necessaria non è sufficiente finchè non è colta dagli attori stessi. D’altro canto i promotori del processo politico (Doug McAdam, Sidney Tarrow e Charles Tilly) ne hanno preso coscienza in Dynamics of Contention, dove passano a teorizzare una comprensione “situata’’ (in relazione a una data congiuntura) e soprattutto soggettiva della SOP.
133
80.000. Tra il 1970 e il 1979 sono morte 21 persone. Questi
dati portano a sollevare dubbi sulla imparzialità delle forze
dell’ordine che sembrano essere l’incarnazione delle correnti
più reazionarie163. La seconda particolarità è data dall’intensità
a livello cognitivo ed emotivo, dell’esperienza del fascismo,
simile a quella del Giappone e della Germania, gli altri due
paesi toccati dal fenomeno della lotta armata. In questo periodo
in Italia il ricordo della guerra resta presente e l’attivismo di
estrema destra è inflessibile (Ordine nuovo, Ordine nero,
Avanguardia Nazionale). Tra il 1969 e il 1975 l’83 per cento
delle azioni di violenza politica, e 63 vittime su 92 sono
riconducibili a formazioni neofasciste. I militanti della sinistra
extraparlamentare giustificano gli scontri denunciando
l’aggressività originaria “fascista” e la complicità delle forze
dell’ordine. Si rifanno tuttavia anche alla tradizione
resistenziale e al concetto della lotta di classe. A tutto questo si
deve aggiungere l’utilizzo della violenza fascista quale
strumento di contro mobilitazione da parte della DC164. Ovvero
la complicità di una parte dello Stato nella strategia della 163
Isabelle Sommier, La violence politique et son deuil, op. cit. 164
Alberto Melucci, L’ invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali, il Mulino, Bologna 1982, p. 110.
134
tensione, nel golpe e negli attentati di estrema destra. Il primo,
quello di piazza fontana, inaugura una lunga serie di “stragi di
Stato”, chiamate in questo modo per la collusione tra i servizi
segreti e i terroristi che, dal dicembre del 1969 all’agosto del
1980 (con la strage di Bologna), provocano 127 morti e 506
feriti. Alla fine degli anni Ottanta, con la “svolta culturale”
della sociologia dei movimenti sociali, più attenta ai valori e
alle esperienze di vita degli attivisti, maggiore attenzione viene
rivolta ai singoli processi di radicalizzazione. Tramite tale
prospettiva microsociologica, alcuni elementi vengono
reinterpretati alla luce del vissuto dei protagonisti. Non si
indagano più le cause ma le dinamiche degli eventi. All’inizio
gli studiosi seguono i meccanismi soggettivi di
rappresentazione dello Stato come nemico, nel lento passaggio
dalla categoria iniziale di avversario. La strage di piazza
Fontana è il simbolo del “trauma originale”, la “scissione
irreparabile”, la “fine dell’innocenza”, come riportato dai
protagonisti165. Questo evento estremizza le sensazioni
negative nei confronti dello Stato, latenti dal fascismo. La
tensione cresce dopo i fatti successivi all’attentato, in particolar
165
Isabelle Sommier, La violence politique et son deuil, op. cit.
135
modo dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Intanto le
stragi di Stato continuano con cadenza periodica estremizzando
la polarizzazione tra destra e sinistra: Gioia Tauro il 22 luglio
1970 (6 morti e 50 feriti), piazza della Loggia a Brescia il 28
maggio 1974 (8 morti e 94 feriti), l’Italicus il 4 agosto dello
stesso anno (12 morti e 48 feriti), Bologna il 2 agosto 1980 (85
morti e 200 feriti). In un secondo momento vengono affrontate
le dinamiche di socializzazione alla violenza. Al riguardo sono
evidenziati due meccanismi: da un lato gli scontri con
l’estrema destra; dall’altro, le logiche di opposizione all’interno
della sinistra extraparlamentare. Donatella della Porta
sottolinea che in Italia come in Germania lo Stato viene
considerato il “nemico assoluto”166. Sia gli italiani che i
tedeschi giustificano le loro azioni con motivi di tipo morale e
hanno una visione ed un’esperienza dell’attività politica
totalizzanti. Tuttavia si differenziano per le situazioni che
portano all’escalation della violenza e le relative
giustificazioni: gli scontri con i neofascisti in Italia e una
sensazione di isolamento crescente in Germania. Tra gli altri 166
Donatella della Porta, Social Movements, Political Violence and the State. A Comparative Analysis of Italy and Germany, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 149-164.
136
elementi che aumentano l’escalation dell’estrema sinistra
italiana in questo periodo, vi è la tendenza a misurare il valore
rivoluzionario a seconda delle propensioni al combattimento
dei militanti che, contando sulle doti fisiche, consentono a uno
schieramento di primeggiare rispetto agli altri. Questa
competizione interna spiega la concomitanza, dal 1972, tra le
svolte militariste di Potere operaio e di Lotta continua. Inoltre
fa capire il motivo per cui i loro servizi d’ordine saranno i vivai
delle future organizzazioni clandestine. Il 38 per cento di
attivisti di gruppi armati infatti proviene proprio dalla sinistra
extraparlamentare e l’84 per cento dalle frange autonome. In un
contesto simile appare la seconda formazione armata per
importanza cioè Prima linea fondata nel 1976 da alcuni
militanti “orfani” di Lotta Continua. Mentre molti autonomi
confluiscono nei Proletari armati per il comunismo (PAC), da
Lotta continua e da Potere operaio nascono i Nuclei armati
proletari (NAP), le Formazioni comuniste combattenti (FCC),
le Formazioni comuniste armate (FCA), le Unità comuniste
combattenti (UCC), i Comitati comunisti rivoluzionari
(COCORI). La “competizione” dura fino a quando i brigatisti
non affermano la propria supremazia. Per le BR le varie tappe
137
dell’escalation della violenza (1973-1974, 1977-1978) sono
occasioni per rafforzare la propria struttura clandestina in
maniera centralizzata. In questo modo sono meno vulnerabili
all’antiterrorismo diventando il rifugio degli altri attivisti. In
terzo luogo si analizzano le reti militanti e le relazioni tra i
protagonisti. L’avvocato Claudio Novaro analizza la storia di
venti amici della val di Susa che entrano in Prima linea167. Su
1214 attivisti studiati da Donatella della Porta, 843 hanno una
persona conosciuta nel gruppo. Nel 74 per cento dei casi, il
nuovo arrivato ne ha più di uno; nel 42 per cento, più di
sette168. La sociologa italiana considera il reclutamento una
specie di “conversione” (nel senso di Peter L. Berger e Thomas
Luckmann)169 che obbedisce a facilitating factors (precedenti
esperienze di violenza e “fedeltà a un amico”) e a precipiting
factors (solidarietà verso un conoscente arrestato o reazione
dopo la morte di un altro)170. Il passaggio di una persona alla
167
Claudio Novaro, Reti di solidarietà e lotta armata, in Raimondo Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, il Mulino, Bologna 1990. 168
Donatella della Porta, op. cit. p. 167. 169
Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 2009. 170
Donatella della Porta, op. cit. p. 170.
138
lotta armata può avvenire senza una presa di coscienza alla
base. Il legame di affetto tra i militanti è tenuto in vita dalla
eccitazione derivante dal correre rischi insieme in una dinamica
propria dei piccoli gruppi con al massimo cinque persone. I
legami sono più significativi delle volontà dei singoli. Questa
logica spiega bene il motivo per cui le posizioni si
estremizzano nel momento in cui il ciclo di protesta è al
termine o quasi. L’avanzare degli studi e delle ricerche
comprende mano a mano dimensioni macro, meso e
microsociologiche dando una visione più completa. Alcune
aree tuttavia, non sono state ancora analizzate o lo sono state in
maniera superficiale. Non ci si è occupati infatti degli elementi
di lunga durata della storia italiana: la condizione di estraneità
dello Stato e il ritorno periodico dei meccanismi di ribellione
sociale. Sono rare anche le analisi delle condizioni
socioeconomiche che rappresentano l’humus delle
contestazioni degli anni Sessanta e Settanta. Questa mancanza
è da imputare:
1) Al declino di un approccio marxista dei movimenti sociali in
termini di lotta di classe
139
2) Alla fortuna che gode una visione generazionale
3) A una visione generazionale che sia coerente con le
implicazioni storiografiche del periodo
4) Ad analisi indirizzate preferibilmente verso i fenomeni
eccezionali, e all’uso di strumenti empirici e teorici diversi da
quelli usati per capire il funzionamento dell’azione collettiva e
del sistema politico.
Da questo deriva la necessità di capovolgere la prospettiva, al
fine di evitare di condurre una analisi infinita sulla lotta armata.
Bisognerebbe infine trattare l’argomento da un punto di vista di
ampio respiro evitando di cadere nelle tesi cospirazioniste (che
trasformano ad esempio i brigatisti in agenti della Stasi o dei
servizi segreti italiani, come suggerito da alcune
“testimonianze”). Molto importante è prendere in
considerazione il contesto internazionale per capire i legami e
le influenze reciproche tra i gruppi italiani e quelli stranieri nel
contesto della contestazione del ‘68 e anche per ricostruire il
ruolo dell’Italia nella Guerra fredda, la parte svolta dal piano
Gladio nella strategia della tensione e più in generale il peso
140
della NATO. Le analisi a riguardo sono parziali e compaiono
di solito negli studi sul terrorismo nero a tutt’oggi troppo
sporadici.
2.2 Storiografia, pubblicistica, uso pubblico della
storia
Secondo Jedlowski, mentre la memoria ha la funzione di
preservare l’identità, la storiografia ha, o dovrebbe avere, il
compito di ricostruire con mezzi e metodi scientifici, ciò che è
accaduto171. Gallerano ci fa poi riflettere sulla funzione della
storiografia: funzione pubblica della storiografia; regolazione
della memoria e dell’oblio per plasmare i tratti dell’identità
collettiva di una comunità e distinguerla dalle altre; costruire,
attraverso il passato, un progetto e una profezia del futuro:
sono i connotati visibili dell’impresa storiografica fino ai tempi
recenti e mai completamente dismessi; e sono, al tempo stesso,
gli elementi forti di ciò che contraddistingue l’uso pubblico
171
P. Jedlowski, memoria, in dizionario di Storiografia, pbm storia.
141
della storia172. Inoltre, e non si deve sottovalutare, la
storiografia è base anche della manualistica scolastica e della
possibilità di avere capisaldi e cardini su cui fare perno per la
costruzione e la divulgazione di sensati, coerenti studi e
ragionamenti; la storiografia ci può fornire fondamenti
sufficientemente scientifici tali da fare uscire temi come quello
delle stragi dalla polemica pubblica, e soprattutto politica, e
dalla sensazione di totale mistero in cui, a volte, si tende a
volerli avvolgere. “Laddove la storiografia si ritrae, subentra il
giornalismo” afferma Mario Isnenghi173, e ancor di più quando
subentra il giornalismo, sovente, e soprattutto rispetto al tema
del terrorismo, subentra la polemica e la strumentalizzazione
che, evidentemente, frenano e impediscono la comprensione.
Per quanto riguarda i manuali, questo aspetto verrà
approfondito nel terzo capitolo, quando ne analizzerò di diversi
dal punto di vista della casa editrice, dell’autore e dell’anno di
pubblicazione.
172
N. Gallerano, Le verità della storia scritti sull’uso pubblico del passato, Manifestolibri, Roma, 1999, p. 43. 173
M. Isnenghi, La Marcia su Roma, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 313
142
Come abbiamo già visto precedentemente, cercare di tracciare
un bilancio dei lavori storiografici e non che hanno come tema
le stragi avvenute in Italia in età repubblicana e quindi i
terrorismi di entrambe le matrici porta ad analizzare un insieme
di opere disomogeneo e a volte contraddittorio. L’evidenza dei
fatti ci evidenzia come il lavoro storico in questo campo sia
condizionato da numerosi problemi e difficoltà, primo fra tutti
quello delle fonti. Un tema fondamentale e più volte affrontato
in particolare da Paola Carucci174, che fece un’approfondita
analisi delle poche fonti disponibili e delle grandi difficoltà del
reperimento di altri documenti importanti per l’analisi di questi
avvenimenti. Le fonti più rappresentate e utilizzate, insieme ai
documenti raccolti o prodotti dalle commissioni parlamentari
d’inchiesta, sono quelle giudiziarie: l’utilizzo delle fonti
giudiziarie è importante per la ricostruzione del passato.
Questo è vero in tutti i luoghi e tempi. Vale soprattutto quando
un importante tratto di storia è profondamente legato al
174
P. Carucci, Fonti documentarie sulle stragi, in C. Venturoli (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi, Marsilio, Venezia, 2000. Un ulteriore analisi degli archivi è in A. Giannuli, L’armadio della Repubblica, supplemento a L’Unità, Roma, 2005
143
fenomeno criminale175. Spesso, per quanto riguarda in primis la
strage del 2 agosto 1980, sono state pubblicate le sentenze o le
requisitorie per iniziativa dell’Associazione dei familiari delle
vittime. Indubbiamente l’intreccio fra storia e indagini
giudiziarie è complesso. Tuttavia lo scopo del giudice è diverso
da quello dello storico, come è ovvio che sia. Al riguardo Marc
Bloch176 aveva affrontato questo tema e Carlo Ginzburg177
sottolineava che compito dello storico è la ricostruzione, la
contestualizzazione e la comprensione degli avvenimenti, non
la condanna o la assoluzione; lo storico, inoltre, ha il diritto di
scorgere un problema là dove un giudice deciderebbe un non
luogo a procedere. Nel nostro caso però è anche avvenuto che i
giudici si siano trovati a dover fare il lavoro di
contestualizzazione, quasi a supplire o affiancare il lavoro degli
storici che, soprattutto negli anni in cui si svolgevano i primi
processi era, forse anche comprensibilmente, carente178.
175
G. Tamburrino, Ricerca storica e fonti giudiziarie, in C. Venturoli, Come studiare, op. cit. p. 75 176
M. Bloch, Apologia della storia o mestiere dello storico, Einaudi, Torino, 1991, pp. 123-127 177
C. Ginzburg, Il giudice e lo storico, Einaudi, Torino, 1991. 178
L. Grassi, in C. Venturoli, Come studiare, op. cit. p. 117.
144
Fra i primi studi in cui si analizzavano in modo sistematico i
temi di cui parliamo dobbiamo ricordare l’importante lavoro
elaborato da Franco De Felice nel 1989, nel quale l’autore
cercava di mettere a punto una prima teorizzazione e
proponeva una interpretazione, una contestualizzazione e una
analisi delle radici degli avvenimenti. In un convegno
organizzato dall’Istituto Gramsci di Roma nel ventennale della
strage di Piazza Fontana, De Felice propose una “ipotesi di
approccio alla storia dell’Italia repubblicana verificando
l’aderenza realistica e le possibilità euristiche di una categoria
generale come ‘doppio Stato’”179, propose una analisi sul
reciproco condizionamento fra Costituzione repubblicana e
sistema di alleanze internazionali, sul “nesso nazionale-
internazionale”180, sul ruolo di compressione democratica
svolto dagli apparati dello stato visibile con la procrastinazione
dell’attuazione del dettato costituzionale e rallentando le
riforme, fino ad arrivare alla violenza e all’illegalismo degli
anni Sessanta, introducendo la categoria del doppio Stato.
Questo lavoro di De Felice ha profondamente segnato non solo 179
F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi Storici’’,
luglio/settembre, anno 30, 1989, p. 493 180
F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, op. cit. p. 499.
145
la storiografia ma anche un pubblico molto più vasto degli
studiosi di storia. La rigorosa analisi effettuata in quel saggio,
caratterizzato dalla complessità dei concetti e dell’argomentare,
cercava di mettere a fuoco i condizionamenti internazionali
iscritti nello scenario della guerra fredda che si esprimevano,
secondo questa interpretazione, anche in una doppia lealtà
richiesta ai gruppi dirigenti europei. Franco De Felice rifuggiva
da qualsiasi tesi del complotto in modo esplicito e ripetuto,
mettendo sul tappeto questioni molto rilevanti per la
comprensione di quel periodo della storia repubblicana. I
problemi sono sorti nell’interpretazione e nell’uso che di queste
categorie è stato fatto nei momenti successivi la loro
formulazione181. Nel saggio di De Felice troviamo l’analisi di
temi molto interessanti: il rapporto fra nazionale e
internazionale e gli effetti distortivi provocati in Italia dalla
“doppia lealtà” a cui si faceva riferimento, la particolare
asprezza del conflitto che i politici erano chiamati a sostenere
sul piano interno e la crisi di legittimità della classe dirigente.
Secondo De Felice, il dilagare della violenza di quegli anni
181
L. Paggi, prefazione, in F. De Felice. La questione della nazione
repubblicana, GLF editori Laterza, Roma, 1999.
146
rimanda alla compresenza di contrasti non ricomponibili. Lo
storico suggeriva proposte di discussione. “La seconda parte di
questo articolo è dedicata all’individuazione, all’emergere e
all’operare del doppio Stato in Italia, fondata come è su
materiale molto ricco ma prevalentemente indiziario, accentua
ancora di più il carattere problematico di questo saggio:
l’obiettivo ancora una volta non è di proporre una
sistemazione, sia pure per grandi linee, del materiale
accumulato (inchieste, processi, contributi analitici ecc.) ma
sollevare domande e formulare ipotesi”182. De Felice
sottolineava come il suo tentativo fosse quello di definire una
ipotesi generale che “nelle grandi linee, tenga presenta la
pluralità di piani che sottendono e interagiscono nello sviluppo
di tale fenomeno: rimane un approccio generale”183. La
prematura scomparsa dello studioso ha impedito
l’approfondimento e lo sviluppo dell’indagine storiografica.
Altri storici hanno ripreso poi questa analisi, in particolare
Tranfaglia che nella storia d’Italia di Einaudi pubblica, fra
l’altro, un saggio intitolato proprio Un capitolo del “doppio 182
F. De Felice, Doppia lealtà e doppio stato, op. cit. p. 499. 183
Ivi, p. 533.
147
stato”. La stagione delle stragi e dei terrorismi, 1969-84184. Il
lavoro di De Felice e la sua proposta delle categorie di doppio
stato e di doppia lealtà ha avuto un destino molto contrastato,
ha avuto critiche che entravano nel merito dell’interpretazione
e della collocazione del partito comunista nella storia
repubblicana185, ma il saggio è incorso anche in interpretazioni
non sempre adeguate, spesso infatti non è stata recepita a pieno
la volontà dell’autore di allontanarsi da qualsivoglia tipo di
interpretazione complottistica della storia repubblicana e il
concetto di doppio Stato è anche entrato a fare parte del
linguaggio politico e giornalistico corrente, spesso banalizzato
ed estremizzato186. Questo atteggiamento è un altro punto
fondamentale da tenere presente quando si cerchi di analizzare
un periodo storico come quello preso in esame: l’uso pubblico
e l’uso, o forse l’abuso, politico di questa storia. Se un certo
“uso” pubblico può essere legittimo, secondo l’interpretazione
di alcuni storici, certamente è piuttosto discutibile l’uso
184
N. Tranfaglia, , Un capitolo del “doppio stato’’. La stagione delle stragi e
dei terrorismi, 1969-84, in Storia dell’Italia Repubblicana, Vol. 3 L’Italia
nella crisi mondiale dell’ultimo ventennio, Einaudi, Torino, 1994 185
G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio stato, in Belardelli (et al),
Miti e storia dell’Italia unita, il Mulino, Bologna, 1999. 186
G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio stato, op. cit. p. 211.
148
politico della storia che si ponga al di fuori di un qualsivoglia
fondamento scientifico187. Allo stesso modo accade che siano i
politici ad utilizzare la storia, o le sue falsificazioni, per le loro
strategie. Tutta la storia e massimamente quella
contemporanea, è sottoposta a questo rischio e a questo utilizzo
ma nel caso dello stragismo e della storia di quegli anni come
si può immaginare è altissimo. Quindi alcuni politici,
giornalisti, opinionisti e polemisti si dilettano in modo
consistente a utilizzare, banalizzare e stravolgere e
strumentalizzare la storia degli anni ‘70 e ‘80. E così che anche
il saggio di De Felice, sobrio nelle argomentazioni, ”dubbioso
e aperto nelle connessioni, delicato nel discutere impostazioni e
tesi lontanissime dalle sue, un saggio di riflessione” è stato
trascinato in polemiche estremamente aspre, con accenti spesso
caricaturali sostenuti anche da alcuni storici che si sono inseriti
in queste polemiche sia sui quotidiani sia in saggi, a volte
banalizzando i concetti per poi stigmatizzarli188. Le polemiche
non sono utili all’analisi storiografica. La banalizzazione delle
interpretazioni ha portato ad identificare nell’ipotesi del doppio 187
A. d’Orsi, Basta con la manipolazione dei fatti storici, in “micromega’’,
1/2004, p. 73 188
E. Galli della Loggia, “Corriere della sera’’, 16 marzo 1998.
149
Stato l’aver postulato la presenza di un complotto e quindi gli
storici che hanno ripreso questa definizione sono stati bersaglio
di accuse di complottismo189. A volte nel pieno delle polemiche
si negano anche fatti realmente accaduti e non si ritiene
possibile che esistano avvenimenti e situazioni della storia
italiana ancora in parte non conosciute o per cui ancora non
abbiamo trovato chiavi di lettura e analisi convincenti, che,
pare invece quasi naturale. Ovviamente non possiamo leggere
la storia nazionale come una lunga e organica sequenza di
strategia occulte organizzate, preferibilmente, da menti
straniere, cosa che ancora viene fatta, ma d’altra parte non è
possibile analizzare la storia repubblicana senza indagarne
anche le zone più oscure, i contesti nazionali ed internazionali,
le strutture politiche e di intelligence. La critica rigorosa e
l’incrocio di quante fonti si hanno a disposizione, mai come su
questi temi, deve essere garanzia di accuratezza del lavoro
storiografico e della sua lontananza, per quanto possibile, dalla
polemica politica. Anche le periodizzazioni sono controverse,
del resto molto lungo è il periodo di cui ci occupiamo e
l’inclusione degli avvenimenti in un periodo ipotizzato come
189
G. Sabatucci, op. cit. p. 216
150
omogeneo non fa altro che alterarne la comprensione, così
come si è già anticipato.
Per quanto riguarda il ruolo della violenza è interessante un
saggio che Leonardo Paggi propose in un convegno anche in
questo caso organizzato dall’Istituto Gramsci di Roma nel
1998, nove anni dopo quello prima citato. Un convegno
intitolato “doppia lealtà e doppio Stato nella storia
repubblicana”, in cui si intendeva riprendere, sviluppare e forse
sottrarre il tema alle strumentalizzazioni e alle banalizzazioni
cui si è già fatto cenno. Paggi190 evidenziò alcuni punti di
riferimento dell’intreccio violenza e democrazia cercando di
capire quale scopo abbiano avuto le differenti manifestazioni di
violenza a cui abbiamo assistito durante gli anni repubblicani e
provando ad inserire questa analisi nel lungo periodo191. Paggi
sottolinea come ogni periodo ed ogni tipo di violenza vadano
colti anche nella loro specificità. Ecco infatti un altro pericolo
per la storiografia: non declinare temporalmente, estendendo
definizioni a periodi troppo lunghi e diversi rischiando una
190
L. Paggi, Violenza e democrazia nella storia della Repubblica, in “Studi
Storici’’, ottobre/dicembre, anno 39, 1998. 191
L. Paggi, op. cit. p. 937.
151
omogeneizzazione che falsa la comprensione. Le definizioni
che si utilizzano ci possono portare su campi scivolosi e di
scarso rigore scientifico. Molto rappresentativa di questo
rischio è “strategia della tensione”. Questa definizione in
maniera inversa rispetto a quella di doppio Stato è infatti nata
da un giornalista che sull’Observer pochi giorni dopo la strage
di Piazza Fontana affermava come in Italia fosse in atto una
“strategia della tensione”. Definizione che ebbe un gran
successo, fu recepita dall’opinione pubblica e che ora, di
nuovo, viene affermata o negata in base all’utilizzo politico che
se ne intende farne. A questo proposito bisogna fare
riferimento al saggio di Franco Ferraresi192, sociologo che nel
suo testo Minacce alla democrazia, la destra radicale in Italia ci
ha fornito un essenziale punto di riferimento. Da sottolineare il
fatto che si sono misurati su temi come il terrorismo e la
violenza molto più spesso i sociologi che gli storici. Al
riguardo è importante ricordare l’interessante lavoro
dell’Istituto Cattaneo in cui, a fianco dell’analisi del terrorismo
di estrema sinistra si pubblicarono, a cavallo degli anni ’90,
192
F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia
della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano, 1995.
152
saggi e ricerche anche su stragismo e neo fascismo. Il volume
di Ferraresi, di cui l’ultima edizione risale al 1995, consta di
ricostruzioni e analisi sui gruppi della destra neo-fascista, sulla
violenza e sulle stragi. Il rischio che alcuni studiosi e fra i quali
lo stesso Ferraresi ci mostrano molto chiaramente è quello,
reale per chi tratta questi temi, di cadere in fraintendimenti e
nella ricerca di qualcosa in cui conchiudere tutti gli eventi.
Quasi a voler individuare un ipotetico e metafisico “grande
vecchio”. Ferraresi individua due possibili definizioni e usi
della locuzione strategia della tensione. Una “massimalista”
“che è appartenuta a certi filoni della sinistra, è una
interpretazione che vede una sorta di complotto universale
gestito dal ‘grande vecchio’, che passa attraverso diverse
possibili scansioni che sono il piano del capitale, lo Stato
imperialista delle multinazionali”193. L’altra possibile
interpretazione invece, che nega l’esistenza di questo
fenomeno, è quella “minimalista”: ”La strategia della tensione
non è mai esistita, è l’invenzione di qualche magistrato rosso,
193
F. Ferraresi, Un inquadramento storico nella ricostruzione della
strategia della tensione, in “Anpi oggi’’, La democrazia ha bisogno di verità.
La memoria di Milano strage di piazza Fontana, anno VIII-n, 2/3, marzo
1997, p. 19.
153
delle toghe rosse che hanno cercato di vedere, in un certo
numero di vicende tragiche della nostra storia, un complotto
unificato; ma invece le istituzioni sono rimaste salde, gli organi
dello stato hanno sempre reagito in maniera corretta. Ci è stata
forse qualche deviazione, ma parlare di una strategia è una cosa
insensata e non dimostrata”194. Entrambe sono interpretazioni
estreme, lontane da quella più logicamente e storicamente
fondata, interpretazioni legate all’uso politico della, di questa,
storia. Un’altra definizione è stata trovata per distinguere non
solo terrorismo e stragismo ma gli anni ‘60 e ‘70: “guerra
civile fredda o a bassa intensità” o “guerra civile strisciante”.
Marco Grispigni ne fa un analisi approfondita: “Per indicare un
quindicennio della storia dell’Italia repubblicana, caratterizzato
con forza da conflitti sociali e dall’irruzione di nuovi soggetti
nell’agone politico e culturale, ho utilizzato, assieme a molti
altri studiosi, la definizione di ‘stagione dei movimenti’. In
contrapposizione a questa definizione. soprattutto nei lavori
provenienti dall’area di ex-autonomia operaia e da quella di
alcuni partecipanti alla lotta armata, ne è stata proposta un’altra
forte e precisa, quella di ‘guerra civile’, coniugata, con un
194
Ivi, pp. 19-20
154
residuo di pudore, con una serie di parafrasi qualitative e
quantitative come ‘strisciante’, ‘fredda’, o ‘a bassa
intensità’”195. Lo stesso autore sottolinea che non si tratta:
“dell’unico caso di uso improprio di concetti storiografici”196.
In questo excursus non ritroviamo molti saggi e monografie
specifiche e pochi lavori sono usciti in anni successivi la fine
del ‘900, se non il volume di Francesco Biscione del 2003, in
cui viene affrontata l’analisi del Sommerso della Repubblica,
così come l’autore definisce le stragi, i piani eversivi e la
violenza inevitabilmente a questi legata. La ricerca del nesso
tra il “sommerso” e le attività destabilizzanti ha portato l’autore
a ritornare ad un contesto prettamente nazionale scorgendo
nelle tensioni e nelle intenzioni di mutare profondamente il
quadro politico-istituzionale nonché nella vicenda della P2
punti essenziali per la comprensione della storia di quegli
avvenimenti. Si devono, poi, considerare i testi che sono
scaturiti dal lavoro delle commissioni parlamentari d’inchiesta,
a cominciare dalla lunga intervista a Giovanni Pellegrino
195
M. Grispigni, 1977, Manifestolibri, Roma, 2006, pp. 99-100. 196
A suo avviso uno dei testi che per primo utilizzava questa definizione
era stato Il nemico interno, di Cesare Bermani pubblicato da Odradek nel
2003. M. Grispigni, op. cit. pp 101-103
155
presidente dell’ultima commissione stragi197. La proposta di
relazione avanzata dallo stesso Pellegrino, e mai approvata
dalla Commissione, è poi stata in parte pubblicata198, così come
materiali raccolti e commentati, come nel volume di Paolo
Cucchiarelli e Aldo Giannuli199. Inoltre, le commissioni hanno
pubblicato moltissimo del materiale da loro prodotto o
raccolto. Le pubblicazioni curate dalla libreria del Senato non
sono tuttavia sempre facilmente consultabili. Oltre ai saggi e ai
volumi specifici è interessante prendere in considerazione
anche le storie della Repubblica in cui però spesso lo spazio
riservato a questi temi è scarso. Cucchiarelli e Giannuli hanno
calcolato infatti come in media l’1 per cento delle pagine delle
storie della Repubblica siano dedicate a questi temi200. Non
così facile è anche trovare testi che servano alla narrazione del
contesto e della complessità degli anni ‘70-‘80, gli anni di
piombo: ulteriore definizione adottata comunemente ma 197
G. Fasanella, C. Sestieri, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso
Moro, Einaudi, Torino, 2000. 198
Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle
cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Giovanni
Pellegrino, Luce sulle stragi. Per la comprensione dell’eversione e del
terrorismo, Lupetti, Milano, 1996. 199
P. Cucchiarelli e A. Giannuli op. cit. 200
P. Cucchiarelli, A. Giannuli, Lo Stato parallelo, op. cit.
156
riduttiva e probabilmente fuorviante. Questa situazione limita
anche la divulgazione e il racconto agli studenti. Non sono tanti
i testi che ci aiutano a trasmettere queste conoscenze ma la
situazione sta cambiando: nei testi di Craveri201, Colarizi202,
Ginsborg203 si trovano più che cenni a questi temi. In uno in
particolare, Il paese mancato di Guido Crainz204, ci si sofferma
sulla ricostruzione della società di quel tempo raccontando un
clima culturale e sociale che raramente è stato così delineato in
cui l’autore inserisce in modo deciso e decisivo la storia delle
stragi. Oltre al già citato complottismo anche la dietrologia
rappresenta uno degli altri non sempre felici neologismi creati
in questo ambito di studio per indicare l’esasperata ricerca di
qualcosa di occulto e di “misterioso” dietro ogni evento: un
rischio da tener presente ed evitare. L’aggettivo misterioso e il
sostantivo mistero hanno intrigato i giornalisti, gli altri soggetti
che oltre agli storici e ai sociologi e ai giudici e magistrati si
sono occupati di stragi ed eversione. Molti testi sono stati
201
P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, TEA, Milano, 1995. 202
S. Colarizi, Biografia della prima Repubblica, Roma, Laterza, 1996. 203
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, op. cit. P. Ginsborg,
L’Italia del tempo presente, op. cit. 204
G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta,
Torino, Donzelli, 2003.
157
prodotti da questi dedicati appunto ai misteri e ai segreti
d’Italia, come vengono definiti anche se meno numerosi di
quelli che si occupano di terrorismo brigatista. Il definire gli
accadimenti di quegli anni dalle stragi al terrorismo come
avvolti nel mistero non fa altro che allontanare dalla possibilità
di comprendere in modo più puntuale gli eventi. Fare leva sulla
“misteriosità” appunto attira lettori, intriga appassionati di
gialli ma è un ulteriore conferma del fatto che questi
accadimenti della storia contemporanea non siano conoscibili
in modo “scientifico”. Avere a che fare con un mistero nelle
società antiche significava “confrontarsi con una cronica
mancanza di conoscenze”, e inoltre questa non conoscenza
permaneva anche nel caso di un aumento delle stesse205: questa
specie di alone persistente di inconoscibilità resta anche nella
percezione attuale e di conseguenza ciò allontana dalla
comprensione e dalla volontà di affrontare questi temi. Nella
maggior parte di questi lavori giornalistici ci si discosta dal
lavoro storiografico per quanto riguarda le fonti e le analisi,
soffermandosi su alcuni avvenimenti o proponendo sequenze di
205
E. Esposito, La memoria sociale. Mezzi per comunicare e modi di
dimenticare, Laterza, Bari-Roma, 2001, p. 55.
158
fatti ritenuti analoghi e collegati fra loro. I giornalisti e i
sociologi si sono anche interessati a temi come la costruzione
della memoria e il ruolo delle associazioni delle vittime206. Alle
vittime infatti è dedicato uno degli ultimi testi pubblicati su
questi temi, dal titolo I silenzi degli innocenti207. In questo
testo, curato dal giornalista Fasanella e da Antonella Grippo nel
cui sottotitolo si legge: “dopo anni di silenzio la parola
finalmente a loro: a chi non ha mai avuto modo di raccontare la
verità”, troviamo testimonianze di parenti e amici di persone
uccise dal terrorismo. Tra i lavori dei giornalisti troviamo
anche le interviste o la raccolta delle memorie dei protagonisti,
frequenti nel terrorismo di estrema sinistra. Nel caso dello
stragismo invece, raramente gli appartenenti ai gruppi neo-
fascisti hanno raccontato la loro esperienza o si sono impegnati
in una analisi dello stragismo208. In questo ambito è importante
206
A. L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della
strage di Bologna, 2 agosto 1980, Bologna, Il Mulino, 2003. 207
G. Fasanella, A. Grippo, I silenzi degli innocenti, Bur, Milano, 2006. 208
G. Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista
neo-fascista quasi per caso Baldini e Castoldi, Milano, 1992.
V. Vinciguerra, Ergastolo per la libertà. Verso la verità sulla strategia della
tensione, Arnaud, Firenze, 1989; V. Vinciguerra, La strategia del
depistaggio, Edizioni il fenicottero, Sasso Marconi, , 1993.
159
il lavoro di Sergio Zavoli209, trasposizione della trasmissione
televisiva la notte della Repubblica sulla storia dei terrorismi
italiani e i recenti volumi tratti dalla trasmissione televisiva
Misteri d’Italia210 condotta da Carlo Lucarelli. Per quanto
riguarda il substrato culturale e le caratteristiche sociali,
politiche e organizzative dei gruppi neofascisti troviamo pochi
testi, tra cui quello di uno storico che ha analizzato i neofascisti
dopo il 1977211. Tra i testi di tipo giornalistico che cercano di
raccontare avvenimenti legati fra loro due hanno caratteristiche
esemplificative. Il primo è il lavoro di Gianni Flamini212 in cui
si definisce il “partito del golpe”, una struttura delineata
dall’insieme di vari pezzi: una parte dei politici al potere,
neofascisti e settori dei servizi segreti che sotto la guida
statunitense, secondo l’autore, è dietro alle stragi e al
209
S. Zavoli, op. cit. passim. 210
C. Lucarelli, Nuovi misteri d’Italia: i casi di Blu notte, Einaudi, Torino,
2004. 211
G. Cingolani, La destra in armi. Neofascisti italiani tra ribellismo ed
eversione 1977-1982, , Editori Riuniti, Roma, 1996. 212
G. Flamini, Il partito del golpe. Le strategie della tensione e del terrore
dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Bovolenta, Ferrara,
1981-1985.
160
terrorismo. Il secondo è quello di Biacchessi213 che elenca le
stragi di piazza fontana, di piazza della loggia e della stazione
di Bologna per poi fare riferimento all’attentato alla redazione
del quotidiano “Il Manifesto” avvenuto nel 2001. Come già
accennato precedentemente, le difficoltà nel reperimento delle
fonti (che si spera di veder diminuire anche grazie agli archivi
stranieri, alla catalogazione di documenti legati alle
Commissioni parlamentari o alla valorizzazione degli archivi di
Centri di documentazione o delle Associazioni), polemiche,
uso pubblico e politico hanno condizionato in maniera incisiva
la riflessione storiografica, che dovrebbe invece essere uno dei
motori della ricerca e conseguentemente della divulgazione e
della conservazione della memoria. Gli storici non detengono
più, in questo e in altri temi della storia contemporanea, il
“monopolio” dell’analisi e dell’esposizione del passato: “Di
fatto, gli storici nella società odierna hanno perduto il
monopolio della parola sul passato, anche di quella
specialistica. Quello dello storico non è che uno dei discorsi
che si mescolano nel vortice del discorso sociale sul
213
D. Biacchessi, Ombre nere. Il terrorismo di destra da Piazza Fontana alla
bomba al “Manifesto’’, Mursia, Milano, 2002.
161
passato”214. Inoltre lo spezzettamento dei soggetti legittimati a
produrre discorsi storici favorisce manipolazioni e distorsioni
di ogni tipo, trasformando l’uso pubblico della storia in una
ampia terra di nessuno: la storia e la memoria rischiano di
diventare strumento di lotta politica quotidiana. Sul terreno
dell’uso pubblico della storia l’impatto dei media mostra la sua
forza particolare con l’incessante emissione di informazione
storica o pseudo informazione (sui giornali, nei programmi
televisivi, in opere cinematografiche), i media si sostituiscono
ai tradizionali luoghi della storia e della memoria. “La memoria
pubblica è distinta dalla storiografia. In essa non agiscono, se
non in forma occasionale gli storici, agiscono attori politici e
istituzioni, agiscono la grande stampa e i mezzi di
comunicazione di massa”215. Non si può chiedere alla
storiografia di essere rimedio alla memoria assente, o parziale o
fuorviata visto che in questo, come in altri casi, “nonostante i
suoi sforzi, la storiografia non potrà mai colmare le lacune di
una memoria mutilata”216. Quello che si chiede alla storiografia
214
R. Robin, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della
memoria, Ombre corte, Verona, 2005, pp. 24-25 215
G. Santomassimo, op. cit. p. 229. 216
E. Traverso, op. cit. p. 36
162
è di appropriarsi di uno spazio che dovrebbe essere degli storici
e degli strumenti specifici del loro mestiere, mentre come si è
visto, rispetto ai nostri temi, agli storici si aggiungono, o forse
si sostituiscono altri soggetti quali giornalisti e polemisti.
Anche per quanto riguarda le stragi di quegli anni la situazione
degli studi è simile. La strage di piazza Fontana, una strage coi
capelli bianchi come è stata definita217, è uno degli episodi più
affrontati, fin dai primi momenti successivi all’esplosione della
bomba: il testo la strage di stato, infatti usci nel giugno 1970,
quindi pochi mesi dopo il 12 dicembre 1969 con il resoconto di
una controinchiesta (consuetudine di quegli anni) molto
interessante e dettagliata. La definizione usata, adatta a quel
testo e a quel contesto, è successivamente entrata nel senso
comune e nelle polemiche che ancora si pongono ad ostacolo
della comprensione dei fenomeni. Piazza Fontana, e la morte di
Giuseppe Pinelli, furono a lungo all’attenzione di diversi
soggetti, basti pensare ai lavori di Dario Fo ad esempio o alle
inchieste giornalistiche una fra tutte quella di Camilla Cederna:
217
P. Barbieri, P. Cucchiarelli, La strage coi i capelli bianchi: la sentenza per
Piazza Fontana. Editori riuniti, Roma, 2003.
163
Pinelli, una finestra sulla strage218. I protagonisti della
controinformazione erano di solito militanti della sinistra,
principalmente del movimento e dei gruppi extraparlamentari,
giornalisti e, a volte, avvocati. Dopo la strage del 12 dicembre
nacque poi il Comitato per la Libertà di Stampa e per la lotta
contro la repressione che diede vita nel 1970, su iniziativa di
Marco Nozza, al “Bollettino di Controinformazione
Democratica” in cui si cerca di analizzare la morte di Pinelli e
il coinvolgimento degli anarchici negli attentati e nella strage.
Questo bollettino, che arrivò a tirare 5.000 copie è stato
definito: “prova dell’inquietudine professionale che investe una
zona nevralgica e come strumento di lavoro e di collegamento
tra mondo giornalistico e nuova Sinistra che allarga il campo di
risonanza delle lotte democratiche del movimento”219. Nel
1975 l’esperienza del bollettino finisce lasciando il segno di
una grande attenzione rivolta dalla sinistra militante, e dagli
anarchici, verso le vicende legate alla strage di piazza Fontana.
Uno dei volumi più interessanti fra quelli di
controinformazione è il già citato La strage di stato che ebbe un 218
C. Cederna, Pinelli, una finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano, 1971. 219
A. Mangano, Le riviste degli anni Settanta. Gruppi, movimenti e conflitti
sociali, R. Massari editori, Bolsena, 1998, p. 41.
164
notevole successo editoriale: nel 1971 infatti superò le
centomila copie che negli anni successivi divennero mezzo
milione220. In questo testo vennero pubblicate notizie sulla
strage, su Pinelli e sugli anarchici, sui gruppi neofascisti e sui
loro collegamenti con i servizi segreti italiani e stranieri, sui
rapporti con la giunta dei colonnelli greci e sul gruppo di
estrema destra IV agosto guidato da Costas Plevris. Questo
testo, tra il settembre e l’ottobre del 1970, subì denunce per
diffamazione da parte di numerose persone che ne richiesero
anche il ritiro dal commercio su tutto il territorio nazionale221.
La strage di stato, controinchiesta militante per stessa
ammissione degli autori, testimonia una delle caratteristiche
della strage del 12 dicembre che è presente anche in altre
modalità di trasmissione della memoria, cioè la forte
caratterizzazione politica: la strage è studiata, raccontata,
ricordata dalla sinistra in una memoria che più che divisa è
separata, anche a livello politico. Da un lato troviamo infatti gli
220
Boatti, op. cit. p. 277 221
Giorgio Almirante, Enrico Frattini, Giuseppe (Pino) Rauti, Junio Valerio
Borghese, Giovanni Ventura fra gli altri. M. Baldi, Processi a un libro, in I.
Manniasa, La strage di stato. Un libro che ha fatto epoca, ristampa per il 12
dicembre 1993, op. cit. p. VI.
165
anarchici e il movimento, dall’altro la sinistra parlamentare e
l’Anpi, dall’altro ancora le Istituzioni che, spesso, più che
ricordare scivolano sugli anniversari. Un altro interessante testo
sulla strage di piazza Fontana è quello di Giorgio Boatti222 che
analizza questo evento anche rispetto all’impatto che la strage
ha avuto sugli italiani, sui politici, sull’opinione pubblica.
Dopo la sentenza del 2002 è stato pubblicato il testo di Barbieri
e Cucchiarelli La strage con i capelli bianchi. La sentenza per
piazza Fontana223, un testo la cui copertina ripropone un
particolare della copertina de La strage di Stato e in cui, dopo
una settantina di pagine di contestualizzazione e
puntualizzazione delle vicende processuali vengono pubblicati
stralci di alcuni capitoli della sentenza del 2002. A
dimostrazione del fatto che ancora una volta, si privilegiano le
fonti giudiziarie decidendo di pubblicarle, integralmente o
parzialmente, come se potessero “parlare” da sole. Anche il cd
rom di Saverio Ferrari dal titolo Piazza Fontana la verità c’è è
costruito sulle sentenze. Il pubblicare le sentenze, è una scelta
222
G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969. Il giorno dell’innocenza
perduta, Feltrinelli, Milano, 1993. 223
P. Barbieri e Cucchiarelli, La strage con i capelli bianchi. La sentenza per
piazza Fontana, Roma, Editori Riuniti, 2003.
166
che spesso anche i famigliari delle vittime hanno fatto,
soprattutto riguardo alla strage di Bologna. In questo caso la
pubblicazione è stata decisa con l’intento di divulgare la
sentenza, la “verità giudiziaria”. Con lo stesso scopo adesso le
sentenze sono presenti anche sul sito internet dell’Associazione
stessa224. Anche per la strage di piazza della Loggia sono state
stampate alcune sentenze ma quella di Brescia è stata forse la
strage a cui meno è stata data importanza da parte di giornalisti
o storici: oltre alle sentenze, negli anni Ottanta a firma di
Roberto Chiarini e Paolo Corsini sono usciti due testi, Da Salò
a piazza della Loggia in cui si ricostruisce la storia del
neofascismo225 e l’altro incentrato sulla strage226. Nel
trentesimo anniversario, su iniziativa dell’Associazione dei
famigliari delle vittime, è stato pubblicato un volume in cui
sono presenti diversi contributi di approfondimento
storiografico, di commemorazione, rivolti alla scuola e sulla
224
www.stragi.it 225
Chiarini R. - Corsini P. (a cura di), Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco
d’ordine neofascismo radicalismo di destra a Brescia (1945-1974), Franco
Angeli, Milano, 1983 226
Chiarini R. - Corsini P, La città ferita. Testimonianze riflessioni e
documenti sulla strage di piazza della Loggia, Centro bresciano
dell’antifascismo e della Resistenza, Brescia, 1985.
167
trasmissione della memoria i cui autori sono storici, sociologi,
amministratori locali da Giovanni de Luna a Piero Ignazi a
Giovanna Marini227. Alla strage di Bologna sono stati dedicati
numerosi e diversi lavori dalle sentenze228 alle poesie dedicate
alle 85 vittime229. Uno dei primi libri usciti a riguardo fu un
libro fotografico edito dal Comune di Bologna e un testo che
nel sottotitolo si autodefiniva “controinchiesta su un attentato
che vogliamo dimenticare”: ci riferiamo ad Agosto è un pesce
sventrato di Alfredo Taracchini230. Questo volume di piccole
dimensioni e stampato in proprio, ripercorre attraverso i
quotidiani e i settimanali la strage e le prime indagini,
proponendo alcune considerazioni su questo e su altri eventi 227
Casa della memoria, 1974 28 maggio 2004 30 esimo. Anniversario della
strage di piazza Della loggia “Brescia: la memoria, la storia’’ testimonianze,
riflessioni, iniziative, Brescia 2005. 228
Si veda, ad esempio: De Luttis G. (a cura di), La strage: l’atto di accusa
dei giudici di Bologna, Editori Riuniti, Roma, 1986, Associazione familiari
vittime strage di Bologna (a cura di), Sentenza della Quinta Corte di Assise
contro Pazienza Musumeci Belmonte e altri, Moderna Editrice, Bologna,
1986, Associazione familiari vittime strage di Bologna (a cura di), Strage
alla stazione di Bologna. Sentenza della Corte Suprema di Cassazione a
Sezioni Penali Riunite, Tip. Visconti, s. l, 1992. 229
G. P Testa. Antologia per una strage: Bologna 2 agosto 1980, Bovolenta,
Ferrara, 1980. Ristampato nel 2005 per i tipi di Minerva. 230
A. Taracchini, Agosto è un pesce sventrato. Controinchiesta su un
attentato che vogliono dimenticare, Il pesce solubile/edizioni, Bologna,
1981.
168
che da piazza Fontana in poi sono accaduti in Italia: diverso
quindi dalla controinchiesta sulla strage di Milano, ma utile
nella ricostruzione dei primi giorni successivi lo scoppio della
bomba e al riguardo delle prime indagini. Da notare come
l’autore parli a nemmeno un anno dalla strage di un attentato
che si vuole dimenticare. Nel 1989 Torquato Secci, presidente
dell’Associazione dei famigliari delle vittime, scrisse il testo
Cento milioni per testa di morto in cui possiamo trovare sia la
descrizione della strage e dei soccorsi, sia le prime fasi
dell’Associazione sia i processi, un testo che può essere ancora
una interessante introduzione ai temi legati a questa strage. Per
la strage di Bologna, l’unica che ha visto sentenze di condanna
passate in giudicato, si trovano testi che si occupano dei due
condannati231 e del processo232 ed anche testi in cui si
231
G. Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista
neofascista quasi per caso, Baldini e Castoldi, Milano, 1992 232
F. Raugei, op. cit. passim.
169
espongono perplessità sulla condanna233 ed in cui di sostiene
l’innocenza di Ciavardini234.
2.3 Divulgazione
La letteratura, allo stesso modo della ricerca storiografica, è
uno strumento di indagine fondamentale per chi aspira a
comprendere una “stagione della storia”, i desideri di coloro
che ne hanno preso parte, e per sottolineare inoltre il fatto che
quella stagione è esistita davvero e che dei modi di agire e di
vivere si sono modificati. Possiamo affermare che dal 1967 al
1980 si sia consumata una “stagione” della storia italiana degna
di tale nome, e che la letteratura abbia tratto ispirazione da quel
momento storico e ne sia stata segnata. La mancanza di
distanza storica, ostacolo per lo storico, è per la letteratura un
vantaggio in quanto collima profondamente con la complessità
233
Comitato “E se fossero innocenti?’’ (a cura di), Strage di Bologna: oltre il
verdetto. Testimonianze di innocenza per Mambro e Fioravanti, Vulkano
Edizioni, Roma, 1995. 234
G. Semprini, La strage di Bologna e il terrorista sconosciuto. Il caso
Ciavardini, Bietti, Roma, 2003.
170
degli anni Settanta italiani, nei quali sono presenti lotte
politiche, rivolte personali, conflitti sociali e generazionali. Nel
recente Anni Settanta235, Giovanni Moro, figlio di Aldo,
sostiene che il presente approccio a quel periodo sarebbe
caratterizzato da una “malattia” della memoria e del ricordo.
Uno dei sintomi è l’incapacità di andare oltre i conflitti che
sono ancora vivi nella memoria. Il problema sta nel definire
quegli anni con delle parole adatte: nessuna è scontata in
quanto simbolizzano conflitti politici e ideologici. Ognuna
delle fasi e delle lotte verificatesi durante quelli che Calvino
definiva come “gli anni intorno al 1968” ha conosciuto
denominazioni specifiche che si riferivano ogni volta ad aspetti
diversi: il “maggio strisciante” degli studenti collegato con la
importante mobilitazione operaia dell’“autunno caldo” nel
1969; il periodo della “strategia della tensione” che inizia con
la strage di piazza Fontana, a cui ne fanno seguito molte altre
(la strage del 12 dicembre 1969 era una “strage di Stato”); la
lunga stagione delle “lotte”, dei “movimenti”, delle “rivolte”;
la cupa stagione del “terrorismo” o della “lotta armata” etc. La
definizione “anni di piombo” (che viene dal titolo del film di
235
Giovanni Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007.
171
Margarethe von Trotta Die bleierne Zeit del 1981) ha la meglio
solo retrospettivamente: tende a riportare la logica complessiva
di questi anni allo scontro violento se non al terrorismo, e
risulta molto ambigua in quanto il “piombo” pare sempre
essere quelli degli avversari. In La notte che Pinelli236, dove è
presente “la vecchia storia del ferroviere anarchico che venne
giù dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano”,
Adriano Sofri ha ultimamente rimarcato l’importanza delle
parole e dei fatti che possono scaturirne in una riflessione sulla
violenza e sulla sua “grammatica”, ricordando l’importanza di
avere un punto di vista etico e di una storicizzazione scrupolosa
(definita da Sofri il “corpo a corpo con il contesto”), e questa
visione è sicuramente una di quelle possibili per combattere
contro le “patologie” della memoria: la letteratura può
rappresentare una mediazione utile e consentire di ridare senso
ai fatti e alle parole. Fare un resoconto della letteratura della
“stagione delle rivolte” si può rivelare un compito difficile,
dato che siamo di fronte a un gran numero di testi dai svariati
livelli retorici. A questo si aggiunge il punto di vista
individuale di ogni autore, la data di redazione e il pubblico a
236
Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio, Palermo 2009.
172
cui si rivolgono. Una lettura militante come ad esempio il libro
di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, Porci con le ali
(1976)237, nel quale si esprimeva con ironia la parola d’ordine
secondo la quale “il privato è politico” e dove veniva mescolata
la voglia di rivoluzione con la liberazione sessuale non ha
evidentemente lo stesso stile del romanzo Il nome della rosa238
scritto da Umberto Eco nel 1980 metafora degli anni di piombo
e del fallimento dell’estrema sinistra italiana: “Una storia molto
brutta, [ …] perché insegna […] come dall’amore di penitenza
e dal desiderio di purificare il mondo possa nascere sangue e
sterminio”. Allo stesso modo non possiamo dare la stessa
importanza a un testo scritto ai giorni nostri da un ex
protagonista degli anni Settanta e al romanzo di uno scrittore
che pur non avendo vissuto quegli anni di lotte ne trae spunto.
In alcuni casi, in particolar modo nella letteratura poliziesca
contemporanea, gli anni di piombo divengono una specie di
genere letterario a parte, suscettibile di venire declinato
all’infinito in vari modi. Esemplificativo della ricchezza e della
complessità della produzione letteraria ispirata in vari modi alla 237
Marco Lombardo Radice, Lidia Ravera, Porci con le ali, nuova edizione,
Mondadori, Milano 2001. 238
Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980.
173
stagione della storia italiana di cui stiamo trattando è il fatto
che alcune delle opere di due scrittori di primo piano del XX
secolo ovvero Pasolini e Sciascia, appaiano profondamente
segnate da questa esperienza della quale si sono fatti testimoni.
Il 14 novembre 1974 Pier Paolo Pasolini pubblica sul “Corriere
della Sera” un articolo che più tardi sarà eloquentemente
reintitolato Il romanzo delle stragi239.In esso Pasolini riafferma
l’impegno dello scrittore, e più in generale dell’intellettuale,
nelle lotte politiche del suo tempo. Insistendo sulla frase “io
so”, egli stabilisce un rapporto di filiazione tra il suo intervento
e il famoso “j’accuse” di Emile Zola. Tuttavia lo scrittore
Pasolini “sa” in virtù della sua stessa condizione e della sua
“voce” di scrittore: “Io so perché sono un intellettuale, uno
scrittore, che cerca di […] immaginare tutto ciò che non si sa o
che si tace”. Il testo evidenzia in questo modo la funzione della
letteratura come strumento di conoscenza del reale che
permette di ricostruire un sapere, di suggerire una verità
all’interno della realtà. Quest’ultima nell’Italia degli anni
Settanta ha preso la forma stessa di un “romanzo”: “Credo che 239
L’articolo è uscito sul “Corriere della Sera’’ del 14 novembre 1974 con il
titolo Che cos’è questo golpe? Oggi si legge in Pier Paolo Pasolini, Saggi
sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 362-367.
174
sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che
non abbia cioè attinenza con la realtà”. Petrolio invece, che
Pasolini inizia a scrivere nel 1972 rappresenta un tentativo
tramite la forma romanzesca di rivelare di più sulla storia
italiana di quegli anni. In Petrolio Pasolini rifiuta la linearità
tradizionale del romanzo a favore di una struttura “a brulichio”:
il libro è un formicolio di note simili a tessere di un puzzle, nel
tentativo appunto di suggerire il brulichio, le numerose
implicazioni della realtà politica dell’Italia degli anni Settanta,
suggerendo la figura di un nuovo “Potere” anonimo, totalitario
e polimorfo, oltre che innominabile (“Io so. Ma non ho le
prove. Non ho nemmeno indizi”) del quale Pasolini segnala
l’avvento nei suoi scritti politici dell’epoca. La redazione di
Petrolio viene brutalmente interrotta dalla morte violenta
dell’autore nel novembre del 1975. Petrolio resta così il
progetto incompleto di scrivere il “romanzo” della storia
italiana degli anni Settanta. Il romanzo poliziesco è la forma
letteraria preferita da Leonardo Sciascia: negli anni Settanta nei
quali pubblica Il contesto (1971)240 egli riformula il genere allo
240
Leonardo Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971. Il
testo è stato adattato per il cinema da Francesco Rosi nel 1976 con il titolo
175
scopo di portare avanti un’indagine accurata sulle forme del
potere. Il contesto ha un sottotitolo ironico (Una parodia) come
ad indicare una farsa, il travestimento di un’opera che in un
contesto diverso dalla società italiana degli anni Settanta
avrebbe potuto essere seria. La parodia pervade la forma del
romanzo poliziesco, di cui Sciascia trasmette l’incapacità di
risolvere un enigma, di far venire fuori una verità che si trova
fuori dal testo, e che malgrado tutto il testo fotografa. Il testo
non esprime una risposta coerente, capace di portare chiarezza
e verità e ancora meno offre la possibilità finale di una
proclamazione sociale di tale verità. Paradossalmente,
l’obiettivo di confondere le carte fa si che si riveli quel “potere
invisibile”, un mondo che ha la caratteristica principale proprio
nell’essere cifrato. Cercare di fare chiarezza, equivale sia per
chi indaga e per chi legge o scrive, a correre il rischio di farsi
ammazzare. A partire dalle prime manifestazioni della
“strategia della tensione”, con Il contesto, la forma della fiaba
politica svela non la verità che rimane irraggiungibile, ma le
cause e le espressioni dell’occultamento, i meccanismi di
difesa del potere politico. Il contesto, il cui bersaglio preferito
di Cadaveri eccellenti.
176
erano il PCI e la sua natura di partito falsamente rivoluzionario,
rappresentava una denuncia della collusione tra l’opposizione e
il sistema statale, tra la “ragione di partito” e “la ragion di
Stato”: una fiaba sull’organizzazione mafiosa del potere. Todo
modo (1974)241, che ha come bersaglio lo Stato democristiano
ha la forma di una fiaba sul potere nel momento in cui esso è
rappresentato come fondato solamente sulla lotta fratricida per
preservarsi, perdendo ogni riferimento ideologico e religioso.
Quello che colpisce nell’opera di Sciascia è la facoltà
premonitrice della letteratura, la lettura della realtà che essa
fornisce: quella del futuro “compromesso storico” con Il
contesto, quella del sacrificio di Aldo Moro con Todo modo. È
come se il testo di Sciascia fosse così portatore della violenza
del contesto sociopolitico dell’Italia degli anni Settanta che “si
ha la sensazione che il suo mondo immaginario coincida con la
realtà quotidiana”242. Nell’autunno successivo all’assassinio di
Moro, Sciascia (che farà parte successivamente della
“Commissione d’inchiesta sull’affare Moro”) pubblica un libro
241
Leonardo Sciascia, Todo modo, Einaudi, Torino 1974. L’opera è stata
portata sul grande schermo nel 1976 da Elio Petri. 242
Claude Ambroise, Polemos, prefazione a Leonardo Sciascia, Opere 1971-
1983, Bompiani, Milano 1989, p. XXIII.
177
intitolato L’affare Moro, un altro esempio di come la letteratura
abbia la capacità di decifrare la realtà politica contemporanea o
di suggerirne il carattere indecifrabile. Sciascia fa della storia
di Moro una storia “già come scritta, […] già opera
letteraria”243. Ritroviamo dunque l’idea già ricordata a
proposito di Pasolini, che la realtà dell’Italia degli anni Settanta
sia profondamente letteraria per sua natura e che il compito
dello scrittore sia rivelarne la forma. L’analisi testuale delle
lettere che Moro scrisse durante la prigionia244 fa si che
Sciascia possa confutare quanti avevano tentato all’interno
dello stesso partito di considerare non valida la sua parola. Per
Sciascia infatti è nelle pieghe più nascoste del testo che è
presente una parte, seppur piccola di verità. Andando ad
analizzare la produzione degli attori – diretti o indiretti ‒ degli
anni Settanta ci troviamo di fronte a testi molto diversi tra loro
con un intreccio di livelli retorici. È difficile distinguere tra
autobiografia, testimonianza, diario, finzione e pamphlet. Una
delle caratteristiche di questa letteratura è di mantenere
costante la tensione tra il punto di vista attuale, quello del
243
Leonardo Sciascia, Opere 1971-1983, op. cit. p. 544. 244
Oggi raccolte con il titolo di Ultimi scritti, Piemme, Milano 2003.
178
giudizio a posteriori, e il ricordo vivo delle lotte e dell’impegno
di quegli anni. In altre parole, questi testi rappresentano la
sopravvivenza nella memoria dei conflitti degli anni Settanta. È
il caso ad esempio di Dario Fo, che inizia a pubblicare opere
teatrali e testi militanti proprio negli anni Settanta (Mistero
Buffo del 1969, Morte accidentale di un anarchico del 1970,
dedicato alla morte del militante anarchico Giuseppe Pinelli,
Non si paga, non si paga!, del 1974, e infine Marino libero,
Marino è innocente245 del 1998 sull’incriminazione di Adriano
Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi per l’omicidio
del commissario Calabresi, del 1972). Un altro esempio è
offerto da Luce D’Eramo, che in Nucleo zero (1981)246
descrive la lotta armata. Le stesse tensioni sono presenti nei
testi scritti in prigione o che hanno come tema la prigione. Il
punto di vista carcerario è esemplificativo di una letteratura che
prova a descrivere anni ormai passati, caratterizzati da
momenti di impegno, ma dentro un quadro individuale che
mantiene vive le tracce di quel passato doloroso. Fra tutti
citiamo i testi di uno dei fondatori storici delle Brigate rosse,
245
I testi di Dario Fo sono editi da Einaudi. 246
Luce D’Eramo, Nucleo Zero, Mondadori, Milano 1981.
179
Renato Curcio. Che uniscono spesso resoconto personale e
riflessione sulla condizione carceraria. È per esempio il caso di
La soglia (1996)247, riflessione sull’uscita di prigione, o di Nel
bosco di Bistorco (1999)248 scritto con Nicola Valentino e
Stefano Petrelli che riflette sulla reclusione partendo da un
lavoro sui sogni dei prigionieri e sulla loro espressione
linguistica. Queste esperienze di Renato Curcio non sono
isolate e la letteratura funge spesso da strumento per resistere
alla prigione denunciandone la durezza. Da citare i testi di
Geraldina Colotti249, Barbara Balzerani250, Valerio Morucci251,
Adriana Faranda252, oppure su un piano più romanzesco Gli
invisibili (1987)253 di Nanni Balestrini. Un’altra testimonianza
interessante che prende la forma di una scrittura letteraria si
247
Renato Curcio, La soglia, Sensibili alle foglie, Roma 1996. 248
Id. Nel bosco di Bistorco, Sensibili alle foglie, Roma 1999. 249
Geraldina Colotti, Per caso ho ucciso la noia, Voland, Roma 1997; Id.
Certificato di esistenza in vita, Bompiani, Milano 2005. 250
Barbara Balzerani, La sirena delle cinque, Jacabook, Milano 2003; Id.
Compagna luna, Feltrinelli, Milano 1998. 251
Valerio Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme, Milano
1999; Id. La peggio gioventù, Rizzoli, Milano 2004; Id. Patrie galere, Ponte
alle Grazie, Firenze 2008. 252
Adriana Faranda, Il volo della farfalla, Rizzoli, Milano 2006. 253
Nanni Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano 2007.
180
trova nei testi di Giampaolo Cassitta254, ex funzionario
dell’amministrazione penitenziaria italiana che negli anni
Settanta lavoro nella celebre prigione speciale dell’Asinara: la
scrittura intensa, l’incrocio dei punti di vista rivelano ancora
una volta la sopravvivenza di tensioni e conflitti appartenenti al
passato. Questo aspetto sfocia in alcune presentazioni generali
di quegli anni.
È ad esempio il caso di alcune opere che riecheggiano
chiaramente un valore letterario nonostante uno stile scarno
come i ricordi di Enrico Fenzi, Armi e bagagli255. Questa messa
in scena dei conflitti passati si ritrova allo stesso modo nella
pièce teatrale scritta da Toni Negri e Raffaella Battaglini,
Settanta256. La forza del testo sta nel confronto tra due livelli
temporali, gli anni Settanta e il presente: è messa in scena una
coppia di militanti dilaniata dalla lotta armata e dalla
detenzione di uno dei protagonisti. I due, trent’anni più tardi, si
254
Giampaolo Cassitta, Supercarcere Asinara. Viaggio nell’isola dei
dimenticati, Frilli, Genova 2002(in collaborazione con Lorenzo Spanu); Id.
Asinara. Il rumore del silenzio, Frilli, Genova 2005. 255
Enrico Fenzi, Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate rosse, Costa e Nolan,
Genova 1987. 256
Toni Negri, Raffaella Battaglini, Settanta, Derive e approdi, Roma 2007.
181
ritrovano e quella tensione ancora viva torna a galla insieme a
domande senza risposta su un impegno politico che sembra
superato anche se conserva la sua intensità iniziale.
La stessa intensità si ritrova nell’opera di Erri De Luca, nei cui
testi è espresso chiaramente questo nesso stretto tra livelli
retorici e ricordo sempre vivo delle lotte (Aceto, arcobaleno257,
Lettere da una città bruciata258). Anche la scelta della
letteratura poliziesca rappresenta questa volontà di far
perpetuare il passato e le sue passioni. Ne troviamo
testimonianze caratteristiche in autori coinvolti a vario titolo
negli anni Settanta come Massimo Carlotto259, Cesare
Battisti260, Valerio Morucci261 o Alberto Franceschini262.
257
Erri De Luca, Aceto, arcobaleno, Feltrinelli, Milano 1992. 258
Id. Lettere da una città bruciata, Dante e Descartes, Napoli 2002. 259
Massimo Carlotto, Il fuggiasco, E/O, Roma 1996; Id. Arrivederci amore,
ciao, E/O, Roma 2001. 260
Cesare Battisti, L’ultimo sparo. Un delinquente nella guerriglia italiana,
Derive e Approdi, Roma 1998. 261
Valerio Morucci, Klagenfurt 3021, Fahrenheit 451, Roma 2005. 262
Alberto Franceschini, La borsa del presidente. Ritorno agli anni di
piombo (in collaborazione con Anna Samueli), Ediesse, Roma 1997.
182
183
CAPITOLO TERZO
Analisi della manualistica didattica
3.1 Carlo Cartiglia, Storia e lavoro storico,
Loescher, 1985
Loescher è una casa editrice italiana, fondata a Torino nel 1861
dal tedesco Hermann Loescher, nipote di Benedictus Gotthelf
Teubner. È specializzata in opere scolastiche, testi universitari
e classici, ma la sua fama è legata in particolare all'attività nel
campo della lessicografi, con il IL (vocabolario Italiano-Latino)
curato da Luigi Castiglioni e Scevola Mariotti, il GI
(vocabolario Greco-Italiano curato da Franco Montanari) e
molti altri dizionari. Nel 1989 la casa editrice Zanichelli
acquistò la totalità delle azioni Loescher dalla famiglia di
Maurizio Pavia. La famiglia Pavia, di origine biellese come la
184
più nota famiglia Sella, deteneva il pacchetto azionario dagli
anni del Fascismo, periodo durante il quale, per le leggi razziali
fasciste, fu costretta ad affidarsi a prestanome. Nel 2013
acquisisce il catalogo della Casa Editrice D'Anna, che diventa
dunque un marchio dell'editore torinese.
Carlo Cartiglia è direttore editoriale Loescher. Per la medesima
casa editrice ha pubblicato tra gli altri Ieri, domani. Con
espansione online. Per la scuola media vol. 1-2-3; Ieri,
domani. Temi, parole e immagini della storia. Per la scuola
media vol. 1-2-3; Storia e ricerca. Laboratorio. Per le scuole
superiori vol. 1-2-3.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il tema del terrorismo è inserito inizialmente in un paragrafo
riassuntivo che vuole “indicare alcune fondamentali linee di
sviluppo politico, economico, sociale dell’Italia degli ultimi 20
anni” . Ogni argomento viene trattato brevemente con a lato
l’indicazione delle pagine successive in cui può essere
approfondito.
185
Il “terrorismo politico” è inserito in un arco di tempo che va
dal 1969 al 1982, in cui si susseguono la sua “nascita,
sviluppo, e, infine, sostanziale arretramento e sconfitta”.
Troviamo un generico riferimento a “bande” vicine ai fascisti
ritenute responsabili di attentati e stragi tra cui “bombe fasciste
in una banca a Milano nel 1969”, in piazza a Brescia e sui
treni nel ’74 e alla stazione di Bologna nel 1980. Il riferimento
invece a quelli che vengono definiti “gruppi che si dicevano
vicini agli ideali della rivoluzione sociale” è più preciso, in
quanto Cartiglia cita come i più importanti tra essi le Brigate
Rosse e Prima linea, responsabili di un lungo elenco di
assassinii che comprende “poliziotti, carabinieri, sindacalisti,
magistrati, uomini politici” sino ad arrivare all’apice raggiunto
nel ’78 con l’uccisione del rappresentante più importante della
Democrazia cristiana, Aldo Moro. Come possiamo notare per
quanto riguarda le stragi, oltre a non citare il luogo dove esse
sono avvenute (per quanto riguarda Milano e Brescia), manca
l’indicazione del numero delle vittime. Sempre in riferimento
alle vittime poi, l’unica citazione anagrafica è quella di Aldo
Moro.
186
All’interno dell’approfondimento ritroviamo innanzitutto il
riferimento all’anno 1969 come quello d’inizio del terrorismo
“nelle sue forme più organizzate e più vili”. Una minaccia che
tuttavia non proviene solamente dai gruppi di opposta matrice a
cui si è già fatto riferimento precedentemente e che “agiscono
sovente in modo isolato e con pochissimi collegamenti con la
società nel suo complesso”. Cartiglia sottolinea infatti come
altri pericoli probabilmente maggiori “nascono a volte da
alcuni centri di potere-come i Servizi segreti-che operano
senza controllo all’interno dello Stato” e sono di complessa
identificazione, in quanto garantiti ai piani alti o perché
immuni data la loro consistenza di “organismi separati”.
Come si può notare, il riferimento ai servizi segreti è
caratterizzato da avverbi ed espressioni che esprimono dubbi e
incertezze e non è collegato a fatti specifici.
Sono presenti inoltre 4 tabelle differenti. La prima indica il
numero di Attentati e violenze in Italia dal 1969 al 1980,
suddividendoli tra attentati alle cose, violenze, morti e feriti in
agguati. La seconda fa riferimento al numero delle vittime in
attentati provocati da organizzazioni terroriste di destra o di
sinistra, negli anni ’69-’72-’74-’75-’76-’77-’78-’79-’80. La
187
terza ripartisce le vittime per grandi zone d’Italia del Nord,
Centro e Sud, facendo riferimento a stragi, agguati e altre
circostanze. La quarta, infine, indica le categorie sociali a cui
appartengono le vittime, con il numero maggiore rilevato per
quanto riguarda Forze dell’ordine e studenti.
Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, troviamo due
immagini accompagnate da questa didascalia “Due tra i
momenti più tragici nello scatenamento del terrorismo. Roma,
marzo 1978. Automobili vuote crivellate di colpi, segno sul
terreno dei morti, polizia, gente che osserva:sono appena
avvenuti il rapimento di A. Moro e il massacro della sua
scorta. Stazione di Bologna, agosto 1980. Treni devastati e
macerie”.
188
3.2 Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, I
tempi della storia, B. Mondadori, 1986263
Pearson Paravia Bruno Mondadori SpA, in breve PPBM SpA,
è una società per azioni italo-americana impegnata nel campo
dell'editoria. La società è nata nel 2000 con il nome PBM
Editori, dall'unione delle case editrici Paravia e Bruno
Mondadori (il nome della nuova società deriva dalle iniziali
delle case editrici menzionate). Nel 2006 la società è stata
acquisita da Pearson PLC, un gruppo editoriale e mediatico
anglo-americano, il quale le ha poi assegnato il controllo del
ramo aziendale Pearson Education, a sua volta proprietario di
Pearson Longman. In seguito l'azienda è stata rinominata col
nome attuale, che unisce la precedente denominazione con
quella del gruppo.
Alberto De Bernardi insegna Storia contemporanea
all’Università degli Studi di Bologna. Si è occupato di storia 263
Gli stessi autori hanno pubblicato un manuale intitolato Storia del
mondo Contemporaneo, B. Mondadori, 1990, nel quale il tema del
terrorismo viene affrontato nella medesima maniera
189
sociale, con studi sulla società rurale italiana tra Ottocento e
Novecento e sul movimento operaio e contadino, allargando
poi le prospettive di ricerca in direzione della storia del
fascismo, dell’antifascismo e dei movimenti di protesta
nell’Italia contemporanea.
Scipione Guarracino ha insegnato Metodologia della storia
presso la facoltà di Scienze politiche di Firenze.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il tema del terrorismo è inserito in un paragrafo riassuntivo
denominato “La geografia degli eventi”, che tocca vari
accadimenti ritenuti significativi. Viene evidenziato uno stretto
rapporto tra i movimenti di protesta studenteschi e operai del
biennio ‘68-‘69 e molti sviluppi che hanno contraddistinto le
vicissitudini del Paese nel difficile decennio successivo, tra i
quali spicca l’“oscura e drammatica trama del terrorismo”.
I primi anni Settanta si aprono con l’esplosione di una bomba
alla Banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana a
Milano, avvenuta il 12 dicembre ’69 “proprio alla conclusione
190
delle lotte sindacali”. Essa rappresenta solo l’inizio di una
serie di stragi e attentati che continuano nel ’73 alla questura di
Milano, nel ’74 a piazza della Loggia a Brescia e sul treno
Italicus e nel 1980 alla stazione di Bologna. Questi atti sono
ricondotti dai due autori ad un generico “terrorismo di destra
in collusione con più oscure forze internazionali”, il cui
obiettivo è condurre l’Italia verso una soluzione autoritaria o
“destabilizzare” il Paese nell’importante bacino strategico del
Mediterraneo. Sembra emergere la volontà da parte dei due
autori di sottolineare come il disegno di destabilizzazione fosse
indirizzato ad arginare lo spostamento a sinistra dell’asse
politico italiano, che poteva preludere ad una democrazia
dell’alternanza grazie alla quale sarebbe rientrato nel gioco
politico anche il PCI. Si evidenzia inoltre come
l’individuazione dei mandanti delle stragi è stata resa
impossibile da “l’inerzia, le coperture, le connivenze gravi
nella magistratura, nell’esercito e negli organismi statali e di
governo”.
Il clima già teso è ulteriormente esasperato da “una crisi
economica di enorme gravità e di lunga durata” che ha inizio
191
nei primi anni Settanta. Parimenti a quanto accadde sul piano
economico, anche per quanto riguarda quello sociale la crisi
portò alla nascita di un numero consistente di fenomeni mai
visti prima come “l’emarginazione sociale dei giovani in cerca
di lavoro nelle grandi metropoli, la crisi della famiglia
tradizionale, lo sviluppo della malavita organizzata con il suo
seguito di rapine, sequestri di persona, delitti, droga” . I due
autori inseriscono e accomunano poi l’esplosione del
terrorismo “di matrice anticapitalistica e rivoluzionaria” a
questo insieme di “drammatici fenomeni” secondo
un’interpretazione che vede le origini del terrorismo in una
dimensione anche sociologica (cfr. interpretazione F.
Ferrarotti). Alla base di tutti questi fenomeni sono annoverate
le false speranze del ’68 per numerosi gruppi di giovani, che
per anni hanno cercato di cambiare in maniera netta la società;
la mancanza di progetti di vita appaganti; l’“estraneità di
modelli di comportamento comuni per una massa di giovani
operai, studenti, tecnici e laureati”. Il “partito armato” quindi,
con il mostruoso obiettivo di “fare giustizia dei potenti e dei
capitalisti per conto della classe operaia”, si è reso
responsabile di una prolungata serie di assassinii che
192
raggiungono l’apice con il rapimento e la morte di Aldo Moro,
politico democristiano che stava cercando con fatica la chiave
per giungere ad un accordo tra democristiani e comunisti,
ampliando in questo modo l’orizzonte della vita politica
italiana. L’attacco sferrato allo Stato democratico favorì la
formazione di “governi di unità nazionale” formatisi in
seguito, grazie anche al maggiore peso elettorale raggiunto dal
partito comunista italiano, con “l’obiettivo di aggregare
intorno a un programma di risanamento economico e politico
il più vasto arco di adesioni parlamentari”. Tali governi sono
giudicati positivamente, in quanto capaci di aver agito contro la
crisi economica e il terrorismo. Tuttavia appaiono slegati
dall’assassinio di Moro, che invece portò ad una accelerazione
nel voto di fiducia da parte dei comunisti il giorno del suo
rapimento e che quindi contribuì alla instaurazione del
secondo. Possiamo notare come non si faccia riferimento
all’organizzazione terroristica più importante, le Brigate Rosse,
ma venga usato il termine “partito armato” il quale comprende
tutti i gruppi clandestini. Il concetto di compromesso storico,
inoltre, è trattato in maniera generica, tanto è vero che questo
termine specifico non è neanche citato, ma si fa riferimento ad
193
un generico accordo tra PCI e DC senza riferimenti diretti a
Berlinguer e al Partito comunista. La sconfitta del terrorismo,
secondo gli autori, risale all’inizio degli anni ’80, quando gli
equilibri governativi si erano modificati a favore del
pentapartito.
Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, non è presente
alcuna immagine nel testo.
3.3 Antonio Brancati, Popoli e civilta’, la nuova
italia, 1990.
La casa editrice La Nuova Italia fu fondata a Venezia nel 1926
da Elda Bossi e dal marito Giuseppe Maranini. Dopo una breve
parentesi a Perugia, si trasferì nel 1930, sotto la direzione di
Ernesto Codignola, a Firenze. Nel capoluogo toscano ebbe sede
nel 1958 in piazza Indipendenza al numero 29. Attualmente La
Nuova Italia è un marchio della RCS Libri.
Antonio Brancati, studioso emerito pesarese, svolge un’intensa
attività scientifica espressa nella pubblicazione di numerose
194
opere di cultura locale e nazionale. È noto per i suoi testi di
Storia dedicati alle scuole di ogni ordine e grado, nei quali ha
reso operativa la sua particolare riforma didattica, ottenendo
numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali. Direttore
della Biblioteca e dei Musei Oliveriani dal 1974 al maggio
2009 (attualmente ricopre la carica di presidente onorario), ha
curato anche la rivista Studia Oliveriana fondata dal professor
Scevola Mariotti. Per la Fondazione Cassa di Risparmio di
Pesaro ha progettato e realizzato la collana Aletheia, di cui è il
curatore.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
In linea con altri manuali, il fenomeno del terrorismo viene
introdotto a partire dalla strage di piazza Fontana, che per
Brancati ha avuto come unico scopo quello di impedire lo
spostamento a sinistra dell’asse politico italiano, sulla scia
della spinta nella stessa direzione impressa al paese dal
movimento del ’68 e dall’autunno caldo del ’69: “Il 12
dicembre 1969, nel salone della Banca Nazionale
dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, l’esplosione di
una bomba ad alto potenziale provocò una strage: 16 morti e
195
88 feriti. Le inchieste e le vicende giudiziarie successive non
giunsero mai a fare luce sul tragico evento. Mandanti ed
esecutori materiali rimasero impuniti. Tuttavia gli elementi che
riuscirono ad accertare nel corso degli anni consolidarono
l’ipotesi che si fosse trattato di un’azione terroristica maturata
negli ambienti dell’estrema destra neofascista. Era stato, in
sostanza, il tentativo di gettare il Paese nel caos e di provocare
una spirale di violenza che creasse le condizioni di una svolta
autoritaria. L’obiettivo era chiaro: bloccare la spinta a
sinistra emersa nella società italiana nel 1968 e ricacciare
indietro un movimento operaio che, nel 1969, si era rivelato
maturo e forte. La strategia della tensione o del terrore
inaugurata a piazza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per
molti anni una costante nella cronaca politica del nostro
Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze
compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e
neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine
Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a
manovre preparatorie di azioni golpiste”. Emerge quindi
come, nonostante il mancato accertamento della verità
giudiziaria (all’interno della quale non si fa riferimento alla
196
vicenda di Pinelli), la strage si possa ricondurre quasi
sicuramente agli ambienti dell’estrema destra neofascista.
Piazza Fontana rappresenta infatti l’inizio di quella che viene
indicata col termine di “strategia della tensione” o del terrore:
creare una situazione di disordine e violenza in Italia affinché
fosse necessaria una svolta autoritaria. Vengono citate diverse
organizzazioni terroristiche neofasciste e neonaziste
(Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero)
responsabili di un gran numero di attentati e stragi, effettuati
contemporaneamente a tentati golpe. Quasi a sottolineare un
rapporto di consequenzialità, Brancati, immediatamente dopo
l’analisi del terrorismo di destra, fa riferimento al terrorismo di
segno opposto: “Nel corso degli anni Settanta l’attacco allo
Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno
opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il
terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si
proclamavano ‘comuniste’ (i Nuclei Armati Proletari, Prima
Linea e, soprattutto, le Brigate Rosse)”. Pur citando anche in
questo caso varie organizzazioni, quindi, viene evidenziato il
ruolo preminente delle Brigate Rosse. Tuttavia mi pare venga
messa in dubbio l’effettiva riconducibilità al comunismo delle
197
stesse, dato che viene sottolineato come esse “si proclamavano
comuniste”. Viene effettuato quindi un parallelo tra i due
terrorismi, sottolineando uguaglianze e differenze: “Se i
terroristi neri si muovevano tra stragi e preparativi golpisti, gli
estremisti rossi preferivano gli attentati individuali contro
bersagli scelti per il loro significato simbolico: magistrati,
poliziotti, giornalisti, dirigenti di azienda. Gli obiettivi finali
delle due azioni eversive, ovviamente, erano divergenti. Gli
obiettivi intermedi, invece, erano simili: destabilizzare la
società italiana, provocare una lacerazione irreversibile del
tessuto democratico, far precipitare la situazione verso uno
scontro frontale e verso la violenza diffusa”. In realtà gli
obiettivi che entrambi i terrorismi si erano prefissati non furono
raggiunti, poiché la democrazia italiana si rivelò più salda di
quanto ci si aspettasse e capace di resistere all’attacco del
terrorismo nero, che Brancati descrive dettagliatamente nel suo
tentativo di gettare nel panico il cittadino medio, ignaro e
spaventato di quanto stava accadendo attorno a lui: “Messa
duramente alla prova, la democrazia italiana si dimostrò molto
più salda di quanto si sospettasse. Le stragi più atroci tra la
folla pacificamente riunita, gli attentati a treni e stazioni pieni
198
di gente in partenza per le ferie, non provocarono le reazioni
violente e incontrollate che i mandanti si attendevano, pronti
evidentemente ad operare un’immediata stretta reazionaria”.
Allo stesso modo i terroristi rossi, sulla cui origine comunista
Brancati si dimostra come abbiamo visto scettico, non
riuscirono ad avere delle basi di massa e a diffondersi nelle
fabbriche. I loro proclami non ebbero infatti il seguito sperato,
facendo della lotta armata “sempre una scelta individuale”.
Anche la protesta sociale e politica, pur vivace nei momenti più
duri dello scontro di classe e di fronte alla grande repressione
poliziesca e giudiziaria che fece seguito alla stagione di lotte
68-69, non si lasciò contaminare se non in minima parte dal
“partito armato” clandestino. Le circostanze elencate furono la
premessa della sconfitta dei due terrorismi. Possiamo notare
quindi un netto distacco tra le lotte politiche di quegli anni e il
fenomeno del terrorismo che, anzi, protagonista principale di
quel periodo denominato “anni di piombo” (espressione che
ricorre in molti manuali) ebbe l’effetto di danneggiarle,
obbligando sulla difensiva partiti e sindacati con il conseguente
esaurirsi della spinta a sinistra.
199
Restarono vive le battaglie per i diritti civili, anch’esse un
portato del movimento sessantottino, la più nota delle quali era
destinata a spaccare in due la società civile e la società politica.
Il referendum per il divorzio, infatti, creò nel paese una
tensione crescente che alimentò, secondo Brancati, l’attivismo
dei gruppi terroristi. Il primo sequestro, ai danni del giudice
Mario Sossi, segna l’inizio dell’ offensiva terroristica delle BR.
Possiamo leggere infatti: “Le organizzazioni terroristiche,
tentando evidentemente di fare leva sulla tensione prodotta nel
Paese dallo scontro frontale nel corso della campagna per il
referendum, intensificarono infatti le loro azioni. Nell’aprile
1974, alla vigilia della consultazione popolare, i terroristi di
sinistra delle Brigate Rosse rapirono il magistrato genovese
Mario Sossi, liberandolo solo dopo trentacinque giorni di
prigionia. Ancora più tragico il bilancio dell’attività degli
estremisti neofascisti: una strage con 8 morti e 94 feriti in
piazza della Loggia a Brescia (28 maggio) ed un’altra con 12
morti e 105 feriti per un attentato al treno ‘Italicus’ nei pressi
di San Benedetto Val di Sambro sulla linea Bologna-Firenze (4
agosto), proprio mentre venivano scoperti campi di
addestramento paramilitari e progetti più o meno elaborati per
200
l’attuazione di un colpo di Stato”. Come per piazza Fontana, è
poi riportato il numero delle vittime delle altre due stragi
effettuate dalla stessa matrice neofascista: 8 morti e 94 feriti
per quanto riguarda piazza della Loggia a Brescia (28 Maggio)
e 12 morti e 105 feriti riferibili al treno “Italicus” (4 Agosto).
Anche in questo caso l’attività neofascista è intrecciata alla
scoperta di piani per un tentativo di golpe.
Ad incrementare le tensioni interne al movimento
dell’estremismo di sinistra interveniva in quegli anni anche la
proposta berlingueriana di un compromesso storico, cui
Brancati attribuisce un valore positivo. In conseguenza a ciò,
vengono brevemente indicate le misure del nuovo governo
Andreotti (29 luglio 1976-16 gennaio 1978) appoggiato dal
PCI: “Forte della disponibilità del PCI espressa dopo
trent’anni di opposizione, il nuovo governo potè operare con
una certa incisività sul piano economico alla ricerca di un
contenimento dell’inflazione e della riduzione del deficit della
bilancia dei pagamenti. Le richieste sindacali si fecero meno
pressanti, la lotta alle evasioni fiscali più incisiva, il ricorso ad
una maggiore entrata fiscale meno sofferta, la spesa pubblica
201
per quanto possibile più limitata. Nello stesso tempo oltre a
negoziare un consistente prestito con il Fondo Monetario
Internazionale e con la Cee, si potè procedere alla
svalutazione della lira con benefici riflessi sui prodotti
destinati all’esportazione, i quali diventarono più competitivi
sui mercati esteri. Politica, dunque, di oculato appoggio al
governo, portata avanti con molto senso di responsabilità dal
PCI anche a scapito di profonde delusioni della sua base e
crescenti malumori della sinistra interna, la quale vedeva
ammorbidita la linea del partito”.
Tra i maggiori critici del PCI, accusato di aver tradito le sue
origini rivoluzionarie, troviamo inoltre Autonomia operaia, un
insieme di gruppi che dominavano l’area dell’estremismo
extraparlamentare di sinistra. Essi vengono descritti come
spesso simpatizzanti o addirittura fiancheggiatori del
terrorismo di sinistra, che reclutava militanti tra le loro file:
“L’area dell’estremismo extraparlamentare di sinistra, inoltre,
identificò nel PCI – accusato di aver tradito le sue origini
rivoluzionarie e di essersi socialdemocratizzato – il nemico
principale contro cui scagliarsi. Questa area, nel 1977,
202
appariva largamente dominata dai gruppi detti Autonomia
operaia, spesso simpatizzanti o addirittura fiancheggiatori del
terrorismo di sinistra che tra le loro file reclutava militanti.
L’autonomia fece presa soprattutto fra i giovani ed egemonizzò
un movimento di vaste proporzioni, che dette vita nel corso del
1977 a una serie di manifestazioni tumultuose e violente.
Numerosi gli scontri con la polizia, trasformati spesso in
episodi di autentica guerriglia urbana. Costante la
contrapposizione con il PCI e con il sindacato di sinistra, la
Cgil. L’episodio più clamoroso in questo senso si ebbe
all’università di Roma, quando gli ‘autonomi’ impedirono con
la violenza un comizio del leader della Cgil, il comunista
Luciano Lama”.
Oltre alla contrapposizione con il PCI, è sottolineata quindi
anche quella con la Cgil, il sindacato di sinistra, rappresentata
dall’episodio avvenuto alla Sapienza. Il PCI venne a trovarsi
quindi in una situazione difficile, ulteriormente sottolineata in
questo modo: “Oggetto di durissimi attacchi, premuto dalla
sua stessa base, che considerava troppo passiva la dirigenza
del partito di fronte ad un governo che deprimeva il potere di
203
acquisto dei salari e risultava impotente a dominare l’ordine
pubblico, il PCI si trovò in una situazione difficile: l’appoggio
esterno al governo rischiava di avere un prezzo troppo alto,
senza tradursi in concreti vantaggi politici. Inevitabile
l’ennesima crisi e solo il rapimento di Aldo Moro, attuato con
cinica determinazione da un commando delle Brigate Rosse il
16 marzo 1978 in via Fani a Roma a breve distanza
dall’abitazione dello statista e costato la morte all’intera sua
scorta, fece accelerare i tempi della votazione della fiducia ad
un nuovo monocolore democristiano sempre sotto la
presidenza di Andreotti, ma con l’appoggio di tutti i partiti
dell’arco costituzionale concesso dalle Camere nel giro di
poche ore: una specie di ‘solidarietà nazionale’ in un momento
di gravissima emergenza, nel quale era in gioco l’integrità
dello Stato e della stessa classe politica, che lo guidava e che il
9 maggio – a 54 giorni dal rapimento – dovette assistere
pressocchè impotente al ritrovamento del cadavere dello
statista democristiano in un auto abbandonata nei pressi delle
sedi centrali del PCI e dalla DC”.
204
Il rapimento di Moro ad opera delle Brigate Rosse, quindi, ha
l’effetto di accelerare la formazione del già previsto governo
monocolore democristiano di “solidarietà nazionale” sotto la
presidenza di Andreotti, ma con l’appoggio dato alle camere in
poco tempo di tutti i partiti compreso il PCI. Un governo
necessario in un momento di gravissima emergenza, acuita dal
ritrovamento del cadavere dello statista democristiano dopo 54
giorni di prigionia. Viene ricordata poi la morte, avvenuta nello
stesso difficile momento, del pontefice Paolo VI, il quale: “Il
16 aprile aveva inviato un accorato e nobile appello alle
Brigate Rosse per perorare la liberazione di Moro”.
Il paragrafo 6 è intitolato: “L’attacco al cuore dello stato” e al
suo interno troviamo delineate le conseguenze politiche del
rapimento e assassinio di Aldo Moro. Possiamo leggere infatti:
“Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro erano stati episodi
di estrema gravità, destinati ad avere pesanti ripercussioni sul
clima politico generale. Le Brigate Rosse avevano colpito ‘il
cuore dello Stato’ attraverso il più prestigioso personaggio del
partito di maggioranza: una figura chiave nei complessi e
delicati rapporti tra i partiti che stavano delineando la nascita
205
di un quadro politico del tutto nuovo. Con Moro era
scomparso il teorizzatore di una linea di dialogo graduale e
prudente, ma certamente destinata ad approdi inediti: forse la
diretta partecipazione dei comunisti al governo, in un’ipotesi
di solidarietà nazionale imposta dall’emergenza (economica,
dell’ordine pubblico e anche morale per il continuo dilagare
degli scandali e della corruzione), forse la creazione delle
condizioni per un’alternanza democratica nella gestione del
potere, comunque la fine della pregiudiziale che per trenta
anni aveva escluso i comunisti dall’area di governo. Con la
morte di Moro gli spiragli di dialogo, appena aperti, erano
destinati a richiudersi rapidamente”.
Nel paragrafo 7, infine, troviamo in primo luogo il riferimento
alla strage di Bologna: “In questo periodo – grazie anche alla
perspicacia e alla fermezza del generale dei carabinieri, Carlo
Alberto Dalla Chiesa (1920-1982) fu intensificata con successo
la lotta al terrorismo, sempre attivo e pronto a colpire in modi
e forme feroci e spietate sia da destra (particolarmente grave
l’attentato alla stazione centrale di Bologna affollata per
l’esodo estivo, il 2 agosto 1980, con 76 morti e oltre 200 feriti,
206
8 dei quali deceduti nei giorni successivi) sia da sinistra”.
Successivamente, a chiusura del paragrafo, vengono descritti i
motivi che hanno portato il terrorismo al declino: “Anche il
terrorismo di sinistra, enucleatosi in numerosi gruppi armati,
continuava infatti ad agire attraverso una lunga serie di
sequestri, rapine e scontri a fuoco, di fronte ai quali l’apparato
dello Stato sembrava non essere in grado di intervenire con
rapidità ed efficacia risolutive. Tuttavia, dopo avere raggiunto
l’apice della violenza con il rapimento e il delitto Moro, il
terrorismo rosso iniziava a vivere la stagione di un lento ma
progressivo declino: evidente risultato di una più decisiva e
capillare azione delle forze dell’ordine, del logoramento delle
organizzazioni eversive, duramente provate dai contrasti
interni e dal fenomeno del ‘pentitismo’, ma, soprattutto, della
tenuta della democrazia italiana”
Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, sono riportate
un’immagine e una vignetta: l’immagine è presente all’interno
del secondo paragrafo ed è accompagnata da una didascalia che
recita: “Un clima di violenza generalizzata, cui si risponde da
parte dello Stato con un consistente rafforzamento della
207
polizia, costituisce uno degli aspetti caratterizzanti la società
italiana degli anni Settanta. Mentre sono in corso lotte
studentesche e agitazioni dei gruppi giovanili – cui si riferisce
la fotografia di Uliano Lucas che mostra l’assalto di un gruppo
di dimostranti alla sede dell’Msi di via Mancini a Milano nel
1975 – l’Italia farà la pesante esperienza del terrorismo
organizzato, che dal 1974 in poi tenta di abbattere le istituzioni
repubblicane. L’acme della spirale di violenza che investe il
Paese viene raggiunta nella primavera del 1978 con il
rapimento e l’assassinio – da parte delle Brigate Rosse – di
Aldo Moro, l’esponente più illustre di quella collaborazione,
anche a livello politico, fra democristiani e comunisti che tra il
1976 e il 1979 era stata suggerita sia da ragioni ideali sia
dalla gravità della situazione interna. Il 1978 segna, però,
anche l’inizio del declino del terrorismo, non essendo riuscita
la violenza organizzata a indurre la popolazione a fare propri i
principi e i programmi dei brigatisti, che poco a poco finiscono
per trovarsi sempre più isolati. Ciononostante essi
continueranno a colpire ripetutamente al punto che nel corso
del 1981 si contano ancora 791 attentati con un tragico seguito
di morti e di feriti, soprattutto tra le forze di polizia. L’81 è
208
anche l’anno che vede il sequestro del generale americano
della Nato James Lee Dozier, liberato qualche settimana più
tardi grazie ad un’azione dei Nocs, i corpi speciali
antiterrorismo organizzati dal Ministero degli Interni. Nel
frattempo un evidente ripensamento sul passato più o meno
recente tende ad incrinare dall’interno la solidità delle file
terroristiche: nel febbraio 1980, in seguito all’arresto di alcuni
brigatisti, compare il fenomeno del ‘pentitismo’ con quello,
conseguente della collaborazione con gli organi dello Stato. È
da allora per l’appunto che l’organizzazione terroristica
subisce i colpi più incisivi grazie anche ad una apposita legge,
che prevede consistenti diminuzioni di pena per quanti,
rifiutando il terrorismo, si mostrano disposti a collaborare
contro di esso”. La vignetta invece è presente all’interno del
settimo paragrafo ed è descritta in questo modo: “La gravità
della situazione interna del Paese nel 1976 – determinata
soprattutto dall’intensificazione del terrorismo ‘rosso’ e
‘nero’, accomunati dall’intenzione, più o meno scopertamente
espressa, di voler distruggere le istituzioni democratiche e
repubblicane nate dall’antifascismo e dalla Resistenza –
indusse i due maggiori partiti italiani, la Democrazia Cristiana
209
e il Partito Comunista, ad accordarsi per una collaborazione,
consolidata subito dopo l’assassinio di Aldo Moro (maggio
1978). La vignetta di Giorgio Forattini, pubblicata nel luglio
’76 sul quotidiano ‘La Repubblica’, è ispirata all’avvenimento
e in particolare al cosiddetto ‘governo delle astensioni’
guidato dall’onorevole Giulio Andreotti, che per la prima volta
dal 1947 permetteva ai comunisti di riaffacciarsi nell’area di
governo. Efficace e curioso l’accostamento della coppia
Berlinguer-Andreotti a quella Togliatti-De Gasperi, attiva nei
più difficili anni del secondo dopoguerra, al tempo dei primi
tre ‘governi di unità nazionale’ o di coalizione dei partiti
antifascisti a guida degasperiana ( 1945-1947)”. Sono presenti
infine due testi-documenti all’interno di un approfondimento
che si intitola Cosa scrivono gli storici. Il primo Il bipartitismo
imperfetto e la lotta armata è tratto dal testo di G. Galli, Storia
del partito armato 1968-1982, Milano, Rizzoli, 1986. Il
secondo invece, intitolato Per una più ampia analisi del
fenomeno terroristico in Italia, consiste in un’intervista
effettuata da Giuseppe De Carli sulle origini ideologiche del
terrorismo al ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio
Rognoni.
210
3.4 Gabriele De Rosa, L’Età Contemporanea,
Minerva Italica, 1990.
La Casa editrice nasce nel 1952 a Bergamo come casa editrice
scolastica, in un contesto di grande fervore imprenditoriale. Per
tutta la sua esistenza, la Minerva Italica è sempre stata fra le
più importanti case editrici per la scuola in Italia. Nella sua
produzione ha sempre mantenuto un carattere prevalentemente
didattico, rivolgendosi a tutti gli ordini di scuola, dalle
elementari alle medie, fornendo servizi didattici e formativi
sempre molto curati rivolti agli insegnanti. Nel 1989 viene
acquisita dalla “Elemond Scuola” e, insieme alla “Arnoldo
Mondadori Scuola”, costituisce il primo nucleo di quello che
diventerà successivamente il Gruppo “Elemond-Divisione
Scuola”, in cui la Minerva verrà fusa nel 1991.
Gabriele De Rosa è stato professore ordinario di Storia
contemporanea nelle università di Padova, Salerno (di cui fu
rettore) e Roma. Nella sua attività di storico si è concentrato sul
movimento cattolico in Italia e sulla Democrazia Cristiana: è
riconosciuto come uno dei più importanti autori italiani su
entrambe le materie. Egli inoltre è stato autore di numerosi
211
saggi di storia sociale e religiosa, e di altrettanti manuali per le
scuole medie e superiori. Il suo nome è legato alla
pubblicazione di numerosi saggi su Alcide De Gasperi e Luigi
Sturzo, in particolare di diversi epistolari di quest'ultimo, col
quale strinse amicizia nel 1954. Oltre che storico è stato anche
politico: fu eletto senatore della Repubblica Italiana nella X e
nella XI Legislatura, rivestendo nel 1993 il ruolo di
capogruppo della Democrazia Cristiana.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il tema del terrorismo è preso in esame in un capitolo dal titolo:
“Crisi economica e dissociazione politico-sociale nell’Italia di
oggi” . Viene trattato inizialmente nel paragrafo 5, intitolato:
“Dall’eccidio di Piazza Fontana all’assassinio di Aldo Moro è
un crescendo pauroso di delitti terroristici”. Possiamo notare
come in questa analisi si faccia un elenco cronologico degli
avvenimenti più importanti: “Il fenomeno più terribile che ha
scosso profondamente la coscienza del Paese, per la sua
crudeltà e orrenda criminalità, è stato il terrorismo, che
proprio dal 1969 ha incominciato a salire in un crescendo
pauroso sino al 1980. Volendo adottare una datazione,
212
potremmo incominciare dall’eccidio di Piazza Fontana a
Milano il 12 dicembre 1969. Nella sede della Banca Nazionale
dell’Agricoltura fu fatta esplodere una bomba ad alto
potenziale. Ci furono 16 morti e 90 feriti. Nonostante un lungo
e complesso processo, non si è ancora pervenuti ad individuare
i colpevoli”. Non viene data alcuna rilevanza, quindi, al
coinvolgimento dei servizi segreti e dei neofascisti nella strage
di Piazza Fontana, sottolineando solamente in maniera generica
come ci sia stato un complesso processo senza colpevoli. La
strage di Piazza fontana viene considerata “la madre di tutte le
stragi” , perché è da qui che De Rosa fa partire l’escalation
della violenza terrorista. Ciononostante, nessun riferimento
specifico ai procedimenti giudiziari e alle persone coinvolte
nelle indagini sul terrorismo di destra è presente nel testo. Una
delle ragioni per cui ciò accade è da ricercare nella difficoltà di
individuare i colpevoli, a causa della lunghezza dei processi e
del coinvolgimento di settori dei servizi segreti e di apparati
delle forze di sicurezza, coinvolgimento che emergerà molto
dopo la pubblicazione del manuale. “Da allora fu un fitto
susseguirsi di attentati contro sedi di partiti, di giornali, di
industrie, di conflitti tra fazioni studentesche di destra e di
213
sinistra, di episodi di vera e propria guerriglia urbana contro
le forze dell’ordine. Nell’agosto del 1970 compare il primo
volantino delle Brigate Rosse, a Milano, alla Siet-Siemens. Nel
marzo 1972 incominciano i sequestri di persona e i ‘processi
proletari’, mentre si assiste a un aumento continuo delle
rapine. Il 28 maggio 1974 è il giorno della strage di Piazza
della Loggia a Brescia. Nel corso di un comizio antifascista
viene fatto esplodere un ordigno che provoca 8 morti e
centinaia di feriti. Il paese è sconvolto dalle immagini di
questa strage. Il 4 agosto 1974, attentato al treno Italicus,
diretto da Roma a Monaco. Una bomba esplode nella quinta
carrozza sotto una galleria appenninica, a poca distanza dalla
stazione di San Benedetto Val di Sambro: 12 morti e 48 feriti” .
Anche gli avvenimenti relativi al terrorismo di sinistra –
eccetto il caso Occorsio – vengono presentati in forma di
elenco dal carattere informativo più che interpretativo:
“Sindacalisti, magistrati, commissari e agenti di polizia,
carabinieri, giornalisti vengono ‘puniti’ con ferimenti alle
gambe o assassinati. Fra gli uccisi il commissario di polizia
Luigi Calabresi, i magistrati Francesco Coco, Vittorio
Occorsio, Riccardo Palma, Gerolamo Tartaglione, il
214
giornalista Walter Tobagi. Tra i feriti il giornalista Indro
Montanelli, Emilio Rossi, direttore del ‘Telegiornale’. Il 16
novembre 1977 è ferito a morte il giornalista Carlo Casalegno.
Il 16 marzo 1978 in via Fani a Roma viene sequestrato il
presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro dalle BR.
Gli uomini della sua scorta sono massacrati: il maresciallo
Oreste Leonardi e gli agenti di scorta, Raffaele Jozzino,
Francesco Zizzi e Giulio Rivera. Il 9 maggio 1978 in una
macchina abbandonata a Roma in via Caetani è ritrovato il
corpo di Aldo Moro, ucciso con raffiche di mitra dai brigatisti
rossi. Il 29 gennaio 1979 è assassinato a Milano il giudice
Emilio Alessandrini. Il 13 luglio 1979 è ucciso a Roma il
tenente colonnello Antonio Varisco. Il 12 febbraio 1980 è
assassinato nell’atrio della Facoltà di Scienze politiche a
Roma, dove insegnava diritto amministrativo, Vittorio
Bachelet, ex presidente dell’Azione Cattolica, vice Presidente
del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel settembre
1982 è assassinato a Palermo il generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa; il 16 aprile 1988 è assassinato nella sua casa di Forlì,
il senatore democristiano Roberto Ruffilli, impegnato nei
progetti delle riforme istituzionali. Questa sequenza di delitti è
215
solo indicativa: dovremmo aggiungere, tra gli altri, anche i
nomi dei carabinieri e dei poliziotti, che sono caduti nella lotta
contro i terroristi, neri e rossi”.
In questo lungo elenco possiamo osservare, per prima cosa,
come il nome del commissario Calabresi non venga legato alla
morte di Pinelli e alle indagini su Piazza Fontana, inoltre non
viene fatto alcun riferimento alla strage della stazione di
Bologna, avvenuta il 2 Agosto del 1980. Viene citato invece,
ed è uno dei pochi casi in cui ciò accade, il giornalista Carlo
Casalegno, il primo giornalista ucciso durante gli anni di
piombo. L’assassinio del generale Dalla Chiesa, invece, mi
pare venga inserito in maniera inopportuna: la sua morte infatti
è avvenuta per mano mafiosa. Nel paragrafo conclusivo, De
Rosa dichiara che il terrorismo è stato sconfitto sul piano
politico e su quello pratico, grazie all’operato delle forze
dell’ordine: “Se l’obiettivo delle formazioni terroristiche, dalle
Brigate Rosse a Prima Linea, era di destabilizzare lo Stato,
questo non è stato raggiunto: lo Stato non solo ha resistito, ma
ha inferto, mercè l’azione dell’arma dei carabinieri e della
polizia che hanno raggiunto un grado elevato di preparazione,
ai 180 gruppi terroristici, di cui ben 140 della sinistra
216
eversiva, colpi durissimi. Interi gruppi, con i loro capi, sono
stati sbaragliati”. Vengono quindi nominate solamente
organizzazioni terroristiche di sinistra e non si fa cenno a
quelle di estrema destra che, secondo De Rosa, sono comunque
numericamente inferiori.
Un particolare rilievo viene dato alla componente ideologica
dei gruppi terroristi, tanto da dedicare a questo aspetto un
paragrafo dal titolo “Non vi è dubbio che il terrorismo ha una
sua struttura ideologica”, nel quale l’autore si sofferma sulle
varie interpretazioni del complesso fenomeno. Possiamo
leggere infatti: “C’è chi ha visto nel terrorismo un fenomeno
endogeno, nato da processi disgregativi e dirompenti formatisi
all’interno della nostra società civile: altri vi hanno visto un
fenomeno di importazione, che ha saputo utilizzare uno stato
psicologico e intellettuale di ribellismo anarcoide e sovversivo,
enucleatosi nei momenti più drammatici della crisi delle
ideologie marxiste-leniniste. Da una simile interpretazione
rimarrebbe escluso il terrorismo di destra, minoritario rispetto
al primo, ma che con il primo concorrerebbe a raggiungere gli
stessi scopi di destabilizzare lo Stato”. Ci troviamo quindi di
fronte ad un’analisi del fenomeno che prende in considerazione
217
prevalentemente il terrorismo di sinistra: “L’interpretazione
del terrorismo come fenomeno strategicamente gestito fuori
dal nostro Paese condurrebbe a prospettare l’ipotesi di una
specie di guerra per procura […] Questa ipotesi sino ad oggi
non appare sufficientemente documentata: troppo scarse sono
le prove di collusioni internazionali, per ammettere l’esistenza
di un piano di guerra per procura. La prima ipotesi, quella che
attribuisce al terrorismo origini interne, si presenta ancora
oggi come la più plausibile”. De Rosa, quindi, sposa la prima
ipotesi dell’origine endogena del terrorismo. Riprende inoltre il
concetto, già enunciato nel titolo, della struttura ideologica del
terrorismo: essa ha fatto presa tra molta gioventù, soprattutto
degli Atenei, pur non esprimendo un pensiero politico e civile
“organico e ben individuato”. I molti gruppi terroristici,
infatti, sono caratterizzati da uno spontaneismo “disarticolato”
che si unifica nell’esaltazione del gesto delittuoso. Per quanto
riguarda i loro punti di riferimento: “Ma i brigatisti collocano
sullo stesso piano tanto l’imperialismo americano che il
socialimperialismo sovietico, così come venne denunciato da
Mao Tse-Tung. Essi ritengono che i due imperialismi non siano
altro che ‘due variabili specifiche del modo di produzione
218
capitalistico, in questa fase, capitalismo privato e capitalismo
di stato’. […] I ‘teorici’ delle Brigate Rosse ripudiano il
partito Comunista italiano, il suo programma e la sua storia,
da Gramsci a Togliatti; ripudiano anche i sindacati. Indicano
inoltre come nemici la Democrazia Cristiana, il ministero del
Tesoro, la Banca d’Italia, i magistrati e i ‘giornalisti –
consulenti’. Trasformando la vittima in puro simbolo del
potere, la violenza si giustifica con se stessa, o si giustifica con
l’inesorabilità di un convincimento rivoluzionario,
completamente dissociato da ogni legame civile, umano e
religioso”.
De Rosa insiste sulle forme di connivenza con il terrorismo che
sorgono spontaneamente in certi settori della società
particolarmente permeabili alle parole d’ordine del terrorismo,
trasmesse in una pluralità di modi: dai libri, ai giornali, ai
volantini, alle radio private, ad un certo tipo di accademia, ad
alcuni settori della giustizia e, come strumenti di propaganda
del terrorismo, attraverso un certo tipo di libri, una stampa
fiancheggiatrice, cattedre, giudici e partiti della sinistra. “Tra il
sogno funereo, tragico, mostruoso del terrorista e certo
consenso che si è formato attorno ad esso fra gli studenti, in un
219
certo mondo snob di borghesia intellettualoide che giuocava a
far la rivoluzione, e negli ambienti di fabbrica, c’è la
‘mediazione’ di un linguaggio che ha educato a una specie di
metafisica della violenza: libri che insegnavano i metodi della
guerriglia, una stampa fiancheggiatrice del terrorismo,
‘dottrine’ che esaltavano l’equidistanza tra Stato e imprese del
terrorismo, cattedre a servizio della ‘rivoluzione’ che
plagiavano intelligenze fragili di adolescenti, intimidazioni di
massa e ricatti nelle aule universitarie, un permissivismo
dilagante a tutti i livelli, di cui si sono resi complici anche
giudici e partiti della sinistra”. Il suo giudizio definitivo è
lapidario: “Il terrorismo italiano ha radici private, è il
prodotto di una minoranza, che ha cercato di aggregare
attorno alle sue parole d’ordine quanti avevano motivi per
negare l’ordine e la giustizia dello Stato: dalla delinquenza
comune ai carcerati agli autonomi dell’ultra sinistra” .
De Rosa è convinto inoltre che “Il terrorismo è un prodotto
anche della dissociazione fra società politica e società civile”
– come lui stesso scrive titolando un nuovo paragrafo ancora
dedicato a questo argomento. In esso troviamo innanzitutto un
riferimento ai terrorismi di altre nazioni, come quello tedesco e
220
francese, che tuttavia, a differenza di quello italiano, sono stati
ben presto sconfitti dallo Stato. Possiamo leggere infatti:
“Quello italiano è durato molto più a lungo, né si può dire che
sia estinto, dal momento che, dopo ogni sconfitta, ha
dimostrato capacità di autoalimentarsi. […] Il terrorismo
invece dell’età post-industriale ha già una sua collocazione
storica, non se ne potrà prescindere nel raccontare le vicende
italiane degli anni Settanta e Ottanta. Lo Stato si è trovato
impreparato di fronte ad esso, quasi sorpreso di scoprire un
mondo sconosciuto rispetto a quello gestito negli anni del
‘miracolo economico’. Si è prodotta dalla fine degli anni
Settanta una disarmonia fra lo Stato e la sua base sociale, una
dissociazione tra società politica e società civile, tra il
linguaggio dei partiti e il comportamento delle masse: si
tengano presenti i grandi movimenti di immigrazione interna, i
caotici processi di urbanizzazione, lo spopolamento massiccio,
inarrestabile delle campagne del Sud, con i radicali mutamenti
di mentalità, che hanno distrutto la possibilità di richiami e
percezioni di valori tradizionali etici e religiosi. Lo stesso
clero, e non solo la classe dirigente, è apparso inadeguato a
far fronte a una crisi di così vaste proporzioni”. Lo stesso tipo
221
di analisi era condivisa da Moro che, con parole presaghe, in
un discorso alla Camera il 2 dicembre 1974 individuava in
parte le radici del terrorismo nel distacco tra società politica e
società civile: “Il Paese non ha trovato, evolvendo, un suo
assetto definitivo e accettabile […] Non si tratta di
sovrastrutture, ma di fenomeni di base. E sarebbe vano
approntare piccoli rimedi a fronte di cause importanti. C’è una
sproporzione, una disarmonia, una incoerenza fra società
civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni, e società
politica […] Non è solo intermittente la nostra economia, ma è
discontinua, nel suo stesso impetuoso fiorire, la vita sociale;
stanca la vita politica, sintesi inadeguata e talvolta impotente
dell’insieme economico-sociale del Paese […] Questa Italia
disarmonica e disordinata è però infinitamente più ricca e viva
dell’Italia più o meno assestata del passato. Ma questa è solo
una piccola consolazione. Perché anche nel crescere e del
crescere si può morire”.
De Rosa, inoltre, rifiutava anche l’interpretazione del
terrorismo come “strategia della tensione”, che ai suoi occhi
appariva solo come una formula “escogitata” per spiegare un
fenomeno che aveva ben altre radici: “Per spiegare le imprese
222
del terrorismo, si escogitò fra la fine degli anni Sessanta e i
primi anni Settanta la formula della ‘strategia della tensione’:
si sosteneva, soprattutto dalla stampa di sinistra, che era in
atto una sorta di complotto fra estremisti di destra e servizi di
sicurezza per destabilizzare lo Stato democratico. L’opinione
pubblica era smarrita, anche perché i poteri pubblici
mostravano di essere impreparati ad affrontare una situazione
così tesa, nella quale, oltre le gesta criminali dei terroristi,
operavano anche grossi movimenti studenteschi, con finalità
fiancheggiatrici delle colonne armate del brigatismo rosso”.
Possiamo qui evidenziare due punti importanti. Il primo
riguarda l’uso del termine “strategia della tensione”, che viene
attribuito tuttavia alla stampa di sinistra. Pur essendo difficile
parlare di uso politico della storia in questa circostanza, non è
però possibile non accennare al fatto che De Rosa fosse uno
storico molto vicino alle posizioni della Democrazia Cristiana e
dunque non era facile per lui accettare l’ipotesi, peraltro non
pienamente dimostrata, di un coinvolgimento di settori deviati
dello Stato. Il secondo punto degno di nota è l’accusa esplicita
rivolta ai movimenti studenteschi, che vengono definiti
“fiancheggiatori dei terroristi”.
223
A fare da catalizzatore delle tensioni, inoltre, vi era anche la
difficile situazione economica interna brevemente descritta,
legata ai governi di centro-sinistra succedutisi in quegli anni.
L’insoddisfazione per l’immobilismo dei governi DC/PSI si
manifestava poi chiaramente in occasione delle elezioni
amministrative del 1975 e delle politiche dell’anno successivo,
che videro il voto di protesta riversarsi in modo massiccio sul
PCI: “Dalle elezioni politiche del 1976 usciva il primo
‘governo delle astensioni’, guidato da Giulio Andreotti:
governo tutto democristiano, che potè formarsi grazie
all’astensione dei partiti dell’‘arco costituzionale’, come si
diceva allora, identificati nei partiti che avevano varato la
Costituzione: dai liberali ai repubblicani ai socialisti ai
comunisti. La novità era costituita dal fatto che fra i partiti
dell’astensione era appunto il partito Comunista, guidato da
un leader di grande prestigio politico: Enrico Berlinguer […]
La proposta più famosa e discussa del nuovo leader comunista
fu quella del ‘compromesso storico’: una sorta di grande
intesa e alleanza fra comunisti, socialisti e cattolici per
rispondere agli attentati e alle manovre, più o meno nascoste,
contro le istituzioni democratiche e per dare nuovo slancio alla
224
politica delle riforme. […] Non vi è dubbio che con la sua
proposta Berlinguer dava la massima prova della duttilità del
Partito Comunista nella nuova prospettiva strategica di una
sempre maggiore associazione del comunismo italiano alle
sorti e alle regole delle democrazie occidentali”. La proposta
di Berlinguer venne seguita fin da subito con interesse da
Moro: “Il leader della DC, Aldo Moro, seguì con attenzione
questa evoluzione interna del PCI, ne comprese le novità e
ritenne che potesse percorrersi insieme un tratto di cammino
per superare l’emergenza. Pur parlando di una ‘terza fase’
della Democrazia Cristiana, non sembra che Moro la vedesse
realizzabile attraverso il ‘compromesso storico’. Convinto
della necessità di una maggiore compenetrazione fra società
politica e civile e di più forti intese fra i partiti di massa per
quella politica di riforme, richiesta dai cambiamenti del Paese,
non riteneva che la DC potesse abbandonare quel ruolo di
centralità nella vita politica del Paese, nella quale si
riassumeva l’eredità di Alcide De Gasperi. Tuttavia le Brigate
Rosse credettero di individuare in Moro con la sua politica di
‘solidarietà nazionale’, tendente a compromettere il ruolo
della sinistra marxista attraverso il potere, il maggiore nemico
225
della rivoluzione comunista: lo rapirono e lo assassinarono”.
Come possiamo vedere, la morte di Moro è legata alla
“minaccia” che le Brigate Rosse vedevano in lui in quanto
sostenitore di una politica di “solidarietà nazionale”.
3.5 Carlo Capra, Giorgio Chittolini Franco Della
Peruta, Corso di storia, Le Monnier, 1992.
Le Monnier è una casa editrice italiana, di proprietà del gruppo
Mondadori. Fondata a Firenze nel 1837 dal francese Felice Le
Monnier (1806 – 1884), già tre anni dopo la sua istituzione
vide la nascita della più famosa tra le sue collane, la
“Biblioteca nazionale italiana”. Ceduta nel 1859 alla Società
Successori Le Monnier, l’azienda fu rilevata nel 1922 da
Armando Paoletti, che la rivitalizzò con il ripristino della
“Biblioteca nazionale” e l’avvio della collana “Studi e
documenti sulla storia del Risorgimento”, diretta da Giovanni
Gentile. Attenta a partire dagli anni Sessanta all’editoria
scolastica, la casa editrice ha pubblicato riviste politico-
letterarie e scientifiche di rilievo quali Pegaso, Il Ponte, Studi
226
italiani di filologia classica, La Cultura. Tra le altre
pubblicazioni si cita il Vocabolario illustrato della lingua
italiana curato da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli. Nel 1999
la Le Monnier – che ebbe tra i collaboratori personalità come
Vittore Branca e Giovanni Spadolini (come direttore dei
Quaderni di storia e, dal 1976 al 1994, come presidente della
società) – entrò a far parte del gruppo Arnoldo Mondadori
Editore.
Franco Della Peruta, docente di Storia del Risorgimento
all'Università di Milano, è stato socio corrispondente
dell'Accademia dei Lincei e presidente dell'Istituto lombardo di
storia contemporanea. Ha inoltre diretto o condiretto importanti
riviste quali Movimento operaio, Studi storici, Società e storia,
Storia in Lombardia. Studioso del Risorgimento di ispirazione
marxista, ha indagato con particolare attenzione le correnti
democratiche e socialiste, curando, tra l'altro, scritti di Carlo
Pisacane, Filippo Buonarroti e l'importante raccolta degli
Scrittori politici dell'Ottocento (Milano-Napoli, Riccardo
Ricciardi, 1969).
227
Carlo Capra ha al suo attivo un quarantennio di insegnamento
universitario in Storia moderna, trascorso presso l'Università
degli Studi di Milano. Capra, oltre che professore ordinario di
Storia moderna e di Storia dell'età dell'Illuminismo, è stato
anche nella stessa sede Direttore di Dipartimento e
Coordinatore del Dottorato di ricerca in Storia. I suoi studi
(attestati da oltre 150 pubblicazioni) hanno riguardato in
prevalenza il Settecento riformatore, in particolare nella
Lombardia austriaca e l'età rivoluzionaria e napoleonica in
Francia e in Italia. Carlo Capra è condirettore della collana
Studi e ricerche storiche presso l'editore FrancoAngeli e della
collana Biblioteca del Settecento italiano presso le Edizioni di
Storia e Letteratura di Roma. Presiede inoltre il Comitato
scientifico dell'Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri,
ed è direttore responsabile della rivista Archivio Storico
Lombardo.
Giorgio Chittolini insegna Storia medievale presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Milano ed è presidente
della Fondazione Centro Studi sulla Civiltà del Tardo
Medioevo di San Miniato.
228
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il tema del terrorismo è inserito in un capitolo denominato La
vita politica italiana dal 1968 ai giorni nostri. È importante
prima di tutto rilevare come i tre autori dedichino
un’importanza diversa ai terrorismi di diversa matrice: mentre
quello nero infatti è brevemente trattato, quello rosso è
analizzato in un paragrafo intitolato Il Terrorismo, a
dimostrazione del fatto che i tre autori considerino quello rosso
come il terrorismo per eccellenza. A quest’ultimo è inoltre
dedicato un documento il cui contenuto descriverò più avanti.
Il terrorismo nero agisce all’interno della “strategia della
tensione”, considerata dagli autori come un progetto teso a
destabilizzare tramite una serie di attentati, effettuati quasi
certamente da neofascisti collegati con i servizi segreti, e il cui
obiettivo è giungere a una svolta autoritaria. Come accade
anche in altri manuali, l’inizio di questa strategia è indicato
nella strage di piazza Fontana: “Questa strategia prese l’avvio
con la strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969),
dove l’esplosione di una bomba nei locali della Banca
nazionale dell’agricoltura provocò 17 morti e un centinaio di
229
feriti. La polizia addebitò inizialmente l’attentato agli
anarchici, ma la versione ufficiale si sgretolò presto mentre
sospetti sempre più fondati si addensavano su gruppuscoli di
neofascisti collegati ai servizi segreti”. Viene sottolineata
quindi la falsità della versione ufficiale e il prosieguo delle
indagini verso colpevoli più attendibili, pur non facendo
riferimento alla vicenda Pinelli. La “svolta autoritaria” citata
precedentemente viene esplicitata tramite il riferimento al
tentato golpe: “Nel dicembre 1970 ci fu poi il tentativo di colpo
di Stato di Junio Valerio Borghese, già comandante della X
flottiglia MAS durante la Repubblica di Salò, che riuscì a
occupare per alcune ore il Ministero dell’interno”. Vengono
elencati poi gli altri gravi attentati che nel tempo hanno
costantemente riproposto il tentativo di trascinare nel caos
l’Italia: “Strage di piazza della Loggia a Brescia (dove nel
maggio 1974 una bomba scoppiata durante una manifestazione
antifascista fece otto morti), nell’attentato al treno ‘Italicus’
(agosto 1974, con 12 morti) e nella gravissima esplosione
provocata il 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione
ferroviaria di Bologna, che fece 85 vittime”.
230
Alla nascita del terrorismo rosso è dedicato un intero paragrafo
intitolato – come detto – Il terrorismo. L’origine del fenomeno
è legata a doppio filo dagli autori ai gruppi della sinistra
extraparlamentare: i gruppi più estremisti della stessa infatti
vengono indicati come il terreno fertile in cui esso affonda le
sue radici. L’analisi ideologico-dottrinaria, considerata spesso
avulsa dalla realtà dagli autori, considera il PCI come nemico
della rivoluzione: “Il PCI aveva tradito la causa della
rivoluzione, era divenuto riformista, e andava combattuto allo
stesso modo del sistema capitalistico e dei partiti della
borghesia”. Il passaggio alla violenza e alla lotta armata
clandestina era quindi inevitabile per arrivare all’obiettivo
finale, che era quello della rivoluzione in cui sarebbero stati
distrutti il capitalismo e lo Stato “borghese”. L’attacco del
terrorismo rosso iniziò nel 1970 con la nascita dei gruppi
clandestini, primo fra tutti quello delle Brigate Rosse,
considerate la più : “decisa organizzazione terroristica di
estrema sinistra italiana”. Viene sottolineato come l’attività
delle Brigate Rosse, fondate da Curcio nel 1970, sia stata
caratterizzata da una escalation: “dopo una serie di attentati
incendiari dimostrativi cominciò a sequestrare magistrati e
231
dirigenti aziendali”. È citata poi la presenza di un piccolo
gruppo, i GAP (Gruppi armati proletari), legati
all’imprenditore ed editore Feltrinelli, della cui morte non si
hanno notizie certe: “morì nel 1972 in circostanze rimaste
oscure nel tentativo di sabotare un traliccio dell’alta tensione
vicino a Milano”. Oltre agli ex militanti di Potere Operaio
scioltosi nel 1973, altri due gruppi sposano la strategia
terroristica in quegli anni: i Nuclei armati proletari (NAP) e
Prima linea, entrambi tra il 1975 e il 1976. Quest’ultimo è
anche l’anno che viene indicato come quello di una svolta
importante, dato che le Brigate Rosse passano all’azione
cruenta. Oltre alle “gambizzazioni” vengono elencati i primi
veri e propri omicidi a sangue freddo: “Tra gli altri i
giornalisti Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il sindacalista
comunista Guido Rossa e il professore cattolico Vittorio
Bachelet”. Il bilancio dell’attività violenta iniziata nel ‘76 e
conclusasi nell’82 parla di una lunga scia di sangue: “Questa
sequela di violenze delle Brigate Rosse e degli altri gruppi che
ne seguirono l’esempio provocò fino a tutto il 1982 più di 160
vittime”.
232
La forte contiguità tra le Brigate Rosse e la sinistra
extraparlamentare è ulteriormente approfondita facendo
riferimento ai fatti del ’77. Si sottolinea innanzitutto come
“L’attività delle Brigate Rosse fu giustificata sul piano
ideologico dai gruppi di Potere operaio e Lotta continua” ,
gruppi la cui azione era caratterizzata dalla cosiddetta
“illegalità di massa”, una forma di lotta sociale che
comprendeva l’occupazione delle case e gli “espropri
proletari” , danni ai negozi e ai supermercati. Inoltre erano
frequenti manifestazioni di massa nelle scuole e nelle strade e
violenti scontri con le forze dell’ordine che raggiunsero l’apice
nel 1977. Proprio questo è infatti indicato come l’anno in cui:
“ci fu una ripresa in forme esasperate e radicalizzate del
movimento studentesco e giovanile sessantottesco”. Il
“movimento del ’77”, all’interno del quale: “si esprimevano
anche un malessere esistenziale dei giovani e la delusione di
quelle speranze di rinnovamento globale che erano seguite al
‘68” vide l’egemonia di Autonomia operaia, fortemente critica
verso i sindacati e il PCI. Fu contro di essi infatti che il
movimento fu indirizzato e a conferma di questo è riportato
233
l’episodio della cacciata violenta del segretario della CGIL
Luciano Lama durante un comizio alla Sapienza di Roma.
Gli “opposti estremismi” – come vennero genericamente
definiti – poterono agire a lungo a causa di una risposta dello
Stato che fu per lungo tempo debole, fino a quando a capo
della lotta al terrorismo fu chiamato il generale dei carabinieri
Carlo Alberto Dalla Chiesa, descritto come “abile e risoluto”,
caratteristiche che sono attribuite alla sua figura nella maggior
parte dei manuali. Si deve a Dalla Chiesa quindi la progressiva
demolizione della struttura delle Brigate Rosse, avvenuta
tuttavia dopo il sequestro e l’omicidio Moro di cui si darà
conto nel paragrafo successivo. Inoltre: “Un apporto notevole
alla lotta contro il terrorismo venne da una legge del 1980 che
concedeva forti riduzioni di pena agli imputati che avessero
collaborato con la giustizia” portando infatti molti di questi
“pentiti” a dare alle forze dell’ordine indicazioni molto utili
per le indagini. I tre autori sottolineano comunque come, oltre a
quanto già detto, i fattori fondamentali della sconfitta del
terrorismo furono rappresentati dalla: “reazione di rigetto della
grande maggioranza degli italiani” e dal mancato consenso
della classe operaia al progetto rivoluzionario.
234
Al “caso Moro” come già accennato precedentemente, è
dedicato un paragrafo specifico, separato dall’analisi generale
del terrorismo e intitolato: La “solidarietà nazionale” e
l’uccisione di Aldo Moro. La morte dell’allora presidente della
DC è posta alla fine di un’accurata ricostruzione della
situazione politico-economica di quegli anni. Innanzitutto si
sottolinea come si andasse profilando un “sensibile
spostamento a sinistra del paese”, del quale si
avvantaggiavano i comunisti, i quali: “avevano combattuto con
grande determinazione il terrorismo polemizzando duramente
con i gruppi extraparlamentari” e allontanatisi sempre più da
Mosca rappresentavano ormai un esempio di pluralismo
democratico. Il primo segnale dello spostamento a sinistra fu
nel maggio ’74 la “pesante sconfitta della DC nel referendum
indetto per l’abrogazione del divorzio. Contro ogni previsione
Il referendum, sostenuto anche dalla Chiesa e dal Msi, non
passò e a favore del divorzio si pronunciò più del 59 per cento
degli elettori”. Il risultato del referendum e le altre numerose
campagne a favore dei diritti civili di quegli anni dimostrarono
come il processo di modernizzazione e secolarizzazione della
società italiana avesse fatto importanti passi in avanti. Lo
235
spostamento a sinistra dell’elettorato fu sancito invece dalle
elezioni regionali del giugno ’75 che videro “una netta
affermazione dei comunisti (33%), un buon risultato dei
socialisti e un calo democristiano”. Allo stesso modo le
politiche del ’76 confermarono questa tendenza con i comunisti
al 34, 4%, la DC stabile e i partiti minori che raccoglievano
pochi consensi. Questo esito elettorale aveva reso non
percorribile la costituzione di una maggioranza parlamentare di
centro o di centro-destra: tale evidenza portò una parte dei
democristiani, convinti da Moro che viene definito “il grande
tessitore” a voler sposare la linea del compromesso storico che
in quegli anni andava delineandosi. La diversa linea strategica
elaborata dal nuovo segretario Berlinguer, descritto dagli autori
come “un uomo di profonda onestà morale e intellettuale,
misurato e alieno dalla retorica”, consisteva infatti in una
collaborazione tra i comunisti, i socialisti e i cattolici resasi
necessaria a suo avviso di fronte alla crisi economica e al
pericolo di una svolta autoritaria come quella avvenuta in Cile.
L’operazione era giudicata possibile da Berlinguer in quanto:
“La DC non era un partito organicamente reazionario dal
momento che al suo interno esisteva una forte componente
236
popolare e progressista”. Viene sottolineato inoltre
l’atteggiamento realistico di Berlinguer che, conscio
dell’ostilità degli Stati Uniti ad un governo allargato al PCI
nonostante i progressi di cui si è prima parlato nei confronti
della democrazia che il partito aveva fatto, diede la
disponibilità ad “appoggiare dall’esterno un governo di
coalizione, senza l’ingresso diretto dei comunisti nel
ministero”. Nell’agosto ’76 si arrivò quindi alla nascita del
“governo di solidarietà nazionale”, monocolore DC,
presieduto da Andreotti, altresì detto della “non sfiducia”,
avendo ottenuto in parlamento l’astensione di tutti i partiti
dell’arco costituzionale: comunisti, socialisti del PSI e del
PSDI, repubblicani e liberali. L’astensione del PCI viene
descritta come determinante e significativa: per la prima volta
infatti dal 1947 il partito non era più all’opposizione. Viene
ulteriormente sottolineato il ruolo di Berlinguer che,
appoggiando le misure prese dal governo in materia
economica, dimostratesi poi adeguate a fronteggiare la crisi,
sottolineò “l’esigenza di introdurre nel paese una maggiore
“austerità”, con un implicito invito a moderare le richieste
salariali accolto dalle confederazioni sindacali”. Oltre che per
237
affrontare la crisi economica, il contributo dei comunisti al
governo fu fondamentale, come gli autori hanno già
precedentemente sottolineato, per “combattere il terrorismo e
difendere la democrazia”. Essi infatti: “diedero nell’estate
1977 il loro consenso a misure che ampliavano i poteri della
polizia, alla quale la legge reale del 1974 aveva già attribuito
la facoltà di fermare i sospetti di terrorismo e di trattenerli per
48 ore senza che nessuno potesse comunicare con loro” . Il
1978 è indicato come un punto di svolta: i comunisti infatti,
appoggiati dai repubblicani, avanzarono la richiesta di fare
parte di un governo di emergenza nazionale in maniera più
attiva, venendo respinti dai settori moderati della DC e dal
divieto degli Stati Uniti, che si manifestò pubblicamente con
una dichiarazione dell’amministrazione Carter. La soluzione di
compromesso alla quale si giunse, ovvero la costituzione di un
nuovo monocolore Andreotti con questa volta il voto
favorevole dei partiti precedentemente astenutisi, è il contesto
in cui viene inserito il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro.
Possiamo leggere infatti: “Fu a questo punto che le Brigate
Rosse, nell’intento di colpire il progetto del compromesso
storico, misero a segno la loro azione più clamorosa, il
238
rapimento di Moro e l’uccisione degli uomini della sua scorta
effettuati a Roma la mattina del 16 marzo 1978, proprio il
giorno in cui Andreotti si accingeva a presentare alla Camera
il suo nuovo ministero, che vedeva i comunisti inseriti nell’area
di governo”. Aldo Moro viene considerato dalle Brigate Rosse
quindi, come il simbolo del compromesso storico e in quanto
tale condannato a morte. Inoltre il loro obiettivo era quello di
“imporre alle autorità della repubblica una trattativa per
salvare la vita di Moro in cambio della liberazione di un
gruppo di terroristi detenuti”: un tentato ricatto che, qualora
avesse avuto esito positivo, le avrebbe legittimate nei confronti
dello Stato. Per scongiurare questo grave rischio fu imposta la
linea della fermezza da parte del nuovo governo Andreotti,
dalla maggioranza del paese e delle forze politiche in
particolare comunisti e repubblicani. Una parte residua invece
delle forze politiche era favorevole a una trattativa per ragioni
di tipo umanitario o politico. Le Brigate Rosse decisero allora
“il barbaro omicidio di Moro, il cui cadavere fu ritrovato il 9
maggio in una strada del centro di Roma”. Viene sottolineato
in ultima battuta da parte degli autori come l’assassinio del
politico democristiano ebbe l’effetto opposto di quello voluto
239
dalle Brigate Rosse, creando il vuoto attorno ad esse, ed inoltre
viene riconosciuto come l’inizio del declino del terrorismo.
È presente un documento riferito al rapimento di Aldo Moro:
“Aldo Moro, presidente del Consiglio e possibile candidato
alla presidenza della repubblica, fu rapito dalle Brigate Rosse
il 16 marzo 1978 in piena Roma. Ecco la cronaca
dell’avvenimento nella ricostruzione di un noto giornalista e
cultore di storia contemporanea, Giorgio Bocca”. All’interno
del documento è presente anche una foto di Aldo Moro
descritta dalla seguente didascalia: “La foto di Aldo Moro nel
“carcere del popolo” diffusa dalle BR”. Inoltre per quanto
riguarda l’iconografia troviamo in un altro paragrafo anche una
foto relativa a piazza Fontana: “La Banca nazionale
dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano venerdì 12
dicembre 1969, poco dopo l’esplosione”.
3.6 Giuseppe Galasso, Storia, Bompiani, 1995.
Bompiani è una casa editrice italiana fondata da Valentino
Bompiani nel 1929 a Milano. Negli anni Trenta Bompiani
240
trova le prime alleanze che daranno identità alla propria casa
editrice. Vi collaborano Cesare Zavattini, Antonio Banfi (poi,
al suo posto, Enzo Paci e infine Umberto Eco, che dagli anni
cinquanta dirige collane di studi e vi pubblica fedelmente i
propri scritti), quindi Elio Vittorini (che vi pubblica anche i
propri scritti) e dagli anni settanta Antonio Porta, poi Mario
Andreose, Elisabetta Sgarbi (sorella del critico d'arte Vittorio e
direttrice del quadrimestrale Panta) e Giovanni Reale.
Un'impresa originale e molto apprezzata è stata il Dizionario
delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le
letterature, uscito per la prima volta nel 1946 e aggiornato
negli anni (con anche una versione su CD-Rom del 2002).
L'ultima edizione è del 2005. Nel 1972 la proprietà passa alla
FIAT, che con la finanziaria IFI (poi diventata Exor) acquista
la Sonzogno, la Fratelli Fabbri e la ETAS, per poi diventare dal
1990 il gruppo RCS, al quale appartengono anche la Sansoni,
la Rizzoli, La Nuova Italia, la Marsilio Editori, l'Archinto e
percentuali d'altre case editrici.
Nato a Napoli nel 1929, Galasso vince nel 1956-58 una borsa
di studio messa a disposizione dall'Istituto Italiano per gli Studi
241
Storici, di cui sarebbe divenuto successivamente segretario.
Dopo la laurea in lettere, conseguita presso l'Università
Federico II di Napoli, ha ottenuto la libera docenza nel 1963 ed
ha insegnato nelle università di Salerno, Cagliari e Napoli. È
ordinario di Storia Medievale e Moderna presso l'ateneo
federiciano dal 1966. È stato eletto preside della Facoltà di
Lettere e filosofia della stessa università dal 1972 al 1979. È
attualmente docente di storia moderna all'università Suor
Orsola Benincasa di Napoli. Esponente del Partito
Repubblicano Italiano, dal 1970 al 1993 ha rivestito l'incarico
di consigliere comunale a Napoli, di cui è stato anche assessore
alla Pubblica Istruzione dal 1970 al 1973. Nel 1975 fu eletto
sindaco della città, ma rinunciò all'incarico perché
impossibilitato a costituire una giunta. È stato membro della
Camera dei deputati per il Partito repubblicano nella IX
legislatura (dal 1983 al 1987). Il suo impegno politico è
proseguito anche nella X e XI legislatura. All'attività
accademica e politica, Galasso ha intrecciato anche un'intensa
attività giornalistica in veste di editorialista. Ha collaborato e
collabora a numerosi quotidiani e periodici nazionali: Il
242
Mattino di Napoli, il Corriere della Sera, La Stampa e
L’Espresso , per citare i principali.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il tema del terrorismo è affrontato all’interno del capitolo
intitolato “L’Italia dal centro-sinistra alla riforma elettorale”.
Il primo riferimento è alla strage di piazza Fontana del 12
dicembre ’69, quando lo scoppio di una bomba all’interno della
Banca dell’Agricoltura causò la morte di 17 persone e
numerosi feriti. Viene riportato come dell’attentato “rimasto
oscuro” fu accusato nella prima fase delle indagini l’anarchico
Valpreda. In seguito tuttavia gli indizi si concentrarono su una
“pista nera” collegata ai neofascisti Freda e Ventura e a
“trame dei servizi segreti interni e internazionali” . La strage
di piazza Fontana viene considerata infatti, in linea con altri
autori, come la prima tappa di una “strategia della tensione”
dispiegatasi in una “lunga stagione di attentati” con l’obiettivo
di portare smarrimento nell’opinione pubblica italiana, per
arrivare fino a un cambiamento istituzionale. I contorni di
questa strategia risultano comunque non ben definiti: per
quanto riguarda il gran numero di attentati infatti viene
243
evidenziato come “spesso non furono chiariti né gli esecutori
né i moventi”.
Un insieme di episodi di vario tipo, avvenuti negli anni
immediatamente successivi alla strage di piazza Fontana, sono
indicati dall’autore come la spia di un riorientamento a destra
dell’opinione pubblica “quale contraccolpo degli avvenimenti
di quei mesi”. Innanzitutto le elezioni amministrative che
inaugurarono i consigli regionali del ’70 furono segnate dal
rallentamento del PCI e dalla seppur limitata crescita del MSI.
Di lì a poco alcuni rappresentanti dello stesso Movimento
Sociale si resero protagonisti della cosiddetta “rivolta di
Reggio Calabria”, scaturita dalla mancata nomina della città a
capoluogo regionale e per fermare la quale il governo fu
costretto “a intervenire con reparti dell’esercito”. Vi era
quindi una concreta possibilità che il malessere diffuso del
Mezzogiorno andasse ad alimentare un tipo di protesta
controllata dal neofascismo. Un ulteriore segnale di
orientamento conservatore arrivò “dalle manifestazioni della
‘maggioranza silenziosa’, svoltesi a Milano e soprattutto a
Roma” dove era maggiore la presenza del MSI. Il breve elenco
244
è chiuso da un nuovo pericolo riconducibile al terrorismo di
destra: il tentato golpe del principe Borghese, leader del Fronte
Nazionale. L’episodio, “anch’esso rimasto oscuro” al pari di
piazza Fontana – sottolinea Galasso – riconfermò il legame
dell’eversione nera con “strutture dello Stato e complicità
internazionali”. Notiamo quindi come esso sia collegato alla
strategia della tensione precedentemente delineata.
Il nuovo governo di stampo centrista, scaturito dalle elezioni
del ’72 e presieduto da Andreotti, fa da sfondo a quello che
l’autore indica come “l’inizio del terrorismo” . L’autore, che
considera l’eversione di entrambe le matrici come
estremamente pericolosa, inserisce l’esordio di quella rossa in
una situazione già grave dal punto di vista sociale ed
economico “nonostante il clima di stabilità e di fiducia che il
nuovo governo voleva ispirare”. Le “prime azioni terroristiche
di gruppi clandestini rivoluzionari” sono effettuate quindi
dalle Brigate Rosse e dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica,
dalla vecchia sigla delle formazioni partigiane), questi ultimi
fondati dall’editore Feltrinelli, la cui morte viene descritta
come avvenuta in circostanze dubbie. Vengono inoltre citati i
245
NAP (Nuclei Armati Proletari) e Prima Linea, formatisi
successivamente. Specularmente l’autore fa riferimento anche
ai gruppi eversivi di destra, citando quelli ritenuti più
significativi ed attivi fin dagli anni Sessanta come Ordine
Nuovo, Avanguardia Nazionale e più tardi i NAR (Nuclei
Armati Rivoluzionari). L’inizio degli anni Settanta vide anche
l’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi,
episodio da ricondurre alle prime indagini della già citata
strage di piazza Fontana: egli fu ritenuto infatti responsabile
“dai gruppi rivoluzionari di aver provocato la morte ‘non
accidentale’ dell’anarchico Giuseppe Pinelli” durante un
interrogatorio immediatamente successivo alla strage di piazza
Fontana.
Il problema dell’ordine pubblico andò ulteriormente ad
aggravarsi nel 1974, anno che fece da cornice ad una serie di
gravi episodi. Il 28 maggio infatti una bomba esplose in piazza
della Loggia a Brescia mentre era in corso un comizio
sindacale, provocando 8 morti e 100 feriti. Il 4 agosto poi altri
12 morti e 48 feriti furono causati da un attentato al treno
Italicus. Entrambi questi avvenimenti vengono ricondotti quasi
246
con certezza da Galasso all’area del neofascismo: “Le
responsabilità di organizzazioni neo-fasciste parvero allora
più consistenti”. Tornavano tuttavia le già citate “complicità di
apparati ‘deviati’ dello Stato” e il riferimento a “disegni”
internazionali, i cui dettagli iniziavano pian piano ad emergere
grazie al chiarimento di vicende come quella della “Rosa dei
Venti”, un’organizzazione clandestina di destra i cui principali
esponenti furono svelati in quel periodo. Oltre che per
l’eversione nera, quello stesso anno fu significativo per il salto
di qualità del terrorismo di opposta matrice: le Brigate Rosse
infatti “compirono il loro primo clamoroso gesto, il sequestro
del magistrato genovese Sossi, chiedendo, per il suo rilascio, la
liberazione di detenuti appartenenti al gruppo rivoluzionario
“XXII ottobre”.
Ancor prima dell’escalation del fenomeno terroristico, in uno
scenario caratterizzato dai continui incidenti tra polizia e
manifestanti e tra gruppi di estrema destra ed estrema sinistra,
il neosegretario del PCI Berlinguer lanciò la linea del
“compromesso storico”. Preoccupato dal golpe avvenuto in
Cile e dal conseguente drammatico fallimento delle forze di
247
sinistra di quel Paese, Berlinguer “affermò che era illusorio
pensare che la sinistra potesse governare un paese come
l’Italia solo con il 51 per cento dei voti”, e che era necessario
quindi giungere a un grande accordo tra i partiti di massa,
“espressione delle grandi componenti ideali e sociali della vita
italiana”. Galasso sottolinea come, nonostante la proposta di
Berlinguer fosse vista all’interno del PCI come la naturale
prosecuzione della ricerca di Togliatti delle “vie nazionali al
socialismo”, presentasse dei contenuti e delle prospettive
comunque originali rispetto alla tradizione comunista, dato il
contesto storico in cui veniva lanciata. Essa veniva infatti non
solo dopo i fatti del Cile, di cui si è fatto cenno
precedentemente, ma anche in seguito a quelli slovacchi e alla
decadenza complessiva del sistema sovietico, partendo quindi
“da un’implicita accettazione della collocazione
internazionale dell’Italia”. Il compromesso storico inoltre, si
affiancava a un’altra idea che stava a cuore a Berlinguer,
ovvero “quella dell’austerità, del recupero, cioè, di valori di
semplicità propri della tradizione operaia contro il
consumismo”, necessari alla classe lavoratrice per rendersi
prima attrice dell’uscita dell’Italia dalla crisi economica,
248
politica e morale che la tormentava da anni. Gli stessi aspetti
della posizione di Berlinguer la rendevano istantaneamente
antitetica “alle motivazioni ideali, alle prospettive politiche,
alla stessa composizione sociale (assai più composita di quella
classe operaia cui si rivolgeva prevalentemente l’appello del
segretario comunista) delle nuove formazioni della sinistra,
eredi del Sessantotto e dell’autunno caldo.” Il risultato del
referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, che vide il 59, 1
per cento degli italiani esprimersi per il mantenimento della
legge, simbolo di un’ormai diffusa affermazione dei cosiddetti
“diritti civili”, compattò il fronte di chi riteneva “il dialogo con
il PCI – la “strategia dell’attenzione” come disse allora Aldo
Moro –” il possibile rimedio per uscire dalla situazione critica
del Paese. D’altra parte Berlinguer al XIV Congresso del PCI
aveva riproposto la formula del compromesso storico “tra tutte
le forze popolari e democratiche per salvare l’Italia” ,
sottolineando come ciò non avrebbe influenzato la collocazione
internazionale del Paese, che fungeva anzi da ago della bilancia
nei rapporti Est-Ovest. Le elezioni amministrative del ’75, che
rilevarono uno spostamento a sinistra dell’elettorato, “diedero
a questo processo politico una repentina accelerazione”. Il
249
successo del PCI, che sfiorò con il 33, 4 per cento dei voti il
“sorpasso” alla DC infatti, “sembrò premiare anche la linea di
indipendenza da Mosca proposta da Berlinguer”. Gli incontri
del segretario del PCI con quelli del Partito comunista francese
e dello spagnolo sembrarono dare a questa linea un respiro
europeo. Il cosiddetto “eurocomunismo” fu visto come un
punto di arrivo democratico dei partiti comunisti
dell’occidente, nonché come l’inizio di una nuova forza
politica progressista.
L’inizio di “una stagione di lutti che si è poi voluta chiamare
con il nome di “anni di piombo”(dal bel film della regista
Margarethe von Trotta, dedicato alle non meno drammatiche
vicende del terrorismo tedesco di quegli anni)” viene fatto
risalire da Galasso all’anno successivo delle elezioni a cui si è
appena fatto riferimento: il ’76 infatti vide, dopo i primi
episodi di “gambizzazioni”, il salto di qualità del terrorismo,
rappresentato dal primo omicidio ad opera delle Brigate Rosse,
che assassinarono il procuratore della Repubblica di Genova
Francesco Coco. In quegli stessi anni inoltre l’opinione
pubblica aveva visto esplodere lo scandalo Lockheed, un
250
nuovo episodio di malaffare politico che andava a toccare tra
gli altri anche il capo dello Stato Giovanni Leone. Fu tuttavia la
legge sull’aborto a causare le dimissioni del governo Moro in
carica e a portare a nuove elezioni politiche, che si rivelarono
fondamentali per l’attuazione del compromesso storico. Esse
videro infatti la “polverizzazione” delle forze minori e la
conseguente contrazione del quadro politico, rendendo quasi
necessaria la linea auspicata dal segretario comunista. Il
governo nascente infatti, un monocolore DC presieduto da
Andreotti e aperto ai comunisti, venne definito della “non
sfiducia” in quanto si instaurò grazie all’astensione di PSI,
PCI, PSDI, PRI e PLI. L’eccezionalità della sua formazione
viene indicata dall’autore come lo specchio dell’instabilità
complessiva della situazione italiana. Inoltre la presenza del
PCI nell’area della maggioranza governativa portò a una
“maggior disponibilità al dialogo da parte del movimento
sindacale” e a una “maggiore vivacità della vita
parlamentare”, tanto da parlare di una “centralità del
Parlamento”.
251
La partecipazione del PCI al governo di solidarietà nazionale
viene indicata da Galasso come la causa dell’esasperazione
dell’estremismo di sinistra che “al tradimento del PCI
contrapponeva ora la strategia dell’‘Autonomia operaia’” ,
indirizzata a portare il proletariato di fabbrica con il
movimento giovanile e studentesco su livelli di decisa
alternativa al sistema. L’episodio simbolo di questa
contrapposizione fu l’interruzione da parte degli studenti di
“Autonomia” di un comizio del segretario della Cgil Luciano
Lama, che aveva sposato in pieno la linea del segretario
Berlinguer. Ci furono inoltre, sempre contro la linea del
compromesso storico, continue proteste studentesche: a
Bologna nel marzo ’77, dove morì lo studente Lo Russo; a
Roma nell’aprile-maggio, con la morte della giovane Giorgiana
Masi e ancora a Bologna nel settembre ’77, quando ci fu un
corteo di 60.000 studenti.
Questo clima di massima tensione vide “una ripresa del
terrorismo, rivolto ora contro rappresentanti del mondo
dell’informazione.” Galasso sottolinea come il convincimento
dei gruppi clandestini fosse che “colpendo ‘al cuore’ lo Stato,
252
si sarebbe inasprita la situazione politica e sociale”
velocizzando quindi il passaggio di fasce del proletariato,
sottoproletariato e universo giovanile all’azione eversiva.
Viene effettuato quindi l’elenco dei giornalisti “gambizzati”
dopo l’assassinio del presidente dell’Ordine degli avvocati di
Torino, Fulvio Croce: il vicedirettore del quotidiano genovese
Il Secolo XIX Vittorio Bruno, il direttore del Giornale nuovo
Indro Montanelli, il direttore del TG1 Emilio Rossi.
“L’episodio più grave avvenne a Torino, dove il 16 novembre
’77 fu ucciso il vicedirettore della ‘Stampa’, Carlo
Casalegno”. Possiamo notare quindi come Galasso citi,
insieme a pochi altri autori di manuali, la presenza dei
giornalisti tra gli obiettivi dei terroristi, facendo particolare
riferimento a Casalegno che fu il primo a cadere per mano
terroristica.
All’interno del PCI si sviluppava il convincimento che
l’astensione senza diretta partecipazione al governo fosse
deleteria, in quanto portatrice delle critiche citate
precedentemente senza alcun tipo di vantaggi. A questo
proposito il cosiddetto “strappo da Mosca” rappresentato dal
253
discorso che Berlinguer tenne a Mosca per il sessantesimo
anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, nel quale dichiarò
che lo scopo del PCI era “realizzare una società nuova,
socialista, che garantisse tutte le libertà personali e collettive,
civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la
possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della
vita, sociale, culturale e ideale”, venne visto dal leader
repubblicano La Malfa come la dimostrazione “di un processo
di democratizzazione ormai irreversibilmente compiuto e,
quindi, di una legittimazione del PCI alla piena partecipazione
al governo”. Contro questa ipotesi si manifestarono potenti
resistenze nella DC, confermate da una dichiarazione ufficiale
del Dipartimento di Stato americano (12 gennaio 1978), che
consigliava ai partiti democratici dell’occidente di evitare
accordi con i comunisti. Grazie all’ennesima negoziazione di
Moro, si giunse da un lato a un programma di governo
concordato tra il PCI e la DC, e dall’altro al voto favorevole
del PCI che tuttavia procrastinava il suo ingresso concreto nel
governo. Il compromesso raggiunto in questo modo doveva
esplicitarsi in un nuovo governo monocolore DC con a capo
Andreotti, che doveva presentarsi alla Camera il 16 marzo ’78
254
per ottenere la fiducia. Alle 9 del mattino del medesimo giorno
tuttavia Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse, che
assassinavano nell’agguato i cinque uomini della sua scorta. In
conseguenza a ciò il voto di fiducia al governo venne
accelerato. Galasso sottolinea come “il significato politico di
opposizione al compromesso storico da parte delle Br con il
loro gesto era chiaro”.
Lo stesso autore definisce poi i cinquantacinque giorni passati
tra il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, avvenuto il 9
maggio ’78, come “tra i più drammatici nella storia dell’Italia
contemporanea”. Su di essi riflette, sottolineando come sulle
ragioni e i responsabili del rapimento si sia nel corso di questi
anni esercitata una sconfinata produzione pubblicistica e
storiografica, in quella che egli definisce la mancanza “di un
totale chiarimento della vicenda attraverso successive e
controverse indagini giudiziarie”. I giorni del rapimento
furono segnati dalle richieste dei brigatisti, inizialmente
esplicitate nella liberazione di dodici detenuti e respinte dal
cosiddetto “partito della fermezza” rappresentato in primis
dalla DC e dal PCI ma anche dal PRI e dalle forze minori,
255
contrario a ogni negoziazione con i brigatisti che sembrasse
come una concessione dello Stato. A esso si contrappose un
“partito della trattativa” , fondamentalmente rappresentato dal
PSI e da parti della sinistra radicale ed estrema, che reputavano
invece possibile arrivare alla liberazione di Moro con un
compromesso tale da non intaccare il prestigio dello Stato.
Dello stesso avviso era tra l’altro lo stesso Moro, che dalla sua
prigione faceva arrivare messaggi di sofferente agonia,
destinati a inquietare e a dividere ancor più l’opinione
pubblica. Un altro motivo di incertezza era dato in quei giorni
dal prosieguo delle indagini, mai effettivamente efficaci, con
errori e mancanze inaspettate. La forte intesa tra DC e PCI nei
giorni del rapimento, caratterizzati dai comunicati delle BR,
dalle missive di Moro e dagli appelli alla ragione, tra cui
spiccava quello del Papa Paolo VI, sembrava dare vigore
all’intesa sui cui era basato il governo Andreotti. La scomparsa
di Moro tuttavia fece mancare il sostegno su cui si basava il
possibile accordo tra la DC e il PCI, la negoziazione tra le
componenti conservatrici della prima e i dubbi del secondo di
non perdere consensi alla sua sinistra. Il giudizio finale di
Galasso sul caso Moro appare lapidario: “La morte di Aldo
256
Moro apparve sotto questo aspetto una sconfitta del partito
della fermezza, un inutile sacrificio tributato al compromesso
storico”.
L’assassinio di Moro non fu comunque l’ultimo atto del
terrorismo, che anzi tra il ’79 e l’’80 fece registrare “una
ripetuta serie di attentati”. I gruppi di Prima Linea e delle
Brigate Rosse uccisero infatti il giudice Alessandrini, il
giornalista Walter Tobagi e il vicepresidente del Consiglio
Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet. Le confessioni
del brigatista Peci, arrestato nel febbraio dell’80, diedero
tuttavia il via a una prima serie di perquisizioni e arresti sotto il
comando dei reparti speciali del generale dei carabinieri Carlo
Alberto Dalla Chiesa e della magistratura. L’azione di
contrasto crebbe in maniera significativa due anni dopo “con la
cosiddetta ‘legislazione premiale’ che introduceva rilevanti
sconti di pena per i ‘pentiti’, le cui confessioni consentissero la
scoperta di altri nuclei brigatisti e delle loro sedi.” Il
fenomeno del pentitismo si rivelò quindi uno strumento
fondamentale per la fine del terrorismo. Lo stesso periodo
tuttavia fu segnato dall’attentato di Bologna, definito come il
257
più grave di quegli anni. Il 2 agosto ’80, infatti, una bomba
esplosa alla stazione ferroviaria del Capoluogo emiliano causò
la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200. Quasi un
mese prima, in un episodio che Galasso definisce come
“anch’esso oscuro”, ovvero l’esplosione nel cielo di Ustica di
un aereo di linea in volo da Bologna a Palermo, erano morte 81
persone. L’attentato di Bologna “ripropose subito la realtà di
un estremismo di destra, che poteva contare sulla complicità di
settori dei servizi segreti e di legami internazionali” . Possiamo
notare quindi come anche per Bologna venga utilizzato lo
stesso schema delineato precedentemente per definire gli
attentati ricondotti alla destra neofascista. A ulteriore conferma
di ciò “l’ipotesi che trame, organizzazioni segrete, poteri
occulti talvolta d’intesa con poteri visibili si muovessero a
danno della vita democratica del paese” sembrò trovare
conferma nella scoperta di una loggia massonica segreta, la P2,
che sotto il controllo di un inquietante personaggio, Licio Gelli,
e per scopi relativi al dominio della vita politica, riuniva
esponenti dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, del
mondo politico.
258
È presente un documento intitolato “I primi passi delle Br”:
“Alberto Franceschini, uno dei protagonisti della stagione del
terrorismo, fondatore delle Brigate Rosse, rievoca in queste
pagine (da Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle BR,
pp.23-28, Milano, Mondadori, 1993), anche prima della
nascita della sua organizzazione, le condizioni ambientali e
psicologiche in cui matura in lui la scelta di una lotta armata
contro il sistema politico-sociale dominante. Una scelta che –
secondo il modo in cui egli sembra viverla – appare a
Franceschini una sorta di legittima prosecuzione della
tradizione rivoluzionaria del movimento operaio”. All’interno
del documento troviamo due immagini: una raffigurante
“Terroristi rossi durante una sparatoria a Milano in via De
Amicis”, l’altra “Fotografia del giudice Sossi diffusa dalle
Brigate Rosse durante il suo rapimento nel 1974”. Sempre dal
punto di vista iconografico è presente una foto riguardante il
rapimento di Moro descritta da questa didascalia: “Via Fani, a
Roma, subito dopo il rapimento di Moro e l’uccisione della sua
scorta il 16 marzo 1978”.
259
3.7 Franco Gaeta, Pasquale Villani, Claudia
Petraccone, Corso di storia, Principato, 1996
La Casa Editrice Giuseppe Principato è stata fondata a
Messina da Giuseppe Principato nel 1887. Desideroso di dare
un respiro nazionale alla casa editrice e di superare i limiti del
mercato provinciale, Giuseppe Principato invia il figlio Ettore a
Milano per fare pratica presso l’Editore Treves. Giuseppe
Principato muore nel terremoto di Messina del 1908 e l’attività
della casa editrice si interrompe per alcuni mesi. Il figlio
Ettore, insieme al fratello Manfredi, prende in mano la
conduzione dell’impresa. Consapevole che per l’affermazione
a livello nazionale della casa editrice era necessario pubblicare
testi di alta qualità, stabilisce rapporti con alcuni dei maggiori
studiosi italiani e ne pubblica le opere. Nel 1926 la casa
editrice da Messina viene trasferita a Milano (dopo una breve
parentesi romana): prima nella centralissima via Manzoni, poi
in corso Concordia e infine in via Fauché 10 (dove ha ancora
oggi sede e dove, nella fase culminante della Resistenza,
Concetto Marchesi organizzò riunioni clandestine con
esponenti di primo piano del movimento di liberazione, fra cui
260
Lelio Basso, Alessandro Casati, Riccardo Lombardi e Adolfo
Tino). A partire dal dopoguerra, Giuseppe Principato, figlio di
Ettore, assume la guida della casa editrice e orienta la linea
editoriale in senso più strettamente scolastico. La casa editrice
attualmente è una Società per azioni ed ha sede a Milano in via
Fauché, 10.
Pasquale Villani, professore ordinario di storia contemporanea
dell'Università Federico II di Napoli e allievo sia di Benedetto
Croce che di Federico Chabod, ha dedicato la sua carriera di
studioso principalmente alla storia del Mezzogiorno degli
ultimi tre secoli.
Franco Gaeta, professore ordinario, ha insegnato storia
moderna a Roma. Particolare rilievo ha assunto nella sua opera
di studioso delle vicende politico-culturali italiane del
Quattrocento-Cinquecento la storia di Venezia. Ha inoltre
pubblicato importanti saggi di storia contemporanea. Tra i suoi
scritti: Lorenzo Valla. Filologia e storia dell'Umanesimo
italiano (1955); Documenti da codici vaticani per una storia
della Riforma in Venezia (1955); Un nunzio pontificio a
Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro) (1960); Il
261
nazionalismo italiano (1965); Il nuovo assetto dell'Europa
(1976); Democrazie e totalitarismi dalla prima alla seconda
guerra mondiale: 1918-1945 (1982); La crisi di fine secolo e
l'età giolittiana (1982).
Claudia Petraccone è professore associato di Storia della
Questione meridionale. Ha collaborato a Studi storici,
Quaderni storici, Storia urbana, Società e storia, Critica
marxista.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il tema dello stragismo, cui è dedicato un intero paragrafo, apre
il capitolo intitolato : “L’Italia dal 1968 a oggi”.
Proprio l’inasprirsi della lotta politica in Italia a partire da
quell’anno in poi è considerata dagli autori la causa di: “alcune
stragi di cui non sono stati mai scoperti i mandanti” . Viene
presentato quindi l’elenco di quelle ritenute più gravi,
comprendente quella di piazza Fontana a Milano nel dicembre
‘69, quella di piazza della Loggia a Brescia nel ‘74 e infine
quella della stazione di Bologna nell’agosto ’80. Notiamo
come per tutte le stragi citate non venga riportato il numero
262
delle vittime. Inoltre lo “stragismo” viene indicato come la
manifestazione della cosiddetta “strategia della tensione”,
ovvero il “tentativo di conseguire determinati obiettivi politici”
creando nel paese uno stato di caos. Come possiamo notare,
quindi, gli autori sono piuttosto vaghi nel definire gli obiettivi
delle stragi, inizialmente presentate con contorni piuttosto
indefiniti, e successivamente attribuite “a una manovalanza di
estrema destra, manovrata da settori dei servizi segreti
deviati” secondo “l’ipotesi più accreditata”. Ipotesi che prende
corpo da una evidenza: tutti i magistrati che hanno cercato di
scoprire i mandanti delle stragi si sono trovati di fronte a un
muro invalicabile, deciso a non far trapelare uno spiraglio di
verità.
Inserito nello stesso arco di tempo è “l’esempio della
guerriglia” in America Latina, ritenuto l’ispiratore del
passaggio di alcuni gruppi di estrema sinistra alla lotta armata.
L’America Latina inoltre, e più esattamente il Cile, sono il
teatro del golpe di Pinochet, il quale nel ’73 instaurò una
dittatura militare soffocando il legittimo tentativo delle sinistre
di formare un proprio governo. La paura che una situazione
263
simile potesse verificarsi anche in Italia portò nell’autunno del
’73 il neosegretario del PCI Berlinguer a esporre “il progetto
del ‘compromesso storico’, una alleanza tra DC e PCI che
portasse il PCI al governo, evitando però ogni rischio di colpo
di stato”. Possiamo notare come i tre autori non facciano
menzione della dura crisi economica che in quegli anni colpiva
l’Italia, la quale viene ritenuta da molti come uno dei motivi
che portarono al tentativo del compromesso storico. I due
partiti maggiori avevano tuttavia posizioni ancora distanti e
l’approvazione della legge sul divorzio non fece altro che
acuire queste differenze. Inoltre “Nel maggio del 1974 si tenne
un referendum promosso dai cattolici contrari al divorzio che
segnò invece l’affermazione dei partiti e dei movimenti che
erano favorevoli ad esso”. Il risultato di questo referendum
sembrò rappresentare l’inizio della fine del dominio della DC
sulla vita politica italiana. Gli autori sottolineano come quello
stesso anno vide l’entrata in scena dei terroristi delle Brigate
Rosse descritti come oppositori oltre che del “compromesso
storico” di “ogni evoluzione riformistica della situazione
italiana”. Le Brigate Rosse sono inoltre l’unico gruppo
terroristico che viene citato all’interno del sintetico spazio che
264
gli autori hanno dedicato alla trattazione del tema dello
stragismo e del terrorismo.
Aldo Moro viene indicato come “l’artefice di questa prima
realizzazione del compromesso storico”: il ’77 è infatti l’anno
del cosiddetto “governo della ‘non sfiducia’” che vide il PCI
entrare nella maggioranza ma non fare parte del governo, dopo
che le politiche dell’anno precedente avevano visto i due partiti
principali raccogliere oltre il 70% dei consensi elettorali. Gli
autori non entrano nel dettaglio di nessuno dei provvedimenti
di natura soprattutto economica che questo governo appoggiato
anche dai comunisti prese. Vengono attribuiti invece diversi
significati al compromesso storico da parte di Berlinguer e
Moro: “mentre per il segretario del PCI esso avrebbe dovuto
segnare una svolta profonda nella politica italiana, per Moro
doveva soprattutto garantire la stabilità governativa”. Viene
sottolineato comunque come la piena realizzazione del
compromesso storico fu molto vicina nel ’78: “dopo trattative
a cui prese parte anche il PCI nacque infatti un nuovo
governo, dal quale però ancora una volta il PCI restò fuori” .
Dopo Il rapimento di Moro, avvenuto il 16 marzo mentre si
265
recava alla camera, “il governo, un monocolore democristiano
guidato da Andreotti, ottenne la fiducia anche dei comunisti, in
nome della politica detta di ‘solidarietà nazionale’” . Il
rapimento e l’assassinio di Moro appaiono descritti in maniera
schematica: non vengono riportate infatti le implicazioni
politiche che scaturirono dalla gestione del tentato ricatto da
parte delle Brigate Rosse e il significato che questo assassinio
ebbe nella storia del terrorismo rosso. Aldo Moro è inoltre
l’unica vittima del terrorismo rosso a cui si fa riferimento nel
testo.
Dal punto di vista iconografico è presente l’immagine di una
“Pagina de’ ‘L’Espresso’ dedicata in forma caricaturale al
compromesso storico di Moro e Berlinguer”.
3.8 Carlo Cartiglia, Nella storia, Loescher, 1997
Loescher è una casa editrice italiana, fondata a Torino nel 1861
dal tedesco Hermann Loescher, nipote di Benedictus Gotthelf
Teubner. È specializzata in opere scolastiche, testi universitari
e classici, ma la sua fama è legata in particolare all'attività nel
266
campo della lessicografi, con il IL (vocabolario Italiano-Latino)
curato da Luigi Castiglioni e Scevola Mariotti, il GI
(vocabolario Greco-Italiano curato da Franco Montanari) e
molti altri dizionari. Nel 1989 la casa editrice Zanichelli
acquistò la totalità delle azioni Loescher dalla famiglia di
Maurizio Pavia. La famiglia Pavia, di origine biellese come la
più nota famiglia Sella, deteneva il pacchetto azionario dagli
anni del Fascismo, periodo durante il quale, per le leggi razziali
fasciste, fu costretta ad affidarsi a prestanome. Nel 2013
acquisisce il catalogo della Casa Editrice D'Anna, che diventa
dunque un marchio dell'editore torinese.
Carlo Cartiglia è direttore editoriale Loescher. Per la medesima
casa editrice ha pubblicato tra gli altri Ieri, domani. Con
espansione online. Per la scuola media vol. 1-2-3; Ieri,
domani. Temi, parole e immagini della storia. Per la scuola
media vol. 1-2-3; Storia e ricerca. Laboratorio. Per le scuole
superiori vol. 1-2-3.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
I fatti legati al terrorismo di entrambe le matrici, come
possiamo vedere già dal titolo del paragrafo in cui sono trattati,
267
sono inseriti nel contesto di forte scontro sociale-politico di
quegli anni: “La contestazione. L’esaurimento del centro-
sinistra. Gli ‘Anni di piombo’ e la tenuta del sistema
democratico”. Il movimento di protesta del ’68, inizialmente
dominato dagli studenti che attaccano i vecchi modelli e
strutture educativi, si unisce a quello degli operai “dando in
Italia all’ondata contestativa una profondità di radici prima e
una durata poi senza paragoni in alcun altro paese europeo”.
Cartiglia sottolinea come il governo in carica in quegli anni,
presieduto da Rumor, fosse completamente inadeguato a far
fronte all’ondata di dure agitazioni, culminate, oltre che in
occupazioni all’università, in ripetuti scontri con la polizia. In
questo particolare contesto inoltre è evidenziata la richiesta da
parte “del Movimento sociale e le forze più conservatrici
(compresa la destra della Democrazia Cristiana)” di un
“governo forte”, necessario per arginare la spinta del ‘68.
Questa richiesta appare strettamente legata alla comparsa che
Cartiglia rileva delle “trame nere” che, con l’obiettivo di
abbattere la democrazia, sono tessute in primis da forze
eversive di destra con “l’appoggio mascherato di ambienti
conservatori di vario tipo, e anche di settori dei servizi
268
segreti”. La strage di piazza Fontana segna per Cartiglia il
passaggio dall’“autunno caldo” agli “anni di piombo”: “Dopo
vari attentati, il 12 dicembre 1969 nella Banca dell’agricoltura
a Milano, in piazza Fontana, un ordigno provoca una vera
strage, la morte di 16 persone e molti feriti. La responsabilità
viene subito falsamente attribuita ad ambienti di sinistra”.
Troviamo quindi il riferimento all’iniziale depistaggio, pur non
citando la vicenda Pinelli né quella di Calabresi. La strage del
’69 è considerata tuttavia solo “l’inizio di una lunga, ampia e
implacabile azione eversiva reazionaria durata per vari anni”,
che, intrecciatasi a piani di colpi di Stato rispetto ai quali
Cartiglia non entra nello specifico, si è manifestata in altre
stragi come quella di piazza della Loggia a Brescia (maggio
1974), quella del treno Italicus (agosto 1974) e quella
considerata come la più grave, ovvero la strage della stazione
di Bologna (2 agosto 1980), “dove una bomba ha provocato 83
morti e circa 200 feriti”.
L’intento di demolire lo Stato democratico ritenuto inefficiente
accomuna le “forze eversive di destra” con quelle della sinistra
extraparlamentare che, permeate da un “anticapitalismo tanto
radicale quanto confuso e irrazionalistico”, vedono
269
nell’azione del Partito comunista il tradimento dell’idea
rivoluzionaria. La nascita del terrorismo di sinistra dei primi
anni ’70 è quindi considerata da Cartiglia il punto naturale di
arrivo dei gruppi extraparlamentari di sinistra. Da quel
momento in poi i terrorismi di entrambe le matrici hanno
prodotto “una situazione sempre più drammatica nel paese”.
L’organizzazione terroristica che spicca fra tutte quelle che
formano “un vero e proprio ‘partito armato’ di sinistra” è
quella delle Brigate Rosse. Notiamo quindi come il concetto di
“partito armato” , utilizzato dallo storico dell’Università di
Padova Severino Galante, ricorra nel testo di Cartiglia come in
quello di altri autori. Il “sequestro di un magistrato a Genova”
rappresenta il primo rilevante segnale del terrorismo di sinistra,
che dopo questo atto si rende protagonista di “rapimenti e
attentati contro membri della classe dirigente” protrattisi per
un sanguinoso decennio.
“Di fronte alla minaccia di scardinamento dello Stato, si
determina un’azione oggettivamente convergente” tra la
politica del PCI e “quella di una parte della Democrazia
cristiana guidata da Moro”: il ’73 è infatti l’anno in cui il
segretario comunista Berlinguer propone la formula del
270
“compromesso storico” tra comunisti, democristiani e
socialisti, “in vista dell’apertura di un nuovo e più vasto
processo riformatore”. Come si nota, manca il riferimento
esplicito al rischio paventato da Berlinguer di un’involuzione
autoritaria sul modello di quanto già avvenuto in Cile con il
golpe del ’73. Una componente numerosa della Democrazia
cristiana è tuttavia sfavorevole a quello che Moro ritiene il
necessario inizio di una nuova stagione politica. In
questa’ottica Cartiglia attribuisce notevole importanza alle
elezioni amministrative e politiche tenutesi negli anni ’75 -’76:
entrambe infatti videro la netta affermazione del Partito
comunista con il “chiaro significato di un’insoddisfazione
molto diffusa verso la politica dei partiti di governo e di
un’estesa protesta verso la corruzione legata all’esercizio del
potere”, da cui i comunisti, da sempre all’opposizione sono
ampiamente esclusi. Oltre alla corruzione, quello stesso
periodo è caratterizzato da fattori estremamente negativi come
la crisi economica, un’inflazione che sfiora il 18 per cento e la
sfida del terrorismo. Il risultato delle politiche porta alla nascita
di un governo monocolore democristiano presieduto da
Andreotti, sorretto da una base nuova: “la ‘non sfiducia’ non
271
solo dei partiti tradizionalmente alleati della Democrazia
cristiana, ma anche e soprattutto del Partito comunista” che,
sottolinea Cartiglia, “in un momento così grave della vita
nazionale imbocca la strada della collaborazione”. La
posizione del Partito comunista in questo frangente è quindi
vista come indice di grande responsabilità. Il governo così
instaurato è valutato positivamente dall’autore: esso infatti
adotta misure utili in campo economico e di contrasto al
terrorismo. Dopo di esse la richiesta del Partito comunista di
entrare nel governo viene respinta. Tuttavia, sottolineando il
lavoro di Moro in questa direzione, nel marzo ’78 “si forma un
nuovo monocolore Andreotti, con l’ingresso dei comunisti
nella maggioranza parlamentare, che dura fino al gennaio ’79.
Da passiva la solidarietà comunista diventa attiva. La formula
viene definita di ‘solidarietà nazionale’”. Il rapimento di
Moro, avvenuto il 16 marzo ’78, data dell’inizio del nuovo
governo ad opera delle Brigate Rosse, viene definito come
“rimasto di matrice oscura”. Le conseguenze politiche
dell’atto sono invece considerate chiare: “avvantaggia tutte le
forze conservatrici ed estremistiche che avversano il ‘nuovo
corso’ politico patrocinato da Moro”. A riprova di ciò, viene
272
sottolineato come dopo la morte dell’allora presidente della
DC: “la sua linea politica viene praticamente liquidata”. Non
viene menzionato il ricatto delle Brigate Rosse e il successivo
dibattito politico che ne scaturì, così come non è sottolineato
un fatto ampiamente riconosciuto: l’assassinio di Aldo Moro
rappresentò l’inizio del declino, insieme ad altri fattori, del
terrorismo rosso.
Viene nuovamente evidenziato da Cartiglia come la strage alla
stazione di Bologna del 2 agosto 1980 rappresenti l’apice
dell’offensiva terroristica. Il fallimento dei terrorismi di
entrambe le matrici è dovuto ad una sola generica evidenza: il
sistema democratico italiano ha retto. Non vi è alcun
riferimento infatti all’opera di figure importanti come il
Generale Dalla Chiesa o al fenomeno del “pentitismo”
È presente una tabella che racchiude gli anni di piombo in un
arco di tempo che va dal ’69 all’87: “Questa tabella riporta le
gesta del terrorismo negli anni in cui ha più imperversato, tra
il 1969 e il 1987; gli attentati sono stati 14591. All’estrema
sinistra sono stati attribuiti (e anche la stessa estrema sinistra
li ha rivendicati) 149 assassini; all’estrema destra 26; al
273
terrorismo internazionale 63; le uccisioni non attribuibili con
certezza sono state 181; il totale è 419”.
3.9 Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di
storia, Zanichelli, 1999
La Zanichelli Editore è una casa editrice italiana. Pubblica
principalmente libri di testo, libri universitari e professionali
(testi giuridici e di medicina), opere di consultazione e, in
misura minore, libri di saggistica e divulgazione scientifica. La
società fu fondata a Modena nel 1859 da Nicola Zanichelli. Dal
1866 risiede a Bologna, dove è diventata ben presto un punto di
riferimento della cultura cittadina, pubblicando le opere di
Carducci e Pascoli oltre che i Postuma di Olindo Guerrini e i
Lyrica di Enrico Panzacchi. Ma la vocazione della casa editrice
è stata la diffusione della cultura scientifica. Fu la prima a
tradurre in italiano opere come Sull'origine delle specie per
selezione naturale di Charles Darwin (1864) e Sulla teoria
speciale e generale della relatività di Albert Einstein (1921).
Ad oggi ha tradotto oltre 400 testi fondamentali di scienze
274
naturali, fisica, chimica, matematica, economia, medicina,
PSIcologia, linguistica, archeologia, architettura. Fra gli autori
moltissimi premi Nobel per la Medicina, la Fisica e
l’Economia. A fronte dell’editoria scientifica tout court, la
Zanichelli ha concentrato la sua attenzione verso la scuola,
diventando fin dagli esordi una delle case editrici italiane
principali del settore scolastico. Dal 1941 Zanichelli pubblica
lo storico Vocabolario della Lingua Italiana di Nicola
Zingarelli, che, uscito a dispense nel 1917, era fino ad allora
stato pubblicato da Bietti. Nel 1989 l'editore bolognese diventa
socio unico della casa editrice torinese Loescher, specializzata
in libri di testo.
Renato Fabietti è nato il 3 settembre del 1923 a Milano. Studiò
nel capoluogo lombardo presso il liceo classico Berchet. Con
lui in quella scuola c'era anche don Milani, con il quale maturò
un'amicizia durata a lungo. Frequentò l'ambiente letterario
milanese e tra i suoi amici vi era anche l'editore Dino Fabbri.
Combattè la Resistenza e si arruolò nel corpo di liberazione
nazionale come volontario insieme agli inglesi e agli
americani. Finita la guerra si laureò in filosofia con Antonio
Banfi, importante esponente della scuola kantiana in Italia.
275
Insegnò in molti licei milanesi. Ha scritto numerosi libri con
Augusto Camera tra cui: Elementi di storia 1 Dal XIV al
XVIIsecolo - Quarta edizione, 1997; Il libro delle risorse per
Elementi di storia 1: Dal XIV al XVII secolo - Quarta edizione,
1997; Prove di verifica con percorsi tematici per Elementi di
Storia 1: dal XIV al XVII secolo, 1997; Elementi di storia 2:
XVIII e XIX secolo - Quarta edizione, 1997; Elementi di storia
3 A: I primi quarant'anni del XX secolo - Quarta edizione,
1998; Prove di valutazione diagnostica e sommativa per
Elementi di storia 3: XX secolo, 1999.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
L’inizio di quello che viene definito “terrorismo nero”
(fascista) viene fatto risalire alla strage di piazza Fontana: il 12
dicembre 1969 infatti una bomba esplode nella Banca
dell’Agricoltura di Milano, causando la morte di 16 persone.
L’orribile attentato è solo il primo di una serie di “crimini
analoghi” ai quali tuttavia non si fa riferimento nel testo. Per
quanto riguarda le indagini invece, i due autori affermano in
maniera perentoria come esse siano rese in gran parte vane
dall’intervento, tra gli altri, anche dei servizi segreti o da
276
“schegge impazzite” degli stessi. Al terrorismo nero si unisce
ben presto il terrorismo “che si dichiara ‘rosso e proletario’,
ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo-
borghesi”. Come possiamo notare quindi, questo tipo di
terrorismo viene considerato dagli autori come prodotto della
borghesia e del contesto universitario dell’epoca e non del
proletariato come invece esso si autoproclama. Esso inoltre
viene accomunato al terrorismo nero per quanto riguarda gli
effetti sia a breve, poichè “consegue, oggettivamente, gli stessi
risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini”,
sia a lungo termine, perché dalle tensioni “può nascere solo
un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide”. Il
terrorismo rosso, oltre a ciò, non è giustificabile né
comprensibile nemmeno considerando le carenze e le
ingiustizie “per quanto gravi della società capitalistica
italiana”. Il fenomeno terroristico anzi, più che con categorie
storiografiche e sociologiche, va interpretato secondo gli autori
con gli strumenti della PSIcologia, come emerge dalla lettura
degli approfondimenti inseriti su questo tema nel manuale.
Un’altra lettura invece è dedicata all’assassinio di Moro, unico
omicidio avvenuto per mano terroristica di cui troviamo traccia
277
nel testo. Uccidendo il presidente democristiano, le Brigate
Rosse eliminavano una delle figure più eminenti dello Stato,
“colui che, pur fra mille cautele, ha patrocinato il varo del
‘compromesso storico’ cattolico-comunista”. Il risultato delle
elezioni politiche del ’76, infatti, che aveva registrato
l’avanzata del PCI e il mantenimento del consenso elettorale da
parte della DC, aveva fatto emergere, fra le correnti più aperte
di quest’ultima, la convinzione che la pesante condizione
dell’Italia potesse essere proficuamente affrontata solo se fra i
due partiti che cumulativamente esprimevano circa i tre quarti
dell’elettorato italiano si fosse stabilito un clima di apertura
vicendevole e di cooperazione. In questa prospettiva il
democristiano Andreotti era riuscito a formare un governo di
“solidarietà nazionale” con l’astensione del PCI. Gli stessi
comunisti, che avevano partecipato con gli altri “partiti
dell’arco costituzionale” alla preparazione del programma di
governo, erano pronti ad appoggiarlo senza remore col voto
favorevole. L’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta fecero
precipitare il Paese in una rischiosissima situazione, che fu
superata solo grazie all’appoggio dei due maggiori partiti. I due
autori sottolineano poi come all’attacco organizzato nei dettagli
278
dalle BR seguirono 55 giorni di prigionia di Moro, durante i
quali i terroristi ricattarono lo Stato creando una spaccatura nel
paese e nella classe politica. Al “partito della fermezza”,
formato dagli irremovibili che consideravano inammissibile
una trattativa con i terroristi, si contrappose un “partito
umanitario” costituito in primis da Bettino Craxi e dai
socialisti, che consigliava di tentare la liberazione di Moro
tramite la “formula di una unilaterale ‘iniziativa umanitaria
dello Stato’”, rilasciando alcuni terroristi allora in carcere. La
linea dell’intransigenza ebbe la meglio grazie principalmente al
fatto che comunisti e democristiani, nelle figure rappresentative
di Berlinguer e Andreotti, non rivelarono il più piccolo segnale
di cedimento, non sottostando ad una trattativa che avrebbe
concesso il riconoscimento politico delle BR e che avrebbe
abbandonato nel più tragico sconforto i familiari dei servitori
dello Stato assassinati in questa e in altre circostanze simili.
Viene evidenziato infine il rilevante contributo al superamento
della crisi dato dall’appello che Paolo VI fece ai brigatisti,
esortandoli a liberare Moro senza nessuna contropartita.
Sono presenti 3 documenti e due letture di approfondimento.
279
Il primo documento è dedicato al compromesso storico ed è
intitolato “Berlinguer e il compromesso storico” : “Durante il
XIII Congresso nazionale del PCI, che si svolse a Milano nel
marzo 1972 e si concluse con la nomina di Enrico Berlinguer a
segretario generale del partito, lo stesso Berlinguer presentò
un lungo rapporto nel quale dedicava particolare attenzione
agli sviluppi interni del mondo cattolico. I temi qui enunciati,
ripresi da Berlinguer fra il settembre e l’ottobre del ’73 in una
serie di articoli comparsi sulla rivista Rinascita, costituirono
la premessa ideale della linea politica di collaborazione
cattolico-comunista nota sotto il nome di ‘compromesso
storico’” .
Il secondo documento è dedicato alla prigionia di Aldo Moro,
con il titolo “Moro: lettere dal carcere delle Brigate Rosse” :
“Durante la sua prigionia, Moro scrisse parecchie lettere ai
dirigenti della DC, tentando di convincerli a venire a patti con
le “BR”. Riportiamo due di queste lettere, indirizzate al
segretario della DC Benigno Zaccagnini. Moro si rivolse con
molta speranza anche a Craxi, del quale evidentemente gli era
stato descritto dai suoi carcerieri l’atteggiamento
280
‘umanitario’. La lettera a Craxi qui riportata fu pubblicata il 3
Maggio 1978, pochi giorni prima del barbaro assassinio” .
Il terzo documento contiene l’appello di Paolo VI alle Brigate
Rosse ed è intitolato: “Paolo VI: ‘A voi, uomini delle Brigate
Rosse’”: “Il 21 aprile 1978 Paolo VI rivolse ai carcerieri di
Moro l’accorato appello qui integralmente riportato. In un
certo senso lo si poteva considerare (e così lo interpretarono i
capi delle ‘BR’) come un avallo all’intransigenza, in quanto il
papa supplicava che Moro venisse liberato ‘semplicemente,
senza condizioni’. Si poteva però anche ritenere che i Brigatisti
– fallito l’obiettivo principale d’ottenere una sorta di
riconoscimento politico mediante le trattative con lo Stato
italiano – avrebbero apprezzato il fatto d’essere stati
riconosciuti come interlocutori dal papa di Roma, che
rivolgeva loro una supplica. Nella lettera a Craxi che è di una
decina di giorni posteriore, Moro accenna probabilmente
all’appello del papa, scrivendo: ‘é da mettere in chiaro che
non si tratta di inviti rivolti agli altri (cioè ai brigatisti) a
compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar
luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata
trattativa per lo scambio di prigionieri politici’”.
281
La prima lettura di approfondimento quindi, come già
accennato, propone l’interpretazione del terrorismo come
fenomeno psicologico, riportando un brano di Giorgio Bocca:
“Rabbia e sogno: terrorismo e contestazione giovanile” . La
scelta del brano da parte degli autori è motivata dalle riflessioni
che il giornalista è stato capace di effettuare in una forma
divulgativa, più accessibile a giovani studenti rispetto a brani
tratti da saggi monografici: “Il terrorismo parrebbe un metodo
di lotta politica tipico dei paesi arretrati, oppressi da regimi
dittatoriali. La sua presenza in una società avanzata e
relativamente aperta, quale era ed è la società dell’Italia
postbellica, pone perciò problemi molto complessi, che si
potrebbero esaminare in profondità solo in un saggio
monografico. Ci sembra però che il brano di Giorgio Bocca,
qui riportato con lievi adattamenti, possa servire, quanto
meno, a innescare una riflessione sull’argomento”.
La seconda lettura è intitolata: “Quella insanguinata
primavera del 1978…” e fa riferimento come già anticipato
all’assassinio di Moro. “In un articolo dell’ottobre ’93 qui in
parte riportato, Arrigo Levi rievoca con autentica commozione
e lucido giudizio l”insanguinata primavera del 1978”: la
282
primavera in cui furono trucidati, prima, i cinque uomini della
scorta di Aldo Moro: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio
Rivera, Raffaele Jozzino, Francesco Zizzi; poi, lo stesso Moro.
(dal Corriere della Sera del 17 ottobre 1993).
Dal punto di vista iconografico è presente l’immagine della
strage di piazza Fontana, con la foto del salone centrale della
Banca nazionale dell’Agricoltura sventrata dalla bomba e
accompagnata da una breve didascalia.
Per quanto riguarda l’uccisione di Aldo Moro, gli autori hanno
scelto di riportare le immagini della stampa dell’epoca, in
particolare vengono riportate le foto delle prime pagine del
quotidiano La Repubblica nel giorno del sequestro e in quello
del ritrovamento del corpo nell’auto con la seguente didascalia:
“Dal rapimento all’uccisione: i 55 giorni della prigionia di
Moro, prime pagine del quotidiano la Repubblica, 16 marzo e
10 maggio 1978”.
Nel documento dedicato al “compromesso storico”,
l’immagine prescelta è una foto del 1977 in cui Enrico
Berlinguer ed Aldo Moro si stringono la mano, un’ immagine
che secondo gli autori simboleggia bene ciò che Berlinguer
283
auspicava ovvero il “nuovo e grande ‘compromesso storico’
tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande
maggioranza del popolo italiano”. Gli autori nel presentare il
documento vogliono anticipare subito le ragioni della nuova
formula politica, sottolineando come il segretario del PCI
ritenesse “del tutto illusorio” pensare di governare col 51 per
cento, cercando un’alternativa di sinistra . Per superare la crisi
del paese Berlinguer auspicava infatti “la prospettiva politica
di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari
d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari
d’ispirazione cattolica oltre che con formazioni di altro
orientamento democratico”.
All’interno del documento dedicato alle lettere di Moro si trova
“La fotografia di Aldo Moro prigioniero fatta pervenire ai
giornali dalle Brigate Rosse e la medesima fotografia sulla
prima pagina del Messaggero”. Nel documento dedicato alla
lettera del Papa viene invece riprodotto “L’inizio e la fine
dell’autografo messaggio di Paolo VI agli ‘uomini delle
Brigate Rosse’ per la liberazione dell’on. Moro (21 aprile
1978).
284
Infine, come simbolo degli anni di piombo, i due autori hanno
scelto alcune opere pittoriche di Valerio Adami, accompagnate
da una didascalia che viene qui integralmente riprodotta: “Anni
di piombo, lotte di piombo, due versioni di Intolerance, pitture
acriliche su tela di Valerio Adami, 1975. Milano, collezione
privata. L’intolleranza spietata delle ragioni altrui, che come
mezzo per affermare le proprie fa scegliere la furia della
sopraffazione e rinnegare il dialogo, domina il decennio 1968-
78 (e oltre). Di quegli anni e di quel clima le tele di Adami qui
riprodotte possono considerarsi l’esemplare resa pittorica.
Picchiatori protervi e attentatori disumani, poliziotti
manganellatori e uomini di potere arroganti, borghesi spauriti
occupano la scena. Hanno volti dissimulati ed enigmatici,
misteriosi come furono – e restano tuttora – misteriose tante
vicende e situazioni di allora. Persino alcuni tecnicismi
dell’artista – i contorni nettamente delimitati da tratti neri, i
colori privi di qualunque chiaroscuro tradizionale, la
‘freddezza’ che sa di pittura metafisica – concorrono a
restituirci il gelo e la cupezza plumbea di anni che furono
anche detti ‘di piombo’ dai proiettili delle armi da fuoco con
cui si esprimevano – o a cui soggiacevano – la logica del
285
terrorismo e la cultura pseudo-rivoluzionaria, la violenza di
Stato e l’omertà della pubblica opinione. ”
3.10 Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, I
fili della memoria, Laterza, 2000
La Casa editrice Giuseppe Laterza & figli è stata fondata a Bari
il 10 maggio 1901 da Giovanni Laterza (1873-1943) come
naturale prosecuzione dell'attività della Libreria e Tipografia,
fondata dalla famiglia undici anni prima a Putignano. La sua
storia è legata alla figura di Benedetto Croce, massimo
esponente del pensiero filosofico idealista in Italia e uno dei
baluardi dell'antifascismo, che fu per quarant'anni il consulente
della casa editrice, avvalendosi della collaborazione di giovani
studiosi e allievi tra cui Luigi Russo, Guido De Ruggiero e
Giovanni Gentile, che di lì a pochi anni diverranno personaggi
di primo piano nella cultura italiana. Croce, che pubblicò con
Laterza quasi tutte le sue opere e la sua rivista (La critica),
impostò fin dall'inizio la linea editoriale della casa. Con la
morte di Vito Laterza, nel 2001, la gestione della casa editrice
286
è passata a Giuseppe Laterza, che segue da Roma l'editoria
universitaria e la saggistica, e a suo cugino Alessandro Laterza,
che segue da Bari soprattutto l'editoria scolastica. Dagli anni
Ottanta la Laterza è diventata la casa editrice di riferimento nel
campo della storia per il biennio e il triennio delle scuole medie
superiori, a partire dalle opere di Andrea Giardina, Giovanni
Sabbatucci e Vittorio Vidotto, ed è significativamente presente
in altri campi, dalla filosofia alle lingue e letterature antiche,
dalla letteratura italiana all’educazione linguistica, dal diritto
alla storia dell’arte.
Anna Bravo è stata professore associato di Storia sociale
all'Università di Torino e ha lasciato l’insegnamento
anticipatamente. Vive e lavora a Torino. Il suo ultimo libro è A
colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza
2008. Sulla deportazione e il genocidio ha pubblicato fra
l’altro: (a cura di) La vita offesa. Storia e memoria dei Lager
nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti (con D. Jalla),
presentazione di Primo Levi, Franco Angeli, Milano 1987, 7°
edizione 2001 e (a cura di ). Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, (con D.
Jalla), Franco Angeli, Milano, 1994.
287
Anna Foa è dal novembre 2000 professore associato di Storia
Moderna alla Facoltà di Lettere, Università di Roma "La
Sapienza". Tra i suoi titoli principali: Storia sociale e culturale
nell'età rinascimentale. Ateismo e magia. Il declino della
concezione magica nel "Dictionnaire" di Pierre Bayle, Ed. dell'
Ateneo, Roma 1980; Giordano Bruno, Bologna, Il Mulino,
1998; Ebrei in Europa dalla Peste Nera all'Emancipazione,
Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 380 (nuova ed. 2001, trad. ingl.:
The Jews of Europe after the Black Death, California
University Press, 2000).
Lucetta Scaraffia è una storica e giornalista italiana. Professore
associato di Storia Contemporanea presso l'Università degli
Studi di Roma La Sapienza, attualmente collabora con i
quotidiani Avvenire, Il Foglio, Corriere della Sera e
l'Osservatore Romano. Negli anni Settanta militò nel
movimento femminista. Si è occupata di storia delle donne e di
storia religiosa, con particolare attenzione alla religiosità
femminile. Tra i suoi titoli : La santa degli impossibili. Vicende
e significati della devozione a Santa Rita, Torino, 1990; Donne
e fede, con Gabriella Zarri, Roma-Bari, 1994; trad. inglese
Women and faith, Cambridge University Press, 1999; Il
288
Concilio in convento, Brescia, 1996) e, riguardo ai rapporti fra
la società occidentale e l'Islam: Rinnegati. Per una storia
dell'identità occidentale, Roma-Bari.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
La nascita delle formazioni terroristiche è legata al rapporto
complesso che esse hanno avuto con i gruppi extraparlamentari
di sinistra, ai quali le tre autrici dedicano un’analisi
approfondita e sostanzialmente positiva. La nascita di tali
gruppi avviene tra il 1969 e il 1971, pur fra difficoltà e
defezioni , grazie alla decisione di una parte del movimento
operaio e studentesco di “doversi dare un’organizzazione
stabile, più disciplina, più ideologia, meno spontaneità”. Le
nuove formazioni politiche, che rigettano l’idea di presentarsi
alle competizioni elettorali e quindi di fare parte della politica
tradizionale, nella loro vasta eterogeneità si collocano alla
sinistra del PCI e si pongono in continuità col ’68 nel rifiuto
della negoziazione politica, nel sogno rivoluzionario e,
all’inizio, nell’attesa dello “scontro generale”. I gruppi
extraparlamentari quindi costituiscono la più numerosa “nuova
sinistra” d’Europa, essendo quasi tutti, almeno in principio,
289
caratterizzati da una dimensione a metà fra la struttura
centralizzata del partito e il carattere fluido del movimento: è
così per Avanguardia operaia, Potere operaio, Lotta continua e
per il gruppo del Manifesto, il quale ha però un’origine diversa,
essendo stato formato da giovani dirigenti del PCI cacciati con
l’accusa di “frazionismo” per aver dato origine alla rivista
omonima e aver chiesto che si mettesse fine all’ambivalenza
verso l’Unione Sovietica. Viene evidenziato inoltre come il
loro raggio d’azione, per tutta la breve esistenza, oscillerà “fra
i due poli dello scontro, la fabbrica e il sociale”. In maniera
più specifica, essi sono “caratterizzati da un’opposizione dura
ai sindacati e al PCI e abbondantemente ricambiati, coagulano
la parte più radicale delle avanguardie di fabbrica” ,
raccogliendo un ampio favore fra studenti e insegnanti e nei
quartieri popolari. Vengono considerati dalle autrici, in breve,
come una parte ben definita e rilevante della politica italiana
nell’arco di tempo che va dal ’69 al ’76, caratterizzata
dall’attivismo e che “incontra una repressione enormemente
più dura di quella riservata al movimento studentesco” . I
nuovi gruppi, inoltre, si sostanziano anche come lo sfondo per
una militanza come scelta di vita e come uno dei cardini
290
fondamentali della socializzazione di quegli anni, arrivando a
formare “quasi una nuova comunità che frantuma le vecchie
cerchie amicali e i recinti culturali regionali”. Viene indicato,
tuttavia, come anche in seguito allo shock subìto dopo la strage
di piazza Fontana, di cui si parlerà in seguito, il credito nelle
capacità di un nuovo tipo di politica si fosse indebolito,
portando i gruppi a rappresentare in forma esasperata
l’ideologia e il modello dei partiti di sinistra. “Straordinarie
energie giovanili furono disperse – scrive Vittorio Foa – nel
riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come
caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero. In
questo senso il Sessantotto, dopo aver fatto la critica più acuta
al vecchio mondo, vi è restato dentro”.
Della politica tradizionale, inoltre, i gruppi prendono anche
molti dei difetti: dal settarismo all’assenza di democrazia
interna, fino alle forzature politiche. La critica delle autrici
continua sottolineando come, pur riuscendo a cogliere in
maniera maggiore e in anticipo rispetto alle altre forze politiche
il significato di lotte impreviste e improvvise, i gruppi
extraparlamentari denotano una difficoltà a confrontarsi con la
nuova situazione che si crea a partire dal ’71-’72, quando lo
291
scontro è più vasto ma meno irruento e, in maniera più
accentuata, con la completa regressione delle lotte operaie
iniziata nel ’75. Il rapporto dei gruppi extraparlamentari nei
confronti della violenza viene definito come “in genere
ambivalente e oscillante”: esso si tiene infatti su un distinguo
schematico tra violenza terroristica individuale o di piccole
formazioni e violenza di massa, che era stata presente nella
maggior parte dei movimenti a livello globale e che all’interno
del bollente contesto italiano dei primi anni Settanta viene
ritenuta come “ancora più inadeguata”. I gruppi
extraparlamentari, comunque, per la loro stessa natura che
rifiuta in linea di massima la mediazione politica, sono portati a
considerare la violenza come uno sbocco quasi ovvio in un
contesto che fino al ’71-’72 rimane di attesa dello “scontro
generale”. Inoltre, “Sull’onda della repressione poliziesca che
riporta la morte nelle piazze, delle stragi e della crescita, nei
primi anni Settanta, di gruppi neofascisti legati in varia misura
al Msi” , le occasioni di scontro sono all’ordine del giorno e la
violenza non fa più clamore, venendo organizzata dai servizi
d’ordine delle varie formazioni e programmata quindi come
una possibilità. Viene evidenziato, quindi, come la nuova
292
sinistra se da un lato, sia per la propria natura, sia per la
presenza di un contesto particolare caratterizzato da gravi fatti,
pratichi la violenza, dall’altro “con i suoi continui richiami alla
lotta di massa e con la sua stessa presenza organizzativa, fa
anche da argine al terrorismo, svolgendo un ruolo di
dissuasione verso i militanti ideologicamente più vicini a
quell’area”. A ulteriore conferma di ciò, sottolineano le
autrici, la nascita di alcune formazioni terroristiche avviene in
corrispondenza con la crisi e la dispersione dei gruppi.
L’inizio del già citato terrorismo stragista dei primi anni
Settanta, descritto come “il fenomeno più tragico di questi
anni” , viene fatto risalire al 12 dicembre ’69: quel giorno
infatti una bomba era esplosa all’interno della Banca
dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, causando la morte
di 16 persone e decine di feriti. Viene sottolineato come in un
primo momento “gli inquirenti si erano buttati su
un’improbabile pista anarchica arrestando Pietro Valpreda”
ed inoltre il ferroviere Giuseppe Pinelli era deceduto cadendo
inspiegabilmente dalla finestra di una stanza della questura di
Milano nel corso di un interrogatorio. Tuttavia in poco tempo
si era fatta chiara, “grazie alla mobilitazione di intellettuali,
293
giornalisti, sinistra extraparlamentare”, non solo la completa
estraneità degli anarchici all’attentato di piazza Fontana, ma
anche la pista che portava al gruppo neofascista veneto di
Franco Freda e Giovanni Ventura, ignorata dai magistrati, e in
linea generale l’intreccio di complicità fra servizi segreti e
gruppi neofascisti. Oltre che a quella di Pinelli, troviamo il
riferimento anche alla vicenda Calabresi: viene evidenziato
infatti come negli anni successivi alla strage di piazza Fontana
le nuove sinistre, e specialmente il quotidiano “Lotta
continua”, si fossero rese protagoniste di una durissima
campagna contro il commissario, “additato come responsabile
della morte di Pinelli”. Nonostante il proscioglimento
dall’accusa, Calabresi sarà ucciso nel ’72 in circostanze a
tutt’oggi non chiare. Piazza Fontana è quindi, come detto, solo
l’inizio di quella che viene definita come “una lunga stagione
di crimini e allarmi manovrati”. A questo tema è dedicata
inoltre una scheda di approfondimento. L’anno successivo agli
eventi di piazza Fontana vide un tentativo di golpe promosso
da Junio Valerio Borghese, un ex comandante dell’esercito di
Salò, episodio che seppur farsesco avvalorò l’esistenza di
legami fra estrema destra e settori dell’esercito e dei servizi
294
segreti, le stesse connessioni sottese all’organizzazione
eversiva veneta Rosa dei venti, che organizzava azioni
terroristiche e che venne scoperta nel 1974. Intanto altre bombe
venivano fatte esplodere a caso tra folle di innocenti, come alla
questura di Milano nel 1973, a piazza della Loggia a Brescia
durante una manifestazione sindacale nel maggio ’74, sul treno
Italicus nello stesso anno e, dopo un periodo di quiescenza, alla
stazione di Bologna nel 1980, con 80 vittime.
La convinzione del pericolo di un incombente golpe, quindi,
vista la sua contemporanea riuscita in Grecia e in Cile, viene
considerata dalle autrici come una preoccupazione che influì
enormemente nelle scelte e nel modo di presentare l’azione
politica dei partiti di sinistra. Il nuovo segretario del PCI,
Enrico Berlinguer, lanciò la sola novità politica di questi anni,
il “compromesso storico”: convinto infatti dall’esempio del
Cile che la sinistra non potesse governare da sola neanche con
il 51 per cento dei voti e deciso a non mettersi in una posizione
di contrasto con i cattolici, Berlinguer consigliò nel ’73 una
specie di riedizione dell’unità antifascista tra PCI, PSI e DC,
come mezzo fondamentale per cautelarsi da involuzioni
autoritarie e intraprendere un incontro dei ceti medi con la
295
classe operaia. Inizialmente la proposta di Berlinguer rimase
senza risposta e il PCI restò fuori dalla maggioranza.
Oltre al terrorismo di destra, protagonista come si è visto nella
prima metà degli anni ’70, ampio spazio viene dedicato al
terrorismo di sinistra, già attivo con le Brigate Rosse, fondate
nel ’70, le quali “si presentano come la sola vera forza
rivoluzionaria, aliena da qualsiasi mediazione”. Diversamente
dal terrorismo di destra, viene sottolineato come le BR non
prendano in considerazione la tecnica della strage, tendendo
invece a colpire persone isolate, all’inizio con azioni
dimostrative, come ad esempio il rapimento di sindacalisti
moderati e alti rappresentanti del mondo industriale. Il loro
scopo finale è quindi quello di diffondersi fra gli operai
“accelerandone la radicalizzazione in vista dell’atteso sbocco
rivoluzionario”. È inoltre rilevato l’atteggiamento con cui le
sinistre guardano al fenomeno, per lungo tempo sottovalutato
dalle istituzioni, che denota sbigottimento, cautela e incapacità
di comprensione. All’interno del PCI e del sindacato infatti, si
parla di “sedicenti Brigate Rosse”, facendo riferimento a
servizi di sicurezza stranieri e nazionali e inattendibili matrici
fasciste: è arduo rendersi conto che il terrorismo non è né
296
un’invenzione di provocatori di destra, né il simbolo di una
zona di periferia disperata, ma un fenomeno che “trova i suoi
aderenti in frange della classe operaia e di studenti, in piccoli
gruppi estremisti transfughi della vecchia e nuova sinistra e di
formazione cattolica e/o marxista”. Pur considerando che
questo tipo di eversione si alimenta nell’incompetenza dello
Stato a impedire le stragi della destra e nella paura di un golpe,
le autrici non hanno dubbi circa le sue matrici ideologiche
precise: esse sono di sinistra. Si sostanziano infatti nel fascino
delle guerriglie sudamericane e del terrorismo palestinese, nella
teoria della “forzatura rivoluzionaria” e nel richiamo, spesso
strumentale, alla resistenza come simbolo dell’iniziativa
popolare armata. A differenza del PCI e del sindacato,
all’interno dei gruppi extraparlamentari le radici di sinistra
delle BR sono immediatamente riconosciute, ma tuttavia “non
si prendono chiaramente le distanze dai loro primi atti
‘esemplari’”.
Tra il ’76 e il ’77 inoltre, contemporaneamente alla crisi della
sinistra extraparlamentare, compaiono altri gruppi come Prima
linea e i Nuclei armati proletari, che a differenza delle Brigate
Rosse rimandano al massimo il momento del passaggio allo
297
stato di clandestinità “proprio per non perdere l’illusione di un
cordone ombelicale con gli ambienti proletari cui sono stati
legati”. Nello stesso periodo all’interno delle BR, che hanno
atteso senza risultati un’esplosione rivoluzionaria e sono
passate ai danneggiamenti di sedi sindacali e di partiti, ai
ferimenti e ai primi assassinii, dopo i primi sequestri nasce
l’autoconvinzione di un’imminente svolta autoritaria di tipo
fascista e quindi di un conseguente maggiore impulso allo
scontro sociale. Sulla base di quella che viene definita come
una “analisi rozza e costruita a tavolino”, asserendo di essere
“avanguardia combattente della classe operaia” passano
quindi all’ attacco al cuore dello Stato, ovvero all’omicidio di
singole persone che rappresentano il mondo politico e
istituzionale. L’anno 1976 è quindi considerato l’inizio della
stagione degli omicidi pianificati che, inaugurata dall’uccisione
del procuratore generale di Genova Coco e della sua scorta,
continua negli anni successivi contro qualunque persona venga
definita “simbolo dello Stato” come giornalisti, magistrati,
dirigenti d’azienda, docenti universitari, poliziotti, guardie
carcerarie e anche un operaio, il comunista Guido Rossa, che
aveva contrastato il terrorismo in fabbrica. Il suo omicidio è
298
ritenuto di maggior rilevanza in quanto esso si immette nel
filone del “vecchio odio antiriformista”, che vede nei
democratici più virtuosi il primo avversario. Le tre autrici
considerano come “anni di piombo” il periodo della seconda
metà degli anni ’70, in quanto oltre a seminare odio e angoscia
essi “incombono come una cappa sulla società e sulle
coscienze”. In particolar modo viene evidenziato lo
sconvolgente effetto del terrorismo in fabbrica in un contesto
che vede finire l’iniziativa operaia, il sindacato in difficoltà e le
grandi aziende attuare una imponente ristrutturazione. La Fiat
infatti, uno dei bersagli preferiti del terrorismo, vede aumentare
il disorientamento degli operai di fronte a una forza eversiva
totalmente al di fuori del proprio controllo, e il conseguente
rovinarsi dei rapporti di fiducia tra gli operai, con un ambiente
di lavoro che si fa sempre più silenzioso. In questo contesto,
inoltre, la denuncia alla luce del sole di un capo può avere
come conseguenza possibile il suo ferimento ad opera dei
terroristi e la conseguente incriminazione dell’accusatore come
fiancheggiatore o brigatista. Viene evidenziato infine come gli
slogan battaglieri dell’autunno caldo, dopo le concrete azioni
terroristiche, diventino in quel successivo momento indicibili.
299
Nonostante l’evidenza dimostri che fra gli operai Fiat solo 62
sono passati alla lotta armata e spesso con posizioni di poca
importanza, “l’ombra della clandestinità di alcuni – scrive
Revelli – finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro”.
In questo clima si realizza la politica di solidarietà nazionale
promossa da Berlinguer con la formula del compromesso
storico. La metà del decennio vede il PCI in una chiara
posizione di forza: esso infatti nel ’68 non ha sconfessato le
lotte degli studenti e ha inoltre condannato l’intervento
sovietico in Cecoslovacchia; subito dopo ha elaborato con i
partiti spagnolo e francese la tesi che porta all’eurocomunismo
come via diversa dal socialismo sovietico; nel ’76, inoltre, lo
stesso Berlinguer ha riconosciuto pubblicamente l’utilità
dell’Alleanza Atlantica, pur tuttavia senza staccarsi da Mosca e
senza lasciare del tutto l’idea di una superiorità del pure
“imperfetto” socialismo. Le elezioni politiche del ’76 vedono
quindi il PCI raggiungere il suo massimo storico con il 34, 4
per cento dei voti, pur restando la DC primo partito con il 38
per cento. Il PCI e in particolare Berlinguer vedono nella
formula del compromesso storico il solo strumento utile ad
avviare una riforma di tipo politico e morale che si estrinsechi
300
dalle proprie radici popolari e da quelle della DC. Una
prospettiva che, condivisa da Moro, convive con il suo progetto
di assorbire i comunisti nell’area di governo in una maniera che
eviti lo scotto di trasformazioni improvvise. In conseguenza a
ciò il PCI, nonostante le numerose critiche rivolte alla
degenerazione del sistema partitico, appoggia nell’agosto ’76
un governo Andreotti insieme a tutti i partiti tranne il MSI e i
radicali. La presentazione di un secondo governo Andreotti,
che doveva vedere un maggior coinvolgimento del PCI, vede
nello stesso giorno della sua presentazione, il 16 marzo, il
sequestro di Aldo Moro e il massacro della sua scorta. I caotici
55 giorni seguenti furono caratterizzati dalla divisione dello
schieramento politico davanti al ricatto brigatista di
intraprendere una trattativa con lo Stato per lo scambio di Moro
con alcuni propri prigionieri. Mentre infatti i comunisti e la
quasi totalità della DC, incarnando la “linea della fermezza”
erano rigidamente contrari, i socialisti si dichiaravano
possibilisti. La paura di riconoscere pubblicamente i terroristi
fece prevalere la linea della fermezza nei loro confronti,
portando all’assassinio a sangue freddo di Moro, il cui corpo
venne abbandonato in una strada di Roma. L’episodio della
301
morte di Moro, come accade per altri autori, viene visto anche
in questo caso come la premessa per la fine del terrorismo.
Nonostante infatti gli attentati continuino ad aumentare fino al
1980, all’allontanamento di alcuni militanti segue una
diminuzione delle simpatie verso il terrorismo, in particolar
modo verso le BR, che più degli altri gruppi “si propongono –
scrive Vittorio Foa – come ‘uno Stato proletario dentro lo
Stato borghese’, con i loro processi, le loro carceri, e in più,
con la pena di morte”. Il colpo definitivo al terrorismo,
tuttavia, viene individuato nella legge sui pentiti del 1980, la
quale prevedeva denaro e sostanziosi sconti di pena ai membri
che, per qualsivoglia motivazione , avessero rivelato a chi di
competenza i nomi dei compagni, arrivando in qualche caso
alla scarcerazione anche se reo confessi. La conseguenza di
questa politica sarà la diminuzione degli attentati dal 1981 e il
progressivo smantellamento delle organizzazioni.
La prima scheda di approfondimento è dedicata al caso Moro e
si intitola “Moro e la ragione di Stato” . La seconda è invece –
come anticipato – dedicata ai “Misteri Italiani”. Il termine
viene utilizzato per sottolineare come, a distanza di più di
vent’anni, molti aspetti ed eventi del terrorismo e delle stragi
302
non siano affatto chiari, tanto che in alcuni casi neppure una
successione di sei, sette, otto processi è bastata a fornire
versioni convincenti. È questo l’effetto di un insieme di fattori,
alcuni dei quali precedentemente accennati, come la
riconosciuta difficoltà delle indagini, i depistaggi e gli
inquinamenti di prove, le intromissioni dei servizi segreti
italiani e stranieri e l’insieme poco chiaro di rapporti fra
strutture segrete o semisegrete e fra criminalità e politica. In
questo vuoto di verità vengono illustrate le due principali linee
interpretative che si sono sviluppate. La prima è quella della
“strategia della tensione” e del “doppio Stato”, la seconda
invece sostiene come sia impossibile parlare di una strategia
unitaria ed occulta dietro le stragi, data la mancanza di ipotesi
credibili.
Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, sono state riportate
tre immagini che per la prima volta trovano spazio tra i
manuali analizzati. La prima è una riproduzione di un
manifesto riferito all’arresto di Valpreda, seguito da questa
didascalia: “La campagna contro l’arresto di Pietro Valpreda
e le esitazioni nelle indagini sulla destra eversiva si vale
dell’opera di intellettuali e artisti. In questo manifesto di Guido
303
Crepax per Avanguardia Operaia, militari, fascisti, magistrati,
alto clero e politici appaiono un tutt’uno che incombe
sull’Italia” .
La seconda è riferita alla strage di Bologna, in sostituzione
delle foto sulla strage di piazza Fontana, privilegiate dalla
maggior parte dei manuali : “La stazione di Bologna devastata
dall’attentato del 2 agosto 1980. Attribuito alle organizzazioni
di destra, questo tragico evento, il più grave del genere che si
sia verificato in un Paese occidentale dalla fine della Seconda
guerra mondiale, ha rappresentato l’apice dell’attività del
terrorismo in un intreccio, non ancora del tutto chiarito, con
settori deviati dei servizi segreti e della malavita organizzata”.
La terza immagine è inserita all’interno della scheda dedicata a
Moro ed è l’immagine che più frequentemente si ritrova sui
manuali, qui con una precisazione sull’incrocio geografico
delle strade dal valore simbolico: “Il ritrovamento del
cadavere di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, in via Caetani, a
Roma, non lontano da via delle Botteghe Oscure e da piazza
del Gesù dove avevano sede le direzioni del PCI e della DC” .
304
3.11 Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci,
Vittorio Vidotto, Storia dal 900 ad oggi, Editori
Laterza, 2005
La Casa editrice Giuseppe Laterza & figli è stata fondata a Bari
il 10 maggio 1901 da Giovanni Laterza (1873-1943) come
naturale prosecuzione dell'attività della Libreria e Tipografia,
fondata dalla famiglia undici anni prima a Putignano. La sua
storia è legata alla figura di Benedetto Croce, massimo
esponente del pensiero filosofico idealista in Italia e uno dei
baluardi dell'antifascismo, che fu per quarant'anni il consulente
della casa editrice, avvalendosi della collaborazione di giovani
studiosi e allievi tra cui Luigi Russo, Guido De Ruggiero e
Giovanni Gentile, che di lì a pochi anni diverranno personaggi
di primo piano nella cultura italiana. Croce, che pubblicò con
Laterza quasi tutte le sue opere e la sua rivista (La critica),
impostò fin dall'inizio la linea editoriale della casa. Con la
morte di Vito Laterza, nel 2001, la gestione della casa editrice
è passata a Giuseppe Laterza, che segue da Roma l'editoria
universitaria e la saggistica, e a suo cugino Alessandro Laterza,
che segue da Bari soprattutto l'editoria scolastica. Dagli anni
305
Ottanta la Laterza è diventata la casa editrice di riferimento nel
campo della storia per il biennio e il triennio delle scuole medie
superiori, a partire dalle opere di Andrea Giardina, Giovanni
Sabbatucci e Vittorio Vidotto, ed è significativamente presente
in altri campi, dalla filosofia alle lingue e letterature antiche,
dalla letteratura italiana all’educazione linguistica, dal diritto
alla storia dell’arte.
Andrea Giardina è uno storico italiano. Si occupa
prevalentemente di storia sociale, amministrativa e politica del
mondo romano e della fortuna dell'antico nel mondo
contemporaneo. Ha insegnato storia antica e storia romana
presso l'Università degli Studi “Gabriele D'Annunzio” di
Chieti, l'Università degli Studi di Firenze, l'Università degli
Studi di Palermo, l'Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
e l'Università di Roma “La Sapienza”. È attualmente professore
ordinario di storia romana presso l'Istituto Italiano di Scienze
Umane. Ha insegnato anche presso l'École Normale Supérieure
e l'École pratique des hautes études di Parigi. È membro
corrispondente dell'Istituto archeologico germanico, membro
dell'Accademia dei Lincei e presidente dell'Istituto italiano per
la storia antica
306
Giovanni Sabbatucci è uno storico e docente universitario
italiano. Ha insegnato a lungo all'Università di Macerata. Nel
1997 ha ottenuto il trasferimento alla Università di Roma “La
Sapienza”, dove è tuttora professore ordinario di Storia
Contemporanea. Ha collaborato con L'Espresso, poi alle pagine
culturali del Corriere della Sera. Dal 1994 è editorialista del
quotidiano di Roma Il Messaggero. Collabora talvolta con Il
Mattino ed è ospite di trasmissioni radiofoniche RAI.
Vittorio Vidotto ha insegnato prima Storia moderna e poi
Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere
dell’Università “La Sapienza” di Roma. È responsabile del
settore di Storia e di Politica contemporanea per le opere
enciclopediche dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Autore
di numerosi manuali di Storia contemporanea con Giovanni
Sabbatucci e di Storia moderna con Renata Ago, ha pubblicato
inoltre per la Laterza: Storia d’Italia con G. Sabbatucci (a cura
di, 6 voll.), 1994-1999; Roma capitale (a cura di), 2002;
Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, 2005; Roma
contemporanea, 2006; Atlante del Ventesimo secolo (a cura di,
4 voll.), 2011.
307
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Il primo atto di terrorismo viene individuato nella strage di
piazza Fontana: il 12 dicembre del ’69 infatti, durante il
cosiddetto “autunno caldo”, una bomba esplose a Milano nella
sede della Banca nazionale dell’agricoltura, causando 17 morti
e oltre 100 feriti. Gli autori sottolineano come la gestione delle
indagini fu esemplificativa dell’inadeguatezza che il governo in
carica in quegli anni mostrava di fronte alle inquietudini della
società. Gli apparati dello Stato, infatti, si dimostrarono
incapaci di fare chiarezza sul caso, venendo messi di
conseguenza sotto accusa “dall’opinione pubblica e dalla
stampa di sinistra”, che indicò nell’estrema destra fascista la
matrice politica dell’atto, denunciando inoltre “le pesanti
responsabilità” dei servizi segreti nel depistare le indagini
verso una incerta “pista anarchica”. Le suddette circostanze
fecero parlare di una “strategia della tensione” organizzata
dalle forze di destra per destabilizzare lo Stato democratico e
giungere così a una svolta autoritaria. Ulteriori insidie per la
vita democratica vennero nell’estate del ’70 dalla rivolta di
Reggio Calabria, la quale vide un’intera città, indignata per la
mancata nomina a capoluogo dell’appena nata regione, rendersi
308
protagonista di una serie di gravi manifestazioni per l’ordine
pubblico culminate a luglio in una vera e propria insurrezione
guidata da esponenti del MSI. Possiamo notare quindi come gli
autori, pur facendo riferimento alla strategia della tensione, non
citino il golpe borghese avvenuto nello stesso anno dei fatti di
Reggio Calabria.
Gli anni Settanta si caratterizzarono tuttavia anche per un
elevato impegno dei cittadini sul terreno dei diritti civili.
L’onda del successo nel referendum sul divorzio portò a un
elevato consenso verso le forze che lo avevano sostenuto,
aiutato anche dalle critiche al disfacimento della vita pubblica e
dalle diffuse richieste di rinnovamento. Ad intercettare
politicamente questa domanda fu più di tutti il PCI, che nel ’73
propose un rilevante cambiamento strategico. Il suo segretario
Berlinguer infatti affermò la necessità di arrivare a un
compromesso storico, ovvero ad un accordo di lungo periodo
fra le forze comuniste, socialiste e cattoliche, come unico modo
per allontanare i rischi di un’involuzione autoritaria e per
allargare inoltre le basi della politica riformatrice. Di lì a poco
il PCI stabilì dei contatti con i comunisti francesi e spagnoli per
dare vita ad una politica comune in Europa occidentale, con
309
caratteristiche diverse da quelle del comunismo sovietico
(eurocomunismo). Il carattere rassicurante della proposta di
Berlinguer, accanto alla persistente “diversità” del partito
dovuta alle sue origini rivoluzionarie, fecero del PCI in questa
particolare fase il punto di arrivo delle numerose e diverse
domande di trasformazione che circolavano nella società
italiana. A conferma di ciò, le elezioni regionali e locali del ’75
videro un vistoso aumento del PCI, che arrivò al 33, 4%, e un
calo della DC che scese al 35, 3%, consentendo il formarsi di
giunte di sinistra in molte regioni del Centro-Nord e in alcuni
tra i maggiori comuni italia. Sulla stessa lunghezza d’onda, le
politiche dell’anno successivo segnarono una ulteriore avanzata
del PCI, che giunse al suo massimo storico col 34, 4%, mentre
la DC recuperò i consensi perduti nelle regionali.
Il risultato delle elezioni del ’76 poneva il problema di una
nuova formula di governo che, data la defezione dei socialisti e
la non percorribilità di un ritorno al centrismo, si sostanziava
nell’unica soluzione fattibile ovvero un coinvolgimento del
PCI nella maggioranza. Si arrivava in questo modo ad agosto
alla costituzione di un governo guidato da Andreotti,
monocolore democristiano, il quale otteneva in Parlamento
310
l’astensione di tutti gli altri partiti tranne il MSI e i radicali. Pur
non essendo ancora il “governo di emergenza” con la
partecipazione di tutti i partiti costituzionali, auspicato dalle
sinistre, esso rappresentava comunque una risposta di tutta la
classe politica ad una situazione resa sempre più inquietante
dalla crisi economica e soprattutto “dal dilatarsi del fenomeno
terrorista ora non più solo di destra, ma anche di sinistra”. Un
fenomeno che, rilevano gli autori, considerato nei suoi primi
atti come episodico e fondamentalmente avulso dal tessuto
civile del paese, si rivelerà invece per molti anni come “un
elemento permanente e disgregante della vita politica
italiana”. Oltre ad essere opposti per quanto riguarda la loro
matrice ideologica, si fa notare, i due terrorismi rosso e nero, si
differenziarono anche nel modo di agire. La caratteristica
principale del terrorismo di destra fu il ripetersi di attentati in
luoghi aperti al pubblico con l’ausilio di materiale esplosivo,
che scatenavano stragi indiscriminate con il probabile obiettivo
di diffondere il caos nel paese e facilitare così una svolta
autoritaria. Dopo la già citata strage di piazza Fontana, infatti,
ci furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia nel maggio
’74 e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, ed
311
infine l’attentato alla stazione di Bologna con oltre 80 morti
nell’agosto ’80. I tre autori evidenziano come “la ragionevole
convinzione di larga parte dell’opinione pubblica” che
riconduce le stragi a rappresentanti della destra eversiva
appoggiati dai servizi segreti, pur confermata da molti raffronti
investigativi, non ha ancora trovato “( salvo che per Bologna)
una conferma della magistratura giudicante”. Il potere politico
viene indicato come principale responsabile di questa
situazione, in quanto incapace di indirizzare l’azione dei servizi
di sicurezza e colpevole di non aver “posto rimedio alla loro
inefficienza accompagnata da vere e proprie deviazioni” .
A contribuire alla nascita del terrorismo di sinistra fu proprio la
diffusa percezione di uno stato debole e corrotto, insidiato dal
terrorismo di destra e minacciato dalla “psicosi di un colpo di
stato” molto diffusa negli ambienti della sinistra, che contro
questo pericolo giustificava anche risposte violente. Ma il
principio della lotta armata, secondo gli autori, era già ben
presente in tutte le ideologie estremiste e rivoluzionarie riprese
e divulgate dal movimento del ’68. Fu allora che, sulle base
delle suggestioni provenienti dai movimenti di guerriglia
latinoamericana, si formarono i primi gruppi organizzati decisi
312
a praticare quanto fino ad allora avevano teorizzato. Il fascino
di “un’esperienza eccezionale” come la clandestinità sembrò
allora irresistibile per molti giovani che provenivano dal
dissolto movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari e
perfino dagli stessi partiti tradizionali, tanto più che l’azione
armata era concepita come lotta esemplare per la classe operaia
“al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema
capitalistico e dello stato borghese”. L’attività terroristica
subisce dunque un’escalation che va dai primi attentati
incendiari ai sequestri di dirigenti industriali, magistrati come il
giudice Sossi, al vero e proprio “assassinio programmato”
come nel caso del procuratore generale di Genova giudice
Coco. Alle BR, autrici di queste azioni , si affiancarono anche i
Nuclei Armati Proletari e Prima Linea.
“Il salto di qualità compiuto dal terrorismo di sinistra” si
verificò contemporaneamente alla prima vera grande crisi
economica del dopoguerra, in parte dovuta all’aumento del
prezzo del petrolio e aggravata da una gestione politica che
alimentava l’inflazione e la spesa pubblica mentre la
disoccupazione, soprattutto giovanile, cresceva a livelli
altissimi. La situazione economica, secondo gli autori, finiva
313
per aumentare il disagio nei giovani che non riuscivano a
trovare un posto di lavoro adeguato al loro titolo di studio. Di
qui, lo sviluppo del movimento del ’77, con occupazioni delle
università e violente manifestazioni di piazza “che videro per
la prima volta l’uso frequente di armi da fuoco da parte dei
protagonisti”. Gli autori rilevano come i nuovi gruppi del ’77 ,
tra cui Autonomia operaia, recuperino i vecchi temi
dell’operaismo sessantottino, ma come di quel movimento
abbiano perso invece “l’originario ottimismo rivoluzionario”.
“Spontaneismo e radicalizzazione esasperata” sono invece le
caratteristiche principali del nuovo movimento che ha come
bersaglio “soprattutto la sinistra tradizionale, il PCI e i
sindacati: clamorosa fu l’aggressione di un gruppo di
autonomi a un comizio del segretario della CGL, Lama”
avvenuta all’università di Roma “La Sapienza”. Per alcuni
giovani fu proprio il riflusso del movimento del ’77 a causare il
passaggio alla militanza terroristica, segnata da un “brusca
impennata del terrorismo di sinistra” con 287 attentati
rivendicati da 77 sigle diverse solo nel 1977. “Nel ’79 gli
attentati salirono a 805 e le sigle a 217”. E nel ’78 le Brigate
Rosse “consapevoli di disporre di una diffusa rete di consensi”
314
rapirono Aldo Moro e uccisero gli uomini della sua scorta. Il
leader democristiano era il principale artefice della politica di
solidarietà nazionale sancita dall’appoggio del PCI al nuovo
governo democristiano di Giulio Andreotti, che proprio il
giorno del rapimento si presentava alla Camera per ottenere la
fiducia. Seguirono i lunghi 55 giorni della prigionia,
contraddistinti da molte polemiche relative alla decisione di
trattare o meno il rilascio di Moro con i terroristi. Alla linea
della fermezza di di DC e PCI si contrapponeva la linea del
partito socialista e di altri gruppi minori, disposti ad aprire una
finestra di dialogo con i terroristi e per scopi umanitari e motivi
politici. Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro segnò,
secondo gli autori, il punto di massima gravità del fenomeno
terroristico, che però proprio da quel momento cominciò la sua
fase discendente per la “presa di distanze dall’area eversiva da
parte di quanti avevano coltivato fino ad allora ambigue
solidarietà”. Il potenziamento delle forze dell’ordine e il
fenomeno del pentitismo, incoraggiato da leggi che favorivano
la collaborazione con la giustizia in cambio di forti sconti di
pena, sferrò un duro colpo ai gruppi terroristi, scompaginati
dalle denunce dei loro compagni. La legge “destò molte
315
perplessità di ordine giuridico e morale, ma diede un notevole
contributo alla sconfitta del terrorismo”.
3.12 Simona Colarizi, Guido Martinotti, La
memoria e il tempo, Einaudi scuola, 2006
La Giulio Einaudi Editore è una delle più importanti case
editrici italiane. Fu fondata a Torino il 15 novembre 1933 da
Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della Repubblica
Luigi Einaudi, all'epoca ventunenne. La casa editrice venne
immediatamente presa di mira dal fascismo: nel 1935 il
proprietario Giulio Einaudi fu prima arrestato e poi inviato al
confino. Sempre impegnata politicamente, l'editrice si avvalse
di collaboratori come Cesare Pavese, Giaime Pintor, Massimo
Mila, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Leone
Ginzburg, quest'ultimo assassinato dai fascisti. Pubblicò nel
dopoguerra i Quaderni e le Lettere dal carcere di Antonio
Gramsci . Ebbe un periodo di crisi negli anni Settanta e
Ottanta, che videro la creazione del progetto Einaudi-
Gallimard, una collaborazione con la casa editrice francese
316
Gallimard per proporre sul mercato italiano le celebri edizioni
della Bibliothèque de la Pléiade. Nel 1994 fu acquistata dal
gruppo Mondadori, al quale appartiene tuttora. Nel 1998 ha
rilevato Edizioni di Comunità.
Guido Martinotti è stato professore ordinario di sociologia
urbana all'Università Bicocca, dove ha ricoperto la carica di
prorettore dal 1999 al 2005. È autore di numerose
pubblicazioni nel campo della sociologia urbana tra cui
ricordiamo: Informazione e sapere, Anabasi, Milano 1992;
Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Il Mulino
Bologna 1993; Bisogni informativi, banche dati e territorio
(curato con Enrico Ercole), Consiglio Nazionale delle
Ricerche, Roma, Dicembre 1994; Cittadini si diventa (con Eva
Cantarella), Einaudi scuola, Milano 1996; Perceiving,
Conceiving, Achieving the Sustainable City. A Synthesis
Report, European Foundation for the Improvement of Living
and Working Conditions, Loughlingstown, Co. Dublin, 1997.
Simona Colarizi è professore ordinario di storia contemporanea
all'Università di Roma "La Sapienza". Tra le sue pubblicazioni:
L'opinione degli Italiani sotto il Regime 1929-1943, Laterza,
317
1991; Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Laterza, 1994,
1998; Biografia della prima Repubblica, Laterza, 1996; Storia
del Corriere della Sera, Fondazione Corriere della Sera, 2011;
La cruna dell’ago, Laterza, 2006; La tela di Penelope. Storia
della Seconda Repubblica, Laterza, 2012.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Possiamo trovare un primo riferimento ai gruppi terroristici di
entrambe le matrici nel contesto della forte agitazione tipica del
periodo della fine degli anni Sessanta. Il ’68 in particolare
aveva visto operai, studenti e donne impadronirsi delle piazze e
delle strade italiane. Ogni manifestazione era accompagnata da
un corteo e ogni circostanza, riferita a fatti interni o
internazionali, faceva esplodere la protesta di migliaia e
migliaia di persone. A mano a mano che il clima politico si
faceva rovente, poi, le manifestazioni erano sempre più
caratterizzate dalla violenza che i gruppi extraparlamentari,
presenti in tutte le occasioni tra i manifestanti, “teorizzavano
come strumento di lotta”. Lo scontro acceso con la polizia, che
rispondeva allo stesso modo, aveva l’effetto di portare a un
crescendo senza fine di altre proteste seguite da altre violenze.
318
Viene evidenziato come alla radicalizzazione e alla
strumentalizzazione degli scontri e delle proteste in atto
contribuissero anche le sigle dell’estrema destra neofascista,
che non si riconoscevano più nel MSI e lo accusavano delle
stesse colpe che gli estremisti di sinistra attribuivano al PCI.
Entrambi infatti sfruttavano la situazione “per i loro fini
fumosamente rivoluzionari”, con la conseguenza che
chiaramente “dalle grida si passava ai bastoni e ai sassi e poi
alle molotov e alle pistole”. All’interno di questo clima
favorevole agivano gli “strateghi della tensione”, con
l’obiettivo di fermare l’intero processo in atto in Italia e
soprattutto lo spostamento a sinistra degli equilibri politici del
paese. Gli autori sottolineano tuttavia come “la svolta
autoritaria non era un progetto definito e, soprattutto, non
esisteva una centrale operativa, un ‘grande vecchio’, che ne
tirasse le fila”, almeno per quanto riguarda gli studi fatti fino
alla scrittura del proprio manuale, rilevando come su questo
aspetto della vicenda italiana il dibattito fra gli storici sia
ancora aperto. Non un progetto ben definito quindi, ma
piuttosto un insieme di ambienti quali settori della destra
eversiva, dirigenti dei servizi segreti, alti ufficiali, politici e
319
uomini d’affari che, muovendosi spesso “senza alcun
coordinamento tra loro”, erano accomunati dall’aver fatto
della guerra al comunismo la propria missione di vita.
Alla prima strage, quella di piazza Fontana a Milano, che nel
’69 vide 17 morti e molti feriti a causa dell’esplosione di una
bomba all’interno di una banca, ne seguirono altre per tutti gli
anni Settanta ed oltre, come quella del treno Italicus tra Firenze
e Bologna (1974), quella di piazza della Loggia a Brescia
(1974) e quella della stazione di Bologna (1980). L’intento
iniziale, ovvero quello di portare il paese in uno stato di caos e
insicurezza per giungere ad un governo autoritario, visto a quel
punto come necessario, portò tuttavia ad un risultato diverso:
ovvero quello di “convincere una parte degli estremisti di
sinistra a scendere sullo stesso terreno del terrore” . Le Brigate
Rosse infatti, il gruppo drammaticamente più famoso,
nascevano nel 1970, lasciando alle proprie spalle un gran
numero di sequestri di persone, ferimenti, assassinii e
raggiungendo l’apice con il rapimento e il sequestro nel 1978
del leader democristiano Aldo Moro. I gruppi clandestini rossi,
decisi a combattere lo Stato e le sue istituzioni democratiche,
ne colpivano quindi i simboli, incarnati in figure come giudici,
320
poliziotti, giornalisti e politici, tutti quanti accusati di essere
servi di uno Stato venduto alle imprese capitalistiche
multinazionali e sottomesso agli Stati Uniti, considerati il
regno del capitalismo e quindi del male.
Nonostante i gruppi sovversivi fossero delle piccole minoranze,
esse fecero gravare sul Paese un peso notevole, pur non
arrivando ad un collasso della democrazia, che invece in questa
difficile circostanza dette grande prova di solidità, grazie ai
cittadini che dimostravano quanto oramai fosse maturata nel
Paese la coscienza democratica. Tuttavia, innanzi a questo
pericolo, i governi di centro-sinistra sembravano inadeguati e
divisi al proprio interno, privi quindi della forza necessaria per
porsi saldamente alla guida della nazione. Inoltre, come per
tutto l’Occidente, anche in Italia la crisi petrolifera del 1973
innescava una spirale in discesa per l’economia, che si
sostanziava in un’inflazione ormai incontrollabile e in una
crescente mancanza di lavoro. La risposta più adeguata alle due
emergenze, quella del terrorismo e quella economica, appariva
dunque da ricercare in un patto di solidarietà nazionale tra le
due più rappresentative forze politiche, la DC e il PCI, che
erano oramai arrivate vicinissime nei consensi elettorali. I capi
321
di governo sarebbero stati costretti a ricorrere a misure non
popolari come l’austerità, bloccando la spesa pubblica e i
salari, e le leggi speciali per combattere i terroristi, ovvero una
serie di disposizioni limitative della libertà. Il “compromesso
storico” tuttavia, scontentava entrambi gli schieramenti: non
piaceva infatti a larghe parti della DC, poichè l’egemonia di
quel partito era fondata quasi totalmente sul proprio ruolo di
unica opposizione al comunismo, non piaceva d’altra parte
neppure ai nuovi elettori del PCI, cioè i ceti medi che lo
avevano recentemente votato nella speranza di un
rinnovamento totale, che comprendesse anche il sistema
politico, allora caratterizzato da un alto grado di corruzione
politica, e infine non piaceva al PSI, che vedeva nell’alleanza
DC-PCI venire meno la propria aspirazione a divenire un
grande partito socialdemocratico sul modello europeo.
Nonostante la notevole crescita elettorale dei comunisti avesse
prefigurato un’ipotesi di alternativa, che avrebbe portato il PCI
a governare con PSI e partiti laici , questa eventualità era stata
considerata non percorribile da Berlinguer, convinto che
giungere ad una situazione del genere senza aver ottenuto una
piena legittimazione a governare per il suo partito avrebbe
322
potuto portare al temuto colpo di Stato. Il golpe si era verificato
infatti in Cile, dove nel 1973 il socialista Allende, capo del
governo, era stato ammazzato dai militari guidati dal
sanguinario dittatore Pinochet. Berlinguer quindi, spaventato
dai fatti cileni, temeva i disegni di matrice nera, trovando la
conferma delle sue paure nel susseguirsi delle stragi, “di cui
ancora oggi, nonostante i tanti processi, non si sono accertate
completamente le responsabilità”. La fase della solidarietà
nazionale, durata due anni (dal ’76 al ’78), non vide ancora
comunque la partecipazione piena del PCI che, come le altre
forze politiche, appoggiava i governi monocolori democristiani
in parlamento, non partecipando quindi in maniera diretta agli
esecutivi, i quali tuttavia adempirono agli scopi prefissati. Il
PCI infatti contribuì alla pace sociale e alla legislazione
eccezionale antiterrorismo. Possiamo notare quindi come, oltre
a ribadire la non ancora accertata natura delle stragi, si evidenzi
il ruolo del PCI nel combattere il terrorismo.
Sono presenti due approfondimenti che riguardano il
terrorismo rosso. Nel primo, intitolato “Le Brigate Rosse”,
troviamo un excursus dell’organizzazione eversiva dalle origini
alle Nuove Brigate Rosse. Viene riportata inizialmente
323
l’origine di quello che viene definito come un “movimento
eterogeneo”. Il terrorismo di sinistra infatti, nacque nel nostro
Paese come progetto politico di alcuni gruppi estremisti,
convinti del fatto che si potesse scatenare una rivoluzione in
Italia attraverso l’uso continuato della violenza. I due autori
sottolineano come i terroristi rossi, in larga parte “provenienti
dai movimenti extraparlamentari e da cellule operaie” , nati nel
periodo della stagione della contestazione studentesca e delle
lotte operaie del biennio 1968-1969, si ispirassero alle
guerriglie sudamericane e a una “confusa ideologia leninista”.
Tra tutti i gruppi eversivi spiccava quella delle Brigate Rosse,
nate a Milano nell’estate 1970. Inizialmente la composizione
del gruppo fu molto varia. Nella nuova organizzazione infatti si
unirono operai di stabilimenti milanesi, studenti delle
Università di Milano e Trento (come Renato Curcio e
Margherita Cagol) e fuoriusciti dalle file del movimento
giovanile comunista (Alberto Franceschini). Tutti in ogni caso
erano accomunati dalla convizione che il PCI avesse agito
tradendo gli ideali della guerra partigiana e avesse abbandonato
l’obiettivo storico della rivoluzione. Ritenutisi fedeli a questi
ideali, invece, i terroristi erano determinati a dare il via ad una
324
nuova stagione di resistenza contro lo “Stato Borghese”,
schiavo del “sistema delle multinazionali”. Mentre i primi
quattro anni della loro attività furono caratterizzati da azioni
dimostrative, come tentativi dinamitardi e sequestri lampo di
industriali, nel ’74 le Brigate Rosse iniziarono a dare vita ad un
vero e proprio “attacco allo Stato”, colpendo i suoi
rappresentanti. La prima azione di questo nuovo corso fu il
sequestro ad aprile del sostituto procuratore Mario Sossi, rapito
e imprigionato dalle BR per alcuni giorni. A questo rapimento,
conclusosi senza spargimento di sangue, fece seguito un più
cruento sviluppo che vide il procuratore Francesco Coco, che
era stato il protagonista delle negoziazioni dell’epoca,
assassinato con la sua scorta. Dopo questo atto tuttavia il
nucleo storico delle Brigate Rosse si era già disperso: nel
settembre ’74 infatti Curcio e Franceschini venivano arrestati e
poco più tardi, durante la liberazione di un ostaggio, i
carabinieri uccidevano Margherita Cagol. La direzione del
gruppo venne assunta a quel punto da Mario Moretti, che
organizzò poco dopo l’azione più clamorosa del terrorismo
italiano: il sequestro del leader della democrazia cristiana Aldo
Moro. Convinto che per combattere in maniera definitiva il
325
terrorismo e superare la grande crisi economica di quegli anni
non vi fosse altra soluzione che portare il PCI nell’area
governativa, Moro rappresentava per le BR il bersaglio adatto
per giungere “all’attacco al cuore dello Stato”. Sequestrato il
16 marzo, dopo il massacro della sua scorta, il leader
democristiano rimase nel carcere brigatista per 55 lunghi
giorni, durante i quali fu processato, condannato da un
autoproclamato “tribunale popolare” e, infine, assassinato da
Mario Moretti.
L’uccisione di Moro segnava l’apice di una stagione
dell’emergenza caratterizzata da un’escalation di omicidi, a cui
lo Stato fece fronte con leggi di emergenza e con la creazione
di reparti speciali antiterrorismo dei carabinieri (Gis) e della
polizia (Nocs). Ad un’efficace risposta dello Stato, tuttavia,
seguiva un’estremizzazione della violenza terrorista, che
faceva ancora vittime come magistrati (Vittorio Bachelet),
carabinieri, poliziotti, industriali, e giornalisti (come Walter
Tobagi), lasciandosi alle spalle una lunga scia di sangue e di
orrore che faceva arrivare in poco tempo il numero dei morti a
settanta. Iniziava tuttavia tra gli stessi terroristi una resa dei
conti interna, a cui dettero il via una serie di misure
326
antiterrorismo messe in atto dal generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Le BR, dimezzate dagli arresti e divise da sospetti
interni e rappresaglie contro chi tradiva per assicurarsi qualche
sconto di pena, ricevevano nel 1981 un colpo mortale in
occasione del rapimento del generale James Dozier, al
comando del contingente NATO ubicato a Verona. I
carabinieri infatti, con l’aiuto dei servizi americani, riuscirono
a liberare Dozier ad un mese dal sequestro e ad arrestare tutti i
suoi rapitori che, con le loro confessioni, diedero un contributo
determinante per sgominare l’intera rete terroristica.
L’annientamento definitivo dell’organizzazione clandestina era
ormai vicino, pur verificandosi ancora qualche attacco
brigatista. Inoltre col passare del tempo molti capi storici delle
BR detenuti si allontanavano dalla lotta armata, riconoscendo il
fallimento della loro ideologia. L’atto che tuttavia segnò la fine
della vicenda storica delle Brigate Rosse è l’assassinio da parte
di un gruppo di terroristi superstiti del senatore democristiano
Roberto Ruffilli. Più recentemente, gli assassinii dei consulenti
governativi Massimo d’Antona (1999) e Marco Biagi (2002)
hanno portato alla scoperta di un nucleo proclamatosi “nuove
Brigate Rosse”. nonostante l’individuazione e l’arresto di
327
alcuni militanti, resta il timore che si possa aprire in Italia una
nuova stagione di terrorismo politico.
Il secondo approfondimento, tratto da “A. Lepre, Storia della
prima repubblica. L’Italia dal 1943 al 1988”, Il Mulino,
Bologna 1993, pp. 277-278, si intitola: “Origini teoriche e
scopi del terrorismo rosso”. In esso “Aurelio Lepre definisce i
caratteri del terrorismo distinguendolo dalla lotta armata. Il
terrorismo infatti fu concepito dai suoi praticanti come l’inizio
di una lotta armata di massa, che però non ebbe luogo per
l’assenza delle condizioni necessarie. Il terrorismo delle
Brigate Rosse non cercava di provocare stragi, ma prendeva di
mira obiettivi precisi e selezionati (uomini politici, giornalisti
ecc.). Alla sua base vi erano riferimenti ideologici alle lotte di
liberazione dei paesi del Terzo mondo e al maoismo. Lo scopo
che si proponeva era colpire ‘il cuore’ dello Stato, adottando
ad esempio la tattica dei rapimenti. Solo nel 1975 le Brigate
Rosse passarono all’omicidio, uccidendo due militanti del
Movimento sociale italiano”.
È presente inoltre una tabella che illustra “Le date in sintesi.
Dagli anni del benessere alla crisi economica”. In essa il
328
periodo che va dal 1969 al 1980 viene indicato come quello
degli anni di piombo in Italia: “Le tensioni e le violenze del
Sessantotto aprono in Italia la lunga stagione delle stragi e del
terrorismo. Estremisti di destra e di sinistra insanguinano il
paese inseguendo vaghi fini rivoluzionari o reazionari. Il
rapimento e l’uccisione del leader della DC Aldo Moro segna
il culmine dell’attacco portato allo Stato, al quale PCI e DC
cercano di rispondere con l’accordo politico del compromesso
storico”.
Dal punto di vista iconografico troviamo, all’interno del
documento dedicato alle Brigate Rosse, una foto di Aldo Moro
con la seguente didascalia: “Un manifesto funebre per il leader
democristiano Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse e ucciso
nel maggio del 1978”.
329
Conclusioni
L’analisi dei tredici manuali effettuata in schede ad hoc ci offre una panoramica di come diversi autori e diverse case editrici hanno affrontato il tema del terrorismo e delle stragi, nell’arco di tempo che va dal primo manuale di Cartiglia del 1985 fino all’ultimo di Colarizi e Martinotti del 2006.
L’intento, quindi, non è quello di studiare “i fatti reali”, bensì la loro memoria. Differentemente da quello dello scrittore, come già precedentemente accennato, il lavoro dello storico in questo caso consiste proprio nell’interrogarsi sulle “regole” e le “strategie” d’azione del binomio memoria-oblio. Il presente lavoro ha cercato di farlo in relazione agli anni del terrorismo e dello stragismo, osservati attraverso la loro rappresentazione manualistica. L’importanza del manuale scolastico di storia è data principalmente del fatto che esso rappresenta, per la maggior parte delle persone, l’unico libro di storia che si legga nella vita. Questo è uno dei motivi che portano a dargli particolare attenzione: esso getta le basi di quell’approccio che si avrà in futuro nei confronti del passato. Esso trasmette infatti non soltanto informazioni, bensì anche una cultura del ricordo. Come abbiamo già visto, inoltre, il manuale scolastico si pone
330
a cavallo tra storiografia scientifica e divulgazione storica. Con la prima esso condivide, o almeno dovrebbe, i criteri che contrassegnano il lavoro dello storico di professione, che infatti è spesso autore del manuale; della seconda ha il carattere della diffusione. Data la sua natura intermedia, l’analisi di esso si colloca sia all’interno degli studi sul discorso sia nel quadro delle riflessioni sull’uso pubblico della storia.
L’ampio concetto di uso pubblico della storia, definito in precedenza in termini molto generici, ha invece caratteristiche precise per quanto riguarda i manuali. La loro impostazione infatti, come abbiamo visto, risente del background culturale dell’autore e della sua interpretazione dei fatti. E del resto è anche logico che “la dimensione cognitiva si affianchi e si mescoli con quella affettiva, intrisa di valori , predilezioni, scelte non o pre-scientifiche”, come scriveva lo storico Nicola Gallerano, proponendo una definizione più estensiva e, nel contempo, meno pregiudizialmente negativa del concetto di uso pubblico della storia rispetto a quella fornita da Habermas264.
264
L’espressione “uso pubblico della storia” per Habermas è azione di chi
parla di storia in prima persona fuori dalle sedi deputate, con obiettivi
politico-pedagogici espliciti (il consenso) o con finalità ludiche (storia come
bene di consumo) . Gallerano estende il concetto di uso pubblico a tutto
ciò che viene elaborato e trasmesso fuori dai luoghi deputati alla ricerca
scientifica in senso stretto: media, arti e letteratura, scuola, musei,
monumenti, spazi urbani, istituzioni pubbliche e private, storici che
331
In questo paragrafo conclusivo tratterò nello specifico come, nell’affrontare il tema del terrorismo e delle stragi nei manuali, gli autori abbiano fatto proprie le interpretazioni storiografiche esposte nel secondo capitolo. In prima battuta tuttavia occorre evidenziare la differenza di spazio dedicato ai due terrorismi: il terrorismo di sinistra infatti, con particolare riferimento al gruppo eversivo più citato ovvero quello delle Brigate Rosse, ha tendenzialmente più peso quantitativo, sia nella trattazione testuale che soprattutto nei documenti o schede di approfondimento, pur non essendo sempre considerato come il più pericoloso. Se andiamo ad analizzare i documenti, infatti, sui sei testi in cui essi sono presenti, in tre casi sono dedicati al terrorismo rosso e in particolare alle BR (Colarizi-Martinotti, Brancati e Galasso), in un caso (Camera-Fabietti) al terrorismo rosso, al rapimento e alle lettere dal carcere di Moro, in un caso (Capra-Chittolini-Della Peruta) soltanto al rapimento di Moro. In un solo caso, il testo di Bravo-Foa-Lucetta-Scaraffia, troviamo oltre ad un approfondimento dedicato a Moro, un altro dal titolo Misteri Italiani, che illustra grossomodo le due linee interpretative che nel tempo si sono sviluppate per dare
comunicano attraverso i media, lavori scientifici di vasto impatto. N.
Gallerano (a cura di), L'uso pubblico della storia, Franco Angeli, Milano,
1995G; E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I
crimini nazisti e l'identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987, pp. 102-103.
332
una spiegazione agli episodi stragisti in un contesto che denota la mancanza assoluta di certezze.
A distanza di più di vent’anni, infatti, molti aspetti delle stragi sono tutt’altro che chiari nonostante una successione in alcuni casi di sei, sette, otto processi, che non è bastata a fornire versioni convincenti. Le ragioni sono dovute ad un insieme di circostanze, “dall’oggettiva difficoltà delle indagini ai depistaggi e inquinamenti di prove, dalle intromissioni dei servizi segreti italiani e stranieri al groviglio di rapporti fra strutture segrete o semisegrete e fra criminalità e politica, dai continui aggiustamenti di versione da parte dei ‘pentiti’ alle rivalità fra procure, dagli insabbiamenti al caos delle indagini alla tendenza di alcuni inquirenti a far “quadrare” a ogni costo le loro conclusioni”265. Partendo da simili premesse, alcuni commentatori tra cui Ventura hanno sposato in pieno l’ipotesi della “strategia della tensione”, che riconduce le bombe e le manovre oscure degli anni Settanta ad un unico disegno di destra il quale, seminando tensione e destabilizzando la democrazia, puntava a sbarrare l’ingresso del PCI nell’area di governo. Possiamo accomunare queste tesi a quelle del già citato “doppio Stato”. Inoltre secondo Tranfaglia “gruppi istituzionali e politici al potere ebbero un
265
I fili della memoria, Anna Bravo-Anna Foa-Lucetta Scaraffia, Laterza
2000
333
ruolo centrale nella strategia della tensione e nello sviluppo dei terrorismi, non soltanto di quello nero”.
Per altri studiosi, invece, non si può parlare di una strategia unitaria: gli anni più segnati dalle stragi infatti, quelli tra il 1972 e il 1976 sono caratterizzati dall’aumento elettorale del PCI con il suo conseguente ingresso nell’area di governo, mentre la strage di Bologna, nel 1980, avviene quando l’avanzata elettorale e governativa comunista è oramai ferma. Scrive a proposito di questo lo storico Giovanni Sabbatucci “su chi fossero i burattinai italiani, le menti politiche nostrane dell’intera strategia del terrore, nessuno ha mai formulato non dirò accuse circostanziate, ma neppure ipotesi credibili” . Quel che è certo fu invece un’effettiva attività degli Stati Uniti e della NATO per far sì che l’Italia rimanesse nella sfera d’influenza occidentale e per contrastare le forze che si opponevano a questo. All’interno di questo quadro, e anche al di là di esso, è probabile che si siano intrecciate, scrive ancora Sabbatucci “provocazioni e violenze dimostrative, trame vere e autentiche bufale confezionate per fini di lucro, deliri rivoluzionari di opposto segno e delitti fine a se stessi, ricatti e giochi sporchi sfuggiti di mano ai loro stessi artefici”.
Alla luce di queste due ipotesi, quindi, possiamo notare come la trattazione delle stragi all’interno dei manuali analizzati risenta di questa incertezza della storiografia. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’attribuzione degli attentati e la definizione dei mandanti sono in ogni caso espressi in maniera
334
dubitativa e facendo sempre riferimento ad intrecci poco chiari con i servizi segreti e internazionali. Anche la già citata lunghezza dei procedimenti giudiziari relativi a questi episodi, e di conseguenza l’emersione di frammenti di verità in tempi molto dilatati, condiziona la stesura dei manuali stessi. La formula “strategia della tensione”, che per tutti gli autori qui analizzati si inaugura con piazza Fontana, è utilizzata pienamente da Brancati, che inoltre accomuna gli obiettivi intermedi del terrorismo nero a quelli del terrorismo rosso. Viene poi utilizzata con qualche incertezza anche da Capra-Chittolini-Della Peruta, mentre Galasso esprime dubbi riguardo gli esecutori e i moventi e sottolinea come l’attentato di piazza Fontana fu inizialmente attribuito a Valpreda e successivamente ai neofascisti Freda e Ventura; anche nel Gaeta-Villani-Petraccone si parla di “ ipotesi più accreditata”. De Rosa invece è l’unico tra gli autori dei manuali analizzati ad evidenziare come la formula della strategia della tensione venne sostenuta soprattutto dalla stampa di sinistra. Pur essendo difficile parlare di uso politico della storia in questa circostanza, tuttavia non è possibile non accennare al fatto che De Rosa era uno storico molto vicino alle posizioni della Democrazia cristiana e dunque non era facile per lui accettare l’ipotesi, peraltro non pienamente dimostrata, di un coinvolgimento di settori deviati dello Stato.
In tutti gli altri manuali, pur non facendo riferimento alla formula della strategia della tensione, si sottolinea come la matrice politica delle stragi è quasi certamente rintracciabile
335
nell’estrema destra che, connivente con i servizi segreti interni e internazionali, voleva gettare il Paese nel caos per giungere ad una dittatura militare. In particolare nel Colarizi-Martinotti si evidenzia come su questi episodi particolari il confronto tra gli storici è ancora aperto dato che, pur essendo quasi sicuramente certi della manovalanza neofascista, il disegno eversivo del “grande vecchio” non è a tuttoggi emerso. Infine è da rilevare che, per quanto riguarda piazza Fontana, le indagini depistate e la prima falsa pista anarchica, con la conseguente morte di Pinelli e Calabresi, trovano poco spazio in tutti i manuali tranne poche eccezioni come il Bravo-Foa-Scaraffia, il Galasso e De Rosa, che cita però solo la morte di Calabresi.
Per quanto riguarda il terrorismo di sinistra, invece, spesso i vari autori di manuali si sono rifatti a più di una interpretazione per spiegare il fenomeno, facendo riferimento soprattutto a quelle diffuse nel primo dibattito scientifico italiano su questo tema avvenuto tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta. Per quanto riguarda il Camera-Fabietti, infatti, ad un’interpretazione del terrorismo come filiazione del “pensiero estremista” sostenuta da Bravo, in particolare sottolineando come esso avesse origini borghesi e non marxiste, si aggiunge quella psicologica del terrorismo come fenomeno legato al “mondo giovanile”. L’interpretazione di Gian Mario Bravo ritorna anche nel Capra-Chittolini-Della Peruta, soprattutto nel considerare la contiguità tra i terroristi e la sinistra extraparlamentare, e nel manuale di Brancati che coerentemente sottolinea più volte il ruolo del PCI e in
336
particolare di Berlinguer nella lotta al terrorismo, l’uguaglianza degli obiettivi intermedi dei due terrorismi e la natura spesso simpatizzante o fiancheggiatrice di Autonomia operaia nei confronti del terrorismo.
Per quanto riguarda invece l’interpretazione che si rifà al concetto di “Partito armato”, sostenuta da Severino Galante e Angelo Ventura, oltre che in Brancati essa è presente nel Cartiglia e nel De Bernardi-Guarracino, che fanno anche riferimento alle spiegazioni sociologiche che consideravano il terrorismo come manifestazione di ceti marginali. Nel Cartiglia è presente poi l’interpretazione di Del Noce, che vede il terrorismo come il risultato della delusione per un Partito Comunista che, spostatosi su posizioni legalitarie, aveva “tradito” la rivoluzione. Ritroviamo quest’ultima interpretazione anche nel manuale di Brancati. Per quanto riguarda l’interpretazione più diffusa nella storiografia di sinistra, espressa soprattutto da Tranfaglia, che tra le altre indica come possibile causa dell’esplosione del terrorismo rosso il timore di una drastica svolta a destra e di una involuzione autoritaria, essa è presente nel Colarizi-Martinotti e nel Bravo-Foa-Scaraffia. Infine nel manuale di De Rosa ritroviamo l’interpretazione psicologica del terrorismo come fenomeno legato al “mondo giovanile”, in particolare nella rilevanza che Petter da all’atteggiamento di “incertezza” di “eccessiva tolleranza” o anche di disimpegno da parte di docenti, autorità pubbliche e della stessa cittadinanza che avrebbero dovuto a vario titolo intervenire per prevenire o
337
contenere l’eversione. Per quanto riguarda infine le immagini, presenti in sette testi sui tredici analizzati, sette di queste, incluse due vignette, vedono come protagonista Moro, la sua prigionia e il rapimento avvenuto a Via Fani; tre piazza Fontana; due la strage alla Stazione di Bologna; una la strage di piazza della Loggia e in un caso è presente la foto del giudice Sossi diffusa dalle BR durante il suo rapimento.
338
339
Bibliografia ACQUAVIVA S., Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano, 1979 ACQUAVIVA S., Terrorismo e guerriglia in Italia, in Id., Terrorismo e guerriglia in Italia. La cultura della violenza, scelta antologica a cura di G.M. Pozzobon, Città Nuova Editrice, Roma, 1979 ACQUAVIVA S., Il seme religioso della rivolta, Rusconi, Milano, 1979. BALDI M., Processi a un libro, in I. Manniasa, La strage di stato. Un libro che ha fatto epoca, ristampa per il 12 dicembre 1993 BALESTRINI N., Gli invisibili, Bompiani, Milano, 2007 BALZERANI B., La sirena delle cinque, Jacabook, Milano 2003; Id., Compagna luna, Feltrinelli, Milano 1998. BARBIERI P., CUCCHIARELLI P., La strage coi i capelli bianchi: la sentenza per Piazza Fontana, Editori riuniti, Roma, 2003 BATTISTI C., L’ultimo sparo. Un delinquente nella guerriglia italiana, Derive e Approdi, Roma, 1998 BERGER P. L., LUCKMANN T., La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 2009 BERMANI C., Il nemico interno, Odradek, 2003 BEVILACQUA P., Sull'utilità della storia per l'avvenire delle nostre scuole, Donzelli, Roma, 1997 BIACCHESSI D., Ombre nere. Il terrorismo di destra da Piazza Fontana alla bomba al “Manifesto”, Mursia, Milano, 2002
340
BIANCONI G., A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista neo-fascista quasi per caso, Baldini e Castoldi, Milano, 1992 BIANCONI G., Mi dichiaro prigioniero politico, Einaudi, Torino 2003. BLOCH M., Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1998 (ed.orig. 1949) BOATTI G., Piazza Fontana. 12 dicembre 1969. Il giorno dell’innocenza perduta, Feltrinelli, Milano, 1993 BOCCA G., Il terrorismo italiano (1970-1978), Rizzoli, Milano, 1978 BRAVO G.M., L’estremismo in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1982 BRAVO G.M., Critica dell’estremismo. Gli uomini, le correnti, le idee del radicalismo di sinistra, il Saggiatore, Milano, 1977 BRUNO F., Note sul Terrorismo. Appunti per una ricerca criminologica, UGRIS, Roma, 1984 CACCIARI M., “Per una de-costruzione dell’immagine monolitica del terrorismo”, in Terrorismo. Verso la seconda Repubblica?, Stampatori, Torino, 1980 CALVI G., “Dalla cultura della violenza alla cultura della pace”, introduzione in G. Calvi, M.Martini (a cura di), L’estremismo politico. Ricerche psicologiche sul terrorismo e sugli atteggiamenti radicali, Franco Angeli, Milano, 1982 CARLOTTO M., Il fuggiasco, E/O, Roma 1996 CASSITTA G., Supercarcere Asinara. Viaggio nell’isola dei dimenticati, Frilli, Genova 2002 (in collaborazione con Lorenzo Spanu) CEDERNA C., Pinelli, una finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano, 1971
341
CHIARINI R.-CORSINI P., ( a cura di), Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco d’ordine neofascismo radicalismo di destra a Brescia (1945-1974), Franco Angeli, Milano, 1983 CHIARINI R.-CORSINI P., La città ferita. Testimonianze riflessioni e documenti sulla strage di piazza della Loggia, Centro bresciano dell’antifascismo e della Resistenza, Brescia, 1985 CINGOLANI G., La destra in armi. Neofascisti italiani tra ribellismo ed eversione 1977-1982, Editori Riuniti, Roma, 1996 COLARIZI S., Biografia della prima Repubblica, Laterza, Roma, 1996 COLARIZI S., Storia del 900 italiano, Rizzoli, Milano, 2000. COLOTTI G., Per caso ho ucciso la noia, Voland, Roma 1997 CRAINZ G., Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Milano, 2003 CRAVERI P., La Repubblica dal 1958 al 1992, TEA, Milano, 1995 CROCE B., Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano, 2001 (ed.orig.1913) CURCIO R., La soglia, Sensibili alle foglie, Roma 1996 DALLA CHIESA N., “Del sessantotto e del terrorismo: cultura e politica tra continuità e rottura”, Il Mulino DELLA PORTA D., PASQUINO G., (a cura di), Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti, Germania e Giappone, Il Mulino, Bologna, 1983 DELLA PORTA D., “Terrorismo”, 2, “Il terrorismo nel mondo contemporaneo”, (voce) in Enciclopedia delle scienze sociali, VIII, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1998.
342
DELLA PORTA D., Social Movements, Political Violence and the State. A Comparative Analysis of Italy and Germany, Cambridge University Press, Cambridge, 1995 DELLA PORTA D., Il terrorismo di sinistra, Il Mulino, Bologna 1990 DE FELICE F., Doppia lealtà e doppio stato, Einaudi, Torino, 1983 DE LUCA E., Lettere da una città bruciata, Dante e Descartes, Napoli, 2002 DE LUCA E., Aceto, arcobaleno, Feltrinelli, Milano 1992 DE LUTTIS G., (a cura di), La strage: l’atto di accusa dei giudici di Bologna, Editori Riuniti, Roma, 1986 D’ERAMO L., Nucleo Zero, Mondadori, Milano 1981 DEL NOCE A., Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978 DEL NOCE A., Violenza e secolarizzazione della gnosi, in AA.VV., Violenza. Una ricerca per comprendere, Morcelliana, Brescia 1980 ECO U., Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980 ESPOSITO E., La memoria sociale. Mezzi per comunicare e modi di dimenticare, Laterza, Bari-Roma, 2001 FARANDA A., Il volo della farfalla, Rizzoli, Milano 2006 FASANELLA G., GRIPPO A., I silenzi degli innocenti, Bur, Milano, 2006 FASANELLA G., SESTIERI C., Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino, 2000 FENZI E., Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate rosse, Costa e Nolan, Genova 1987 FERRACUTI F., “Aspetti socio-psichiatrici del terrorismo”, in Id. (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica
343
e psichiatria forense, IX, Forme di organizzazioni criminali e terrorismo, Giuffrè, Milano, 1988 FERRARESI F., Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano, 1995 FERRAROTTI F., Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano, 1977 FORNARI F., Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano, 1966 FLAMINI G., Il partito del golpe. Le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Bovolenta, Ferrara, 1981-1985 FRANCESCHINI A., La borsa del presidente. Ritorno agli anni di piombo (in collaborazione con Anna Samueli), Ediesse, Roma 1997 GALANTE S., “Alle origini del partito armato”, Il Mulino, Bologna, 1981 GALLENI M., (a cura di), Rapporto sul terrorismo, Rizzoli, Milano, 1981. GALLERANO N., Le verità della storia scritti sull’uso pubblico del passato, Manifestolibri, Roma, 1999 GALLI G., La crisi italiana e la Destra internazionale, Mondadori, Milano, 1974 Galli G., Il partito armato, Kaos, Milano, 1993 (1° edizione 1986), GARY B. NASH, CHARLOTTE CRABTREE, ROSS E. DUNN, History on Trial. Culture Wars and the Teaching of the Past, Alfred A. Knopp, New York, 1999, p. 99 GIANNULI A., CUCCHIARELLI P., Lo Stato parallelo: l’Italia “oscura” nei documenti e nelle relazioni della Commissione stragi, Gamberetti, Roma, 1997
344
GIANNULI A., L’armadio della Repubblica, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma, 2005 GINZBURG C., Il giudice e lo storico, Einaudi, Torino, 1991 GRISPIGNI M., 1977, Manifestolibri, Roma, 2006 GUIZZARDI G., STERPI S., La società italiana. Crisi di un sistema, Angeli, Milano, 1981 GINSBORG P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Milano, 2006 HALBWACHS M., La memoria collettiva, Unicopli, Milano, 1987 ISNENGHI M., La Marcia su Roma, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997 JEDLOWSKI P., M. Rampazi (eds.), Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Angeli, Milano 1991 JEDLOWSKI P., Introduzione, in: M. Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli, Milano, 1987 JEDLOWSKI P., memoria, in dizionario di Storiografia, pbm storia LAQUER W., Introduzione alla edizione italiana, in Id., Storia del terrorismo, Rizzoli, Milano, 1978 LAZAR M., Il libro degli anni di Piombo, Rizzoli, 2010 LECCARDI C., Presentazione, in: A. Tota (ed.), La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Angeli, Milano, 2001 LE GOFF J., Dalla ricerca all'insegnamento: il caso del Medioevo, La Nuova Italia, Firenze, 1991 LUCARELLI C., Nuovi misteri d’Italia: i casi di Blu notte, Einaudi, Torino, 2004 MANCINI F., Terroristi e riformisti, Il Mulino, Bologna, 1981 MANGANO A., Le riviste degli anni Settanta. Gruppi,
345
movimenti e conflitti sociali, R. Massari editori, Bolsena, 1998 MARLETTI C., “Immagini pubbliche e ideologia del terrorismo” in L. Bonanate (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico, Franco Angeli, Milano, 1979 MARLETTI C., “Il terrorismo moderno come strategia di comunicazione. Alcune considerazioni a partire dal caso italiano”, in R.Villa (a cura di), La violenza interpretata, Il Mulino, Bologna, 1979 MARLETTI C., “Terrorismo e comunicazioni di massa”, in G. Pasquino (a cura di), La prova delle armi, Il Mulino, Bologna, 1984 MARLETTI C., Media e politica. Saggi sull’uso simbolico della politica e della violenza nella comunicazione, Franco Angeli, Milano, 1984 MELUCCI A., L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali, Il Mulino, Bologna, 1982 MELUCCI A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano, 1977 MINUCCI A., Terrorismo e crisi italiana, intervista di J. Kreimer , Editori Riuniti, Roma, 1978 MORO A.C., Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998 MORO G., Anni Settanta, Einaudi, Torino, 2007. MORUCCI V., Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme, Milano, 1999 MORUCCI V., Klagenfurt 3021, Fahrenheit 451, Roma 2005 NEGRI T., BATTAGLINI R., Settanta, Derive e approdi, Roma, 2007 NOVARO C., Reti di solidarietà e lotta armata, in Raimondo Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, il Mulino, Bologna 1990
346
PAGGI L., prefazione, in F. De Felice., La questione della nazione repubblicana, GLF editori Laterza, Roma, 1999 PASOLINI P.P., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999 PASQUINO G., DELLA PORTA D., “Interpretations of Italian Left-Wing Terrorism”, in P.H. Merkl (ed.), Political Violence and Terror.Motifs and Motivations, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – London, 1986 PELLEGRINO G., Luci sulle stragi, Editori di Comunicazione – Lupetti/Piero Manni, Lecce, 1996 PETTER G., “Aspetti psicologici della violenza eversiva”, in C. Ceolin (a cura di) Università, cultura, terrorismo, Franco Angeli, Milano, 1984 PROCACCI G., Carte d'identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Carocci, Roma, 2005 ROBIN R., I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria, Ombre corte, Verona, 2005 SABBATUCCI G., Il golpe in agguato e il doppio stato, in Belardelli (et al), Miti e storia dell’Italia unita, il Mulino, Bologna, 1999 SCIASCIA L., Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971 SCIASCIA L., Todo modo, Einaudi, Torino 1974 SEMPRINI G., La strage di Bologna e il terrorista sconosciuto. Il caso Ciavardini, Bietti, Roma, 2003. SOFRI A., La notte che Pinelli, Sellerio, Palermo 2009. SOMMIER I., La violence politique et son deuil, P.u Rennes, 2008 STATERA G., “Violenza sociale ed emarginazione”, in Id. (a cura di), Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70, Franco Angeli, 1983
347
TARACCHINI A., Agosto è un pesce sventrato. Controinchiesta su un attentato che vogliono dimenticare, Il pesce solubile edizioni, Bologna, 1981 TARROW S., Cycles of collective action: between moments of madness and the repertoire of contention, in Mark Traugott (a cura di), Repertoires and Cycles of Collective Action, Duke University Press, Durham-London 1995 TARROW S., Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990 TESTA G.P., Antologia per una strage: Bologna 2 agosto 1980, Bovolenta, Ferrara, 1980. TOPOLSKI J., Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica, Bruno Mondadori, Milano, 1997 TOTA A.L., La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, Il Mulino, Bologna, 2003 TOTA A., (ed.), La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Milano, Angeli, 2001 TRANFAGLIA N., “Radici storiche e contraddizioni recenti nella crisi italiana”, in G. Guizzardi, S. Sterpi (a cura di), La società italiana. Crisi di un sistema, Franco Angeli, Milano, 1981. TRANFAGLIA N., “La crisi italiana e il problema storico del terrorismo”, in M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, Rizzoli, Milano, 1981 TRANFAGLIA N., “Percorsi del terrorismo. Il ’68, i « gruppi» e la crisi degli anni Settanta”, in Diego Novelli e Nicola Tranfaglia (a cura di), Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Garzanti, Milano 1988 TRANFAGLIA N., Un capitolo del “doppio stato”. La stagione delle stragi e dei terrorismi, 1969-84, in Storia dell’Italia
348
Repubblicana, Vol. 3 L’Italia nella crisi mondiale dell’ultimo ventennio, Einaudi, Torino, 1994 VASA C., Terrorismo e ideologia in Italia. Metamorfosi della rivoluzione, Armando, Roma, 1980 VENTURA A., “Il problema delle origini del terrorismo di sinistra”, in DELLA PORTA D., (a cura di), Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984 VENTURA A., “Il terrorismo: le radici e il contesto”, in L’università per la democrazia contro la violenza mafiosa e politica (Palermo, 15-16 giugno 1980), Le edizioni dell’art. 9, Palermo, 1982. VENTUROLI C., Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, Venezia, Marsilio, 2002 VENTUROLI C., Stragi fra memoria e storia. Piazza Fontana, Piazza della Loggia, la stazione di Bologna: dal discorso pubblico all’elaborazione didattica, Libreria Buonomo, Bologna, 2007 VINCIGUERRA V., Ergastolo per la libertà. Verso la verità sulla strategia della tensione, Arnaud, Firenze, 1989 VINCIGUERRA V., La strategia del depistaggio, Edizioni il fenicottero, Sasso Marconi, 1993
Riviste
ACQUAVIVA S., [ intervento] in Terrorismo come e perché, tavola rotonda con S.Acquaviva, L.Bonanate, G.C. Caselli, F.Mancini e F.Stame, Mondoperaio, aprile 1979 BRAVO G.M., “Violenza e terrorismo nel pensiero politico contemporaneo”, in La violenza, perché, numero monografico di I problemi di Ulisse, LXXXVI,1978
349
CAIANI L., L'insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria: appunti per un dibattito in Dimensioni e problemi della ricerca storica, n.2, 2004, CASA DELLA MEMORIA, 1974 28 maggio 2004 30esimo. Anniversario della strage di piazza Della loggia “Brescia: la memoria, la storia” testimonianze, riflessioni, iniziative, Brescia, 2005. CORRIERE DELLA SERA, 26 giugno 1974, “Psicanalisi del terrorismo” CAJANI L., Il mondo come orizzonte. Apologia dell'insegnamento della storia mondiale nella scuola, in Innovazione educativa, n. 4, 2000 CAJANI L., L'insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria: appunti per un dibattito. DALL’ONGARO G., “I terroristi sono solo dei sadici”, Gente, 28 dicembre 1979 DEL NOCE A., “La critica all’idea di Rivoluzione è oggi l’unica rivoluzione culturale necessaria” (1978),ora in Scritti di Augusto Del Noce, Circolo Stato e Libertà, Roma, 1978 DEL NOCE A., “Lenin non fu un ‘giacobino’”, Prospettive nel mondo, settembre-ottobre 1978 DEL NOCE A., “Il problema filosofico della violenza”, in Violenza. Una ricerca per comprendere DEL NOCE A., “L’insidia gnostica”, in Ordine e disordine. Settimo incontro romano (1979), Volpe, Roma, 1980 D’ORSI A., Basta con la manipolazione dei fatti storici, in “Micromega”, 1/2004 FEDERICO V., Insegnare la storia in un mondo globale. Una riflessione sui manuali di storia a livello internazionale in Società e storia, n. 103, 2004
350
FERRACUTI F., BRUNO F., “Psychiatric Aspect of Terrorism in Italy” FERRARESI F., Un inquadramento storico nella ricostruzione della strategia della tensione, in “Anpi oggi”, La democrazia ha bisogno di verità. La memoria di Milano strage di piazza Fontana, anno VIII-n 2/3, marzo 1997 FORNARI F., “Terrorismo e equilibrio del terrore”, Città&Regione, 10-11, 1977 GALLI DELLA LOGGIA E., “Corriere della sera”, 16 marzo 1998 IL SETTIMANALE., “Le radici della dissoluzione”, 31 maggio 1978 LA QUESTIONE CRIMINALE., Terrorismo e stato della crisi numero monografico 1,1979 MATTOZZI I., “Pensare la nuova storia da insegnare”, “Società e Storia”, 98 (2002) MELUCCI A., “Appunti su movimenti, terrorismo, società italiana”, Il Mulino, 256, 1978 PAGGI L., Violenza e democrazia nella storia della Repubblica, in “Studi Storici”, ottobre/dicembre anno 39 PASQUINO G., “Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo” PERFETTI F., “Le radici della dissoluzione” RAICHIC M. L., (a cura di), L'inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875), Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1995 VENTURA A., ‘’Il problema storico del terrorismo italiano’’, Rivista storica italiana, I, 1980 dell’Università di Padova