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TU CHE MI ASCOLTI - Rilettura di un percorso di psicoterapia

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Irene Massai

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Il lavoro che qui presento si pone l’obiettivo di illustrare i passaggi più significativi di un breve percorso di psicoterapia svolto con una persona anziana tramite terapia domiciliare. Ho pensato a lungo se soffermarmi o meno sulle specifiche della psicologia dell’anziano e poi ho deciso di non farlo perché la chiave di volta della psicoterapia con questa paziente è stata l’accettarla innanzitutto come persona, aldilà di ogni etichetta, compresa quella della persona anziana. Dicembre 2008

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“Abbiamo due orecchie ed una sola bocca perchè dovremmo ascoltare il doppio di quanto parliamo”

Antico proverbio danese Introduzione Il lavoro che qui presento si pone l’obiettivo di illustrare i passaggi più significativi di un breve percorso di psicoterapia svolto con una persona anziana tramite terapia domiciliare. Ho pensato a lungo se soffermarmi o meno sulle specifiche della psicologia dell’anziano e poi ho deciso di non farlo perché la chiave di volta della psicoterapia con questa paziente è stata l’accettarla innanzitutto come persona, aldilà di ogni etichetta, compresa quella della persona anziana. Cercherò quindi di soffermarmi sui momenti più importanti della terapia, trattando brevemente da un punto di vista teorico alcuni particolari temi legati fondamentalmente alle tecniche del colloquio e agli aspetti copionali e sottolineando poi gli elementi che mi hanno consentito di formulare un’ipotesi rispetto al suo copione. Inoltre farò dei cenni al ruolo, basilare, che la supervisione ha avuto nella trattazione del caso, portandomi ad individuare aspetti di transfert e controtransfert che, altrimenti, avrei rischiato di trascurare. La descrizione e la trattazione del caso si alternerà quindi ad alcuni aspetti teorici, in particolare a quelli che, più di altri, l’hanno guidata e consentita. La terapia con la paziente si è rivelata complessa, nel senso etimologico del termine, ancor prima di iniziare. Da segnalare alcuni particolari elementi: Il contatto è venuto dal figlio che parlava di una madre inferma, che aveva bisogno di una psicoterapia ma non era convinta di farla La terapia veniva pagata dal figlio La signora risultava affetta da una “anomalia al cervello” 1 che ne limitava, secondo il figlio, le capacità fisiche e cognitive La terapia doveva essere domiciliare, con i relativi problemi di set e setting che questo comporta Al telefono Gianni, il figlio più giovane, mi presenta una situazione piuttosto grave, descrivendomi una persona praticamente inferma e incapace di fare qualunque cosa. Mi “inonda” della sua preoccupazione per la madre ma anche del suo senso di fatica, oscilla tra sentimenti di compassione, rabbia e risentimento verso di lei che, dice, è sempre stata, molto egoista e “ci costringe a preoccuparci sempre per lei”. Con queste premesse, dopo il lungo colloquio telefonico con il figlio, mi sono avvicinata al primo colloquio. 1 Con queste parole il figlio mi ha descritto, la prima volta, il disturbo della madre

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Il primo colloquio “Il contesto del primo colloquio è particolarmente favorevole nel senso che può essere considerato come la situazione psicanalitica più pura*…+ Prima dell’incontro il paziente ha come reali referenze solo quelle del suo immaginario, si rappresenta in qualche modo lo psicoterapeuta e se ne aspetta qualcosa. Queste attese si fondano strettamente sui suoi bisogni. L’incontro iniziale può così fornire inestimabili informazioni sulla personalità del paziente poiché è lì che essa si manifesta al meglio” (E.Gillieron) Il fatto che il primo colloquio, così come sarebbe successo per tutti gli altri, si svolgesse in casa della paziente, generava in me perplessità, dovute essenzialmente alla garanzia della sua privacy e al rispetto delle regole base: come avrei potuto essere certa che il telefono non suonasse, che nessuno entrasse etc..? Secondo Gillieron il primo colloquio deve permettere di sapere: - le modalità di arrivo del paziente alla consultazione - il tipo di relazione che il paziente cerca di stabilire con il terapeuta - le lamentele iniziali verbalizzate dal paziente, in particolare il modo in cui il paziente formula, o non formula, la sua richiesta d’aiuto In termini di Analisi Transazionale, il primo colloquio deve vedere coinvolti tutti e tre gli stati dell’io del terapeuta, e accogliere quelli del paziente, gli obiettivi possono infatti essere sintetizzati nei seguenti: Iniziare a conoscere la persona che incontro (A-A e B-B) Accoglierla nel suo disagio (G-B) Ascoltare la domanda e il problema (A-A) Gettare le basi dell’alleanza terapeutica (G-B) Fornire informazioni sul processo della consulenza e della terapia (A-A) “Nel momento in cui il terapeuta prende il proprio posto di fronte al paziente, la sua prima preoccupazione deve essere quella di preparare la propria mente al compito che l’attende *…+ Deve badare a iniziare ciascun nuovo incontro con una mente nuova *…+ Da un punto di vista psicologico il terapeuta deve scacciare dalla mente tutti i suoi problemi personali e tutto ciò che ha imparato *…+ Diviene simile a un neonato, che valica la soglia dello studio ed entra in un mondo nuovo che non ha mai conosciuto.” (E.Berne) Questo è stato il concetto a cui ho pensato al primo colloquio e al quale ho cercato di ispirarmi, ripercorrendo mentalmente gli slogan terapeutici di Berne: Primum non nocere: la prima preoccupazione di chi si dedica all’arte della guarigione è non fare del male, Vis medicatrix naturae: Il paziente possiede una pulsione innata verso la salute, sia in senso mentale che fisico. Je le pensay, Dieu le guarit: il terapeuta non guarisce nessuno, ma porta il paziente a essere pronto che la guarigione avvenga oggi.

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Mi sono avvicinata al primo colloquio con un’immagine precostituita della paziente inconsapevolmente molto forte che mi ha portato a stupirmi quando, davanti a me, mi son trovata una persona di 67 anni perfettamente tenuta, con il volto giovanile, e con una casa di tutto rispetto. Per prima cosa, durante il primo colloquio ho cercato di conoscere la persona che mi trovavo di fronte e di cogliere il suo bisogno: Marta2 ha 67 anni, vive in un appartamento decoroso e bentenuto, con una badante che sta con lei tutto il giorno tranne il pomeriggio. Mi accoglie molto timorosa, spaventata, inizialmente non parla. Le chiedo se sa chi sono e perché sono lì, mi risponde che gliene ha parlato suo figlio. Le racconto della telefonata che ho ricevuto dal figlio e le chiedo di parlarmi di lei, di raccontarmi quello che vuole della sua vita, di chi è Marta Miconi. Inizia a raccontarsi partendo dai suoi figli: Gianni e Luca proprietari di una farmacia che era di suo marito, morto circa due anni fa. Marta ha diversi problemi di salute e fisici: è stata operata due volte al ginocchio sx, e per altre due volte ha subito interventi di manipolazione delle anche da sveglia, ha avuto un’operazione al ginocchio e diversi problemi polmonari (ripetute embolie), a seguito della morte del marito è caduta in una profonda depressione dalla quale è uscita dopo un anno di cure, sostiene inoltre di avere un malformazione “al cervello quello piccino” di cui sa poco. Fa un uso sfrenato di farmaci di vario genere, si muove con un deambulatore ed è molto insicura e timorosa, cade spesso, non esce mai di casa, raramente si alza dalla poltrona, non legge e non guarda la tv. Ripete, con insistenza, di essere sola. Marta si esprime soltanto attraverso il suo lamento: si lamenta perché è sola, perchè è malata, perché il marito è morto, perché non vede mai i nipoti, perché è inferma, perché la badante la tratta male… Emerge fortissimo, nella prima seduta, il gioco a “gamba di legno”. Come sostiene Berne di fronte a questo gioco il terapeuta può attivare il suo Genitore in due modi: mostrandosi indulgente e accettando le scuse del paziente, oppure severo, impegnandosi in un conflitto di volontà col paziente. L’Adulto del terapeuta respingerà invece entrambe le possibilità, ascoltando il paziente ed aspettando il momento per esigere da lui una risposta seria su che cosa, pur nella sua situazioni invalidità, può fare per stare meglio. Decido quindi di ascoltare il suo lamento e di accogliere Marta nella sua dimensione bambina. I colloqui successivi mi permettono di farmi un quadro della sua situazione e delineare un primo contratto. Il contratto e l’attivazione degli stati dell’io del terapeuta Marta ha due tipi di problematiche: da un lato problemi fisici (anca, ginocchio, cervelletto) e dall’altro problemi psicologici che la “paralizzano”, ci diamo come obiettivo di trovare degli interessi e un nuovo modo di strutturare la sua giornata. Le chiedo il permesso di contattare il suo neurologo per capire 2 Utilizzerò un nome di fantasia a tutela della privacy della paziente

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l’entità del suo problema al cervelletto e il confine tra problemi fisici e psicologici che le impediscono di camminare, cerco cioè una risposta alla domanda: fin dove si può osare? La mia idea, che discuto e condivido a lungo con lei, è di darle dei piccoli compiti – obiettivi per sbloccarla (cercando quindi di lavorare su un piano comportamentale): la lettura, la maglia, l’uncinetto etc..tutte cose che possano riempirle il tempo ed avviarla ad un’autonomia almeno parziale. Riesco a creare abbastanza presto un’alleanza terapeutica, basata prevalentemente sull’accoglienza della sua solitudine, circoscrivo a me e lei il campo dei protagonisti della psicoterapia (delimitando un confine agli interventi, comunque basilari, del figlio). In questa prima fase ritengo di aver attivato, in tempi e modalità diverse, tutti e tre gli stati dell’io: L’alleanza terapeutica poggia le basi sul mio GA+ che si prende cura del suo bambino e sull’individuazione di una parte A di Marta. Mi preoccupo per lei, che sia comoda sulla poltrona, che l’acqua che beve non sia troppo fredda, che la stanza sia ventilata (è luglio e fa molto caldo) e, al tempo stesso, lascio che Marta rifletta, che pensi agli obiettivi che, realisticamente vuole e può raggiungere. Cerco una comunicazione empatica che mi aiuti a cogliere il suo sentire e attivando così’, la mia parte emotiva, il mio Bambino L’empatia è la capacità di sintonizzarsi sul canale analogico dell’altro, riuscendo così a intuire “dove” si trovi emotivamente l’altro nella relazione. In AT per empatia si intende la capacità del professionista di percepire, col proprio Io bambino, le informazioni provenienti dall’altro per rispondere in modo efficace, con l’Adulto, alla sua richiesta di aiuto. L’A1 (il piccolo professore) decodifica i messaggi non verbali, il tono della voce, la postura dell’interlocutore tanto da riconoscere se i suoi sentimenti sono congrui con ciò che esprime verbalmente oppure no. (A.Miglionico) Attivo l’Adulto contattando il neurologo, raccogliendo informazioni sull’atrofia cerebellare3 e selezionando, tra queste, quelle importanti ai fini della terapia. Contatto il medico e il suo ex psichiatria per avere chiarimenti rispetto all’enorme quantità di farmaci di cui Marta fa un uso, che scoprirò poi essere arbitrario. Contemporaneamente promuovo in lei la consapevolezza dei limiti effettivi che la sua malattia le dà e dei margini di autonomia su cui lavorare. Stabilisco inoltre una modalità di contatto col figlio chiara e trasparente. Attivo il GN, chiedendo al figlio e alla badante di non essere presenti durante i colloqui ed invitando il figlio a rielaborare i suoi vissuti rispetto alla situazione della madre non con me ma con un mio collega (rabbia, sovraccarico, dolore etc..). Stabilisco inoltre precise regole su visite e telefonate durante la terapia 3 Dal colloquio con il neurologo emerge che questa è la malattia di Marta di cui lei soffre già da 6 anni

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Il test I primi 5 colloqui procedono oltre le aspettative, Marta sembra rispondere bene ad un piano comportamentale, inizia ad uscire, a muoversi, addirittura a cucinare ma le sue richieste nei miei confronti si fanno sempre più pressanti: le trovo un ottico che viene a visitarla a casa, le porto io gli occhiali, sposto le sedute a suo piacimento..finchè Marta non rientra in uno stato profondamente depressivo a seguito di una caduta. Mi riferisce di sentirsi bloccata, di avere una gran paura anche solo di alzarsi, di non riuscire a muoversi.. Durante una supervisione ho modo di riflettere sugli aspetti controtranferali e..si apre un mondo: “il solo modo per percepire gli affetti del paziente è, per il terapeuta, prestare molta attenzione alle proprie reazioni emotive, si tratta sempre di chiedersi: che cosa provo di fronte a questo paziente?questa è la migliore indicazioni delle emozioni tranferali. In un secondo momento ci chiederemo perché si prova questa o quell’emozione” (E. Gillieron) Marta mi suscita tenerezza ma anche rabbia: vive in una situazione di infermità che non è giustificata dalle sue condizioni fisiche. Sembra non riconoscersi come persona ma solo come madre, privata dell’amore dei suoi figli, quando in realtà, almeno uno dei due si preoccupa molto per lei e se ne prende cura in senso materiale e psicologico. Da come ricostruisce la sua storia capisco che Marta ha sempre avuto qualcuno che si è occupato di lei nella sua vita. Non ricorda un momento difficile della sua infanzia/gioventù in famiglia, non ha mai lavorato e, una volta sposata, si è appoggiata, in tutto e per tutto, al marito che ha soddisfatto ogni sua richiesta. Attualmente uno dei due figli ha preso il suo posto, rispondendo a tutti i suoi bisogni, a volte capricci: la badante, il deambulatore, il videocitofono, la tv… Con una rotazione di ruoli drammatici (Salvatore, Persecutore e Vittima) da manuale, il figlio chiede adesso alla madre di scuotersi, accusandola di fingere la sua infermità e continuando a rispondere ad ogni richiesta. Un problema, una soluzione offerta. Marta racconta la sua storia e la sua vita in un modo strano, confuso, che è dovuto, in parte alla sua atrofia cerebellare (che impedisce una ricostruzione logico-temporale degli eventi) ma in parte a qualcosa di diverso. Non sembrava protagonista di quello che racconta e questo emerge in modo molto chiaro durante la fototerapia. C’è una sorta di “scarto” tra quello che Marta racconta ed il modo in cui lo fa. Detto con Giampaolo Lai emergono due diversi sistemi relazionali. Lai indica con “sistema relazionale 1” lo spazio e il tempo indicati dal paziente nei sui racconti (nel caso di Marta, i suoi viaggi in Canada, in Inghilterra, la nascita dei figli etc.) e con “sistema relazionale 2” lo spazio e il tempo del colloquio4 . In altri termini il “sistema relazionale 1” designa il “là e allora” 4 Dal colloquio con il neurologo emerge che questa è la malattia di Marta di cui lei soffre già da 6 anni

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del contesto di vita del paziente, il “sistema relazionale 2” il qui e ora del colloquio e, aggiungerei, di quello che ORA, prova il paziente. La fototerapia ha messo in evidenza il fatto che nel sistema relazionale 1 di Marta, c’erano tantissimi eventi, anche non comuni per quei tempi: numerosi viaggi, feste, amici ma nel sistema 2 c’era una sorta di apatia e distacco da quei contenuti. Come se qualcun altro avesse riempito il suo tempo nel corso degli anni. Che cosa mi chiedeva Marta, altre soluzioni? O forse qualcosa di diverso che nessuno le aveva mai dato fini in fondo? Perché proprio adesso che avevamo fatto piccole conquiste di autonomia Marta era regredita? “Le persone sono complicate, ma le loro complicazioni non sono casuali” (N. McWilliams) Dalle diverse supervisioni su questo caso è emerso con chiarezza il test di Marta: Vediamo se sei in grado di accettare il mio lamento, di ascoltarmi senza darmi soluzioni.. Fortunatamente non era tardi quando sono arrivata a capire il suo test ed ho potuto fare tesoro degli errori commessi rendendoli risorse per il processo della terapia e dandomi il permesso di rileggere i colloqui svolti. Ero diventata per Marta come suo figlio, mentre lei mi parlava della sua solitudine e della sua infermità io pensavo, esattamente come lui, a come fare per farla reagire, senza chiedermi se lei VOLEVA reagire. Mi preoccupavo di esaudire le sue richieste, di offrirle soluzioni e, senza esserne consapevole, questo mi faceva sentire autorizzata a pretendere qualcosa da lei, almeno in termini di raggiungimento degli obiettivi concordati. La supervisione sul caso mi ha aiutato a capire che mi stavo comportando con lei come con mio padre e la consapevolezza di quanto fosse difficile il momento personale che stavo vivendo mi ha spinto a lavorare molto su questo aspetto. Rifacendomi a Racker, definirei complementare il mio controtransfert. Racker distingue il tranfert in concordante e complementare e definisce il primo la percezione empatica del terapeuta di ciò che il paziente aveva sentito da bambino in relazione ad un oggetto, il secondo la percezione del terapeuta di ciò che l’oggetto aveva sentito verso il bambino. Io, come il figlio, ero interessata al fatto che Marta si scuotesse, forse anche per trovare prova del fatto che ero una brava terapeuta. Se avessi avuto la sensazione che la paziente non avesse fiducia in me e non mi credesse, svalutandomi, (come Marta percepiva il figlio) il controtransfert sarebbe stato concordante. Il lavoro di supervisione mi ha portato ad acquisire consapevolezza del fatto che i pazienti vengono in terapia per trovare risposte diverse da quelle che hanno ricevuto fino a quel momento dai loro familiari: ero davvero sicura che Marta volesse uscire dal suo stato di “torpore”, che volesse acquistare l’autonomia, che volesse camminare? O forse chiedeva solo di essere accompagnata ad accettare il fatto che non voleva più farlo? Mettere in discussione con lei gli obiettivi concordati ci ha consentito di dare una svolta alla terapia, ho dato a Marta il permesso di pensare e di decidere per se stessa, con l’obiettivo di rafforzare la sua identità.

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Marta: gli aspetti copionali Dopo circa quattro mesi di terapia Marta mi ha detto che adesso stava bene, che mi ringraziava “con tutto il cuore” e che sentiva di non aver più bisogno di me. Aveva iniziato davvero a ristrutturare il suo tempo, che cominciava a sentire davvero suo. Era riuscita a preparare di nuovo il “suo mitico ragù di carne” e invitare i nipoti a pranzo, cosa che era per lei ben più importante dei “giri del quartiere” tanto desiderati dal figlio e, inizialmente, anche da me. Non ho, né mai ho avuto l’illusione di aver “guarito” Marta in quattro mesi, probabilmente ricadrà, o forse l’avrà già fatto, in un nuovo momento di depressione e di abbandono ma sicuramente la terapia le ha dato, forse per la prima volta, la possibilità e il permesso di ascoltarsi e di essere ascoltata. La terapia non era finita, tanto lavoro avremmo ancora potuto fare, ma ho interpretato la volontà di Marta come tale, stava esprimendo quello che sentiva e che voleva, raggiungendo quindi un obiettivo terapeutico. Inoltre: che cos’altro potevo fare se non affermare con onestà che, non reputavo conclusa la terapia ma che rispettavo la sua volontà che finalmente veniva fuori? La riflessione e l’analisi sul copione di Marta sono stati sicuramente strumenti importanti per la terapia. Desidero precisare che, quelle finora descritte e quelle sul copione di Marta, sono state soltanto ipotesi, a causa della breve durata della terapia. In ogni caso, credo di poter affermare con una certa sicurezza la correttezza di queste ipotesi, dal momento che mi hanno guidato in una terapia che ha avuto un buon esito, almeno a breve termine. Steiner distingue tre grandi categorie di copioni5 : senza amore, senza ragione e senza gioia. Ritengo di poter collocare nella terza categoria il copione di Marta: il copione senza gioia è tipico di quelle persone che non state abituate ad ascoltare le proprie sensazioni di gioia o di dolore, dai suoi racconti e d quelli del figlio appare come una persona fondamentalmente egoista che non è riuscita a dare molto ma che molto ha chiesto senza però darsi mai il permesso di capire quello di cui aveva reale bisogno. Le modalità di comportamento delle persone che le sono state intorno hanno confermato il suo copione: ti senti sola? Prendiamo una badante, non sai chi viene a farti visita? Compriamo il video citofono Hai paura a camminare e ti senti paralizzata? Prendiamo un deambulatore Steiner ritiene che l’obiettivo base delle terapie con questo tipo di pazienti sia stimolare la ripresa del contatto con il proprio centro. Effettivamente Marta sembrava aver perso questo contatto e vagare da una richiesta all’altra seguendo le volontà del Salvatore di turno che assecondava i suoi bisogni di quel momento. Il copione di Marta è, da un punto di vista di contenuto, un copione banale, non ha mai avuto grandi obiettivi e quindi nessuna grande vittoria o sconfitta. Ha avuto una vita agiata ma sembra non rendersene neanche conto visto che non ha ma raggiunto qualcosa veramente da sola. Ricondurrei ad un copione MAI il suo modello, questa ipotesi trova conferma nei seguenti punti, alcuni dei quali descritti precedentemente: 5 Dal colloquio con il neurologo emerge che questa è la malattia di Marta di cui lei soffre già da 6 anni

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Marta si esprime soltanto attraverso il suo lamento: sono lamentosi il suo tono, il suo modo di raccontarsi, il suo sguardo da un punto di vista di processo, la spinta prevalente è sforzati. Le arrivano messaggi di sforzarsi per qualunque cosa, per alzarsi dalla poltrona, per leggere, per cucinare, per prendersi cura dei nipoti… Sembra inoltre esserci un “compiaci” legato però alla volontà di essere riconosciuto per il suo sforzarsi (faccio tutto questo, provo ad alzarmi a costo di cadere, mi sforzo..così ti piacerò) Marta sembra vittima della sua situazione: faccio tutto quello che mi dicono, ma non riesco a muovermi, a camminare e nessuno mi capisce. Questo è il suo tornaconto. La storia di Marta mi porta inoltre a pensare ad un’ingiunzione del tipo “non riuscire” “non essere te stesso”. Non ci siamo minimamente avvicinati al processo di deconfusione e Marta mi ha parlato poco della sua famiglia d’origine, tuttavia mi ha presentato dei genitori piuttosto rigidi che, offrendogli tutto, non le hanno dato modo di capire che cosa voleva e che l’hanno spinta a sposarsi con un uomo molto più grande ma con “una posizione” perché lei da sola, non sarebbe riuscita ad ottenere niente. Ritengo quindi di poter ricostruire la seguente matrice di copione. MADRE MARTA PADRE

Cercando sempre di

fare le cose nel

modo migliore

Chiedendo e

accettando le

opinioni degli altri

G

A

B

G

A

B

G

A

B Non riuscire

Non provarci nemmeno

Non pensare

Non sentire

Non provare piacere

Compiaci Sforzati

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Considerazioni conclusive Il primo lavoro con Marta su un piano comportamentale, precedentemente descritto, sebbene sia stato fuorviante (sia perché alimentando lo sforzati, la teneva ancorata al suo copione che andava confermandosi, sia perché non le consentiva di pensare né di sentire ma la teneva ferma sul piano del fare) mi ha consentito di fare i primi passi verso l’uscita dal copione, dando valore ad ogni suo minimo passo e dando carezze al suo Bambino Libero. Il virare della terapia ad un piano concentrato più sull’ascolto e sul sentire che non su quello comportamentale ha portato Marta a confrontarsi con il suo sforzati, a chiedersi che cosa voleva veramente e ad attivare la sua parte Adulta. Un aspetto positivo della terapia è stato il dare valore alla tenacia che caratterizzava i comportamenti di Marta e che caratterizza in linea generale questo tipo di copione (l’aspetto positivo della spinta sforzati). Per promuovere l’uscita dal copione Mai è fondamentale infatti passare il messaggio che puoi ottenere quello che vuoi, nel caso di Marta c’era un altro passo da fare prima: darle il permesso di chiedersi che cosa voleva. Credo che la nostra terapia si sia fermata a questo primo passaggio: Marta si è intanto data il permesso di ascoltarsi e farsi ascoltare, potrà capire dopo, se deciderà che lo vuole, come ottenere il resto. Il percorso con Marta è stato molto importante per me, qualcuno diceva che perché una terapia possa dirsi almeno non nociva, il terapeuta deve dare al paziente almeno quanto riceve da lui..io da Marta ho ricevuto tanto. Marta mi ha dato la possibilità di capire quanto sia importante l’ascolto nel lavoro che ho scelto e questo aldilà di ogni retorica. Non ritengo etico utilizzare volontariamente i pazienti e le loro storie per conoscere meglio noi stessi e capire le nostre: per questo c’è la psicoterapia che ogni terapeuta ha il dovere morale e professionale di svolgere. Tuttavia ritengo bellissimo, e molto più che etico, crescere attraverso la crescita dei pazienti e riconoscere quanto gli altri ci possano insegnare. Mi sono chiesta a lungo, e con grande senso di colpa, quanto poteva essere stato pericoloso il mio controtransfert rispetto a Marta ed il fatto che io vedessi, inconsapevolmente, in lei mio padre e attivassi gli stessi comportamenti spingendola a reagire. Mi sono risposta oggi che, sicuramente avrei potuto fare danni ma anche che…non ne ho fatti! La storia di Marta mi ha fatto toccare con mano l’importanza della supervisione e del lavoro su sé stessi per ogni terapeuta, mi ha insegnato inoltre ad essere delicata con me stessa, riconoscendo i miei limiti, i miei errori, senza drammatizzarli ma facendone tesoro e trasformandoli in risorse.

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BIBLIOGRAFIA E. Berne, Principles of Group Treatment, Oxford University Press, New York, 1966; trad. it. Principi di terapia di gruppo, Astrolabio 1986. E. Berne, Transactional Analysis in psychotherapy, Grove Press, New York 1961; trad. it. Analisi transazionale e psicoterapia, Astrolabio 1970 E. Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani Milano 2006 E. Gillieron, Il primo colloquio in psicoterapia, Ed. Borla, Roma, 2003.. M. Novellino, L’Approccio clinico dell’Analisi Transazionale FrancoAngeli, Milano, 1998. A. Miglionico Manuale di comunicazione e counseling Centro Scientifico Editore, Torino, 2000 A. Miglionico, M. Novellino, Seminari clinici: Tattiche e strategie in Analisi Transazionale Istituti Ospedalieri “Don Uva” - Bisceglie Istituto di Analisi Transazionale - Roma , 1987 G. Lai, Le parole del primo colloquio, Bollati Boringhieri, Torino 1980 N. McWilliams, La diagnosi psicanalitica Astrolabio 1999, Roma C. M.Steiner, Copioni di vita Ed. La Vita Felice 1999 Milano