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un racconto di Nino De Vita illustrato da Francesca Ghermandi orecchio acerbo

un racconto di Nino De Vita illustrato da Francesca Ghermandi la storia del lombrico ... con la smania di mangiare la terra. E no, piccolo mio. E lui si intestard

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un racconto di Nino De Vita illustrato da Francesca Ghermandi

orecchio acerbo

Nino De Vita | disegni di Francesca Ghermandi

orecchio acerbo

Nino De Vita | disegni di Francesca Ghermandi

1Racconto che una seraconfidarono la chiocciolae la lumaca– fermi su di una fogliadi peperone – a un gattoche la propagò per tutta la contrada.

Stava loffioin mezzo all’erba – frescadell’orto abbeverato –il gatto, e ascoltava:in principio annoiato,e dopo sempre piùpreso.

Come ogni sera c’erala luna in cielo e cani

sciocchi che vi abbaiavano.

Disse la chiocciola, comeriprendendo un discorso:«Ho molta pena. Lo conoscevo

e gli volevo bene».

«E pure io» dissela lumaca. «Stava sempredi giorno dentro il bucoche è sotto il muricciuolo– a dormire, a pensareforse – ma se sentivaun calpestìo oppure un parlottìosi affacciava a guardare,a dialogare».

La chiocciola sospirò.Il gatto sbadigliò;tentò, allungandositutto, di addossarela pancia sopra l’erbae la terra.

2Rimasero così,abbacchiati e senza una parola.

Dopo la chiocciola confidòun dubbio.

«E chi lo sa, forseera innocente» fece.La lumaca convenne:«Bisognava cercarealtre accuse» disse«prima della sentenza».

Il gatto non capì. Sollevòla testa.«Siate più chiari» disse «va’. Non state, qui,a dire la finequando ancora non ne sol’inizio».

«Giusto» disse la chiocciola.E si mise a raccontare.

«La storia incominciòdue settimane addietro.Venne, una mattina,il contadino, guardòattento le piantine e cominciò a gridare:“Non se ne può più, no, non se ne può più:non attecchisce niente.Un filare di aglioe già con tre piantineavvizzite. E così– eccoti qua – la settimana scorsa”ripeteva, alzandoil pugno come un demente.

“Tre filari di sedano e carciofie per metà morti.E la lattuga, i pomodori, ah?Farabutti animali. Ma io vi uccido,vi distruggo, io vi avveleno,vi avveleno!” gridava.

Che paura mise questo suo parlare,gatto mio» aggiunse,assennata, la chiocciola.

«Capisco» disse il gatto. «Pure iose fossi un abitante dell’ortoavrei provato angoscia».

«È da qui che cominciala storia del lombrico»la lumacadisse. «Per carità»la fermò la chiocciola.«Ho iniziato ioe io devo finire!»

«O Signore…» fiatò la lumaca,rispettosa.

Aveva il corpocolore della cenere,bavoso, con due occhipiccoli sulle antenne.

«Allora» incominciòla chiocciola.

Il gatto si dispose ad ascoltare.

«Dopo quelle minacceil contadino se ne andò.E ora, ci arrovellavamo,ora, che si deve fare?»

«Acchiappare i responsabili»disse il gatto «e castigarli!»

«E questo si cercòdi fare» dissela chiocciola. «Ma non fu cosa da poco.Per primo si offeseil vecchio grillo: “Io,non faccio che cantaree saltellare” disse. “Mangio poco,poco, cose da niente: soloqualche pezzetto di fogliagià secca e qualche seme.Ma ne conosco, invece,e ve lo dico in modofranco, ne conosco…”

“E che vorresti dire,cosa vuoi insinuare?”gli domandò un calabrone,risentito.“Forse che siamo noicon questo volo innocentea distruggere le piantine?!”

“No”disse il vecchio grillo“non siete voi, no”e dondolando, stanco,la testa si zittì.

3Non passò più di un’ora e la folla cominciòa riempire quell’angolo di terra.Erano i residentidell’orto, uscitidai buchi e dalle tane, scivolatidai tronchi,dalle foglie, dagli steli,e radunati lì per concludere.

Volato da una zolla,girò zigzagando

un calabrone prima di posaresopra una margheritasecca.“Vorrei, se permettete,

parlare”.

La folla cominciava a quietarsi.

“C’è qui con noi il vecchiogrillo” disse forteil calabrone.“Perché non l’ascoltiamo?”

“Va bene, va bene” gridò la folla.

Al posto del calabronecon un salto posòil grillo.

“Popolo!” gridò. “Vi assicuroche la faccenda è torbida.Ho sentito, girando, di ortolaniche buttano, alla cieca,veleni e fanno stragi”.

“I responsabili, vogliamo i responsabili!”alcuni ripetevano.“A morte i miserabili!”disse una voce, debole, lontana.

“Calma” intervenne il vecchiogrillo. “Andiamo con calma”.

L’esame della questione,batti e ribatti» dissela chiocciola «durò l’intero giorno.Non sto a dirti tutto quelloche si disse e non si disse,il parlare e lo straparlaredei giudiziosi e dei buffoni,della baraonda e dei litigi sotto il palco.Parlarono quelli che venivanoaccusati di succhiare la linfaalle foglie; quelli che hannoil vizio di attaccarsiai fusticini; e infinelo scarto, i gaglioffi: i grillotalpa.Che con la pelle rugosa, le gambestorte, venivanodal vecchio grillo, ma non solo, incolpatidi aprire grosse tanenella terra e tagliareradici alle piantine.

“Noi, noi” dicevano sfacciatii grillotalpa “non ci entriamo niente!”

“Sì, voi siete, voi,gli ingannatori” gridavano,cavillosi, accalorati,là sotto».

Il gatto fece sì, con la testa.«Ma il lombrico, dico, cosa c’entrail lombrico…»

«E sì»fece la chiocciola «c’entra, e comec’entra.Venne tirato in balloquando il grillotalpasul palco – alle strette –pronunciò il nome suo.Quell’unico e solitariolombrico che vivevacon noi venne accusato,lui, dai grillotalpa,di mangiare la terradell’orto!»

«La terra?!» fece il gatto,sbalordito.

«E come no. Disse: “È lui.Non fa altro – giornoe notte – che mangiareterra.

E l’orto si assottiglia.Arriveremo cosìnel momento preciso che l’hai vistala terra e non la vedipiù”.

Ci furono parlottìi, intese d’occhi:di non mi immischio e bello è questo dire.

“Che cosa fa lui, ah,che cosa fa?” gridava il grillotalpa,mentre i compari suoi gli battevanole mani.

“E che facciamo,cosa facciamo noi?”e si batteva il petto il ciarlatano,affilando il discorso.“Scaviamo solo tane,con i piedi – i soli piedi,ripeto – e invece lui,lui, lo scialacquatore,scava e scava mangiandosila terra!”

“Il lombrico” gridarono, focosi“vogliamo qui il lombrico!”.

4Andarono nella tana.E tenendolo stretto– serrato – con un paiodi cretini che cercavanodi malmenarlo, lo trascinaronoa confronto.

Il povero lombrico,in mezzo alla confusione,impaurito confessò:

“Sì” disse “mi nutromangiando la terra”.

“A morte”fecero quei bastardi.“A morte e la finiamo!”

«E mi sembra una cosasensata» disse il gatto,muovendosi nei fianchi, intorpidito.

«Calma» disse la chiocciola«amico mio, calma.Io pure la pensavo come te,ho votato per la sua condanna.Ma lasciami finire».«Lasciamola finire»assentì la lumaca.

«Condannammo il lombrico»ricominciò la chiocciola«a questo tipo di pena:che rimanesse nell’orto,insieme a tutti noi,ma tenendosi lontanodalla terra».

«E come avrebbe fattoa reggersi?»domandò il gatto.

«Mangiando altre cose!Forse che io mangiola terra? E forse forseche esistono altriche mangiano la terra?Lui solo prese,ed era piccolino –come il padre e la madreprima di scomparire – quest’abitudinebrutta».

«E che fece, accettò?»domandò il gatto.

«Ha dovuto accettare.Disponeva di lembi di foglie,e di erbe, di torsidi cavolo, di pagliuzze,scorzette, semini, a volontà.Incominciò ad assaggiare, schifiltoso.Dopo, trascorso appenaun giorno, non ebbe pace: ripresecon la smania di mangiarela terra.E no, piccolo mio.E lui si intestardì

a non mangiare.

Rimminchionitoperdette ogni vigore; e una mattina,sfinitoe rantolante, morì».

«Poveretto» fece il gatto.

Chiocciola e lumacastavano mute.

«Ma perché,allora» ripresea domandare il gatto «questo lombrico

era per voi innocente?»

La chiocciola guardòla lumaca,che stava pensierosa.«Diglielo tu» le disse.E la lumaca:«Perché il contadino ieri,ma pure questa mattina– poco fa, si può dire –ha trovato piantinedi aglio e broccolettimorte».

’U Cuntu r’a casèntula

1 1

Cuntu ch’a ntrabbuliatacunfiraru ’u crastunie ’u bbabbaluciu nuru– fermi ncapu una fogghiari pipareddu – a un ’attuc’u spapuliàu pi’ tutti ’i cantunera.

Stava sbafaracchiatu’n mmezzu ri l’erva – friscari l’ortu abbiviratu –’u ’attu, e asciruppava:mpartenza abbuttatizzu,e ddoppu sempri cchiùntrissatu.

Comu ogni sira c’era’a luna ’n celu e canilofi chi cci abbaiàvanu.

Rissi ’u crastuni, comurripigghiannu un discursu:«Sugnu appinatu assai. ’A canuscìae cci vulìa bbeni».

«E vviremma eu» rissi’u bbabbaluciu nuru. «Stava sempriri jornu nnô pirtusuch’è sutta ô muriceddu– a ddòrmiri, a pinsariforsi – ma si sintìaun piritozzu oppuru un ciuciulìus’affacciava a taliari,firmava a chiacchiariari».

’U crastuni tirau un’arricialata.’U ’attu sbaragghiàu;carculàu, stinnigghiànnusip’allongu, r’appuiari’a panza ncapu l’ervae ’a terra.

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Arristàru accussì,ammusciutizzi e senza pipitiàri.

Ddoppu ’u crastuni rissisocch’è ch’u sfirniciava.«E ccu è c’u sapi, forsiera ’nnuccenti» fici.’U bbabbaluciu nuru s’assuciàu:«Bbisugnava circariatri caluni» rissi«prima ri sintinziari».

’U ’attu ’un capìu. Aisàu’a testa.

«Cchiù cchiari» rissi «vha. ’Un stati, cca,a ddiri ’a finitoriaquann’è chi nni scanuscìu’u princìpiu».

«Giustu» rissi ’u crastuni.E si misi a cuntari.

«’A storia accuminciàuru’ simani nnarrè.Vinni, una matinata,’u viddanu, taliàunziccu ’i chiantìmi e accuminciàu a vuciari:“’Un si nni po’ cchiù, no, ’un si nni po’cchiù:cca ’unn’arranca cchiù nenti.Un filareddu r’agghie ggià cu’ tri chiantìmiammusciuti. E accussì– teccà – l’atra simana”pistuniava, aisànnu’u pugnu comu un stròlicu.“Tri filari ri àccia e carciufinae p’a mità ncasciata.E ’a lattuchina, i pumaroru, ah?’Sti strafalari armali. Ma eu v’astutu,vi strammu, eu v’attòssicu,v’attòssicu!” vuciàva.

Chi scacazzu chi fici ’stu parlari,’attuzzu meu» agghiuncìu,sistimatu, ’u crastuni.

«Capisciu» rissi ’u ’attu. «Puru eus’abbitassi nnall’ortum’avissi ncarugnutu».

«È ddi cca ch’accumincia’u cuntu r’a casèntula»’u bbabbaluciu nururissi. «Pi’ carità»’u trattìnni ’u crastuni.«Retti l’accuminciatae a mmia tocca finìri!»

«O Signuri…» ciatàu ’u bbabaluciunuru, cu’ rritimegna.

Avìa ’u corpuculuri cinnirazzu,vaviatu, cu’ ddu’ occhinichi ’n cima all’antinni.

«Annunca» accuminciàu’u crastuni.

’U ’attu s’arrisittàu.

«Ddoppu ddu minazzàri’u viddanu si nn’jiu.E ora, nni sfirniciàvamu,ora, chi s’hav’a ffari?»

«Aggarrari i culpèvuli»rissi ’u ’attu «e castialli!»

«E chissu si circàuri fari» rrutuliàu’u crastuni. «Ma ’un fu cosa ri nenti.Pi’ primu s’affunciàu’u vecchiu ariddu: “Eu,’un fazzu chi cantarie savutari” rissi. “Mangiu picca,picca, palìchi: suluquarchi sgangu ri fogghiaggià sicca e siminzedda.Ma nni canusciu, ’mmeci,e v’u ricu palisipalisi, nni canusciu…”“E chi vulissi riri,soccu voi nzosizzari”cci addumannàu un cattùppulu,ô riri pizzicatu.“Forsi chi semu niatricu’ ’stu volu ’nnuccentia strammari ’a chiantìma?!”“No” rissi ’u vecchiu ariddu“’un siti vuiatri, no”e annaculiannu, stancu,’a testa si zzittìu.

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Mancu un’ura ch’a fudda accuminciàua gghìnchiri l’agnuni.Eranu i rrisirentiri l’ortu, sciuti forar’i pirtusa e d’i tani, asciddicatip’allongu r’i truncuna,r’i fogghi, r’i bbacchetti,e gghiunti dda a cunchiùriri.

Vulatu ru ’n taffuni,firriàu e zichiniàuun cattùppulu prima ri pusarisupra un ciuri ri majusiccu.“Vulissi, s’è purmissu,riri quarchi parola”

’A fudda s’abbissava.

“Cc’è cca cu’ niatri ’u vecchiuariddu” rissi forti’u cattùppulu.“Picchì ’unn’i l’attintamu?”

“Sini, sini” vuciau dda carramata.

Ô postu r’u cattùppulucu’ ’n sàvutu acchianàul’ariddu.

“Pòpulu!” cafuddàu. “Eu v’assicuruchi sta facenna è trùbbula.Haiu ’ntisu, firriànnu, ri siniarachi chiantanu, all’urvisca,vileni e ’a fannu tunna”.

“I tràstuli, vulemu cca i tràstuli!”napocu pistuniàvanu.“A mmorti ’a fangarìa!”rissi una vuci, fiacca, cchiù luntanu.

“Alleggìu” fici ’u vecchiuariddu. “Èmucci alleggìu”.

’A sciota ri stu ruppu,pista e rripista» rissi’u crastuni «rurau pi’ tuttu ’u jornu.’Un ti staju a cuntari tuttu chidduchi si rissi e ’un si rissi,’u parlari e ’u sparlarir’assistimati e ddi puddicineddar’a cialoma e i turilli sutta ô parcu.S’annittaru ’i bburedda cu’ vinìaammiscatu ri sucàricci ’u bbroru

ê fogghi; chiddi ch’annu’u viziu r’appizzàrisiê fusticeddi; e all’ùrtimu’u rrituffu, ’a liscìa: i lupareddi.Chi arrapacchiati, ’i ammia canceddu, vinìanur’u vecchiu ariddu, e ’un sulu, ncriminatiri rràpiri tanazzinn’a terra e rrusicari’i rràrichi ê chiantìmi.

“Niatri, niatri” ricìanu rrispusterii lupareddi “’un cci trasemu nenti!”

“Sì, viatri siti, viatri,i trucchista” vuciàvanu,firriusi, bbaccariati,dda sutta».

’U ’attu fici ri sì, cu’ ’a ciricòppula.«Ma ’a casèntula, ricu, chi cci trasi’a casèntula…».

«E sì»fici ’u crastuni «cc’entra, e comu comusi cc’entra.Fu misa nnall’abballuquann’è ch’u luparedduncapu ’u parcu – nchiaccatu –chiantàu ’u nnomu soi.Dd’ùnica e sularinacasèntula chi stavacu’ niatri fu ammiscata,idda, r’i lupareddi,ri pistiàrisi ’a terrari l’ortu!»

«’A terra?!» fici ’u ’attu,rristannu comu un ntòntaru.

«E ccomu. Rissi: “È idda.’Un fa àvutru – jornue notti – chi rrifùnnisi’a terra.E ll’ortu s’assuccara.Juncemu r’accussìnnô ’n mumentu precisu c’a viristi’a terra e ’unn’a viristicchiù”.

Cci foru ciuciulìi, scacciati r’occhi:ru ’n mmi cci mmiscu e bbeddu è ’stu riscursu.

“Soccu fa idda, ah,socch’è chi fà?” vuciava ’u lupareddu,mentri i cumpari soi cci bbattuliàvanu’i manu.

“E chi facemu,soccu facemu niatri?”e si battìa ’u pettu ’u ciallatanu,ammulannu ’u riscursu.“Scavamu sulu tani,cu’ i peri – i suli peri,accornu – e mmeci idda,idda, ’a mangiacasati,scava e scava pistiànnusi’a terra!”

“’A casèntula” rìssiru, fucusi“vulemu cca ’a casèntula!”.

4

Cci eru postutroffa.E tinènnula stritta– ntinagghiata – cu’ ’n parur’àsini chi circàvanur’appurmunialla, s’a carruzzuliarua ffari facciprova.

’A pòvira casèntula,’n mezzu a ’stu rran subbissu,scantata cunfissau:“Sì” rissi “mi saziumangiannu ’a terra”.

“A mmorti”fìciru i nchiappastadda.“A mmorti e cunchiuremu!”.

«E mi pari una cosaquatrata» rissi ’u ’attu,muvènnusi nnê cianchi, acchiancatizzu.

«Carma» rissi ’u crastuni«amicu meu, carma.Eu viremma ’a pinsavu comu a ttia,vutai p’a so’ cunnanna.Ma làssami finiri».«Lassàmulu finiri»tistiàu ’u bbabbaluciunuru.

«Castiamu dda casèntula»rricuminciau ’u crastuni«a ’stu tipu ri pena:ch’arristassi nnall’ortu,nzèmmula a tutti niatri,ma tinènnusi arrassur’a terra».

«E comu avissi fattua ttènisi all’additta»addumannau ’u ’attu.

«Pistiànnusi atri cosi!Forsi chi ggheu pistìu’a terra. E forsi forsich’esìstinu atri armalichi si mangianu ’a terra?Idda sula pigghiàu,e gghera nicaredda –comu a so’ patri e ’a matriprima ri cannaliari – ’st’abbitùddinitinta».

«E chi fici, accittàu?»addumannàu ’u ’attu.

«App’a ccittari.Avia sganghi ri fogghi,e di ervi, ri taddumiri bròcculu, pagghiuzzi,scocci, simenza, a gghèttitu.Accuminciàu a sazzari, spitignusa.Roppu, passatu appenaun gghiornu ’unn’appi abbentu: ripig-ghiàucu’ ’a smania ri pistiàrisi’a terra.Nonzi, cusuzza mia.E idda si ncurnàuô ’n pistiari.

Amminchiatapirdìu ogni valìa; e una matina,patuta, roppu tantiassaccuna, ncasciàu».

«Mischina» fici ’u ’attu.

Crastuni e bbabbaluciunuru stavanu muti.

«Ma picchìni,annunca» rripigghiàua ddumannari ’u ’attu «’sta casèntulaera pi’ vui nnuccenti?»

’U crastuni taliàu’u bbabbaluciu nuru,chi stava pinsirusu.«Riccillu tu» cci rissi.E ’u bbabbaluciu nuru:«Picchì ’u viddanu aeri,ma puru ’sta matina– antura, si po’ ddiri –attruvàu ’i chiantìmiri àgghia e sparaceddumorti».

Il racconto del lombrico è tratto da “Cùntura”

© Mesogea by Gem srl

Per la presente edizione:© 2008 orecchio acerbo s.r.l.

viale Aurelio Saffi 54 · 00152 Romawww.orecchioacerbo.com

© 2008 Francesca Ghermandi(per i disegni)

grafica orecchio acerbo

Finito di stampare nel mese di maggio 2008

da Futura Grafica ‘70, Roma

Stampato su carta Fedrigoni Arcoprint E. W.

e Arcoprint Edizioni

Tutto il mondo dell’orto è in gransubbuglio. Dalla lumaca al calabrone,dalla chiocciola al lombrico. Tutti hannoudito la terribile minaccia urlata dal contadino. Bisogna fare qualcosa,trovare il colpevole, impedire che per colpa di uno paghino tutti.All’assemblea non manca quasi nessuno.

E ognuno si difende. Non ho mangiato che qualche

seme… A me basta solo un fusticino…Figuriamoci se per un po’ di linfa… Ma un colpevole bisogna trovarlo. Evocativa come una fiaba di Esopo, una parabola per bambini semplice e immediata. Da uno dei più interessantipoeti contemporanei un racconto dallasaggezza antica contro la demagogia e la scorciatoia dei capri espiatori.

€ 14,00