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Trance empatia cura_le_psicoterapie_come_teorie_della_mente_in_azione

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TRANCE, EMPATIA, CURA: LE PSICOTERAPIE COME TEORIE DELLA MENTE IN AZIONE

Ambrogio Pennati

medico psichiatra psicoterapeuta, Milano

[email protected]

“Esser certi che qualcuno stia soffrendo, aver dei dubbi in proposito, e così via,

sono altrettante modalità naturali, istintive, di rapporto con gli altri essere umani,

e il nostro linguaggio non è altro che un supporto, e un’ulteriore estensione, di

questo comportamento. Il nostro gioco linguistico è l’estensione di un

comportamento primitivo.” L Wittgenstein, Zettel, 1967.

IL RUOLO CHIAVE DELL’EMPATIA

Come è stato dimostrato nei precedenti lavori, l’ipnosi appare come il dispositivo induttore

di stati modificati di coscienza apparso più tardivamente sulla scena evolutiva dell’homo

sapiens. La sua chiave è l’elicitazione di uno stato una sintonizzazione emotiva ed affettiva

(empatia) che struttura il cosiddetto rapport, evento alla base di ogni interazione sociale

terapeuticamente orientata (16, 21, 27, 61, 62). Una volta instaurato il rapport empatico è

possibile, per il cervello umano ( soprattutto per i più predisposti, ma non solo) sviluppare

uno stato di trance (caratterizzato da una ipofrontalità transitoria).

IL GUARITORE INTERNO

Appare evidente, nello spirito evoluzionistico, che l’obiettivo finale del lavoro

psicoterapeutico è l’attivazione dei moduli di guarigione interna. Tali moduli non sono

un’oscura creazione di qualche cultore di esoterismo, ma delle strutture cerebrali ormai in

corso di identificazione: numerosi studi sui correlati funzionali della risposta al placebo

documentano una disattivazione di strutture sottocorticali, un incremento del

funzionamento dopaminergico nelle aree associate ai meccanismi di rinforzo (nucleo

accumbens) (e, viceversa, una riduzione nel caso di effetto nocebo) attraverso forse la

modulazione del release di endorfine. Nello specifico, si assiste spesso ad una

combinazione fra un incremento di attività delle zone dorsali della corteccia ed un

decremento delle strutture limbiche e paralimbiche. Inoltre, è stata rilevata una attivazione

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dei sistemi endorfinergici della corteccia del cingolo anteriore, orbito frontale, ed insulare,

del nucleo accumbens, dell’amigdala, della materia grigia periacqueduttale. Uno di questi

lavori ha dimostrato che la responsività al placebo è predetta dall’attivazione dei sistemi

dopaminergici ed endorfinergici del nucleo accumbens. Tali strutture sembrano attivarsi

anche quando un soggetto valuta un potenziale guadagno od una potenziale perdita di

risorse se mette in atto un determinato comportamento in condizioni di incertezza (5, 6,

40, 44, 52, 54, 60).

Lo studio dei meccanismi alla base della risposta placebo sono solo all’inizio, ma tutte le

ricerche evidenziano l’importanza del setting, delle aspettative, delle suggestioni verbali e

non verbali. Ciò che è evidente è che l’assunzione di placebo è solo un’”inganno” che

permette al soggetto l’attivazione dei moduli di autoguarigione. Qualche autore ha

identificato importanti affinità fra la risposta al placebo e l’ipnosi, tanto da coniare il

termine “hypnobo”, a parere dello scrivente fuorviante perché l’ipnosi, ovviamente, non si

basa – quanto meno consapevolmente - sull’inganno esercitato dal terapeuta che

somministra la pastiglia rosa (24, 30, 35, 50, 59).

Allo studio del fenomeno placebo sarebbe utile associare una valutazione antropologica

dei casi di guarigione spontanea o ottenuta mediante tecniche “alternative”, esperienze

troppo spesso dimenticate da una medicina troppo condizionata da Big Pharma.

RITORNO AL FUTURO?

Con il passaggio allo stato moderno (che comporta la apparente sepoltura della cd mente

bicamerale) viene sempre più delegata ai medici la gestione degli ammalati, ed i medici

operano secondo lo zeigeist, adottando i paradigmi scientifici dominanti (18). Da allora

poco è cambiato; la medicina era (ed è tuttora) in larga misura basata su paradigmi

newtoniani: relazioni causa-effetto lineari, rispetto del principio di non contraddizione,

accettazione del principio di parsimonia nelle spiegazioni scientifiche, e così via. Tutto ciò

va bene con la chirurgia, con la cura delle infezioni, con la grande maggioranza delle

malattie degenerative, ma negli ultimi 20 anni ci si rende sempre più conto che, per

quanto agli albori, il paradigma della complessità, almeno per lo studio delle strutture

viventi, sembra più adatto (9, 11). Certo, come dice Max Planck, i paradigmi cambiano

quando muoiono i professori universitari che li usano; solo allora ne subentrano di nuovi.

Searle ci insegna che Il problema, che al di là delle nostre disquisizioni teoretiche ha anche

importanti implicazioni giuridiche, è che le scienze psicologiche e psichiatriche sono sì

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scienze naturali, ma della soggettività. Secondo Searle (53) esistono scienze sociali (lo

studio dei fenomeni dipendenti dall’uomo) e scienze naturali (lo studio dei fenomeni

indipendenti dall’uomo), ed in queste ultime colloca le scienze psicologiche e psichiatriche.

Queste ultime tuttavia, a differenza della biologia, della fisica, della astronomia e così via

(che sono scienze dell’oggettività) sono scienze della soggettività. Si apre una nuova

prospettiva di studio: partendo da una critica del dualismo cartesiano mente-corpo

(secondo lui tuttora operante) egli dimostra che l’oggetto (mente/cervello, che sono la

stessa cosa) può essere descritto e studiato tramite ontologie in 1° persona (dall’interno,

si osserva la mente, la coscienza) o in 3° persona (dall’esterno, si osserva il cervello e la

sua fisiologia).

L’approccio di Searle per i nostri scopi, pratici, è rivoluzionario sul piano metodologico, in

quanto evidenzia che gli stati interni sono indagabili anche con gli attuali paradigmi di

riferimento, ma occorre fondare gli studi ad essi relativi partendo dalla soggettività. Searle

evidenzia come scientifico possa ( e debba) non corrispondere ad oggettivo: lo studio degli

stati interni è scientifico ma soggettivo, e ci dimostra che tutti stiamo ancora affrontando

lo studio della mente con strumenti linguistici e categoriali che risalgono al tardo 1600

(guarda caso periodo di nascita dello stato moderno).

Perché questa lunga riflessione? Perché, a parere di chi scrive, quando si parla di

psicoterapia si parla di una pratica (per la precisione: una attività) che per sua natura

anela al riconoscimento di uno status di scientificità, e sembra che la competizione fra le

psicoterapie non si basi tanto sulle loro costitutiva capacità di curare nel senso più ampio

del termine, ma piuttosto sul fatto che esse siano più o meno omologabili al modello

medico (scientifico-oggettivo) (51).

A parere dello scrivente non vi è, allo stato attuale, un sufficiente sviluppo dello studio,

secondo le indicazioni di Searle, dei modelli sviluppati dalle psicoterapie, quindi, almeno in

linea teorica, tutte le psicoterapie di per sé stanno in piedi da sole per il semplice fatto di

esistere (e quindi di essere state selezionate nella competizione di mercato), come

recepito dal Royal College of Psychiatrist.

In base alle definizioni più recenti ciò potrebbe bastare, anche se altri approcci (51)

potrebbero sostenere dire che questa non è tuttavia condizione anche sufficiente, e che

occorre quindi che ciascuna psicoterapia sviluppi un suo proprio modello etiopatogenetico

dei disturbi che tratta. Ciò allo scopo di formulare diagnosi e prognosi operative.

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Bisogna però a questo punto chiedersi come venga sviluppata una teoretica

etiopatogenetica: con gli innovativi approcci di Searle o con le vecchie metodologie? Dalla

risposta a questa domanda dipende se la ricerca della condizione di sufficienza viene

soddisfatta coerentemente alla materia di cui si tratta, la soggettività. È evidente che il

cognitivismo ed i comportamentismo hanno risposto al quesito basandosi su dati prodotti

da osservazioni in terza persona (scientifico=oggettivo), e quindi hanno generato una

soluzione non coerente al problema; il discorso relativo alla psicoanalisi è certamente più

fra variegato.

Quindi allo stato attuale non sussiste , se accettiamo le osservazioni di Searle, la necessità

impellente di soggiacere ad una verifica, sia essa empirica o teoretica, validazionista.

Searle ci esime da questo compito.

Nei fatti la stragrande maggioranza degli psicoterapeuti clinici dà ragione a Serale per il

semplice fatto che trascende (il) (nel migliore dei casi) o prescinde ( dal)(nel peggiore)

problema della validazione del proprio modello teoretico, dato che l’integrazione e

l’eclettismo dei vari approcci dominano nella pratica quotidiana di chi ha il compito di

curare.

Ad esempio, vi sono studi che riescono a documentare il grado di empatia che si instaura

fra due o più soggetti, le modalità di funzionamento del cervello mentre la mente compie

decisioni importanti in campo etico, morale, valoriale, sul piano sia individuale che sociale.

In estrema sintesi si può dire che una delle più importanti acquisizioni neuropsicologiche

sia la definizione del concetto di teoria della mente (TOM), intesa come la capacità che gli

umani (e probabilmente non solo loro) hanno di rappresentarsi gli stati mentali del loro

simile. Il rapporto di tale funzione, che coinvolge certamente i lobi frontali anteriori,

rappresenta un vantaggio evolutivo che gli uomini hanno avuto su altre specie, è già stata

discussa nei precedenti lavori. Ci si permette unicamente di ricordare che su di essa si

basa la capacità di strutturare rapport e quindi trance (8, 49).

La validazione neurobiologica, condotta secondo le impostazioni di Searle, certamente

passerà per lo studio della soggettività delle interazioni sociali, fra le quali si colloca

l’evento fattuale dell’esperienza, per il cliente ed il terapeuta, della psicoterapia; e la

bontà dei diversi approcci psicoterapeutici potrà essere valutata finalmente non in base

alla eleganza (che va dalla forbitezza in alcuni, in altri alla ampollosità in altri, al delirio

condiviso in molti) dei costrutti linguistici da esse proposti, ma alla capacità di evocare

stati d’animo utili alla cura e, in taluni casi, al miglioramento sintomatologico o al

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cambiamento personologico (inteso come ampliamento delle capacità di adattamento del

soggetto). Finalmente l’analisi dell’esito terapeutico non potrà più essere scissa da quella

del processo terapeutico. Se tale ipotesi fosse condivisa allora sarebbe utile potenziare i

nostri sforzi non nel produrre nuove metodologie di colloquio o di induzione, quanto

piuttosto nel progettare, insieme ai neuropsicologi ed agli studiosi del funzionamento

cerebrale in vivo, ricerche che valutino gli aspetti soggettivi del rapport terapeutico e le

loro relazioni con l’andamento clinico (56).

UNA VISIONE?

Gli studi sono agli albori, ma certamente, essendo la pratica psicoterapeutica una teoria

della mente in azione, l’analisi funzionale e soggettiva degli stati mentali, da Searle posta

alla base allo studio della mente ( e dell’intenzionalità) non potrà prescindere da procedure

standardizzate di induzione di specifici stati della mente analizzabili attraverso tecniche di

neuroimaging dinamiche che producano dati analizzati con procedure statistiche non

lineari, più adatte allo studio dei sistemi complessi, come sono oggi considerati gli

organismi. Nel caso specifico delle psicoterapie, vi sono dati che evidenziano che i vari

approcci terapeutici (dinamici, cognitivo-comportamentali, interpersonali) hanno in

comune l’attivazione della corteccia anteriore del cingolo, in particolare delle sue

componenti dorsali e rostrali, dato che si ricollega alle osservazioni sui correlati della

trance (4, 12, 46). Si può affermare che i cambiamenti biologici che sopravvengono

durante le psicoterapie, spesso assimilabili allo stato di trance, basati sulle capacità

empatiche e sulle capacità del paziente di narrare, siano condizioni necessarie e sufficienti

a permettere l’attivazione dei moduli interni di guarigione, indipendentemente dal modello

teorico di riferimento. Appare molto probabile che con le tecniche di visualizzazione

cerebrale da poco disponibili si arriverà a delineare uno studio scientifico della soggettività,

le cui applicazioni nell’ambito clinico sono evidenti. Ciò permetterà, fra l’altro, di integrare

non sincreticamente ma operazionalmente nel nostro armamentario terapeutico le

esperienze di guarigione e di cambiamento che molte delle pratiche orientali basate sulla

crescita della consapevolezza generano (2, 23, 34, 37, 38, 39, 55, 63).

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