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Un armonico anatema

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Racconto fantastico di Stefano Curreli. Contiene un finale alternativo.

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Un armonico anatemaRacconto di Stefano Curreli

[Contiene un finale alternativo]

1. Un curioso incontro

Humbert Cooligan scese dalla sua macchina. Puzzava ancora di alcol, ma ora non barcollava più, la sbornia era passata. Constatò che da quelle parti non c’era ancora stato, ma lo studio dell’analista doveva senza dubbio trovarsi lì, visto che la via corrispondeva esattamente alla descrizione che gli aveva fatto circa un’ora prima in quel locale, nel quale si era trovato per caso quella mattina, errando da un luogo all’altro, ormai sopraffatto dall’alcol, come avveniva d’altronde da due settimane a quella parte. Era l’unico modo, pensava, per non impazzire in seguito alle vicende che l’avevano coinvolto. Era a Düsseldorf da tre giorni, forse quattro, non di più. Non aveva mai bevuto in vita sua prima di quel periodo. Solo una volta, alla festa di laurea, ed era una vicenda che si era da sempre portato dietro con l’amaro in gola. E da allora aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più alzato il gomito fino a ridursi così male. Tuttavia si era sbagliato, perché ora, a bere, si sentiva costretto, o sarebbe impazzito totalmente. Era l’unica medicina che trovava efficace. Quella mattina, dicevamo, era entrato in quel locale arredato con gusto, interamente in legno, di

un’eleganza unica e con grossi calici di birra ornamentali che spuntavano dalle pareti. Si sedette e ordinò un whiskey. Un uomo, a fianco a lui, stava bevendo un caffè. «Lei sembra il mio ex professore delle superiori. Quello di scienze.» Disse Humbert. «Be’, sarà che noi uomini di scienza abbiamo tutti un po’ gli stessi tratti.» Rispose l’uomo, quasi compatendolo, sorridente; cosciente di parlare con un ubriaco. Humbert si accorse di essere estremamente storto, e assunse un’aria più seria, per quanto gli fosse possibile farlo, e continuò a parlare con lo sconosciuto. Lo trovava simpatico, così, a pelle; gli ispirava fiducia. Da parte sua, l’uomo si presentò come Franz Grimber, e gli disse di essere un analista. «Un analista?» disse Humbert. «Scommetto che con me impazzirebbe.» «Non sono ancora impazzito da trent’anni a questa parte che svolgo il mio mestiere. Sa a quante sedute bizzarre ho assistito? Ne ho sentito di tutti i colori.» Humbert assunse l’aria più seria che gli riuscì, si alzò dallo sgabello, si avvicinò a Franz e quasi sottovoce gli disse: «La mia storia non l’ha mai sentita, e non la sentirebbe neanche se continuasse a fare l’analista per altri mille anni. Posso scommetterci.»

Franz Grimber, a vedere quegli occhi che lo penetravano così profondamente, si imbarazzò un po’. Prima di allora era stato convinto di parlare con un ubriaco, e aveva discusso con leggerezza e compassione, ma ora riuscì a scorgere tutta la serietà che quel volto nascondeva. «Io non sono uno stupido, dottor Grimber. Sono maestro d’orchestra, suono sette strumenti e insegno in Italia, all’università di Pisa, e ora sono qui non per mia volontà, ma perché sono vittima di una situazione che a chiunque, anche alla persona psicologicamente più stabile di questo mondo, farebbe uscire di testa. Eppure sono ancora in piedi, e ancora ragiono. Devo bere, certo, perché questo allevia un po’ la mia paura di vivere quest’incubo e rallenta la pazzia vera e propria, che so che prima o poi arriverà. Ma io sono una persona normale.» Poi abbassò la testa. Il suo viso si corrucciò. «E sto perdendo tutto quello che avevo: la mia razionalità. E so che molto presto se ne andrà anche tutto il resto della mia vita… il lavoro, la famiglia…» Una lacrima tradì la sua solidità. A Franz Grimber gli si strinse il cuore. Un nodo di pena gli cinse la gola. «Senta, può raggiungermi in studio, subito dopo pranzo. Che ne dice?» Humbert Cooligan non rispose, continuando a fissare Grimber con gli occhi gonfi.

«Che ora è adesso?» Continuò il dottore. Senza scomporsi, nonostante dentro stesse tremando di dispiacere. «Mancano due minuti a mezzogiorno e mezzo.» Disse Humbert dando un’occhiata all’orologio. «Bene, alle quattordici la aspetto nel mio studio, così mi racconta di queste sue vicende surreali. O è troppo presto?» «Per me va bene, tanto non ho nulla da fare.» Poi si risedette nello sgabello, con fare sconsolato, prese il bicchiere e buttò giù l’ultimo sorso di birra. «Comunque non deve preoccuparsi, le assicuro che è inutile. Io stesso capisco che…» «Non deve fare complimenti. La aspetto alle quattordici nel mio studio. Ormai mi ha incuriosito.» Gli spiegò come arrivarci e gli strinse la mano. «La ringrazio tanto. Alle quattordici sarò da lei, ma…» il suo visto si fece cupo. «Non credo davvero che potrà aiutarmi.» Franz Grimber sorrise. «Nessuna storia è irrisolvibile.» Lo disse, ne era convinto. Ma non sapeva ancora che si sarebbe sbagliato.

Pochi minuti prima delle quattordici si ritrovava lì, Humbert Cooligan, trentacinquenne, bello – sebbene un po’ sciupato in confronto a poche settimane prima –, polistrumentista, docente ordinario di Storia della

musica e di Etnomusicologia alla Normale di Pisa, sposato da un anno con Katy McDurster, attrice ventott’enne, una delle nuove promesse di Hollywood. «Di fronte al market», si disse Humbert, «il dottor Grimber ha detto qui, a destra, in un portone con un battimano a forma di pentag… eccolo!» Lo vide, il portone. Era arrivato a destinazione. Diede uno sguardo al citofono: c’erano una decina di nomi. Suonò a fianco alla voce Dottor Franz Grimber. Pochi minuti dopo si ritrovava al quinto piano dell’edificio, di fronte alla porta di Grimber. «Prego, entri!» gridò l’uomo. «Ho lasciato aperto, ma ora chiuda a chiave per cortesia.» Humbert Cooligan entrò, chiuse la porta dietro di sé, girò la chiave e attraversò un corridoio nel quale erano appesi da entrambi i lati alcuni ritratti fatti a carboncino. Tra i tanti visi riconobbe solo quello di Freud. Un musica si propagava in tutta la casa. Mahler! lo riconobbe subito. Alla fine del corridoio Humbert trovò il dottore, in un lussuoso salone, intento a scrivere a macchina. «Le da fastidio il fumo, professor Cooligan?» Disse Grimber, con in bocca la pipa. Humbert fece un cenno con la testa che no, non gli dava fastidio. «Sto finendo di scrivere una lettera a un amico, ci metto due minuti. Si sieda pure.»

Humbert obbedì. Franz Grimber indossava una vestaglia blu, in seta, e mentre continuava a battere a macchina, Humbert gli notò un tic bizzarro: ogni volta che andava a capo si sfiorava la punta del naso con l’indice. «Vedo che lei ascolta Mahler, dottor Grimber.» L’uomo fece una faccia spaesata, come per dire Chi diavolo è. «Gustav Mahler, compositore austriaco. Be’, questa è la sua quinta sinfonia. Non ne era mai soddisfatto, continuò a ritoccarla fino alla morte.» «In realtà è una collezione di musica classica che utilizzo soltanto come sottofondo quando ho dei pazienti, e non conosco tutti i compositori che ci hanno messo dentro.» Tirò il foglio dalla macchina e se lo portò vicino al viso, a pochi centimetri dagli occhi. «Comunque davvero interessante ciò che mi ha appena detto. A lei capita spesso di non essere soddisfatto di qualcosa che fa?» Sputò il fumo, mentre continuava a assicurarsi che la lettera andasse bene, e continuò. «Magari possiamo partire da questo…» «In realtà io sono uno molto regolare, molto pacato, e di solito sono sempre soddisfatto di ciò che faccio, ma…» «Non tema di parlare, e non rida di me. La mia vista ormai è andata a farsi benedire. Posso leggere soltanto con il foglio a mezzo palmo dal naso.» Disse il dottore continuando a leggere.

«No, è che…» ingoiò la saliva. «Forse stamattina ho bevuto troppo, e non avrei dovuto accettare di venire qui… sa, lei ora non mi crederà ma… sarà tutto inutile, dico davvero.» «Non dica sciocchezze, professor Cooligan, gliel’ho già detto, niente è irrisolvibile. Son sicuro che ciò che la ossessiona è una sciocchezza.» Humbert strizzò gli occhi e si risedette. Mai era stato più convinto in vita sua di quello che sosteneva, neanche quando nell’aula dove teneva le lezioni, alla fine dei corsi, diceva: «e il bello dell’etnomusicologia, e ciò vale anche per tutte le altri discipline, è che abbiamo un’unica certezza: che se ora viene un pinco pallino qualsiasi a dirmi che quello che ho detto in queste sessanta ore di corso è sbagliato, perché gli elementi antropologici che decidono le estetiche di un genere musicale sono differenti da quelli che ora noi riteniamo determinanti, e riesce a dimostrarmelo sperimentalmente, quei libri che dovrete sapere alla perfezione per l’esame potete anche buttarli dalla finestra.» E tutti ridevano, per il modo in cui lo diceva. Uno dei più grandi comunicatori di quella facoltà. Eppure aveva un carattere chiuso, timido, ma dietro la cattedra cambiava del tutto. Ovviamente solo in quel momento, perché poi si rifugiava di nuovo nella sua riservatezza.

Quel giorno, fissava il dottor Grimber. È tutto inutile, pensava. Ma seguì gli ordini, e si sdraiò sul lettino. «Bene», disse il dottore. «Mi dica qual è questa ossessione che le ha recato preoccupazioni. Partiamo dal principio.» Lo disse con una certa emozione. Aveva una curiosità lacerante di conoscere la preoccupazione che attanagliava quell’uomo. …. …. …. «Professor Cooligan, ha sentito cosa le ho detto?» «S-sì, scusi… è che… sì, davvero, mi scusi…» «Si figuri. È che le ho chiesto almeno cinque volte di iniziare a parlarmene ma non mi ha risposto. Dunque, riiniziamo…» Humbert non si era accorto che gli aveva rivolto la domanda così tante volte. «Senta, io ora le parlo molto concisamente. Senza giri di parole.» Disse alzandosi dal lettino. «Professor Cooligan, si rimetta giù, le assicuro che troverà più facile…» Si alzò anch’egli. «Mi tolga la mano dal petto, tanto non mi sdraierò. Odio queste cose.» Il dottore si risedette nella sua poltrona, lento, come intimorito dalla brusca reazione di Humbert. «Non volevo infastidirla», disse, ingoiando la saliva.

«Mi perdoni, è che sono molto agitato questo periodo, sa… se mi crederà mi capirà di conseguenza, glielo assicuro.» Humbert Cooligan, a cui ormai era quasi totalmente passata la sbornia, stava ora seduto sul lettino, con lo sguardo sugli occhi del dottor Franz Grimber. «Dottore, non mi interessa se lei mi crederà o no. Io glielo racconterò così com’è successo...»

2. Una storia assurda

«Ho trentasei anni, sono professore ordinario di Storia della musica e di Etnomusicologia alla Normale di Pisa. Sono nato a Seattle, e lì ho studiato, imparato a suonare il piano e successivamente altri sei strumenti, e lì ho vissuto fino alla laurea, per poi trasferirmi in Italia per insegnare. Ho una moglie e una bambina di sei anni. Son sempre stato un tipo molto regolare, negli studi e successivamente nel mio lavoro. Mi son sposato a ventotto anni. Nella vita non mi è mai mancato nulla. Mio padre è un imprenditore, mia madre dirige un’azienda tessile. Insomma, la mia vita è sempre stata abbastanza ordinaria. Tutto ciò fino a due settimane fa. «Avevo finito la mia lezione mezz’ora prima, perché ero stato invitato ad un convegno che si sarebbe tenuto dall’altra parte della città.» A Humbert venne quasi da aprirsi totalmente, e di raccontargli persino alcuni particolari irrilevanti di quella giornata, come degli incontri che aveva fatto nelle scale mentre stava scendendo al parcheggio, o di quella sua alunna che da tempo gli faceva la corte, e che quel giorno, proprio dopo la lezione, gli regalò quel foglietto con

quello spartito e quella dedica. Ma si bloccò: si sentì uno sciocco. «La sto ascoltando. Non si blocchi. Faccia scorrere i pensieri e parli liberamente.» Lo rassicurò Grimber, il quale accusò una certa titubanza. Humbert si bagnò leggermente le labbra con la lingua, e continuò, decidendo di focalizzare soltanto sul tema della questione. «Non ero mai stato in quella zona, dove si sarebbe dovuto tenere il convegno, dunque feci un po’ di fatica ad orientarmi. Mentre girovagavo in macchina per quegli isolati a me ignoti, scompiaciuto con me stesso di non portarmi mai appresso il navigatore, che puntualmente lasciavo a casa per paura che in macchina me lo rubassero, girai per una stretta via nella quale notai parecchie persone adornare le finestre e le porte delle loro abitazioni. Un cartello diceva No parking. La mia pigrizia mi fece dunque sperare che la sala non fosse lì, poiché avrei dovuto cercare il parcheggio sicuramente troppo lontano. Rallentai fino a fermarmi, abbassai il finestrino e mi rivolsi ad una donna che dal marciapiede teneva tesa una corda con delle bandierine colorate. La tal corda arrivava fino all’altra parte della strada, dove un uomo sopra una scala si stava assicurando di legarla a circa tre metri da terra. «Feci appena in tempo ad aprire bocca che mi bloccò, avvisandomi che in quella strada non potevo passare.

«Le chiesi come mai, e, subitamente, senza un briciolo di simpatia, mi invitò a fare retromarcia, comunicandomi che lì, tra meno di due ore, sarebbe iniziata la cerimonia in onore di Thomas Brock. «“Thomas Brock?“ chiesi io. «La donna mi guardò come se avesse visto un fantasma. Mi disse che era impossibile che non sapessi chi fosse Thomas Brock. Poi mi informò che di trattava dello scultore, quello che aveva scolpito la statua della regina Vittoria di fronte al Buckingham Palace. «Mi venne allora in mente, come un flash, chi fosse costui, e mi sovvennero alcune offuscate nozioni sul suo conto, risalenti ai tempi dell’università. Mi chiesi che senso avesse una cerimonia in onore di uno scultore britannico a Pisa, e, proprio un momento prima di domandarglielo, mi accorsi che la nostra discussione era avvenuta tutta in inglese. Mi capitava spesso di non accorgermi in che lingua stavo parlando. A volte capitava di rivolgermi a mia moglie in inglese, e a volte in italiano. Erano queste le uniche due lingue che conoscevo. L’italiano lo avevo imparato ai tempi dell’università e poi perfezionato quando mi trasferii a insegnare, e l’inglese è la mia madrelingua. «Pensai che mi ero imbattuto in un gruppo di stranieri che – non riuscivo a capire per quale stravagante motivo – stavano organizzando una festa

in onore di questo scultore. Ma come mai proprio a Pisa? «Le chiesi il perché di questa bizzarria, e la donna mi rispose con un tono sprezzante, dicendomi che non era affatto una bizzarria, e che lì a Worcester quella cerimonia si svolgeva ogni anno, e che se ero straniero di informarmi bene, prima di aprire bocca. «Lì su due piedi mi venne da ridere. Worcester? Ma che sciocchezze. «Poi mi ricordai che il cartello all’inizio della strada era anch’esso in inglese: No parking, per l’appunto. Mi venne come una sorta di capogiro, dato dal sopraggiungere di un’incontenibile e inaspettata confusione, una sorta di depersonalizzazione e di totale disorientamento. Mi mantenni forte con la mano destra al volante, e per un momento non capii più dove mi trovassi. La donna se ne dovette accorgere, perché mi guardò con un’espressione preoccupata e mi chiese se andava tutto bene. Io non risposi e feci retromarcia senza perdere altro tempo. «Ero capitato in un quartiere di stranieri. E quella donna aveva voglia di scherzare. Inglesi mitomani ed egocentrici, pensai. «Fortunatamente – o almeno così ero convinto – mi ricordavo la strada che avevo fatto per arrivare fin lì. Decisi dunque di percorrerla a ritroso. «Quando mi ritrovai in una strada a due corsie, con degli ampi marciapiedi dai quali spuntavano degli

alberi contornati da un’aiuola quadrata ed elegante, capii che mi ero addentrato ancora di più in quello che mi si era presentato come un quartiere straniero, e che mi sembrava pure assurdo potesse esserci, lì a Pisa. L’avrei saputo da tempo se fosse esistito, e forse lo avrei frequentato pure – nonostante io non fossi inglese ma americano – per la questione linguistica. Mi capitava di tornare negli Stati Uniti almeno una volta all’anno, e capitava spesso pure di parlare nella mia lingua madre con altri colleghi, soprattutto nei convegni. Ma mi avrebbe fatto bene frequentare più spesso altri parlanti inglese. «Mentre i miei pensieri scorrevano, poco convinti che quello fosse davvero un quartiere britannico, un clacson mi sintonizzò ancora più nitidamente nella realtà. «“You are crazy!“ Mi gridò dal marciapiede un uomo, mentre l’auto da cui era arrivato il clacson mi deviò per un pelo. «Frenai di colpo. «Tutte le auto venivano verso la mia direzione. Si tenevano tutte sulla sinistra anziché sulla destra. «Questo è troppo, pensai. Va bene un quartiere straniero del quale non ero a conoscenza e che mi sembra pure improbabile che esista, ma addirittura costatare che oltre ad esserci davvero ha pure il potere di cambiare il codice della strada e permettere alle auto di circolare tenendosi sulla sinistra come in

Inghilterra, be’, mi sembrava davvero un po’ esagerato. Che follia era mai quella? Inoltre le macchine erano tutte inglesi, e anche le targhe, e le insegne dei negozi e persino i cartelli. «Più andavo alla ricerca dell’uscita di quel presunto quartiere di stranieri, più mi accorgevo che quella sembrava una vera e propria città, e mi dava pure l’impressione di essere molto vasta. Altissimi palazzi si ergevano, imponenti come mai ne avevo visto nell’intera provincia di Pisa, alla faccia della mia razionalità. «Un uomo malandato, che al semaforo chiedeva l’elemosina, mi domandò se ero quello della nuova pizzeria italiana. Ovviamente gli risposi di no, e lui ribatté che me lo aveva chiesto perché la mia macchina era italiana, ed era uguale a quella dei tizi della nuova pizzeria in fondo alla strada. Gli chiesi in quale zona mi trovassi e lui mi disse che ero al centro di un luogo che non capii bene, perché il semaforo verde era appena scattato e la sua voce venne coperta dai clacson delle macchine che mi stavano in coda. E non so se fosse a causa del fatto che mi aspettavo la parola Worcester – benché il tutto fosse del tutto assurdo – ma mi sembrò di capire proprio Worcester, proprio come mi aveva detto la donna poco tempo prima. E ora posso quasi garantirle che lo disse. Oltretutto, a dirla tutta, gli lessi il labiale, ma – cerchi di capirmi, Dottor Grimber – il mio cervello cercò di

ignorare quell’ulteriore prova. Avevo un vero e proprio rifiuto nei confronti di quella contorta e assurda realtà che mi si stava materializzando dinanzi, eppure stava succedendo davvero. «Mi rifiutai comunque di crederci. Premetti sull’acceleratore e non vidi più quell’uomo, ma era come se fosse rimasto lì, di fronte a me: il suo viso, la sua bocca sdentata. No, non stava succedendo davvero. Non aveva detto Worcester. Non potevo essere in Inghilterra, figuriamoci. Ero a Pisa, o magari in una cittadina contigua, di popolazione britannica. Certo, non ne avevo mai sentito parlare, e questo era molto strano – era fuor di dubbio – ma sembrava essere la teoria più accettabile. «Ci fu un momento, non appena scattò il semaforo verde dell’incrocio successivo, che partii accelerando lentamente e tenendomi ad una velocità ridotta, come se tutto fosse normale, sentendomi quasi sereno, come fossi spensierato. E valutai anche di accendere la radio, ma subito abolii l’idea, per paura di sentire qualche stazione inglese e impazzire ufficialmente. «Penso che sia stato proprio quello il momento nel quale il mio cervello ha cambiato rotta, ammettendo che la possibilità di impazzire non sarebbe stata poi così lontana ed improbabile. «Ebbene, l’apparente tranquillità svanì di lì a poco. Girovagai per un’ora intera, in preda al panico, non capacitandomi di cosa mi fosse successo, fermando

della gente che scoppiava a ridermi in faccia non appena chiedevo indicazioni per tornare al centro di Pisa. «Fu quando finalmente incontrai una pattuglia della polizia, che finalmente ebbi delle risposte più precise su ciò che stava succedendo: non mi ero imbattuto in un quartiere straniero di Pisa, come ancora speravo con tutto me stesso, ma ero realmente in Inghilterra, a Worcester, cittadina inglese, nonché capoluogo della contea di Worcestershire, e quelli erano poliziotti inglesi. E tutto era reale. «La gente che avevo incontrato fino ad allora, a partire dalla donna che sistemava le bandierine in quel vicolo, fino ad arrivare al pezzente che chiedeva l’elemosina, non mi stava prendendo in giro. Non era frutto di uno scherzo di una comunità di inglesi esaltati; era la cruda verità.» Il dottor Franz Grimber aveva ascoltato il suo paziente con un’espressione seria. In effetti ne aveva sentito di storie assurde in tutti quegli anni di lavoro, anche molto più folli di quella, ma quell’uomo, con la sobrietà con cui aveva raccontato quella sua vicenda, sembrava assurdo potesse essere pazzo. «Vuole che continui?» Disse Humbert Cooligan dopo una lunga pausa. «Be’, direi che mi ha spiegato abbastanza bene e dettagliatamente ciò che ritiene le sia successo.» Rispose Grimber. «Ora su due piedi non saprei darle

una diagnosi esatta. Ci sarebbe da fare delle analisi più approfondite, che vadano oltre la chiacchierata, e eventualmente sentire anche un neurologo, ma le dico già che potrebbe essere schizofrenia. Anzi, diciamo che è proprio la cosa più...» Cooligan non gli diede il tempo di finire la frase. «È così che rispetta la mia storia?» Gridò. Si alzò dal lettino sul quale era seduto e lo afferrò per il colletto della camicia. L’uomo si sentì quasi soffocare, per via della morsa che si faceva sempre più stretta. Agitò le mani. Humbert Cooligan abbandonò la presa. Fece qualche passo indietro e con fare flemmatico si risedette nel letto. Poi la sua espressione si trasformò leggermente: i suoi occhi si intristirono, il suo capo cadde verso il petto, la collera divenne senso di colpa. «Mi perdoni», disse. «Non è nel mio stile. Queste due ultime settimane mi hanno cambiato il carattere e ho letteralmente perso la testa. Non ho parole. Ho agito d’istinto. Sono molto stressato. Spero che...» Il dottor Grimber si risistemò il colletto. Non era la prima volta che un paziente si scagliava contro di lui. In passato avevano provato addirittura a ferirlo. Era un classico per gli strizzacervelli, subire attacchi del genere. Un suo collega americano era stato addirittura

accecato con una penna stilografica da un ragazzo che diceva di sentire voci nel cervello. «È normale, professor Cooligan. La capisco. Ma non si preoccupi», rispose l’uomo risistemandosi il colletto della camicia e sorridendogli. «No, sul serio, è stata una reazione stupida, e...» disse Cooligan. Poi fece una pausa. «Da coglione», gli uscì. «Vorrei non se ne parlasse più. Non è successo nulla. Continui pure con la sua storia, mi interessa.» Humbert Cooligan si risistemò ancora meglio sul lettino, sedendosi ora più in fondo, come si fa delle volte quando ci si siede nella parte alta di una panchina. Sembrava aver ritrovato davvero la calma. «Sa, professor Cooligan, io non volevo ferirla, non credendo alla sua storia, ma...» «Ha perfettamente ragione, dottor Grimber. Non deve scusarsi. La mia storia, me ne rendo conto, è assurda. Non la biasimo. Mi sarei dovuto rifiutare pure io di crederci, non fosse che oramai ci sono immerso totalmente e la sto vivendo sulla mia pelle.» «Possiamo trovare delle risposte assieme, se me lo permette.» Disse accennando un sorriso. «Le risposte non ci sono, Dottore, o almeno, non nella dimensione della concretezza. Lei pensa che sono pazzo, e la capisco, ma ciò che le ho raccontato mi è successo. Deve credermi.»

«Se mi permette di farle ancora qualche domanda...» disse timidamente Grimber. «È il motivo per il quale non volevo accettare il suo invito, questa mattina al locale. Perché lei non mi avrebbe creduto. Io sono un uomo razionale. Non sono uno scellerato, e ho sempre vissuto all’insegna della razionalità, per l’appunto.» «E come è arrivato qui a Düsseldorf?» Humbert assunse un’espressione divertita ma turbata. «Guardì che può dirmelo senza remore», continuò Grimber. Ma Humbert non rispose comunque, e scoppiò in una risata che poco si distaccava da quelle di certi pazzi che Grimber conosceva bene. «Scusi, è che...» disse Humbert, «è che... è due settimane che viaggio così, e...» Scoppiò in una risata ancora più divertita, che al dottor Grimber sembrò quasi malefica, tant’è che tutti i suoi nervi si prepararono per un eventuale secondo attacco – che tuttavia non avvenne – da parte di quello che stava iniziando a ritenere sempre di più un folle. «Adesso le dico dove sono capitato, dopo Worcester», disse continuando a ridere. «Sono stato in una foresta, forse in Australia, o in Africa, non sono ancora sicuro di dove fosse, e ho rischiato di morire di fame, ma per fortuna lì è durato poco, neanche dieci ore, perché poi mi sono ritrovato in un villaggio del

Cile, e ci sono rimasto per due giorni, e poi addirittura negli Stati Uniti, a trenta chilometri dalla mia città Natale. Ha visto, delle volte, che sorprese che ci riserva la statistica?» Poi continuò, tenendo il conto con le dita. «Sono stato nello Sri Lanka, e ho rischiato pure che mi ammazzassero. Non è assurdo?» Il dottor Franz Grimber poggiò un attimo la pipa sul tavolino, si asciugò la fronte con un fazzoletto e la riprese, aspirando forte. Partì un quartetto di piano di Brahms. Humbert Cooligan lo riconobbe, ma non ne fece cenno. «Dovrei iniziare anch’io a fumare», disse Humbert, «però qualcosa di forte, che mi faccia resettare tutto.» Grimber ormai non aveva dubbi. Si era imbattuto in uno schizofrenico. Come dirglielo però? Già una volta aveva rischiato di venir strozzato, e non aveva intenzione di rischiare botte da un folle che neanche lo avrebbe dovuto pagare. «Maledizione!», pensò, «perché l’ho invitato?» Al locale lo aveva incuriosito e impietosito, e in effetti la vicenda si era rivelata realmente curiosa, ma ora stava perdendo tutto il suo gusto, perché negli ultimi minuti Humbert Cooligan aveva assunto le fattezze di un personaggio disturbato oltre tutte le aspettative. Se fino a pochi istanti prima il dottor Grimber aveva provato interesse per il contrasto tra l’apparente serietà dell’uomo e la sua storia assurda ma costruita nei dettagli, ora – dopo quella fragorosa

risata – aveva la disillusa certezza di ritrovarsi soltanto di fronte ad uno schizofrenico che aveva raccontato una sua fantasia ossessiva, credendola reale. «Sono stato anche in Cina, un giorno intero.» Stava continuando Humbert. «Non lo so perché delle volte duri alcune ore mentre altre volte anche interi giorni. Credo sia random il tempo di permanenza, così come i luoghi in cui càpito. Tutto random: frutto del caso.» «Se mi permette, vorrei consigliarle un mio amico, specializzato in…» stava per dire schizofrenia ma si bloccò. «Storie simili alla sua, di difficile comprensione, che può aiutarla. Se mi aspetta le cerco il numero.» Si era stancato di ascoltarlo e di avercelo in casa. «Va bene, accetto il pensiero. Proviamoci, ma non so per quanto ancora starò qui.» Disse Humbert continuando a ridere. Non riusciva a smettere. «Forse sto impazzendo davvero, lo sa? Anche avere questi sbalzi d’umore non credo sia del tutto normale. Ma forse è colpa dell’alcol. Gliel’ho detto, non avevo mai bevuto prima di queste due settimane. Ma la storia è tutta vera. Anzi, ho iniziato a bere proprio perché non riuscivo a sopportare tutto questo. Mi capisce, no?» Il dottor Grimber fece un cenno col capo, seguito da un flebile sorriso di circostanza, continuando a cercare il numero nel cassetto del mobile.

«Qui non c’è», disse dopo un po’, «forse è nel mobile dell’ingresso. Se mi aspetta un attimo vado a prenderlo.» «Prego, la aspetto.» Disse Humbert, che stava riuscendo a trovare finalmente un po’ di serietà. Quando il dottor Grimber, nell’altra stanza, trovò il foglietto col numero del suo amico, in mezzo ad appunti e a mazzi di scartoffie – l’ordine non era il suo forte – sentì che il suo paziente, nell’altra stanza, continuava a parlare, elencandogli le tante altre località che diceva di aver visitato negli ultimi giorni. Fu quando Grimber spense la luce della stanza per tornare nel salone che la voce di Humbert Cooligan si arrestò nel bel mezzo di una frase. Grimber accelerò il passo per raggiungerlo, preoccupato che gli fosse successo qualcosa.

3. Finale ufficiale

Quando entrò nel salone non ci fu traccia di Humbert, ma la finestra spalancata non gli lasciò molti dubbi. Quando si affacciò vide il corpo dell’uomo sfracellato. Il quinto piano era abbastanza per fracassarti tutte le ossa e lederti gli organi vitali. Era sicuramente morto. Fece le scale di corsa, rischiando di cadere e di fratturarsi qualche osso anche lui. Quando aprì il portone e si ritrovò finalmente sulla strada, col cuore in gola più per ciò che era successo che per la corsa, rimase di stucco. Si guardò a destra e poi a sinistra. Non era possibile. Il corpo non c’era più, e nel punto in cui si sarebbe dovuto trovare vi restavano soltanto alcune tracce di sangue. Un uomo si avvicinò di corsa. «Dov’è finito?» Disse rivolgendosi a Grimber. «Me lo sto chiedendo anch’io.» Rispose il dottore. Altre persone si avvicinarono, chiedendo dove fosse fuggito l’uomo che avevano visto buttarsi giù, ma nessuno aveva delle risposte. Solo tante domande. Intanto, in un villaggio dell’India Orientale, il sole era ormai calato.

Un contadino sui cinquant’anni, ormai stremato dalla giornata lavorativa, si imbatté in un caso di difficile comprensione. Nella strada che univa il suo campo a casa sua, che ogni giorno percorreva, trovò steso al suolo un uomo che ancora a malapena respirava, col corpo fracassato. Fu come se fosse caduto dal cielo, avrebbe poi raccontato a tutti. Si era in aperta campagna, e succedeva che delle volte passavano degli aerei, ma il giorno, da quanto ricordava, non ne aveva sentito neanche uno. Sarebbe stata quella l’unica soluzione possibile: che ci fosse stato un incidente aereo e l’uomo fosse piombato dal veicolo. Il contadino entrò in panico, e in un primo momento valutò l’idea di caricarselo sulle spalle, portarlo a casa sua, prendere la macchina e portarlo all’ospedale. Tuttavia, appena lo toccò, costui gridò dal dolore. Le forze lo stavano ormai abbandonando, ma riuscì comunque ad emettere quell’urlo atroce, seguito da una frase in inglese – che il contadino riuscì a decifrare a malapena – in cui disse di essersi buttato dal quinto piano del palazzo di un certo dottore. Quando l’uomo, una volta arrivato a casa di corsa, con l’affanno, raccontò la sua storia alla gente del villaggio, venne deriso da tutti. Non tanto per la storia dell’uomo sfracellato caduto dal cielo, che dopo

ritrovarono così come il contadino aveva raccontato, quanto per la frase che disse di aver sentito. «Buttato da un palazzo», disse la gente in tono canzonatorio. «Come no: nel bel mezzo della campagna.» Si sarebbero però ricreduti, gli uomini del villaggio, se Chitra Kalam, lo sciamano del villaggio, avesse raccontato loro ciò che vide e che trovò due mattine dopo nei pressi dell’accaduto, a pochi metri da dove il pover’uomo aveva trovato l’europeo sfracellato – così ormai lo chiamavano tutti. Mentre passeggiava all’alba, come suo solito, Chitra Kalam si sentì attratto da un oggetto che stava appena oltre un cespuglio che da poco aveva superato. Cosicché tornò indietro, lo raggiunse, lo cercò con la vista di quel senso che solo lui aveva nel raggio di centinaia di chilometri e che alcune culture chiamano terzo occhio, e infilò la mano all’interno del cespuglio, traendone un piccolo foglio stropicciato che dispiegò. Lo lesse. Le forze di quei mondi che non ci è dato conoscere, entrando in contatto con i suoi sensi da mortale, disegnarono nella sua mente l’immagine di colui che aveva perso quel foglietto dalla propria tasca: l’europeo. Lo sciamano riuscì a vederlo, nitidamente, cadere da un palazzo, e poi a ritroso nel tempo lo vide disperarsi, nella sua auto, e poi ancora –

quest’immagine gli apparì ancora più nitida – mentre due settimane prima, con un sorriso smagliante, riceveva da una sua alunna quel pezzo di carta con uno spartito, nel quale la ragazza aveva scritto anche una dedica. Una ragazza gelosa. Gelosa del sentimento che legava l’europeo a sua moglie. Un’alunna cattiva, una persona crudele. «Anatema!» Gridò lo sciamano. Poi nuovamente: «Maledizione nera! Brutto malocchio! Antichi demoni italici, degli etruschi!» Chitra Kalam si diresse oltre la strada, nella radura ormai secca. Il sole stava iniziando a sorgere. Si immaginò come suonava il motivetto che aveva appena letto in quello spartito, e gli apparì il viso del demone. Lo cacciò via. Poi fece una piccola fossa nel terreno e seppellì l’oggetto diabolico. In quel momento giurò a se stesso di non farne cenno a nessuno. Non amava terrorizzare il suo popolo raccontando troppe storie di diavoli e di maledizioni. Ritornando a casa, durante tutto il tragitto, non poté fare a meno di eseguire mentalmente quella melodia che aveva letto nello spartito, che era sì, maledetta, ma anche estremamente seducente. «Demoni italici», si disse. «Musici infallibili. Maligni quanto incantevoli.» Passò tutta la giornata a fischiettar quell’armonico anatema, non solo mentalmente, ma anche sonoramente, tra le strade del villaggio, e, se capitava

di incrociare qualcuno, allora cambiava leggermente la tonalità, per riprendere il motivo originale non appena costui si fosse allontanato abbastanza da non poterlo sentire. D’altronde, anche se pericolosa, era un’incantevole melodia.

Finale alternativo

Quando entrò nel salone non ci fu traccia di Humbert. Il dottor Grimber guardò subito verso la finestra, per assicurarsi che fosse chiusa. Per fortuna lo era. Humbert non si era buttato. Grimber fece un giro della casa, di corsa, ma non lo trovò. La porta era chiusa dall’interno, la chiave ancora lì, quindi non era possibile che fosse uscito. Era semplicemente sparito. Con in testa una confusione che mai aveva provato, si sedette sulla sua poltrona, lentamente. Prese la pipa in mano che aveva lasciato nel mobile a fianco, e se la portò verso la bocca. Quel racconto gli era sembrato assurdo, ovviamente, ma ora stava iniziando a pensare che forse quell’uomo non gli aveva propriamente mentito. Ma com’era possibile? Come può una persona venir teletrasportata da una nazione all’altra? Era assurdo. Fece per alzarsi dalla poltrona, ma un attacco di panico, di quelli a cui aveva da sempre assistito nei suoi pazienti, ma che mai aveva conosciuto di persona, lo costrinse a stare seduto. Una sorta di pressione alle tempie gli fece quasi perdere la vista, o meglio: gli fece restringere il campo visivo, e ebbe

come l’impressione di soffocare, avvolto dalla presunta consapevolezza di star morendo. Un terrore inaudito ed estremo lo aveva colto. Tutto era così assurdo quanto reale. Quando l’attacco di panico sfumò, riportandolo alla realtà, il dottor Franz Grimber si alzò dalla sua poltrona, andò verso l’attaccapanni, prese il cappotto e il cappello e uscì a farsi un giro sotto la pioggia che aveva appena iniziato a scendere. Intanto Humbert Cooligan, in un’altra parte di mondo, sotto una dorata luna piena, stava camminando in una strada a lui sconosciuta, illuminata da dei grossi lampioni barocchi, in cerca di un locale in cui poter bere qualcosa, sperando che accettassero carte di credito. Quando si ritrovò in prossimità di una piazza gremita di gente, ancora ignaro di dove si trovasse, notò un cartello all’angolo di un incrocio. Humbert constatò che il carattere col quale era scritto era cirillico. «Russia», si disse. «Ottimo, non c’ero ancora stato. Ma ho bisogno di andare alla ricerca di un cappotto più grosso, prima che chiudano i negozi.»