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ARCHITOUR: SHANGHAI

I CUSTODI DEL BACINO DEL MADRE DE DIOS

LAMALERA, NON PROPRIO INDONESIA

UNA PASSEGGIATA A KOBE. DI HARUKI MURAKAMI

CICLISMO IN MONTAGNA. I CARPAZI IN ROMANIA

PERCHÉ VIAGGIAMO?

BODY RITUAL AMONG THE NACIREMA

IL BELLO DELLE MAPPE

IL PIU GRANDE ESPLORATORE VIVENTE

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CHRISTAL FAIRY AND THE MAGICAL CACTUS

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L’unico vero viaggio verso la

scoperta non consiste nella

ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.

Marcel Proust

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CICLISMO IN MONTAGNA.

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PERCHÉVIAGGIAMO?

Sono le 4.15 di mattina e la mia sveglia mi ha appena portato via un bel sogno. I miei occhi sono aperti ma le mie pupille sono ancora chiuse, tutto quello che vedo è un’oscurità velata. Per un breve istante riesco a convincermi che il mio essere sveglio è un errore, che posso tranquillamente tornare a dormire. Ma poi mi giro e vedo la mia valigia con la cerniera da cui traboccano troppi tubetti di dentifricio. Emetto un grugnito assonnato: devo andare all’aeroporto. Il taxi è in ritardo. Ci dovrebbe essere un aggettivo (un sinonimo di sobrio, ma peg-giorativo) per descrivere lo stato mentale che deriva dall’attesa nel bagliore arancione di un lampione prima di aver bevuto una tazza di caffè. E poi il taxi si perde. E poi mi innervosisco, perché il mio aer-eo parte fra un’ora. E poi ci siamo, e io vengo catapultato nella fredda incandescenza del Terminal B, e corro con la valigia per ritrovarmi a fare la lunga fila del controllo sicurezza. La fibbia della mia cin-tura fa suonare il metal detector, il mio deodorante da più di 100ml mi viene confiscato e il mio calzi-no sinistro è bucato.

Alla fine arrivo al gate. A questo punto, avrete ormai capito qual è la conclusione di questa banalissima storia: il mio volo è stato cancellato. Rimarrò bloccato in questo terminal per i prossimi 218 minuti, unica consolazione una tazza di caffeina e un panino McGriddle. Perderò la mia coinci-denza e aspetterò un altro aereo, in una città diversa ma con lo stesso

menu. E quattordici ore dopo sarò arrivato. Perché viaggiamo? Non è il volare che mi preoccupa – sarò sempre affascinato dalle leggi della fisica che permettono a un grasso uccello di metallo di volare nella troposfera. Il resto del viaggio, comunque, può assomigliare a una tediosa lezione alla scoperta dei mali della modernità, dagli x-ray prima del tramonto ai tristi shop-ping center degli aeroporti che vendono orrendi souvenir. È un concentrato di globalizzazione, e fa schifo.

Nonostante ciò, siamo qui, ammassati sempre più numerosi su aerei che non accennano a cambiare di dimensioni. Qualche volta, è ovvio, viaggiamo perché dobbiamo; perché in quest’era digitale c’è ancora qualcosa di intrinsecamente importante nella stretta di mano analogica. O nel mangiare il tacchino del Ringra-ziamento della mamma. O nel vedere la nostra fidanzata durante le sue vacanze.

Ma la maggior parte dei viaggi non sono non negoziabili. (Nel 2008 solo il 30% dei viaggi che su-peravano le 50 miglia di distanza sono stati fatti per lavoro). Invece, viaggiamo perché vogliamo, per-ché i fastidi dell’aeroporto sono compensate di gran lunga dalla viscerale eccitazione dell’essere in un posto nuovo. Perché il lavoro è stressante e la pressione del sangue è troppo alta e abbiamo bisogno di una vacanza. Perché casa è noia. Perché i voli erano a prezzi strac-ciati. Perché Parigi è Parigi.

Viaggiare, in altre parole, è un

di Jonah Lehrer,Illustrazioni di Shout

San Francisco Panorama

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EDITORIALE PERCHÉ VIAGGIAMO?

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desiderio umano primario. Sia-mo una specie migratoria, anche quando le nostre migrazioni sono alimentate da carburante aereo e Chicken McNuggets. Ma ecco la mia domanda: questo bisogno collettivo di andare – di mettere chilometri di distanza tra noi stessi e ciò che conosciamo – è an-cora una pulsione che vale la pena ascoltare? O è come il sapore dei grassi saturi, uno di quegli istinti che avremmo dovuto lasciarci alle spalle nel Pleistocene? Perché se il bello del viaggiare sta tutto nel divertimento, le mille norme sulla sicurezza aeroportuale l’hanno ucciso da un pezzo.

La buona notizia, almeno per quelli di voi che stanno leggendo questo articolo su una pista di decollo mangiando pretzel stan-tii, è che il piacere non è l’unica consolazione del viaggiare. Infat-ti, diverse ricerche scientifiche suggeriscono che partire – e non importa nemmeno la destinazi-one – è un tratto distintivo del pensiero efficace. Non c’entrano le vacanze o il relax, o il sorseggiare daiquiri su una spiaggia tropicale incontaminata; ciò che importa è l’atto tedioso in sé: il mettere chilometri tra casa nostra e il luo-go qualunque dove decideremo di passare la notte.

Cominciamo con l’aspetto più letterale del viaggiare, ovvero il fatto che si tratta di un verbo di movimento. Grazie alle mod-erne tecnologie, al giorno d’oggi possiamo muoverci attraverso lo spazio a una velocità disumana. Camminare a una velocità media

ci permette di coprire quasi 5 chilometri all’ora, una velocità circa 200 volte inferiore alla velocità di crociera di un Boeing 747. Per la prima volta nella storia dell’umanità, possiamo battere sul tempo il sole e passare da un clima all’altro in un solo giorno.

Il motivo per cui questi viaggi sono utili al cervello si spiega con una bizzarria nel processo cognitivo, per cui i problemi che sembrano “vicini” – e la vicinanza può essere fisica, temporale o an-che emotiva – vengono contemp-lati in una modalità più concreta. Come risultato, quando pensiamo a cose che ci sono vicine, i nostri pensieri sono costretti, legati da una serie di associazioni più lim-itate. Se spesso questa abitudine può essere utile – ci permette di focalizzarci sui fatti che abbiamo sotto mano – può anche inibire la nostra immaginazione.

Prendete un campo di grano. Quando siete in mezzo al campo, circondati dagli alti fusti di cel-lulosa e dagli involucri sfilacciati delle pannocchie, l’aria che pro-fuma vagamente di fertilizzante e di popcorn, la vostra mente si concentra automaticamente su pensieri che ruotano attorno al significato primario del grano, ovvero che si tratta di una pian-ta, di un cereale, di un prodotto fondamentale per l’agricoltura del Midwest americano.

Ma ora provate a immaginare quello stesso campo di grano da una nuova prospettiva. Invece di essere in una fattoria, siete nel bel mezzo di una strada di città

affollata, in cui si riversano taxi e pedoni. (E, per qualche strana ragione, state ancora pensando al grano). La pianta non sarà più soltanto una semplice pianta: il vostro vastissimo sistema nervoso sfodererà ogni sorta di associazi-one di idee. Penserete a sciroppi di grano zuccherosi, all’obesità, a Michael Pollan, vi ritroverete a contemplare l’etanolo e i caucus dell’Iowa, quei labirinti nel grano per bambini tipici delle fiere di paese e la squisitezza del succotash, fatto con la pancetta e i fagioli di lima. Il nome si è trasformato in una rete di tangenti, un telaio di connessioni remote.

Ma cosa c’entra tutto ciò con il viaggiare? Quando fuggiamo dal luogo in cui passiamo gran parte del nostro tempo, la nostra mente diventa improvvisamente conscia di tutte quelle idee errabonde che avevamo precedentemente soppresso. Cominciamo a pensare a possibilità remote – il grano può fare da carburante per le auto! – che non avremmo mai considerato se fossimo rimasti nel mezzo della fattoria. Inoltre, questa versione più rilassata del processo cogniti-vo ha anche vantaggi pratici, spe-cialmente nel caso in cui stiamo cercando di risolvere problemi complessi. Consideriamo, in prop-osito, un esperimento condotto di recente dallo psicologo Lile Jia all’Università dell’Indiana. Jia ha separato casualmente alcune dozzine di studenti universitari in due gruppi; a entrambi i gruppi è stato chiesto di elencare tutti i mezzi di trasporto che conosceva-

no. (Questo processo è conosciuto come creative-generation task). A un gruppo è stato detto che il progetto era stato sviluppato da studenti dell’Università dell’In-diana che stavano studiando in Grecia per un periodo (condizione di distanza), al secondo gruppo è stato invece detto che il progetto era stato sviluppato da studenti dell’Università che stavano, però, studiando in Indiana (condizione di prossimità). A un primo sguar-do, è difficile credere che una differenza così minima e in appar-enza irrilevante possa alterare la performance dei soggetti coinvolti. Perché dovrebbe importare dove è stato sviluppato il progetto?

Nonostante ciò, Jia ha scoperto una differenza lampante tra i due gruppi: quando agli studenti era stato riferito che il progetto era stato importato dalla Grecia, ques-ti avevano elencato un numero significativamente maggiore di mezzi di trasporto. Non si erano limitati a elencare autobus, treni e aerei: avevano incluso cavalli, trireme, navi spaziali, biciclette e anche i segwey. I soggetti si erano sentiti meno limitati dalle possi-bilità di trasporto locali perché la fonte del problema veniva da così lontano; non si erano limitati a pensare ai mezzi di trasporto per muoversi in Indiana, ma avevano pensato allo spostamento in tutto il mondo, e anche nello spazio. In uno studio successivo, Jia ha scoperto che le persone risolvono più facilmente una serie di puzzle se gli viene detto che provengono dalla California e non dalla stanza

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La lezione più importante, comunque, è che i nostri pensieri vengono incatenati

da ciò che ci è familiare. Il nostro cervello è un intreccio neurale di possibilità

praticamente infinite, ciò significa che spende molto tempo e molte energie

per scegliere a cosa non far caso. Il risultato è che si rinuncia alla creatività per prediligere l’efficienza; pensiamo in

prosa, non in poesia simbolista.

in fondo al corridoio. Questi sog-getti hanno considerato una gam-ma ben più ampia di alternative, che ha aumentato le loro chance

di risolvere gli impegnativi enigmi a cui erano stati sottoposti. C’è qualcosa di intellettualmente lib-eratorio nel concetto di distanza.

Il problema, ovviamente, è che la gran parte dei nostri problemi sono locali – gli abitanti dell’In-diana si preoccupano dell’Indiana, non del Mediterraneo orientale o della California. Questa consider-azione ci apre due possibilità: 1) trovare un modo intelligente di ingannare noi stessi e farci credere che i nostri dilemmi locali sono invece lontani o, 2) andare in un posto lontano e, una volta là, pen-sare ai problemi che ci affliggono a casa. Dati i limiti dell’auto-in-ganno – non siamo nemmeno ca-paci di auto-solleticarci – viaggiare sembra la soluzione più pratica.

Certo, non basta salire su un aereo: se vogliamo sperimentare i benefici creativi del viaggiare, dobbiamo ripensare la sua raison d’être. Molti di noi, dopotutto, scappano a Parigi per non pensare ai problemi che si sono lasciati alle spalle. Ma ecco l’ironia della sorte: è più facile che la nostra mente risolva i rompicapi più complicati che ci affliggono proprio mentre siamo seduti a un elegante bar della rive gauche. Quindi, invece di contemplare quel burroso croissant, dovremmo riflettere intensamente su quei rompicapi che non riusciamo a risolvere a casa. La lezione più importante, comunque, è che i nostri pensieri vengono incatenati da ciò che ci è familiare. Il nostro cervello è un intreccio neurale di possibilità praticamente infinite, ciò significa che spende molto tempo e molte energie per scegliere a cosa non far caso. Il risultato è che si rinuncia alla creatività per prediligere

l’efficienza; pensiamo in prosa, non in poesia simbolista. Un po’ di distanza, comunque, aiuta ad allentare le catene del processo cognitivo, rendendo più semplice vedere qualcosa di nuovo in ciò che è vecchio; il mondano viene approcciato da una prospettiva leggermente più astratta. Come scriveva T.S. Eliot nei Quattro Quartetti: “Non smettiamo di es-plorare, e la fine di tutte le nostre esplorazioni sarà arrivare dove siamo partiti e conoscere quel posto per la prima volta”. Ma la distanza non è l’unico vantaggio insito nel viaggiare. Pochi mesi fa, alcuni ricercatori dell’IN-SEAD – una business school francese – e della Kellogg School of Management di Chicago hanno dimostrato che studenti che avevano trascorso un periodo all’es-tero avevano il 20% in più di possibilità di risolvere con successo la simulazione al computer di un classico test psicologico chiamato il problema della candela di Duncker rispetto agli altri studenti che non avevano mai soggiornato all’estero. Il problema di Duncker ha una semplice premessa: ai sog-getti viene data (o, in questo caso, mostrata) una scatola di cartone contenente alcune puntine, una scatola di fiammiferi e una can-dela di cera. Gli viene richiesto di determinare come incollare la candela a un pezzo di sughero in modo che possa bruciare senza far cadere gocce di cera a terra. Quasi il 90% dei soggetti seguono gen-

eralmente le stesse due strategie, nonostante nessuna delle due sia quella giusta. Scelgono di fissare la candela direttamente alla scatola di cartone, il che frantumerà la cera della candela. Oppure deci-dono di sciogliere la candela con i fiammiferi in modo da incollarla al piano. Ma la cera non terrà e la candela cadrà a terra. A ques-to punto, la maggioranza delle persone si arrende, concludendo che il problema è irrisolvibile, che è uno stupido esperimento e uno spreco di tempo. E, in effetti, solo una piccola parte dei soggetti coinvolti – spesso meno del 25%

– riesce a trovare una soluzione al quesito, che include l’incollare la candela alla scatola sciogliendo la cera e poi fissare la scatola di cartone al pezzo di sughero. A meno che le persone non abbiano un’intuizione sulla scatola – che può servire non solo a contenere le puntine – continueranno a sprecare candela su candela. Con-tinueranno a sbagliare in attesa di un colpo di genio. Questo fenom-eno è noto come predisposizione all’immobilità funzionale, dato

che a quanto pare siamo pessimi nel giungere a nuove conclusioni riguardo a qualcosa di vecchio o noto. Ecco perché ci sorprendi-amo tanto nello scoprire che un forno può essere utilizzato anche come piccolo armadio, o una mela come bong. Ma cosa c’entra ques-to con il vivere all’estero? Secondo i ricercatori, sperimentare un’altra cultura ci dota di una preziosa apertura mentale e ci rende più semplice realizzare che una cosa può avere più significati. Pensate all’atto di lasciare del cibo nel piatto: in Cina, è considerato un complimento, un segno che il

padrone di casa o chi per lui è riuscito a saziarci. Ma in America è un sottile insulto, un segnale che il cibo non era abbastanza buono da finirlo tutto.

Questi contrasti culturali significano che i viaggiatori più esperti sono esposti all’ambiguità, più disposti a realizzare che ci sono diversi (ed egualmente validi) modi di interpretare il mondo.

Questo, di rimando, permette loro di espandere la circonferenza dei loro “input cognitivi”. Si rifiu-tano di fermarsi alla loro prima risposta e alle prime ipotesi che formulano. Dopotutto, forse ques-ti viaggiatori portano candele in scatole da puntine in Cina. Forse esiste persino un modo migliore per attaccare una candela a un muro.

Ovviamente, questa flessibilità mentale non deriva solo dalla sem-plice distanza. Non è sufficiente cambiare fuso orario o trascinarsi

EDITORIALE PERCHÉ VIAGGIAMO?

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dall’altra parte del mondo per ordinare Le Big Mac invece di un normalissimo panino di Mcdon-alds. Al contrario, questo aumento della creatività sembra essere un effetto collaterale della differenza: abbiamo bisogno di cambiare cultura, di sperimentare la disori-entante diversità delle tradizioni umane. Gli stessi dettagli che rendono il viaggiare incerto – do la mancia al cameriere? Dove mi porterà questo treno? – dimostra-no di avere un impatto duraturo, rendendoci più creativi perché meno isolati. Ci viene ricordato ciò che non sappiamo, ovvero praticamente tutto; siamo sorpresi dal flusso ininterrotto di sorprese. Anche in quest’era globalizzata che si trascina verso l’omologazi-one, possiamo ancora ammirare le meraviglie terrene non incluse nel-

la nostra guida turistica e che, di certo, non esistono a casa nostra.

Quindi, non facciamo finta di pensare che viaggiare sia sempre divertente, o che sopportiamo il jet lag per puro piacere. Non pas-siamo dieci ore persi nel Louvre perché ci piace perderci, e la vista dalla cima di Machu Pichu proba-bilmente non ci ripaga del fastidio dei bagagli smarriti. (Più spesso del dovuto, dopo una vacanza avrei bisogno di un’altra vacanza). Viaggiamo perché abbiamo bisog-no di farlo, perché la distanza e la differenza sono gli ingredienti segreti della creatività. Quando torniamo a casa, casa è ancora uguale a se stessa. Ma qualcosa nella nostra testa è cambiato. E questo cambia tutto.•

Viaggiamo perché abbiamo bisogno di farlo, perché la distanza e la differenza sono gli ingredienti segreti della creatività. Quando torniamo a casa, casa è ancora uguale a se stessa. Ma qualcosa nella nostra testa è cambiato. E questo cambia tutto.

EDITORIALE

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BODY RITUAL AMONG THE

Nell’estate del 1956 l’American Anthropologist pubblicava un articolo di Horace Miner dal titolo

NACIREMA

AntropologiaTRIP

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L’antropologo è talmente consapevole della diversità dei comportamenti sociali, che non si sorprende nemmeno di fronte alle abitudini più strane. Se non è convinto di aver vagliato tutte le possibili spiegazioni di una logica comportamentale, si aspetta forse di trovare la risposta giusta in qualche lontana tribù ancora sconosciuta. La rappresentazione culturale che definisce le gerarchie sociali è l’assunto espresso da Murdok nelle teoria dei clan. Le credenze sulla magia e le pratiche rituali dei Nacirema, possono essere lette sotto questa ottica e ne sono l’esempio più estremo.

Il primo a portare il rituale Nacirema all’attenzione degli

antropologi è stato il Professor Linton già venti anni fa; ma questa cultura è tutt’ora poco compresa. I Nacirema sono una particolare tribù Nordamericana che vive tra le popolazioni Creel del Canada, gli Yaqui e Tarahumare del Messi-co, e i Carib e gli Arawak delle An-tille. Si sa poco delle loro origini, anche se la tradizione vuole che provengano da est… La cultura dei Nacirema è caratterizzata da una economia di mercato altamente sviluppata, che si è evoluta in un ricco habitat naturale. Le persone della tribù si dedicano ad attività lavorative e devolvono gran parte dei ricavati e una considerevole parte della loro giornata ad attiv-ità rituali. Fulcro di tali riti è il corpo umano, la cui esteriorità e salute sono la principale preoccu-pazione e credo. Il concetto non è certamente inusuale, ma sono gli aspetti cerimoniali e la filosofia ad essa associata ad essere davvero unici.

Alla base dell’intero sistema sembra infatti esservi la credenza che il corpo umano è brutto, ed è naturalmente destinato a deperire e ad ammalarsi. L’unica speranza dell’uomo intrappolato in un simile corpo, è di scongiurare la naturale decadenza attraverso potenti cerimonie e rituali. Ogni nucleo familiare possiede in casa uno o più cellette votive, ed è proprio chi possiede più santuari in casa ad essere considerato ai piani alti del sistema sociale. Le case sono per lo più costruite in paglia e fango, ma le stanze dei santuari dei più facoltosi hanno i muri di pietra. Le famiglie più

povere imitano i ricchi applican-do placche di ceramica alle pareti della loro celletta. Anche se ogni famiglia possiede almeno uno di questi santuari, i rituali ad essi associati non fanno parte di un sapere comune, ma sono privati e segreti. In genere i rituali vengono svelati solo ai ragazzi nel momen-to dell’iniziazione. Tuttavia sono riuscito a stabilire un grado di confidenza che mi ha permesso di vedere questi luoghi ed avere una descrizione dei costumi associati. Il centro del santuario è la celletta, un incavo o un’ ansa costruita nel muro dove sono riposti amuleti e pozioni. I nativi credono siano proprio tali oggetti magici a tenerli in vita. Le pozioni sono prepa-rate da veri e propri profes-sionisti. Il più importante è lo stregone, il cui lavoro va ricompensato con sostanzi-ose regalie. Questa sorta di sciamano però non produce direttamente pozioni o amuleti; decide quali ingredienti destinare al richiedente e scrive la particolare ricetta in un linguaggio segreto. Questo linguaggio è appannaggio solo dello sciamano e degli erbo-risti che, in cambio anch’essi di un dono, preparano per il cliente l’amuleto o la pozione specifica. Una volta utilizzato, l’amuleto si usa in unica tornata ma non viene mai buttato via. Viene conservato nell’incavo del santuario che pullula di oggetti: questi oggetti magici curano le specifiche malat-tie -reali o immaginarie- di questa gente; ne posseggono talmente

tanti che spesso si dimenticano a cosa sono serviti e hanno paura di utilizzarli di nuovo. Anche se i nativi sono molto vaghi a riguar-do, possiamo pensare che alla base del conservare tutti questi oggetti magici vi sia l’idea che eseguire i rituali corporei alla loro presenza possa in qualche modo proteggere chi li venera.

Al di sotto degli amuleti c’è una piccola fonte. Ogni giorno i membri della famiglia entrano uno alla volta nel santuario, chi-nano la testa davanti gli amuleti, mescolano tipi differenti di acque

sacre nella fonte, e procedono con un breve rito di abluzione. Il Tempio dell’Acqua ne garantisce la sacralità: gli officianti del Tempio con elaborate cerimonie purifica-no infatti l’acqua. Nella gerarchia degli stregoni, al di sotto dello sci-amano c’è un uomo denominato – al meglio delle possibili traduz-ioni – “lo stregone della bocca”. I Nacirema subiscono un fascino contraddittorio e patologico nei confronti della bocca, credendo che essa abbia una influenza sovrannaturale nella dinamica delle relazioni sociali. Essi riten-gono che, se non fosse per i rituali

della bocca, i loro denti cadreb-bero, le gengive sanguinerebbero, le mascelle si ridurrebbero, i loro amici li abbandonerebbero e i loro amanti li rifiuterebbero. Sono altresì convinti che esista una forte relazione tra caratteristiche orali e morali. Ad esempio, esiste una abluzione rituale della bocca dedicata ai bambini che si ritiene migliori la loro fibra morale. Ogni individuo della tribù esegue un rit-uale giornaliero dedicato alla bocca.

Nonostante queste persone siano così puntigliose in ciò che riguarda la cura della bocca,

questo rito comprende una pratica che risulta rivoltante agli occhi di stranieri o persone non iniziate. Mi è stato riferito che il rituale consiste nell’inserire un pic-colo fascio di peli di maiale in bocca, conditi da polveri magiche, che va rimosso dopo una serie di gesti alta-mente studiati.

Oltre il rito giornaliero, i nativi si recano uno o due volte all’anno dallo stregone della bocca. Questi posseggono una serie impression-ante di parafernali, quali trivelle, punteruoli, sonde e pungoli che vengono utilizzati recando parti-colare sofferenza, nell’esorcismo dei mali della bocca. In queste sedute, lo stregone della bocca apre quella dell’assistito e, utilizzando gli strumenti sopra menzionati al-larga i buchi che l’invecchiamento può aver creato nei denti. In ques-ti fori inserisce sostanze magiche. Se non vi sono buchi naturali nei denti, vengono scavate ampie sezi-

La maggior parte delle culture esibisce una particolare configurazione o stile. Un singolo valore o modello di percezione del mondo spesso lascia la sua impronta su diverse istituzioni della società. Esempi ne sono il ‘machismo’ delle culture di origini spagnole, il ‘viso’ nella cultura giapponese, e il ‘pollution by females’ in alcune culture delle isole della Nuova Guinea. Qui Horace Miner ci dimostra che l’attenzione per il corpo ha un’influenza determinante su alcune istituzioni della società dei Nacirema. Essi ritengono che, se non fosse per i

rituali della bocca, i loro denti cadrebbero, le gengive sanguinerebbero, le mascelle si ridurrebbero, i loro amici li abbandonerebbero e i loro amanti li

rifiuterebbero. Sono altresì convinti che esista una forte relazione tra caratteristiche orali e morali.

TRIP • ANTROPOLOGIA BODY RITUAL AMONG THE NACIREMA

di Horace Miner

American Anthropologist

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oni di uno o più denti in modo da poter applicare le sostanze sovrannaturali. Lo scopo delle somministrazioni è di prevenire il decadimento e di ottenere più amicizie. Questa è evidentemente una credenza che influenza il com-portamento: nonostante la pratica dolorosa e nonostante i loro denti continuino a rovinarsi, i nativi tornano comunque puntualmente dallo stregone della bocca. C’è da sperare che, una volta compi-uto uno studio approfondito dei Nacirema, vi sia una indagine accurata della personalità di questi nativi americani. Solo vedendo dal vivo il bagliore negli occhi dello stregone della bocca quando stuz-zica con un punteruolo un nervo scoperto, viene il sospetto che vi sia una certa dose di sadismo. Se si arrivasse a stabilire questo con certezza, emergerebbe un marca-tore sociale davvero interessante, in quanto la maggior parte della popolazione mostrerebbe tenden-ze decisamente masochiste.

È a questo concetto che il Pro-fessor Linton faceva riferimento nel raccontare di una precisa parte del rituale corporeo quotidiano svolto unicamente dagli uomini. Il rito consiste nel lacerare e raschi-are la pelle con una lama affilata. Le donne invece svolgono un rito speciale solo quattro volte per ogni mese lunare, ma recuperano quanto perso in frequenza con la barbaria della pratica: per un’ora le donne cuociono la loro testa in dei piccoli forni. Il fatto che quello che sembra essere un po-polo con preponderante tendenze

masochistiche abbia sviluppato dei professionisti sadici, è sicura-mente un tema da approfondire.

In ogni comunità non importa quanto grande, lo sciamano pos-siede un imponente edificio chi-amato latipso. Le cerimonie più elaborate richiedono che il trat-tamento dei pazienti gravemente malati possa essere eseguito solo in questo tempio. Nel tempio cir-colano costantemente delle donne riconoscibili da abiti e copri capi particolari; esse assistono anche lo sciamano nelle operazioni.

I rituali che si svolgono nel latipso sono così duri ed invasivi che è incredibile il fatto che buona parte dei nativi che vi è entrato realmente affetto da malattia, posso poi riprendersi. I bambini piccoli la cui iniziazione è incom-pleta, tentano di resistere quando vengono portati al tempio, perché “è il luogo dove si va per morire”. Nonostante ciò, gli adulti malati

non sono solo disposti, ma desi-derosi di sottoporsi al lungo rit-uale di purificazione, se possono permettersi di farlo.

Il supplicante che entra nel tempio viene per prima cosa spogliato di tutti i suoi vestiti. Nella vita quotidiana i Nacirema nascondono il proprio corpo e controllano i bisogni naturali. I bagni e gli atti escretori vengono eseguiti solo nel segreto del santu-ario domestico, considerati come parti dell’intero rituale del corpo. È un vero e proprio shock per il nativo che entra per la prima volta nel latipso perdere la propria inti-mità. Un uomo non è mai stato visto neanche dalla propria moglie in momenti escretori, e di colpo si trova al cospetto di sorta di vestale che tiene in mano il sacro recipiente e lo assiste a compiere le funzioni. Questa sorta di rituale cerimoniale è reso necessario dal fatto che gli escrementi vengono utilizzati da un indovino per ac-certare il corso e la natura della malattia in corso. Di contro le donne, vengono esaminate nude ed il loro corpo viene manipolato e sollecitato dallo sciamano.

Pochi supplicanti nel tempio sono in condizioni di salute tali da fare qualcos’altro se non giacere a letto. Le cerimonie quotidiane, come i riti dell’uomo della sacra bocca, implicano dolore e tortura. Con dovuta precisione rituale, le vestali risvegliano i supplicanti ogni giorno e li fanno rotolare sui loro letti di dolore mentre mettono in atto le abluzioni, secondo i passaggi rituali a cui

le donne sono state altamente addestrate. Altre volte inseriscono bastoncini magici nella bocca del supplicante, o lo costringono a magiare sostanze dal cattivo sapore ritenute salvifiche. Di tanto in tanto gli sciamani incontrano il paziente e gli conficcano aghi ma-gici nella carne. Il fatto che questi rituali possano in realtà non avere effetti curativi, e magari addirit-tura uccidere il supplicante, non diminuisce in alcun modo la fidu-cia delle persone nello sciamano. Rimane da descrivere un altro tipo di professionista, conosciuto come “l’uditore”. Questo altro stregone ha il potere di esorcizzare i demo-ni che albergano nelle teste delle persone che sono state stregate. I Nacirema credono che i genitori streghino i loro figli. Le madri sono accusate di maledire i figli mentre insegnano loro il rituale corporeo segreto. La contro magia che vi applica il dottore-stregone è inusuale per la sua mancanza di passi rituali definiti. Il paziente semplicemente dice all’ “uditore” tutti i suoi problemi e le sue pau-re, a partire dalle prime difficoltà che riesce a ricordare. Le immagini proiettate dai Nacirema in queste sessioni di esorcismo sono vera-mente degne di nota. Non è raro per il paziente lamentare il rifiuto percepito durante l’infanzia, e alcuni individui arrivano a vedere le cause dei problemi come dovute al trauma della nascita.

Per concludere, occorre men-zionare certe pratiche che hanno fondamento nell’estetica dei nativi, e che dipendono dalla

pervasiva avversione per il corpo al naturale e le sue funzioni. Vi sono rituali di digiuno per rendere magre le persone grasse, e feste cerimoniali per rendere grasse le persone magre. Altri riti ancora sono utilizzati per rendere più grande il seno delle donne se è troppo piccolo, e per render-lo piccolo se è troppo grande. L’insoddisfazione generale per la forma del seno è simbolizzata dal fatto che la forma ideale è virtual-mente al di fuori della possibilità umana. Alcune donne afflitte da uno sviluppo mammario abnorme sono così idolatrate che condu-cono una bella vita semplicemente andando di villaggio in villaggio e permettendo ai nativi di fissarle in cambio di un una ricompensa. È stato già fatto riferimento al fatto che le funzioni escretorie sono ritualizzate, routinizzate e relegate all’intimità. Le funzioni riproduttive invece vengono viste in maniera ugualmente distorta. Il rapporto sessuale è un argomento tabù nonché atto programmato. Ci si sforza per evitare la gravidanza attraverso l’uso di materiali magi-ci o limitando il rapporto a certe fasi della luna. Il concepimento è poco frequente. Quando sono in-cinte, le donne si vestono in modo da nascondere la loro condizione. Il parto avviene in segreto, senza amici o parenti ad assistere, e la maggior parte delle donne non allatta il proprio bambino. La nostra analisi della vita rituale dei Nacirema ha certamente mostrato

come sia un popolo oppresso dalle credenze. È difficile capire come essi abbiano potuto esistere così a lungo sotto il peso che si sono autoimposti. Ma anche simili costumi assumono un significato reale se visti alla luce di quando affermato da Malinowski:

“Guardando dall’alto e da lontano, dalle nostre posizioni al sicuro nella civiltà sviluppata, è facile vedere la crudezza e l’irrile-vanza della credenza. Ma senza il suo potere e la sua guida l’uomo primitivo non avrebbe potuto padroneggiare le sue difficoltà pratiche come invece ha fatto, né l’uomo avrebbe potuto progredire verso gli alti livelli della civiltà attuale”. •

N.B. Per cogliere il tono ironico dell’articolo si invita a leggere il nome del popolo in questione al contrario!

TRIP • ANTROPOLOGIA BODY RITUAL AMONG THE NACIREMA

Le donne invece svolgono un rito speciale solo quattro volte per ogni mese lunare, ma recuperano quanto perso in frequenza con la barbaria della pratica: per un’ora le donne cuociono la loro testa in dei piccoli forni. Il fatto che quello che sembra essere un popolo con preponderante tendenze masochistiche abbia sviluppato dei professionisti sadici, è sicuramente un tema da approfondire.

LEGGI L’ARTICOLOINTEGRALE SUTRIP.COM

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IL BELLO DELLE MAPPE

Se guardare una mappa vi sembra noioso, forse lo è perché usiamo le mappe solo quando ormai ci siamo definitivamente persi. Quando finiamo in un strada di campagna sperduta, diventiamo rossi di rabbia nel vano tentativo di far quadra-re ciò che vediamo fuori dal parabrezza con il disegno della mappa, e molto spesso finiamo nel non capire in quale punto dell’universo siamo mai finiti.La mappa viene percepita quasi fosse strumento di umiliazione quando i nostri sensi di orientamento non riescono a guidarci. È af-fascinante pensare che guardare le mappe antiche, è come avere la medesima sensazione. Per gran parte della nostra storia le mappe hanno confuso la realtà fornendo una diversa conformazione geografica. Utilizzando la mappa dello studioso arabo Al-Idrisi del 12° secolo, avreste trovato due canali tra l’Inghilterra e il continente.

Solo nel 1490 abbiamo scoperto che il Sud Africa non è collegato al sud est Asiatico ed è passata un’altra decade per vedere la reale forma della Penisola Indiana, e secondo la mappa di Giovanni Contarini del 1506 sareste stati in balia della credenza di Colombo che Cuba fosse un’isola al largo della costa est dell’Asia.

Solo alla fine del 17° secolo i continenti han-no trovato la corretta dislocazione. Guardando le mappe antiche, non possiamo far altro che ricordare gli ostacoli insormontabili per creare una fedele riproduzione del mondo. Ci ricordano quando coraggiosi siano stati i grandi esploratori come Colombo, Magellano, Vespucci che si sono imbarcati in epiche avventure.

Siamo cresciuti consapevoli delle atrocità im-poste dall’Europa nel colonizzare i continenti e non possiamo certo gioire delle prima mappe re-alistiche dell’America dimenticando questo fatto, ma non è neanche giusto passare sopra a quanto lavoro e a quanti pericoli sono stati affrontati per disegnare le vere mappe.

Se è davvero emozionante scoprire progressiva-mente nuovi territori, di contro è davvero triste pensare che non c’è più niente da scoprire. Che tutto sia stato scoperto e catalogato è un aspetto sia positivo che negativo: ciò che non si conosce può diventare uno spettro terrificante, ma quan-do tutto è stato visto non c’è più spazio per i sogni e per cercare di migliorare. Una volta che è stato circumnavigato il globo, abbiamo smesso di cercare nuovi paradisi se non proiettandoli su altri pianeti. Si prova davvero qualcosa di nostal-gico nel trovare una antica mappa con la dicitura “terra incognita” che indica una parte del conti-nente americano: se dimentichiamo che lì è dove ora sorge Detroit, possiamo immedesimarci nel cartografo che qualche secolo fa poteva sognare una terra promessa.

I continenti che sono stati messi al loro posto, sono la metafora del progresso: anche l’ignoranza porta alla verità inequivocabile. Ogni raffigurazi-one del mondo proviene da altre rappresentazio-ni e sarebbe quindi affrettato chiamare falsa una rappresentazione di ciò che non si conosce, così come è accaduto con i continenti sulle mappe.

Nel Medioevo chi disegnava le mappe del mondo non raffigurava la reale distanza tra Londra e Parigi, ma cercava di illustrare le di-mensioni e i luoghi imposti dalla realtà religiosa. Mettevano Gerusalemme al centro e facevano un miscuglio tra il vero e l’immaginario: la Caduta, l’Incarnazione, il Giudizio venivano illustrati in veri luoghi o città. La mappa di Hereford è un esempio di Mappa Mundi [c.1300], dove viaggiando all’estremo nord si arrivava al Giardi-no dell’Eden. Man mano che il mondo veniva scoperto, i disegnatori di mappe religiose si sono ritrovati in una comica situazione: hanno dovu-to riposizionare il Paradiso. Con le scoperte di Marco Polo e dell’Asia, nella Mappa Mundi Cat-alana del 1450 hanno dovuto spostare il Paradiso

MapsTRIP

di Alain de Botton

Where You Are

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nell’Africa orientale prima indicato proprio in Asia.Le antiche mappe hanno anche fornito vi-sioni politiche. Guardando la Mappa Mundi di Evesham [c.1390], notiamo quanto l’Ing-hilterra fosse arrogante raffigurandosi sep-arata da Scozia e Galles e innaturalmente grande rispetto a una piccolissima Francia.Il pregiudizio assunse astruse forme nel mentre la produzione geografica cresceva; al picco dell’espansione la mappa inglese assunse le forme di una guida a colori planetaria che divideva il mondo in selvag-gi, barbari, semi- civilizzati, civilizzati ed illuminati.Il piacere di contemplare il mondo su una mappa è come il bisogno di leggere le sto-rie. In entrambi i casi vediamo le cose da un punto realistico e privilegiato quando di solito abbiamo un solo punto di vista limi-tato. Con una mappa del mondo ci eleviamo al di sopra del vincolo spaziale e con un col-po d’occhio dominiamo un piccolo spazio come l’intero globo, così come grazie ai romanzi, possiamo immedesimarci facil-mente e profondamente in altre persone al di fuori di noi stessi.Ma di certo le mappe come i romanzi non sono altro che una riduzione della comples-sa realtà. I viaggi che facciamo ci mostrano

nell’Africa orientale prima indicato proprio in Asia. Le antiche mappe hanno anche fornito visioni politiche. Guardando la Mappa Mundi di Evesham [c.1390], notiamo quanto l’Inghilterra fosse arrogante raffigurandosi separata da Scozia e Galles e innaturalmente grande rispetto a una

piccolissima Francia. Il pregiudizio assunse as-truse forme nel mentre la produzione geografica cresceva; al picco dell’espansione la mappa inglese assunse le forme di una guida a colori planetaria che divideva il mondo in selvaggi, barbari, semi- civilizzati, civilizzati ed illuminati. Il piacere di

contemplare il mondo su una mappa è come il bisogno di leggere le storie. In entrambi i casi vediamo le cose da un punto realistico e privi-legiato quando di solito abbiamo un solo punto di vista limitato. Con una mappa del mondo ci eleviamo al di sopra del vincolo spaziale e con un colpo d’occhio dominiamo un piccolo spazio come l’intero globo, così come grazie ai romanzi, possiamo immedesimarci facilmente e profonda-

mente in altre persone al di fuori di noi stessi.Ma di certo le mappe come i romanzi non

sono altro che una riduzione della complessa re-altà. I viaggi che facciamo ci mostrano i paesaggi, che sono tremendamente diversi dalla linee che percorriamo idealmente sulla mappa – ed è per questo che si lamenta il guidatore che si è perso.

Comunque, sembra che per arrivare a destina-zione non possiamo far altro che abbreviare la complessità per dare un senso al mondo. Nessu-no si aspetta che il sistema della metropolitana di Londra sia realmente come la mappa che la rappresenta, ma come tutte la mappe, è fonda-mentale per riuscire a utilizzarla. •

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TRIP TIPS: LIBRI

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BODY RITUAL AMONG THE NACIREMA

Reality is more.

54° Festival Internazionale del DocumentarioFirenze, Cinema Odeon,30 Novembre - 7 dicembre 2014.

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ON

ESIA

AEROPORTO

LINGUA

MONETA

PREFISSO

INFO TURISMO

INDONESIA,LAMALERA

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L’uomo non è il centro della natura, che esiste ed esisterà da prima e oltre l’uomo, ma una creatura che deve imparare a integrarsi con l’ambiente per garantirsi la sopravvivenza.È questa la vita dei balenieri di Lamalera.

LAMALERA,NON PROPRIO INDONESIA

Sono atterrato da poche ore, è notte. Nella sala dell’ostello di Giacarta non c’è nessuno tranne me. Il caldo appiccicaticcio si fa sentire. Mi sento irrequieto, il mio viaggio è appena iniziato e non so dove andare. È tutto improvvisato, tutto deci-so all’ultimo minuto. Mi avvicino a una mappa dell’Indonesia illuminata da un neon, guardo le 16000 isole e come in un sogno immagino para-disi e inferni di etnie mescolate tra loro. La mia confusione aumenta. Dove andare? Papua, scarta-ta già dall’Italia, troppi soldi per un altro volo. Sulawesi, mi piace la sua forma particolare, mi ricorda un alieno. Le isole Banda, belle, ma forse troppo lontane per uno disorganizzato come me. Mi voglio muovere con mezzi di trasporto locali, alternare carrette terrestri a carrette acquatiche. A un tratto il mio dito inizia a seguire il cordone di isole che si muove da Java, verso est fino a Timor. Mi stendo sul divano e uccido due zanzare con la racchetta elettrica. Inizio a parlare con qual-che ospite rivolgendo qualche domanda di rito sui posti visitati. Ma la decisione è presa: si va verso est. Mi ci vogliono un bel po’ di giorni per vedere i vulcani di Java, annusare Bali e scappare via, divertirmi con i sasak di Lombok, viaggiare in barca per toccare Komodo e arrivare a Flores. Ma qualcosa di strano è successo, sento parlare di Lamalera. Un posto, proprio lì, nel Pacifico meridionale, dove si cacciano i capodogli come ai tempi di Melville.

Da quel momento in poi, quell’isola primitiva ha esercitato su di me un’attrazione magnetica generando un prepotente desiderio di arrivare lì. Dal Kelimutu, il vulcano con tre profondi laghi vulcanici di differenti colori, così densi da sembrare pieni di pittura, viaggio due giorni di fila senza fermarmi, con mezzi scomodi e gente gioviale. L’imbarcazione, quella che va da Laran-tuka a Lewoleba, nell’arcipelago di Solor, è un traghetto di legno, stipato di persone e motorini. Partenza ore 8.

L’aria è calda, la vedo immobile come le tante persone che ci aspettano sulla banchina. Si scende. Pensavo di trovare qualcuno che mi raccattasse

e mi portasse fino a Lamalera, ma stranamente non c’è nessuno. Non tanti viaggiatori arrivano qui. Mi avvio zaino in spalla e passo svelto sotto il sole rovente, chiedo e cerco di capire come fun-ziona. Arrivo in un piazzale ombreggiato dove stazionano alcuni camion. Bastano tre mosse per trovarsi automaticamente sul mezzo giusto: sguardo dritto, cenno con la testa e nome del posto, funziona sempre. A Lamalera ci si arriva percorrendo per 4 ore una strada sconnessa e con buche enormi. L’atmosfera sul camion è bella. C’è posto per tutti e tutto, compresi i durian talmente putrescenti da dare il voltastomaco, poi se non trovi spazio ti puoi sempre mettere sul tetto. Le due casse da 80 watt pompano un mix tra musica dance e tradizione. Il volume della musica non dà fastidio ai ragazzi, intenti a mettersi in mostra alla vista di uno straniero, ma non riesco a capire come possano resistere gli anziani. Ci sono famiglie intere che si spostano e con il passare del tempo il camion si riempie.

Arrivati a Lamalera, vado a dormire nell’unica sistemazione del villaggio. Non è un granché ma non mi aspetto nulla, la formula è quella della pensione completa, non ci sono altri bar e risto-ranti. Dopo un po’ mi ambiento e vado in spiag-gia. È già il tramonto. Capisco subito che per gli abitanti di Lamalera, l’Indonesia è un concetto senza significato, il loro mondo è il mare. Fuori dalle case, su strutture di legno, ci sono pezzi di carne messi a essiccare. Sulla spiaggia vedo dei ragazzi che giocano e fanno salti morbidi, su una superficie scura che inizialmente sembra fatta di scogli. Mi avvicino e vedo il corpo di un enorme capodoglio disteso sulla sabbia.

Per un momento sono rimasto immobile ad ammirare quel portento della natura, quasi di-menticando ogni pensiero riguardo la morte di un essere vivente. Un animale misterioso che si spinge negli abissi, fino a 3000 metri di profon-dità, per procurarsi il cibo. Lo osservo, cerco di capire dove è il volto, ma vedo solo una vasta sagoma scura, di un colore metallico. È un pesce enorme, con un testone pari a un terzo della

LAMALERA, NON PROPRIO INDONESIA

di Alberto Fiore

No Border Magazine

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lunghezza del corpo, il muso rigonfio, la bocca immensa armata di denti di forma conica e ri-curvi all’indentro e il dorso coperto di gibbosità più o meno grandi. È lungo diciassette o diciotto metri, una enorme massa che promette tonnellate di olio, carne per tutto il villaggio e fiumi di quel prezioso liquido conosciuto col nome di bianco di balena (spermaceti) che porta nella testa. I ragazzini sono felici, continuano a saltellare morbidamente sul suo corpo, prima che il sole sprofondi definitivamente in mare.

Il termine “capodoglio” deriva da “capo d’olio” e trae origine dalla sostanza oleo-cerosa presente nel loro cranio. È senza dubbio il più grande animale vivente munito di denti, con il cervello più grande di ogni creatura della Terra. Gli abissi sono la sua dimora. Trascorre la sua esistenza a 2 km di profondità, emergendo solo per respirare. Si immerge in profondità, trattenendo il respiro per più di 2 ore, rallentando il suo cuore fino a una pulsazione a minuto. Ha degli organi che si occupano della sua galleggiabilità durante le immersioni. Prima di immergersi, l’acqua fredda viene trasportata attraverso quest’organo e la cera si solidifica. L’innalzamento della densità specifica genera una spinta verso il basso (equiv-alente approssimativamente a 40 kg) e consente alla balena di inabissarsi senza sforzo. Quando caccia in profondità (a un massimo di 3000 m) l’ossigeno immagazzinato viene consumato e il calore in eccesso scioglie lo spermaceti. Ora sola-mente le forze idrodinamiche (sostenute dal nuo-to) mantengono la balena in profondità, prima che riemerga senza sforzo. Per sopravvivere ha la necessità di mangiare più di 1000kg di pesce al giorno. È la balena più ricercata, visto che più di un terzo del corpo dell’animale è costituito da grasso. È un gigante, è il re dei mari più profondi, il più grande predatore mai apparso sul pianeta. Il fatto che gli uomini di Lamalera continuano a cacciare le balene “con le mani” senza l’utilizzo di armi, sottolinea non solo che la lotta è alla pari, ma è una battaglia in cui il capodoglio può addirittura considerarsi avvantaggiato. È facile

conoscere a Lamalera pescatori senza un braccio oppure senza una gamba. Questi pescatori por-tano con estrema dignità i segni della battaglia e sono estremamente rispettati dalla comunità. Gli uomini di Lamalera cacciano solo balene dotate di denti, per lo più, capodogli e orche. Le altre specie sono considerate sacre in quanto è leggenda che il primo clan giunto a Lamalera l’abbia fatto sul dorso di una balena. Non ci sono attracchi per le barche, così prendere il mare rimane una impresa ardua. La stagione del-la caccia va da maggio a ottobre. A prima vista le barche appaiono improbabili, la loro abilità a solcare i mari sembra avere del miracoloso. Gli arpioni vengono affilati con pietre e le dimensio-ni variano a seconda della preda: mante, delfini, orche, squali e capodogli. L’arpionista tiene con le mani l’asta in bamboo, la solleva ed è talmente lunga che vibra e si flette in aria. Prende la mira e si lancia con tutto il suo corpo e l’arpione in mare, il capodoglio ferito inizia a nuotare veloce e in profondità e scompare. L’arpionista nuota a grandi bracciate verso la barca e viene tirato su, intanto la corda cui è legato l’arpione viene tenuta da tutto l’equipaggio. Quando i pescatori portano il capodoglio a riva, tutto il villaggio scende in spiaggia. È proprio quello che è accadu-to quel giorno. L’indomani sarebbe iniziata una festa a lungo desiderata – da maggio ad agosto gli abitanti di Lamalera avevano pescato solo sei balene. Il giorno dopo alle 6 sono già in spiaggia, con il presentimento che di buon mattino accadrà qualcosa. Vedo sbucare dalle capanne i cacciatori con dei lunghi coltelli che affilano su una picco-la pietra che ciascuno regge con l’altra mano. La gente aumenta e aumenta la concitazione attorno alla balena. Subito dopo il primo tag-lio, all’altezza del-la pancia, si sente l’urlo dell’aria che si fà strada tra le carni e fuoriesce dalla prima ferita

inferta. Da quel momento in poi è tutto un tagli-are. Il sangue è ovunque. Dell’animale non viene scartato nulla ed è per questo che in indonesiano viene chiamato ikan paus, “pesce patriarca”. Mi faccio strada tra i pescatori per fotografare tutto quello che mi passa per la mente: budella, sangue, coltelli, facce. Sono molto rilassati, c’è aria di festa. Divento amico di Bartolomeus, nelle pause è il mio compagno di sigaretta, anche perché me le scrocca in continuazione. Quando entro, per modo di dire, in confidenza con lui, gli chiedo di

È lungo diciassette o diciotto metri, una enorme massa che promette tonnellate di olio, carne per tutto il villaggio e fiumi di quel prezioso liquido conosciuto col nome di bianco di balena (spermaceti) che porta nella testa. I ragazzini sono felici, continuano a saltellare morbidamente sul suo corpo, prima che il sole sprofondi definitivamente in mare.

presentarmi l’arpionista e l’equipaggio che aveva catturato il capodoglio. Non si fa problemi a introdurmi con un largo sorriso a Stefanus (l’arpionista), Carlos e gli altri. Stefanus mi prende in simpatia, è stato suo il compito più pericoloso, quello del “Lamafa” cioè del ram-poniere. E’ rimasto in equilibrio a piedi nudi, sul legno bagnato, su una stretta piattaforma a prua dell’imbarcazione e da lì, si è lanciato conficcan-do l’arpione nel corpo dell’animale, sfruttando la spinta del tuffo per imprimere maggiore forza

TRIP • INDONESIA LAMALERA, NON PROPRIO INDONESIA

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al colpo. Dopo che dell’animale è rimasta solo la carcassa, ci mettiamo seduti in cerchio sulla spiaggia e Stefanus inizia la distribuzione della carne fra l’equipaggio, i proprietari della barca e chi si è occupato della sua costruzione. È l’ulti-mo passaggio di una lunga giornata, la cerimonia della divisione è un elaborato rituale, dove l’ar-pionista e la ciurma prendono le parti migliori. Le altre parti vengono poi date alle famiglie dei parenti dei componenti dell’equipaggio e agli altri membri del villaggio. Alla fine, della balena non rimane nulla, è stato distribuito tutto, fino all’ultima goccia di sangue e di midollo, incluso il prezioso spermaceti, la sostanza untuosa che riempie l’enorme testa dell’animale.

Le donne lavano i pezzi di carne a riva per pulirli dalla sabbia e li riportano a casa, dove vengono appesi a palizzate di legno per essiccarli al sole. Le griglie di legno contengono differ-enti pezzi di carne a vari stadi di essicazione. Nella parte sottostante il grasso del capodoglio, vengono posizionate delle piccole canaline di bamboo in maniera tale da raccogliere l’olio in bottiglie di plastica. Questo olio viene utilizzato per le lampade del villaggio, visto che nel villag-

gio non c’è ancora l’elettricità. Aiuto Stefanus a portare a casa i suoi pezzi di carne, imbastendo strambe conversazioni grazie ai suoi rudimenti di inglese e al mio livello primitivo di bahasa in-donesia. La sera mi invita a casa sua ed è la prima di una serie di notti indimenticabili, passate nel suo piccolo giardino, bevendo tuak (distillato di palma) e ascoltando i racconti suoi e degli amici, tutti incentrati sulla caccia alla balena. Sembra di rivivere le avventure del capitano Akab.

Mi spiegano che, quando all’orizzonte appare lo sbuffo di un capodoglio, i pescatori urlano “Baleo! Baleo!”. La gente lo ripete a squarciago-la per darsi forza e coraggio mentre le barche vengono spinte in mare. I rematori cominciano a pagaiare forte, il timoniere incita i marinai, prestando orecchio alle indicazioni della vedetta. A prua, il ramponiere prepara il suo arpione di bambù e si tiene pronto a gettarsi sul cetaceo con tutto il peso del suo corpo per far penetrare in profondità l’asta mentre il mare si tinge di rosso e l’equipaggio colpisce con coltelli e machete l’animale per fiaccarne la resistenza. Una battuta di caccia può durare anche una intera giornata e trascinare la barca a molte miglia dalla costa. Mi

raccontano che un po’ di anni fa un capodoglio li aveva trascinati per 4 giorni fino alle coste dell’Australia. Il tuak scorre a fiumi e la serata va avanti in maniera piacevole tra risate e sfottò, discorsi sull’economia, sui figli, la scuola e alcu-ni aneddoti sul padrone della pensione (odiato da me e da tutti). A un certo punto, chiedo se posso allenarmi con lui per diventare il primo ramponiere italiano, scoppiano tutti a ridere e lui mi abbraccia, dicendomi che sono già uno di loro. Il giorno dopo mi chiede di accompagnare la moglie al mercato di Wulandoni, un villaggio a 7 km di distanza, dove le donne di Lamalera por-tano con sè la carne essiccata per scambiarla con riso, granoturco, vegetali, frutta. È un mercato del baratto: non c’è scambio di soldi ma solo di prodotti. Pochi chili di carne di capodoglio pos-sono valere una ventina di chili di riso o grano. La giornata del cacciatore inizia prima dell’alba. Da Lamalera A e B, i due villaggi separati da una ripida collina, inizia una processione informale. Gli uomini avvolti nei sarong raggiungono la spiaggia, posizionandosi all’interno della capan-na costruita per riparare l’imbarcazione di fami-glia utilizzata per la caccia. Li ho contati: ci sono circa 27 “garage” sul piccolo lembo di spiaggia. Se “balenieri ecologici” vi pare un ossimoro, considerate che per questa gente, il capodoglio, rimane l’unica fonte di nutrimento. Una balena può sfamare l’intero villaggio per due mesi. Il terreno di origine vulcanica di questa zona non è adatto all’agricoltura e la caccia alla balena è l’unica soluzione possibile alla carenza di cibo. Anche se non vengono catturate più di 10 balene l’anno, la loro carne costituisce l’unica ancora di salvezza. La stessa Greenpeace ha definito assolu-tamente ininfluente ai fini della conservazione della specie quei 10 o al massimo 15 capodogli che i balenieri di Lamalera riescono ad arpionare in un anno e che danno sostentamento a tutto il villaggio. Il capodoglio è protetto praticamente in tutto il mondo, anche se non è in imminente pericolo perché i pescatori non catturano le crea-ture degli abissi di cui si nutrono i capodogli e

il mare profondo è probabilmente più resistente all’inquinamento degli strati superficiali. Gli abitanti di Lamalera cacciano solo gli animali che possono scorgere con i propri occhi. Il loro modo di vivere non è cambiato da centinaia di anni – un gruppo di abili pescatori che utiliz-zano esclusivamente i propri corpi e il proprio coraggio per cacciare capodogli di 20 metri di lunghezza e fornire abbastanza cibo al loro inte-ro villaggio. Questo tipo di pesca ancestrale, che ha la forma di un rituale ricco di superstizione e sacralità, rimane da secoli sostanzialmente immutato e si tramanda di generazione in gener-azione, di padre in figlio da quasi seicento anni. Arrivare a Lamalera e vivere assieme ai balenieri, mi ha permesso di assaporare la battaglia disper-ata e autentica che spesso l’uomo effettua nei confronti delle forze della natura. Anche se con il passare degli anni, la distruttrice volontà di on-nipotenza dell’umanità, incapace di accettare un ruolo secondario, sembra in alcuni casi avere il sopravvento sulla forza, lenta e inesorabile, della natura. Il capodoglio e il risultato incerto della caccia diventano come un’allegoria e un monito, un simbolo dell’incomprensibilità del creato, velato addirittura di malvagio, tema tra l’altro piuttosto ricorrente nelle pagine dell’epico libro di Melville. L’uomo non è il centro della natura, che esiste ed esisterà da prima e oltre l’uomo, ma una creatura che deve imparare a integrarsi con l’ambiente per garantirsi la sopravvivenza. È questa la vita dei balenieri di Lamalera. •

LAMALERA, NON PROPRIO INDONESIA

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TRIP TIPS: LIBRI

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IL PIU GRANDE ESPLORATORE

VIVENTE

Tutti hanno sentito parlare di Sir Ranulph Fiennes. Lui è il perfetto modello di avventuriero esploratore nonché british man totalmente pazzo. Il suo nome è sulla bocca di tutti, ne parlano nei pub, ne parlano i libri della sezione avventura. E’ stato il comandante dell’ unica spedizione che ha circumnavigato il mondo passando per i poli ed il primo ad attraversare l’Antartide in solitaria a piedi.

TRIP Interviste

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Avevamo mille domande per Sir Ranulph, ma alla fine abbiamo deciso di chiedere al ‘più grande esploratore vivente al mondo’ qualcosa in più riguardo le tec-nologie di allora, il tema attuale del battere i record ad ogni costo, dove fanno acqua le nuove fron-tiere dell’esplorazione e che cosa è successo esattamente quando si è improvvisato chirurgo nell’auto amputarsi le falangi congelate. • Sir Ranulph, lei ha condotto una serie di spedizioni impres-sionanti nel corso della sua car-riera – vere e proprie imprese come la Transglobe Expedi-tion - che sono molto conos-ciute da tutti gli appassionati. Quindi, per cominciare, mi chiedevo può raccontarci una spedizione di cui i nostri fedeli lettori potrebbero non ancora averne sentito parlare?

Dunque, abbiamo condotto sette spedizioni alla scoperta del Rub al-Khālā (Empty Quarter Desert). Eravamo alla ricerca, e la trovammo solo durante l’ultima spedizione, della città perduta di Ubar detta l’Atlantide della sab-bia. Nella Sacra Bibbia è la città di Sodoma. Gli abitanti a causa della loro disobbedienza vennero bru-ciati dal Signore e la città scom-parve con loro; questo è il mito che conosciamo. I Musulmani ne hanno uno simile, ma la città si chiama Ubar e anche lì gli abitanti dai disdicevoli costumi vennero sterminati con la città. Questo è quanto iniziai a cercare nel 1967 ma trovai solo negli anni ’90. Non

feci la spedizione con Charlie Burton o Mike Stroud, i miei compagni durante le spedizioni polari; questo viaggio l’ho fatto con mia moglie Ginny che parla arabo e sa trasmettere davvero bene via radio. Le comunicazioni sono fondamentali nel deserto come nella neve. Continuavamo a non trovare i resti della città e ogni volta dovevamo cambiare sponsor. L’aiuto di Land Rover è stato ottimo hanno sempre credu-to in noi. Ma abbiamo dovuto coinvolgere altri attori ad esempio BP per il carburante o i negozi locali dell’Oman per gli approvvi-gionamenti. Abbiamo anche dovu-to assumere Beduini. Non fu una spedizione molto pubblicizzata, o meglio non furono pubblicizzati i sette tentativi fino a che non tro-vammo Ubar nei primi anni ’90 e fu uno dei più grandi scavi mai realizzati in Arabia. • La sua prima spedizione polare è stata in Groenlandia a metà degli anni 1970. Po-trebbe dirci qualcosa riguardo le attrezzature e la logistica di allora, e come si potrebbe forse paragonare ai kit delle spedizioni odierne?

Certo. Dunque le comunica-zioni avvenivano in HF e per circa due terzi della spedizione di solito non si poteva far altro che comunicare in codice morse (CW). La funzionalità era la stessa e non avevamo difficoltà col codice morse perché eravamo tutti veloci ma quando si poteva parlare direttamente era molto bello. Direttore delle operazioni

radio alla base in quel periodo era Ginny. Lei era il collante, teneva tutto sotto controllo insegnava agli altri come fare e sapeva far funzionare gli strumenti. Era bravissima a indovinare la giusta frequenza. Ricordo che in Antar-tide era riuscita a fare ponte radio con la stazione di Cove a Farnbor-ough mentre la base della British Antarctic Survey non riusciva a contattare il quartier generale di Cambridge. Le comunicazioni funzionavano così: una persona si occupava del trasmettitore a batteria per comunicare con il co-mando base. Quando arrivavamo al campo il primo che rientrava preparava il caffè bollente e met-teva la batteria al riparo sul tetto per farla caricare. Un altro- che dovrebbe essere il navigatore- era quello che in realtà si congelava pian piano perché doveva stare fuori fino a quando non trovava il punto esatto (è bene ricordare che non esisteva il GPS allora e non c’erano satelliti ai Poli). Usava due racchette da sci – chiaramente non di metallo – le piantava nella neve a 20 yard di distanze e tendeva il cavo. Concettualmente bisognava immaginare dove fosse Ginny e porre il cavo perpendicolare alle onde trasmesse. Se questo primo passo veniva svolto correttamente si poteva stabilire la connessione radio. Quindi Ginny grazie ai suoi calcoli predittivi sulla ionosfera trovava la miglior frequenza per tr-asmettere dal comando. Tornando al resto dell’attrezzatura, una volta fissato il cavo si agganciava un altro cavo coassiale a T che si face-

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di Jamie Bunchuk

SideTracked

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va passare dalla porta della tenda fino alla batteria sul tetto dove si sperava che la batteria si fosse scal-data e accesa. Quando non c’era sole bisognava tenere tra le ginoc-chia un dispositivo manuale che si attivava girando la manovella con forza e che dava carica statica alla batteria. Questo più o meno era come facevamo. Ma dovevamo sperare nella giusta frequenza e nelle buone condizioni atmosferi-che. Altrimenti, dovevamo tentare di consultare gli appunti di Ginny che ci aveva preparato mesi prima

e provare un’altra frequenza. E poteva passare davvero molto molto tempo prima di farcela. Ora ti dico in due parole cosa succede oggi: vai nella tenda, prendi il tuo bel telefono satellitare dalla tasca bevi una bella tazza di tè e chiami il numero esatto che volevi chiamare e parli quanto vuoi. Ed è quello che succede anche con la navigazione, ovvero non perdi ore con sestanti regoli e compassi a stabilire la rotta manualmente in base a posizione del sole o a stelle. Un’altra bella tazza di tè accendi

il GPS e individui esattamente la posizione. In poche parole, oggi è tremendamente più semplice.• Mi ricordo di aver letto che lei è stato subito attratto dallo stabilire record mondiali – e le sue spedizioni ebbero molti primati. Ritengo che oggi ci sia fermento a riguardo – mol-ti avventurieri cercano infatti record mondiali – ma ritengo che i criteri di assegnazioni siano un po’ più contorti. Mi riferisco al fatto che vediamo

persone che fanno spedizioni polari con particolari mezzi di trasporto per essere “i primi di una certa etnia o di genere/età” a farlo per la prima volta. Non pensa quindi che ques-to popolo di invasori polari dovrebbe capire meglio il con-cetto di “battere un record”?

Il problema è che ci sono solo due Poli e tanti che vogliono bat-tere un primato mondiale. Molti si sono inventati grandi spedizio-ni come ad esempio quella al Polo Magnetico che è una specie di passeggiata domenicale visto che già sono stati scoperti i Poli e rimangono sempre e comunque solo due. Ci sono una marea di persone assurde che arrivano dalla Norvegia o da dove sia che fanno sempre riferimento in realtà alla stessa cosa. E comunque sia i Norvegesi che noi abbiamo già stabilito tutti i record polari possi-bili cento anni fa. Non ci saranno nuovi Poli è inutile, e il numero di obiettivi polari non crescerà. Sem-bra una corsa senza meta, come i criceti nella ruota, all’arrembaggio degli ultimi scampoli di notorietà. Forse lei è nato parecchio dopo il periodo delle prime spedizioni polari – un po’ come me che sono nato parecchio dopo la scoperta dell’America. D’altronde ognuno fa ciò che può, e come lei ha detto nella domanda, forse qualcuno ci andrà in mountain bike al Polo o qualcosa del genere. Non crede?• Sì, se le spedizioni nascono per battere i record e non ci sono altri record da battere…

– certo è nell’umana natura. Ma con noi avventurieri polari si sta mettendo male. Per gli scalatori ci sono ancora molte vette di 6000 piedi da scalare e pareti impervie che nessuno ha mai affrontato. Quindi per loro c’è ancora molto da fare e nulla di artificioso da inventare. Riguardo i Poli, è molto facile per un cinico dire ‘bene lo stanno facendo solo per il gusto di farlo e lo chiamano record perché vogliono una sponsorizzazione’.• Qual è secondo lei la più dura sfida incompiuta riferita al mondo dei ghiacci perenni?

Attraversare l’Antartide du-rante l’inverno polare e tra i due equinozi. Visto che nessuno c’è mai riuscito, chiunque lo farà per primo usando un qualsiasi mezzo potrà stabilire un record e chiunque voglia farlo dopo dovrà magari andare con gli sci o senza l’aiuto del vento. Quindi ci sarà lo stesso problema di prima: donne in solitaria, over settanta, o che ci arrivano saltellando con un pogo stick e tanta crema antiemorroidale.• Lei ha raccolto una somma davvero considerevole da de-volvere in beneficienza oltre £16.2m. Come mai associa le sue spedizioni all’attività di fundraising?

Veramente sono accusato di essere un egoista selettivo, perché dopo il mio terribile infarto il giorno dopo ero al lavoro per la British Heart Foundation e quan-do ho avuto il cancro mi sono adoperato per il Marie Curie Can-cer Care. Non è così in realtà, ma possono comprendere il sospetto.

• Ma in termini più generali cosa unisce le spedizioni alla beneficienza?

Certo, ho fatto la mia pri-ma spedizione nei primi anni ’80,quando ho parlato con il Principe Carlo, che è stato il nostro patron per 40 anni. Lui voleva sempre sapere che cosa stesse patrocinando e chiese “Per quale causa stiamo facendo rac-colta fondi questa volta?” E io risposi “Per nessuna Sir. Non si tratta di raccolta fondi ma di una spedizione”. E lui disse “Ma crede-vo lo sapesse, quando patrocino un’iniziativa devo avere uno scopo benefico per raccogliere fondi”. E io chiesi “Certo Sir, quale ad esempio?” e lui mi avrebbe poi detto poco dopo: Sclerosi Multi-pla. Raccogliemmo £4.2m. Quindi come richiesto ufficialmente dal Principe iniziammo a fare racco-lta fondi. E scoprimmo che non eravamo certo liberi di scegliere. A volte le aziende ci dicevano a quali enti destinare i proventi se volevamo i soldi per la spedizione.• Quindi, intende che oltre ad essere un’attività lodevole in sé, è anche parte del pac-chetto per organizzare una spedizione via terra?

Non sempre. Io preferisco sceg-liere lo scopo benefico, ma a volte certi sponsor ti offrono milioni di sterline e ti dicono in prat-ica ‘Ecco i soldi, ecco lo scopo benefico per fare raccolta’, e devi scegliere se accettare o rassegnarti. Lei che farebbe?• É giusto dire che lei ha sop-portato molte difficoltà sia

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fisiche che mentali durante le spedizioni e, chiaramente, durante la sua vita in generale. Cosa vorrebbe dirci riguardo gli insegnamenti che lei ha tratto dalle sue esperienze?

Quello che noi facciamo come gruppo – tenga bene a mente che abbiamo lavorato insieme nelle spedizioni per più di trenta anni – è diviso in due categorie. Una è la categorie delle spedizioni che battono i record, l’altra è quella dedicata alle spedizioni legate alla raccolta fondi dove scegliamo mete più facili che abbiamo battu-to molte volte, come l’Eiger, l’Ev-erest, le maratone o cose del ge-nere. Quindi come detto facciamo due cose diverse. Ora, parlando di battere i record mondiali, cerchia-mo di capire perché i norvegesi o canadesi o chi ha provato non ci è riuscito prima di noi e perché non ce l’hanno fatta. E ‘stato molto spesso perché imbattendosi in grandi difficoltà hanno iniziato a soffrire fisicamente e forse anche mentalmente. Se solo avessero assecondato la propria attitudine o avessero evitato quel particolare rischio - o se avessero programmato le date in modo diverso, in modo da non trovarsi nel bel mezzo dei ghiacci sciolti dai raggi ultravio-letti – le cose per loro sarebbero andate lisce. Insomma se avessero fatto la loro buona pianificazione, avrebbero potuto evitare i rischi e

riuscire nell’impresa. Così il nos-tro programma più utile è quello di non subire imprevisti.• Ma lei non può negare che alcuni effetti degli imprevisti quali sofferenze o problemi, sono stati inevitabilmente par-te attiva della sua carriera. Non possiamo dire che le sue im-prese siano tutte andate lisce. Sono forse quelle esperienze a comportare una ricercatezza nella progettazione e nella re-alizzazione di tali progetti nel corso degli anni?

Sì. Quando abbiamo avuto problemi o perso dita o altro – a posteriori alcuni potrebbero chi-amarla cattiva programmazione – con i membri della squadra ci siamo sempre soffermati a chieder-ci cosa è successo e perché. E bi-sogna ricordare che si sta facendo qualcosa che non è mai stato fatto prima, che il record del mondo non è così lontano come pensavi e che prima non eri nessuno. Gli esperti ci hanno provato e non ci sono riusciti. Siamo sicuri che gli esseri umani possono realmente farlo? Può un uomo percorrere quella distanza, portando quella quantità di cibo e strumenti in una spedizione in solitaria? Non lo sai, anche se sei un medico come Mike Stroud, che è un nu-trizionista al top della carriera. Quindi si ha un certo grado di

incertezza su tutto, il che signifi-ca: come diavolo avresti potuto programmarlo diversamente visto che non disponevi di alcuna prece-dente esperienza per organizzarlo? Quindi le critiche dall’esterno sono difficili da sopportare.• Abbiamo verificato che po-tremmo essere alla fine della prima era polare degli avven-turieri e che le imprese stanno cominciando a scarseggiare. Se questo è il caso, dove pen-sa sia la prossima arena dove gli esseri umani spingeranno i confini dell’ esplorazione? Cosa succederà dopo questo periodo di transizione?

Se si va avanti così - cioè se lo hai fatto a piedi, qualcuno lo farà in mountain bike – tutto si ridur-rà così semplicemente ed andrà avanti senza nessuna obiezione. Ma al contrario delle avventure le esplorazioni - che sono due cose diverse- toccheranno gli oceani e lo spazio che sono le zone con maggiori obiettivi. Hai bisogno di essere molto intelligente e molto basso (infatti vengono per lo più dalla Francia e dall’ America) per entrare in un sottomarino - e dall’America e dalla Russia (e ora forse anche da India e Cina) - e per andare nello spazio. In termi-ni botanici, glaciologi e geologi, esistono innumerevoli luoghi che si possono esplorare, anche se in

quelle zone qualcuno c’è già stato prima. Per esempio un botanico nel bel mezzo di una giungla po-trebbe essere il primo a fare una scoperta, anche se possono già es-serci stati altri botanici in passato - che non avevano le conoscenze o gli strumenti che gli scienziati hanno oggi. Quindi nella stessa giungla può trovare un fiore che custodisce una sostanza chimica o medicina che sono completamente sconosciute alla scienza. Questo vuol dire esplorare.

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SEGUI LE AVVENTURE DIRANULPH FIENNES

• Questa domanda finale è sci-occa ma desidero fortemente saperlo, cosa ne ha fatto delle sue falangi dopo averle recise? Le ha buttate via?

No certo che no come avrei potuto. Non sono superstizioso ma dopo tutto il tempo passato insieme come avrei potuto but-tarle via? Le ho messe nel cassetto della scrivania. Poi due o tre anni fa sono scomparse, e ora non sap-rei proprio dirle che fine abbiano fatto.•

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PERÙ

AEROPORTO

LINGUA

MONETA

PREFISSO

INFO TURISMO

PERÙ,MADRE DE DIOS

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Alcune persone hanno una paura irrazionale dell’ignoto, altre, da sempre, ne sono attratte in maniera ugualmente irrazionale, spinte da un forte desiderio di conoscere nuovi mondi, vedere con i propri occhi ciò che solo in pochi hanno visto prima di loro o trovarsi di fronte a ciò che non è ancora stato ammirato da nessuno. Questo desiderio porta avventurieri di ogni età, uomini e donne, negli angoli più remoti del pianeta, su

sentieri poco battuti o addirittura inesistenti, mettendo alla prova il fisico e temprando lo spirito. In quest’era di viaggi comodi e veloci, comunicazioni istantanee e globalizzazione incalzante, pochi luoghi, nell’immaginario collettivo, sono ancora considerati lande relati-vamente inesplorate, dove l’ego dell’uomo viene ridimensionato dalla forza e imponenza della natura: le dune di sabbia e le formazioni di roc-

cia dei grandi deserti, le calotte di ghiaccio dei Poli, le immense distese d’acqua degli oceani, il tappeto verde, fitto e impenetrabile della foresta Amazzonica. È proprio nel cosiddetto polmone del mondo che abbiamo incontrato un avven-turiero d’altri tempi, la cui vita è cambiata in maniera inaspettata dopo un viaggio intrapreso con coraggio e un pizzico di incoscienza.

Oliver Valenti, 52 anni, è italiano di nascita e peruviano d’adozione. Nato in Puglia e cresciuto in Emilia, fin da bambino ha avuto una passione viscerale per gli uccelli, passione che lo ha por-tato a studiare ornitologia all’università. Ma, da amante dell’aria aperta, capì ben presto che non avrebbe trovato ciò che cercava nelle aule universitarie, decidendo di partire alla volta della foresta Amazzonica.

Il primo incontro tra Oliver e la sua amata foresta è avvenuto nel 1985, a soli 23 anni. È sta-to amore a prima vista, ma, come spesso succede con gli amori profondi e intensi, l’ha lasciato provato sia fisicamente che spiritualmente. Ar-rivato in Brasile, nella città di Belèm do Parà, Oliver decide di avventurarsi nel cuore della foresta, da solo e armato unicamente di gambe solide, spirito d’avventura e una volontà di ferro. Dopo nove mesi di cammino, attraversando un groviglio infinito di alberi secolari, risalendo fiumi e torrenti, schivando miracolosamente le mille insidie nascoste in quest’angolo remoto della terra, Oliver arriva nella città di Puerto Maldonado, in Perù. Quasi completamente disidratato e pericolosamente sotto peso, viene rimpatriato d’urgenza in Italia, dove passerà i successivi sette anni pianificando il suo ritorno nella foresta, con destinazione il bacino del Madre de Dios, nell’Amazzonia peruviana. Un angolo remoto di paradiso tropicale, il bacino del Madre de Dios è quasi interamente compreso all’interno del Parco Nazionale del Manù, dichi-arato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1987. Oltre ad essere il più vasto parco nazionale del Perù, la sua peculiare topografia, che spazia dalla bassa foresta pluviale a 250 metri s.l.m.

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I CUSTODI DEL BACINO DEL MADRE DE DIOS

Testo e foto

di Vanina D’Angelo

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fino a vette di 4200 metri ricoperte di foresta nebulare, lo rende la riserva naturale con il più alto tasso di microclimi e, di conseguenza, di biodiversità al mondo.

Nel 1992 Oliver riesce a finalmente a coronare il suo sogno e si trasferisce definitivamente in Perù, facendo la spola tra Cusco e il Madre de Dios. Inizia a lavorare come guardaparco, portando via fiume gruppi di turisti provenien-ti da tutto il mondo nella Zona Reservada, la parte della riserva aperta al pubblico. Nel 1997 diventa una delle poche guide ufficiali del parco, continuando l’attività iniziata cinque anni prima come guardaparco. Nel 2005, assieme alla moglie Carolina, peruviana di Lima, apre l’agenzia Manu Perù Amazon, continuando in proprio l’attività svolta fino ad allora per conto di terzi e dividendo il proprio tempo tra Cusco e la selva.

Da Cusco, crocevia del traffico internazionale di turisti che si recano in Perù alla volta del sito archeologico di Machu Picchu, parte il percor-so, circa 250 km, che porta alla foresta. Dopo essersi lasciata alle spalle il caos della ridente città coloniale, la strada asfaltata si srotola tor-tuosamente tra le Ande per circa 100 km fino alla piccola e isolata cittadina di Paucartambo, luogo ideale per fare una sosta, sgranchirsi le gambe e mangiare una succulenta trota prima di riprendere il viaggio. Una volta superata Pau-cartambo, la strada diventa stretta e sterrata, ad ogni curva ci si trova sull’orlo di un burrone e mentre si scende gradualmente di quota, la vege-tazione diventa più fitta e rigogliosa. Arrivati al passo di Tres Cruces la vista lascia senza fiato: le montagne digradano lentamente dal bosco nebulare alla foresta pluviale vera e propria, in un intrico di vegetazione impenetrabile, dove la vita di flora e fauna pare immune allo scorrere del tempo. L’alba vista da Tres Cruces offre uno spettacolo senza pari, con il disco infuocato del sole che si rispecchia perfettamente sul mare di nebbia e nuvole che copre la selva nelle prime ore del mattino. Arrivati in pianura si avvistano i primi insediamenti di coloni, trasferitisi nel

Madre de Dios tra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, dedicandosi inizialmente al commercio di legname e successivamente alla coltivazione di frutta tropicale. Dopo circa nove ore di viaggio, a seconda delle condizioni della strada, parti-colarmente soggetta a frane durante la stagione delle piogge, si arriva a Salvación, piccolo centro abitato compreso nella zona di pre-parco.

Poche abitazioni, una manciata di negozi for-niti solo dello stretto necessario, una scuola: Sal-vaciòn ha poco da offrire ai suoi abitanti, i quali si dedicano principalmente ad attività agricole o legate al turismo. È qui che Oliver e Carolina decidono di trasferirsi definitivamente nel 2010, dopo aver avuto in concessione un terreno grazie ad un’iniziativa del governo peruviano, volta ad incentivare l’opera di preservazione della fores-ta da parte di privati nelle zone non comprese ufficialmente all’interno del parco. Di fronte Sal-vaciòn, sull’altra sponda del fiume, inizia la Zona Cultural del Manù: decine di migliaia di ettari di foresta vergine non ancora integrati al resto della riserva, ceduti ad investitori privati purché questi ultimi si impegnino a portare avanti iniziative di riforestazione ed eco-turismo. Tra i vari lotti spicca quello dei nostri amici, l’unico a rimanere inutilizzato per circa un decennio a causa di un’imponente frana che rendeva pericolosa e dif-ficile qualsiasi attività. Ma Oliver e Carolina non si sono lasciati scoraggiare da questo dettaglio, dando vita al progetto Otorongo Blanco: usare i loro 23 ettari di foresta come base per la realiz-zazione di un centro botanico, il Manu Botanical Center, tramite la creazione di una discreta banca di semi, la coltivazione di specie di fiori e al-beri da frutto che attraggano uccelli, insetti e mammif-eri all’interno del terreno e la messa in sicurezza della parte franata. Nella loro parte di foresta hanno

Arrivati al passo di Tres Cruces la vista lascia senza fiato: le montagne digradano lentamente dal bosco nebulare alla foresta pluviale vera e propria, in un intrico di vegetazione impenetrabile, dove la vita di flora e fauna pare immune allo scorrere del tempo.

I CUSTODI DEL BACINO DEL MADRE DE DIOSTRIP • PERU

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già avviato la costruzione di un piccolo accam-pamento a impatto zero per ospitare volontari e turisti che vogliano conoscere quest’angolo di Amazzonia. Poche tende disposte sotto una tet-toia e niente elettricità, cibo cotto sulla legna che arde nella zona adibita a cucina e una sorgente di acqua che scorre limpida e pura direttamente dalle Ande come doccia: per poter apprezzare appieno quest’angolo di mondo bisogna saper rinunciare a qualche comfort.

Pur non essendo un’area protetta dal governo, la ricchezza dal punto di vista naturalistico della Zona Cultural non è affatto inferiore alle zone comprese all’interno del parco vero e proprio. Vi troverete a camminare per ore nella foresta, di notte, torcia alla mano, tendendo l’orecchio e aguzzando la vista, nella speranza di avvis-tare un armadillo che cammina solitario senza avere fortuna, oppure andando a trovare una comunità di Matsiguenka poco più giù lungo

il fiume avvisterete dalla barca, eccitati come dei bambini, giaguari e tapiri che gironzolano tranquillamente sulla riva. L’accesso alla Zona Reservada del Manù non è alla portata di tutti, economicamente parlando. Oliver e Carolina of-frono invece la possibilità a volontari, ricercatori e turisti provenienti da tutto il mondo di im-mergersi in quest’incredibile ecosistema a prezzi molto contenuti, non solo per ammirarne flora e fauna, ma anche tecniche di coltivazione e tipi di colture adottate per secoli dalle popolazioni indigene, mirate a non alterare le caratteristiche del suolo e mantenerne la fertilità.

Il progetto Otorongo Blanco, altro nome della specie di giaguaro che vive nella zona, vuole anche creare un corridoio turistico che porti dei benefici ai piccoli insediamenti come Salvaciòn, considerati esclusivamente come punto di passag-gio per i turisti che viaggiano alla volta di Puerto Maldonado o Boca Manu, proseguendo via fiume

dove si interrompe la strada sterrata. Tra le varie proposte esposte nel manifesto del progetto, spicca la creazione di un mercato regionale, dove gli agricoltori locali possano esporre e vendere i propri prodotti, assieme ad oggetti di artigianato locale, con l’obbiettivo ultimo della sufficienza agroalimentare, per porre fine alla dipendenza dagli approvvigionamenti provenienti dalla città, spesso impossibilitati dalle sfavorevoli condizioni della strada. Inoltre, tra gli obbiettivi a lungo termine, c’è la conversione dell’intera regione a fonti di energia rinnovabile, con lo scopo di minimizzare, se non addirittura far sparire, l’impronta lasciata dall’uomo all’interno di quest’ecosistema così delicato ed importante.

Dotati di grande ottimismo e un amore viscerale nei confronti dell’Amazzonia, Oliver e Carolina vorrebbero, col tempo, arrivare a integrare le tecniche di sopravvivenza delle popo-lazioni indigene, in particolare dei loro vicini Matsiguenka, alle tecniche di coltivazione dei

coloni provenienti da fuori, all’insegna di uno scambio che porti benefici ad entrambe le parti, oltre alla promozione di centri di medicina alter-nativa, della cui tradizione le tribù Matsiguenka e Amarakeri sono custodi da millenni. I loro sono obbiettivi difficili da realizzare a causa dell’isolamento in cui vivono, con pochi contatti con il resto del mondo e poco supporto da parte delle istituzioni, ma nonostante tutto, il progetto avanza a piccoli passi. Lo scorso inverno, grazie all’intervento di un gruppo di volontari italiani coinvolti nel progetto, la zona di terreno franata è stata messa interamente in sicurezza con la creazione di terrazzamenti di vari livelli dove sono stati piantati ben 1700 cespugli di vetiver, un arbusto dalle radici lunghe, ideale per stabi-lizzare il suolo e proteggerlo dall’erosione. Una piccola ma ben fornita biblioteca amazzonica è a disposizione a casa di Oliver e Carolina per i turisti che faranno tappa nel Madre de Dios. La lunga opera di riforestazione agroalimentare ha

I CUSTODI DEL BACINO DEL MADRE DE DIOS

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avuto inizio, con la messa in terra di manghi, pa-paie, banani, pacai, alberi del pane e altre decine di specie che riforniscono già, o riforniranno un giorno, l’accampamento di frutta fresca.

Oliver e Carolina vogliono rendere la per-manenza nel Madre de Dios un’esperienza indimenticabile, creando un rapporto tra uomo e territorio che vada oltre il semplice passaggio di turisti nella regione, cercando di mostrare la foresta come qualcosa di diverso da uno zoo all’aria aperta dove poter vedere animali vivere tranquillamente in libertà, ma piuttosto come una regione del mondo, la cui ricchezza dal punto di vista antropologico e la biodiversità dal punto di vista naturalistico meritano di essere conosciute, apprezzate e preservate da ogni citta-dino del mondo. •

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TRIP TIPS: LIBRI

TRIP TIPS: FILM

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9-12 Dicembre 2014 Anteo spazioCinema Milano

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Cartoline da BEIRUTdi Charles Nogier

TRIP Graphic NovelCARTOLINE DA BEIRUTTRIP • GRAPHIC NOVEL

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SHANGHAI Il contrasto è per eccellenza uno strumento per comprendere le diversità. A Shanghai i contrasti architettonici si integrano dando vita

ad una città ricca di sfumature.

Sono quattro le categorie di edifici che formano la città.

TRIP Architour

Testo e foto

di Caterina Tanini

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Gli spettacolari grattacieli di Pudong, costruiti dopo il 1994,

rappresentano il futuro di questo paese in continua crescita ed

apertura culturale ed internazionale.

Camminando tra Century Avenue e Lujiazui si ha l’impressione

di vivere in un mondo fantastico dove metropolitane,

sopraelevate pedonali e grattacieli si intersecano trasmettendo

una sensazione di dinamismo futuristico.

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Gli storici palazzi del Bund e delle concessioni

sono stati realizzati dai francesi e dagli inglesi

alla fine del diciannovesimo secolo.

Sono maestosi ed eleganti.

Lo charme della presenza di questo tipo di

edifici di fronte alla zona più moderna di

Pudong crea un sentimento di stupore seguito

da una sensazione di eleganza difficile da

spigare. Questi edifici sono nel tempo stati

trasformati in alberghi di lusso, musei di arte

contemporanea e sedi delle più importanti

banche asiatiche.

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Le vecchie case della concessione francese, diventate case cinesi ed ora in

grande fase di ristrutturazione, in particolare le villette, magari con giardino,

sono i luoghi più esclusivi di Shanghai. Le aziende le ristrutturano per

realizzare ristoranti di lusso, locali stravaganti o uffici prestigiosi. Intorno,

le casette meno splendenti, ma comunque affascinanti, sono ancora

rigorosamente piene di piumoni appesi alle finestre ad asciugare, mercati di

frutta, verdura ed ogni genere di parte animale.

All’interno di questi vicoli, che si snodano senza criterio tra nuovi e vecchi

palazzi della città è possibile incontrare un mix di facoltosi imprenditori

cinesi su macchine milionarie con abiti di lusso e lavoratori del mercato che,

mantenendo salde le tradizioni cinesi, lavorano con metà gamba nel proprio

negozio e metà in strada.

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I palazzi residenziali costruiti tra gli anni 90 e 2010 non sono

assolutamente affascinanti e la loro principale caratteristica è il

deterioramento che ne evidenza una costruzione realizzata con logiche

speculative e di breve periodo. Talvolta gli appartamenti alti di questi

palazzi mostrano viste mozzafiato tra il verde della concessione francese

ed i nuovi grattacieli che crescono a ritmi quasi allarmanti.

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Autore

Magazine

ROM

AN

IA

BUCHAREST BANEASA

RUMENO

EURO

(+ 40)

www.cyclingromania.ro

ROMANIA,CARPAZI

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102TRIP

Un tour in bicicletta tra le remote montagne rumene rivela un mondo di miti e tradizioni, orsi e lupi, e i piu comodi giacigli per dormire all’aperto.

CICLISMO IN MONTAGNA. I CARPAZI IN ROMANIA

Passiamo attraverso una palude, un prato fiorito sulla collina e raggiungiamo il picco di un impervia valle piena di campi di rabarbaro. Prima di inoltrarci, Nelu il cacciatore, si volta verso di me con un ghigno dicendo: “In questa folta vegetazione, gli orsi spuntano di colpo e ti si parano davanti!”

Vorrei tanto aver fatto fuori questa attrezza-tura da ciclista. Queste scarpe non fanno presa sul terreno e i pantaloncini sono troppo stretti per fare manovre repentine. Mi chiedo, come è possibile, aver seguito Nelu così in alto in queste vegetazioni spinose. Solo un’ora fa stavo facendo il tour della Romania in bici e ora, infuocato dalla grappa inseguo orsi in paesaggi degni di una storia dei Fratelli Grimm: scarpate scoscese ricoperte di fiori, gole profonde e foreste cupe. Guardo in basso e vedo nel fango ormai secco l’orma di un lupo. Nelu e la guida ciclistica Mircea Crisbasanu si avvicinano e confermano. Sì un lupo è passato di qui – forse ieri notte. Non ti preoccupare, mi rassicurano, attaccano solo d’inverno quando sono affamati. Alla nostra sinistra il limitare della foresta: buia e silenziosa. A destra un fragoroso ruscello nascosto. L’aria è limpida e ogni cosa si staglia perfettamente nella luce lunare.

Quanto può fare una buona grappa? Può anche indurre allucinazioni? L’aria frizzante dei Carpazi, i graffi ancora freschi delle piante sulle mie povere gambe nude. Sono al limite. Mircea e Nelu si addentrano nel rabarbaro sempre più giù incuranti della luce della luna che scompare e dell’effetto Lycra cioè Lyca –insomma i licantro-pi. Li seguo facendo del mio meglio per tenere il passo. Vogliamo scovare un orso. Nelu lo ha det-to e quando promette è serio – come la sua grappa.

Romania. Prima di arrivarci il nome mi provo-cava immagini sconclusionate. Da una parte l’elemento letteratura: William Blacker e “Lungo la via incantata” e Patrick Leigh Fermor con “Fra i boschi e l’acqua” – grandioso, evocativo – e pensavo – molto romanzato. Poi l’altro aspetto, molto meno attraente, fornito dai programmi

TV e dai giornali: orfanotrofi che cadono a pez-zi, il volto di Ceaucescu senza vita, i Romani (Rom) ammassati in pullman francesi, e orribili architetture staliniste. Alla luce dei due aspetti apparentemente incompatibili, mi sarei dovuto aspettare l’inaspettato; non so come, ma non ci ho pensato.

Il piano era di fare un’area montana sconos-ciuta ai più, rumeni e non. “E’ come un gomito nei Carpazi” mi diceva Mircea quando venivamo dall’aeroporto Baneasa di Bucarest (orribile architettura degli anni 50, esattamente come pensavo). “Vedrai. E’ a solo un giorno di guida da Bucarest, una cima selvaggia e isolata. Ti va bene in caso dormire dove capita?”

Mircea è un giovane rumeno che ha imparato ad amare la bici mentre studiava ingegneria in Olanda. E’ ritornato in patria per motivi eco-nomici e invece di fare la guerra civile, ha aperto un’agenzia di tour per ciclisti. Lui è davvero un ottimo compagno di viaggio, anche se si esalta un po’ troppo all’ idea di vedere orsi in grandi e buie foreste di rabarbaro. Abbiamo lasciato la macchina nella piccola città di Berca ai piedi del monte, e il giorno dopo, preparate le bici, siamo partiti. Intorno a noi piccole case, ognuna col suo bel prato, alberi di visciole e vigneti. Ogni casa fuori ha una panca, dove i residenti possono sedersi e guardare il mondo che scorre. La mag-gior parte sono anziani. Molti giovani hanno abbandonato la ridente campagna per i piaceri della città.

I saluti sono molto importanti: “Baciamo le mani” è la mia preferita; ho imparato e mi sono esercitato e si dice “saru’mana!”. Poco dopo ho scoperto che si rivolge solo alle signore anziane, quindi ho cambiato in: “sa traiti”, ovvero “Lun-ga vita a te”, che però va detto solo a uomini anziani. Difficilmente mi rivolgono un sorriso, ma non a causa del mio brutto accento rumeno. Si tratta di diffidenza, non di scortesia. Andan-do in bici scopro che da queste parti è come si racconta nei romanzi. O forse, succede perché la regione è stata talmente tante volte invasa che

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di Kevin Rushby

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quando vedono qualcuno con l’elmetto - anche se di plastica - fanno pochi convenevoli. “Il luo-go dove ci stiamo dirigendo si crede sia l’antica Colchide” mi racconta Mircea. “Dove Giasone e gli Argonauti vennero alla conquista del vello d’oro e dove sgorga la fonte dell’eterna giovinez-za”. Dice seriamente? Non ne sono certo.

La meta degli Argonauti è immaginata nelle coste orientali del Mar Nero, ma non ho alcuna obiezione a che venga trasferito. E’ molto affas-cinante vedere come le persone facciano propri miti e le leggende, e spostino la storia nelle loro terre vestendole così di mistero. Basta pensare al mito di Glastonbury e Giuseppe di Arimatea. Mircea sta sorridendo. “C’è una fonte nelle mon-tagne dove stiamo andando e dicono che la sua acqua faccia ringiovanire.” Al momento siamo però distratti dai pensieri di lunga giovinezza proprio perché nella cappella vicino a noi si sta svolgendo un funerale. Mi affaccio nella cappella e mi porgono una candela accesa, e la sua base è avvolta in un fazzoletto di cotone tradizionale che tengo premuto nella mia mano. E’ morta una suora; giace in una bara aperta. Le persone del luogo e altre suore svolgono una semplice e toc-cante cerimonia. Seguendo le indicazioni di una suora anziana, metto la candela accanto all’urna posta vicina al corpo e tengo il fazzoletto.

Di nuovo in marcia. Troviamo un pozzo e riempiamo le borracce. Rispetto alle fonti e qua-lunque proprietà rivendicata, posso dire che l’ac-qua locale è deliziosa. Si potrebbero comprare le classiche bottiglie di acqua minerale, ma sarebbe

sciocco visto che quella più buona è anche gratis. Le per-sone del luogo la portano con se nei bicchieri ed è chiaro che sia potabile. Ogni tanto un cartello dice

“Gentile viaggiatore, bevi con gioia quest’acqua buona e pulita, e disseta la tua bocca”.

Ci spingiamo oltre pedalando su aspre strade di campagna, riposandoci nei prati fioriti. Da queste parti diciamo che quasi non esiste l’au-tomazione. Gli uomini usano attrezzi come falci a manico lungo e forconi in modo talmente sa-piente da essere precisi anche quasi digiuni solo con un bicchiere di grappa in corpo.

Nel tardo pomeriggio attraversata la dorsale iniziamo a scendere verso la città di Colti dove passiamo la notte. Per strada ci salutano due ragazzi Alexandra e Andrea che poi avremmo scoperto essere i figli dei nostri albergatori Diana e Gigel. Vivono in una deliziosa piccola azienda agricola con un maiale, una mucca, due cani e un branco di galline. Come molti altri da queste parti sono autosufficienti e ben presto siamo a tu per tu con le loro materie prime: mici, tipici sal-sicciotti conditi e cotti alla griglia accompagnati da mamaliga (polenta), formaggio fatto in casa e ciorba (zuppa vegetale), il tutto annaffiato da una immancabile e tipica grappa, tuica.

Al calare della notte, Gigel ci porta nel nostro dormitorio: il fienile. Ho avuto qualche riserva su questo punto perche ero convinto che lì avremmo dovuto combattere con gli insetti tutta la notte e non avremmo avuto vie di fuga da orsi cani o lupi. In ogni caso Mircea diceva che sarem-mo stati comodi. Attrezzato un telo di plastica contro l’umidità dispieghiamo i sacchi a pelo. Subito mi rendo conto di quanto mi sbagliavo. Era come dormire su un letto di piume alto come una casa. Mi sono svegliato una volta sola ed ho ammirato le stelle. L’alba è arrivata confondendo con la nebbia gli alberi di noce. Ci siamo alzati e siamo andati al cottage per la colazione con tutti prodotti della loro terra - uova, formaggi, latte, pane e grappa.

Dedichiamo la giornata alla pedalata in salita: esplorando la foresta e le cime delle valli trovia-mo dei ruderi; sono i resti di chiese rupestri di di eremiti venuti qui per fuggire dalle invasioni dei Mongoli e degli Ottomani. Ci fermiamo

La leggenda dice che solo il Re Luanei di Colchide era autorizzato a bere il

divino nettare. Ci sono tante altre storie, ci ha detto Andrea una ragazza di 13

anni: grotte che ti trasportano in luoghi lontani, e caverne dove le candele non

possono essere accese. “Non sono storie”, insiste con tutta la certezza che la

gioventù sa dare “E’ tutto vero”.

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spesso perché nessuno di noi riesce a resistere alle fragole selvatiche o ai gelsi. C’è una cappella accessibile solo da una scala su una parete di roccia, altre sono nas-coste all’interno di nicchie naturali o ai piedi di enormi dirupi. Alla fine come aveva assicurato Mircea arriviamo alla fonte della eterna giovinez-za ma scopriamo che un agricoltore l’ha chiusa con un grosso coperchio di cemento. Era così pesante che ci ho messo un eternità a spostarlo e solo per ottenere qualche sorso di birra sulfurea. La leggenda dice che solo il Re Luanei di Col-chide era autorizzato a bere il divino nettare. Ci sono tante altre storie, ci ha detto Andrea una ragazza di 13 anni: grotte che ti trasportano in luoghi lontani, e caverne dove le candele non possono essere accese. “Non sono storie”, insiste con tutta la certezza che la gioventù sa dare “E’ tutto vero”. La zona è certamente misteriosa, piena di strani fenomeni come i vulcani di fango freddo gorgogliante e fuochi fatui color ambra.

Il giorno seguente sarebbe stata una vera mara-tona ciclistica quindi ci siamo messi in moto molto presto. Alle otto eravamo già a pedalare giù per la valle, salutando i contadini al lavoro sui loro aratri trainati da cavalli - ci sono più car-ri che macchine da queste parti. Ci fermiamo nei pressi degli alberi di visciole, un frutto davvero delizioso e non so come ho fatto a vivere così a lungo senza. Facciamo un passaggio spericolato su un ponte di corda poi qualche miglio su una strada principale. Mircea si scusa per il traffico più volte: d’altronde c’è traffico come il giorno di Natale sulla statale secondaria della Northum-bria. Svoltiamo su una pista di montagna aspra e iniziamo a salire costantemente attraverso foreste di pini scuri.

Mentre ci avviciniamo al passo, una magnifica vista si apre davanti a noi: valli di profonde for-este, creste esposte e ogni tanto qualche borgo. Purtroppo, in prossimità di uno di questi pren-

diamo una direzione sbagliata e finiamo la nostra scalata con una salita in un sentiero pieno di solchi che sfianca anima e corpo. Poi l’immagine miglio-

ra. C’è un’ ansa di legno contenente una brocca di acqua fresca per i viaggiatori, le mucche nas-condono l’etichetta rossa dietro le orecchie, e le pozzanghere sono pieni di gracchianti rane felici. Nel tardo pomeriggio di domenica, raggiungiamo la cittadina di Lopatari appena il sole tramonta.

“Potremmo arrivare alla pensione in circa un’ora da qui,” dice Mircea, “ma c’è un cacciato-re, vive nelle vicinanze ...”

Nelu si rivela essere un personaggio, come d’altronde tutta la sua famiglia. Suo padre, un pastore, vive una vita totalmente autosufficiente, rifiutandosi di andare in città. Nelu possiede un camion con il quale fa un po’ di soldi, ma per il resto segue l’esempio di suo padre, riempie la sua dispensa con vari cibi che caccia e prepara lui stesso: cervi e cinghiali; poi conserve e con-dimenti. Ci accomodiamo giù per una festa: cinghiale con polenta, funghi selvatici con i sot-taceti, cervo stufato con cavolo e pane, formaggi e dolci, accompagnati da un discreto rosato fatta in casa e grappa.

Nelu ci racconta storie di caccia: sulla lince che è così veloce e sfuggente, sui lupi che ven-gono in inverno, sull’orso con i cuccioli che lo inseguivano su un albero e quel giorno fu il suo zaino a salvargli la vita strappato dalla sua schie-na. Quando abbiamo finito, al calar del sole, ha spinto indietro la sedia dicendo: «Forza vieni. Andiamo a vedere gli orsi.”

Ecco, ora torniamo alla foresta di rabarbari, dove stiamo seguendo le tracce. “Queste sono di una mamma col cucciolo” dice Nelu indicando alcune orme. “Sono recenti ma si sono arrampi-cati su quindi forse li abbiamo persi”.

Camminiamo svelti e silenziosi, e dal prato spunta come una fiammella avvolta dai fiori. Si

tratta di fuochi fatui che fanno una fiammella gialla. Smettiamo di cercare l’orso e ci sediamo accanto questa fonte naturale, godendo del calore e della magia del posto.

Come dice Nelu, non ci sono storie o leggen-de dietro questi fuochi. “Ma come non li avete nel vostro paese?” - mi chiede. In questo angolo dimenticato, dove esistono vulcani di fango fred-do, caverne che ti trasportano in luoghi lontani e fonti di eterna giovinezza, i fuochi fatui non sono certo nulla di strano. •

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In questo angolo dimenticato, dove esistono vulcani di fango freddo, caverne che ti trasportano in luoghi lontani e fonti

di eterna giovinezza, i fuochi fatui non sono certo nulla di strano.

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Quella che segue è la (splendida) introduzione a The Virago Book of Women Travellers di Mary Morris, ovvero un affascinante percorso nella letteratura di viaggio al femminile.

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L’ormai defunto John Gardner disse una volta che nella storia della letteratura esistono solo due trame: o si parte per un viaggio o uno straniero arriva in città. Alle donne per molti anni è stato impedito di viaggiare, e ciò le ha lasciate con in mano una sola possibilità: aspettare lo straniero. Nella narrativa al femminile, infatti, non si è mai sviluppata una tradizione picaresca e, se è vero che nell’ultima parte del ventesimo secolo si è verificato un cambio di tendenza, la letteratura femminile, a partire dalla Austen fino alla Woolf, è in larga parte una letteratura d’attesa. Attesa, di solito, per l’amore.

Davanti alla negazione della libertà di vagare al di fuori di sé stesse, le donne si sono concentrate sulla loro interior-ità, sulle loro emozioni e sulle loro relazioni private, spesso d’amore, sempre caste. Elaine Showalter discute di questo fenomeno nel suo saggio Una letteratura tutta per sé: due secoli di scrittrici inglesi: «Le donne, a cui era proibito parte-cipare alla vita pubblica, furono obbligate a coltivare le loro emozi-oni e a sopravvalutare l’amore romantico… Le emozioni accorre-vano nel tentativo di riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di esperienze».

Per secoli la possibilità che una donna viaggiasse senza un accom-pagnatore, uno chaperon o il mari-to venne considerata inaccettabile. Viaggare significava esporsi a rischi, non solo dal punto di vista

fisico, ma anche morale. Un brici-olo di libertà poteva trasformarsi in un’arma pericolosa. Erica Jong ha scelto bene l’espressione ‘pau-ra di volare’ come metafora dei primi incerti passi che una donna compie sul percorso che la porta al risveglio sessuale. Il linguaggio tipico dell’iniziazione sessuale è sorprendentemente simile al linguaggio del mondo dei viaggi. Parliamo di exploit o di avventure sessuali. Il corpo e il mondo sono oggetti da esplorare e, da sempre, i grandi “esploratori”, che fossero Marco Polo o Don Giovanni, sono stati maschi. Gulliver comincia i

suoi famosi viaggi dopo la morte del suo Master Bates (in italiano maestro Bates, si discute da tempo sul gioco di parole sottinteso tra Master Bates e il verbo inglese masturbate, masturbarsi) da cui ha imparato il mestiere. Davanti al fallimento dei suoi affari, si con-sulta con sua ‘Moglie’ e si decide a ‘partire di nuovo per il Mare’. Voli ed evasioni, il bisogno di fuggire dai vincoli e dalla routine della vita domestica, di partire e, allo stesso tempo, di conquistare:

questo prendere il volo dal nido è una modalità tipica dell’esperien-za maschile.

Nonostante ciò, alla fine del diciannovesimo secolo Maud Parrish, in procinto di partire per lo Yukon, non era molto diversa da Gulliver: «Così me ne andai. Con piú foga di quella che avrei avuto se fossi stata inseguita dai leoni. Senza dirglielo. Senza dirlo a mia madre o a mio padre. Non esisteva libertà a San Francisco per le donne comuni. Ma io ne avevo trovata. Per le ragazze niente lavori negli uffici, come succede ora. Ti potevi sposare, diventare una vec-

chia zitella o andare al diavolo: queste le alternative». In modo simile Flora Tristan, correndo un grosso rischio economico e sociale, lasciò il marito e, come un paria, viaggiò il Perù in lungo e in largo.

Queste donne – e molte altre tra quelle incluse in questa antologia – sono le eccezioni. Trovo significativo e illumi-nante che le stecche dei corsetti femminili si chiamassero in

inglese ‘stay’, parola che significa anche ‘stare’, ‘rimanere’: chiunque indossasse qualcosa chiamato così, difficilmente sarebbe andato lontano. E non avrebbe fatto altrettanto nemmeno una donna con i piedi fasciati. Camuffate come canoni estetici tipici di un periodo o di una cultura, la costrizione del corpo in rigidi cor-setti dell’Occidente e la fasciatura dei piedi in Oriente erano essen-zialmente modi per limitare la libertà di movimento delle donne.

Lady Mary Wortley Montagu, una scrittrice che partì con suo mar-ito per la Turchia nel 1716 e che divenne famosa per le sue lettere, riporta un interessante aneddoto riguardo le stecche dei corsetti. In seguito a una visita ad un bagno turco di Sofia in cui le altre donne l’avevano pregata di svestirsi, Lady Montagu scrive: «Alla fine venni spinta ad aprire la mia camicia e a mostrar loro il mio corsetto; il che tolse loro qualsiasi soddisfazione perché, come notai, si convinsero che ero così ben imprigionata in quell’affare di cui attribuirono l’invenzione a mio marito, da non potermene liberare da sola».

È stato detto che le donne non avrebbero quello che Baudelaire chiamava il gout du gouffre, l’at-trazione per l’abisso. Anche Lou-ise Bogan ha scritto che le donne non posseggono dentro di sé uno spirito selvatico. Ed Elizabeth Bishop nella sua poesia Questions of Travel riflette sull’ambivalenza insita nel viaggiare, quando parla di andare ‘là’, in un altro posto, mentre desidera di essere ‘qui’, a casa. Di certo queste riflessioni non indicano, da parte delle donne, un autentico desiderio di viaggiare, né tantomeno di scriv-

ere di viaggi. Ma ci sono state co-munque molte donne che hanno viaggiato lungamente, scrivendo con impegno dei propri viaggi: non sempre le loro voci sono state ascoltate ed apprezzate.

Ho cominciato a riflettere sulla letteratura di viaggio diversi anni fa. A metà degli anni 80 l’inserto domenicale del New York Times, il New York Times Sunday Book Re-view, pubblicò un numero speciale dedicato alla narrativa di viaggio, che recensiva venticinque o trenta libri da poco pubblicati, in larga parte scritti da uomini. Mi sem-

brò strano che quell’inserto avesse citato così pochi libri scritti da donne. Mi chiesi perché le donne, che senza dubbio viaggiavano (diverse erano state mie compagne di viaggio), non stessero scrivendo dei loro viaggi. Forse non viaggia-vano come gli uomini o forse non

pensavano che le loro esperienze fossero paragonabili a quelle degli uomini. La paura dello stupro, che arrivi attraversando il Sahara o an-che solo una città di notte, come scrive Robin Morgan nel racconto incluso in questo volume e tratto da Il demone amante: sessualità del terrorismo, influenza in modo drammatico le modalità in cui le donne si spostano. Ma ci sono altre forme di molestia, molto piú subdole. Christina Dodwell arriva a fingere di avere le pulci quando un soldato si rifiuta di lasciare il luogo dove lei campeggiava di notte. Dal resoconto di Leila Phil-ip impariamo che nel Giappone rurale la donna dovrebbe stendere i panni del proprio marito su un filo diverso da quello dove stende i suoi panni impuri. Nel leggere gli scritti di quei viaggiatori degli Anni ’80 scoprii che le loro es-perienze non corrispondevano o confermavano la mia. La maggior parte di questi uomini esplorava un mondo che era essenzialmente esterno, rivelando solo frammenti di ciò che erano, delle persone che amavano o di quelle che gli mancavano. I loro meccanismi interiori nella gran parte dei casi (ma con eccezioni meravigliose come Peter Matthiessen e il suo Il leopardo delle nevi, Henry Miller e il Colosso di Marussi e Colin Thubron e le cronache dei suoi viaggi in Cina e Russia) erano nascosti, oscurati.

Lawrence Durell, descrivendo Freya Stark, diceva: «Una grande viaggiatrice è una viaggiatrice introspettiva: mentre si fa strada

Il linguaggio tipico dell’iniziazione sessuale è sorprendentemente simile al linguaggio del mondo dei viaggi. Parliamo di exploit o

di avventure sessuali. Il corpo e il mondo sono oggetti da esplorare e,

da sempre, i grandi “esploratori”, che fossero Marco Polo o Don

Giovanni, sono stati maschi.

Lawrence Durell, descrivendo Freya Stark, diceva: «Una grande viaggiatrice

è una viaggiatrice introspettiva: mentre si fa strada all’esterno, fa lo

stesso dentro di sé». E infatti, per molte donne, il paesaggio interiore

è importante tanto quanto quello esterno, chi osserva tanto quanto

l’oggetto osservato.

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di Mary Morris

Introduzione a The Virago Book of Women Travellers

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all’esterno, fa lo stesso dentro di sé». E infatti, per molte donne, il paesaggio interiore è importante tanto quanto quello esterno, chi osserva tanto quanto l’oggetto osservato. Il paesaggio è plasmato dalla consapevolezza della persona che lo attraversa. Si instaura un dialogo tra ciò che accade all’in-terno e all’esterno. La presenza di una persona amata, com’è il Jim di Isabella Bird, nel suo brano tratto da Una lady nel west: tra pionieri, serpenti e banditi sulle Montagne Rocciose o la sofferenza

per un’assenza dolorosa, nel caso della profonda nostalgia di Mary Wollstonecraft per la mancanza delle figlie, durante il suo viaggio attraverso la Scandinavia, sono parte integrante dell’esperienza di una donna. Cosa significa innamorarsi o come si possa riuscire ad evitare una situazione difficile e sessualmente pericolosa. Spesso esse sono testimonianza di esperienze femminili in culture diverse; per esempio, la Bridges mostra solidarietà alle donne mormone per la condizione che le

affligge, mentre Anna Leonowens racconta degli abusi che dovevano sopportare le donne degli harem del Siam.

«Sono un conoscitore della stra-da» dice l’attore River Phoenix nel film Belli e Dannati. Ma forse per le donne le strade sono diverse. La realtà di una donna sulla strada è spesso una realtà personale. Ciò non significa che una donna viag-giatrice non sia politicamente con-sapevole, preparata storicamente o che non si ponga in contatto con le tradizioni e con la lingua di un luogo. Significa però che una donna non può viaggiare senza essere consapevole della propria fisicità e delle limitazioni che il suo sesso le impone. Isabelle Eber-hardt, così come Sarah Hobson, viaggiò in incognito, travestita da uomo. Eliza Farnham, mentre attraversava la frontiera americana nel 1852, si trovò a dover mettere il suo baule e il suo stesso corpo contro la porta della stanza dove si stava lavando, per evitare che un uomo vi entrasse. E Kali (Gwen-dolyn MacEwen) nell’ Holyland Buffet racconta di esser stata presa a sassate da alcuni ragazzi arabi che pensavano fosse una sabra, una donna israeliana, e non una ‘donna in viaggio da sola’.

Il proprio sesso é un elemento di legame tra le donne viaggiatrici. Le donne ripongono fiducia nelle altre donne. Si raccontano i segreti legati al loro ciclo, ai loro figli, ai mariti, agli amanti e alle difficoltà delle proprie vite. Lo fanno nei bagni, sugli aerei e sulla strada, spesso davanti a perfette sconos-

ciute. Condividono segreti. Non pescano né vanno a caccia insieme, ma possono arrivare a parlare di un aborto e di una vita miserabile, come decide di fare una donna iraniana davanti a Sarah Hobson, nel momento in cui capisce che la Hobson non è un giovane uomo, ma una giovane donna.

Il nostro obiettivo nello sceg-liere i brani per questa antologia è stato trovare i migliori scritti di viaggio composti da donne. Forse esistono donne che hanno scalato vette più alte, che si sono inoltrate più a fondo nella giungla o più famose, ma il nostro interesse principale era rivolto alla qualità della scrittura e alla visione che le stava dietro. Allo stesso tempo, desideravamo riunire un buon numero di testi significativi, rappresentativi del mondo delle donne e dei loro viaggi, portando esempi sia dei primi che dei piú recenti esperimenti di letteratura di viaggio femminista.

Alcune di queste donne sono osservatrici del mondo in cui vaga-bondano. I loro scritti sono ricchi

di descrizioni, notevolmente det-tagliati. Mary MacCarthy comuni-ca la vitalità della città di Firenze, mentre il saggio di Willa Cather su Lavandou prelude alle descrizioni della campagna francese che si trovano nei suoi romanzi succes-sivi. Il brano di Barbara Grizzuti Harrison riguardante il comune di San Gimignano, assomiglia a una canzone d’amore. Nel ritratto sensuale di Digione tratteggiato da M.F.K. Fisher si può addirittura sentire il profumo di mostarda che ne riempie le vie. Altre scrittrici si dimostrano partecipanti piú attive della cultura dei posti che visitano: è questo il caso di Leila Philip, che raccoglie il riso insieme a severe donne giapponesi, o di Emily Carr, che guadagna il rispetto e la fiducia del capo femmina di un villaggio indiano della regione set-tentrionale del Canada, dove si era trasferita per ritrarre in dipinto gli eccezionali totem della regione.

Spesso sono narratrici, che tessono le storie delle persone che incontrano. E noi finiamo col ritrovarci mossi dalle storie che

queste autrici raccontano, storie che sentiamo nascere dalla loro peculiare sensibilità di donne: Flora Tristan riporta la vicenda di un comandante di nave (un personaggio marqueziano, se ne è mai davvero esistito uno) infelice, all’epoca dell’incontro, perché separato dall’adorata moglie da anni, a causa di una promessa prenuziale estorta dal suocero; Mildred Cable e Francesca French raccontano l’aneddotto di un dissidente cinese fuggito in Mon-golia che si informava di nascosto sullo stato della sua famiglia. E Anna Leonowens (famosa come Anna del film Il re ed io) racconta l’episodio di un bambino deriso e di una madre punita, nonostante le suppliche del figlio, sotto il re-gime autoritario del Re del Siam.

In alcuni casi si supera la questione di genere, come per l’eccezionale storia di Alexandra David-Neel, che salva sé stessa e il proprio figlio adottivo dalla morte per congelamento in un gel-ida pianura nell’inverno tibetano, innalzando la temperatura del suo

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corpo attraverso la pratica tibet-ana del thumo reskiang, o per l’ar-guzia acerba di Freya Stark e per il nudo coraggio di Dervla Murphy o di Christina Dodwell. In alcuni casi queste donne hanno assunto ruoli di primo piano tradizional-mente di prerogativa maschile. Ad esempio, nel 1894 Isabella Bird divenne la prima donna membro della Royal Geographical Society, seguita da Mary Kingsley e Kate Marsden. Gertrude Bell divenne la principale esperta di Medio Oriente per l’Impero Britannico a Baghdad insieme a T. E. Lawrence.

Forse partirono come spiriti liberi, come fece Maud Parish, che si avviò per l’Alaska insieme al suo banjo. Forse il loro obiettivo era curiosare tra i giardini di Persia, come fu per Vita Sackville-West, o saltare su carri merci, per vagabon-dare attraverso l’America, come fece Box-Car Bertha. Ognuna di queste alternative aiuta a com-porre un mosaico delle esperienze femminili sulla strada. In ciascuno di questi casi, lo sguardo è person-ale ed unico. Ognuna di queste donne aveva un motivo che la spingeva ad andare. Alcune, come le Lady, Mary Kingsley e Isabella Bird, partirono – come riporta Mabel Sharman Crawford nell’es-tremamente progressista Plea for Lady Tourists – perché erano «donne indipendenti economi-camente e senza legami domestici». Alcune, come Lady Montagu e Isak Dinesen, accompagna-vano i loro mariti, altre,

come Maud Parrish, scappavano per liberarsi dalla stretta della vita domestica. Kate Marsden, Mildred Cable e Francesca French parti-rono come missionarie.

Altre ancora sembravano in fuga: a Isabella Bird venne detto che viaggiare avrebbe curato i suoi problemi alla schiena e lei non si fermò più; Isabelle Eberhardt scappò da una infelice vita aris-tocratica rinunciando addirittura ai propri diritti di nascita. Sia Mary Kingsley che Dervla Murphy partirono dopo la morte dei gen-itori, già sofferenti, che avevano accudito per anni. Ethel Tweedie cominciò a viaggiare e a scrivere dopo aver sofferto un drammatico lutto (la morte del marito e dei figli). Sia che si trattasse di curi-osità per il mondo o di fuga da tragedie personali, queste donne hanno affrontato i loro viaggi con intelligenza, arguzia, compassione ed empatia per le vite degli altri.

Alcune, davanti all’esperienza dello scrivere lontane da casa, sem-brano aver prodotto i loro migli-ori capolavori. Lady Montagu era una scrittrice prolifica sia di prosa che di poesia (è la sola poetessa inglese dell’ottocento ad avere una biografia critica a lei dedicata), ma l’unico suo libro rimasto sempre

in stampa dal momento della sua pubblicazione è la sua raccolta di lettere scritte dalla Turchia. Quan-do Mary Shelley (figlia di Mary Wollstonecraft) e suo marito, il poeta Romantico Percy Shelley, vennero in Italia, portarono con loro un libro: il viaggio di Mary Wollstonecraft in Scandinavia.

Sebbene Isak Dinesen e Rebecca West fossero famose autrici di romanzi già ai loro tempi, le opere considerate i loro capolavori sono, rispettivamente, i loro scritti sull’Africa e sulla Jugoslavia. Ab-biamo poi incluso scrittrici come Annie Dillard e Joan Didion, non considerate principalmente autrici di narrativa di viaggio, ma la cui capacità di sentire un luogo serve come catalizzatore per riflessioni piú ampie sul mondo.

Molte delle donne presenti in questa antologia rappresentano, come ho detto prima, ciò a cui Crawford si riferisce con queste parole: «donne economicamente indipendenti e senza legami domestici». Le prime viaggiatrici erano donne delle classi più agiate delle società europee, immanca-bilmente bianche e privilegiate. Questo trend non è cambiato molto negli ultimi due secoli e sulla letteratura di viaggio pesano

tuttora gli ultimi stras-cichi del colonialismo. La letteratura di viag-gio, sia maschile che femminile, è in attesa dell’ampia varietà di racconti provenienti da voci e prospettive multiculturali. Come

Forse partirono come spiriti liberi, come fece Maud Parish, che si avviò per l’Alaska

insieme al suo banjo. Forse il loro obiettivo era curiosare tra i giardini di Persia, come fu per

Vita Sackville-West, o saltare su carri merci, per vagabondare attraverso l’America, come fece Box-Car Bertha. Ognuna di queste alternative aiuta a comporre un mosaico delle esperienze

femminili sulla strada. In ciascuno di questi casi, lo sguardo è personale ed unico.

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femministe, però, le autrici qui raggruppate rivelano visioni sorprendentemente progressiste per l’epoca in cui hanno scritto e vissuto. È difficile non rimaner colpiti dall’osservazione di Lady Montagu secondo cui le donne turche sarebbero le piú libere al mondo, perché libere di nascond-ersi dietro un velo, spostarsi come e dove desiderano e concedersi ro-mantici rendesvouz con il proprio amato. Succede altrettanto con la richiesta della Tweedie per l’elim-inazione delle selle da amazzone, invenzioni, secondo lei, assurde, pessime per la salute della donna e non adatte a cavalcare seriamente, o con l’indignazione della Bridges per la poligamia in America.

Abbiamo cercato di raccogliere lavori di diverso tipo allo scopo di mappare il femminismo, su un periodo di oltre trecento anni, attraverso le donne e i loro scritti.

In alcuni casi (Maud Parrish e Vivienne DeWatteville, per citarne due) le uniche tracce lasciate dalle autrici sono i loro scritti di viag-gio, e fornire informazioni biogra-fiche su di loro si è rivelato dif-ficile. Per diversi motivi, abbiamo deciso di non includere i viaggi ‘non volontari’. Sarebbe sembrato casuale e forse anche irrispettoso giustapporre scritti di schiavi in fuga, di pionieri, storie di guerra, di migrazioni e di spostamenti forzati, a racconti su traversate del deserto, guadi di paludi e mon-tagne scalate per scelta.

I nostri criteri sono stati molto specifici e in alcuni casi abbiamo scelto di non includere scrittrici molto famose per i loro scritti di viaggio perché le loro visioni o le loro esperienze non ci sembrava-no adatte all’obiettivo di questa raccolta. Ci rammarichiamo per l’assenza di sguardi piú multicul-

turali. Speriamo che in futuro le fratture di genere e di razza si ri-comporranno; per ora le voci che vi presentiamo con questa antolo-gia sono ciò che abbiamo trovato. Dato che viaggiare è anche tornare, e non solo partire, vorrei ritornare all’inizio di questa introduzione per riprendere l’affermazione di John Gardner, secondo cui esis-tono solo due trame nella storia della letteratura. Da Penelope ai giorni nostri, le donne hanno sempre aspettato: una telefonata, una proposta di matrimonio, il ritorno del loro prodigo uomo dal mare, dalla guerra o da un viaggio di lavoro. Aspettare come pazienti dal medico, come pendolari per l’autobus, come carcerati per la libertà condizionale, significa es-sere, in qualche modo, impotenti. •

• The Virago Book of Women Travellers è un’antologia che raccoglie 52 testi di al-trettante autrici anglosassoni, che, raccontando le loro avventure in giro per il mondo, rivelano anche il loro punto di vista sul viaggiare. Ogni estratto è preceduto da una breve introduzione della Morris che inquadra le singole autrici e il testo presentato. Si tratta di frammenti distribuiti su un ampio arco di tempo che assumono i tratti di una narrazione corale non solo dell’esperienza di viaggio in quanto tale, ma anche ‘dell’andare’ inteso come ricerca di sé stessi. Un viaggiare che acquista ulteriore valore se considerato come atto di ribellione di genere, a un’ottica che vietava il viaggio alle donne.

• Mary Morris (Boston, 1947) è una scrittrice americana che da anni si occupa di nar-rativa di viaggio. Autrice di diversi romanzi (in Italia Revenge, edizioni Leconte 2007), raccolte di racconti (The Bus of Dreams, The Lifeguard Stories) e cronache di viaggio (in Italia Niente da dichiarare, edizioni La Tartaruga), insegna scrittura creativa al Sarah Lawrence College di New York ed ha collaborato con diverse testate giornalistiche, tra cui il New York Times. Ha un blog, The Writer and the Wanderer.

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Una passeggiata a KobeHaruki Murakami

•A maggio del 1997, due anni dopo il terribile terremoto di Kobe, mi è venuta l’idea di partire da Nish-inomiya arrivare a Sannomiya e fare una bella passeggiata fino al centro di Kobe. Mi è capitato di stare a Kyoto per lavoro, e di proseguire per Nishinomiya. Sulla mappa da lì a Kobe si tratta di una quindicina di chilometri a ovest. Non esattamente un tiro di schioppo, ma neanche una distanza impossibile; e poi, io sono un camminatore esperto. Sono nato a Kyoto, ma poco dopo la mia famiglia si trasferì a Shukugawa, un quartiere a Nishinomiya. E non molto tempo dopo ancora, ci siamo trasferiti di nuovo più vicino a Kobe, a Ashiya, dove ho trascorso la maggior parte della mia adolescenza. Il mio liceo si trovava sulle colline che sovrastano la città, e naturalmente, quando avevo voglia di divertirmi scendevo in centro a Kobe proprio dalle parti di Sannomiya. Sono diventato il tipico Hanshin-kan boy, termine che indica i teenagers dell’area tra Osaka e Kobe. Al tempo - e probabilmente anche oggi - era davvero un bel posto dove crescere. E’ un luogo tranquillo e rilassato, benedetto dal mare e dalle montagne, e vicino ad una grande città. Mi piaceva molto andare ai concerti, andare a caccia di libri usati, andare nei jazz bar, a vedere i film “new-wave” della Art Theatre Guild. Il look preferito di allora? Giacche VAN, naturalmente. Da quando sono andato a Tokyo per l’università - poi mi sono sposato e ho iniziato a lavorare - torno raramente in questo lembo di terra compresa tra Osaka e Kobe. Certo qualche volta sono tornato, ma appena finivo ciò che dovevo, saltavo sul treno ad alta velocità e già mi ritrovavo a Tokyo. Avevo una vita davvero piena di impegni e stavo spesso all’estero. E in più c’erano anche un paio di ragioni personali. Alcune persone tornano regolarmente indietro nella loro città natale, mentre altri si sentono come se non potessero mai tornare indietro. Nella maggior parte dei casi è come se il destino ti assegnasse a uno dei due gruppi, e ha poco a che fare con quanto forti siano i sentimenti verso il luogo natale. Mi piaccia o no, mi sembra di appartenere al secondo gruppo. Per anni i miei genitori hanno vissuto a Ashiya, ma quando il terremoto di Hanshin colpì nel gennaio 1995, la loro casa fu troppo danneggiata per rimanerci, e ben presto si trasferirono a Kyoto. Così, oltre a tutti i ricordi che avevo accumulato (la mia preziosa proprietà), non c’era più alcun collegamento effettivo tra me e l’area di Hanshin-kan. Parlando chiaro, non è più la mia città natale. Ma sento un profondo senso di perdita per questo fatto, come se sentissi nitidamente un debole scricchiolio dell’asse dei miei ricordi. E ‘una sensazione fisica. Forse è proprio a causa di questo che volevo fare una passeggiata lì, vigile e attento a quello che avrei potuto risentire. Forse lo dovevo a me stesso: vedere come questa città natale con cui avevo perso tutte le connessioni evidenti, mi si sarebbe mostrata ora. Avrei forse ritrovato un’ombra (o l’ombra di un’ombra) di me stesso lì? Volevo anche vedere che effetto aveva avuto il terremoto di Hanshin nella città in cui sono cresciuto. Ho visitato diverse volte Kobe dopo il terremoto, e fui sinceramente scioccato dalla entità del danno. Ma ora, circa due anni dopo, quando la città sembra finalmente essersi rialzata, vorrei vedere con i miei occhi le trasformazioni avvenute- quanto questa violenza orribile avesse rubato dalla città, e ciò che si era lasciata

alle spalle. Ho sentito che doveva esserci un nesso con quanto sono diventato ora.Armato di scarpe da ginnastica ai piedi, zaino in spalla, taccuino e una piccola telecamera, scesi alla

stazione alla stazione di Nishinomiya e mi avviai a passo lento verso ovest. Il tempo era luminoso e soleggiato e ho indossato gli occhiali da sole. Il primo posto che ho incontrato era la zona commerciale vicino all’uscita sud della stazione. Alle elementari andavo li in bici a comprare le cose. La biblioteca della città era vicino - troppo vicino - e ogni volta che ne avevo il tempo mi piaceva trascorrere lì il mio tempo: ho letto tutti i libri possibili per adolescenti. C’era anche un negozio dove ho fatto scorta di modellini. Questo posto mi aveva riportato di colpo indietro nel passato. Non ero mai stato qui a lungo ma la zona commerciale era cambiata molto rispetto a quanto ricordavo. Non posso dire quanto di questo fosse causato da normali cambiamenti o dal terremoto. Di fatto le crepe sui muri erano nitide e visibili. I palazzi crollati avevano lasciato degli spazi vuoti come un dente caduto; i prefabbricati con temporary store tappavano il vuoto e creavano una sorta di continuità con gli edifici. Le erbacce infestavano i palazzi abbandonati e le strade asfaltate avevano delle crepe profonde. Tutt’intorno era visibile la devas-tazione, quasi la zona fosse diventata ormai un cumulo di rovine. Rispetto al centro di Kobe che tutto il mondo ha visto e che per questo è stato ricostruito in fretta, qui permangono gli spazi deserti e questo mi colpiscono a fondo come un proiettile. Naturalmente questo non è il solo quartiere commerciale intorno Nishinomiya. Devono esserci molti posti vicino a Kobe che ancora portano lo stesso tipo di ferite, ma che sono per lo più luoghi dimenticati. Passato il quartiere dello shopping e lungo la strada principale c’è il Tempio di Ebisu. E ‘un grande santuario, con fitti boschi all’interno dei suoi recinti. Quando ero piccolo, ci andavamo a giocare con gli altri bambini, e mi fa molto male riscontrare le visibili crepe. Le lanterne di pietra che illuminavano la strada di Hansin sono rotte, mancavano i cappelli superiori che si trovavano a terra come teste mozzate. Le basi rimanevano lì senza più un senso, come delle statue solennemente silenziose, quasi a esprimere una simbologia onirica. Il vecchio ponte di pietra sul lago dove mi affacciavo a pescare i gamberi (usavo una tecnica semplice: in una bottiglia vuota legata a un filo mettevo dei noodle in polvere,i gamberi ci entravano dentro e tiravo su) è crollato e così è rimasto. L’acqua del laghetto era scura e fangosa, e tartarughe di chissà quanti anni vecchie se ne stavano buttate al sole senza far niente. La distruzione era evidente in ogni angolo, come se orami stessi vedendo antiche rovine. Solo gli alberi erano come li ricordavo: cupi, frondosi e senza tempo. Mi sono seduto nel parco del santuario sotto il sole di inizio estate, e ho guardato di nuovo intorno, cercando di abituarmi a quello che stavo vedendo. Cercavo di assorbire e accettare questa scenario naturale come potevo, mentalmente e visceralmente. Provai quindi a ricordare come ero allora. Ma come si può immaginare questo richiede molto tempo.

Sono poi andato a passo spedito da Nishinomiya a Shukugawa. Non era ancora mezzogiorno ma faceva caldo e ho cominciato a sudare. Non avevo bisogno della mappa per capire più o meno dove fossi, ma non ricordavo esattamente le strade. Chissà quante volte devo averle battute ma non me le ricordavo più, avevo il vuoto. Perché non le ricordavo? Era strano. Mi sembrava come se fossi tornato a casa mia e avessi trovato altri mobili. Presto il motivo mi fu chiaro. Le aree dove una volta non c’erano palazzi ora erano edificate mentre le aree lottizzate ora erano vuote, distrutte dal terremoto – proprio come succede con i negativi delle foto. Le aree un tempo disabitate ora erano aree residenziali. Finalmente la vecchia e la nuova immagine si sovrapposero per darmi di nuovo l’immagine di quello che ricordavo. La vecchia casa vicino Shukugawa non c’era più, sostituita da villette a schiera. Nei pressi del vicino liceo c’erano i con-tainer abitativi per i superstiti. Lì dove io e i miei amici giocavamo a baseball, ora c’era un luogo angusto con panni stesi e futon appoggiati alla rinfusa. Per quanto mi sforzassi di ritrovare le bellezza del passato, non ritrovai nulla di un tempo. L’acqua del fiume scorreva ancora più pulita e pura di prima, ma mi sembrava di vedere come se il letto del fiume fosse stato rivestito di cemento. Ho camminato per un po’ in direzione del mare e mi sono fermato in un sushi bar. Era domenica pomeriggio ed erano impegnati con gli ordini da asporto. Il garzone era uscito per le consegne e non tornava da tanto, e il proprietario faceva fatica a tenere il passo con le telefonate. Una scena tipica che si può trovare ovunque qui in Giap-pone. Ho aspettato il mio ordine, sorseggiando una birra e mezza guardando la TV. Il governatore della

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prefettura di Hyogo stava parlando con qualcuno in uno show di come stava andando la ricostruzione post-terremoto. Sto cercando di ricordare esattamente quello che ha detto, ma giuro sulla mia vita, non riesco a ricordare nemmeno una sola parola. Da bambino, quando salivo le rive del fiume, vedevo l’intera distesa del mare, nulla rovinava la bella vista. Ci andavo d’ estate. Mi piaceva molto l’oceano e amavo nuotare. Andavo spesso a pesca, e facevo ogni giorno una passeggiata col mio cane. A volte mi piaceva sedermi senza far nulla. E a volte mi divertivo a sgattaiolare fuori di casa di notte; andavo in spiaggia con i miei amici, raccoglievamo pezzi di legno e accendevamo un falò. Amavo l’odore del mare, il suo rombo lontano, e tutto ciò che portava con sé.

Ma il mare ora non c’è più. Hanno scavato le cime delle montagne e portato a valle i detriti per creare terreni edificabili. Con il mare e le montagne così vicino, la zona poteva diventare di pregio. Così la montagna ha lasciato il posto a dei bei quartieri residenziali costruiti anche a valle. Tutto questo è accaduto nel periodo del boom economico nazionale quando io facevo l’università a Tokyo. La mia casa ora si trova in una città in riva al mare nella prefettura di Kanagawa vicino a Tokyo, e vado avanti e indietro tra lì e Tokyo. Purtroppo, e dico purtroppo, questa città che ora vedo al posto della mia vecchia città natale non mi ricorda molto il mio passato, quasi preferisco la casa che possiedo adesso. Si trova tra verdi montagne a due passi da una spiaggia. Farò di tutto per preservare l’ambiente, perché una volta che la natura viene distrutta la situazione è irreversibile. Infatti, una volta che la violenza degli esseri umani si scatena, il processo non può mai essere invertito. Al di là delle rive del fiume, l’area intorno a quella che era la località balneare Koroen, erano state create piccole insenature con laghi artificiali. I windsurfers se ne stavano lì alla ricerca del vento. A ovest, dove si trovava la spiaggia di Ashiya, ora ci sono file di condomini che sembrano bianchi monoliti. Sulla sponda, alcune famiglie arrivate lì con le loro station wagon o monovolume, utilizzano fornelli alimentati da propano e fanno il loro bel barbecue. Le chiamano attività all’ aria aperta. Nella loro domenica felice grigliano carne pesce verdure, e il fumo bianco si innalza come un nastro nel cielo limpido. Non c’è una nuvola infatti, come spesso succede nel bel mese di Maggio. Me ne sto lì seduto sul cemento armato proprio dove una volta c’era il mare e qui, come un pneumatico che perde aria lentamente, anche io perdo il significato di questa realtà che vedo. Nel bel mezzo di questa scena placida, è difficile ignorare i vessilli della violenza umana. Ecco cosa mi ha colpito. Una parte di questo male si trova proprio davanti a noi sotto i nostri piedi, mentre l’ altra parte è nascosta dentro di noi. Esse sono le facce intercambiabili dello stesso male. Me ne sto qui assonnato senza uno scopo e mi sento uniformato agli altri.

Quindi mi sono alzato e ho attraversato un piccolo fiume e mi sono ritrovato ad Ashiya. Ho cammi-nato oltre la mia vecchia scuola media e la mia vecchia casa, e sono giunto alla stazione ferroviaria di Ashiya. Una pubblicità nella stazione annunciava una partita di baseball alle 2:00 quel giorno al Koshien Stadium di Osaka, tra Hanshin Tigers e Yakult Swallows. Vedendolo, ho avuto il bisogno improvviso di andare. Ho fatto un rapido cambiamento di piani e sono saltato sul treno. Pensai: la partita è appena iniziata, quindi se vado adesso, dovrei essere lì in tempo per il terzo inning. Avrei potuto riprendere la mia passeggiata il giorno seguente.

Il Koshien Stadium era solo leggermente diverso rispetto quando ero piccolo. Incappando in una sorta di distorsione temporale mi trovai a provare un senso di appartenenza - lo riconosco uno strano giro di parole. Quello che mancavano erano i venditori ambulanti che portavano in spalla le lattine a pois di Calpis (in effetti non sono rimaste molte persone al mondo che bevono Calpis) e il tabellone dei punti, ora elettronico (ed è difficile da vedere alla luce del giorno). Ma il colore della sporcizia sul campo era la stessa di prima, così come il verde dell’erba, ed i tifosi degli Hanshin così notoriamente turbolenti come sempre. Terremoti, rivoluzioni, guerre e secoli possono andare e venire, ma i fans degli Hanshin sono eterni. La partita è stata un duello tra i lanciatori Kawajiri e Takatsu, e gli Hanshin hanno vinto per 1 - 0. Si potrebbe pensare che la differenza di un punto significhi il risultato di un gioco emozionante, ma non lo fu affatto neanche con un po’ di immaginazione. A dirla brutalmente, non si poteva davvero vedere,

specialmente stando negli spalti laterali. Con il sole a picco poi mi è venuta sete. Mi sono preso due birre ghiacciate e ovviamente mi sono addormentato crollando sulle gradinate. Quando mi sono svegliato non sapevo dov’ero. (Dove diavolo sono?! Mi chiedevo). Era buio ormai perché le luci dei riflettori mi avevano quasi raggiunto. Sono andato in un piccolo e nuovo hotel di Kobe. Molti dei clienti erano giovani donne. Sono certo abbiate capito di che tipo di hotel io stia parlando. La mattina seguente mi sono svegliato alle sei, e ho preso il treno per Ashiyagawa prima dell’ora di punta, e ho ricominciato il mio mini tour. Diversamente dal giorno precedente, il cielo era coperto di nuvole e faceva fresco. La rubrica meteo prevedeva pioggia nel pomeriggio (e ovviamente avevano ragione. Alla sera ero zuppo).

Nel giornale del mattino che avevo comprato alla stazione di Sannomiya c’era anche un aggiornamento riguardo un’aggressione di due bambini a Suma New Town (di certo un altro nuovo quartiere costruito dopo aver “affettato” le cime delle montagne, perché non ne avevo mai sentito parlare). Uno di loro era morto. La polizia non aveva scoperto nulla sul movente e non avevano indizi sull’assassino, e i residenti con figli piccoli erano davvero spaventati. Questo succedeva prima del terribile omicidio di Jun Hase, un ragazzino di undici anni, accaduto a Kobe. In ogni caso, si trattava di un orribile, raccapricciante, inutile attacco a dei bambini in età da scuola elementare. Avevo letto poco il giornale e non sapevo ancora nulla del crimine. Mi ricordo aver rilevato un profondo e inquietante dato nascosto tra le righe dell’articolo. Come ho ripiegato il giornale, un pensiero improvviso mi ha colpito. Un uomo che cammina in giro da solo di mattina nel bel mezzo di un giorno feriale, potrebbe apparire piuttosto sospetto. Il pensiero di questo crimine ha evidenziato ancora di più il mio senso di estraneità al luogo. Come se fossi un ospite non gradito che commette una grave scortesia nella casa dove neanche era stato invitato.

Ho camminato lungo una strada ai piedi delle colline, dove corre la linea ferroviaria, e prendendo piccole deviazioni mi sono ritrovato in circa 30 minuti ad Ashiya. Si tratta di una piccola città che si estende in lunghezza da nord a sud. Attraversi la città in un attimo. Su entrambi i versanti est e ovest era visibile il vuoto lasciato dal terremoto e qualche casa disabitata collassata sul fianco. Il terreno nella zona di Hanshin-kan è diverso da quella di Tokyo.

Si tratta di una zona montuosa e sabbiosa, la terra è liscia e biancastra, il che ha reso i lotti deserti ancor più evidenti. La zona era piena di erbacce verdi che rendevano questo vuoto ancor più toccante. Ho immaginato una grande cicatrice chirurgica sulla pelle di qualcuno dei miei cari; quest’ immagine mi ha creato un dolore fisico e lancinante, un dolore vero slegato dal tempo e dal luogo. Naturalmente c’era di più che semplici lotti liberi coperti di erbacce. Li vi ho immaginato diversi cantieri. Credo che in meno di un anno ci saranno file di case di nuova costruzione tanto da stravolgere il posto. Tegole nuove che brillano sotto luminosi raggi di sole. In quel momento, io e quel luogo ci divideremo per sempre e non avremo più un legame. (Molto probabilmente succederà.) Tra noi forse è già esistito un agente di separazione forzata, un dispositivo di distruzione travolgente, chiamato terremoto. Ho guardato in alto il cielo, ho respirato l’aria del mattino ancor poco nuvoloso, e ho pensato a questa terra che mi aveva trasformato nella persona che sono, e a cosa questa persona aveva reso alla terra. È riguardo questo genere di cose che noi spesso non abbiamo alcun controllo.

Quando sono arrivato alla stazione di Okamoto, la stazione seguente, ho pensato di fermarmi in un caffè - un posto qualunque andava bene - e ordinare la colazione. Non avevo mangiato nulla per tutta la mattina. Ma erano ancora tutti chiusi. Non me la ricordavo così la città. A malincuore, ho comprato una barretta energetica CalorieMate al Lawson a lato della strada, che ho sgranocchiato silenziosamente seduto su una panchina, buttandola giù grazie a una lattina di caffè.

Ho usato il tempo per annotare appunti su quello che avevo visto durante il viaggio fin ora. Dopo una breve pausa ho tirato fuori dalla tasca “Il sole sorge ancora” di Hemingway, riprendendo da dove avevo lasciato. Avevo letto il romanzo al liceo, e avevo iniziato a rileggerlo da capo a letto in hotel; lo storia mi aveva rapito. Mi chiedo perché non ho mai capito prima di allora che gran libro fosse. Questo pensiero mi diede una strana sensazione. Chissà dove avevo la testa tanto tempo fa. Non ho avuto modo di fare

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colazione neanche alla stazione successiva di Mikage, quindi me ne sono andato in giro lungo i binari sognando un caffè nero e spesse fette di pane caldo imburrato. Anche da queste parti molti lotti vuoti e cantieri aperti. Mi sfrecciavano vicino Mercedes Classe E Sedane, immagino portassero i bambini a scuola o alla stazione. Le macchine erano nuove fiammanti senza neanche l’ombra di un graffio. Come i simboli senza sostanza o il tempo passato senza uno scopo, tutto sembrava estraneo al terremoto, alla violenza.

Di fonte alla stazione di Rokko mi sono concesso uno strappo alle regole e sono entrato in un McDonald’s per ordinare un Egg McMuffin (360 yen) e ho finalmente placato i morsi della fame del mio stomaco che gorgogliava. Ho deciso di fare una pausa di 30 minuti. Erano le 9 del mattino. Mi sentivo come assorbito dalla grande realtà immaginaria di McDonald’s. Ero come diventato parte di un inconscio collettivo. Ma in realtà, tutto ciò che mi circondava era la mia propria realtà individuale. Ovviamente, nel bene o nel male, era solo successo che la mia individualità temporaneamente non aveva nessun posto dove andare e si era appoggiata lì.

Ero arrivato fino a lì, quindi decisi di salire il ripido pendio che portava al mio vecchio liceo. Un rivolo di sudore comparve sulla fronte. Ai tempi del liceo ci salivo a bordo di bus fumoso, e ora riper-correvo la stessa strada con il mio vapore personale. Nello spazioso campo di gioco scavato tra i pendii delle montagne, delle studentesse giocavano a palla a mano durante la loro lezione di ginnastica. C’era una tranquillità ultraterrena tranne che per le grida occasionali delle ragazze. Era tutto fermo e mi sentivo proiettato in una realtà parallela. Perché questo silenzio assoluto?

Ho dato uno sguardo al porto di Kobeil il cui acciaio brillava da lontano, e ho ascoltato con atten-zione, sperando di raccogliere qualche eco del passato; ma nulla venne a me se non i suoni del silenzio. Questo è tutto. Ma che cosa ci volevo fare? Erano suoni e abitudini di più di trenta anni fa.

Già, sono passati più di trenta anni. C’è una cosa che posso dire con certezza: più una persona invecchia, più diventa sola. Ed è vero per tutti. E forse non è sbagliato. Quello che voglio dire è che in un certo senso, le nostre vite non sono altro che una serie di tappe che ci preparano alla solitudine. Stando così le cose, non c’è motivo di lamentarsi. E poi, con chi potremmo lamentarci?

Mi alzai, lasciandomi alle spalle la scuola, e iniziai a percorrere il lungo pendio scosceso (mi stavo un po’ stancando). Ho continuato senza sosta fino alla stazione di Shin Kobe, quella dove fermano i treni ad alta velocità. Da qui potevo raggiungere la mia destinazione, Sannomiya, in un soffio. Avendo un po’ di tempo extra, mi sono fatto prendere dalla curiosità e sono entrato nel mastodontico New Kobe Oriental Hotel, appena aperto e vicino la stazione. Mi sono lasciato cadere su di un divano nell’area lounge del bar, e finalmente, mi sono goduto il primo buon caffè della giornata. Ho appoggiato il mio zaino, mi sono tolto gli occhiali da sole, ho preso un respiro profondo e ho dato alle mie gambe un bel momento di tregua. Mi venne in mente che avevo bisogno di utilizzare la toilette e così ho fatto, pensando che ci andavo per la prima volta da quando avevo lasciato il mio hotel quella mattina. Poi mi sono seduto di nuovo, e ordinando altro caffè mi sono guardato intorno. L’hotel era terribilmente ampio, anni luce lontano dal vecchio Kobe Oriental Hotel vicino al porto (un hotel intimo e accogliente chiuso per colpa del terremoto). Definirlo desertico più che ampio potrebbe essere più realistico. Era quasi come una piramide con un numero insufficiente di mummie. Non voglio questionare, ma non è certo il tipo di posto dove mi piacerebbe soggiornare.

Pochi mesi dopo ci fu una sparatoria ad opera della yakuza nella stessa sala dove stavo, e sono morte due persone. Naturalmente non avevo modo di immaginare che sarebbe successo qualcosa di simile, ma ancora una volta la violenza mi ha sfiorato e ho potuto evitare la sua ombra grazie al tempo che mi ha separato dall’evento. Chiamatela coincidenza, ma comunque mi ha fatto sentire strano, come se il passato, il presente e il futuro fossero riuniti tutti insieme su un cavalcavia e mi lanciassero dei segnali dall’alto. Perché ci troviamo continuamente di fronte alla violenza? Quattro mesi dopo questo piccolo viaggio a piedi, mi siedo alla mia scrivania e scrivo queste parole, e non posso fare a meno di meravigli-armi. Anche mettendo da parte la regione di Kobe, credo che un atto di violenza è destinato (realmente o

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metaforicamente) a portarne un altro. C’è una sorta di concatenazione inevitabile? Oppure è solo il caso e nulla più?

Il terremoto di Hanshin ha avuto luogo mentre vivevo negli Stati Uniti, e due mesi dopo c’è stato l’attacco con il gas nervino nella metropolitana di Tokyo. Ho trovato questa concatenazione di eventi davvero interessante. Quell’estate sono tornato in Giappone, e subito dopo ha iniziato ad intervistare i sopravvissuti. Un anno dopo ho pubblicato Underground. Quello che cercavo di dire in quel libro, quello che volevo scrivere - quello su cui io stesso volevo investigare - è la relazione tra la nostra società e la vi-olenza che vive nascondendosi e riproducendosi grazie a noi. Soprattutto perché tendiamo a dimenticare che la violenza esiste sempre anche in forma latente. Infatti non ho scelto di intervistare i carnefici, ma le vittime dell’attacco terroristico.

Già quando camminavo da solo lungo la strada da Nishinomiya a Kobe, questa idea mi ronzava in testa. Così come quando camminavo attraverso l’ombra del terremoto mi chiedevo: cosa c’è dietro l’attentato nella metropolitana? E ripercorrendo le ombre dell’attacco col gas nervino mi chiedo: cosa c’è dietro il terremoto di Hansin? Secondo me i due eventi potrebbero essere collegati. Dipanando un mistero, si potrebbero avere degli elementi per svelare l’altro. Si tratta di collegamenti reali e psicologici e ho individuato la mia personale conclusione che li collega. Potrei aggiungere una questione ancora più critica per il mix, cioè: Che potrei fare io?

Mi spiace dirlo, non ho ancora trovato una risposta chiara e logica a queste domande. Io non posso arrivare a una conclusione precisa e dimostrabile. Quello che posso fare a questo punto è, attraverso le mie parole incerte, provare a descrivere la risposta che cerco e che ho iniziato a vedere grazie al percorso fatto con le mie gambe, i miei pensieri e i miei sguardi. Spero che lo capiate. Io sono il tipo di persona che può solo fare progressi un passo dopo l’altro con le gambe con il corpo e con la mente, e ci vuole il suo tempo. Un lungo lasso di tempo. Spero solo che non sia troppo tardi. Alla fine ho raggiunto Sannomiya. Iniziavo a sentire un cattivo odore. Non è stata una grande distanza pensavo, anche se non è stata proprio la tipica passeggiata mattutina. Quando sono arrivato in hotel mi sono fatto una doccia calda e ho bevuto tutto d’un fiato una bottiglia di acqua presa dal frigo. Ho tirato fuori dei vestiti puliti. Un polo blu navy, una giacca sportiva blu e dei pantaloni sportivi di cotone beige. Avevo le gambe un po’ molli ma non potevo farci niente. Così come non potevo farci niente con le domande vaghe e irrisolte che aleggiavano nella testa. Non c’era nulla in particolare che volessi fare, quindi sono andato a vedere un film che aveva attirato la mia attenzione con protagonista Tom Cruise. Niente male ma nulla di eccezionale.

Diciamo che mi sono riposato. Due ore della mia vita spese non molto animatamente ma neanche così inutilmente. Arrivata la sera, uscito dal cinema, sono andato in collina in un piccolo ristorante. Mi sono seduto al bancone e ho ordinato una pizza ai frutti di mare e una birra. Ero l’unico cliente da solo. Forse era solo la mia immaginazione ma sembravano tutti davvero felici. Le coppie cercavano di darsi un contegno e un gruppo di uomini e donne ridevano fragorosamente. A volte ci sono giornate così. La pizza che mi hanno portato aveva un cartellino con su scritto: la pizza che lei sta mangiando è la nr. 958.861 fatta dal nostro ristorante. Non seguivo. 958.861? C’era forse un significato recondito nel messaggio? Quando ero ragazzo, venivo spesso con la mia ragazza in questo ristorante, bevevamo birra e mangiavamo pizze e ricordo un numero simile sui cartellini. Parlavamo del nostro futuro e di tutte le nostre previsioni neanche una si è avverata. Ma era davvero moltissimo tempo fa, quando qui c’era il mare, quando qui c’erano le montagne. Non che qui non ci siano più le montagne; certo che ci sono ancora. Sto parlando di montagne e di un mare ormai diversi da come li conoscevo io. Alla seconda birra, ho aperto “Il sole sorge ancora” da dove lo avevo interrotto. La storia di una generazione perduta. E subito mi immedesimo in quel mondo. Quando sono uscito dal ristorante pioveva come annunciato dal meteo, e mi sono bagnato davvero fino all’osso. Ma a questo punto era troppo tardi per comprare un ombrello. •

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Trattasi dell’Echinopsis pachanoi, una cactacea colonnare, un cactus dal fusto allungato, da sempre coltivato nel suo habitat naturale ed utilizzato come semplice pianta ornamentale o come recinzione. Oppure sfruttata per i suoi succhi, contenenti molti alcaloidi tra cui la mescalina: l’unico scopo di Jamie, il leader del gruppo, è trovarne un pezzo, cucinarlo, filtrarlo e bere il magico succo sulla spiaggia, solo il de-serto intorno e l’oceano all’orizzonte. Ciò che non avrebbe potuto prevedere è l’entrata in gioco di una travolgente outsider, una ragazza stralunata che risponde al nome di Crystal Fairy. Eccentrica in tutto, sembra provenire da una galassia parallela ma destinata a non intersecarsi mai con quella che noi abitiamo: come se fosse la cosa più naturale del mondo, si amalgama al gruppo di ragazzi, accompagnandoli nella loro missione, dispensando pace, amore e condivisione. Sembra vera-mente fatta di cristallo, talmente eterea, slegata dai vincoli della morale, della percezione delle cose imposta dalla nostra quotidianità. Ad un certo punto sorge spontanea la domanda: è vera-mente una creatura capitata per caso

sul nostro bizzarro pianeta o si tratta dell’ennesimo prodotto della società, una marionetta che, come tutti noi, porta una maschera, solamente un po’ più elaborata? Impossibile sciogliere il dubbio, il regista Sebastián Silva con-segna allo spettatore il compito di sceg-liere se smettere di ragionare e iniziare a credere o preferire uno smaschera-mento plateale, come quello ricercato ad ogni costo da Jamie. Quello che il ragazzo non sembra voler accettare sono tutti quei piccoli segnali che lo le-gano indissolubilmente a Crystal Fairy, entrambi stranieri in una terra che non gli appartiene, alla ricerca di conferme, di nuove esperienze, di capire cosa dav-vero desidera il loro spirito: Jamie usa l’ordine e la logica, Crystal opta per la fede e la spontaneità. Il succo psicotropo diventa quindi una metafora, lontano da discorsi su legal-ità, dipendenza e morale: scombina le carte in gioco e costringe i due protago-nisti a vedere uno nel mondo dell’altro, gli occhi ormai liberi da preconcetti, è un tramite naturale sotto ogni punto di vista. Presentato durante l’edizione 2013 del Sundance Film Festival nella sezione World Cinema Dramatic, por-

ta a casa il premio alla miglior regia: senza ombra di dubbio Sebastián Silva è riuscito a comporre un’avventura istintiva, coerente e concreta, capace di occupare una frequenza tutta sua e di essere totalmente soddisfatta di tale scelta. •

Commedia, durata 98 minuti.

La storia di quattro amici, quattro compagni di viaggio alla ricerca di nuove sensazioni, nuove visioni: il Cile è il luogo decretato ad accogliere le loro speranze, San Pedro la città dove cercare quel misterioso oggetto responsabile di aver messo in moto la ricerca.

CRYSTAL FAIRY & the Magical Cactus

CRYSTAL FAIRY & THE MAGICAL CACTUS

• Crystal Fairy & the Magical Cactus and

2012 [id., Cile 2012] REGIA Sebastián Silva.

• CAST: Michael Cera, Gaby Hoffmann,

Juan Andrés Silva, José Miguel Silva,

Augustin Silva.

• SCENEGGIATURA: Sebastián Silva.

• FOTOGRAFIA: Cristián Petit Laurent.

• MUSICHE: Pedro Subercaseaux.

TRIP Cinema

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di Margherita Merlo

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