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DOMENICA 23 MARZO 2008 D omenica La di Repubblica V ersi fatti riemergere trent’anni dopo con quella gioia sofferta e discreta che solo una grande ami- cizia permette. Dodici canzoni scritte da Massi- mo Troisi insieme con Enzo Decaro nel 1975, al- l’inizio del loro sodalizio artistico, prima del grande successo toccato alla Smorfia, quando il trio Troisi-Arena-Decaro conquistò la notorietà grazie alla ra- dio e alla tv. Dodici poesie, rimaste finora sconosciute, che Troisi aveva musicato con il suo amico chitarrista Vincenzo Purcaro (in arte Decaro). Una sfida lanciata con ironia e dedi- zione, in una stagione lontana intrecciata di passioni, speran- ze e utopie. Il disco, Poeta Massimo, in uscita il 4 aprile, verrà presentato in contemporanea al Ministero dei beni culturali. «Eravamo due ragazzi che cercavano la loro strada. E le can- zoni, la musica erano una delle tante possibili. Ci vedevamo dove capitava, Massimo buttava giù un’idea e se ne parlava, se ne discuteva». (segue nelle pagine successive) A l mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo le ali... / Io, padrone di un bel niente / Neppure di me stesso. / Soffoco d’affetto / e vivo di nascosto / Ma al mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo le ali... / Intorno si stupiscono / del mio modo di fare / Per loro sbaglio tutto / ancora prima di iniziare. Non è così importante / che muoia qualcosa dentro / Io cedo qualche sogno / e un po’ di libertà / Un compromesso che in fon- do / accetto per viltà... Ma al mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo le ali... Passar tutto il tempo / a pensare al modo migliore / E in quale occasione / sfiorarti la mano / per dire ti amo Mentre la situazione / politica italiana / Andrebbe seguita / con molta più attenzione / Vuoi che mi lasci andare / sulle note di una canzone / d’amore... Ma al mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo le ali... i luoghi Viaggio nel Far West cinese FEDERICO RAMPINI cultura I veri paesaggi di Piero della Francesca MICHELE SMARGIASSI l’attualità Affetti & Affari, come tenerli insieme ETTORE LIVINI e ALBERTO STATERA la lettura Vivere e morire ai confini della realtà PINO CORRIAS la memoria I rapporti segreti del maggiore Kappler ATTILIO BOLZONI Troisi poeta È la metà degli anni Settanta Il futuro interprete del “Postino” sta ancora cercando la sua strada e scrive versi per farne canzoni con l’amico Enzo Decaro Ora quelle parole dimenticate sono diventate un disco Ne anticipiamo i brani più intensi SILVANA MAZZOCCHI MASSIMO TROISI FOTO CORBIS

Troisi poeta - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2008/23032008.pdf · figuriamoci che, nel caso della Smorfia, abbiamo letto i nostri testi la prima volta solo quando

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DOMENICA 23 MARZO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

Versi fatti riemergere trent’anni dopo con quellagioia sofferta e discreta che solo una grande ami-cizia permette. Dodici canzoni scritte da Massi-mo Troisi insieme con Enzo Decaro nel 1975, al-l’inizio del loro sodalizio artistico, prima delgrande successo toccato alla Smorfia, quando il

trio Troisi-Arena-Decaro conquistò la notorietà grazie alla ra-dio e alla tv. Dodici poesie, rimaste finora sconosciute, cheTroisi aveva musicato con il suo amico chitarrista VincenzoPurcaro (in arte Decaro). Una sfida lanciata con ironia e dedi-zione, in una stagione lontana intrecciata di passioni, speran-ze e utopie. Il disco, Poeta Massimo, in uscita il 4 aprile, verràpresentato in contemporanea al Ministero dei beni culturali.

«Eravamo due ragazzi che cercavano la loro strada. E le can-zoni, la musica erano una delle tante possibili. Ci vedevamodove capitava, Massimo buttava giù un’idea e se ne parlava, sene discuteva».

(segue nelle pagine successive)

Al mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo leali... / Io, padrone di un bel niente / Neppure di mestesso. / Soffoco d’affetto / e vivo di nascosto / Maal mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo leali... / Intorno si stupiscono / del mio modo di fare/ Per loro sbaglio tutto / ancora prima di iniziare.

Non è così importante / che muoia qualcosa dentro / Io cedoqualche sogno / e un po’ di libertà / Un compromesso che in fon-do / accetto per viltà...

Ma al mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo le ali...Passar tutto il tempo / a pensare al modo migliore / E in quale

occasione / sfiorarti la mano / per dire ti amoMentre la situazione / politica italiana / Andrebbe seguita / con

molta più attenzione / Vuoi che mi lasci andare / sulle note di unacanzone / d’amore...

Ma al mio cuore malandato / Almeno a lui ho messo le ali...

i luoghi

Viaggio nel Far West cineseFEDERICO RAMPINI

cultura

I veri paesaggi di Piero della FrancescaMICHELE SMARGIASSI

l’attualità

Affetti & Affari, come tenerli insiemeETTORE LIVINI e ALBERTO STATERA

la lettura

Vivere e morire ai confini della realtàPINO CORRIAS

la memoria

I rapporti segreti del maggiore KapplerATTILIO BOLZONI

Troisipoeta

È la metà degli anni SettantaIl futuro interprete del “Postino”

sta ancora cercando la sua stradae scrive versi per farne canzoni

con l’amico Enzo DecaroOra quelle parole dimenticate

sono diventate un discoNe anticipiamo i brani più intensi

SILVANA MAZZOCCHI MASSIMO TROISI

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(seguedalla copertina)

«Avolte — conti-nua Decaro — iversi gli veniva-no di getto, altrevolte preferivatornarci su per

conto suo, li cancellava, li correggeva, meli rimandava. E io a lui, all’infinito. Hoconservato queste nostre carte per cosìtanto tempo; poi, improvvisamente, è ac-caduto un piccolo episodio, qualcosa chemi ha fatto cadere addosso la necessità diaffrontare quel capitolo della nostra vita.Ho sentito l’urgenza di rendere nota unapagina importante e ancora inedita dellacarriera artistica di Massimo. Per me è

stato un po’ come finire “un compito ditestimonianza” di cui sono solo per casoil protagonista di servizio, il tramite peroffrire al pubblico, soprattutto a quellopiù giovane, le prove del grande valorepoetico di Massimo. Quello venuto fuoricompletamente con Il Postino».

Decaro, smaliziato attore di fiction e ci-nema, quando parla del Poeta Massimo,perde l’abituale disinvoltura. Ricordacon pudore quello che accadde tre anni fae le ragioni che lo hanno convinto a riesu-mare quei versi altrimenti destinati al si-lenzio. «Una sera ero con i miei figli e gui-davo lungo una superstrada quando misono trovato davanti un’auto che avevaimboccato in senso inverso la mia corsiadi sorpasso. Evitai per miracolo l’inci-dente, ma in quel momento mi sono vistoscorrere la vita davanti, compreso quello

che ognuno sa, che siamo solo in affitto eche dobbiamo tenere sempre la valigiapronta, per lasciare tutto a posto. Mi ven-ne un tarlo: e se mi fosse successo davve-ro qualcosa, chi avrebbe più trovato lecarte di Massimo?».

«Allora — continua Decaro — sono an-dato ad aprire la cassaforte degli affetti. Isuoi manoscritti li avevo tenuti in una bu-sta. Mi sono sorpreso che fossero tutti lì,intatti, nonostante le innumerevoli caseche avevo cambiato e i tanti traslochi cheavevo fatto. Ma la vera sorpresa è stato ri-trovare una cassetta audio, una di quellemusicassette che si usavano all’epoca,con incisi i testi e le musiche che avevamoscritto insieme». Il disco artigianale diquei due ragazzi del ‘75, «quelli della foto».

Grazie alla suggestione dei ricordi,cantando quei versi, Decaro si è sentito

come «il ragazzo di allora». «Cose prezio-se, rare. Noi non scrivevamo mai niente:figuriamoci che, nel caso della Smorfia,abbiamo letto i nostri testi la prima voltasolo quando li ha pubblicati Einaudi. Lacasa editrice li aveva presi dai canovacciche usavamo in teatro, prima di registra-re lo spettacolo per la tv».

Dodici le canzoni. E una tredicesima ri-masta inedita. «Ce l’aveva un nipote diMassimo, l’ha tirata fuori quando gli hofatto sentire la cassetta ritrovata. Si chia-ma Ammore a prima vista. Mi sono subi-to ricordato quando ci avevamo lavoratoe come l’avevamo abbozzata, ma il discoera ormai quasi finito ed era troppo tardiper inserirla. Realizzarlo è stato faticoso,anche se si è rivelata una straordinariaopportunità. Ho avuto il privilegio dimettermi in relazione con quella parte di

Massimo alla quale sono stato sempre le-gato, quella poetica, quella che, con emo-zione e trasalimento, ormai tanti anni favidi coronata nel Postino».

Assicura Decaro che ha osato ripren-dere i versi di Troisi «tanto tempo dopo lascomparsa di Massimo» proprio perchéconvinto di averci ritrovato dentro le stes-se atmosfere del film più amato. «Altri-menti non sarei mai riuscito a farcela. Dauna parte questa cosa mi dava una gran-de gioia, ma dall’altra anche una grandesofferenza; non mi sentivo ancora pron-to al distacco, e non lo sarò mai. Alla finemi sono messo al lavoro solo grazie aicompagni di strada eccezionali che ho in-contrato. Nella cassetta del ‘75 c’eranogià tutte le nostre canzoni, in diversi statid’elaborazione. Io le cantavo accennan-do appena la musica con la chitarra. Ci so-

SILVANA MAZZOCCHI

“Il mio cuore malandato”

Pulcine’Ma chi l’ha detto che c’è una fataChe salva i buoni dai loro guai?

Ma chi l’ha detto che‘accussi’ va ‘o munno?L’hanno insegnato a te,

Pullicene’...Male a chi crede che va in Paradiso

Solo il pezzente e il riccoavrà il castigo

Male a chi crede che ‘tant’èdestino’

Vivere come te, Pullicene’Che t’hanno dato per farti

addormentare?

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

REPUBBLICA.ITOggi su

Repubblica.itlo speciale

multimediale

dedicato

a Massimo

Troisi

In esclusiva

i versi inediti

dell'attore

musicati

da Enzo Decaro

e tre brani

delle nuove

canzoni

NON CI RESTA CHE PIANGEREMassimo Troisi e Roberto Benigni

nel film scritto e diretto da entrambi

LA SMORFIAMassimo Troisi insieme

a Lello Arena ed Enzo Decaro

la copertina

Rimpianto(A mia madre)

Io sciupai il tuo candido senoDi giovane madre, di donna piacenteRubai allo specchio la tua bellezzaE nelle mani? Vecchie fotografie...

I discorsi di mio padreLi ho imparati a memoria

Fosse per lui, credereiancora ai libri di storia

Con te devo incontrarmi in un fiume di nero...E tra fiori e marmi

Tra un pugno ed un bacioTra la strada e il mio portone

Tra un ricordo e un giorno neroTorna e vive anche il rimpianto...

Le frontiere della vitaChi corre in questa vita?

Corre chi ha fretta di arrivare...Corre chi cade giù

dopo essere discesodalla sua collina

di compromessi e ipocrisie:un vero peccato

che in cimanon ci fosse la libertà...

Non tutti parlano di sessocome se niente fosse...

Io, per esempio, con la mia donnasto ancora parlando di verginità:

che rarità...

GrazieGrazie, grazie a te

Cui non ho detto mai ti amoGrazie, grazie a te

Che hai scoperto i miei segretiDi cui non parlavo mai

Neppure con me stesso...Grazie, grazie a te

che non hai sgranato gli occhiSe ti ho detto che per soldi

Ho scambiato l’amore col sessoA te che non pretendi di volare

Grazie, grazie di cuore...Alle volte che ti neghi

E poi fai leggermi negli occhiLa fatica che ti costa...

Pensiero vestitoHa scritto un biglietto ai parenti,al suo funerale né fiori né pianti

Se muori a vent’anniti credono santo

non sanno che non hai avutoil tempo per essere come

o peggio di loroUn dubbio lo ha ucciso,

un dubbio tremendo:se avesse mai visto

un pensiero vestito...E quando si e’ accorto

di essersi mentitoallora ha sparato...

no servite come traccia, ma per svilup-parle ho voluto trovare dei musicisti veri,in grado di rispettare lo spirito dell’epocae di restituirle a una dimensione musica-le più attuale. C’era il rischio che risultas-sero datate, sebbene i testi siano poesiapura e dunque senza tempo, soprattuttoquelle che parlano d’amore o di sociale.Ho cercato i musicisti migliori, che han-no saputo trovare la giusta atmosfera. Etutti sono riusciti a dare un contributomirato, prezioso e particolare. Anche se,per raggiungere lo scopo, i tempi sono di-ventati spesso lunghissimi; solo per ave-re Paolo Fresu ci sono voluti quattro me-si. Ma Quanta brava genteha un assolo ditromba struggente, meraviglioso».

Un lavoro scandito da pause ripetute eaccelerazioni improvvise. «Ogni pezzo èstato un’avventura. Le canzoni di Massi-

mo hanno funzionato un po’ come il fuo-co di Prometeo: i testi e le note della cas-setta accendevano in chi si avvicinavauna luce alla quale si aggiungeva semprealtro, in piena sintonia. E, alla fine, ognimusicista è riuscito a portare qualcosa dioriginale, pur rispettando la luce inizialee quel filo a matita già così ben delineato.Le parole delle canzoni si sono rivelatepoco importanti, mentre determinante èstato il loro potere taumaturgico; è statocome se ognuno di loro si fosse trovato acollaborare direttamente con Massimo.E siamo riusciti a garantire al disco testioriginali e vena poetica».

Materiale grezzo, testi in bella copia eversi fitti di cancellature. «Alcuni, lo ricor-do bene, erano venuti fuori in modo par-ticolarmente sofferto. Rimpianto, è unodi questi. Massimo scrisse questa canzo-

ne una sera, dopo aver parlato a lungocon me di sua madre, che aveva perso dabambino. Fu l’unica, volta che mi confidòquesto aspetto così privato di sé: dentroquei versi di ragazzo c’era già il Troisi delfuturo, il geniale esploratore della grandetradizione napoletana, il raffinato inter-prete di Ricomincio datre,l’attore, lo sce-neggiatore, il regista dei film successiviche avrebbe toccato l’eccellenza dellasua vena poetica con Il Postino, general-mente considerato il suo testamento ar-tistico. «La sua idea della scrittura, il suoatteggiamento rispetto alle cose era sem-pre diverso, profondo. E cercare di ritirar-lo fuori è stato un esperimento. Quandoeravamo insieme, era come se, con Mas-simo, non ci fosse mai tregua, mai pace.Lui era alla continua ricerca di un puntodi vista personale sulle cose che contano,

sulla vita. E, nei suoi versi, questa ricercaè evidente. Come avviene con la poesiache, quando è vera, non è mai banale».

Si commuove Decaro quando ricordache Il Postino fu contemporaneo allascomparsa dell’amico (Troisi morì il 24giugno del 1994 a soli quarantuno anni, ilgiorno dopo aver terminato il film cheavrebbe ottenuto quattro nomination al-l’Oscar). «Il Postino per me è la sua operamigliore; c’era dentro lo stesso Massimoche, con la sua poesia e il suo talento, horitrovato nelle nostre canzoni e il miorammarico, anzi di più, è non sapere ver-so quale direzione sarebbe andato se nonfosse morto. Perché da quel grado di poe-sia non sarebbe certo potuto tornare in-dietro. E allora avrebbe dovuto fare i con-ti con la sua grandezza, la stessa che ema-nava da ragazzo, quando l’ho conosciu-

to, la stessa che mi aveva sedotto e con-quistato.

Erano rimaste silenziose quelle canzo-ni; da allora nessuno le aveva mai piùascoltate, né gli amici ne avevano mai piùparlato. «Ho ritrovato anche un paio di te-sti di Lello Arena, glieli devo restituire, gliappartengono. È che ci lasciammo tuttoalle spalle e la canzone era per noi un’e-sperienza finita. Due anni dopo esploseLa Smorfia, arrivò il successo e ci travolse.Improvvisamente venivamo pagati perfare quello per cui normalmente pagava-mo noi. Eravamo entusiasti e non aveva-mo tempo per altro. In seguito ci siamo vi-sti in modo discontinuo, purtroppo.Mentre adesso, con queste canzoni, at-traverso un percorso circolare e perfetto,si è finalmente chiuso in cerchio il ciclopoetico di Massimo.

Dodici poesie e una musicassetta dentro una vecchia busta. L’operadi due ragazzi, Massimo Troisi e Enzo Decaro, che poi avrebberotrovato il successo con La Smorfia, diventa un disco. “Ora tutti,soprattutto i giovani, potranno conoscere l’anima di poeta di Massimo”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 23 MARZO 2008

Quanta brava genteQuanta brava gente

Parla...e nun dice nienteQuanta brava gente

Te sta ’a senti’e nun sente

Tanto so’ cuntentebasta nun guarda’ attuorno

pure ‘a notta nerape’ loro e’ sempre juorno...

Simme brava gentequann’ avutammo ‘a faccia

‘nfaccia ’a nu’ lamientE ‘a Morte ‘un dice niente...

IL POSTINOMassimo Troisi e Philippe Noiret

nei panni di Pablo Neruda

ATTOREEnzo Decaro oggi. L’attore compirà

cinquant’anni domani

Gesù CrìstGesu’Crist fuje mannato

pe’ salva’ l’Aneme de’ dannat’Quann’o ‘nchiuvaino

‘nfacci’o ‘llegno aveva dat’e chiave ‘ncunzegna

Dicett’a Pietro,‘a miez’e lamiente:

‘Fa ca nun morepe’ senza niente!’

Mo’ se stara’ magnann’e ‘mmane, mo’ c’a giustizia

sta tanto luntane...

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AN

TO

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IL DISCOPoeta Massimo,

contiene

le canzoni

scritte da Troisi

e Decaro

( in parte qui

pubblicate )

e il booklet

da cui sono

tratti i documenti

di queste pagine

Uscirà il 4 aprile

e il ricavato

andrà alla Onlus

Bambini

cardiopatici

nel mondo

MASSIMO TROISI

Senza umiltàLa presunzione

Di avere tante cose da dire...L’ambizione

Di avere una storia da raccontare...L’orgoglio

Di sentirsi pieno di invenzioni...E sentirle solo mie

E volere ad ogni costo dirle a tutti...

Ma forse sarei più vicino a voiSe vi parlassi

delle mie paure,dei sogni svanitidei miei progetti

e inibizioni...

l’attualitàDinastie

Un corso alla Bocconi insegna agli eredi delle aziendela ricetta per non perdere tutto, l’antidoto alla maledizioneche colpisce gli imperi industriali e finanziari arrivatialla boa delle seconde e terze generazioni. Guerreintestine, incomprensioni e disastri che le cronachedel capitalismo familiare continuano a raccontare

La sindrome Buddenbrook non riguarda solo le grandi societàche sono sotto i riflettori. Nell’affollatissimo universo delle impresepiccole e medie al primo passaggio di mano padre-figlio la morìa

è del settanta per cento;al secondo resistono solo tre su cento

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

«Mio nonno hafatto il capan-none piccolo,mio padre il ca-pannone gran-de, io il capan-

none grandissimo; mio figlio si droga, hacapito che non riuscirà mai a fare un ca-pannone più grande del mio». L’apologocontenuto in uno spettacolo del comicoAntonio Albanese sintetizza amaramen-te una questione chiave del capitalismodel terzo millennio che da noi, nella patriadel capitalismo familiare e molecolare,sta assumendo connotati più acuti che al-trove. Tanto che è al centro dell’attenzio-ne di economisti, sociologi, psicologi edegli “wealth advisor”, i nuovi consulentidella ricchezza che si offrono per suggeri-re come esorcizzare la patologica morta-lità delle aziende.

Come si fa se l’erede di seconda o ter-za generazione non ha il sacro fuoco del-l’imprenditore-dominus schumpete-riano, se gli piace la musica, la poesia, lafilosofia, se magari preferisce alla cimi-niera i rally, il gioco d’azzardo e la bellavita? Come si fa se il gruppo familiare ècresciuto a dismisura producendo scar-se doti imprenditoriali e perversi rap-porti di clan? I Rothschild fecero un truc-co diciamo dinastico: su diciotto matri-moni dei nipoti di Mayer Amschel Roth-schild sedici furono tra cugini primi. Manon bastò a evitare la diaspora familiare.Anzi le guerre fratricide nel clan si molti-plicarono. Maurice, figlio di Edmond, fuespulso dal gruppo perché troppo don-naiolo, ma poi suo figlio Edmond tornòal vertice della dinastia. I Rockefeller, al-la quarta generazione, si sono trovaticon cento eredi, di cui ventotto candida-ti alla leadership, quando alla fine pre-valse David Junior.

I quaranta eredi Taittinger in Franciapersero l’azienda già alla seconda gene-razione, alla morte del fondatore. Gian-ni Agnelli, il quale aveva creato alla terzagenerazione un’accomandita che vin-colava a un patto di consanguineità iltrenta per cento del capitale, lasciò cen-tosettanta eredi. Sembrava che tutto fi-lasse liscio con Gianluigi Gabetti cheistruiva il giovane nipote Jaki Elkann econ Sergio Marchionne, un manageresterno che l’Avvocato non aveva maineanche visto, finché i conti della Fiatnon hanno cominciato a migliorare eMargherita, figlia dell’Avvocato e madredi Jaki, ha aperto un doloroso conflittofamiliare, sostenendo di essere stata sa-crificata nelle divisione dell’eredità pa-terna. «Mia madre ha avuto tutto ciò chele spettava», ha replicato secco il figlio.«Mia figlia deve sapere che il rispettonon è un diritto che si eredita, ma te lodevi guadagnare», ha rincarato la vedo-va dell’Avvocato, Marella.

Grandi saghe che spesso si trasforma-no in faide, come quella dei Marzottoche, giunti alla sesta generazione, si so-no “atomizzati”. Il comando era stato la-sciato al Conte Pietro, come lo chiama-no a Valdagno, fin da quando quattro deisuoi fratelli si dedicavano soprattutto agareggiare in Ferrari. Cresciuti gli eredi,sono esplosi i conflitti e oggi Pietro, exstorico vicepresidente della Confindu-stria, dichiara di fare «il pensionato».«Che volete? — chiosa Antonio Favrin,che per decenni era stato al fianco di Pie-tro — quando si arriva già alla terza oquarta generazione, la famiglia è unconcetto vago». Quando, più che una fa-miglia, non diventa una confederazionedi famiglie, come quella di Leonardo Del

Vecchio, primo al mondo negli occhialicon trentamila dipendenti e quattro mi-liardi di fatturato, che ha sei figli da tremadri diverse.

I Benetton, i Barilla, i Ferrero, grandifamiglie che hanno trovato o stanno cer-cando equilibri per il futuro, saggiamen-te ammaestrati dai rovesci, dalla disfat-te, dalle stragi aziendali del passato, chehanno visto divorzi familiar-aziendali,la perdita del controllo delle società eclamorosi fallimenti. Chi abbia mezzaetà ricorderà quel Felicino Riva che, indelirio di onnipotenza, pensò che il co-tonificio Valle Susa potessefabbricare auto in concor-renza con la Fiat. O AngeloRizzoli Junior che, oberatodai debiti e dalla politica,finì nella mani della LoggiaP2 di Gelli e Ortolani. O an-cora Raul Gardini, mortosuicida ai tempi di Tangen-topoli, che col cognato Car-lo Sama portò al disastrol’impero di Serafino Fer-ruzzi. E poi i Buitoni, i Mon-dadori, che con la morte diMario Formenton, maritodella figlia di Arnoldo, Cri-stina, persero la bussola«per un pugno di dollari»,come allora si disse. O an-cora, più di recente, Vitto-rio Cecchi Gori, che in uncolpo solo ha perso la casadi produzione paterna, la Fiorentina eanche la moglie. O le donne Bertone, Lil-li, la vedova del fondatore, e Barbara, suafiglia, che stanno accompagnando al di-sastro il piccolo gioiello industriale fon-dato da Nuccio.

Grandi e piccole storie degne di Tho-mas Mann e Luchino Visconti. Storie no-te e meno note. Si sono separati anni fa ifratelli Bulgari, Vittorio e Giuliano Ta-bacchi della Safilo, i Riello, Pino e PieroBisazza, imprenditori vicentini del mo-saico di seconda generazione. Ma si so-no anche risollevati. Sono finiti alle car-te bollate i fratelli Coin, Vittorio e PierGiorgio, i Fossati della Star, i Garavogliadella Campari.

Per la serie “Affetti & Affari” e la ricor-rente impossibilità di coniugare “coe-sione sentimentale” e “business”, Nun-zia Penelope in Vecchi e Potenti, appenauscito in libreria per Baldini Castoldi

Dalai, scandaglia due casi interessanti dipassaggio generazionale, i Romiti e i Ca-protti. Cesare Romiti e i due figli, Mauri-zio e Piergiorgio, sono stati via via estro-messi da Gemina, da Impregilo, da Ae-roporti di Roma e infine si sono ritrovatiin minoranza anche nella Miotir, la cas-saforte di famiglia. Si dice che la deca-denza familiare sia dovuta alle scarsedoti imprenditoriali dei due eredi. Il vec-chio coriaceo, che si attribuisce la qua-lità di essere «molto, ma molto cattivo»,difende naturalmente i figli: «Il loro verohandicap è chiamarsi Romiti» e attribui-

sce le recenti sfortune allanemesi che tocca a chi co-me lui ha avuto troppo po-tere.

Molto, ma molto piùcattivo di Romiti, almenoa quel che ha denunciatouna cassiera dell’Esselun-ga cui sarebbe stato impe-dito persino di andare a farpipì in orario di lavoro,Bernardo Caprotti, classe1925, uomo tutto di unpezzo che ha in odio “i ros-si” e i sindacati, il quale nel1957, in società con Nel-son Rockefeller, aprì a Mi-lano il primo supermerca-to italiano e oggi controllauna delle più grandi cate-ne di distribuzione. Il figlioGiuseppe, assai diverso

dal padre, ha studiato alla Sorbona, si èlaureato in storia e la sua tesi è stata pub-blicata da Franco Angeli. Nel 2002,quando diventa amministratore dele-gato, annuncia che sarà molto diversodal padre e che non intende litigare coni sindacati. Passano neanche due anni eBernardo mette fisicamente alla porta ilfiglio con tutti i suoi dirigenti, carican-doli in Mercedes. Ottuagenario, torna alcomando. «Avevamo sugli scaffali l’Ar-gentil — bolla l’incapacità del figlio — acinque euro, mentre i nostri concorren-ti lo vendevano al trenta per cento in me-no».

«Altro che passaggio generazionale, bi-sognerebbe piuttosto parlare di recuperogenerazionale», ironizza Romiti, pensan-do di certo a sé stesso, a Gianni Agnelli, aEnrico Cuccia, a Leopoldo Pirelli. Leopol-do si ritira nel 1990, quando fallisce il ten-tativo di scalata alla Continental. Gli suc-

cede l’ex generoMarco Tron-chetti Provera, ilquale porta la Pi-relli dalle gommealla telefonia: nonpiù manifattura,ma rendite degli exmonopoli. Le cosenon sono andatecome Tronchetti —che ha blindato fi-nanziariamente i trefigli — voleva e comel’ex suocero avevasperato al momentodi cedergli il coman-do.

Poi c’è pure qualchefamiglia imprendito-riale virtuosa o fortu-nata. Gianni Brera so-steneva che il clan deiMoratti, baluardo delcapitalismo meneghi-no, è qualcosa di moltosimile a certe spassosecomunità inventate daFrank Capra. Si voglionotutti bene e incattivisconosolo per l’Inter, il loro“hobby dannato”. Saràproprio così?

I patti di famiglia, comun-que, cominciano ad andare di moda. Lihanno precorsi le famiglie che controlla-no la De Agostini: «Il nonno Marco Boroli— ha raccontato il nipote Marco Drago —ebbe sei figli, che a loro volta ne ebbero di-ciannove, fino a una quarta generazionecomposta da quarantuno eredi». Che fa-re? Distribuire le forti plusvalenze agliazionisti o reinvestire? Così fu costituitauna Sicav lussemburghese per accen-trare tutto il patrimonio sotto un “glo-bal custodian” e due comitati sul mo-dello del “family office” britannico.

Fila d’accordo con i figli, che con-trollano vari rami di attività, MarioCarraro, che produce sistemi di tra-smissione per veicoli su strada efuoristrada in mezzo mondo. Nonsegnalano problemi familiari i DeLonghi e gli Stefanel. Giovanni Ranaha lasciato gran parte della gestione al fi-glio Gianluca. Quando la rete familiare èbuona e i conflitti sono governati, l’a-zienda corre meno pericoli e i rampollivanno persino in libera uscita. EmmaMarcegaglia, che tra poche settimaneentra in carica come presidente dellaConfindustria, gode di una situazioneperfetta, come è lei. Il padre Steno ha da-to la guida del gruppo alla moglie Mira,al figlio Antonio e, per l’appunto, a Em-ma. Se la presidente sarà troppo impe-gnata nella giostra confindustriale, la re-te familiare è pronta a sopperire.

Il suo predecessore Luca di Monteze-molo, sessantunenne neo-nonno adopera di Matteo, ha già pensato ai figligrandi cui ha affidato le aziende familia-ri, deve solo decidere cosa fare lui dagrande: Ferrari, ferrovie private o politi-ca? Ormai stabilmente in politica daquasi tre lustri è Riccardo Illy, della di-nastia del caffè, che i sondaggi danno il13 aprile come riconfermato governato-re del Friuli-Venezia Giulia. VittorioMerloni, classe 1933, ha un patto sotto-scritto da più di un decennio, i quattro fi-gli hanno piccole quote azionarie e sti-pendi di cui si lamentano, ma la primo-genita Maria Paola può andare a fare laparlamentare del Partito democratico.La dipartita veltroniana di Massimo Ca-learo, ex presidente di Federmeccanicae degli industriali vicentini, è stata inve-

ALBERTO STATERA

ALBUM DI FAMIGLIE1. Nicola Bulgari (al centro) e Paolo

Bulgari (seduto) con l’ad del gruppo

Francesco Trapani (a sinistra)

2. Foto di gruppo per gli industriali

marchigiani Merloni

3. I Marzotto, industriali tessili veneti

Da sinistra: Vittorio, Umberto, Giannino,

Paolo e Pietro

4. Pietro Barilla (seduto) con i figli:

da sinistra, Guido, Paolo e Luca

5. Leopoldo Pirelli (a sinistra)

con il genero Marco Tronchetti Provera

in una foto di undici anni fa

6. L’industriale dolciario Michele

Ferrero con i figli Giovanni e Pietro

7. La famiglia degli armatori genovesi

Costa in una foto degli anni Cinquanta

8. La famiglia Agnelli in una foto

dei primi anni del Ventesimo secolo

9. Il “re dei tortellini” Giovanni Rana

con il figlio Gianluca

10. I quattro fratelli Benetton. Da sinistra:

Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo

11. Gianni Agnelli con il nipote

John Elkann, detto Yaki

12. Guccio Gucci (a destra),

fondatore del marchio, con i genitori

13. Luca Cordero di Montezemolo

(a destra) con il figlio Matteo

14. Carlo Sama (a sinistra), genero

dell’industriale Ferruzzi, ritratto 16 anni fa

con Raul Gardini, ex amministratore

del gruppo Ferruzzi-Montedison

15. Il fondatore della Luxottica Leonardo

Del Vecchio (a destra) con il figlio Claudio

Il teorema “Affetti & Affari”

BARBE BIANCHE E SMOKINGQui sopra, la famiglia dell’ingegner Camillo Olivetti, fondatore del marchio,

in uno scatto dei primi del Novecento. In basso, foto di gruppo per i fratelli Rockefeller nel 1967:

da sinistra, David, Winthrop, John, Nelson e Laurance

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 23 MARZO 2008

C’è il metodo Warren Buffett, l’uomo più ricco del mondo, cheha deciso di donare i suoi sessanta miliardi di patrimonio inbeneficenza lasciando a figli e nipoti una cifra simbolica (si fa

per dire) di qualche milione di dollari («devono imparare ad arrangiarsida soli», ha spiegato). C’è il metodo Ingvar Kamprad, numero uno di Ikea

(trentuno miliardi sul conto corrente), che un giorno ha riunito i tre figli an-nunciando che avrebbe girato l’azienda a colui che avrebbe gestito megliouna singola divisione del gruppo. Ci sono clan con quindici rami dinastici chevanno d’amore e d’accordo nella gestione dell’impero di casa e fratelli che siscannano tra di loro mandando gambe all’aria l’azienda di papà.

Una ricetta infallibile per la gestione dei passaggi generazionali nelle im-prese non esiste. Troppe variabili umane, finanziarie ed economiche. Ognu-no tende a fare da sé, fidandosi di fiuto e intuito come ha fatto (di solito consuccesso) per tutta la vita. Eppure negli ultimi anni è nata anche in Italia unavera e propria scuola (con tanto di frequentatissimi corsi d’aggiornamento)per aiutare i Paperoni a un passo dalla pensione e i loro rampolli a disinnescarele mille insidie e i pericoli di queste successioni imprenditoriali.

«Sgombriamo subito il campo da un equivoco — mette le mani avanti Gui-do Corbetta, professore alla Bocconi di Strategia delle aziende familiari e “gu-ru” di queste lezioni —. I passaggi generazionali non sono di sicuro la primacausa di mortalità delle grandi realtà dinastiche di casa nostra. Contano sì e noper un terzo». Molte scompaiono solo perché vengono comprate a peso d’o-ro, oppure perché zavorrate da troppi debiti o incapaci di tenere il passo conmercati che cambiano sempre più velocemente.

Il problema però c’è: «Non si può negare — ammette Corbetta — e di solito,in base alla nostra esperienza, a far implodere aziende che hanno resistito aiventi della concorrenza per decenni sono tre classici errori: l’imprenditore cheritarda troppo la consegna delle chiavi dell’azienda ai figli, la miopia che por-ta a snobbare l’innesto di manager esterni, e la difficoltà, quando ci sono piùeredi, a passare da una visione monocratica del potere, quella del padre-pa-drone, a una gestione condivisa del patrimonio di casa».

L’era dei “bamboccioni” non ha cambiato molto le cose. Alberto Falck, ilmanager della dinastia dell’acciaio cui è intitolata la cattedra in Bocconi, di-ceva sempre che ogni erede deve «ricomprarsi l’azienda di famiglia». Conqui-starsela sul campo. «Certo, se i padri non mollano il timone, ci sono pochi con-sigli da dare. L’unico è che i figli siano coesi tra loro», suggerisce Corbetta. Al-tro consiglio: evitare di coprire d’oro da subito i rampolli. «Costruire ricchez-za costa fatica, i figli devono impararlo sulla loro pelle». Quindi — insegnanoall’università milanese — non bisogna essere troppo attaccati alla poltrona.«La successione non è una strada a senso unico. Ci sono tante opzioni e per-corsi alternativi. Qui conta la formazione. Nel senso che bisogna guardarsi at-torno. Ci sono tante realtà che a un certo punto hanno deciso di fare un passoindietro. Lasciando il timone dell’azienda a un manager e limitandosi al ruo-lo di soci». Costa un po’ d’orgoglio ma in molti casi è stata la soluzione giustaper evitare di imbarcarsi in faide decennali. L’azienda è anche lei un po’ comeun figlio. E lasciarla andare per la sua strada, alla fine, spesso la fa crescere.

Un’altra raccomandazione classica dei corsi di Corbetta è quella di inserirein azienda persone terze. Collaboratori, amici. Gente comunque fuori dal ri-stretto circolo della famiglia, in grado di svolgere un ruolo di mediazione edequilibrio nelle fasi di transizione in cui un imprenditore deve magari sceglie-re un erede tra tanti figli. «In situazioni di questo tipo è fondamentale la co-municazione. Non bisogna mai smettere di parlarsi. Meglio mettere tutto inpiazza, e la presenza di attori estranei aiuta a tenere le discussioni nei binaridella civiltà».

Se l’obiettivo si allarga dai molti figli ai molti parenti seduti attorno allo stes-so tavolo, la strada è ancora più in salita. «In questo caso il suggerimento è diaffidare le redini dell’azienda a manager esterni», conclude Corbetta. «Ma at-tenzione: la famiglia deve in ogni caso tracciare la rotta. Serve unità. E l’unitàc’è solo se si riesce senza traumi a individuare una leadership». E il metodoWarren Buffett? «In Italia per ora non ha attecchito», conclude Corbetta. «E infondo spero non prenda mai piede. Le aziende familiari sono un patrimoniodi conoscenze e di esperienze che sarebbe davvero un peccato buttare via».

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Manager esterni, figli e nipoti a stecchettoETTORE LIVINI

16. La famiglia di industriali metallurgici

Marcegaglia. Da sinistra: la madre

Palmira, il padre Steno, la figlia Emma

(attuale presidente di Confindustria)

e il figlio Antonio

17. I fratelli Vittorio e Piergiorgio Coin,

terza generazione di commercianti

veneti del tessile

ce criticata in un’intervista dalla mam-ma non tanto per l’abbandono dell’a-zienda, ma per l’imprevedibile candida-tura a sinistra, invece che a destra. Men-tre Ettore Riello ha rispettato la fede ber-lusconiana nelle liste del Pdl.

La sindrome Buddenbrook non colpi-sce soltanto le grandi famiglie e le impre-se che sono sotto i riflettori, ma anchequei milioni di piccole o medie aziende astruttura familiare spesso messe su da exoperai, che rappresentano il novantatréper cento del totale. La Banca d’Italia hastimato che sei imprese italiane su diecisono sull’orlo della successione nel go-verno aziendale, visto che hanno azioni-sti di controllo intorno ai sessant’anni.Se non si attrezzano in tempo il rischio èalto, dal momento che le statistiche rive-lano che alla seconda generazione la mo-ria aziendale tocca il settanta per cento,mentre alla terza arrivano soltanto treaziende su cento.

La prima generazione crea, la secon-da (qualche volta) conserva, la terza di-strugge, avvertono gli “wealth advisor”,e il «capannone grandissimo» di Albane-se così non vede quasi mai la luce. Per-ché — si sa — non c’è niente di peggioche coniugare Affetti & Affari.

Il Duce è ancora prigioniero del maresciallo Badoglio e a Roma regna il caos. È l’estatedel 1943, la più drammatica da quando la guerra è iniziata. Uno dei capi dei servizi se-greti nazisti in Italia è Herbert Kappler, il maggiore che alcuni mesi dopo — il 24 marzodel 1944 — organizzerà il massacro delle Fosse Ardeatine: trecentotrentacinque civiliassassinati con un colpo alla nuca, una mostruosa rappresaglia per l’attentato partigia-no di via Rasella del giorno prima.

In quell’inizio di agosto del 1943 il maggiore Kappler ha una missione impossibile. Devetrovare e liberare Benito Mussolini, che il 26 luglio è stato trasferito in gran segreto a Ponzae poi alla Maddalena. E deve anche informare Berlino, giorno per giorno, ora per ora, sul-l’imminente firma dell’armistizio fra il nuovo capo del governo italiano Pietro Badoglio e glianglo-americani. Gli Alleati sono sbarcati in Sicilia il 10 luglio. A Roma, al comando dei “ser-vizi” tedeschi, sono settimane convulse. Kappler invia centinaia di fonogrammi in Germa-nia, al Comando delle Ss di Heinrich Himmler. Ma l’Intelligence Service di Londra li inter-cetta tutti. E tutti finiscono sulla scrivania di Winston Churchill. È come se i tedeschi gio-cassero la loro guerra a carte scoperte.

I messaggi sono rimasti chiusi per più di sessant’anni nei sotterranei dei servizi segreti in-glesi. Nel 2004, insieme ad altre migliaia di fono-grammi provenienti da tutti i fronti di guerra, so-no stati desecretati. Oggi si trovano ai NationalArchives di Kew Gardens nei pressi di Londra,dove li ha recentemente recuperati e catalogati ilricercatore Mario J. Cereghino. Centinaia di vo-lumi rilegati in cuoio, con le pagine in carta veli-na ingiallite. I fonogrammi spediti dall’Italia so-no confusi con tutti gli altri, arrivati dal Nord Afri-ca e dalla Francia occupata, dai Balcani, dal Me-dio Oriente e anche da Kabul e Teheran.

I dispacci che pubblichiamo sono tutti ine-diti, ad eccezione di quello dell’«azione contro

i giudei» del 16 ottobre 1943. «L’autenticità di questi documenti mi sembra indubbia, dallaloro lettura emerge chiaramente che in quei mesi i servizi tedeschi, se si esclude le infor-mazioni dettagliate che avevano sui movimenti del Duce, brancolavano nel buio», sostie-ne lo storico Nicola Caracciolo. Sono fonogrammi tutti classificati “top secret”. E, fino al2004, consultabili solo dai vertici dei servizi segreti britannici.

È da questi faldoni che ritornano le paure e le speranze della tragica estate italiana del 1943.Dice ancora Caracciolo: «Da quei fonogrammi è evidente che, per Hitler, doveva essere unapriorità assoluta quella di sapere sempre dove era Mussolini. L’altra priorità dei tedeschi era il“problema” degli ebrei…». Aggiunge: «Ma viene fuori anche tutta l’ostilità degli italiani controla loro deportazione, gli italiani non ne potevano più delle Ss e della guerra».

Il maggiore Kappler è sempre a conoscenza degli spostamenti del Duce. Informato da cara-binieri, confidenti fascisti, da spie che lavorano per il suo comando. Ha anche più di una “tal-pa” in Vaticano. E proprio da lì lo avvertono che sono già in corso le trattative per l’armistizio,fra il «traditore» Badoglio e gli Alleati. A Berlino trasmette anche le sue analisi sulla situazionein Italia. Sulla popolazione che prova «disgusto e orrore» per i tedeschi. Sul Duce «che è asso-lutamente impopolare». Sul pericolo «di una guerra civile».

Agli ordini di Herbert Kappler troviamo in quell’estate anche il capitano delle Ss ErichPriebke, processato in Italia negli anni Novanta — dopo mezzo secolo di latitanza in Argen-tina — per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Priebke vive ancora a Roma, agli arresti domici-liari in una casa non lontana da via Rasella.

2 AGOSTO 1943

All’attenzione del Coman-dante delle Ss [HeinrichHimmler, ndr], urgente.Tramite Pagnozzi, che è

in contatto con una fonte affidabile al-l’interno dell’Arma dei Carabinieri,Dollman ha appreso che il Duce si tro-va dall’altro ieri nell’isola di Ponza, traGaeta e Napoli. Informerò immediata-mente il generale Student.

4 agosto 1943.Il feldmaresciallo Kes-selring non è d’accordo con i piani del Co-mandante delle Ss perché l’azione del ge-nerale Student [per la liberazione di Mus-solini, ndr] abbia luogo nell’immediato.

6 agosto 1943. Stiamo diventandosempre più impopolari tra i settori piùumili della popolazione.

6 agosto 1943. Secondo informazioniprovenienti dal Vaticano, i negoziati[per la firma dell’armistizio, ndr] sonoprogrediti a tal punto che la capitola-zione dell’Italia potrebbe avvenire, almassimo, entro quaranta giorni.

8 agosto 1943. Il 5 agosto, i cinema diRoma hanno esibito i cinegiornali su-gli eventi del 26 luglio. Le sce-ne strappavano grandi ap-plausi, tranne quelle in cuiappariva il re. Badoglio eraaccolto con favore. Gli ap-plausi più calorosi erano ri-servati agli ufficiali e ai soldatiitaliani.

10 agosto 1943. Il Duce si tro-va sicuramente a Ponza, mal-grado circolino voci in sensocontrario.

11 agosto 1943. Un monsignoredel Vaticano ha incontrato ieri DelRe (che il prelato conosce come fa-scista) per comunicargli la seguentenotizia: l’ambasciatore inglese in Va-ticano è stato informato che il Duce sitrova nell’isola di Ponza.

14 agosto 1943. Il Duce è stato eva-cuato da Ponza il 12 agosto. Stiamo in-dagando in ogni direzione per scopriredove si trovi attualmente. Le nostri fon-ti sono i commissariati di polizia, Pisci-telli e Dollman.

15 agosto 1943. Il generale Student èin attesa delle comunicazioni radio sulluogo di detenzione del Duce, per poitrasmetterle al Comandante delle Ss.

15 agosto 1943. L’agente 35/7 ha ap-preso che il Duce sarebbe stato tradot-to all’isola della Maddalena.

Maddalena a villa Pantano, a sud del la-go Trasimeno. L’informazione provie-ne da un ufficiale della sua scorta. Ho giàordinato una verifica.

30 agosto 1943. In relazione agli svi-luppi politici interni, la mia impressio-ne è che il governo Badoglio concluderàuna pace separata [con gli angloameri-cani, ndr] nell’arco dei prossimi diecigiorni.

5 settembre 1943.Grazie alle informa-zioni ottenute tra-mite una fonte dellapolizia in localitàIsola di Gran Sasso,abbiamo scopertoche, con ogni pro-babilità, il Duce sitrova presso unalbergo sito inquella monta-gna. Ho già in-viato alcunimiei uominiperché effet-tuino un so-

pralluogo. Saranno di ritorno a Romanel pomeriggio di martedì.

6 settembre 1943. Il direttore dellacentrale telefonica presso il quartiergenerale dell’Aeronautica [militare ita-liana, ndr], ha trasmesso al nostro con-fidente Del Re la seguente notizia. Alleore 17.00 del 4 settembre si è svolta unaconversazione telefonica tra il Coman-do supremo delle Forze armate [italia-ne, ndr] e il Comando dell’Aeronautica.

Le proposte di pace italiane sonostate sostanzialmente

a c c o l t e

dagli inglesi. Nel corso delle future trat-tative, si tenterà di rimuovere le obie-zioni sollevate dagli americani. Vistal’importanza della questione, abbiamosubito cercato di metterci in contattodiretto con la fonte. Tuttavia, per timo-re, quest’ultima ha opposto un rifiuto aDel Re, che conferma l’informazione egarantisce l’attendibilità della sua ver-sione.

7 settembre 1943. Abbiamo conclu-so il sopralluogo sul versante sud delGran Sasso. Vi confermiamo che il Du-ce si trova ancora presso l’albergo diCampo Imperatore.

10 settembre 1943. L’o-perazione per la li-berazione del Du-ce è stata rinviata.

11 settembre1943. I generi ali-mentari sono scom-parsi da due giorni.Tutti gli alberghi e inegozi sono chiusi.La popolazione nonha di che nutrirsi ed èostile alla Germania.

12 settembre 1943.Questa mattina, alle ore10.00, il reparto di para-cadutisti agli ordini diSkorzeny [uno dei capidei servizi segreti tede-schi in Europa, ndr] hainiziato l’operazione sulGran Sasso. Attendiamoancora la conferma delbuon esito dell’azione. Ilreparto deve tornare allabase solo nel caso il Duce sianel frattempo arrivato in

Germania.12 settembre 1943. La liberazione di

Mussolini è stata portata a termine consuccesso. La sua partenza per Vienna,dall’aeroporto di Pratica di Mare, è av-venuta alle ore 17.00 odierne.

16 settembre 1943. Il “piano Ciano”[il suo rapimento, ndr] è stato eseguitosecondo i tempi previsti. Tuttavia, misento in obbligo di sottolineare che so-no sempre stato contrario all’operazio-ne, per le conseguenze che questa avràsull’atteggiamento di tutti gli italianinei confronti della Germania.

18 settembre 1943. L’annuncio dellarifondazione del Partito fascista da par-te di Mussolini ha destato scarsa im-pressione tra i romani. La città appare

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

Carte inediteÈ l’estate 1943. Il Duce è prigioniero, Badoglioprepara l’armistizio, i tedeschi rastrellanogli ebrei romani. Di tutto questo si occupal’ufficiale che il 24 marzo successivoorganizzerà il massacro delle Fosse ArdeatineI suoi dispacci a Berlino ora sono stati ritrovati

HERBERT KAPPLER

ATTILIO BOLZONI

Le spie delle Ssnella Città Aperta

SOUVENIRDue foto scattate

a Roma che Kappler

teneva con sé

come souvenir

al momento

della cattura

Accanto, Kappler

(a destra)

col capitano Hass

Sopra, lui nel cerchio

a sinistra e Priebke

nel cerchio a destra

Firmato Kappler

la memoria

ARCHIVI INGLESII testi dei fonogrammi firmati

Kappler e le foto pubblicati

in queste pagine sono stati trovati

nei National Archives di Kew

Gardens, a Londra, dal ricercatore

Mario J. Cereghino

17 agosto 1943. Oggi, il Sim [il Servi-zio informazioni militari agli ordini diBadoglio, ndr] ha ordinato la seguenteindagine conoscitiva: «Quali potrebbe-ro essere le reazioni della Germania nelcaso l’Italia passasse dalla parte dell’In-ghilterra?». La risposta deve assoluta-mente arrivare prima della fine dellagiornata.

19 agosto 1943. Assieme ai figli, ilconte e la contessa Ciano si trovano at-tualmente nella loro residenza (l’indi-rizzo è noto al comandante delle Ss).Hanno libertà di movimento ma sonosottoposti a sorveglianza.

20 agosto 1943. Secondo informazio-ni attendibili (ottenute da Pagnozzi),questa mattina il Duce si trovava anco-ra nell’isola della Maddalena.

29 agosto 1943. Secondo Pomilio, exdirettore dell’Istituto culturale fascista,il Duce è stato tradotto dall’isola della

L ’ a v a n z a t aangloamericana è vi-sta con esultanza dalle mas-se, che confidano in un miglioramen-to della situazione alimentare e persinodelle condizioni generali di vita. Preva-le l’idea che le truppe germaniche sia-no responsabili della catastrofica si-tuazione alimentare, a causa delle re-quisizioni. Si ritiene che i britannici ri-solveranno la situazione in un baleno.Corre voce che la liberazione dell’Italiadai tedeschi arriverà presto alle frontie-re settentrionali. Gli italiani sono con-vinti che si disferanno presto dei fasci-sti, sui quali pende una cupa minaccia.Tuttavia, c’è il presentimento che i sol-dati tedeschi si daranno a furti e sac-cheggi e che distruggeranno le installa-zioni militari. Tutti credono ciecamen-te alla propaganda inglese, che provo-ca un’ostilità crescente nei confronti

dei nostri combattenti.15 ottobre 1943. La dichiarazione di

guerra del governo Badoglio [contro laGermania, ndr] ha sollevato scarso in-teresse tra i settori popolari. I gruppi an-tifascisti guidati dai comunisti la inter-pretano come il via libera ad ogni sortadi violenze contro i tedeschi. Si teme loscoppio di una guerra civile. L’incertez-za è accresciuta dal fatto che il Duce ta-ce e non appare in pubblico. In tal mo-do, vengono meno le ultime speranzenel nuovo governo [della Rsi, ndr].

16 ottobre 1943. L’azione contro igiudei è iniziata e si è conclusa in gior-nata, nel migliore dei modi e secondo ipiani prestabiliti. Sono state impiegate

calma. La popolazione è scettica e nonsi aspetta niente di buono da questo go-verno Quisling.

23 settembre 1943. Tra i documentida noi sequestrati presso il ministerodell’Interno, si trovano i rapporti (fre-quentemente citati) sulla vita privatadel Duce e delle sorelle Petacci.

29 settembre 1943. I sentimenti [de-gli italiani, ndr] nei confronti dei tede-schi si stanno deteriorando. In seguitoalle voci crescenti di saccheggi e seque-stri, vi è ovunque apprensione (se nonproprio panico) per le distruzioni e gliarresti compiuti. Persiste la convinzio-ne che Roma sarà presto evacuata daitedeschi. Un nostro ritiro avrebbe l’ef-fetto di minare totalmente la fiducianella vittoria tedesca. Prevale un atteg-giamento di disgusto e orrore.

30 settembre 1943. Il Duce è assolu-tamente impopolare.

4 ottobre 1943. In generale, la popo-lazione prova una gioia maliziosa per lasconfitta della Germania. Il ritiro delletruppe tedesche [da Napoli, ndr] versoil nord è diventato evidente fin da ieri.

tutte le forze di polizia tedesche a di-sposizione. A causa della sua inaffidabi-lità, non è stato possibile utilizzare lapolizia italiana, che ha partecipato sol-tanto agli arresti individuali (avvenutiin rapida successione) nei ventisei set-tori in cui si è svolta l’operazione. Non èstato possibile circondare interi isolati,sia per lo status di “città aperta” di cuigode Roma, sia per il numero insuffi-ciente della polizia germanica (365 uo-mini in tutto). Malgrado ciò, nel corsodell’azione, 1259 persone sono state ar-restate nelle case degli ebrei e condottequi, al punto di raccolta della scuola mi-litare [in via della Lungara, ndr]. L’ope-razione si è svolta tra le 5.30 e le 14.00. Ilnumero dei giudei detenuti è di 1002.Sono stati rilasciati gli elementi di san-gue misto, gli stranieri (tra questi, uncittadino vaticano), le famiglie compo-ste da coppie miste (incluse quelle in cuiuno dei coniugi è giudeo), i domestici egli inquilini ariani. La deportazione [de-gli ebrei romani, ndr] è prevista per il 18ottobre, alle ore 9.00, sotto la scorta di 30uomini. In maniera inequivocabile, il

comportamento della popolazione ita-liana è stato di resistenza passiva, ma inmolti casi si è trasformato in assistenzaattiva. In un caso, ad esempio, la poliziasi è trovata, ad una porta d’ingresso, di-nanzi a un fascista in camicia nera mu-nito di documento d’identità. Era en-trato nella casa ebrea un’ora prima e so-steneva che l’abitazione era di sua pro-prietà. La maggior parte della popola-zione non si è fatta vedere durante l’a-zione. Si è fatta avanti solo una follasguaiata che ha cercato di tenere lonta-ni i poliziotti dai giudei, in alcuni casicon le armi in pugno.

26 ottobre 1943. Il console generale[della Milizia fascista, ndr] Ferrata haricevuto da Buffarini Guidi [ministrodell’Interno della Rsi, ndr] la seguenteversione del suo colloquio con EddaCiano: «Mio marito aveva tutte le ragio-ni per svincolarsi da quei porci di tede-schi, mentre quel rammollito di miopadre pensava ancora di poter tenereloro testa». All’udire queste parole, ilministro ha immediatamente messoalla porta la figlia del Duce.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 23 MARZO 2008

SEGNALETICHELe foto segnaletiche

scattate a Herbert

Kappler dall’esercito

Usa il 9 maggio 1945

in Baviera, dopo

che il maggiore delle Ss

si era arreso al nemico

i luoghiOn the road

Nel colosso asiatico in pieno sviluppo è in corsoil più vasto esodo umano della storia: ogni anno15 milioni di contadini fuggono verso le città.Teatro di questa migrazione è l’autostrada 312,che attraversa il Paese da est a ovest. Un giornalistal’ha percorsa e racconta il suo viaggio straordinario

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

PECHINO

Chi ha vissuto la tragedia delTibet nel resto del mondonon può immaginare lapercezione che ne hanno i

cinesi. Dalle famigliole che si incontranola sera nei ristoranti popolari di Pechino,ai giovani che si esprimono sui blog, sisente vibrare un’indignazione ben diver-sa dalla nostra. «I tibetani sono degli in-grati», è una delle frasi più moderate cheho sentito in questi giorni. Ingrati, perchéi cinesi sono convinti di aver fatto moltoper loro: prima li hanno liberati da unateocrazia feudale e parassitaria, poi glihanno costruito ospedali, strade, aero-porti e ferrovie, li hanno alfabetizzati. Aloro è stato perfino concesso un privile-gio negato a quasi tutti i cinesi han: inquanto minoranza etnica i tibetani nonsono tenuti a rispettare la regola del figliounico. Come tutta risposta gli «ingrati» siscatenano nelle scene di violenza controla popolazione cinese, riprese dalla tv diStato nei giorni scorsi.

A pensarla così non sono soltanto i ci-nesi che vivono dentro le frontiere dellaRepubblica popolare e quindi sono sottol’influenza della propaganda, diun’informazione censurata e manipola-ta. So che perfino le comunità di studen-ti cinesi nelle università americane difronte agli avvenimenti del Tibet si arroc-cano, si sentono circondate da un murod’incomprensione. Sentono montarel’ostilità degli occidentali. Ascoltando leaccuse rivolte a Pechino, si consideranole vittime di un linciaggio ideologico.Questi giovani cinesi che da anni vivononegli Stati Uniti hanno ricevuto le notizierecenti dal Tibet come le abbiamo avutenoi; hanno sentito parlare il Dalai Lama;hanno letto e ascoltato i nostri commen-ti. Eppure anche nei campus universita-ri americani i cinesi condividono il pare-re dei loro connazionali su quegli «ingra-ti» dei tibetani. La verità è che molti cine-si del Ventunesimo secolo hanno versouna parte del proprio Paese un atteggia-mento che evoca quello dei pionieriamericani dell’Ottocento. I tibetani sonoi loro indiani pellerossa: dei selvaggi, in-capaci di adattarsi alla rivoluzione indu-striale. I cinesi si sentono portatori di unamissione civilizzatrice. Considerano i ti-betani un popolo inferiore.

Chi non ha traversato per esteso la Ci-na non può rendersi conto di questo pa-radosso: la nazione più popolosa del pia-neta è per lo più un territorio disabitato. Icinesi etnici o hanstanno quasi tutti con-centrati nelle regioni costiere dell’est edel sud, dove la densità della popolazio-ne è altissima. Restano ancora semivuo-te le aree ben più vaste che sono la Mon-golia interna, lo Xinjiang musulmano, ilTibet. Lì il viaggiatore può passare setti-

mane intere senza incontrare una veracittà; a volte senza imbattersi in un’ani-ma viva. La Cina del Ventunesimo secoloè impegnata a “portare il progresso”, co-lonizzandole, in quelle immense regioniche rappresentano il suo Far West: lanuova frontiera dello sviluppo. In mezzoai deserti, o nelle steppe mongole, o su al-tipiani himalayani sconfinati lavoranobattaglioni di tecnici e operai cinesi perfare le autostrade e le ferrovie, i traliccidell’elettricità e i ripetitori dei telefonini.Proprio come i loro antenati emigrati inAmerica costruivano la grande ferroviatranscontinentale che doveva unire laEast Coast al Pacifico. La nuova frontierada conquistare, il Far West cinese, rap-presenta anche la grande speranza persalvare da un futuro collasso Shanghai,Shenzhen e Canton: è là nelle immensitàsemidesertiche che i ci-nesi cercano il petrolioe il gas, l’acqua e i me-talli per continuare adalimentare la crescitadelle zone costiere.

A metà strada fra Pe-chino e il Far West sonosorte gigantesche me-tropoli che rappresen-tano le “teste di ponte”della colonizzazione.Per esempio Chong-qing (30 milioni di abi-tanti), la mostruosapiovra industriale sulloYangze: sembra unaChicago del primo No-vecento ingigantitadalla fantasia dello sce-nografo di Blade Run-ner. In quei crocevia nel cuore della Cinacozzano due flussi, quello della conqui-sta coloniale verso ovest, e le migrazionidei più poveri che dalle campagne arre-trate fuggono per cercare lavoro in fab-brica.

Bisogna aver visto questo movimentoincessante per capire la Cina di oggi, an-che la sua durezza, la sua crudeltà. È losforzo che ha fatto Rob Gifford, un giova-ne veterano tra i giornalisti occidentali inCina, che frequenta questo Paese dal1987 e vi è stato corrispondente della Na-tional Public Radio americana (l’unicaradio pubblica, e di qualità, negli StatiUniti). Quando ha saputo che stava perconcludersi il suo incarico di corrispon-dente in Cina, Gifford ha deciso di attra-versare il Paese on the road. Si è messo inviaggio lungo l’autostrada 312, che attra-versa la Cina per quasi cinquemila chilo-metri da est a ovest, da Shanghai si lancianel cuore agricolo e povero del Paese finoa raggiungere il deserto del Gobi, e da lì lavecchia Via della Seta.

L’autostrada 312 è, letteralmente, unospaccato della Repubblica popolare: lataglia longitudinalmente e soprattutto laviviseziona. Consente di fare un viaggio

nello spazio e nel tempo, dalla Cina piùricca e avanzata alle zone che sono anco-ra Terzo mondo. La 312 stessa è un mi-crocosmo perché la Cina di oggi è una na-zione in eterno movimento. È il teatro delpiù vasto esodo umano mai accadutonella storia: ogni anno 15 milioni di con-tadini fuggono dalle campagne verso lecittà. Le autostrade sono la versione con-temporanea della ferrovia transconti-nentale negli Stati Uniti dell’Ottocento, lìpassano i pionieri in viaggio verso la nuo-va frontiera. La 312 è anche diventata unluogo di culto, un itinerario di moda per igiovani cittadini in cerca di emozioni, l’e-quivalente della leggendaria Route 66americana. Lungo l’autostrada cineseavvengono due pellegrinaggi di naturamolto diversa. Da un lato c’è un popolo in

cerca di speranza chefugge come i contadinidell’Oklahoma deglianni Trenta descritti daJohn Steinbeck nel ro-manzo Furore, i poveriscacciati dalla siccitàche emigravano versola California. Nel sensoinverso c’è una gio-ventù in cerca di emo-zioni e di avventure cheparte da Shanghai conlo spirito di Jack Ke-rouac, dei beatnik e de-gli hippy americani ne-gli anni Cinquanta eSessanta. Vanno versoil deserto del Gobi a cer-care la loro California.L’autostrada è il luogo

migliore per intercettare lo spirito dellaCina di oggi, il suo eterno movimento, lafrenesia di spostare, trasferire, trasporta-re uomini e cose. Per capire che Paese di-venterà questa Cina, Gifford ha provato aesplorarlo seguendo l’arteria principale:«La mia idea è di rispondere a queste do-mande viaggiando lungo la 312, tra ca-mionisti e puttane, yuppy e artisti, agri-

coltori e venditori di telefonini». Ne è ve-nuto fuori un libro singolare, ChinaRoad, che esce in Italia tra pochi giorni,pubblicato da Neri Pozza col titolo Cina.Viaggio nell’Impero del futuro.

«Negli Stati Uniti», scrive Gifford, «cisono nove città con più di un milione diabitanti. In Cina quarantanove. Può ca-pitare di viaggiare per la Cina, arrivare inuna città grande due volte Houston epensare che quel posto non lo si è mainemmeno sentito nominare. La nuovaRoute 312 ha contribuito al cambiamen-to, riducendo drasticamente la duratadel viaggio per Nanchino, a Shanghai everso la costa. Così come hanno contri-buito l’espansione verso l’interno di fab-briche e società in cerca di costi più con-tenuti, e le rimesse dei lavoratori emigra-ti sulla costa».

La grande traversata inizia proprio daShanghai — «energia, atmosfera, spe-ranza, possibilità, passato futuro: è tuttoqui» — dove Gifford focalizza subito unadifferenza tra noi e loro. La coglie nelcomportamento diverso di due gruppi dituristi che passeggiano sul Bund, il lun-gofiume di Shanghai che ospita i palazziart déco del primo Novecento, e sull’altrasponda ha di fronte Pudong, la Manhat-tan dell’Asia con selve di grattacieli chesvettano sempre più in alto. «Gli occi-dentali, come fa immancabilmenteognuno di loro a Shanghai, cercano di ri-creare il passato scattando qualche fotoai vecchi palazzi coloniali. Anche i cinesifanno quello che i cinesi fanno imman-cabilmente a Shanghai, cercano di sfug-gire al vecchio scattando foto nella dire-zione opposta, lo sguardo perso oltre ilfiume».

Penetrando nella Cina profonda, nellaprovincia agricola dello Anhui lungo la312, Gifford s’imbatte in un uomo in bici-cletta con un bandierone rosso attaccatoalla sella che garrisce al vento mentre pe-dala, e ha un grande cartello giallo attac-cato alla ruota posteriore. Sul cartello c’èscritto «Viaggio attraverso la Cina controla corruzione». L’uomo, WangYongkang, è stato rovinato da funzionaristatali disonesti. «Tutte uguali le dina-stie», commenta il ciclista-dissidente so-litario, «partono bene ma poi si guastano.È per questo che abbiamo bisogno di unariforma politica. Altrimenti il partito e ilPaese crolleranno entro una decinad’anni. In Occidente la gente ha un mo-dello morale interiore. I cinesi no. Se nonc’è qualcosa di esterno a frenarli, loro fan-no quello che vogliono per se stessi, sen-za chiedersi se è giusto o sbagliato».

Una serata con una prostituta in unasquallida e remota città di provincia rive-la i miracoli del karaoke: «Da giornalistaradiofonico ho scoperto nel corso deglianni che convincere i cinesi a parlare confranchezza al microfono è una fatica im-proba. Per quanto nel Paese non circolipiù la rigidità dell’era maoista, resta sem-

VASTITÀQui sopra,

una strada

dell’entroterra

cinese con,

sovrapposto,

il tracciato

dell’autostrada

312 da Shanghai,

sulla costa,

al “Far West”

del Paese

Le immagini

piccole sono

“cartoline”

dalla Cina odierna

MONTAGNE, DESERTI E FIUMIQui sopra, dall’alto,

tre panorami cinesi: le vette

dello Hami, nel nord-est

del Paese; una veduta

del deserto del Gobi; un ponte

sul Fiume Giallo a Lanzhou

FEDERICO RAMPINI

La Cina e il suo

pre una certa titubanza a esprimersiapertamente, soprattutto con uno stra-niero. Ma basta ficcare un microfono dakaraoke in mano a un cinese e lui o lei nonesiteranno a cantare. Il karaoke per gliasiatici è il mezzo socialmente accettabi-le per esprimere ciò che sentono nelprofondo. (La prostituta) Wu Yan ha det-to un sacco di cose a questa grande stan-za vuota e a me».

Unico straniero su una corriera dicampagna diretta a Jinchang, il reporteramericano s’imbatte in una ginecologache fa il giro dei villaggi per costringeread abortire le donne che hanno già figli.Ne esce un racconto orripilante, di abor-ti forzati all’ottavo mese sotto la pressio-ne della polizia. «La dottoressa non sirende conto che sta rivelando cose mol-to delicate. Per lei è tutto logico e patriot-tico e giusto. “I cinesi sono troppi”, ripe-

te. Quando le chiedo come si sente comemadre a fare quelle cose non capiscenemmeno la domanda. I cinesi vedonoil mondo occidentale, con tutte le gravi-danze adolescenziali e le relative conse-guenze, e si domandano cosa diavolocrediamo di fare, lasciando che tuttoquesto succeda quando potremmo ri-solvere il problema con una sempliceprocedura medica».

Arrivato nel deserto del Gobi dovel’autostrada 312 indica 2.643 chilometrida Shanghai, nella cittadina di ZhangyeGifford s’imbatte nei manifesti di BradPitt e Angelina Jolie, la pubblicità del filmMr & Ms. Smith. S’imbatte anche nei rap-presentanti locali della Amway, celebremultinazionale americana della “vendi-ta diretta”, il marketing porta-a-porta diprodotti domestici. È uno dei quadrettipiù deliziosi del suo racconto di viaggio.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 23 MARZO 2008

Il gruppo dei venditori locali dellaAmway, ai confini del più vasto desertodell’Asia centrale, è organizzato quasicome una setta religiosa. Hanno i loro ra-duni, in cui ascoltano il Verbo del marke-ting dal loro capo, per assorbire le tecni-che di persuasione occulta con cui ven-dere i prodotti più inverosimili: deodo-rante per le ascelle in una landa desolatadove i clienti sono rozzi muratori deicantieri; spray per profumare il fiato do-po i pasti a base di cibi piccanti e soffrittid’aglio. Quasi come in un miraggio fra ledune del deserto Gifford ha la visione delSogno Cinese e del Sogno Americanoche si fondono l’uno nell’altro.

La 312 prosegue attraversando loXinjiang, l’ex Turkmenistan orientalepopolato dagli uiguri di religione islami-ca. Ai tempi di Marco Polo lo solcavanole carovane dei cammelli, i mercanti lun-

go la Via della Seta facevano la spola tral’Impero di Mezzo e Samarcanda, Buc-cara, la Persia, il Mediterraneo. LoXinjiang ha le dimensioni dell’Italia piùla Francia, la Germania e la Spagna mes-se assieme. Se fosse una nazione sareb-be la sedicesima al mondo per superfi-cie, eppure ha appena venti milioni diabitanti. È solcato dall’oleodotto che tra-sporta energia dall’Asia centrale. Sta-gno, alluminio, rame, ferro, oro: sotto lasabbia del deserto ci sono giacimenti diricchezze immense. Il cellulare diGifford vibra, come sempre succede inCina quando si entra in una nuova pro-vincia o regione. Il messaggio pubblici-tario dice: «Benvenuto nello Xinjiang».Subito dopo gli arriva un altro sms: «Cer-chi un regalo? La giada di Khotan è per-fetta per ogni occasione. Chiama subitoquesto numero».

IL LIBRO

Si intitola Cina. Viaggio nell’Imperodel futuro il libro in cui Rob Gifford

ricostruisce la sua esperienza

on the road sulla Route 312,

attraversando tutto il Paese

Pubblicato da Neri Pozza

(380 pagine, 20 euro), il volume

sarà in libreria giovedì 27 marzoF

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Far West

Piero della Francesca è il pittore degli enigmi: i suoi dipintisono pieni di simboli, allusioni, dettagli che rimandanoa intrighi e perfino ad autentici “gialli”. Ma nessuno finora

aveva provato a sovrapporre i suoi panorami di fantasia a quelli realie attuali. Ora la lacuna è stata colmata da due appassionate “cacciatricidi sfondi” che hanno percorso il Montefeltro in lungo e in largo fino a trovarele “location” che fanno da fondale al “Dittico degli Uffizi”

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

URBINO

Li hanno sotto il naso da mezzo millennio e non se n’erano accorti. I paesaggidi Piero. Proprio come li hanno letteralmente sotto il naso i due duchi, Fede-rico da Montefeltro e la sua consorte Battista, nei ritratti gemelli che ce ne tra-mandano i profili, robusto e roccioso lui, levigata ed opalescente lei. Quelle

colline verdastre, quegli specchi d’acqua, quei campi trapunti di alberelli non sono sfon-di immaginari, non sono paesaggi idealizzati e simbolici come tanti critici hanno detto escritto: quei rilievi e quei fiumi hanno un nome, un’identità, un indirizzo. Li si può anda-re a trovare, ancora oggi. Li stiamo andando a trovare, in effetti. Eccoli. Coi talloni nel fan-go di una vecchia carraia che s’inerpica sopra l’abitato di Urbania, in mano le riproduzio-ni del Dittico degli Uffizi, frughiamo con gli occhi la piana dove il Metauro, in meandri al-berati, svanisce verso l’orizzonte. Dal paradiso dei pittori, Piero della Francesca ci vuol be-ne: ci ha prenotato una giornata fresca, luminosa, rugiadosa, c’è persino quella leggera fo-schia bassa, come nel mattino eterno delle sue tavole.

E lo vediamo. Si chiama monte Fronzoso. Il suo profilo a piramide è più netto a sinistra,appoggiato a un colle più basso sulla destra. Nella tavola, proprio sulla verticale del naso-ne aquilino di Federico, il colle dipinto ha lo stesso, identico aspetto. Bisogna ammetter-lo. Persino le stesse ombre. «Convinto adesso?», sorride di soddisfazione Rosetta, la cac-ciatrice di paesaggi. «Quando l’ho trovato, per l’emozione non ho dormito tre notti».

Nel baule della macchina Rosetta Borchia tiene sempre un binocolo, una macchina fo-tografica, una mappa dettagliata del Montefeltro, e l’opera omnia di Piero nelle miglioririproduzioni disponibili. Da mesi la vedono girare con qualsiasi tempo per strade impro-babili, fermarsi, scendere, scrutare, confrontare, fotografare. È bello essere un’ex diri-

MICHELE SMARGIASSI

gente comunale in pensione, una sessantenne piena di energia. Che voleva dedicare alsuo splendido giardino-museo di rose antiche (seicento varietà) oppure ai suoi quadri,paesaggi marchigiani, naturalmente. Ma un giorno, mentre girava un video promozio-nale per l’agriturismo di un amico, di colpo il deja-vu: «Io qui vedo Piero». Piero chi, chie-se l’amico. Piero l’unico, il grande, il “monarca della pittura”. Rosetta non per nulla ha undiploma di Belle arti. E ha un’eccellente memoria visiva. La sera a casa, davanti al com-puter, il confronto tra le foto e i dipinti la convinse di aver visto giusto. «Ma io lo sapevo.Piero era innamorato del mondo che vedeva. Se fu capace di dipingere i nei sulla guanciadi Federico, non poteva accontentarsi di uno sfondo di fantasia». Non restava che cercar-li, rintracciarli uno per uno, i paesaggi “fotografati” da Piero, e rifotografarli dal punto esat-to in cui li vide lui. «Qui ho fatto tagliare due alberi dal contadino, per avere la visuale libe-ra». Tutto pur di strappare a Piero uno dei suoi segreti.

Che Piero sia pittore enigmatico, è cosa nota. Scarne le notizie sulla sua vita, un rom-picapo la cronologia delle sue opere, un mistero le allusioni, i simboli, i dettagli disse-minati nei suoi dipinti. Sull’identità dei tre personaggi in primo piano nella Flagella-zione, conservata proprio qui a Urbino, lo storico Carlo Ginzburg scrisse Indagini chefecero accapigliare le accademie. Al paragone, i paesaggi sullo sfondo del doppio ri-tratto dei duchi di Urbino (e dei loro allegorici Trionfi, dipinti sul retro delle due tavo-lette) sono sempre apparsi molto meno problematici ai grandi lettori d’arte. Piero, infondo, è un maestro dei corpi e delle prospettive architettoniche. E l’invenzione delpaesaggio come genere pittorico a pieno titolo doveva aspettare ancora qualche de-

Il Duca e il misterodel lago fantasma

IL LUOGOÈ l’orizzonte

che si

abbraccia

dalla Rocca

di San Leo,

guardando

verso sud

LA COLLINALa collina

dal singolare

profilo

sotto il mento

di Battista

Sforza

è il Maiolo

IL PROFILOUna frana,

storicamente

documentata,

ha cambiato

il profilo

del monte

dopo il dipinto

I DETTAGLIStrade e case

non ci sono

più. Forse

sono solo

simboli del

buongoverno

dei sovrani

L’ORIZZONTEQuello reale

è più aspro

che nel dipinto

Forse l’artista

ha voluto

addolcire

le terre ducali

Paesaggi

Pierodi

i

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 23 MARZO 2008

cennio, almeno fino alla Tempesta del Giorgione. Quegli sfondi monfeltrini sono unpo’ diversi, è vero, dalle rocaillese dalle colline convenzionali degli altri rari scenari na-turali dei dipinti di Piero. Ma anch’essi da liquidare in poche righe. Paesaggi «severi edignitosi» ma impersonali, tagliò corto il Berenson. «Non uno scenario ma un luogodella mente», stabilì il Focillon. «Paesaggio simbolico» in cui «non si possono identifi-care precisi elementi topografici», riprese lo Hartt, per il quale anche le quattro barchedipinte dietro i Trionfi sono solo un’allegoria delle virtù cardinali.

Eppure è perfino ovvio che lo sfondo di un ritratto encomiastico debba avere qual-che relazione con l’omaggiato. Il dittico di Urbino, oltretutto, era uno speciale ogget-to d’affezione per Federico, duca guerriero, condottiero illuminato, sovrano umani-sta: lo aveva commissionato al suo protetto, amico e quasi coetaneo Petrus de BurgoSancti Sepulchri, pittore già affermato, non per esporlo, ma per tenerlo vicino a sé, pie-gato in due come un libro, riposto in uno scaffale del suo meraviglioso studiolo intar-siato, da aprire in solitudine, tuttalpiù con gli intimi, sospirando di rimpianto per la suaamata Battista, morta prematuramente di parto nel 1472. Si può immaginare che Fe-derico volesse avere sempre con sé non solo il volto dell’amata, ma anche il panoramache avevano condiviso, che adorava, le dolci colline del Montefeltro, i suoi possedi-menti, i luoghi del riposo, della caccia, della sovranità. A questo, fin dai tempi di Plinio,servivano i parerga, paesaggi “proprietari”, dipinti sulle pareti domestiche per deli-ziare ogni giorno l’occhio del loro padrone. Piero del resto, ce lo assicura Vasari, era ilpittore più adeguato al compito, essendo il «miglior geometra che fusse ne’ tempisuoi». Sapendolo, alcuni studiosi hanno tentato di essere più precisi nell’identifica-zione: il Clark parla di «domini» ducali, Caldarelli di «terra di Urbino», Paolucci additadeciso il Montefeltro, Battisti azzarda, avvicinandosi alla verità, la valle del Metauro.Altri però si dirigono lontano, Bertelli pensa di vedere Volterra, Salmi addirittura il Tra-simeno e la Valdichiana.

«Non voglio insegnare niente a nessuno, gli studiosi ne sanno più di me», ammetteRosetta, «ma non s’allontanano dalle loro scrivanie. Io quei paesaggi li ho cercati, tro-vati, e glieli metto volentieri a disposizione». Delle sue scoperte, Rosetta farà forse unlibro. È preparata alle inevitabili contestazioni dei luminari: «Sono solo una cercatri-ce». Ma in fondo, perché tanti sforzi? Cosa cambia se Piero questi monti li ha visti, o so-lo immaginati? «Questo lo diranno gli studiosi. Noi pensiamo solo di avere trovatoqualche elemento in più per i loro giudizi».

Non è stato difficile. Bastava ricalcare i passi di Piero. Che per andare dalla sua Sanse-polcro a Urbino, dove arrivò la prima volta nel 1460 per soggiornarvi spesso, ospite del pa-dre di Raffaello, aveva a disposizione un’unica strada: la via di San Pietro, delle Capute edi Monte Spadara. «I paesaggi che poi dipinse poteva averli visti solo lì, nei suoi lenti spo-stamenti, nelle soste su un poggio, all’apertura di una curva». Rosetta ha percorso avantie indietro la stessa strada: e ha trovato per primo il paesaggio del duca. Poi ha seguito la viache portava Piero agli altri suoi mecenati, i Malatesta di Rimini: e quaranta chilometri piùa nord ha pescato anche lo sfondo della duchessa. È l’orizzonte che si abbraccia dalla roc-ca di San Leo, guardando verso sud. O meglio si abbracciava, perché da allora una partedello sperone è crollato, e il punto di vista preciso qui Rosetta non l’ha trovato, forse nonesiste più. Ma quella collina sotto il mento della Battista, con il suo profilo singolare, c’èancora: è il Maiolo, solo che c’è voluta una ripresa aerea per capirlo. Del resto, Rosetta nons’affida solo ai suoi occhi. Chiama in aiuto la scienza. Assieme a lei, coinvolta o meglio tra-volta dall’entusiasmo dell’amica, c’è spesso, come oggi, Olivia Nesci, geomorfologa al-l’università di Urbino. Tavolette dell’Igm con altimetrie e orografie alla mano, analisi del-la composizione dei suoli quando serve, accredita o smentisce le proposte di Rosetta. SulFronzoso, per esempio, dà semaforo verde: «Osservi, nel dipinto c’è un salto netto di co-lore fra un versante e l’altro; non sembra solo indicare un’ombra, ma una differenza nelmanto vegetale. Ora guardi il monte: anche oggi da una parte c’è il bosco, dall’altra il pra-to, non è un caso, è l’effetto di una composizione del suolo che improvvisamente cambia,da un lato calcareo-marnoso, dall’altra argilloso...».

«Convinto?», insiste Rosetta. Sì e no. Il Fronzoso lo vedo. Ma il lago dov’è? Si scam-biano un’occhiata. Certo, il lago è stato un bel problema. Niente laghi con barche, inMontefeltro. E il Metauro è un torrente stretto, incavato e ghiaioso. Il Tasso diceva: piùricco di gloria che d’acqua. Ma non è sempre stato così. Nel Quattrocento era naviga-bile: lo dimostrano antichi toponimi (Barcaiola, Marecchia...) e alcune stampe anti-che. «Proprio negli anni in cui Piero dipingeva era in atto una “piccola era glaciale” ditre secoli, con grandi piogge e fiumi straripanti», spiega la professoressa Nesci. Il duca,dicono le tradizioni, raggiungeva via acqua il Barco, la sua tenuta di caccia, che forse si

intravede nel dipinto, là dove una linea più scura potrebbe essere un antico cerreto,storicamente documentato. Più che un grande lago, lo specchio d’acqua in primo pia-no potrebbe allora essere un bacino temporaneo, un allagamento accidentale, o ma-gari anche programmato, per creare una zona umida favorevole all’uccellagione: a Ur-bania ci sono tracce di una chiusa, sotto il ponte antico. Un lago da loisir. «Vede questasponda arrotondata? E questo sperone triangolare? Si vedono ancora, nei rilievi alti-metrici». Non è troppo grande lo stesso, il lago? «Piero era un maestro della prospetti-va: e la prospettiva esagera i primi piani». Il bacino sembra passare dietro la figura diFederico, alle cui spalle si nota un altro colle su cui pare d’intravedere una torre. Ro-setta e Olivia pensano di riconoscerlo come il paesino di Peglio. Ma la veduta non com-bacia al cento per cento. Notti intere a incollare col Photoshop le fotografie sul dipin-to, e il puzzle non viene mai. Poi una folgorazione: «È un montaggio quasi cubista. Quel-

le ai due lati del duca sono due vedu-te dello stesso paesaggio, ma prese dapunti di vista diversi, accostate perdare l’impressione di continuità».

Ma ammettiamolo, non tutto tor-na. «Siamo solo all’inizio della ricer-ca». Il paesaggio dietro la Battista faancora resistenza. Se quello è Maiolo,attorno dovrebbero esserci rilievi unpo’ più aspri di quelli che Piero ha di-pinto. E di quelle strade e mura, diquella torre dipinta con precisione,non c’è traccia. «Be’, Piero non eradavvero un fotografo. Lavorava in stu-

dio. Forse su schizzi presi dal vero, ma solo dei rilievi più significativi». Strade, costru-zioni, edifici possono essere stati enfatizzati per sottolineare l’operoso buongovernoducale. Un paesaggio è anche un documento politico. Nello sfondo di Federico, adesempio, Piero ignora il Sasso Simone che apparteneva ai Medici, con cui il duca nonera in splendidi rapporti. Forse per questo il paesaggio dietro ai Trionfi, che non sonopiù semplici ritratti ma allegorie, è un puzzle in cui si mescolano topografia e mito. Ilmonte al centro della doppia immagine è quasi certamente il Mont’Elce, sempre nellavalle del Metauro, visto da Ovest. In passato si chiamava Mons Asdrubali, perché ai suoipiedi, secondo la tradizione, i romani sconfissero il fratello di Annibale durante la se-conda guerra punica. Quale sfondo migliore per l’apoteosi del duca-guerriero in arma-tura lucente? Lo stiamo guardando nella stessa prospettiva, dalla sommità di Pieve delColle: ma è tutto un po’ più aspro che nel dipinto. «Però vede? C’è la nebbiolina, nel qua-dro, che attenua i rilievi». Sì, ma c’è di nuovo un lago fantasma. Un altro, e questa voltasembra lungo lungo, e ha perfino un’isola. Un’altra alluvione? «Laggiù c’è una collinet-ta, proprio in mezzo alla piana, la chiamano ancora Isola». Non mollano mai, le due cac-ciatrici di paesaggi. «Faremo qualche rilievo sul fondovalle per vedere se c’è il letto fos-sile di un bacino fluviale più ampio di quello di oggi».

Ma la sera ormai incombe, e il paesaggio di Piero si va oscurando. La caccia ripartedomani, Rosetta? «Non mi sono mai divertita tanto. Non credo che smetterò. Anzi, sauna cosa. Prima, dietro quella curva, penso proprio di avere intravisto un Raffaello».

IL LUOGOÈ la piana

del fiume

Metauro,

nel Montefeltro,

vista

da un colle

sopra Urbania

IL MONTEProprio sotto

il mento

di Federico

il profilo

a piramide

del Monte

Fronzoso

LE OMBRENel dipinto

e nella foto

lo stesso salto

di colore tra

i due versanti:

è la diversa

vegetazione

IL FIUMENel 1400

il Metauro

era navigabile

Lo mostrano

alcune stampe

e antichi

toponimi

IL LAGODunque il lago

del dipinto

poteva essere

un bacino

temporaneo,

accidentale

o programmato

Il ditticoIl “Dittico dei Duchi di Urbino”

è un doppio dipinto,

un tempo contenuto

in un’unica cornice, che ritrae

Battista Sforza e Federico

da Montefeltro. Piero

della Francesca lo realizzò

intorno al 1472. L’opera,

ciascun pannello di 47 per 33

cm, è conservata agli Uffizi

Le fotografieIl raffronto tra i paesaggi

del “Dittico” di Piero

della Francesca

e le foto di quelli attuali -

scattate da Rosetta Borchia

e Olivia Nesci - rivela la quasi

perfetta sovrapponibilità

tra il dipinto e la realtà,

malgrado i cinque secoli

e mezzo trascorsi

Nel baule dell’auto Rosetta Borchia tienesempre un binocolo, una macchinafotografica, una mappa dettagliatadella zona e l’opera omnia del pittoreDa mesi la vedono girare con qualsiasi tempo

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

la letturaCatastrofi

Il caldo scioglie la Terra, i grattacieli si spengono,gli aerei non decollano, i treni deraglianoTutti sono anestetizzati da un nuovo psicofarmaco,inizia la Festa della Felicità. Un uomo solo,una donna triste, un uomo potente. È uno dei raccontidi un libro che riprende i temi della serie culto

cellule nervose, le fanno rotolare sotto ilsoffice tepore di un piumone chimico,buonanotte.

Sto sul divano, ipnotizzato dalle paledel ventilatore che frullano aria calda,quando Giulia mi telefona. Lo squillo èun elastico. Fa vibrare le capsule bianchee verdi di Prozac sparpagliate sul cristal-lo del tavolo, riverbera sui vetri che in-quadrano la piscina in azzurro beverlyhills e il coniglio metallico di Jeff Koons.Dice: «Accadono cose che non capisco».Fermo la vibrazione raddrizzando la te-sta. Le dico: «Accadono spesso. Tra cuiquella di non sentirti. Mi manchi da ven-ti ore». Respiro, guardo cupole in lonta-nanza e gabbiani che uccidono piccioni.Sono senza aria. La sua voce arriva incri-nata dai fruscii: «Sto parlando del labora-torio». Giulia lavora nei laboratori di Ro-dolfo Neon Re alle campionature di con-trollo delle benzodiazepine. Analizza gliandamenti degli ioni che polarizzano lecellule. Studia i recettori. Studia gli in-ganni chimici e le loro conseguenze. Di-ce che, da quando sono iniziati il vento discirocco e gli incendi, tutti i computer so-no in tilt e i volontari in terapia di disin-tossicazione hanno crisi di panico, rea-zioni iraconde fino all’autolesionismo.Dice: «Una ragazza albanese si è uccisastanotte con il vetro».

Da venti ore la televisione emette ap-pelli. Contemporaneità satellitari com-pongono quadri che si disfano come i ri-tratti di Bacon. Bruciano boschi nel Sude nel Nord Italia, in Grecia, Turchia ePortogallo. Bruciano i ghetti di Los An-geles, le favelas di San Paolo, la città vec-chia di Shanghai, i quartieri sciiti di Ba-ghdad, i campi profughi del Darfur. No-ve uragani stanno spazzando le Hawaii,il Belize e la Florida: volano case, palielettrici, automobili. Inondazioni anne-gano le città del Danubio, carico di ac-que ruggenti e bestiame annegato e fan-go: Ratisbona, Linz, Vienna, Novi Sad.Piove sabbia in Spagna. I tre assistentidella Photo Orion di Patrick Spampana-to — giapponesi con fissità e eleganzaYamamoto — si sono licenziati per tor-nare a casa. La segretaria è scappata aBeirut. Il peggio dilaga, la solitudine di-laga, l’Equatore si avvicina.

Rodolfo Neon Re, l’imperatore dellachimica, ha pelle e palpebre di bronzo.Vale sette miliardi di euro, esclusi la coca,come dicono, la prostituzione, il con-trabbando di petrolio. Si muove su unGulfstream dorato da ventiquattro posti.E su una Rolls-Royce con blindatura an-tibazooka. Abita un castello in Lorena, un

ranch a Cartagena, due attici di mille me-tri quadri in Park Avenue e in piazza diSpagna. Ha avuto tre mogli, novantano-ve amanti, due intossicazioni da morfi-na. Si è appena convertito a un Dio bam-bino che sta persino al di sopra di lui. Odiagli arabi. Finanzia la setta dei raeliani chespediscono le proprie ceneri nell’univer-so. Cambia sangue ogni sei mesi a BadenBaden. Galleggia nel latte. Beve succo dipapaia. Respira aria depurata. Mangiasolo riso in bianco e fragole biologiche.Eppure, come tutti, sta morendo. [...]

Giulia talvolta è irraggiungibile e fragi-le come un miraggio. È nata a Tunisi, havissuto a Venezia. Ha occhi neri che irra-diano il corpo. Ha trent’anni, alcune vitealle spalle, superfici che incantano comei seni che contengono il cuore e come legambe che custodiscono l’andatura. Lesue carezze danno assuefazione. Elettri-cità interferisce sulla sua voce. Una voltaabbiamo fatto il bagno in un lago sotter-raneo tra stalattiti e ridondanze di grani-to: l’eco adesso è lo stesso. Cade la comu-nicazione per sovraccarico di rete. Arri-vano vampate d’aria calda. Poi di nuovola sua voce imperfetta approda dalla lon-tananza, dice: «Ho paura». Le dico: «Vie-ni con me stasera». «…Cosa?». «Al Palaz-zo delle Esposizioni». Interferenze crepi-tano. Lei dice: «…Quel maledetto cocai-nomane… Non andare…». Grido: «Devofarlo per un paio d’ore…». Dice: «…Nonstanno più funzionando…». «Non sento.Cosa non sta più funzionando?». Ancorascariche elettriche «…Tutte le molecoleprecipitano, l’aggressività aumenta sen-za controllo, dentro ai…». Il vuoto: «Do-ve? Non ho capito». «Ovunque… dap-pertutto… Ti prego, non sei…». Grido:«Cosa?». Poi più nulla. Evaporata.

Quando arriva al Palazzo delle Esposi-zioni Patrick Spampanato ha la gola in-fiammata e gli occhi velati. Ci sono tran-senne per arginare la folla sudata. Picco-li tafferugli si accendono. Una ragazza in-sanguinata scappa. Altre stanno riden-do. Security muscolare con ricetrasmit-tenti e sfollagente elettrici presidia i duebordi del tappeto rosso. Telecamere conrock elettronico incorporato ritrasmet-tono su maxischermi le facce dei ragazzideformate dalle proteine e dai grassiidrogenati, più ragazze tatuate di prove-nienza palestre, più donne cattive arriva-te dalle periferie con fauci disidratate da-gli antidepressivi. Tutti maneggiano in-sofferenza e lividi, videocamere, telefo-nini con l’occhio digitale. Emettono ron-zii e grida disperate anche se mimano al-legria. Accanto alla grande scalinata

ra cammina sulla schiena della vita. Perquesto è corretto dire: «Percorrere la vi-ta». In quell’attimo di inquadratura digi-tale io la fotografavo, fotografavo la vita.Ora il suo contrario.

Il Palazzo delle Esposizioni è illumina-to da trasparenze alogene e cristalli per laFesta della Felicità. I laboratori di Ro-dolfo Neon Re — fotografabile per immi-nente spot planetario dal grande PatrickSpampanato — festeggiano la nuova ca-psula MarleneBlu, ultima generazione dibenzodiazepine che ipnotizza l’ansia,erotizza il dolore, depura il sonno, regalasogni. Milioni di vite approderanno alMare sabbioso della Tranquillità. Nientepiù fiamme ossidriche nel cuore, ma so-lo stelle cadenti. E ali.

Roma galleggia in nero sul tramonto diplastiche arancioni. Roma vibra come unmiraggio nell’aria calda dello scirocco av-velenato dalle polveri e anidride carboni-ca. L’aria mastica la gola. Il Tevere scorredenso. La spazzatura marcisce. L’asfalto,riscaldato a 44 gradi, si va sciogliendo e lecarcasse delle moto abbandonate primascivolano per terra, poi cominciano asparire come alligatori nel fango. Allarmidicono che l’Equatore è l’inizio. Cani irri-tati dal vento si aggirano già. Piccoliblackout accadono. Il sale della siccità stadivorando il verde dei campi. Acqua in-quinata dei torrenti è diventata polvere. Iboschi, bruciati dagli incendi, pietre. Lemolte tangenziali un transito di lava e dimetalli. La solitudine dei vecchi, immo-bilizzati nei monolocali, si è trasformatain panico e il panico li uccide.

Patrick Spampanato non dorme daquaranta ore per il caldo. Giulia è sparitada venti. E già tutti i perimetri delle suepremonizioni lo mettono in allarme.L’allarme è cinema per i suoi occhi. Pa-trick Spampanato ha trentasei anni e vi-sioni ricorrenti. Le sostanze che usa ser-vono a dimezzarle. Quelle che restano lerimonta come un copione. Suo padre eraemigrato in Texas. Trivellava petrolio aGalveston quando sua madre compì di-ciassette anni e lo mise al mondo accuc-ciata, alla maniera comanche, dentrouna sala parto di seconda classe. Suo pa-dre e sua madre si adoravano. Lui la chia-mava Cherry, ciliegia, anche se aveva gliocchi verdi. Lei respirava i suoi baci. Luile cullava il sonno. Lei morì l’anno dopodi leucemia. Lui si lasciò avvelenare dadieci decimi di dolore e altrettanti di gin.Impiegò tre anni a ammalarsi, ma primariportò Patrick in Italia con qualche ve-stito, un orologino di plastica, una scato-la di foto di quando stavano tutti e tre in-

sieme sulla veranda di casa. Patrick è cre-sciuto dai nonni a Albissola. Ha impara-to a memoria le foto dove il padre e la ma-dre ridono sempre e lui non si vede, don-dola dentro la culla. Per anni quelle fotogli hanno fatto rabbia. Non ci vedeva al-tro che l’inganno del destino. Fino al gior-no in cui la madre e il padre gli apparveroper la prima volta due ragazzi felici. Eguardarli gli faceva percepire una partedel mistero, perché era diventato adulto.E da lì in poi anche fotografo.

Le fotografie hanno una sola superficiee quattro lati. Le benzodiazepine due su-perfici, come le piastrelle, e sette lati. I set-te lati, formati da cinque atomi di carbo-nio e due di azoto, si saldano all’anelloaromatico. Penetrando la nebbia deipensieri agiscono sul sistema nervosocentrale. Quietano il respiro e il battitocardiaco. Qualche volta allentano le ini-bizioni sessuali e anticipano l’orgasmo.In genere sedano la tensione, induconoal sonno, rilassano la muscolatura sche-letrica, bilanciano lo squilibrio emozio-nale. Le benzodiazepine hanno nomidanzanti. Madar, Transene, Darkene,Mogadon, Limbial, Roipnol. Per milionidi persone, almeno all’inizio, sono lucesoffusa, un bagno caldo, latte tiepido,palpebre morbide. Il loro segreto è negliioni che appesantiscono e rallentano le

PINO CORRIAS

La pillola che svelai confini della realtà

IL LIBRO

Si intitola come la serie tv che andò

in onda tra gli anni Cinquanta e Sessanta:

Ai confini della realtà. È un’antologia

che raccoglie i racconti (ne anticipiamo

uno in queste pagine) di dieci autori

italiani che si ispirano a quell’idea

Gli autori sono, oltre a Corrias,

Tullio Avoledo, Eraldo Baldini,

Violetta Bellocchio, Gianni Biondillo,

Luca Di Fulvio, Chiara Palazzolo,

Licia Troisi, Carla Evangelista

e Marco Vichi. In libreria per Mondadori

(250 pagine, 15 euro) il 28 marzo

Da quaranta ore il vento ri-scalda l’involucro delmondo, lo fa vibrare comesu plasma da playstation.Il calore accumulato ren-de instabili i campi ma-

gnetici che si scompongono, interferi-scono tra loro. Saltano memorie digitali ecomputer di controllo. Nelle città prossi-me all’Equatore grattacieli si spengono.Metropolitane adottano guida manuale.Aerei non decollano. Treni deragliano.Milioni di telefoni cellulari moltiplicanole interferenze. Parole come «aiutatemi»e «ti amo» vagano dentro conversazionidi altre conversazioni, alla deriva. L’effet-to si espande a catena. Molecole che pri-ma si saldavano a altre molecole precipi-tano come piastrelle, vanno in frantumi,addio. Caldo che brucia gli occhi, tra i ru-mori assordanti.

Patrick Spampanato ha tre pareti e unaporta che lo separano dalla sua fine, lag-giù in fondo, nell’ultima porzione del pri-mo piano del Palazzo delle Esposizioni,cuore di Roma, duemila metri quadrati dibuio e di marmo che riverbera come unmetallo, nella furente confusione di gen-te che corre, che suda, che urla tra glischianti e le sirene che spaccano il cuore.Patrick Spampanato — camicia biancastrappata, pantaloni di tela, capelli rasa-ti a zero, barba di un giorno, occhi verdi— ha tre pareti e una porta che lo separa-no dalla sua fine. Più una sequenza di fo-togrammi che scorre senza audio, men-tre gente inferocita sta cercando di sfon-dare quella porta e la sua vita.

Mi chiamo Patrick Spampanato. Sonoil titolare della Photo Orion. Faccio il fo-tografo. Fotografo il bagliore dei moltoricchi, molto potenti anche se fragilissi-mi, purché divi, divine, con vite chimi-che, massima densità di narcisismo, ri-verberi di morte, illusioni dentro agli oc-chi, desideri che realizzandosi hanno av-velenato il sangue, sonniferi nel cuore, ecicatrici non nascoste. Il mio lavoro è na-scondere quelle cicatrici. Mi pagano perquesto. Un tempo non fotografavo per-sonaggi, ma persone, specialmente pas-santi. Un tempo, quando scattavo, cer-cavo di immaginare i loro pensieri. Nonper mettere a fuoco gli occhi che stannoin superficie, ma per catturare l’andatu-ra che è profonda e giustamente ingan-nevole. Perché procede influenzata dagliostacoli. Perché segue traiettorie ancheimprovvise. Perché è sottoposta a inter-ferenze sonore e sentimentali. L’andatu-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 23 MARZO 2008

dell’entrata, nel vuoto elettrificato delletransenne, auto nere scivolano in codatra lampi e flussi d’aria bollente dentrocui si solidificano signore argentate conlabbra rosse, uomini grassi, uomini ar-mati. Flash di fotografi incendiano l’aria.Il traffico è una doppia corsia di metallo.Polizia in tuta grigia e plexiglas lampeg-gia. Motociclette corrono contromano.Facce stravolte sgocciolano ansia. Romasta bollendo.

Squilla il telefonino. Di nuovo Giulia.La comunicazione per il momento è pu-

lita: «Non devi andare. Torna indietro. Mihai sentito?». Provo a calmarla: «Sono giàqui. È il mio lavoro». Mi dice: «Ti ricordicosa ti ho detto l’altro giorno? Cazzo, stasuccedendo. E tu...». Di nuovo più nulla.Di nuovo evaporata. Mi ricordo dell’altrogiorno. Usciva gente a vampate dalla me-tropolitana in tilt dopo il terzo suicidio intre giorni. Giulia era spaventata. Il traffi-co ci imprigionò rotolandoci addosso. Ilchiesone di San Luigi dei Francesi era lavia di scampo: penombra e navate con ta-gli di luce caravaggio e il ronzio dei picco-

li filippini in preghiera. Aria e incenso re-spirabili. Lei disse: «Nelle ultime produ-zioni di psicofarmaci le molecole sonopiù instabili». Disse: «Volutamente». Dis-se: «Per aumentare il consumo delle do-si. E con le dosi, la dipendenza». Lo di-mostravano sei ultime sequenze di con-trolli, e codici sorgenti spariti dietro pas-sword non più valicabili.

Tutte le star delle televisioni sono già intransito nel vento artificiale della passe-rella. I calciatori, sospinti da ovazioni,con basette scolpite e cuori analfabeti. Leragazze, il punto di equilibrio tra i senienormi e i tacchi a spillo. Hanno nasi ri-fatti dai quali aspirano vibrazioni allar-mate che si ritrasmettono lungo la pellebianchissima e sui sorrisi seriali. Gridafuribonde le accolgono. Due bacianoSpampanato. Ma poi i loro occhi fissanoil nulla, sbarrati dallo sgomento che siasempre l’ultima notte in pubblico. L’ulti-ma esibizione. L’ultimo stordimento cheriesca a tenerle vive. Anche se dentro gliinvolucri dei loro corpi tirati a specchio —sotto i top elasticizzati e la seta — gli aci-di gastrici le stanno bruciando vive.

Patrick ignora le andature immagi-nando solo quella in diagonale di Giuliache taglia in due il nero della vita. Glimanca. Assecondando il ralenti, adessola rivede quando, per scusarsi del ritardo,si apre nei suoi sorrisi bianchi che sannodi menta: al mare, quando c’era il mare;sotto la luna, quando si vedeva la luna. Leha mandato un sms con l’appuntamen-to tra i flutti in tempesta della rete.

Le benzodiazepine abitano le cellule dimilioni di persone. Ma ora MarleneBluche danzerà la sua prima notte pubblicaqui, alla Festa della Felicità, è pronta a so-stituirle tutte. Entrerà nelle vite come ba-tuffoli di cotone contro il dolore. Comelana di vetro che assorbe i rumori. Comel’ordine che scaccia il disordine. Comeun battito d’ali contro i cattivi pensieri.Come aria tiepida che asciuga le lacrime.Come un quieto tramonto. Come un fio-re che si ripara nell’ombra. Come unagoccia che cade nel pozzo. Come un ri-cordo che incanta. Come il sonno cheviene. E specialmente come una via d’u-scita. MarleneBlu non ha controindica-zioni, tranne il mondo che sta imploden-do.

Mi ricordo dell’altro giorno. Le navatesemibuie contenevano l’aria e il tempo. Ilcollasso, diceva Giulia, sarebbe successoall’improvviso. Immagina, diceva, unospecchio d’acqua e alghe ipernutrite —di fosfati, nitrati, cloruri — che raddop-piano ogni giorno. Ne impiegherannonovantanove a conqui-stare la metà dell’acquain superficie. Ma unosolo, l’ultimo, per rad-doppiare e soffocarlatutta. Noi adesso siamoquello specchio d’ac-qua. Io dissi: sposami enuoteremo il tempoche ci resta.

Patrick varca l’ultimasoglia, quella scolpita informato capsula Marle-neBlu, imbracciandoNikon digitale e il lascia-passare livello platino.Altro mondo compare,tra i molti concentrici, ilmondo delle élite, quel-lo più prossimo a Ro-dolfo Neon Re, il piùprotetto dall’instabi-lità. Lui sta laggiù in ci-ma al mondo, accantoall’ologramma di AnnaNicole Smith, la stella,che gira su se stessa e sorride tra gocced’acqua immaginarie. Vallette thailan-desi con corpi filiformi si baciano. Vassoidi frutta transitano pulsando musicacampionata. Maschi in t-shirt, avvelena-ti da steroidi, offrono gamberi e vodka inghiaccio. Attrici in sandali Swarovski emuscoli stirati dalle anfetamine digitanoappuntamenti dentro sms che non par-tono. Luccicano calici di champagne.Uomini e donne premono verso le salepiù interne delle Esposizioni in cerca dialtro alcol, ecstasy, popper, strisce di co-ca e aria. Sguardi allarmati rimbalzanonella calca dei transiti, tra seni tesi cometamburi di pelle rosa, pance tatuate, zi-gomi acuminati e denti in ceramica.

Rodolfo Neon Re usa cavie all’insapu-ta delle cavie. Innesca reazioni e le archi-via. Uomini e donne sono i suoi laborato-ri portatili. Ma, ignorando l’imminenzadel collasso, non sa di esserne al centro,perfettamente circondato. Patrick, pas-sando, sente energia che muore. Salutaex squillo diventate principesse. Attoriingrassati dalla noia. Banchieri soffocatida placche e prostata. Politici irritabili.Dalle guance tirate deduce disidratazio-ni da Qualud. Dalle andature presumesuicidi. Due guardie del corpo lo preleva-no. In fondo alla calca, sulla piramide az-teca, lo aspetta per le foto Rodolfo NeonRe. Che adesso compare. «Salga» gli dice.Ha gli occhi spalancati e acquosi. Indos-sa una jallabia di seta nera, calzoni elasti-cizzati neri, scarpe di vitellino crema. Aipolsi porta sottili bracciali in oro bianco

con gpsantisequestro. Un solo gesto del-la mano gli basta, al di sopra della musi-ca, della calca, della città, a spostarebodyguard e benzene per fargli posto. [...]

Patrick scala la pedana. Guarda Ro-dolfo Neon Re da vicino e per la primavolta gli fa paura. Non per le cicatrici deisuoi settant’anni. Ma perché la sua facciain 3D, per quanto fard impieghi, è insie-me bianca e buia. Non veglia più sulla suasolitudine. Anela posterità. E l’andaturache la sostiene, cedendo alla morte, laemana. La sua faccia si muove perento-ria: «Sono pronto. Mi fotografi». Patrickimmagina lo squalo di Damien Hirst so-speso in formalina con dentatura spa-lancata. Poi scatta. E ogni foto, viaggian-do wi-fi direttamente in rete, si moltipli-ca per mille. Per diecimila, un milione divolte, su tutti gli schermi disponibili. Co-me le Due Torri in fiamme. Come l’iniziodella fine.

La fine comincia con un boato in quelmomento, in quel punto. Innescata dalsovraccarico istantaneo di onde nell’ete-re, più il vento di scirocco, più l’energia ditutte le emissioni: satelliti, ripetitori ra-dio, campi magnetici. È allora che le mo-lecole di benzodiazepine, i cinque atomidi carbonio e i due di azoto, vanno in stal-lo, precipitano, abbandonano tutte lecellule cerebrali come pulviscolo spaz-zato da un ventilatore. Come piastrelleche all’improvviso smettono di saldarsi.Come ganci che si sganciano, precipi-tando corpi nel vuoto.

Rodolfo Neon Re va in blocco davantiagli occhi di Patrick. Benzodiazepine incaduta libera smontano il fuoco del suosguardo, poi il resto. Lo squalo si disfa. Lafolla sbanda. La folla corre. Detonazionie lampi si susseguono. In lontananza, ol-tre le protezioni degli ingressi, comincia-no gli spari. A una bionda scoppia un se-no per la pressione della calca e il suo topbianco diventa denso di sangue nero. Auna vecchia salta l’ancoraggio delle orec-chie e la pelle si arriccia, scoprendo legengive. È il panico. Uomini e donne ro-tolano. Ragazzi accerchiano le thailan-desi, bottiglie aprono squarci. Femminevengono immobilizzate e svestite. Ma-schi lottano tra loro. Diventano armi levideocamere, le sedie, i telefonini, glianelli, le bottiglie, i calici, i tacchi, i vassoi,le cinture, i denti, le unghie, gli orologi. Ilsangue schizza, imbratta, dilaga. La pira-mide azteca è circondata da urla. Le bar-riere vengono travolte. La pedana scric-chiola, il pavimento si spezza. RodolfoNeon Re e Patrick Spampanato rotolanoverso i saloni.

Le guardie del corpo,assuefatte a Benzedrex,Preludin, Dexedrine,hanno sindromi da ec-cesso di anfetamine:accelerazione del batti-to cardiaco, secrezionemassima di dopamina,euforia che dilaga in pa-nico. Estraggono armicorte con proiettilidum-dum, imbraccia-no tavolini per respin-gere gli assalti della fol-la. Resistono, uccido-no. Poi soccombono.Nel salone muoionoprincipesse e barman,musicisti piangono edamigelle pregano. Glialti soffitti assorbonol’onda d’urto di Romache sta crollando. Ilcrollo è cinematografi-co.

Così sono finito inquesta ultima stanza. Ho tre pareti e unaporta che mi separano dalla mia fine. Stoal buio. Rodolfo Neon Re è andato in pez-zi tra unghie e strepiti di folla, o forse an-che lui era solo un ologramma. La follaadesso è un unico essere vivente che cer-ca cibo. Che gratta qua fuori odorando lapreda. Io sono la preda. Cerco una viad’uscita, scivolo lungo le pareti a bracciaspalancate, tastando come un cieco latraiettoria sconosciuta. Il cuore mi mar-tella. Alla congiunzione di due pareti colpavimento, individuo il cunicolo. Mi in-filo, mi incastro. Scivolo a stento tra den-sità oleose, come fango o nafta o rimorsi.Mi manca l’ossigeno.

Hanno sfondato. Alle mie spalle, dopolo schianto, percepisco iridescenze dacielo notturno. Mi afferrano per i vestiti.Grido. Resisto. Arretro. Mi trascinanoverso il loro apparato digerente. Mi spol-peranno le carni, mi strapperanno gli oc-chi e l’anima. Ma all’improvviso i miei ve-stiti cedono liberandomi dalla morsa.Sono nudo. Scivolo dentro il tunnel per-fettamente lubrificato. Prendo velocità.Vedo in fondo ai miei piedi la luce blu cheè il mare, la nuova vita, lo specchio d’ac-qua, con rifrazioni azzurre di Hockney: lamia piscina.

E dentro la mia piscina Giulia che, gal-leggiando, mi sorride. Tra un istante toc-cherò l’acqua, il fresco dopo tanta arsura,la trasparenza dopo tanto buio, scivolan-do tra le molecole MarleneBlu che dan-zano nel nuovo mondo. Sarà magnificol’impatto e poi svegliarsi.

L’IDEAAi confini della realtà (The Twilight Zone)

fu creata da Rod Serling nel 1959

ed ebbe come sceneggiatori

anche scrittori come Ray Bradbury

e Richard Matheson

UN VOLTO NUOVOThe Eye of the Beholder (1961)

Un’operazione di chirurgia estetica

per rendere una donna bellissima

deforme come quelli che la circondano

In italiano, È bello ciò che piace

MUSEO DELLE CEREThe New Exhibit (1963, inedito in Italia)

Il dipendente di un museo

delle cere si trova a combattere

per preservare cinque statue

di famosi assassini

PAURA DI VOLARENightmare at 20,000 Feet (1963)

Un uomo, William Shatner, appena

guarito da un esaurimento nervoso

è convinto di vedere un mostro

fuori dal finestrino dell’aereo

IN TELEVISIONE

IL CREATORERod Serling inventò la serie

e scrisse gran parte

delle sceneggiature

FO

TO

E

VE

RE

TT

RIVOLUZIONEThe Mirror (1961), andata in onda

in Italia con il titolo Lo specchioNel cast anche Peter Falk nei panni

di un rivoluzionario sudamericano

alle prese con uno specchio della verità

ALIENITo Serve Man (1962). Una razza aliena

giunge sulla Terra dichiarando di avere

intenti pacifici. Ma due linguisti

riescono a tradurre dal linguaggio

extraterrestre un altro piano

LA CHITARRADI KEVIN SHIELDIl musicista autore

della colonna sonora

di Lost in Translation

LE PANTOFOLEDI MAPPLETHORPELe ultime calzature

del celebre fotografo

morto di Aids nel 1989

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

LAURA PUTTI

PattiSmith

La musadiventatafotografa

IL PANTHEONDI ROMA“L’arte, l’architettura,

la gente. In Italia mi sento

accettata e compresa”

PARIGI

Piccole fotografie in bianco e nero. Scatti istinti-vi, carichi dell’intensità di un momento. Scatti“qui e ora”, non replicabili. Polaroid destinatea sbiadire con il tempo. Provvisorie come, in

apparenza, l’edificio che le ospita, una rete di tubi d’ac-ciaio e lastre di vetro firmata da Jean Nouvel e sede dellaFondation Cartier. Una costruzione leggera, aerea, che ungigante potrebbe estirpare dal prato del boulevard Raspailsul quale è infissa, piegare come una sedia a sdraio e por-tarsi via sotto il braccio. Proprio qui, da venerdì prossimoal 22 giugno, si svolgerà la prima grande personale dedi-cata a Patti Smith. Si intitola Land 250, come la vecchiamacchina fotografica con la quale la maggior parte dellefotografie sono state scattate: uno smisurato oggetto conobbiettivo a soffietto. «Quando nel ‘69, con mia sorella, sia-mo venute a vivere a Parigi, abitavamo qui vicino, a Mont-parnasse», dice Patti Smith che, spalle a una parete di ve-tro, sembra seduta nel vuoto. «Vivevamo in una casa conaltre sei persone e io disegnavo, sognavo di essere un’arti-sta e che un giorno sarei stata scoperta a Parigi. Questaesposizione è per me un sogno che diventa realtà».

Nel 1969 Patti Smith aveva ventitré anni. Ne mancava-no sei per arrivare a Horses, il suo primo disco, con la fotodi copertina, un sublime bianco e nero, scattata da RobertMapplethorpe. Vi si vede una ragazza filiforme in camiciabianca e cravatta nera: la sua essenza catturata per sem-pre. Ventenne e sessantenne, femminile e maschile, lun-ghi capelli da ragazza davanti agli occhi azzurri, sguardodeliziosamente asimmetrico e una piccola croce appesaal collo, la ragazza di Horses oggi sfoglia un libro d’arte. Èuna sorta di catalogo della mostra (anch’esso a cura diHervé Chandes e Ronald Chammah), ma contiene sol-tanto le fotografie e non i disegni (proprio quelli di Parigi‘69), né le poesie e gli artcraft che vi saranno esposti.

Sono fotografie di viaggio senza ritratti dei compagni.Sono tombe, letti, monumenti famosi, ma non sempreimmediatamente riconoscibili; sono animali, scarpe, og-getti che raccontano brandelli della storia di qualcuno.«Sono quasi tutte fotografie scattate tra il 2002 e il 2007», di-ce Patti Smith. «Solo accanto alle precedenti, alle più vec-chie, ho messo una data. Quando fotografo cerco di pre-scindere dal tempo. Per questo non fotografo automobilio persone con telefoni cellulari. Le mie foto possono esse-re state scattate in qualsiasi epoca e ovunque».

Il letto di Virginia Woolf e il fiume nel quale si gettò. Il let-to di Victor Hugo a Parigi e la tomba di Wittgenstein a Cam-bridge. Statue di angeli a San Severino Marche e quella diGiovanna d’Arco a Parigi. Il Cenacolo di Leonardo e i Pri-gioni di Michelangelo. La Torre di Pisa e la Tour Eiffel. Lafacciata del Chelsea Hotel. Il suo vestito da sposa, bianco,femminile, abbandonato su una sedia, e un abito su unmanichino nella vetrina di un negozio a Gand. Il letto diVerdi, quello di Napoleone, quello della pittrice VanessaBell, sorella di Virginia Woolf. I rotoli sui quali Jack Kerouacnel 1957 scrisse Big Sure la macchina da scrivere sulla qua-le, dal 1931 al ‘43, Herman Hesse scrisse Il gioco delle perledi vetro. Un cavallo. Una capra. Una tigre. La valigia di Rim-baud. In molti, a Charleville-Mézières, ricordano ancoraquella ragazza arrivata nel ‘73, il 12 ottobre. «Un pellegri-naggio solitario» lo descrisse lei ad Alain Tourneux, diret-tore del museo Rimbaud, in un lettera del 1991 in cui lo pre-gava di ospitare nelle sale un suo ritratto del poeta, disegnoche recava in sé «tutta la ribellione della mia gioventù».

«Hanno aperto la teca di vetro e mi hanno messo in manola forchetta e il cucchiaio di Rimbaud. Sono scoppiata apiangere. Fare quella foto è stato molto difficile». Ma, se al-l’oggetto non può avere accesso diretto (come per esem-pio agli occhiali di Samuel Beckett), allora è ancora più dif-ficile. «In certi casi funziona con uno scambio. Con una let-tura pubblica alla Fondazione Woolf sono riuscita ad av-vicinarmi al letto di Virginia; con un’altra alla FondazioneHesse ho potuto fotografare la macchina del Gioco delleperle di vetro».

In rarissimi casi Patti Smith fotografa esseri umani. C’èun autoritratto in cui sembra l’Addolorata: «Era il 1994 e,in un mese, erano appena morti mio marito Fred e miofratello Todd. Ero distrutta, annientata. Avevo due bam-bini da crescere, pochi soldi e più nessuna energia peresprimermi attraverso la musica, l’arte e la poesia. Graziea questa foto ho ritrovato un senso di armonia con mestessa. E allora ogni giorno scattavo una foto, una sola, emi dicevo: bene, oggi ho fatto qualcosa, ho fatto questa fo-to. Piano piano mi ci sono trovata dentro, ho scattato sem-pre di più. Era qualcosa che andava oltre i miei doveri do-mestici, oltre i pavimenti da lavare, i panni da stirare, i trepasti al giorno per i bambini».

Nella mostra parigina si vedono i suoi figli: c’è Jesse (chel’accompagnerà al pianoforte venerdì sera nella SoiréeVirginia Woolf) allungata su un letto; c’è Jackson, che dor-me su un divano. «Questa è l’unica fotografia scattata sen-za permesso, ma la tentazione è stata troppo forte. Di so-lito lo chiedo sempre, anche agli animali. Alla capra hochiesto: “Puoi stare ferma così, un minuto, non ti muove-re, sei così bella”. Su quel cavallo grigio avevo attraversa-to il deserto in Namibia e allontanandomi da lui ho pen-sato che non l’avrei rivisto mai più. Allora mi sono voltatae il cavallo mi guardava. “Posso farti una foto?”, gli ho chie-sto. Il cavallo continuava a guardarmi. Allora lentamentegli sono tornata vicino. La mia macchina fotografica è co-sì grande e invadente che può spaventare chiunque».

Dieci scatti alla volta, questo le permette la Land 250.Tra poco, però, smetterà di utilizzarla. La Polaroid chiudee a lei restano soltanto venti pacchetti di carta fotografica,duecento fotografie. Per ogni soggetto quante ne fa? «So-no foto irripetibili, quindi sto sempre molto attenta. Tran-ne quando mi impunto. Quando mi innamoro. Ero a Ro-ma, in un albergo accanto al Pantheon. Adoro ilPantheon, ma con la mia Polaroid è difficile fotografarlo.Nella mostra ci sono due foto: in una lo si vede per intero.Era il giorno in cui è morto Giovanni Paolo II, iniziava apiovere e ho scattato. L’altra foto del Pantheon mi piace

A 61 anni compiuti è celeberrima come cantante, autrice,poetessa, pittrice. Adesso Parigi dedica una mostraai suoi scatti in bianco e nero, fatti con una vecchia Polaroid

che sta per diventare inservibile. Immagini di viaggio, ma quasi mai di esseri umaniSono oggetti, dalle posate di Rimbaud al letto di Verdi, agli occhiali di Samuel BeckettLei li definisce “reliquie di terza classe”, cioè “testimonianze che sono stata accantoalla bandana di William Burroughs o alla macchina da scrivere di Hermann Hesse”

SPETTACOLI

LA TASTIERADI HERMAN HESSELa macchina da scrivere

con cui fu scritto

Il gioco delle perle di vetro

LA BANDIERADELLA PACEUna foto scattata

durante una manifestazione

di protesta a New York

IL LETTODI VANESSA BELLSu questo giaciglio

morì la pittrice

sorella maggiore

di Virginia Woolf

IL CAVALLODELLA NAMIBIA

“Con lui avevo attraversato

il deserto. ‘Posso farti

una foto?’, gli ho chiesto”

molto, ma è imperfetta, attraversata com’è da una miste-riosa riga grigia. Era l’ultima della scatola. Continuavo ascattare e le nuvole cambiavano il cielo in continuazione.Dopo dodici fotografie ho ottenuto quella che volevo,quella in cui il bordo della cupola del Pantheon diventamolto visibile». Dice che ha tanto fotografato l’Italia per-ché lì tutto è straordinario: «L’arte, l’architettura, la cuci-na, la gente. L’Italia è il paese nel quale mi sono sentita piùaccettata e più compresa, anche politicamente. Semprecon passione. In Italia non sono soltanto una cantante dirock’n’roll, ma un’artista. E nel 1979 allo stadio di Firenzeho fatto il mio concerto più grande in assoluto, ottanta-mila persone». (In Italia Patti Smith sta per tornare: saràdal 4 al 6 aprile a Bologna per il Patti Smith Festival: Dreamof Life).

Una sezione speciale di Land 250 sarà dedicata al foto-grafo Robert Mapplethorpe, amore e amico di Patti Smith.Ci sarà un’installazione con il suo tavolo di lavoro e il suoletto di morte. Tra le fotografie ce n’è una (datata 30 di-cembre 1968) di un tamburello che Mapplethorpe avevacostruito per lei. «Lui stesso aveva tirato la pelle di capra. Alcentro aveva disegnato un capricorno, il mio segno zodia-cale. Poi vi aveva attaccato intorno dei nastri colorati, Di-ceva che gli zingari avevano tamburelli così, perfetti perme». Ma di Mapplethorpe, morto di aids nel 1989, ci sonoanche le pantofole di velluto con le iniziali ricamate in oro.L’ultimo paio di scarpe. «Adorava le scarpe, ma alla finepoteva soltanto mettere queste. Non ho avuto problemiper fotografarle: dopo la sua morte sono passate a me».

Perché è così affascinata dagli oggetti? «Forse perchésono cresciuta in una famiglia molto religiosa. Una reli-gione austera basata sullo studio della Bibbia, nella qua-le le immagini e l’arte erano vietate. Ricordo che da bam-bina, a sei-sette anni, frugavo nelle immondizie dellemolte famiglie cattoliche del quartiere alla ricerca di sta-tue infrante di santi, di immagini ormai sbiadite di Gesù eMaria. Ho avuto un’infanzia felice, ma eravamo poveri ei pochi oggetti che possedevo erano per me molto prezio-si. Non ero materialista, però amavo gli oggetti speciali. Sedovessi descrivere le mie fotografie direi che sono reliquiedi terza classe. Ci sono le reliquie vere: le ossa, il sangue deisanti. Reliquie di prima classe. Ci sono quelle di seconda:oggetti dei quali i santi si sono serviti. Per me, che non so-no cattolica, è una reliquia la bandana di William Burrou-ghs. Se fotografo la macchina per scrivere di Hesse, la fo-to testimonia che l’ho toccata e che la mia Polaroid vi è sta-ta accanto. Quello che arriva alla gente, cioè la mia foto-grafia, è una reliquia di terza classe».

Molti l’hanno conosciuta per la prima volta ascol-tando un verso che valeva un tesoro, un’epifaniasuburbana. Diceva «Gesù è morto per i peccati di

qualcun altro, ma non per i miei» («Jesus died for some-body sins but not mine»), cantato su uno strascicato ar-peggio di chitarra elettrica, ed era il fulminante incipit diGloria, la prima canzone del suo primo disco, Horses, unodei versi che lei aveva aggiunto con spericolata arguziapoetica all’originale testo di Van Morrison.

È così che ha cominciato a parlare al mondo e in queiversi c’era già tutta Patti Smith, la sua ribalda e mascolinafemminilità, la scabra passione della sua voce, la rude in-nocenza che dal canto si irradiava alla sua faccia scarna espiritata, già in sé un monito di etica rock, se mai questoaccostamento è stato possibile. Puritana, in fondo, vesti-ta di stracci punk, incurante della bellezza esteriore, anti-diva per eccellenza, è stata soprattutto la sacerdotessa diuna perduta arte del rock, decisa a portare sulle sue mi-nute spalle il peso dell’eredità di una intera generazionedi poeti sovversivi che si stava spegnendo.

Nel 1975, quando uscì il suo primo disco, il mondo del-la musica era sospeso nel bel mezzo di uno scontro epo-cale: intellettualismi, barocche ridondanze, residui spar-

si dell’età d’oro dei Sessanta, ritmi pesanti come il metal-lo, sentori dell’imminente rivoluzione punk. Lei apparvecome un angelo scuro, una Giovanna d’Arco dalla vocepotente e annerita, una cantante che sembrava tuttofuorché una vocalista, ma che poteva mettere nelle paro-le un fuoco inarrestabile, che sapeva inchiodarti al muro,senza lasciare via d’uscita. Horses, Radio Ethiopia, Eastere Wave, quattro dischi in cinque anni, prima del primo deisuoi lunghi ritiri, e dentro un tesoro di poesia cantata,pezzi che blandivano il sogno collettivo, e tra questi un re-galo di Springsteen a quattro mani diventato Because theNight, ovvero la più bella invocazione di amore notturnomai scritta, canzoni perdenti e magnifiche come quei fio-ri che aprono i petali solo dopo il tramonto, per brillaresenza necessariamente essere visti.

Cinque anni che le hanno dato una fama ingombrante,per una come lei, poetessa da bloc-notes, da nottate di de-lirio e creatività, immersa nel suo privato con slancio to-tale, diventata regina della nuova ardita femminilità rock,rischiosa e senza paracadute, sbalzata verso stadi gron-danti di ascoltatori, decine di migliaia a ogni concerto, ac-corsi per assistere all’ultimo autentico possibile rito poe-tico di massa della nostra era.

L’angelo nero dell’ultimo miracolo rockGINO CASTALDO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 23 MARZO 2008

LA TORREDI EIFFELIl simbolo

della città

dove Patti Smith

si trasferì nel 1969

HORSESL’album di esordio

del 1975

con una versione

struggente di Gloria

RADIO ETHIOPIAAlbum del 1976 ispirato

alla fuga in Africa

del poeta mauditArthur Rimbaud

EASTERAlbum del 1978

Contiene la stupenda

Because the Nightdi Bruce Springsteen

WAVEInciso nel 1979

È l’album che segna

il primo ritiro

dalle scene fino al 1988

FO

TO

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IA N

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I

itinerariEsile e tosta,Isa Mazzocchiha trasformatola trattoriadi famigliain una enclave

di gioia gastronomicanel cuoredella Val TidoneTra i piattide “La Palta”spicca la millefogliedi frittata con cipollarossa e tartufo

Alla confluenza

di Pisuerga e Duero,

la storica sede

dell’Archivio di Stato

è il regno di Cesi Cabello,

chef della “Mesón

San Martín”, fresca

vincitrice per il secondo

anno del premio “Miglior tortilla di Spagna”

al Mejor de la Gastronomia, San Sebastian

DOVE DORMIRELAS MORADAS DE SIMANCAS

Calle Luis Antonio Conde 3

Tel. (+34) 983-591974

Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREMESÓN SAN MARTÍN

Plaza San Martín

Tel. (+34) 987-265055

Chiuso lunedì

menù da 30 euro

DOVE COMPRARECARNICAS BLANCO MORAL

Juan Valdés Leal 10

Tel. (+34) 983-310315

Simancas (Spagna)La cittadina simbolo

della riscossa contadina

ogni secondo sabato

del mese trasforma

il mercato in “Mercatale”

Oltre alla vendita diretta

di vari tipi di prodotti,

si offrono frittate

con carne e salvia. Prossimo appuntamento:

12 aprile

DOVE DORMIRELA CASA SUL SENTIERO

Frazione Cocoioni

Tel. 339-1016567

Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DI RENDOLA

Località Rendola 89

Tel. 055-9707491

Chiuso mercoledì e giovedì a pranzo

menù da 35 euro

DOVE COMPRAREMERCATO COPERTO QUOTIDIANO

Piazza XX Settembre

Tel. 335-5201955

Montevarchi (Ar)La città del pane

di semola più famoso

d’Italia vanta

una sontuosa varietà

di materie prime

e ricette golose,

dalle orecchiette

alla burrata. La vocazione

agricola ben si esprime nella gara delle frittate

dalle mille farciture, in programma a fine mese

DOVE DORMIREHOTEL SAN NICOLA

Via De Samuele Cagnazzi 29

Tel. 080-3105199

Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARETRE ARCHI

Via San Michele 28

Tel. 080-3115569

Chiuso mercoledì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREAGRITURISMO MADONNA DELL’ASSUNTA

(con cucina e camere)

S.S. 378 km 17

Tel. 080-3103328

Altamura (Ba)

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

i saporiPrimavera in tavola

Protagonista assoluta del picnic di Pasquettae di ogni pranzo, spuntino o aperitivo nei mesi estivi,come testimoniano le centinaia di saghe a lei dedicateUn piatto nato povero ma che nasconde segreti vecchidi secoli, che resistono anche all’era dietetica

OrticheNella frittata simbolo

della depurazione primaverile —

proprietà antiallergiche e diuretiche

— le erbe vengono bollite, tritate

e mescolate a uova, parmigiano,

sale, prezzemolo. Variante saporita

con la verdura passata in padella

prima di essere aggiunta

PatateIrresistibile la commistione

con le fries – a fiammifero,

chips, tocchetti, fettine – cotte

in extravergine e appoggiate

su carta assorbente prima

di unirle a uova e parmigiano

Poco latte o burro e cottura

morbida, per evitare che si asciughi

CipolleLa regina del picnic ha per base

sottili anelli di cipolla bianca resi

trasparenti da una cottura delicata

in olio e (o) burro, allungati

con un cucchiaio d’acqua

Cottura su entrambi i lati

Golosità e succulenza aumentano

con lo spessore del disco

MaccheroniLa Campania, oltre al recupero

della pasta avanzata, vanta

una ricetta celebrata dal Cavalcanti

Nello scammaro non uova ma olive,

capperi, prezzemolo, acciughe

e aglio a condire i vermicelli, livellati

in padella e rosolati. Variante

con pinoli e uvetta

RusticaDetta anche rognosa, incorpora

vari tipi di carni e insaccati,

dai dadini di salame alla salsiccia

sbriciolata, prima rosolati (senza

grassi!) in padella antiaderente

Per bilanciare le proteine

e sgrassare la preparazione

si aggiungono erbette scottate

«Cara Albina, questa tua frittata è sublime. Te lo dice un conoscitore che ha saputofare le più belle frittate del mondo, cosicché alcune, per testimonianza di quel fes-so di San Pietro, sono in Paradiso le raggianti aureole di Vergini martiri…». Non era tipo da sprecare aggettivi d’elogio, Gabriele D’Annunzio. Così, le paroleche usa nella lettera alla sua cuoca, Albina Becevello, suonano come uno straordi-nario spot pubblicitario per la regina della colazione pasquale, signora del picnic

di Pasquetta e protagonista dei menù primaverili: trasversale, democratica, perfino dietetica, se solo siusa qualche attenzione. Così amata e praticata, che da oggi alla fine dell’estate verrà celebrata in centi-naia di appuntamenti, tra sagre e feste, degustazioni a cielo aperto e competizioni acerrime per virtuosidel giro-frittata.

Il battesimo stagionale coincide proprio con la domenica di resurrezione. Tra oggi e domani, infatti,in Italia si romperanno 365 milioni di gusci — esclusi quelli di cioccolato! — di cui molti sacrificati perconsentire a bianchi&rossi di mischiarsi al parmigiano, inseparabile compagno di padella.

Sembra facile fare una frittata. In realtà, è facilissimo fare una frittata banale, mediocre, dimenticabi-le. Gualtiero Marchesi, invece, svelta quali delizie possa riservare una preparazione virtuosa: «Rompo leuova, e le mescolo con la forchetta quanto basta perché tuorlo e albume si amalgamino. A sbatterle trop-po, si sfibrano, e in cottura diventeranno inerti. Aggiungo una piccola presa di sale e qualche fiocchettodi burro, poi verso in padella, dove sfrigola un pezzetto di burro. Fuoco allegro e movimento continuocon la forchetta, mentre con l’altra mano dondolo la pentola perché il calore si diffonda bene». Il capo-lavoro annunciato del Grande Vecchio della cucina italiana d’autore non ammette scorciatoie: se fritta-

LICIA GRANELLO

Tutti sudditidella regina

democratica

ta deve essere, va coccolata con la cura che si deve a un grande piatto. Purtroppo, come il buco per leciambelle, non tutte le frittate riescono marchesiane. Che fare?

Intanto, scegliendo ingredienti à cotéche la rendano più sfiziosa, per bilanciare una cottura nonproprio sublime: carciofi, zucchine, cipolle, patate, erbette, su su fino a quelli carnali, come pro-sciutto, salame, salsiccia. Sbollentati e saltati con un filo d’olio, o fatti “sudare” senza un filo digrasso prima di essere uniti alle uova.

Piccolo trucco per dribblare il colesterolo in agguato, la cottura in forno: basta ungere la te-glia con il vaporizzatore d’olio — bomboletta mutuata da quella per profumi — e cuocere unquarto d’ora. Spolverizzando con farina o pan grattato, ci si assicura la crosticina croccante, se-parando tuorli e albumi (da aggiungere montati a neve) la frittata sarà leggera e setosa.

Ma tutto è vano, se le uova non sono di qualità. Organizzate una gita sulle colline tra Modena eBologna, dove Monica Maggio, docente universitaria pentita, alleva in felice libertà antiche varietàdi polli — agriturismo Il Feudo — con cinque tipologie di uova straordinariamente sane e gustose. Im-parate comunque a controllare il primo dei numeri impresso sul guscio, senza farvi ingannare dalle al-legre galline delle confezioni: lo zero garantisce allevamento biologico, l’uno certifica quello all’aperto,mentre il 2 (in capannoni a terra), e soprattutto il 3 (in gabbia) attestano produzioni di qualità mediocre,e pessime per il benessere animale.

Se la mancanza di tempo vi impedisce virtuosismi, copiate allegramente la veloce, appetitosa ricettacon cui Ferrán Adriá ha conquistato milioni di massaie spagnole: frantumate delle buone patatine chi-ps (venti grammi per uovo) e immergetele per qualche minuto nella metà delle uova e sale previsti. Ag-giungete le altre uova appena prima di cuocere. È consentito leccarsi i baffi.

Frittata

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 23 MARZO 2008

«Chi è che non sappia far le frittate? E chi è nel mon-do che in vita sua non abbia fatta una qualchefrittata?». Così esordisce Pellegrino Artusi nel

suo celebre ricettario, fondamento della cucina domesti-ca italiana (ricetta n. 145, Frittate diverse). «Pure», conti-nua, «non sarà del tutto superfluo il dirne due parole». Per-ché anche le cose più semplici (soprattutto le cose più sem-plici) vanno fatte bene, con la cura e l’attenzione che meri-tano. Con il rispetto che si deve ai fondamentali — direbbeun economista — della vita quotidiana. Proseguiamo allo-ra con Artusi: «Le uova per le frittate non è bene frullarle

troppo: disfatele in una scodella colla forchetta e quan-do vedrete le chiare sciolte e immedesimate col torlo,

smettete». Per cuocerle consiglia «eccellente oliotoscano», e la regola-base è di non girarle mai: la

frittata «non si cuoce che da una sola parte, il qualuso è sempre da preferirsi… Quando è assodata la

parte disotto, si rovescia la padella sopra un piatto soste-nuto colla mano e si manda in tavola».

Col che (osserviamo fra parentesi) la metafora del “ri-voltare la frittata”, usata per indi-care chi ti cambia le carte in tavo-la, capovolgendo la situazione a

proprio vantaggio, segnalerebbenon solo un comportamento riprove-

vole sul piano etico, ma una pratica di-scutibile sul piano gastronomico. Il modello artusiano (oggi non più condivi-

so, al punto che la frittata può essere contrap-posta all’omelette proprio per il fatto di essere cot-

ta da entrambe le parti) vantava una lun-ga tradizione. Lo proponeva già Mae-

stro Martino, il più celebrato cuocoitaliano del Quindicesimo secolo,nel capitolo sulle uova del suo Librode arte coquinaria. La frictata, che

apre il capitolo, consiglia di farla così:«Battirai l’ova molto bene, et inseme un

poco de acqua, et un poco di lacte per farla unpoco più morbida, item un poco di bon caso

grattato». Come grasso, il lombardo Martinopreferisce il burro: la cuocerai, scrive, «in bon bo-

tiro perché sia più grassa» (e qui si deve osservare la con-notazione positiva che aveva allora, a differenza di oggi, lanozione di “grasso”). Ma torniamo a Martino: la frittata«per farla bona non vole esser voltata né molto cotta». Pro-

prio come per Artusi. Seguononumerose ricette «per cocer ova

in ogni modo». A questo umileprodotto, la cui celebrazione è at-

tualmente confinata nelle ritualitàpasquali (l’uovo come simbolo di rina-

scita spirituale e di rinnovamento sta-gionale), le nostre tradizioni di cucina

hanno riservato ben altra centralità, ancheper l’importante ruolo sostitutivo che esso

aveva nei periodi e nei giorni di astinenza dallecarni. Anche per questo i ricettari, dal Medioevo in

poi, hanno riconosciuto alle uova uno spazio auto-nomo, una dignità gastronomica analoga a

quella delle carni o dei pesci, sofferman-dosi sui mille modi di utilizzare e far frut-tare questa preziosa risorsa, riconoscen-

do anche in ciò la capacità (o l’incapacità)di un cuoco. Ce lo spiega bene la divertente

“facezia” di un novelliere toscano del Quattrocento.«Cosa mangeremo stasera per cena, dato che è ve-

nerdì?», si chiedono alcuni gentiluomini riuniti nel palaz-zo di Giovanni de’ Medici a Fiesole. Alla fine decidono di farpreparare al cuoco delle uova, preparate in tanti modi di-versi. Arrivano i piatti, e Giovanni rimbrotta il cuoco: «Misembra che tu ti sia dimenticato come si cuoce: non vediche frittate ci mandi davanti?». Il cuoco tenta di discolpar-si dando la colpa alla padella, che «non le fa venire bene».Vai a prepararne delle altre, gli dice il signore, «e dedicali aSan Cresci se ti fa la grazia di farle venire bene». Niente dafare: «Vennero peggio di prima». Qualche giorno dopo igentiluomini incontrano il pievano Arlotto, titolare dellachiesa di San Cresci, e si lamentano di non aver ricevuto lagrazia. Il pievano risponde con risentimento: «Non vi ver-gognate ad avere così poca stima del mio San Cresci? Si ècomportato nel modo che vi meritavate. Vi sembra forseun santo da frittate?» Come a dire: lascia perdere i santi. Afar buone frittate un cuoco basta e avanza. Se ci sa fare.

Ma chi la rivoltasbaglia due volte

MASSIMO MONTANARI

RotoloHa una base classica – uova,

formaggio, sale – più farina e latte

a piacere. Prima che si raffreddi,

sovrapposizione a strati

di prosciutto, erbette, caprino

fresco, salsa tonnata. Arrotolato

con l’aiuto di un foglio d’alluminio,

deve riposare in frigorifero

TortillaPresente in tutti i menù di tapas,

dalla colazione all’aperitivo serale,

la frittata spagnola ha ingredienti

tradizionalissimi: patate a fette

e cipolle tagliate alla julienne,

cotte insieme in extravergine

e addizionate di uova freschissime

Deve essere alta e dorata

InfornataLa più setosa prevede separazione

tra rossi — mescolati con sale,

pepe, parmigiano — e bianchi,

montati a neve e uniti con cura

al composto. In teglia appena unta

e non troppo larga (così il cuore

resta morbido), forno a 180 gradi

e un quarto d’ora di cottura

OmeletteLa versione francese prevede

cottura dorata da un lato in padella

con burro “rosso” (appena

colorato). La parte interna

deve rimanere semiliquida

(baveuse). Dopo la farcitura

si ripiega in due o tre. Un’incisione

col coltello svela il goloso ripieno

Crêpe Latte, uova e farina per la crespella

(dal latino crispus, ondulato)

da imbottire con farciture dolci

o salate: besciamella, marmellata,

cioccolato, noci, formaggi

In Francia esiste una tipologia

con farina di grano saraceno,

la galette bretonne

Gli appuntamentiDa domani (picnic di Pasquetta) a tutto aprile, ogni week end

sarà punteggiato di feste con le uova protagoniste. Si comincia

subito con le frittate al tartufo a Ferentillo, Terni. Si prosegue

domenica prossima ad Altamura, mentre il secondo sabato

di aprile, al Mercatale di Montevarchi, i contadini-espositori

trasformeranno uova ed erbe per la gioia dei visitatori

le tendenzeRivoluzioni

Una mostra a Parigi, “Estéthique médiatique”, ripercorrel’ultimo secolo attraverso trecento utensili sottratti all’oblio:dalla macchina da scrivere al computer, dal grammofonoall’iPod, dalla cinepresa alla videocamera digitale. L’occasioneper riflettere sull’anima e sul corpo della comunicazionee per apprezzare un genere “antiquario” in grande sviluppo

Un design avveniristicoche vuole evocarelo spirito del progresso

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

PARIGI

Comunicazione. È la parola d’ordine del nostro pre-sente. Mai prima d’ora l’uomo ha avuto a disposi-zione tanti strumenti per comunicare con i suoi si-mili. Una rivoluzione copernicana che ha cambia-

to le nostre vite, ma anche la nostra stessa umanità. Al punto chehomo sapiens è diventato ormai homo medians. E l’atto del co-municare è diventato la sostanza stessa della contemporaneità.Un’esperienza tanto quotidiana da diventare natura, una sortadi prolungamento tecnologico dell’essere. Così scontata da di-ventare una pura astrazione, disincarnata, senza corpo.

Invece no. La comunicazione un corpo ce l’ha, eccome. An-che se noi lo dimentichiamo abbandonandoci all’illusione delvirtuale, alle sirene dell’immateriale, incantati dai cristalli liqui-di di queste metafore che finiamo per prendere alla lettera.

A farci riflettere sulla nostra dimenticanza è la mostra Estéthi-que médiatique in corso a Parigi, nel Musée des Années 30, inquella Boulogne -Billancourt che resta nel nostro immaginariocome emblema della periferia operaia, la faccia buona dellabanlieue. Un secolo di oggetti per produrre, registrare e diffon-dere immagini, suoni e testi. Trecento pezzi che il curatore Jean-Bernard Hebey ha scelto fra gli ottomila che compongono la suaimponente collezione privata. Grammofoni, microfoni, mac-chine da scrivere, radio, telefoni, giradischi, macchine fotogra-

fiche, proiettori, amplificatori, antenne, interfono, risponditoriautomatici, televisori, telescriventi, telecamere, computer e al-tri modernariati tecnologici d’uso quotidiano. Utensili che dan-no un corpo all’espressione di Marshall McLuhan strumenti delcomunicare.

I pezzi esposti, quasi tutti bellissimi, ci raccontano la genea-logia di una grande avventura, la storia di una mutazione antro-pologica, prima ancora che tecnologica, che non ha mai sacrifi-cato la bellezza all’efficienza. Forme, colori, materiali sono sem-pre della stessa materia dei sogni. Quasi che i primi designeravessero il compito di sacralizzare la produzione industriale re-stituendo agli oggetti quell’aura che la riproducibilità tecnicaaveva infranto. Un mix di estetica e innovazione, di economia efantasia, di ragione e magia, di glamour e tecnologia. Autenticivisionari come Oscar Schlemmer, John Vassos, Giò Ponti, Phi-lippe Charbonneau fondono indissolubilmente la cosa e la rap-presentazione, il materiale e l’immaginario. La bellezza diventacosì la promessa della funzione. Una funzione sempre più lega-ta all’idea progressiva di una società mobile, vivace, libera, edo-nista. Con una quantità crescente di tempo libero a disposizio-ne delle persone. Lo spirito del progresso è infatti continua-mente evocato nel design avveniristico e fantascientifico di que-sti sciamani della società industriale. Ma si tratta spesso di un fu-turo pieno di passato, barocco come l’astronave di Flash Gor-don, o il sottomarino del Capitano Nemo. Ogni cosa somiglia aqualcosa d’altro, ha in sé il ricordo di una forma precedente el’anticipazione di quella che verrà. Quasi che le nuove tecnolo-gie non avessero ancora sviluppato una forma propria. Come i

MARINO NIOLA

Oggetti per comunicarecosì antichi, così moderni

SENZA SCHERMOVisore per diapositive

prodotto in Francia nel 1940

Il designer è W.B. Gruber

Questo tipo di oggetto

consentiva di visionare

le dia montate su un supporto

circolare che ruotava

AUTORE SCONOSCIUTOTelevisore portatile

giapponese dei primi anni

Cinquanta

La marca è Sharp,

il nome del designer

(come quasi sempre

accade con i prodotti

industriali nipponici)

non è riportato

SUPERCOMPATTAVideocamera made in Usa,

1948. Prodotta a Chicago

dalla Revere, il suo design

è attribuito a Jack Briskin

Le dimensioni, considerata

anche l’epoca e la necessità

di contenere

un rullo di pellicola,

sono straordinariamente

compatte: misura centimetri

13,5 x 11,3 x 6

COL SENNO DI POIVisto trent’anni dopo,

questo televisore giapponese

Panasonic del 1975

ricorda un po’ il look

dei cartoni animati

americani di William Hanna

& Joseph Barbera

Oggi la magia si nascondenell’infinitamente piccoloFino a diventare invisibile

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 23 MARZO 2008

primi televisori degli anni Quaranta e Cinquanta, simili a radiocon lo schermo. Non più radio, non ancora televisione. O comecerti altoparlanti degli anni Trenta al limite dell’antropomorfi-smo, straordinariamente simili a quelle maschere africane cheproprio allora invadevano l’arte e il design occidentale riem-piendoli di esotismo.

Una valigetta giradischi Rca degli anni Trenta che sembra uncestino da picnic in stile Art déco. Ma anche un kit per radioa-matori. Antenne che somigliano ad alettoni, boomerang, dischi,missili, direttori d’orchestra, marziani. Diademi piumati dellacomunicazione, esercizi di immaginazione non sottomessa al-le funzioni. Suggerita piuttosto dalla fantasia.

Media polimorfi e ibridi per un’umanità non ancora del tuttomediatica ma già alla ricerca pionieristica di nuovi usi e costu-mi. Media da passeggio, da gita fuori porta, per una società chenon aveva un televisore per ogni stanza. Non a caso la culturamateriale della tribù comunicante è così spesso portatile. Lamobilità è l’essenza della comunicazione, all’inizio del Nove-cento come adesso. Ma nei media delle origini il movimento èqualcosa di fisico, materializzato in maniglie, impugnature, ro-telle, snodi girevoli, ammortizzatori, antenne estraibili. I primitelevisori portatili, lo Sharp del 1950, il Brion Vega degli anni Ses-santa, la piramide Sony, l’ovoide della Panasonic che sembravauscito da Star Trek, sono un monumento alla mobilità. Che è so-vraesposta, gridata, amplificata in mille particolari tecnici e altempo stesso espressivi. Bachelite, cromature, radiche prezio-se, ottoni. Tutto questo che a noi sembra antiquariato fu in realtàl’incarnazione stessa della modernità trionfante, della tecnolo-

gia che rende liberi e leggeri. L’esposizione mostra, insomma, quel filo rosso che dalla pri-

ma macchina da scrivere arriva fino al computer, dalle cinepre-se alle videocamere digitali, dal grammofono all’mp3 e all’iPod.Sono proprio i colori, i materiali, le forme a rivelare quella aria difamiglia che finiamo per dimenticare quando isoliamo l’ogget-to riducendolo unicamente a una funzione astratta. Levandoglicosì l’anima e la storia.

È dunque il corpo dei media a mostrarci la genealogia della co-municazione, perché conserva le tracce fisiche del passaggioche conduce da una forma all’altra, da una innovazione all’al-tra. Da ibridi come il televisore-giradischi dell’italiana Teleavia,metà tavolino da salotto, metà aereo, fino ai nostri schermi ul-trasottili che si appendono come quadri. Occultando la produ-zione dell’immagine e del suono dietro un’apparente e miste-riosa assenza di fonte.

Oggi è nell’infinitamente piccolo che si è rifugiata la magiadella comunicazione. Nei suoi supporti invisibili che ricevono etrasmettono immagini ad altissima risoluzione. Oltre mille li-nee contro le diciotto del primo monumentale apparecchio te-levisivo costruito nel 1926 da John Logie Baird. Potenza infinita,ai limiti del miracoloso, in oggetti sempre più nano. Miniaturetecnologiche pressoché immateriali che portiamo sempre ad-dosso. Come protesi interattive. Come doppi di noi stessi. Checi possiedono mentre noi possediamo loro. L’interiorizzazioneestrema dei media assume così i caratteri dell’estasi. E grazie al-la rete la comunicazione diventa il dio nascosto, il soffio vitaledel mondo globale.

IN VALIGIAGiradischi portatile

Rca Victor del 1937,

design di John Vassos

Imitatissimo nei decenni

successivi, era in acciaio

e alluminio, ma foderato

di velluto

ADEGUAMENTOVideocamera tedesca

del 1981. Marca Agfa,

design Norbert Schlagheck

Nella forma e nei materiali

il design appare sempre

più adeguato alle esigenze

della produzione industriale

UN SOLO CORPOL’Ericophon 600 (Svezia 1954) ha fatto epoca. Il suo design molto innovativo

ed essenziale riuniva in un unico corpo il telefono e la cornetta

VARIAZIONI SUL TEMAInfinite le variazioni stilistiche

sul tema del juke-box,

oggetto che segnava

con la sua presenza l’arredo

dei locali pubblici. Questo

è francese, datato 1961,

marca Eden Ami

QUASI UNA CAPPELLIERAAggraziato equilibrio

di forma e funzione

in questo giradischi portatile

tedesco del 1928,

marca Odeon, che fa pensare

a una cappelliera

Design di Oscar Schlemmer

A ROTELLEQuesto televisore, che raggiungeva

1,83 metri di altezza, era un tentativo

di risolvere il problema del mobile

porta-tv. Marca Teleavia, design

Philippe Charbonneaux, anno 1957

LA MOSTRA

La mostra EsthétiqueMédiatique è in corso

fino al 20 aprile

all’Espace Landowski

del Musée des Années 30

di Boulogne-Billancourt,

alla periferia di Parigi

(Boulogne-Billancourt

è facilmente raggiungibile

in metrò). Sono esposti

quasi 350 oggetti di design

del Ventesimo secolo

Le foto degli oggetti

in queste pagine, tratte

dal catalogo, si pubblicano

per gentile concessione

degli organizzatori

della mostra

‘‘

‘‘l’incontroAntidivi

LONDRA

Sir Michael Caine ancora oggiha qualche problema conl’odore del pesce. Quandoera ragazzino il padre lavora-

va come scaricatore al mercato di Billin-sgate, la sera ne portava a casa cesti inte-ri. Quello che non si riusciva a stipare nelpiccolo frigo finiva nella camera da lettodi Michael e del fratello Stanley, il postopiù freddo del bilocale illuminato a gasdi Southwark, a sud di Londra. MichaelCaine è fiero di tutt’e due le cose, di queltitolo di sir ricevuto dalla Regina e sfog-giato nei titoli di testa degli ultimi film edi quel passato da figlio di pulitore di pe-sce. «Mi considero un simbolo e unesempio per la classe operaia britanni-ca», proclama serissimo, l’accentocockney che non ha mai voluto perderee che negli anni della gavetta gli ha ne-gato l’accesso ai palcoscenici shake-speariani del West End.

Michael Caine è uno di quegli attoriche viaggia con il baule degli aneddoti.Ha il gusto per la battuta continua. Pren-de in mano l’edizione italiana del suomanuale Recitare davanti alla macchi-na dapresa. Lo sfoglia e poi: «Bello. Chis-sà cosa c’è scritto». E ride. Gli piace sor-prendere e dalla giacca di tweed vecchiostile tira fuori l’ipod con la compilationCained: tra i suoi brani preferiti No ordi-nary Morning di Chicane e Sinnermandi Nina Simone remixato da Felix daHousecat.

A settantaquattro anni, novanta film edue Oscar, Caine dichiara di essere inpensione. Lo fa per celia, perché spessoin passato è stato accusato di essere unodi quegli attori disponibili a qualunquefilm, per soldi. Nel suo manuale confes-sa: «Recitare è un’ossessione a tempo

pieno». Si è da poco tolto lo sfizio di por-tare al cinema Sleuth, remake di uno deifilm che ne lanciarono l’infinita carriera(il titolo italiano era Gli insospettabili).Stavolta interpreta il ruolo che, allora,era stato di Laurence Olivier, un altro sirdel cinema. Tratto da una pièce teatrale,ambientato in una villa, il film di JosephL. Mankiewicz era incentrato sul dram-matico confronto tra due uomini: unricco anziano e il giovane amante dellamoglie che lo incontra per convincerlo aconcedere il divorzio. Scene di un’am-bigua lotta di classe vissute, allora, den-tro e fuori il set: «Quando i giornali ap-presero che avrei affiancato il più gran-de e nobile attore britannico gridaronoallo scandalo. Erano certi che sarei usci-to distrutto dal confronto. Ricordo chepochi giorni prima dell’inizio delle ri-prese Olivier mi mandò un biglietto: “Seti stai chiedendo come ti devi rivolgere ame, sappi che puoi chiamarmi Lauren-ce”, c’era scritto. Una bella concessione,che di quel personaggio racconta tutto».

Stavolta nel ruolo di Milo, giovaneparrucchiere italiano che sfida l’anzia-no milionario, c’è Jude Law, che, tral’altro, produce il film. Trantacinqueanni, estrazione popolare, l’attoreaspira, dopo essersi già prodotto nel re-make di Alfie, ad accreditarsi come l’e-rede di Caine. Michael benedice il pas-saggio del testimone: «Jude Law ha ungrande talento e l’idea di far riscriverela sceneggiatura a Harold Pinter è statageniale. Per non parlare della scelta diKenneth Branagh come regista. Dueuomini claustrofobicamente soli. Ab-biamo girato in sequenza, pagine supagine del copione recitate a memoriasenza sosta. Un’esperienza eccitante ea fine riprese ho quasi collassato».

Caine, spiazzante per scelta di vita,demolisce il mito della gavetta dei tem-pi andati. «Non credete alle balle sul pe-digree teatrale. Ai miei tempi noi tuttiarrivavamo dal teatro e un po’ dalla tved eravamo, tutti, sopra le righe. Dicia-molo. Altro che recitazione naturalisti-ca. Oggi, invece, gli attori sono giàpronti per il cinema. Io sono stato il pri-mo della mia generazione a voler farel’attore dopo aver visto il mio primofilm western in una sala cinematografi-ca. Se leggi le biografie di attori alla Oli-vier ti dicono cose tipo: “L’autista miportò a teatro e quella notte decisi cheavrei fatto l’attore”. Io fui ispirato dallaparrocchia».

A Caine piace indugiare nel ricordodegli inizi faticosi, sfoderare episodi ri-costruiti ad arte. Uno dei pezzi forti ri-guarda quando da Maurice JosephMicklewhite divenne Caine: «Avevoscelto Michael Scott», racconta. «Locambiai quando fui scritturato per ilmio primo ruolo televisivo. Aspettavo ilverdetto telefonico dal mio agente, eroin Leicester Square. Al momento con-cordato lo chiamai per sapere se fosseandato bene e lui mi disse che avevoavuto una parte, ma avrei dovuto cam-biare il nome perché c’era già un altro

Craig e Sienna Miller) come uno deipeccatori del quartiere bohémien diPrimrose Hill: «Ci si diverte nello stessomodo, a Primrose come nei quartieribene. Solo che sono i giornali a decide-re chi massacrare. Oggi succede a Jude,allora a me».

Fu turbolenta e vissuta l’ascesa di Cai-ne. Scandita da film come Zulu, Ipcress,Get Carter, Alfie, The Italian Job. «Ero ar-rivato a bere due bottiglie di vodka algiorno. Feci tutto quel casino fino aquando, trent’anni fa, incontrai Shaki-ra, l’angelo della mia vita. La vidi in tv inun pub mentre danzava nello spot di uncaffè. Quella sera dissi al mio miglioreamico che sarei andato in Brasile a cer-care quella ragazza. E invece ho scoper-to che era l’ex miss Guyana e viveva a unpaio di quartieri di distanza dal mio.L’ho subito contattata. Lei non si è im-pressionata molto, ma poi l’ho convin-ta. Shakira è la donna che dà un senso,che mi dà un senso e una proporzione.Quando un giornale mi dedica una pa-gina, io gliela mostro: “Vedi, c’è scrittoche sono un’icona”. E lei: “Bene, maadesso va a buttare la spazzatura”».

Shakira cucina italiano, arte appresada un cuoco bolognese: «Sono un infa-tuato del cibo, ho posseduto diversi ri-storanti. Ho venduto tutto sette anni fa.Avere a che fare con cuochi famosi è peg-gio che trattare con divi capricciosi, unmaledetto incubo. Io cucino le miglioripatate arrosto del mondo, due chef so-no venuti a casa mia per carpirne il se-greto. E poi mi piace andare in giro ad as-saggiare nuovi piatti, faccio viaggi eno-gastronomici con Roger Moore. Il miopiù caro amico, insieme a Sean Con-nery. Con Roger facciamo lunghi viaggiin macchina. In realtà ne sto progettan-do uno in Italia, con le mie figlie».

Con il nostro Paese Caine ha un anti-co legame cinematografico: «Con Vit-torio De Sica girammo uno degli episo-di di Sette volte donna. Mi dirigeva a ge-sti, non parlava inglese. Io non parlavoitaliano e quindi stavo in silenzio. Ungiorno nel pullman della produzionevide che cercavo discretamente di atti-rare la sua attenzione. Zittì l’interatroupe, dicendo: “Be quite, ladies andgentleman, perché mister Michael Cai-ne deve dirci qualcosa. Allora, misterCaine, qual è la domanda?”. E io: “Pos-so andare in bagno?”». Caine ride an-cora. «Ricordo una scena girata a Pari-gi, agli Champs-Elysées. Io pedinavoAnita Ekberg e Shirley MacLaine; die-tro, nel pulmino con la macchina dapresa, c’era De Sica. Mentre giravamofui accostato da due tizi con una fuori-serie che mi chiesero di che nazionalitàfossi. “Inglese”, risposi. E loro: “Com-plimenti per il buon gusto”. Vittoriodentro il pulmino urlava furioso: gliavevano rovinato la scena». È stato pro-prio De Sica a individuare e alimentarela vena per la commedia di MichaelCaine. Più ruvido e livoroso fu il rap-porto con Sophia Loren, che in giuria aCannes nel ‘66 si batté con successo per

attore nel sindacato che si chiamavaMichael Scott. Dovevo decidere in fret-ta. D’un tratto vidi che nel cinema difronte alla cabina davano L’ammuti-namento del Caine con uno dei miei at-tori preferiti, Humphrey Bogart: “Cai-ne”, dissi. E mi andò bene, perché avreipotuto chiamarmi anche Michael Cari-cadeicentouno».

I ricordi dell’attore si colorano di po-lemica quando torna alla Swingin’ Lon-don degli anni Sessanta, vissuta con ilcompagno di stanza Terence Stamp eispiratrice di tutto quello che poi arrivò.Caine è felice e fiero di quegli anni in cui«per la prima volta nella storia britan-nica i figli della classe operaia impone-vano il loro stile di vita. Per la prima vol-ta avevamo un nostro codice morale,che non era ideale, ma almeno onestorispetto all’ipocrita società inglese del-l’epoca». Caine s’infervora sulla perse-cuzione che i tabloid hanno riservato alsuo giovane erede, bollato con unamanciata di colleghi (tra cui Daniel

non far dare la Palma d’oro ad Alfie:«Era rimasta scioccata dalla scena del-l’aborto. Lei ha odiato tanto quel film enon mi ha mai più rivolto parola. No-nostante la Loren, vincemmo un pre-mio speciale della giuria e alla cerimo-nia finale fummo fischiati».

Caine, il british del popolo, ha speri-mentato, è andato contro vento. E avolte ha inventato. In Ipcress, nel ‘65,coniò l’investigatore Harry Palmer, ilprimo antieroe nella storia dello spio-naggio cinematografico. Ruppe unoschema. E oggi racconta: «La produzio-ne mi negava gli occhiali da miope di-cendo che sembravo gay. Poi lamenta-va che non potevo cucinare per unadonna perché sembravo gay. Io rispon-devo, come sempre, andando avanti atesta bassa. Anche nella vita mi sonoscontrato con il pregiudizio, il suo po-tere regressivo. Un tizio, un vicino dicasa, si presentò nell’appartamento alcentro di Londra dove mi ero appenatrasferito. Era una casa di prestigio, èinnegabile, e lui voleva mettermi inguardia dalle invasioni degli immigratiarricchiti: “S’infilano dappertutto”. Iolo feci accomodare in salotto, gli pre-sentai la mia moglie indiana e dissi: “Sacom’è, s’infilano dappertutto!”».

L’ultima volta che il caratteriale Cai-ne ha avuto voglia di menar le mani èstato durante la promozione di Bat-man Begins di Christopher Nolan, incui interpreta il fido maggiordomo del-l’uomo pipistrello (ha appena finito digirare il sequel The Dark Knight e an-nuncia che Heat Ledger, il giovane divoaustraliano recentemente scomparso,sarà spettacolare nel ruolo di Joker).«Un giornalista mi ha chiesto se mi erosentito particolarmente a mio agio neipanni del servitore, viste le mie origini.Non ha idea, quell’uomo, di quanto siastato vicino ad essere strangolato».

Mia moglie Shakiraè la donna che mi dàsenso e proporzioneQuando un giornalemi dedica una paginale dico: “Vedi, sonoun’icona”. E lei:“Bene, ma adessobutta la spazzatura”

Quand’era ragazzino, suo padrefaceva lo scaricatore al mercatodi Billingsgate. Oggi si fregiadel titolo di baronetto. Lui va fierodi tutte e due le cose: le origini

proletarie (“Io sonoun esempio per la classeoperaia bitannica”)e la lunga vita di successicinematografici, ottenutiogni volta combattendo(lui dice: “Andandoavanti a testa bassa,

come sempre”). A 74 anni, 90 filme due Oscar, è ancora sul setMa ora è pronto a cedere il testimone

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ARIANNA FINOS

Michael Caine

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 MARZO 2008

REPUBBLICA TVDa oggi

su Repubblica Tvuno speciale

con l’intervista

a “Caine l’italiano”

e le interpretazioni

che hanno segnato

la sua carriera