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TRADIZIONI E MISTERI VOL. 1 Ideata da Nicoletta Travaglini e Vito Foschi GIOVANNA D’ARCO, GILLES DE RAIS E LE PARCHE UNA RIFLESSIONE SUI TESTIMONI DI CASI INSPIEGABILI IL VOLTO SANTO ABRUZZO MISTERIOSO IL GOLEM E FRANKENSTEIN E ALTRO ANCORA…

Tradizioni e Misteri Vol 1

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Vi presentiamo questa nuova iniziativa ideata da Nicoletta Travaglini in collaborazione con Vito Foschi, una pubblicazione non periodica dedicata alle tradizioni e ai misteri. In questo primo volume sono raccolti testi dei due autori, ma la pubblicazione è aperta alla collaborazione di altri. Per chi volesse proporre dei testi, l'indirizzo mail di riferimento è il seguente: [email protected] questo primo volume potete leggere gli articoli di Nicoletta Travaglini su Giovanna D'Arco e sul suo luogotenente Gilles de Rais e il legame con la favola di Barbablu, sui Misteri di San Giovanni in Venere, Il Volto Santo, il Colosseo, la famiglia di Sangro e sul Santo Spirtio in Majella, mentre Vito Foschi pone alcune questioni sui testimoni di casi inspiegabili, dedica un articolo ai mad doctor e su come i paradigmi scientifici dominati influenzano la letteratura discutendo di Golem e Frankenstein e dedica un saggio all'insorgenza antifrancese del Circeo, episodio sempre trascurato nei manuali scolastici.Sperando che l'opera possa risultare gradita ai più, precisiamo che è liberamente scaricabile e distribuibile senza apportare modifiche.

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TRADIZIONI E MISTERI VOL. 1

Ideata da Nicoletta Travaglini e Vito Foschi

GIOVANNA D’ARCO, GILLES DE RAIS E LE PARCHE UNA RIFLESSIONE SUI TESTIMONI DI CASI INSPIEGABILI IL VOLTO SANTO ABRUZZO MISTERIOSO IL GOLEM E FRANKENSTEIN E ALTRO ANCORA…

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IL GRAAL IN ABRUZZO

L’eterna e affascinante ricerca del Graal ha

incantato gli studiosi di tutte le epoche e la no-

stra non fa eccezione.

Nel mistero di un lunga inchiesta che si sno-

da attraverso i secoli, luoghi e personaggi oscuri

paiono sul punto di svelare i loro arcani segreti;

la storia di questa inafferrabile Reliquia si perde

così nella leggenda celata ai nostri occhi dalle

pesanti coltri delle sabbie del tempo.

In un percorso suggestivo Nicoletta Camilla

Travaglini ha raccolto le possibili tracce del Gra-

al nelle terre degli Abruzzi dove, come emerge

da questo affascinante reportage, esso sembra

aver lasciato profondi segni del suo probabile

passaggio tanto a livello antropologico che ar-

cheologico.

Lanciano e i suoi Miracoli Eucaristici, le sue

Chiese, la storia di Longino e della lancia del

destino; Atessa, la processione del Graal e le in-

quietanti testimonianze simboliche che al Graal

rimandano; San Giovanni in Venere, in cui potrebbero essere stati custoditi la Sacra Reliquia

e i molti, terribili segreti legati all’ordine del Tempio; Vasto, la Spina della Corona di Gesù e

la tradizione del Toson d’oro; Manoppelo e la Veronica; e poi ancora San Buono, Liscia, Pol-

lutri… Luoghi, appunto, e personaggi, come Celestino V, la Famiglia di Sangro, i Del Balzo,

gli Orsini, i De Ocre, i D’Avalos, solo per citarne alcuni, la cui natura enigmatica e contraddit-

toria rende spesso ancora più misteriosa ed eccentrica la soluzione dell’arcano.

[ISBN-978-88-7475-290-4]

Pagg. 120 - € 10,00

Link al sito della casa editrice

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© COPYRIGHT, tutti i diritti riservati all'autore

Per qualsiasi utilizzo degli articoli, si prega di contattare gli autori

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QUESTO PUBBLICAZIONE NON RAPPRESENTA UNA TESTATA GIORNALISTICA E VIENE PUBBLICATA SENZA ALCUNA PERIODI-

CITÀ, ESCLUSIVAMENTE SULLA BASE DEI CONTRIBUTI DI AG-GIORNAMENTO OCCASIONALMENTE INVIATI E/O SEGNALATI.

PERTANTO, NON PUÒ ESSERE CONSIDERATO IN ALCUN MODO UN PRODOTTO EDITORIALE AI SENSI DELLA L. N. 62 DEL 7.03.2001.

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INDICE

GIOVANNA D’ARCO, GILLES DE RAIS E LE PARCHE........ ...........................................5

UNA RIFLESSIONE SUI TESTIMONI DI CASI INSPIEGABILI . .......................................11

I MISTERI DI SAN GIOVANNI IN VENERE ................ ......................................................12

IL VOLTO SANTO.................................... ........................................................................20

IL GOLEM E FRANKENSTEIN ............................ .............................................................22

IL COLOSSEO: UNA LUNGA SCIA DI SANGUE .............. ..............................................26

LA FAMIGLIA DI SANGRO .............................. ................................................................30

SANTO SPIRITO A MAJELLA, EREMO CELESTINIANO........ .......................................33

L’INSORGENZA DEL CIRCEO 1798-1799.................. .....................................................34

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Giovanna d’Arco, Gilles De Rais

e le Parche

di Nicoletta Camilla Travaglini

Correva l’anno 1066 quando Gu-glielmo il Conquistatore, suddito del re di Francia, con la battaglia di Hastings, mise fine alla dominazione sassone sull’Inghil-terra, sostituendola con quella normanna.

Attraverso una fitta rete di matrimoni combinati, la Francia e l’Inghilterra, strin-sero forti alleanze che portarono i sovrani inglesi ad avere dei domini in terra france-se, anche se, questi, risultavano sempre e comunque vassalli della corona di Francia. Questi stretti legami parentali portarono con il tempo e con la morte dell’ultimo re capetingio, Carlo IV, a una contesa legale su chi doveva essere il legittimo erede al trono di Francia rimasto vacante per man-canza di discendenti diretti del defunto monarca. Era l’inizio del quindicesimo se-colo quando una cruenta guerra civile dila-nia la Francia, conflitto scatenatosi in segui-to a una congiura che portò alla morte del duca d’Orlèans.

Le due opposte fazioni quella dei Borgognoni, propugnatori di una monar-chia inglese, e quella degli Armagnacchi fi-lo francesi, mise a ferro e fuoco la Francia, finché la regina Isabella moglie di CarloVI e a nome del suo consorte, con il trattato di Troyes del 1420, pose fine a queste lotte intestine, cedendo il trono francese all’Inghilterra, sconfessando, così, di fatto, suo figlio Carlo VII come legittimo erede al trono. Però Carlo anche se molto ama-reggiato da questa situazione, non accettò di essere lasciato in disparte e, così, con il

sostegno degli Armagnacchi, si proclamò re di Francia.

La guerra tra i due regni continuò sempre più cruenta e violenta finché … non fece entrò in gioco una ragazza chiamata Giovanna d’Arco!

Ma chi era costei?

Secondo Antony S. Mercatante Gio-vanna d’Arco era:

All’età di tredici anni, Giovanna ebbe delle visioni da lei poi identificate come voci di San Michele, Santa Caterina e Santa Margheri-ta. Quando Enrico VI d’Inghilterra assediò Orleans nel 1428, Giovanna, convinta di esse-re la prescelta da Dio per scacciare gli inglesi dal suolo francese, si preparò. Parlò al delfino ( futuro Carlo VII) della sua missione e, in abi-ti maschili, guidò le truppe francesi alla vittoria nel maggio e nel giugno 1429. Era a fianco di Carlo VII alla sua incoronazione in luglio. Non avendo truppe in numero sufficiente per pro-seguire la campagna, Giovanna, fu fatta prigio-niera dai Borgognoni che la vendettero agli in-glesi. Fu processata con dodici accuse di stre-goneria e per essersi tagliata i capelli e aver in-dossato abiti maschili …

… l’ordine di esecuzione le fu riferito da un inglese . Quando Giovanna udì l’ordine, cominciò a piangere e lamentarsi in tal modo che tutti i presenti si commossero fino alle la-crime». Il fuoco venne acceso e Giovanna venne «tragicamente martirizzata». 1

1MERCATANTE, Antony S., Dizionario Universale dei miti e delle leggende, Newton & Compton Editori

S.r.L, Roma 2001 pag.306.

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Durante la battaglia di Orlèans, l’otto maggio 1429, Giovanna d’Arco era affian-cata da Maresciallo di Francia Gilles de Ra-is, sulla cui figura, il famoso scrittore di fa-vole Perrault, modellò il personaggio di Barbablu.

Ma chi era Gilles de Rais?

Secondo quanto si legge nei grandi enigmi di Martin Mystère intitolato Il segre-to di Giovanna d’Arco si dice:

Gilles De Montmorecy- Laval, barone di Rais o Retz era un nobile vissuto nel quindice-simo secolo crebbe alla corte del Delfino Car-lo di Valois, il futuro Carlo VII, del quale di-venne amico e compagno fidato. Grazie alle eredità del nonno e dei genitori, e a un matri-monio abilmente combinato, a ventotto anni si trovò a essere l’uomo più ricco della Francia.

Mentre il paese stava attraversando la fa-se più cruciale della guerra dei Cent’anni il suo temperamento fortemente irrequieto trovò sbocco in una brillante carriera militare. Gilles si guadagnò sul campo, infatti, il titolo di mare-sciallo di Francia nelle numerose battaglie so-stenute contro le truppe inglesi … prestando servizio durante le campagne i Giovanna d’Arco, la leggendaria “Pulzella d’Orlèans. Con la quale sviluppò un legame, secondo al-cuni molto forte di profonda devozione. Pur-troppo la vicenda della “Pulzella” ebbe un fina-le tragico, allorchè Giovanna venne catturata dagli inglesi e condannata al rogo per eresia. Si dice che Gilles abbia animatamente litigato con Carlo VII perché questi, per motivi politici non si era adoperato per far liberare la Pulzel-la. Gilles abbondò allora la carriera militare, disgustato dagli intrighi di corte e si ritirò a vita privata nelle sue terre, dove condusse una vita opulenta e dissoluta. Non si sa esattamente come iniziò né quando … sta di fatto che, a un certo punto il signore de Rais prese l’abitudine di far condurre al proprio castello, a Tiffauges, diversi ragazzini ufficialmente per prenderli al proprio servizio come paggi. Ma i fanciulli, in

realtà venivano condotti nelle camere di tortu-ra del barone, dove trovavano una triste fine al termine di mille sevizie …

Secondo altri, invece, le torture che in-fliggeva alle sue vittime facevano parte di riti oscuri finalizzati alla evocazione di demoni …. Con l’aiuto o su istigazione di un sedicente mago e alchimista italiano appunto quel Fran-cesco Prelati … grazie al quale la residenza di Tiffauges divenne in breve tempo un vero e proprio “Castello degli orrori”…

Gilles de Rais commise una lunga serie di brutali omicidi senza che nessuno lo fermas-se, grazie al suo potere … ma era impensabile che tali atti potessero venire coperti in definiti-vamente … e, alla fine, la verità venne a galla. Il maresciallo di Francia venne quindi arrestato e messo sotto processo, seppure con tutti privi-legi concessi al suo rango. Durante il processo i servitori parlarono, e tutte le sue efferatezze vennero alla luce con grande orrore e ribrezzo dei presenti. Prelati stesso testimoniò contro di lui, in cambiò dell’impunità. Gilles dapprima negò, poi confessò ogni cosa in un mare di la-crime. Venne condannato a morte il 26 otto-bre 1440, assieme ai suoi complici. Gli fu con-cesso di avere una degna sepoltura, invece di lasciare che il suo corpo venisse bruciato e le ceneri sparse al vento, com’era previsto dalla legge per quel genere di crimini 2…

Se si prova a leggere la fiaba di Barbablu come viene riportata nel sito http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/perrault/barbablu.htm ci si rende conto della inaudita ferocia che si annidava nell’animo del protagonista di questa favola

2 AAVV “I Grandi Enigmi di Martin Mystère

Detective dell’impossibile Il segreto di Giovanna

d’Arco” pag. 97 e seguenti.

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“nera”, che, come si è detto potrebbe esse-re Gilles de Rais.

Fiabe Classiche - C.Perrault: Barba-blu

“Les Contes de ma mère l’Oye”

(traduzione di Carlo Collodi da “I racconti delle fate”)

C’era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche, e piatterie d’oro e d’argento, e mobilia di lusso ricamata, e carrozze tutte dorate di dentro e di fuori. Ma quest’uomo, per sua disgra-zia, aveva la barba blu: e questa cosa lo faceva così brutto e spaventoso, che non c’era donna, ragazza o maritata, che soltanto a vederlo, non fuggisse a gambe dalla paura. Fra le sue vicinanti, c’era una gran dama, la quale aveva due figlie, due occhi di sole. Egli ne chiese una in moglie, lasciando alla madre la scelta di quella delle due che avesse volu-to dargli: ma le ragazze non volevano saperne nul-la: e se lo palleggiavano dall’una all’altra, non tro-vando il verso di risolversi a sposare un uomo, che aveva la barba blu. La cosa poi che più di tutto fa-ceva loro ribrezzo era quella, che quest’uomo ave-va sposato diverse donne e di queste non s’era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto. Fatto sta che Barbablu, tanto per entrare in relazione, le menò, insieme alla madre e a tre o quattro delle loro amiche e in compagnia di alcuni giovinotti del vicinato, in una sua villa, dove si trattennero otto giorni interi. E lì, fu tutto un metter su passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, merende: nessuno trovò il tempo per chiudere un occhio, perché passavano le nottate a farsi fra loro delle ce-lie: insomma, le cose presero una così buona piega, che la figlia minore finì col persuadersi che il pa-drone della villa non aveva la barba tanto blu, e che era una persona ammodo e molto perbene. Torna-ti di campagna, si fecero le nozze.

In capo a un mese, Barbablu disse a sua moglie che per un affare di molta importanza era costret-to a mettersi in viaggio e a restar fuori almeno sei settimane: che la pregava di stare allegra, durante la sua assenza; che invitasse le sue amiche del cuore, che le menasse in campagna, caso le aves-se fatto piacere: in una parola, che trattasse da re-gina e tenesse dappertutto corte bandita. “Ecco”, le disse, “le chiavi delle due grandi guardarobe:

ecco quella dei piatti d’oro e d’argento, che non vanno in opera tutti i giorni: ecco quella dei miei scrigni, dove tengo i sacchi delle monete: ecco quella degli astucci, dove sono le gioie e i fini-menti di pietre preziose: ecco la chiave comune, che serve per aprire tutti i quartieri. Quanto poi a quest’altra chiavicina qui, è quella della stanzina, che rimane in fondo al gran corridoio del pian terreno. Padrona di aprir tutto, di andar dapper-tutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proi-bisco d’entrarvi e ve lo proibisco in modo così as-soluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera.” Ella promette che sarebbe stata attaccata agli ordini: ed egli, dopo averla abbracciata, monta in carroz-za, e via per il suo viaggio.

Le vicine e le amiche non aspettarono di essere cercate, per andare dalla sposa novella, tanto si struggevano dalla voglia di vedere tutte le magnifi-cenze del suo palazzo, non essendosi arrisicate di andarci prima, quando c’era sempre il marito, a motivo di quella barba blu, che faceva loro tanta paura. Ed eccole subito a sgonnellare per le sale, per le camere e per le gallerie, sempre di meravi-glia in meraviglia. Salite di sopra, nelle stanze di guardaroba, andarono in visibilio nel vedere la bellezza e la gran quantità dei parati, dei tappeti, dei letti, delle tavole, dei tavolini da lavoro, e dei grandi specchi, dove uno si poteva mirare dalla punta dei piedi fino ai capelli, e le cui cornici, parte di cristallo e parte d’argento e d’argento do-rato, erano la cosa più bella e più sorprendente che si fosse mai veduta. Esse non rifinivano dal magnificare e dall’invidiare la felicità della loro amica, la quale, invece, non si divertiva punto alla vista di tante ricchezze, tormentata, com’era, dalla gran curiosità di andare a vedere la stanzina del pian terreno. E non potendo più stare alle mosse, senza badare alla sconvenienza di lasciar lì su due piedi tutta la compagnia, prese per una scaletta segreta, e scese giù con tanta furia, che due o tre volte ci corse poco non si rompesse l’osso del col-lo. Arrivata all’uscio della stanzina, si fermò un momento, ripensando alla proibizione del mari-to, e per la paura dei guai, ai quali poteva andare incontro per la sua disubbidienza: ma la tentazio-ne fu così potente, che non ci fu modo di vincer-la. Prese dunque la chiave, e tremando come una foglia aprì l’uscio della stanzina. Dapprincipio non poté distinguere nulla perché le finestre era-no chiuse: ma a poco a poco cominciò a vedere

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che il pavimento era tutto coperto di sangue acca-gliato, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barbablu aveva sposate, e poi sgozzate, una dietro l’altra. Se non morì dalla pa-ura, fu un miracolo: e la chiave della stanzina, che essa aveva ritirato fuori dal buco della porta, le cascò di mano. Quando si fu riavuta un poco, raccattò la chiave, richiuse la porticina e salì nella sua camera, per rimettersi dallo spavento: ma era tanto commossa e agitata, che non trovava la via a pigliar fiato e a rifare un po’ di colore. Essendosi avvista che la chiave della stanzina si era macchia-ta di sangue, la ripulì due o tre volte: ma il sangue non voleva andar via. Ebbe un bel lavarla e un bello strofinarla colla rena e col gesso: il sangue era sempre lì: perché la chiave era fatata e non c’era verso di pulirla perbene: quando il sangue spariva da una parte, rifioriva subito da quell’altra.

Barbablu tornò dal suo viaggio quella sera stessa, raccontando che per la strada aveva ricevuto lette-re, dove gli dicevano che l’affare, per il quale si era dovuto muovere da casa, era stato bell’e ac-comodato e in modo vantaggioso per lui. La mo-glie fece tutto quello che poté per dargli ad inten-dere che era oltremodo contenta del suo sollecito ritorno. Il giorno dipoi il marito le richiese le chiavi: ed ella gliele consegnò: ma la sua mano tremava tanto, che esso poté indovinare senza fa-tica tutto l’accaduto. “Come va”, diss’egli, “che fra tutte queste chiavi non ci trovo quella della stan-zina?” “Si vede”, ella rispose, “che l’avrò lasciata di sopra, sul mio tavolino.” “Badate bene”, disse Barbablu, “che la voglio subito.” Riuscito inutile ogni pretesto per traccheggiare, convenne portar la chiave. Barbablu, dopo averci messo sopra gli occhi, domandò alla moglie: “Come mai su que-sta chiave c’è del sangue?”. “Non lo so davvero”, rispose la povera donna, più bianca della morte. “Ah! non lo sapete, eh!”, replicò Barbablu, “ma lo so ben io! Voi siete voluta entrare nella stanzi-na. Ebbene, o signora: voi ci entrerete per sem-pre e andrete a pigliar posto accanto a quelle altre donne, che avete veduto là dentro.”

Ella si gettò ai piedi di suo marito piangendo e chiedendo perdono, con tutti i segni di un vero pentimento, dell’aver disubbidito. Bella e addolo-rata com’era, avrebbe intenerito un macigno: ma Barbablu aveva il cuore più duro del macigno.

“Bisogna morire, signora”, diss’egli, “e subito.” “Poiché mi tocca a morire”, ella rispose guardan-dolo con due occhi tutti pieni di pianto, “datemi almeno il tempo di raccomandarmi a Dio.” “Vi accordo un mezzo quarto d’ora: non un minuto di più”, replicò il marito. Appena rimasta sola, chiamò la sua sorella e le disse: “Anna”, era que-sto il suo nome, “Anna, sorella mia, ti prego, sali su in cima alla torre per vedere se per caso arri-vassero i miei fratelli; mi hanno promesso che oggi sarebbero venuti a trovarmi; se li vedi, fà loro segno, perché si affrettino a più non posso”. La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera sconsolata le gridava di tanto in tanto: “Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?”.

“Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l’erba che verdeggia.”

Intanto Barbablu, con un gran coltellaccio in ma-no, gridava con quanta ne aveva ne’ polmoni: “Scendi subito! o se no, salgo io”. “Un altro mi-nuto, per carità” rispondeva la moglie. E di nuovo si metteva a gridare con voce soffocata: “Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?”.

“Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l’erba che verdeggia.”

“Spicciati a scendere”, urlava Barbablu, “o se no salgo io.” “Eccomi” rispondeva sua moglie; e daccapo a gridare: “Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?”. “Vedo” rispose la so-rella Anna, “vedo un gran polverone che viene verso questa parte...” “Sono forse i miei fratelli? “ “Ohimè no, sorella mia: è un branco di monto-ni.”

“Insomma vuoi scendere, sì o no?”, urlava Barba-blu. “Un’altro momentino” rispondeva la moglie: e tornava a gridare: “Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?”. “Vedo” ella rispose “due cavalieri che vengono in qua: ma sono ancora molto lontani.” “Sia ringraziato Iddio”, aggiunse un minuto dopo, “sono proprio i nostri fratelli: io fac-cio loro tutti i segni che posso, perché si spiccino e arrivino presto.”

Intanto Barbablu si messe a gridare così forte, che fece tremare tutta la casa. La povera donna ebbe a scendere, e tutta scapigliata e piangente andò a gettarsi ai suoi piedi: “Sono inutili i piagni-stei”, disse Barbablu, “bisogna morire”. Quindi

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pigliandola con una mano per i capelli, e coll’altra alzando il coltellaccio per aria, era lì lì per tagliar-le la testa. La povera donna, voltandosi verso di lui e guardandolo cogli occhi morenti, gli chiese un ultimo istante per potersi raccogliere. “No, no!”, gridò l’altro, “raccomandati subito a Dio!”, e alzando il braccio...

In quel punto fu bussato così forte alla porta di casa, che Barbablu si arrestò tutt’a un tratto; e ap-pena aperto, si videro entrare due cavalieri i qua-li, sfoderata la spada, si gettarono su Barbablu. Esso li riconobbe subito per i fratelli di sua mo-glie, uno dragone e l’altro moschettiere, e per mettersi in salvo, si dette a fuggire. Ma i due fra-telli lo inseguirono tanto a ridosso, che lo rag-giunsero prima che potesse arrivare sul portico di casa. E costì colla spada lo passarono da parte a parte e lo lasciarono morto. La povera donna era quasi più morta di suo marito, e non aveva fiato di rizzarsi per andare ad abbracciare i suoi fratelli.

E perché Barbablu non aveva eredi, la moglie sua rimase padrona di tutti i suoi beni: dei quali, ne dette una parte in dote alla sua sorella Anna, per maritarla con un gentiluomo, col quale da tanto tempo faceva all’amore: di un’altra se ne servì per comprare il grado di capitano ai suoi fratelli: e il resto lo tenne per sé, per maritarsi con un fior di galantuomo, che le fece dimenticare tutti i crepa-cuori che aveva sofferto con Barbablu.

Le leggende legate alla figura della Santa e Protettrice delle Francia, Giovanna D’Arco, sono tante come quella secondo cui le voci che ella udiva pare fossero i sug-gerimenti delle Parche o Norne che vive-vano sotto l’albero cosmico o Yggdrasill. Si narra che Giovanna D’Arco, durante un temporale, si fosse rifugiata sotto una e-norme albero, dove, avrebbe incontrato le Norne o Parche che le avrebbero mostrato il proprio destino. Secondo Antony S. Mercatante tale pianta è:

Yggdrasil, il cavallo del terribile, oppu-re, il destriero di Odino, nella mitologia nor-dica, il grande albero di frassino cosmico, co-

nosciuto anche come l’albero del mondo. L’Edda di Snorri lo descrive come «il più grande e il migliore degli alberi. Suoi rami, e-stesi su tutto il mondo, s’innalzano oltre il cie-lo. Ha tre radici molto grandi. Una si estende fino agli Asi …, un’altra fino ai Giganti del Ghiaccio dove prima c’era Ginnugagap (l’abisso primordiale), la terza poggia su Ni-flheimr (la terra delle brume fredde e oscure), e sotto la sua radice, costantemente rosicchiata da Nidhogg ( il drago) , c’è Hvergelmir.» In cima all’Yggdrasill c’è un’aquila appollaiata. In mezzo agli occhi dell’uccello c’è un falco, Ver-durfolnir. Uno scoiattolo chiamato Ratatosk corre su e giù per l’Yggdrasill, cercando di far litigare l’aquila e Nidhogg. Quattro cervi … passano da un ramo all’altro mangiando i suoi germogli. Le Norne siedono sotto la fonte Ur-dar, situata alla terza radice dell’albero.3

Laura Rangoni a proposito di questa leggenda dice:

Ecco alcuni dell’interrogatorio che mi pare siano particolarmente indicativi: «Vicino a Do-rèmy c’è un albero, lo chiamano l’albero delle Dame oppure, talvolta, l’albero delle Fate. Lì nei pressi c’è una sorgente. Ho sentito dire che gli ammalati vanno a bere l’acqua di quella sorgente per riacquistare la salute. Qualche volta sono andata con altre ragazze a fare delle ghirlande di foglie per adornare la statua di Nostra Signora di Dorèmy. I vecchi racconta-no che le fate venivano a chiacchierare vicino all’albero. Ho sentito la Jeanne Aubry, che era la moglie del podestà e mia madrina, racconta-re a me che vi sto parlando, di aver veduto le fate in quel posto. Ma io non so se questo sia vero. Ho visto delle ragazze al mio paese posa-re ghirlande di fiori sui rami dell’albero e, quindi, qualche volta l’ho fatto anch’io con lo-

3 MERCATANTE, S. Antony: op. cit. pag. 660

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ro; certi giorni ce li portavamo via con noi, al-tre volte le lasciavamo là.» 4

In un’altra leggenda si dice che ella fosse in possesso della famosa spada di Or-lando chiamata Durlindana, dal nome del mago che la forgiò, che aveva recuperato grazie alle voci che le avevano suggerito dove era nascosta. Quest’arma aveva una propria volontà e per questo difficile da controllare.

Essa, poteva facilmente influenzare la psiche del possessore se questo non posse-deva una forza di volontà superiore alla spada. Pare che Giovanna fosse in grado di dominare questa meravigliosa arma, e sembra che, ella, non abbia mai ucciso nes-suno con la sua spada!

Infine, alcuni sostengono che, Giovanna, fosse una delle tante custodi del Graal e quella che morì sul rogo non fosse la vera Pulzella d’Orlèans ma una sua sosia poiché ella, prima di morire doveva portare a ter-mine il suo compito, che ignoriamo quale fosse!

4 RAGONI, Laura, Le Fate, Xenia Editori Milano 2004

pag. 87.

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Una riflessione sui testimoni

di casi inspiegabili

di Vito Foschi

Tempo fa è capitato di guardare Unexplained Files su Deejay Tv e fra i vari argomenti è capitato anche quello di un Ufo avvistato da un pilota militare; ciò mi ha fatto nascere una riflessione sui testimo-ni di casi cosiddetti inspiegabili. I testimoni singoli a volte vengono accusati di essere solo persone in cerca di notorietà o atten-zione, mentre nel caso di una pluralità di testimoni si parla di isteria collettiva.

Indubbiamente esistono episodi di vere e proprie truffe o di persone disturba-te o in cerca del famoso quarto d’ora di no-torietà, però in altri non si capisce perché una persona dovrebbe inventarsi una storia incredibile e poi andarla a raccontare in gi-ro. Facendo un lavoro da impiegato con annesso capoufficio, sono in qualche modo vincolato ad una certa disciplina e a vincoli “sociali”. Ciò accade in un normale luogo di lavoro e si immagina che in ambienti come quelli militari, medici o professionali in cui conta gerarchia e reputazione la si-tuazione sia ancora più rigida. Andreste da un medico che va in giro a raccontare che vede gli Ufo? O un militare potrebbe con-tinuare a fare carriera se va in tv a dire che vede i fantasmi? In breve, è un po’ difficile credere che tutti i testimoni di casi inspie-gabili non siano credibili e lo facciano solo per notorietà. Tranne chi può ricavarci una professione, non pare che ci siano tutti questi vantaggi ad andare in tv a dire di es-sere testimoni di casi inspiegabili, special-mente per alcune persone. Si immagini un piccolo paese di provincia dove si cono-scono tutti, quanto una persona possa veni-

re etichettata negativamente, se denuncia di essere stato testimone di un qualche feno-meno inspiegabile. Certo, un individuo può fraintendere ciò che ha visto, ma non si può sempre dubitare della buona fede.

L’altra questione è l’isteria collettiva. Sicuramente un singolo immerso in una folla è soggetto alle influenze del gruppo, ma sembra difficile credere che queste in-fluenze possano arrivare al punto che una persona possa vedere cose che non esisto-no. Questo dubbio viene ampliato dalla presenza di individui eterogenei e persino scettici come capitato a Fatima con il fe-nomeno del sole ballerino. Una folla omo-genea è diversa da una eterogenea. Provo a spiegare. Una folla di tifosi è legata dall’interesse per quel particolare sport e per la propria squadra, e sicuramente un singolo in tale circostanze può subire una forte influenza. Diverso pare il caso di un gruppo di persone che per accidente assiste ad un fenomeno inspiegabile, o come nei fatti di Fatima quando si radunano sia chi vuole credere e sia chi sta lì proprio per smentire il fenomeno. Indubbiamente un gruppo di credenti che vuole vedere un mi-racolo può essere soggetto ad una influen-za, ma risulta difficile credere che un sem-plice curioso venga così influenzato da ve-dere ciò che vedono gli altri.

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I misteri di San Giovanni in

Venere

di Nicoletta Camilla Travaglini

E’ notorio che l’Abruzzo, per la sua particolare geomorfologia, ha dato ricetto a Santi, Eremi e Briganti, i quali, nel bene, o nel male, hanno lasciato una loro indelebi-le impronta, modificandone, di fatto, la morfologia. Per esempio, nel territorio di Fossacesia, in provincia di Chieti, si colloca l’incantevole ed imponente abbazia di San Giovanni in Venere. Essa è stata eretta, sul-la sommità di una boscosa collinetta, rico-perta da piante di ulivo come quella mille-naria, posta ai piedi dell’abbazia, per ricor-darne la fondazione.

L’abbazia di San Giovanni e Santa Maria, venne costruita in posizione pre-dominante e solitaria, a circa un paio di chilometri dal centro abitato, a picco sul quell’insenatura conosciuto come “Golfo di Venere”, nelle vicinanze della foce del fiume Sangro, ove essa si specchia sulle morbide e trasparenti acque del mare A-driatico.

Tradizione vuole che, ovviamente supportata anche da ritrovamenti archeolo-gici, tale luogo sacro si erga sui ruderi di un preesistente tempio pagano dedicato Vene-re Conciliatrice, culto risalente IV secolo a.C., fatto rimarcato anche nel toponimo Portus Veneris, che indicava un porto po-sto alla foce del fiume Sangro durante la dominazione bizantina, vicino ad un nu-cleo abitato chiamato Vico Veneriis lungo la via Traiana.

Con l’avvento del cristianesimo, que-sto luogo fu abitato da eremiti e uomini pii,

e secondo un antica leggenda pare che al-cuni monaci greco-ortodossi, durante la guerra iconoclastica nel VII secolo, emigra-rono in maniera massiccia fino a giungere sulle coste di Fossacesia; tra loro vi erano anche i monaci basiliani, gli stessi che fon-darono la chiesa di San Longino a Lancia-no poi divenuta la chiesa del Miracolo Eu-caristico, che presero possesso di quello che restava dell’antico tempio di Venere, facendolo diventare un luogo di culto cri-stiano dedicato alla Madonna.

Un’altra leggenda sostiene che il pri-mo nucleo di questo luogo di culto fosse costituito da piccolo ricovero per frati be-nedettini, provvisto di una cappella, fatto innalzare da frate Martino intorno 540 do-po aver fatto abbattere il tempio di Venere, che versava in avanzato stato di abbandono per costruirvi una piccola cappella intitolata a San Giovaanni e la Vergine Maria.

Nel 973 il conte di Teate, Trasmondo I, dispose che il monastero ricevesse delle cospicue rendite tali da trasformarlo, così, da un piccolo ricovero in un potente ed opulento monastero.

Anche se questo illuminato conte fece in modo che da una semplice e povera “cella”, essa si trasformasse in un monaste-ro, la sua fondazione e come la sua opu-lenza vanno attribuiti al conte teatino Tra-smondo II che agli inizi dell’anno Mille, dopo sostanziose prebende, rese possibile la formazione di un solida struttura religio-sa, economica, autonoma governata da aba-ti. Come segno di gratitudine nei confronti del conte i monaci, alla sua morte, soprav-venuta nel 1025, lo seppellirono nella crip-ta dove tuttora riposa.

Se risulta un pochino complicato pos-sedere dati certi sulla sua fondazione e sul-

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la sue prime fasi della sua esistenza, vi sono precisi riferimenti storici relativi alle sue fa-si costruttive che vanno dal 973 fino al 1204 circa, dove raggiunse il suo culmine con l’abate Oderisi II il Grande.

I secoli tra il X e l’XI furono molto importanti per la crescita religiosa, cultura-le ed economica dell’abbazia la quale di-venne in breve tempo uno dei più fiorenti luoghi di culto centro-meridionali annove-rando tra i suoi possedimenti oltre duecen-to feudi sparsi in diverse zone d’Italia e fuori dal nostro territorio nazionale come ad esempio in Dalmazia.

Nel periodo in cui essa stava consoli-dando il suo potere e la sua fama, nella se-conda metà dell’anno Mille circa, il terzo abate Monastico, Oderisio I, appartenete alla famiglia dei Pagliara, ramo secondario dei Conti dei Marsi, i quali a loro volta rappresentavano un ramo cadetto della più gloriosa e prestigiosa famiglia dei Di San-gro, aveva già fatto allestire una fiorente e ricca biblioteca, una ottima scuola retta dai confratelli; fortificò, attraverso fossati, torri e mura la chiesa, costruì ospedali ed offici-ne, ma soprattutto, fondò la cittadina di Rocca San Giovanni, che divenne, in bre-ve tempo il più fiorente ed opulento pos-sedimento della badia ed oggi nella chiesa madre di Rocca San Giovanni vi sono mol-te reliquie e volumi che facevano parte del ricco tesoro dell’abbazia di San Giovanni in Venere.

La famiglia di Sangro a cui apparte-neva, come abbiamo detto, anche Oderisio I, discendeva direttamente da Carlo Magno e che annoverò nel loro albero genealogico anche Papi e Santi.

Questa potente ed antichissima casata discende dai duchi di Borgogna che a loro

volta erano di stirpe carolingia, longobarda e, naturalmente, normanna. Questi nobili, ovviante, furono legati da vincoli strettissi alla Chiesa e in special modo al potente, ricco e stimato ordine Benedettino.

Nel IX secolo essi, vennero in Italia e si stabilirono maggiormente negli Abruzzi, ove riuscirono a conquistare e, quindi, a governare diversi feudi e contee, prenden-do il titolo di “Conti dei Marsi”.

I nomi dei conti dei Marsi erano Bernardo, Oderigi, Teodino, Trasmondo che si posso incontrare in molti documenti del XI e del XII secolo.

In un atto notarile del agosto del 981, conservato a Montecassino, Teodino ed i suoi fratelli Rainaldo e Oderisio risultano i conti di Marsia; si divisero i loro territori nel seguente ordine : Teodino divenne conte di Rieti e Amiterno, Rainaldo conte della Marsia e Oderisio Conte di Valva.

Oderisio diede origine a tre grandi rami: una discendenza si stanziò nella zona del Sangro con la linea Borrello, la più grande, che si diffuse in tutto l’Abruzzo Centrale dando vita a Prezza e a Raiano, alle linee separate di Gentile; un secondo ramo si trasferì in quello che oggi è la pro-vincia di Teramo; conosciuti come i conti di Palearia o Pagliara,, annoveravano tra i membri della loro famiglia Berardo, vesco-vo di Teramo e Oderisio di Palearia che alla metà del sec. XIII fu nominato dal Re “Giustiziere d’Abruzzo”. Il terzo ramo si stabilì a Valva vicino Sulmona.

Nel 1250 pochi erano i sopravissuti di questa discendenza, così la famiglia d’Ocre vide distrutto il suo antico castello come fu in precedenza per i Barili, i quali insieme ai succitati d’Ocre si rifugiarono all’Aquila.

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Gli altri rami della famiglia come i Borello e di Sangro si ritirarono in Sicilia.

Trasmondo, vescovo di Valva e Aba-te di San Clemente a Casauria era figlio di Oderisio conte de’Marsi e fratello di Ode-risio abate di Montecassino e di Attone, ve-scovo di Chieti. L’Abbazia di San Giovanni in Venere annovera due membri di questa famiglia, oltreché la permanenza del Ve-scovo di Teramo Berardo.

All’inizio del 1500 essi ottennero il titolo di marchesi, alla fine dello stesso secolo di-vennero Duchi e pochi anni dopo questo titolo acquisirono, anche, quello di Princi-pi, governando, il loro vastissimo impero in maniera tirannica, dispotica e violenta!

Nel loro albero genealogico, vi sono presenti anche figure di spicco come Ode-risio, San Bernardo di Chiaravalle fondato-re dei Templari, Santa Rosalia, Innocenzo III, Gregorio III, ideatore e iniziatore della Santa Inquisizione, Paolo IV Carafa, che contrastò in tutte le maniere l’Ufficio della Santa Inquisizione, Benedetto XIII

Sempre della stessa famiglia dei di Sangro, come si è potuto ampiamente ve-dere, Oderisio II “il Grande”, portò enor-me lustro all’abbazia attraverso mezzo se-colo circa di conduzione del luogo sacro, incrementando le opere degli abati prece-denti ed iniziando i lavori di ampliamento conferendogli la struttura architettonica at-tuale e per tali meriti sono ricordati in un epigrafe posta sulla facciata principale della badia.

Durante il dominio normanno, essa fu coinvolta in giochi politici poco chiari che la portarono, suo malgrado, a subire diversi saccheggi. Da qui inizia un periodo di ine-sorabile e lenta decadenza fatta anche di devastazioni e violenze come quella perpe-

trata dai Veneziani nella prima metà del 1200, poi da parte degli avventurieri di U-gone Orsini, quindi fu la volta dei di Carra-ra; i corsari di Pialy Pascià, che rasero al suolo Santo Stefano Riva Maris ed altri luoghi sacri si accanirono anche contro San Giovanni in Venere, come non fu rispar-miata neanche da un orda di briganti che nel 1600 infestavano quei luoghi.

Anche Madre Natura volle lasciare tangibili segni del suo passaggio attraverso un terribile sisma che 1456 provocò gravi danni all’abbazia già provata da un periodo non molto florido, cosa che si ripete nel 1627 con un altro terremoto che squassò l’Italia centro-meridionale; ed infine la pic-cola nobiltà locale fece razzia dei suoi beni. In piena decadenza, intorno alla fine del 1500, passò nelle mani della confraternita di San Filippo Neri. Allo stato di ulteriore deterioramento, verso la fine del ‘700, pas-so nelle mani del regio demanio. Distrutta ulteriormente durante la Seconda Guerra Mondiale fu ristrutturata dalle amorevoli cure dei Padri Passionisti attuali custodi di questo immenso bene.

Questa badia ha visto passare re e papi come Pietro da Morrone, futuro Ce-lestino V che, secondo alcune fonti, prese i voti in questo luogo, per poi tornarvi, al fi-ne di cercare proventi durante la costruzio-ne della chiesa di Santa Maria di Colle-maggio. Accanto a queste supposizioni vi sono fonti che attestano che Pietro Angele-rio, dopo aver iniziato i lavori della costru-zione del luogo di culto, e senza aver ac-quistato il terreno circostante, parte alla volta dell’abbazia di San Giovanni in Vene-re e dopo alcuni anni egli torna con il da-naro sufficiente a poter compare il terreno dove oggi sorge la basilica di Collemaggio! Secondo alcuni, Pietro da Morrone per comprarsi questi terreni, abbia chiesto sov-

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venzioni, forse alla potente abbazia di San Giovanni in Venere, in cambio di qualcosa di prezioso che potrebbe essere il Santo Graal, in quanto egli, incontrando i templa-ri in Francia, pare che questi gli abbiano dato qualcosa di prezioso da custodire, e se egli non aveva denaro per comperare i ter-reni della futura abbazia, costruita dopo il suo ritorno dal viaggio succitato, per poter essere finanziato aveva bisogno di dare in garanzia qualcosa ai suoi finanziatori!

Durante il periodo del suo soggiorno a Fossacesia, nominò cardinale il suo vice Tommaso di Ocre, che nel giro di poco tempo, divenne, per volere del successore di Celestino V, Bonifacio VIII, il primo abate Commentario della badia di San Giovanni in Venere ed ebbe il compito di occuparsi delle esequie del Papa Celestino V.

Ma che cos’è il Graal?

In origine, secondo alcune versioni, il Graal, era la pietra, uno smeraldo, più preziosa e lucente del diadema di Lucifero, l’Angelo più bello del Creato. Esso cadde sulla Terra quando questi ingaggio battaglia con gli Angeli e fu raccolto dagli uomini che lo usarono per fini non sempre nobili.

Altre versioni sostengono che quan-do Seth, il figlio di Adamo ed Eva, cercò di salvare suo padre da una letale malattia, tornando nell’Eden, egli non trovò nessuna cura specifica per lui, ma una cura per tutti i mali del mondo, insieme a una promessa che Dio non avrebbe mai abbandonato il genere umano e pare che questo fosse il Graal.

Questo sacro oggetto smette di esse-re qualcosa di metafisico per entrare nella realtà percepibile, quando Giuseppe D’Arimatea, un ricco ebreo forse parente

di Gesù, raccoglie il Sangue del Cristo pro-prio nella coppa che poi verrà definita San-to Graal.

Dopo la crocifissione, il corpo di Gesù , fu dato in consegna a Giuseppe D’Arimtea e gli fu dato anche la coppa dell’Ultima Cena, con la quale il maestro celebrò questo rito. L’ebreo lavò il Corpo del Defunto, ma mentre faceva questo dal-le ferite uscì del sangue che Giuseppe rac-colse nella coppa, quindi il Corpo fu avvol-to in un sudario e fu messo nel sepolcro, ove dopo tre giorni Resuscitò.

Dopo la Resurrezione Giuseppe fu imprigionate dai romani con l’accusa di sottrazione di cadavere e privato del cibo, fu lasciato languire in un umida cella, dove un giorno gli apparve Gesù risorto amman-tato di luce che gli consegnò la coppa rive-landone, anche le virtù della medesima; Giuseppe fu tenuto in vita grazie a una co-lomba che portava tutti i giorni un’ostia nel-la coppa.

Era il 70 d. C. quando Giuseppe D’Arimatea fu scarcerato, insieme a sua so-rella e a suo cognato Bros. Questi scelsero, per causa di forza maggiore, l’esilio e parti-rono su una nave che li portò oltreoceano , verso un’isola sconosciuta dove, perpetra-rono le loro tradizioni. Qui costruirono una tavola come quella usata per l’Ultima Cena dove presero posto dodici commen-sali, mentre il tredicesimo fu lasciato vuoto, perché era quello che avrebbe dovuto esse-re occupato da Gesù o da Guida. Se questa sedia veniva inavvertitamente occupata essa eliminava all’istante il commensale, per questo esso ebbe il nome di “Seggio Peri-glioso” e la tavola fu chiamata “Prima Ta-vola del Graal”.

Passarono alcuni anni in questa terra sconosciuta e Giuseppe sentì il bisogno e

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la voglia di andare via e durante uno dei suoi tanti peregrinaggi per le vie del mon-do, si fermò in Bretagna precisamente a Glastonbury, dove fondò la prima comuni-tà cristiana che doveva soppiantare l’antica religione dei Druidi. Il primo tempio cri-stiano, qui fondato fu dedicato alla Ma-donna o, secondo alcune versioni a Maria Maddalena e in questo luogo che rimase il Graal che veniva utilizzato durante la fun-zione religiosa.

Alla morte di Giuseppe il Graal fu custodito da suo cognato che grazie alla coppa riuscì a sfamare tutti i suoi seguaci. Dopo Bron il Graal passò nelle mani di un nuovo custode che conservò la sacra reli-quia in un castello sulla Montagna della Salvezza di cui ignoriamo l’ubicazione. Nacque in quegli anni anche un ordine ca-valleresco che, venne denominato come l’Ordine dei Cavalieri del Graal, con il compito di proteggere questa coppa; essi si nutrivano delle ostie che la reliquia dispen-sava e il loro capo e custode del divino re-cipiente ricopriva la carica di Re Sacerdote.

Uno di questi custodi fu ferito, se-condo alcune versioni, dalla lancia di Lon-gino e divenne sterile come la terra nella quale era ubicato il castello che custodiva la divina coppa.

Molti hanno visto un parallelo tra il Re Ferito, come venne denominato da al-lora in poi il custode del Graal, e la figura di San Rocco che in molte immagini viene raffigurato con una ferita alla gamba.

Il Re Ferito trovava sollievo solo pe-scando e così fu definito anche come Re Pescatore ed egli sarebbe stato salvato da una domanda ben precisa fatta da un cava-liere puro di cuore; da qui che inizia la saga

di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Ro-tonda di cui parleremo in seguito.

Tornando alla lancia di Longino, es-sa è l’arma con cui il centurione romano trafisse il costato di Gesù crocifisso, pare che avesse, come il Graal, delle doti magi-che molto forti, perciò fu custodita insieme ad altre reliquie come: ad una spada e al piatto che resse la testa di Giovanni Batti-sta, all’interno del castello del Monte della Salvezza.

Questi quattro oggetti magici hanno influenzato la nostra cultura italiano poiché sono riprodotti nei semi delle carte da gio-co.

Questa tradizione degli oggetti magi-ci ha radici molto antiche e profonde pre-senti in culture millenarie come quelle asia-tiche nelle quali si raccontano leggende se-condo cui degli angeli sarebbero scesi dal cielo e si sarebbero stabiliti nel deserto do-ve avrebbero rivelato agli uomini la loro cultura superiore.

Prima di scomparire per sempre questi dei avrebbero lasciato quattro potentis-simi talismani in grado di conferire pote-ri simili ai loro dei: una pietra, una spa-da, un calderone e una lancia. Questi oggetti sono presenti in quasi tutte le tradizioni. La pietra, ad esempio, po-trebbe essere quella nera della Ka’ba, la spada potrebbe essere quella nella roc-cia, la coppa il Graal e la lancia forse quella di Longino.

Alla morte di Erode, Israele, fu divisa in un mosaico di staterelli, che solo nel 6 d. C. divennero Provincia romana, con tutti gli onori e oneri che ciò comporta-va.

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Gli ebrei insofferenti all’allora stato di cose, insorsero, dapprima con piccole sommosse culminati, poi, in vere e proprie rivolte. Mentre la Galilea bruciava, Roma, inviò un poderoso esercito per domare questi fuo-chi atti a spezzare il giogo degli invasori; paese dopo paese, città dopo città la zona settentrionale della Galilea si arrese e l’esercito giunse fino alle mura di Gerusa-lemme dove, forse corrotto dagli insorti, esso si fermò. Nonostante queste vittorie, gli ebrei continuarono a lottare e così nel 66 d. C. il generale Vespasiano, futuro im-peratore, fu incaricato di riportare la pace nella provincia. Era il 68 quando le truppe del futuro imperatore si fermarono a causa della morte dell’imperatore Nerone e tor-narono a Roma. Nei diciotto mesi di tre-gua, gli ebrei non riuscirono a riorganizzare una resistenza duratura e così mentre Ve-spasiano fu incoronato imperatore suo fi-glio Tito partiva alla volta di Gerusalemme per riconquistarla.

L’assedio fu lungo e sanguinoso ma alla fine i romani ebbero ragione degli as-sediati e così entrarono trionfalmente in cit-tà dove si abbandonarono a ogni genere di violenza. Molti furono crocifissi sulle mura della città, le strade pullulavano di cadaveri appesi alle croci, il tempio fu profanato, derubato bruciato e infine raso al suolo, sulla cui terra fu buttato il sale.

Alcuni gruppi di persone apparte-nenti alla casta degli Zeloti si arroccarono nell’antica fortezza di Masada, essi resistet-tero per lungo tempo, finché, come narra una leggenda, una ragazza si innamorò di un soldato; essa, per amore, rivelò all’uomo dove erano i pozzi che alimenta-vano la città, i romani, allora, chiusero i pozzi e gli assediati furono costretti a ar-rendersi, ma per non subire l’onta della sconfitta si uccisero tutti. I romani pene-

trarono nella cittadella e trovarono solo tanti cadaveri sparsi per la città.

Dopo aver domato la rivolta Tito fe-ce erigere delle mura intorno al monte Golgotha e vi mise della terra intorno, quindi, lo fece spianare fino a trasformarlo in un pianoro, che conteneva al suo interno il Sepolcro con le spoglie mortali del Cri-sto. Non contento di ciò proibì il culto del cristianesimo e gli ebrei furono costretti a disperdersi per i quattro angoli del mondo.

Furono anni difficile per i cristiani e le loro tradizioni, queste infatti, furono af-fidate a sette segrete con a capo un vescovo di nome Marco.

Con l’avvento di Costantino sul tro-no, le cose cambiarono radicalmente; i cri-stiani uscirono dalla clandestinità e quando nel 314 divenne signore anche delle terre d’oriente, lui e sua madre Elena, rimasero affascinate dalle leggende che aleggiavano intorno al Santo Sepolcro. Così in breve tempo si iniziarono gli scavi per riportare alla luce questi tesori; si narra, che durante questi lavori, Elena avesse trovato un ogget-to, forse una coppa, dove si raccolse il San-gue di Gesù.

A questo punto la storia del Graal si fa sempre più confusa e lacunosa; secondo alcune fonti esso finì in Bretannia, dopo che Roma fu depredata dai Visigoti nel 400 d. C. e pare che questa reliquia giaccia in fondo a un pozzo a pochi passi dalla pre-sunta tomba di un nobile cavaliere, forse re Artù.

Altre testimonianza parlano di un imperatore bizantino che nel I secolo d. C., dopo aver sottratto ai persiani alcune reli-quie, forse anche il Santo Calice, esse siano state portate a Costantinopoli.

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Alcune leggende affermano che a Costantinopoli vi fossero confluite tantis-sime reliquie sacre tra cui la Sindone, i Chiodi con cui Gesù fu crocifisso, alcune spine della Corona, di cui una oggi è a Va-sto e naturalmente il Graal, che pare con-tenesse la Sindone medesima.

Sembra che questi due oggetti abbia-no seguito lo stesso cammino, ma queste sono solo supposizione; comunque il Santo Sudario, nel 1204, durante il sacco di Co-stantinopoli, da parte dei Templari, era qui e fu portata poi a Lirey in Francia e da qui a Torino.

Come abbiamo potuto vedere questa eterna ricerca forse di una chimera chiama in causa un ordine cavalleresco fatto da monaci guerrieri i Templari, appunto, che come sappiamo erano i difensori del Santo Sepolcro e dei luoghi sacri alla Cristianità e per far questo intentarono una guerra che chiamiate le Crociate. Alcune fonti sosten-gono che all’apice del suo splendore e du-rante l’era del abate Oderiso II il grande, essa fu in grado di finanziare addirittura la quarta Crociata, voluta da Papa Innocenzo III nel 1198, secondo tali fonti, questi uo-mini, dimenticando l’abito che indossavano e la loro missione, si abbandonarono ai più efferati atti di violenza, come si può leggere in una invettiva scritta da un monaco della chiesa di Santo Steafano Riva Maris, che racconta di come le milizie di Enrico di Svevia accampati tra le foci del Sangro e quelle del Trigno, si diedero ai peggiori saccheggi, brutalità e violenze, risparmian-do, però, l’abbazia di San Giovanni in Ve-nere.

Questa chiesa fortificata romanica con forti influenze borgognone e di chiara im-postazione cassinese, è a pianta rettangola-re divisa in tre navate aventi lo stesso nu-

mero absidi su cui spicca il presbiterio che si ubica in posizione dominante rispetto al resto dell’edificio, in quanto sotto di essa si posiziona la cripta nella quale vi sono co-lonne e capitelli provenienti dal antico tempio pagano su cui poi venne edificato l’attuale chiesa. Nella cripta risaltano cin-que meravigliosi affreschi raffiguranti di epoche diverse di cui il più antico posizio-nato sull’abside centrale.

Questi pregevoli e policromi affreschi rappresentano il Cristo sorretta da due an-geli nell’atto di benedire con una mano mentre con l’altra sorregge un Vangelo. In un altro dipinto posto sul lato sinistro della finestra si può ammirare il Battista insieme a San Benedetto e vicino a questi beati vi è raffigurato un monaco inginocchiato che rappresenterebbe, secondo alcune fonti, il committente dell’opera. Un altro prezioso affresco, posizionato sulla destra dell’abside, rappresenta la Vergine in trono con il Bambino ai cui lati spiccano le figure dell’Arcangelo Gabriele, come si legge dall’iscrizione posta sul suo capo, e San Nicola di Bari. Ai lati delle absidi si posso-no ammirare l’immagine di Cristo in trono posta tra San Vito e San Filippo, in un altro dipinto sempre il Cristo in trono appare posizionato tra il Battista, l’Evangelista ed i santi Pietro e Paolo.

Le tre navate della chiesa sono costi-tuite da archi a sesto acuto e dall’ interno delle chiesa tramite una porticina sormon-tata da una lunetta nella quale si può vede-re un fregio raffigurante una svasti-ca,simbolo di prosperità e pace, si accede al chiostro. Edificato da Oderisio II venne seriamente danneggiata dal sisma del 1456; questo luogo di silenzio e meditazione è ornato da decine e decine di trifore e capi-telli; lungo i percorsi vi sono reperti arche-ologici provenienti da siti limitrofi come

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anche il sarcofago ospitato sotto l’arcata del campanile.

La facciata esterna che prima del vio-lento sisma che del 1456, era costruita in pietra e in candido marmo, fu restaurata con mattoni nella parte lesionata. Questo ingresso conosciuto come portale della lu-na, così chiamato per la sua foggia ad arco, realizzato da Giacomo del Vasto per com-missione dell’Abate Rainaldo intorno ai primo trentennio del 1200. Sulla lunetta si possono ammirare il Cristo nell’atto di be-nedire, mentre ai suoi lati si posizionano la Madonna implorante ed il Battista con la testa rivolta verso il basso. Nella parte sot-tostante vi sono le figure di San Benedetto e del monaco committente o per lo meno di ciò che ne rimane. Sulla stele posiziona-ta a destra del portale vi sono chiari riferi-menti alla sua origine pagana con una de-corazione che rimanda al culto di Venere in cui si vedono due amorini scoccare frec-ce contro una colomba, animale consacrato alla dea.

Spostandoci più giù sono rappresenta-te una serie di episodi biblici riferiti al Bat-tista ed infine un enigmatico fregio che rac-conta la storia di Daniele nella fossa dei le-oni mentre viene nutrito dal profeta Aba-cuc sorretto da un angelo.

Nella stele di sinistra in alto si possono vedere dei pavoni che si dissetano in una coppa, chiaro riferimento ad elementi pa-gani, poiché questi animali erano consacra-ti a Giunone. Scorrendo questa colonna, si possono notare scene della vita del Battista e l’annunciazione, in basso si vedono scene di caccia tra uomini ed animali fantastici, forniti di code di serpenti.

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Il Volto Santo

di Nicoletta Travaglini

Figura 1: Autore:RaBoe/Wikipedia; provenienza

//commons.wikimedia.org/wiki/File:Manoppello_volto_santo_06.

jpg con licenza: http://creativecommons.org/licenses/by-

sa/3.0/de/legalcode

Posta su un’altura della riva destra del fiume Pescara a soli 217 sul livello del mare nell’entroterra abruzzese, sorge Ma-nopello il cui etimo deriva, probabilmente dalla parola “manoppio”, cioè la quantità di grano contenuta nella mano del contadi-no che lo miete.

Fondata intorno al 1061 dal conte Boamondo, questa deliziosa cittadina, na-sce su insediamenti romani persistenti, te-stimoniati da due monasteri quelli di: Santa Maria Arabona e di Vallebona, che dimo-strano l’esistenza di culti precristiani e non dedicati alle dea Bona.

Esso sorse su un poggio per scopi me-ramente difensivi e le sue quattro porte po-ste in corrispondenza dei quattro punti cardinali, dovevano servire proprio a que-

sto fine. Tuttavia, nonostante tutti questi accorgimenti di sorta essa fu più volte at-taccata e depredata ; finché nel 1140 Rug-gero di Tarsia non pose fine a questo stato di cose, focendone uno dei più potenti feudi d’Abruzzo.

Verso la fine del 1100 questo posse-dimento fu donato da Federico II ai fratelli Pagliara, che dominarono su Manopello fino a circa la metà del 1200, quando Tom-masa, l’ultima discendente di questa dina-stia, la donò a sua figlia, Maria di Suliaco, questa a sua volta, lo portò in dote a suo marito Napoleone II Orsini.

Questa potente e nobile famiglia, che aveva feudi sparsi per tutto l’Abruzzo, arri-vò a batter moneta nel 1383. Purtroppo verso la fine del 1400 Ferdinando I stappò loro di mano questo importante feudo, per donarlo prima a Bartolomeo D’Alviano e poi ai Colonna che restò per lungo tempo un loro possedimento.

Durante il dominio dei Colonna, per la precisione nel 1506, Manoppello legò il proprio nome a quello del Volto Santo, cioè il Velo della Veronica che riproduce il Volto di Gesù quando si apprestava a salire sul Calvario.

La leggenda narra che il dottor Gia-como Antonio Leonelli, un ricco proprie-tario terriero, si trovava sul sagrato della Chiesa di San Nicola conversando ama-bilmente con i suoi amici, quando fu avvi-cinato da uno sconosciuto, che tiratolo in disparte, gli consegnò un fardello. L’uomo, incuriosito, aprì il pacco e… con sommo stupore riconobbe il Velo della Veronica, scomparso molti anni prima da San Pietro in Roma e di cui se ne dubitava perfino l’esistenza. Il dottore cercò delle spiegazio-ni dal misterioso individuo latore del pac-

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co, ma nessuno lo vide uscire dalla Chiesa, sembrava come svanito nel nulla.

Molte sono le ipotesi sul misterioso la-tore, alcuni affermano che fosse un Angelo altri un Santo del Paradiso, sta di fatto che il Velo passò di proprietario in proprietario fino a giungere in possesso dei Frati Minori Cappuccini, che postolo in mezzo a due vetri, fecero costruire, intorno al alla prima metà del 1600, un santuario dedicato alla sacra Icona che ,oggi, si ubica a pochi metri fuori dal centro urbano di Manopello.

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Il Golem e Frankenstein

di Vito Foschi

Introduzione

Nella letteratura fantastica spesso si ritrova la figura del cosiddetto mad doctor ovvero dello scienziato pazzo che con i suoi folli progetti mette in pericolo l’umanità. Questa figura simboleggia il rap-porto ambivalente che si ha con la scienza, da un lato vista come progresso e risolu-zione di ancestrali problemi quali fame e malattie e dall’altra vista con negatività per le bombe nucleari, l’inquinamento, metodi di lavoro poco consoni ai ritmi biologici umani e soprattutto caratteristica forse do-minante e che la rende estranea all’uomo medio, la difficoltà a capirla. In fondo il mad doctor materializza la paura che l’uomo ha della scienza come di qualcosa di ignoto e di estraneo.

Inoltre, e caratteristica forse più in-quietante, è che spesso lo scienziato viene visto come posseduto da un sorta delirio di onnipotenza, delirio che lo porta a voler essere come Dio e quindi creatore lui stes-so, violando le leggi del creato, ma anche regoli morali e leggi dello stato. Recenti po-lemiche sulla libertà della ricerca rendono bene l’idea di come il problema sia di forte attualità.

A volte lo scienziato sembra talmen-te impegnato nella sua ricerca da dimenti-carsi che quella ricerca è per l’uomo e non contro l’uomo. Ciò lo si può vedere in campo medico dove a volte i pazienti pre-feriscono non sottoporsi a terapie devastan-ti e morire dignitosamente non riuscendo a far comprendere tale scelta all’uomo di scienza di turno.

Il dottor Frankenstein

Uno dei primi scienziati pazzi nella letteratura è il dottor Victor Frankenstein del romanzo omonimo di Mary Shelley che non a caso ha come il sottotitolo “Il moderno Prometeo”. Questo racconto è emblematico del rapporto che l’uomo mo-derno ha con la scienza e parliamo dell’ottocento quando la scienza moderna era agli albori, ma che al contrario del seco-lo successivo aveva come sentimento do-minante una fiducia nella scienza ed un’altrettanto idiosincrasia per la supersti-zione e la religione in generale, almeno nel-le classi dominanti. Nel romanzo quello che spaventa ed inorridisce è la sfida del dottor Frankenstein alle leggi della vita, in-fatti costruisce un essere vivente partendo da pezzi di cadavere animandoli con l’elettricità. È la sfida a Dio, per questo il Prometeo moderno. L’uso dell’elettricità come strumento per animare la carne mor-ta si spiega facilmente nella diffusione all’inizio dell’ottocento di articoli sui cosid-detti esperimenti galvanici, ovvero di come tramite archetti elettrici si potessero far muovere i muscoli di un cadavere dando l’impressione di una rianimazione. In par-ticolare in un articolo del 1803 di Giovanni Aladini, nipote di Luigi Galvani, si paven-tava la possibilità di riportare in vita un ca-davere. L’autrice del romanzo, Mary Shel-ley, conobbe sicuramente queste teorie perché discusse con il marito e lord Byron di un articolo di Madame De Stael di cui si parlava «del principio della vita che po-trebbe essere scoperto e degli scienziati che avrebbero potuto galvanizzare un corpo umano ricostruito».

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I paradigmi culturali dominanti

Non possiamo non far riferimento alle teorie di Kuhn sui paradigmi culturali dominanti in un periodo che finiscono per influenzare nel bene e nel male tutta la cul-tura del periodo. Nei primi dell’ottocento il paradigma dominante era quello dell’elettricità, o meglio del galvanismo, come dimostrato dalle discussione fra i co-niugi Shelley e Lord Byron, ovvero andava di moda, come oggi il paradigma dominan-te è la genetica e la biologia in generale così come vent’anni fa era il computer e cin-quant’anni fa l’energia nucleare.

Se pensiamo ai problemi etici solle-vati dalla biologia su temi quali le cellule staminali o la riproduzione assistita, il pro-blema non cambia di molto: è sempre la sfida alle leggi della natura o per chi è più religioso la sfida alle leggi di Dio.

Oltre a questi problemi, quello che crea timore nella scienza, come detto è la sua difficile comprensibilità per l’uomo comune. Insomma la scienza per i più è un qualcosa di esoterico. E l’uso di questo termine è voluto per tracciare un paralleli-smo con un’altra materia propriamente e-soterica: la magia. Potrebbe essere un ac-costamento azzardato ma ha un suo senso perché scienza e magia dall’uomo comune sono viste un po’ alla stessa maniera: due materie estranee, oscure, riservate ad un gruppo ristretto, un’elite, spesso vista inten-ta a sfidare le leggi della natura e a manipo-lare l’uomo solo per soddisfare la propria bramosia di denaro e potere. In fondo i va-ri simboli matematici, le formule chimiche, i programmi per computer e i vari termini tecnici per i profani possono sembrare tan-te formule magiche.

La leggenda del Golem

Figura 2 - Il golem e il rabbino Jehuda Löw in un disegno di Mikoláš

Aleš (1899)

Un esempio di questo parallelismo lo possiamo trovare nella leggenda del Go-lem. Nella Bibbia è scritto come Dio crea l’uomo dal fango e questo dato è stato poi elaborato nel corso dei secoli dalla qabbala ebraica, fino a giungere a pensare di poter creare la vita dal fango. La leggenda nella sua essenza racconta di come un rabbino tramite delle formule magiche riesca ad a-nimare una statua di fango, il Golem, lette-ralmente materia informe o massa amorfa, che può essere considerato uno stato in-termedio fra la materia e la vita, vita che so-lo il soffio di Dio può dare. La leggenda è molto diffusa nel medioevo, forse in paral-

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lelo con l’homunculus alchemico, altro confronto possibile, e ne esistono varie ver-sioni che il tempo non ha a fatto che au-mentare. Le più note hanno protagonista Judah Lowe ben Bezael, realmente esistito, rabbino in Praga, città magica per eccellen-za.

Fra le tante, due sono le più diffuse ed interessanti. In una di queste il rabbino crea un Golem gigantesco per usarlo come aiutante nei lavori dei campi e lo anima in-serendogli nel petto una stella di Davide con i nomi segreti di Dio. Per evitare che il Golem lavori di sabato, giorno sacro dedi-cato al riposo per gli ebrei, si preoccupa di rimuovergli la stella magica dal petto ogni venerdì sera ritrasformandolo in una sem-plice statua d’argilla. Un venerdì sera, di-stratto da altri impegni il rabbino dimentica di togliere la stella, quando si accorse del fatto rincorse il gigante che nel frattempo si era messo in giro per le strade del ghetto e trovatolo gli strappò la stella dal petto fa-cendolo cadere in mille pezzi.

Come si nota dal racconto c’è sem-pre la paura di violare i limiti imposti da Dio, in questo caso di violare il riposo del sabato. Più interessante è un’altra versione in cui il rabbino Lowe crea il Golem per difendere gli ebrei del ghetto dai pogrom. Nel racconto, il rabbino si fa ricevere dall’imperatore e dà dimostrazione dei suoi poteri ed infine dimostra la forza della sua creatura che sorregge il palazzo che stava crollando salvando l’imperatore e la sua corte. Da quel momento il rabbino non riesce più a controllare il Golem che inco-mincia a girovagare per le strade del ghetto di Praga travolgendo con la sua mole ciò che incontrava fintanto che un bambino per nulla spaventato dall’essere si lascia av-vicinare dal gigante e attratto dal luccichio

della stella magica la strappa determinan-done la distruzione.

Anche questa versione presenta quella paura di creare qualcosa che violi l’ordine del creato e che infine si riveli dannosa per l’uomo stesso, quasi a volerlo punire dell’arroganza di voler essere come Dio.

Le leggende del Golem sembrano svolgersi in parallelo alla storia di Fran-kstein: in tutti e due casi c’è un personaggio che sfida le leggi di Dio per creare la vita e poi la sua creazione gli sfugge dal controllo causando disastri.

Conclusioni

Se riprendiamo le teorie di Kuhn sui paradigmi culturali dominanti dobbia-mo ricordare che nel lontano passato l’uomo come elemento costruttivo usava il fango per la casa e l’argilla per costruire va-si e questo spiegherebbe, sempre secondo Kuhn, perché Dio nella Bibbia così come in altre cosmologie antiche, crea l’uomo dal fango e non in altro modo. Nell’ottocento il paradigma dominante era l’elettricità ma le paure dell’uomo sono ri-maste le stesse nel corso dei secoli. Per completare si potrebbero citare i tanti libri di fantascienza, fumetti e i cartoni animati dove dei robot costruiti dall’uomo prendo-no vita e si ribellano al loro creatore. Ri-cordo solo un cartone animato di circa trent’anni fa che anche visivamente ricorda la storia di Frankenstein: Kyashan. In que-sto cartone c’è uno scienziato che si occupa di robotica che “casualmente” vive in un castello e costruisce dei robot che in una notte di tempesta vengono colpiti da fulmi-ni, prendono vita decidendo di ribellarsi al proprio creatore e di conquistare il mondo. La scena come potete immaginare è molto

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simile a quelle viste nei tanti film su Fran-kenstein.

Una curiosità riguarda la presunta discendenza dal rabbino Lowe degli scien-ziati von Neumann, inventore dell’architettura degli attuali computer, di Norbert Wiener, inventore della ciberneti-ca e di Marvin Minsky uno dei padri dell’intelligenza artificiale.

Qualcuno potrebbe trovare irri-guardoso questo parallelo fra scienza e ma-gia, ma se si pensa al passato non si può non pensare che nella loro diversità i loro ruoli sociali possano essere considerati si-mili.

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Il Colosseo: una lunga scia di

sangue

di Camilla Nicoletta Travaglini

Figura 3 - Provenienza:

https://it.wikipedia.org/wiki/Colosseo#/media/File:Colosseum_in

_Rome-April_2007-1-_copie_2B.jpg

Roma era, una volta, Caput Mundi e veniva chiamata semplicemente l’Urbe. Oggi, di questa sua onnipotenza, rimango-no tracce indelebili in monumenti che rap-presentano la gloria e la magnificenza di tempi, ormai, andati.

Il monumento che più si identifica con Roma è il Colosseo, luogo tragico, il cui suolo gronda sangue innocente, con es-so si identificano anche: le persecuzioni cristiane, i giochi gladiatori che rappresen-tano l’essenza stessa della grandezza di Roma antica.

La costruzione del Colosseo

Nel 72 d.C. l’Imperatore Flavio Ve-spasiano decise di regalare all’Urbe un anfi-teatro in muratura di immense proporzio-ni, per ospitare i combattimenti di gladiato-ri e le “Venationes”, una sorta di caccia agli animali feroci.

Quest’ arena a pianta ellittica, era al-ta oltre 50 metri e fu costruita, in parte, sul laghetto prosciugato della Domus Aurea di Nerone, si situa, parzialmente, in una valle tra i colli dell’Esquilino, del Palatino e del Celio. Esso fu progettato, probabilmente da Rabirio o Gaudenzio, due architetti molto famosi all’epoca.

L’Amphiteatrum Novum o Anfitea-tro Flavio, prese, solo, verso l’VIII secolo il nome di Colosseo dal vicino simulacro di Nerone, chiamato appunto Colosso per le sua gigantesca mole.

Se Vespasiano aveva posto la prima pietra per la costruzione di questa ma-stodontica arena, non fu in grado di vederla ultimata, poiché morì prima della sua co-struzione, che fu terminata da sui figli Tito e poi Domiziano che la completò con l’ultima gradinata.

Essa fu inaugurata nell’80 d.C. con feste che durarono 100 giorni nei quali fu-rono uccise 5000 belve. Durante queste fe-stività vi fu anche una naumachia, cioè bat-taglie navali simulate, giochi di gladiatori, Venationes etc.

La struttura

Il Colosseo fu costruito in traverti-no, mattoni e tufo su quattro piani sovrap-posti. Il primo era alto più di 10 metri ed era composto da arcate in semicolonne tu-scaniche; il secondo era alto quasi 12 metri con colonne ioniche; il terzo era altro quanto il secondo con colonne corinzie; ed il quarto, infine, fu costruito in muratura piena, con un sistema di pali che doveva reggere il “Velarium”, un grosso telone, che serviva a proteggere gli spettatori dalla pioggia o dal caldo eccessivo.

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Nelle gallerie non era raro incontra-re personaggi originali come:venditori di ceci, di bevande calde, di ricordi oppure persone che affittavano cuscini per gli spet-tacoli notturni. Affacciandosi ai piani alti, invece, si poteva godere di uno spettacolo meraviglioso: una veduta della città eterna!

Il pianterreno era composto di 80 arcate che permettevano l’accesso ai diversi settori della cavea e ogni arcata era nume-rata, così da facilitare l’entrata nel settore assegnato.

Esistevano diverse categorie di posti e queste si dividevano in base all’appartenenza sociale, quindi, i posti più vicini all’arena erano occupati dai senatori, più in alto si posizionavano i membri dell’ordine equestre ed infine le donne, che rappresentavano la categoria più bi-strattata.

Tra le varie porte di accesso ne ri-cordiamo due in particolare, la “Trimpha-lis”, dalla quale entrava il corteo, che faceva la passerella, prima di iniziare lo spettaco-lo; dalla parte opposto, invece, vi era la porta chiamata “Libitina”, dal nome della dea Libitina, divinità femminile legata ai riti funebri; tale porta era adibita allo sgom-bero dei cadaveri. Due schiavi vestiti da Caronte, infatti, si occupavano di togliere i morti dalle sabbie del Colosseo, una volta accertata la loro dipartita.

Il celebre anfiteatro poteva contene-re ben settantamila spettatori, e ciò ne face-va il più grande teatro del mondo antico, e forse, anche di quello moderno.

Le scenografie

I vari impresari, per rendere più fa-stosi i giochi e per ingraziarsi i vari impera-tori, montavano a tempo di record, incre-

dibili scenografie, che rendevano i combat-timenti più suggestivi, i quali duravano dall’alba al tramonto, cosicché, era ne-cessario illuminare, l’arena, con migliaia di fiaccole.

L’Imperatore Claudio, per esempio, inventò le sanguinose “Spartule” che consi-stevano in una mischia furibonda di centi-naia di gladiatori che si combattevano l’un l’altro. Mentre si consumava questa gara, che si compiva nel più breve tempo possi-bile, nei inestricabili labirinti dei sotterra-nei, simili a terribili gironi infernali, nei quali le urla, i ruggiti e l’odore del sangue, galvanizzavano i gladiatori e le belve feroci. Essi aspettavano impazienti di poter emer-gere, da quella bolgia spaventosa, alla luce del sole, attraverso un complicato sistema di piani inclinati e montacarichi, per poter affrontare il loro triste destino al grido di “Cesare Morituri Te Salutan”.

Traiano festeggiò la sua vittoria sui Daci con 123 giorni di giochi gladiatori ove migliaia di animali e gladiatori si massacra-rono a vicenda.

Il lento declino

Questi giochi così cruenti non pote-vano durare a lungo, dato che, il cristiane-simo non poteva tollerare questo genere di carneficine. Così Costantino nel 313 d. C. vietò questi combattimenti, proclamando come religione ufficiale il Cristianesimo.

Nel diciassettesimo secolo iniziò una vera e propria opera di spogliazione nei confronti di questo monumento da par-te di Papi ed artisti, che lo depredarono selvaggiamente.

Nel corso dei secoli l’anfiteatro non fu solo deturpato dagli uomini ma anche dalla natura stessa, che con una serie di ter-

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remoti, ne accelerò il suo declino. Questo prelievo di materiale dal Colosseo finì solo nel ‘700 quando papa Benedetto XV lo di-chiarò luogo sacro per il sangue versato dai martiri cristiani.

I giochi gladiatori

Parlando del Colosseo non si pos-sono ignorare le attività svoltesi qui, in pri-mis i giochi dei gladiatori.

I giochi gladiatori o “ Magnus Publi-cum Gladiatorum” , prendono origine dal antico rito dei sacrifici umani. Fu introdot-to nell’Urbe nel 264 a.C., quando Decimo Giunio Bruto li organizzò in onore dei fu-nerali del padre e da allora Roma non ne fece più a meno.

Chi erano e cosa facevano?

Esistevano diverse categorie ed ogni una aveva una sua peculiarità. Il trace, ad esempio, si proteggeva con un casco a vi-siera, con i gambali e un piccolo scudo ro-tondo; la sua arma era un pugnale corto e curvo. Il sannita aveva un casco con la vi-siera ma un solo gambale sulla sinistra, a-veva un grande scudo e una spada. Il mir-millone aveva un pesce raffigurato sulla ca-sco e aveva una spada, un giavellotto e uno scudo. Il reziario possedeva solo una rete e un tridente per infilzare l’avversario. Poi vi erano quelli che combattevano a cavallo o quelli che avevano arco e frecce.

Essi venivano reclutati fra gli schiavi, prigionieri di guerra, semplici ladri, assassi-ni o criminali in genere.

Molti giochi erano in realtà veri e proprie pubbliche esecuzioni capitali e, in base alla pena, ai criminali gli si dava più o meno la possibilità di sopravvivere. I cri-stiani, ad esempio, erano condannati “Ad

Bestias” venivano trascinati nell’arena con le mani legate e vestiti solo di una tunica bianca e quindi buttati in pasto alle bestie feroci.

Gli spettacoli iniziavano dalla matti-na presto con le Ventaiones, ed alcune di queste erano solo presentazioni di animali esotici ammaestrati.

Verso mezzogiorno i gladiatores meridiani combattevano contro avversari disarmati ed inermi. Molto apprezzato dal pubblico erano le rappresentazioni di sce-ne mitologiche che finivano con la morte del protagonista.

Il pomeriggio iniziavano i veri e propri giochi e i gladiatori venivano con-dotti dalla loro caserma, Ludus Magnus, al Colosseo con dei carri con il quale faceva-no la passerella all’interno dell’arena e da qui le loro sorti erano appese al filo delle Parche, che decidevano i loro destini.

La profezia

Vi sono molto leggende legate a questo luogo e addirittura vi è un vaticinio che profetizza che Roma esisterà finché il Colosseo sarà in piedi e quando questo ca-drà Roma e il mondo intero cesseranno di esistere.

La porta degli inferi

Alcune leggende medioevali affer-mano che esso sia un varco per accedere all’inferno, ove gli spiriti dei morti in que-sto luogo che trasuda dolore, male, ango-scia, sofferenza e sangue, vaghino all’imbrunire cercando pace eterna che non trovano mai.

Un’altra leggenda recita che molte piante esotiche che si troverebbero da quel-

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le parti siano giunte sotto i sandali degli schiavi di tutto il mondo o portati dalle zampe degli animali immolati sull’ara del piacere sadico di efferati imperatori.

Cupe apparizioni

Durante il 1900, il Colosseo, ha su-bito diversi lavori di restauro e Spartaco era uno dei tanti anonimi manovali che lavora-vano qui.

Un tardo pomeriggio di fine Otto-bre Spartaco, finito il suo turno di lavoro, mise, come al solito, al loro posto gli at-trezzi da lavoro; quel pomeriggio, era rima-sto solo all’interno del Colosseo, perché si era attardato un po’ di più degli altri suoi colleghi. Dopo aver finito di mettere a po-sto tutto, l’uomo si sedette per terra sotto uno dei tanti archi del celebre monumento, con la schiena appoggiata al muro e preso una sigaretta se la accese ed iniziò a fuma-re.

Le prime ombre della sera si allun-gavano sull’anfiteatro, ma egli non si pre-occupava, perché quella sera aveva voglia di rimanere solo con i suoi tristi pensieri, all’improvviso una folata di vento freddo, gelido, lo fece rabbrividire.

Finì di fumare, buttò la sigaretta e cercò di alzarsi, ma una forza invisibile lo inchiodò al suolo, come se delle mani geli-de ed incorporee lo trattenessero per le spalle, l’uomo rabbrividì di nuovo ma que-sta volta di paura. Cercò di capire cosa stesse succedendo, ma intorno vi era solo il buio della notte. Cercò di divincolarsi di nuovo, ma fu tutto inutile, perché questa forza gli impediva di fare qualsiasi movi-mento. All’improvviso una luce bianca e fredda squarciò la notte illuminando il Co-losseo come se fosse giorno; i suoi occhi, dilatati dal terrore, si guardavano intorno

ma non vedevano niente, improvvisamente si fece di nuovo buio e la notte fu squarcia-ta da urla, grida e un vociare di migliaia di persone invisibili, cavalli che correvano all’impazzata e che sembravano volessero travolgerlo. Un rumore metallico di catene si sovrappose a quelli di sottofondo, spade che si incrociavano e di nuovo urla, grida di dolore e poi… una tetra cappa mortale si impossessò di tutto e Spartaco, dopo un at-timo lungo come un’eternità, riuscì ad al-zarsi e di questa brutta storia non ne parlò mai.

Questa è una delle tante leggende che aleggiano intorno a questo monumento che è stato croce e delizia dei nostri avi.

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La famiglia di Sangro di Nicoletta Travaglini

Il fiume Sangro, il secondo in Abruz-zo, è lungo 117 chilometri , il suo bacino è largo 1.380 chilometri quadrati. Nasce dai monti della Marsica a sud-est della conca del Fucino. Attraversa il Parco Nazionale d’Abruzzo, forma il lago artificiale di Bar-rea e quello del Sangro nei pressi di Villa Santa Maria, la patria dei cuochi. Esso sfo-cia nell’Adriatico tra Fossacesia Marina e Torino di Sangro.

La storia

Intorno ai secoli VII e IX dopo Cri-sto i Turchi e Saraceni, risalendo il corso del fiume, distrussero la leggendaria città di Amniternum. Le genti che sfuggirono alla conquista fondarono i paesi che si affaccia-no sul corso del fiume tra cui Roccascale-gna.

Durante la seconda guerra mondia-le, il fiume, è stato teatro di cruenti scontri, specialmente nel novembre 1944 quando, alla vigilia della fine di questa guerra, vi fu-rono aspri e sanguinosi scontri tra le forze inglesi e quelle tedesche, poiché le alture della riva sinistra facevano parte della linea Gustav.

L’origine del nome

Il fiume Sangro deve il suo nome, probabilmente, ad un’alga rossa presente su tratti di roccia su cui essa scorre: di qui, l’associazione con la parola “sangue”, “Sangros”, “sanguineo”, “sacro”. Il Sangro, infatti, è considerato quasi un fiume so-prannaturale ed è venerato come tale.

Intorno ad esso sono nate molte leggende e la più famosa è quella secondo cui le sue acque diventano rosse e ribollo-no come se fossero sangue.

Questo fenomeno impressionante, documentato da molti testimoni oculari, è visibile tre volte l’anno. Per acquietare la sua ira, il dio del fiume pretende un tributo di tre vittime per ogni volta che si verifica questo strano evento.

Negli anni ’20 due donne si appre-stavano ad attraversare il fiume, quando vi-dero che le sue acque erano diventate mi-nacciose e si erano tinte di rosso. Allora spaventate tornarono a riva sperando che il fiume si placasse di lì a poco, non fu così. Dopo alcune ore, infatti, esse furono co-strette a rinunciare al guado del fiume.

La maledizione

Questo macabro fenomeno è dovu-to, secondo leggende popolari, ad una del-le tante maledizioni che aleggiano sul fiu-me.

Al tempo dei tempi un uomo, forse un mago, cadde nelle acque gelide del fiu-me e prima di annegare lo maledisse. Ap-pena pronunziata la maledizione, le acque diventarono rosso sangue ed iniziarono a ribollire come se scaturissero da una ferita aperta.

Si dice che molti incidenti, successi sulla strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro, siano dovuti proprio a questa strana maledizione, perché alcuni di questi accadono proprio sul fiume o nelle sue vi-cinanze.

Il mostro del lago

Come abbiamo detto, dallo sbarra-mento del fiume Sangro nasce il lago del

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Sangro che, bagnando anche il territorio di Bomba da vita al bacino artificiale omoni-mo.

Figura 4 - Lago di Bomba; provenienza:

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Veduta_panoramica_di

_Pietraferrazzana.jpg

Si sussurra che questo lago sia infe-stato da uno strano mostro marino. Esso è un enorme rettile che spaventa chi attraver-sa il lago.

Questo mostro marino potrebbe es-sere il guardiano che veglia il sonno eterno di quelle case sommerse dal lago artificiale intorno agli anni ‘50, i cui tetti sono visibili solo quando il livello del lago è basso.

Non è raro, infatti, vedere anche i fi-lari di alcune vigne, di alberi o campi sommersi, ove pare che si possa scorgere, oltretutto, anche la nera sagoma dell’enorme serpente, che si aggira silen-zioso per questi luoghi spettrali.

Don Raimondo di Sangro, duca di Torremaggiore, principe di Sansevero nac-que a Foggia nel 1710. Egli fu uno dei maggiori scienziati che il mondo invidiò al Regno di Napoli, poiché con le sue scoper-te scientifiche, che si collocano a cavallo di alchimia, stregoneria ed esperimenti tecno-logici, fece importanti scoperte e sperimen-tazione che a tutt’oggi risultano oscuri.

Don Raimondo fu un nobile rampol-lo della antica e prestigiosa famiglia dei di Sangro discendenti di Carlo Magno, che

annoverano nella loro albero genealogico anche Papi e Santi.

Questa potente ed antichissima casa-ta, come abbiamo detto, discende dai du-chi di Borgogna che a loro volta erano di stirpe carolingia, longobarda e, naturalmen-te, normanna.

Questi nobili, ovviante, furono legati da vincoli strettissi alla Chiesa e in special modo al potente, ricco e stimato ordine Benedettino.

Nel IX secolo essi, vennero in Italia e si stabilirono maggiormente negli Abruzzi, ove riuscirono a conquistare e, quindi, a governare diversi feudi e contee, prenden-do il titolo di “Conti dei Marsi”.

All’inizio del 1500 essi ottennero il ti-tolo di marchesi, alla fine dello stesso seco-lo divennero Duchi e pochi anni dopo questo titolo acquisirono, anche, quello di Principi, governando, il loro vastissimo im-pero in maniera tirannica, dispotica e vio-lenta!

Nel loro albero genealogico, vi sono presenti anche figure di spicco come Ode-risio, San Bernardo di Chiaravalle fondato-re dei Templari, Santa Rosalia, Innocenzo III, Gregorio III, ideatore e iniziatore della Santa Inquisizione, Paolo IV Carafa, che contrastò in tutte le maniere l’Ufficio della Santa Inquisizione, Benedetto XIII e natu-ralmente Raimondo.

Don Raimondo De Sangro fu,come si è detto, un grande studioso e massone, che denunciato come stregone e cospira-tore, fu costretto a fornire al Papa un elen-co di nobili e non appartenenti alla società segreta!

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La famiglia dei De Sangro fu costretta a bruciare tutto e nascondere il “lavoro” di Don Raimondo, che in quel periodo stava sperimentando con lo scultore Sammarti-no, la tecnica divenuta famosa con “Il Cri-sto Velato” della Cappella di San Severo. Questa chiesa, costruita su un tempio dedi-cato alla dea Iside è fortemente simbolica. In questo luogo, edificato nel cuore di Na-poli, vi sono tre sculture “velate” cioè: “La Pudicizia”, il “Cristo Morto”, il “Disingan-no”; la più famosa è la statua del “Cristo Morto”, che scolpita dal Sammartino su bozza del Corradini, è molto inquietante, poiché pare che la tecnica usata dal princi-pe e dai suoi artisti sia basata su un velo di stoffa “trasformato”, attraverso procedi-menti chimici, in marmo!

Sembra che le statue siano, in realtà, cadaveri che sottoposti a particolari espe-rimenti, oggi ancora sconosciuti, abbiano dato questo risultato; in altre parole il nobi-le trasformò la materia organica in inorga-nica.

Don Raimondo morì nel 1771 e fu considerato più uno stregone ed alchimista che un serio studioso; per questo motivo molti esperimenti condotti con grande ri-gore scientifico sono stati eliminati dai suoi stessi famigliari, che hanno occultato quel poco materiale che si è salvato dalla distru-zione che ne seguì al suo presunto sospetto di pratica magica.

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Santo Spirito a Majella, eremo

celestiniano di Nicoletta Camilla Travaglini

Tra i tanti luoghi di culto che pun-teggiano la grande madre Majella, uno dei più suggestivi, senza dubbio, è quello di Santo Spirito a Majella, in Abruzzo.

Pietro Angelieri, prima di diventare Papa Celestino V, nel 1230 dimorò presso un abbazia di Benevento e dopo pochi an-ni partì alla volta di Roma per incontrare il Papa, per prendere i voti. Il viaggio fu lun-go e disseminato da vari episodio di romi-taggio ed estasi. Dopo l’incontro con il Pontefice, Pietro, iniziò una vita da anaco-reta, andando ad abitare in un antro dove secoli prima aveva dimorato Papa Vittore III.

In questo lungo periodo di tempo egli insieme ai suoi discepoli, riparò un an-tico altare nei pressi di quella che poi sa-rebbe stata la chiesa di Santo Spirito a Ma-jella, che è stata completamente scolpito nella roccia.

Un antica leggenda legata alla fon-dazione di questo meraviglioso luogo, rac-conta che il 29 Agosto, data emblematica per il futuro Papa che volle essere incoro-nato proprio nel giorno in cui la chiesa ri-corda la decapitazione del Battista, Pietro guardando fuori dalla finestra, vide nel cie-lo riempirsi di: angeli, arcangeli, e altre fi-gure ultraterrene come il Re Davide e San Giovanni Evangelista che stava officiando una funzione religiosa, mentre la Madon-na, con Gesù ed il Battista assistevano alla funzione che fu benedetta da Dio.

All’improvviso l’aria si riempì di una musica divina, mentre le campane,

come per incanto, cominciarono a suonare come per annunciare il prodigioso evento dell’avvenuta costruzione della Casa Ma-dre, cioè di Santo Spirito a Majella.

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L’insorgenza del Circeo 1798-

1799 di Vito Foschi

Fra i vari eventi spesso trascurati a scuola o comunque trattati in maniera su-perficiale, vittime di una visione della storia come evoluzione lineare verso la moderni-tà, c’è quello delle cosiddette insorgenze antifrancesi. Con il termine "insorgenza" si vuole descrivere quei fenomeni spontanei di ribellione alle autorità contrapponendosi a quello di rivolta che presuppone un’organizzazione e un intento politico.

Con la rivoluzione francese si apre in maniera violenta una nuova pagina della storia che porterà alla modernità. Con il prevalere nei rivoluzionari delle istanze gia-cobine, prevalse l’idea di voler cambiare il mondo in maniera repentina e per far que-sto non risparmiarono l’uso della violenza. I rivoluzionari attaccavano i simboli di ciò che consideravano antico e frutto di super-stizione, cercando di distruggere le tradi-zioni religiose suscitando chiare antipatie da parte del popolo. Basti pensare all’idea, se si riflette, piuttosto ridicola, di cambiare il calendario o l’innalzamento degli alberi della libertà che in qualche modo venivano a sostituire il crocefisso e ad istituire una sorta di religione civile in cui la fede non è più rivolta a Dio, ma allo Stato. Tra l’altro, le cerimonie legate al’albero della libertà non potevano non richiamare agli occhi di tanti uomini di chiesa usanze pagane morte da secoli.

L’estremismo di alcune correnti ri-voluzionarie e la naturale ostilità dei re-gnanti europei portarono la Francia rivolu-zionaria ad impegnarsi in guerre su più fronti tra cui l’Italia. Qui si vedrà in azione

un giovane Napoleone che avrà modo di distinguersi e iniziare la sua folgorante a-scesa. Nei territori occupati venivano create delle repubbliche satelliti di quella francese e ad essa assoggettata. Le novelle repubbli-che ricalcavano la costituzione e gli assetti istituzionali francesi, costituendo spesso un esperimento avulso dal contesto socio-economico dove veniva tentato. Come in Francia, anche nei rivoluzionari italiani prevalse l’idea di forzare la mano e di fare tabula rasa delle vecchie istituzioni, per po-ter imporre la loro visione al resto della popolazione causando ovvie reazioni di ri-getto.

Fra le varie insorgenze che colpiro-no in quegli anni di dominio francese, ci fu quella che coinvolse il Circeo, uno degli ot-to dipartimenti nei quali fu divisa la Re-pubblica Romana, venuta a sostituire lo Stato Pontificio dopo l’invasione francese. Ogni dipartimento era a sua volta diviso in cantoni, che come abitudine degli innova-tori non teneva in nessun conto le vecchie suddivisioni territoriali-amministrative. So-lo le città con più di 10.000 abitanti man-tennero la loro municipalità e nel Circeo non esistendo cittadine così grandi, non fu conservato nessun comune.

Come in Vandea gli spunti per in-sorgere furono gli stessi: l’attacco alla reli-gione, la leva obbligatoria, la cancellazione di antichi diritti e un prelievo di risorse ai limiti della sopravvivenza tramite tassazione e requisizioni.

Lo scopo dell’occupazioni militari francesi, infatti, era recuperare risorse per salvare dalla bancarotta la neonata Repub-blica francese. Come era solito per gli eser-citi dell’epoca, il sostentamento delle trup-pe avveniva tramite requisizioni sul territo-rio occupato o di passaggio. Le truppe

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francesi oltre a provvedere al proprio so-stentamento, dovevano provvedersi di ulte-riori risorse da inviare in Francia per soste-nere le guerre della Repubblica. Questo imponeva un’esosità dei prelievi, che in zone povere come il Circeo comportava portare sulla soglia della sopravvivenza la popolazione.

Fu istituita una tassa sugli immobili che colpiva con una percentuale maggiore i beni della chiesa e venivano effettuati con-tinui prelievi di cibo per le truppe e di fo-raggio per gli animali. Si procedette anche a requisizioni dei beni ecclesiastici compre-si gli arredi sacri. Durante il saccheggio di Amàndola, in seguito all’insorgenza in Umbria, le truppe francesi arrivarono a spogliare il corpo incorrotto del beato An-tonio Migliorati. Ulteriore aggravio per le esangui casse della Repubblica Romana fu il prestito di due milioni di scudi imposto dagli occupanti francesi, somma ripartita per dipartimento, così che ogni ammini-strazione locale ne doveva 250.000. Altro notevole disagio per la popolazione fu la gestione della moneta, che i francesi sem-pre alla ricerca di fondi, attuarono con de-cisioni arbitrarie, a volte contrastanti, di emissione di nuova cartamoneta e svaluta-zioni, che causarono un rincaro dei prezzi. Una situazione insostenibile per una popo-lazione.

Alle privazioni materiali, bisogna ag-giungere la coscrizione obbligatoria, che quando la risorsa principale erano le brac-cia degli uomini comportava un’ulteriore danno economico per le famiglie. In ag-giunta a tutto ciò, si attuava un attacco cul-turale tendente a fare piazza pulita di tradi-zioni e antiche istituzioni per far sì che l’individuo fosse solo di fronte alla stato. Quelli che potevano essere residui di dirit-to medievale, come per esempio le confra-

ternite, erano occasioni di solidarietà fra i membri e fornivano una serie di servizi che adesso chiameremmo di welfare state ed infine avevano anche un patrimonio non indifferente frutto di donazioni accumula-tesi nei secoli. I cittadini della Repubblica Romana, come tutti quelli che soggiaceva-no all’occupazione francese, si trovarono spogliati dei loro beni e dei loro riferimenti sociali e culturali, così che l’individuo isola-to poteva essere riplasmato dai rivoluziona-ri per fargli apprezzare i frutti del progres-so. Fu proibita persino l’esposizione delle immagini sacre che vennero sostituite con i simboli repubblicani. L’attacco alle tradi-zioni religiose oltre ad essere in ogni caso intollerabile, è in qualche modo assurdo per chi parlava di tolleranza e fratellanza.

Fra i vari "progressi" imposti alla po-polazione ci fu la proibizione delle ceri-monie religiose in pubblico inclusi i funera-li. Si può immaginare come un simile provvedimento possa essere stato odioso, abolendo processioni e feste religiose che duravano da secoli; la stessa proibizione dei funerali, che al contrario di oggi che sono un fenomeno privato, rivestivano un ruolo sociale, creava malumori piuttosto forti in popolazioni già offese da angherie materiali.

Oltre a ciò, che agli occhi di noi moderni, meno abituati all’idea di una reli-gione più partecipata può sembrare tolle-rabile, c’è un risvolto pratico sostanziale: come già detto, molte istituzioni religiose erogavano tutti una serie di servizi che d’un tratto sparivano.

Perfino alcuni amministratori re-pubblicani periferici ebbero da lamentarsi del governo della Repubblica Romana, rammentando che la vecchia amministra-zione pontifica in casi di emergenze veniva

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in soccorso delle popolazioni indigenti e non le opprimeva sempre più con continue richieste di contribuzioni. Queste lamente-le di chi, comunque militava dalla stessa parte, può far intuire ciò che subì la popo-lazione sotto le truppe francesi. Non di-mentichiamo, che nella stessa Francia per il dipartimento della Vandea, che insorse contro la Repubblica, si parla di vero e proprio genocidio con uccisioni di massa ed episodi raccapriccianti che sembrano presagire gli orrori novecenteschi.

Particolare curioso, che non aggiun-ge nulla allo svolgimento dei fatti, ma che dà un’idea del clima dell’epoca, sono le ri-sposte del governo alle lamentele degli in-caricati periferici. Innanzitutto, a chi si op-poneva ai provvedimenti emanati o levava protesta, spesso si rispondeva con la rimo-zione dall’incarico o minacciando sanzioni. Poi quello che colpisce, sono le risposte, che oltre alla scontata promessa di risolvere il problema a cui non seguiva nessun atto concreto, ricordavano che quello era il tempo della felicità e della ragione. La gen-te doveva essere felice perché era giunta la libertà e la soppressione delle antiche u-sanze. Un furore ideologico che mistificava la realtà o che non voleva vederla, come se la felicità si potesse imporre con un decreto o potesse cambiare la sostanza delle cose per popolazioni nell’indigenza, se le tasse fossero riscosse da un emissario pontificio o da un illuminato giacobino.

In qualche modo è singolare come vengono raccontati simili episodi nei ma-nuali scolastici. Sono sempre i contadini ignoranti che non capiscono le idee pro-gressiste dei giacobini, quando aldilà della guerra culturale, le popolazioni subirono requisizioni che ne minarono la sopravvi-venza.

Fra le varie novità ci fu anche l’abolizione delle vicinie, considerate un residuo del diritto medievale. Le vicinie sono proprietà appartenenti ad una comu-nità o ad un insieme di famiglie, una forma di proprietà a metà fra privato e pubblico il cui uso è regolato da consuetudini e a volte da una assemblea. Per esempio, era possi-bile su queste terre "comuni" avere il diritto di fare legna, costituendo una fonte di red-dito per chi non aveva null’altro se non l’appartenenza alla comunità. Altro esem-pio sono i terreni per il pascolo, che veni-vano usati dai membri della comunità se-condo consuetudini. La soppressione di quei diritti legati alla proprietà risalenti al medioevo, insieme alla nascita dello stato moderno avranno come conseguenza che:

"… il diritto di proprietà sarà sempre più svuotato di ogni capacità di creare co-munità […] perdendo la propria capacità di fare società e favorire le relazioni"5.

Quelle che spesso vengono presen-tate come innovazioni, come progresso, come eliminazione di residui medievali o di privilegi ingiustificati, di fatto, finivano per colpire i ceti meno abbienti a cui veni-vano sottratte risorse per il sostentamento, che poi venivano incamerate dallo stato e alienate non sempre in modo chiaro, la-sciando le popolazioni nella miseria più as-soluta. In aggravio alla sottrazione di risor-se, si lasciava l’individuo in balia del potere politico non potendo più trovare rifugio in istituzioni diverse dallo stato. Fra l’individuo e lo stato non esisteva più nulla e l’individuo diveniva vittima di un potere a cui non poteva più sottrarsi, al contrario dell’ordinamento policentrico medievale

5

Carlo Lottieri, Credere nello stato?, Rubbet-

tino, Soveria Mannelli, 2011

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dove coesistevano più autorità, a volte an-che in conflitto fra di loro, ma che permet-tevano all’individuo di non essere soggetto a un potere impersonale e onnicomprensi-vo.

Prima che scoppiassero i disordini nel Circeo, la Repubblica era stata scossa da altre violenze, sia nella capitale dove al-cuni quartieri di Roma si erano sollevati nel febbraio del 1798, sia in Umbria dove si nota un capo insorgenza donna, Anna Al-legri.

L’insorgenza nel dipartimento del Circeo nacque con una serie di rivolte spontanee, che quasi come un rituale pre-vedevano l’abbattimento dell’albero della libertà a cui seguivano sovente processioni di espiazione. La rivolta inizia a metà luglio con il primo episodio del 16 luglio a Frosi-none, poi il 25 ad Alatri per proseguire il 26 a Ferentino, il 27 a Veroli e Trisolti e così via per tutto il dipartimento. A Pratica, gli insorgenti si eressero a difesa del con-vento dei passionisti di Santa Maria di Co-miano minacciato dai locali giacobini, no-nostante che qualcuno di questi ultimi fos-se stato salvato da morte sicura proprio dai frati.

Dopo una prima fase di spontanei-smo, l’insorgenza del Circeo cercò di evol-vere in una forma organizzata per quanto era possibile. Già il 27 luglio, a pochi giorni dall’inizio delle violenze, si ebbe un primo tentativo di coordinamento quando 800 in-sorgenti di Alatri, si unirono con quelli di Veroli e di Ferentino per cercare di occu-pare Anagni. A guidare gli uomini di Alatri erano quattro cappellani.

Subito dopo i vari gruppi riuscirono ad organizzarsi formando l’Armata Cattoli-ca che aveva una vera e propria gerarchia

militare. Rapporti di parentela e di amicizia permisero che episodi spontanei potessero evolversi in qualcosa di organizzato. Il terri-torio essendo zona di confine con il Regno di Napoli vedeva la presenza di molti napo-letani, per esempio come i braccianti che lavorano nelle campagne del Circeo. Co-storo rifiutavano il pagamento con le "cedo-le" della Repubblica Romana, causando un peggioramento della situazione economica ed alimentare della zona. Tra i vari cittadini napoletani presenti nel dipartimento c’erano anche alcuni ufficiali che andarono ad aiutare gli insorti, dando un sostanzioso contributo in termini organizzativi. Per al-cuni storici fu proprio l’Armata Cattolica a fornire l’esempio per le truppe a "massa" dei sanfedisti, guidate a volte da brigan-ti/patrioti, che furono organizzate poco do-po per affiancare le truppe napoletane nell’opera di riconquista del regno.

In un primo momento i francesi sot-tovalutarono gli avvenimenti del Circeo, pensando che gli insorti si sarebbero di-spersi o comunque non sarebbero riusciti ad organizzarsi unendo i vari gruppi e quindi furono inviati di primo acchito solo 200 soldati polacchi. A fine luglio, fu inve-ce inviato un contingente consistente di 1200 uomini agli ordini del generale An-toine Girardon (1758-1806). Da parte fran-cese si volle vedere nell’insorgenza l’ingerenza dei preti o del Re di Napoli, che sicuramente aveva mostrato interesse per la faccenda, ma senza fare seguire alle parole, i fatti. La stessa presenza di ufficiali napoletani faceva pensare ciò, mentre la lo-ro presenza era contingente in una terra di confine in cui erano frequenti i rapporti di parentela fra cittadini pontifici e borbonici con il caso emblematico di Terracina, già appartenuta al Regno di Napoli, la cui po-

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polazione era in gran parte originaria napo-letana o sposata con napoletani.

I francesi sconfissero gli insorgenti a Ferentino il 29 luglio e poi a Frosinone il 2 agosto. Ad ogni vittoria francese seguiva il saccheggio. Dopo le sconfitte, gli insorgenti si rifugiarono a Terracina, dove il 6 agosto cacciarono via le truppe francesi e organiz-zarono la difesa raccogliendo cibo per resi-stere, allagando i terreni intorno alla città e facendo saltare il ponte principale. In que-sto caso la presenza di ufficiali fu evidente anche dall’innalzamento del vessillo bor-bonico. La città capitolò dopo sei ore di fe-roce combattimento il 9 agosto, a cui seguì il rituale saccheggio da parte delle truppe francesi.

Dopo la sconfitta degli insorti, si mantenne comunque lo stato d’assedio del dipartimento fino ad ottobre e si passò alla repressione, con processi farsa ed esecu-zioni sommarie che avvenivano entro le 24 ore dalla sentenza. Per aumentarne l’effetto deterrente venivano eseguite nei paesi di origine degli arrestati. Bisogna precisare che i francesi avevano introdotto una novità nelle esecuzioni, ovvero la fucilazione ne-gando perfino i conforti religiosi ai malca-pitati. Fino a quel momento nel regno pon-tifico le condanne avvenivano per decapita-zione, impiccagione e "mazzolatura" e ov-viamente con i conforti religiosi assicurati dalla confraternita di San Giovanni Decol-lato.

Anche dopo le esecuzioni somma-rie, il territorio non rimase completamente pacificato e dovette continuare a provvede-re al sostentamento delle truppe che vi soggiornavano. Alla fine di novembre del 1798, il Re di Napoli invase la Repubblica Romana con un ampio successo riuscendo ad occupare la capitale. Ma l’occupazione è

di brevissima durata e già a metà dicembre l’esercito napoletano è in ritirata e inseguito da quello francese che finisce per penetrare nel regno di Napoli. Qui viene istituita l’effimera Repubblica napoletana che dura pochi mesi, mentre il re di Napoli, Ferdi-nando IV, trova rifugio a Palermo. Il Cir-ceo rimane saldamente in mano francese nonostante siano frequenti le violenze di insorti o disertori dell’esercito borbonico.

Quando a maggio del 1799 si paven-ta il ritiro delle truppe francesi dalla Re-pubblica Partenopea, ci fu una ripresa dell’attività degli insorgenti e i generali francesi decisero di presidiare solo strade e centri nevralgici per garantire la via di fuga non impegnandosi nell’attività di repres-sione.

In seguito all’abbandono del napole-tano da parte delle truppe francesi a giu-gno, il Circeo insorge nuovamente, anche se stavolta è qualcosa di più organizzato. I gruppi armati cercano di coordinarsi per poi confluire nelle truppe "a massa" ovvero con i soldati non professionisti che giungo-no dal Regno di Napoli guidati da perso-naggi come Fra’ Diavolo, Giovan Battista Rodio o con le bande come quelle di Gae-tano Mammone, quest’ultimo talmente sanguinario da essere arrestato dallo stesso Rodio. I capi massa potevano essere di ori-gine popolare come Mammone o Fra’ Diavolo e scelti per le capacità mostrate sul campo o provenire dagli strati alti della so-cietà come il Rodio di origini nobiliari. Po-chi mesi dopo, a settembre, i francesi fir-mano un trattato con inglesi e napoletani abbandonando i territori pontefici. Con quell’atto ebbe fine la Repubblica Romana.

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