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Nelle pagine precedenti, veduta del quartiere di Porta Venezia a Milano (foto Stefano Topuntoli). Dodici lezioni di urbanistica Il territorio dell’urbanistica Quali sono l’ambito di studio e operativo dell’urbanistica, qua- l’è il suo specifico "territorio"? Quarant’anni fa l’architetto Vittorio Gregotti, in un suo libro si chiedeva quale fosse il "territorio dell’architettura". In quel saggio erano raccolte e rielaborate le lezioni che Gregotti, a metà degli Anni Sessanta, teneva nella Facoltà di Architettura, che colpivano soprattutto per il loro program- matico carattere rifondativo, come se in quel momento fosse necessario all’architettura partire da zero, facendo tabula rasa di quel che fino ad allora si era concettualizzato sulle sue fi- nalità ed il suo stesso essere. Dunque, in principio, Gregotti si chiedeva di che cosa è fatta la “cosa dell’architettura”. Alla domanda dava una risposta che appariva, e appare an- cora più oggi, assai ambiziosa circa il territorio dell’architettu- ra (che è lo stesso che dire il campo di lavoro degli architet- ti), in quanto la “cosa dell’architettura” si estendeva sugli “insiemi ambientali a tutte le scale dimensionali” (V. Gregotti 1966). Questa presunzione degli architetti di operare a tutte le scale dimensionali, alla piccola e alla grande scala, fu presto defi- nito, con qualche ironia, la pretesa di spaziare dal “cucchiaio alla città”. L’aspetto critico più rilevante riguardava tuttavia due punti in particolare e cioè il fatto che nell’affrontare le problematiche specifiche di ciascun terreno progettuale non solo è difficile ipotizzare un approccio unitario a livello operativo, ma, so- prattutto, che "la struttura formale possa presiedere – come caso generale – alla specializzazione delle diverse metodiche formali alle varie scale". Quel che affascinava nel testo era, comunque, quel sostene- re che l’architettura ha come compito di dare significato al- l’intero ambiente fisico in quanto deve “dare forma alle mate- rie ordinate allo scopo dell’abitare, del produrre e rivelare luoghi come cose”: progettare significa infatti “ordinare la par- ticolare complessità dei sistemi di materiali di cui è compo- sta l’architettura”. Chiedersi quale sia "il territorio dell’urbanistica" porta, quasi certamente per un suo profondo, inscindibile nesso con l’ar- chitettura, ad una risposta non meno ambiziosa in quanto l’ur- banistica è chiamata ad affrontare problemi che riguardano l’intero ambiente antropico, opera alla grande come alla pic- cola scala ed "il suo territorio" si estende, vettorialmente, al mondo intero. Quindi se nel "territorio dell’architettura" la scala antropogeo- grafica è quanto mai ampia, altrettanto può dirsi per il "territo- rio dell’urbanistica". Occorre, tuttavia, subito aggiungere, e questo non è una li- mitazione di campo ma, a ben vedere, un ulteriore azzardo, che l’urbanistica si occupa non soltanto degli aspetti formali dell’ambiente, ma delle leggi di struttura che sottendono la for- mazione dell’ambiente stesso: poiché si occupa dell’uomo, dell’organizzazione dei luoghi del suo abitare, del suo pro- durre, degli spazi per il suo tempo libero (o del “tempo libe- rato” come sarebbe più proprio dire trattandosi di una grande conquista plurisecolare), e, più in generale, delle condizioni per cui l’uomo, vivendo meglio nel suo rapporto con se stes- so e con gli altri, sappia ritrovare nuove qualità ed un più avan- zato equilibrio nel rapporto con la natura, intesa come habitat. La "cosa" dell’urbanistica si estende sia a contesti “ravvicina- ti”, quali la piazza, il quartiere, le espansioni di una città o le parti da risanare o da salvaguardare), sia a contesti più vasti, quali la città nel suo insieme, l’ambiente-paesaggio nel quale si inserisce, le complesse relazioni tra città, il paesaggio fatto di elementi naturali e, per lo più, costruito in quanto esso è ormai tutto, o quasi, antropizzato. 10 Un’introduzione all’urbanistica

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Nelle pagine precedenti,

veduta del quartiere

di Porta Venezia a Milano

(foto Stefano Topuntoli).

Dodici lezioni di urbanistica

Il territorio dell’urbanistica

Quali sono l’ambito di studio e operativo dell’urbanistica, qua-l’è il suo specifico "territorio"?Quarant’anni fa l’architetto Vittorio Gregotti, in un suo libro sichiedeva quale fosse il "territorio dell’architettura".In quel saggio erano raccolte e rielaborate le lezioni cheGregotti, a metà degli Anni Sessanta, teneva nella Facoltà diArchitettura, che colpivano soprattutto per il loro program-matico carattere rifondativo, come se in quel momento fossenecessario all’architettura partire da zero, facendo tabula rasadi quel che fino ad allora si era concettualizzato sulle sue fi-nalità ed il suo stesso essere.Dunque, in principio, Gregotti si chiedeva di che cosa è fattala “cosa dell’architettura”.Alla domanda dava una risposta che appariva, e appare an-cora più oggi, assai ambiziosa circa il territorio dell’architettu-ra (che è lo stesso che dire il campo di lavoro degli architet-ti), in quanto la “cosa dell’architettura” si estendeva sugli “insiemiambientali a tutte le scale dimensionali” (V. Gregotti 1966).Questa presunzione degli architetti di operare a tutte le scaledimensionali, alla piccola e alla grande scala, fu presto defi-nito, con qualche ironia, la pretesa di spaziare dal “cucchiaioalla città”.L’aspetto critico più rilevante riguardava tuttavia due punti inparticolare e cioè il fatto che nell’affrontare le problematichespecifiche di ciascun terreno progettuale non solo è difficileipotizzare un approccio unitario a livello operativo, ma, so-prattutto, che "la struttura formale possa presiedere – comecaso generale – alla specializzazione delle diverse metodicheformali alle varie scale".Quel che affascinava nel testo era, comunque, quel sostene-re che l’architettura ha come compito di dare significato al-l’intero ambiente fisico in quanto deve “dare forma alle mate-

rie ordinate allo scopo dell’abitare, del produrre e rivelareluoghi come cose”: progettare significa infatti “ordinare la par-ticolare complessità dei sistemi di materiali di cui è compo-sta l’architettura”.Chiedersi quale sia "il territorio dell’urbanistica" porta, quasicertamente per un suo profondo, inscindibile nesso con l’ar-chitettura, ad una risposta non meno ambiziosa in quanto l’ur-banistica è chiamata ad affrontare problemi che riguardanol’intero ambiente antropico, opera alla grande come alla pic-cola scala ed "il suo territorio" si estende, vettorialmente, almondo intero.Quindi se nel "territorio dell’architettura" la scala antropogeo-grafica è quanto mai ampia, altrettanto può dirsi per il "territo-rio dell’urbanistica".Occorre, tuttavia, subito aggiungere, e questo non è una li-mitazione di campo ma, a ben vedere, un ulteriore azzardo,che l’urbanistica si occupa non soltanto degli aspetti formalidell’ambiente, ma delle leggi di struttura che sottendono la for-mazione dell’ambiente stesso: poiché si occupa dell’uomo,dell’organizzazione dei luoghi del suo abitare, del suo pro-durre, degli spazi per il suo tempo libero (o del “tempo libe-rato” come sarebbe più proprio dire trattandosi di una grandeconquista plurisecolare), e, più in generale, delle condizioniper cui l’uomo, vivendo meglio nel suo rapporto con se stes-so e con gli altri, sappia ritrovare nuove qualità ed un più avan-zato equilibrio nel rapporto con la natura, intesa come habitat.La "cosa" dell’urbanistica si estende sia a contesti “ravvicina-ti”, quali la piazza, il quartiere, le espansioni di una città o leparti da risanare o da salvaguardare), sia a contesti più vasti,quali la città nel suo insieme, l’ambiente-paesaggio nel qualesi inserisce, le complesse relazioni tra città, il paesaggio fattodi elementi naturali e, per lo più, costruito in quanto esso èormai tutto, o quasi, antropizzato.

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La natura dell’urbanistica

L!urbanistica come scienzaFrançoise Choay, una grande storica delle teorie e delle for-me urbane, nel suo Dictionaire de l’Urbanisme et del’Aménagement ricorda che, nei diversi dizionari del XX se-colo, l’urbanistica, come "cosa" che si occupa dell’organiz-zazione spaziale degli insediamenti umani, è stata alternati-vamente considerata come scienza, come arte o come tecnica(F. Choay e P. Merlin, 1988).Il progetto di elaborare una scienza della pianificazione dellospazio umano se da un lato è indissociabile dalla rivoluzioneindustriale, percepita nei suoi effetti immediati sull’ambienteurbano e come mutazione storica della natura della città, dal-l’altro deriva da un approccio comune alla tradizione dell’ur-banistica utopista e al positivismo del XIX secolo.Due degli aspetti caratterizzanti la natura scientifica di un sa-pere sono costituiti dalla chiara identificazione del campo diapplicazione e dall’autonomia disciplinare. Alla natura scientifica dell’urbanistica sembra affidarsi IldelfonsoCerdà che nella sua Teoria general de l’urbanización, inten-deva dare con il suo trattato le basi di una disciplina autono-ma, interamente a sè stante, cui competesse come campospecifico di applicazione la creazione e l’organizzazione del-le città.Circa l’autonomia disciplinare Françoise Choay avverte cheLeon Battista Alberti anticiperebbe di ben quattro secoli Cerdàcon alcune fondamentali differenze che, rilette oggi, fareb-bero pertanto scorgere un atteggiamento più attuale in LeonBattista Alberti nel suo Trattato di architettura.In primo luogo, mentre l’urbanistica teorizzata da Cerdà mira-va alla costruzione di modelli spaziali dotati di un valore uni-versale e dunque possibili di un’indefinita riproduzione, l’edi-ficazione urbana teorizzata da Leon Battista Alberti metteva inluce regole e principi generativi capaci di produrre spazi ur-bani indefinitamente differenti in quanto dipendenti dal tempoe da una diversa domanda.In secondo luogo mentre per Alberti la ricerca della commo-ditas (la “comodità” o la “funzionalità), vale a dire il terzo de-gli aspetti, dopo quelli del venustas (la “bellezza” o il “piace-re” procurato dalla bellezza che costituisce la finalità stessa

dell'edificazione) e della necessitas (la “necessità” che in-globa le leggi del mondo naturale e le regole delle costruzio-ni), deve derivare da un rapporto stretto fra l’architetto che pro-getta e colui, o coloro, per i quali costruisce, deve cioè avereun carattere “dialogico”, per Cerdà, viceversa, l’attività del-l’urbanista, in quanto basata su leggi di carattere generale, hal’autorità di imporsi, per la sua natura scientifica ed è quindi ri-gidamente “monologica”.La Teoria dell’urbanizacion costituisce il primo esempio di ungenere testuale specifico che si può chiamare “teoria dell’ur-banistica” (cf. F. Choay, La règle et le modèle, Parigi, 1980) eche è stato perseguito da una linea ininterrotta di teorici e ditecnici fino agli Anni Sessanta quando è stato posto in dis-cussione a partire da un atteggiamento critico sui risultati con-creti dell’applicazione delle teorie dominanti fin dall’avventodel Movimento Moderno.La Teoria di Cerdà conosce una sorte contraddittoria: da unlato è stata ignorata dalla stragrande maggioranza degli altriautori come Camillo Sitte (Der Städtebau nach seinen kün-stlerischen Grundsätzen, Vienna, 1889), Soria y Mata (LaCiudad lineal, Madrid, 1894), Ebenezer Howard (Tomorrow,Londra, 1898), Tony Garnier (Une cité industrielle, Parigi, 1917),Le Corbusier (La ville radieuse, Parigi, 1933), Frank Lloyd Wright(The living city, New York, 1958), Alexander (The timeless wayof building, Cambridge, 1978), P. Soleri (Archology, Cambridge,Mass., 1969), dall’altro lato questi stessi autori, che hanno scrit-to sulla progettazione della città, basano in modo identico leloro proposizioni di organizzazione spaziale della città su del-le teorie con pretesa scientifica, che presentano, pur con va-riazioni originali, la stessa struttura testuale della Teoria.Entro l’ambito degli studi urbanistici e sulla città lo status scien-tifico dell’urbanistica e la sua qualità di disciplina autonomae utilitaria sono stati posti in discussione all’inizio degli anniSessanta negli Stati Uniti soprattutto da due autori LouisMumford e Cristopher Alexander.Sul fronte della critica estetica L. Mumford denunciò la disu-manità dei rinnovamenti urbani e dei nuovi complessi realiz-zati a partire dalle teorie urbanistiche del Movimento Moderno,che hanno prodotto un ambiente inadatto alle relazioni so-ciali a causa del geometrismo elementare, la standardizza-zione, la monotonia e la povertà simbolica.

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Sul fronte di una critica di tipo metodologico, l’architettoC. Alexander, nelle sue Notes on the synthesis of form, cri-ticò a fondo i metodi stessi di concezione dell’urbanistica percome fino allora era stata concepita in quanto non sembravaaffatto prendere in considerazione la complessità dei molte-plici fattori implicati nel processo di urbanizzazione.Anche fuori del campo strettamente disciplinare, il dibattito,con ottiche diverse, si è sviluppato riguardo la posizione del-l’urbanistica nel campo delle discipline affermate e le sue de-terminazioni socio-storiche da cui si ricavano al fondo due

considerazioni che potremmo dire definitive circa l’assenzadi uno “statuto scientifico”:– i suoi risultati sono sempre provvisori e dipendono daltempo e dal luogo: non sono generalizzabili e non è pos-sibile ritrovare nell’esperienza del passato la possibilità diriprodurre in maniera soddisfacente la città dell’oggi e delfuturo;– i suoi principi e i suoi risultati non sono “falsificabili”: non sene può cioè dare i postulati lasciando che altri abbiano gli stru-menti per confutarne i presupposti.

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La città ideale nelle tavole di

Baltimora e di Urbino, XV

secolo.

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L!urbanistica come “arte urbana”A lungo l’urbanistica è stata qualificata come arte urbana. Ladefinizione di art urban è stata consacrata da Henry Lavedannella sua Histoire de l’urbanisme (1959) e designa l’edifica-zione e la sistemazione degli spazi urbani, secondo i principiteorizzati a partire dal Quattrocento e poi progressivamentemessi in pratica durante il Rinascimento, il Seicento e il pe-riodo Neoclassico.Dovuta all’architetto-artista, l’arte urbana differisce dalle pro-cedure e dalle sistemazioni medievali per il suo carattere teo-

rico e globalizzante ed anche per la sua finalità estetica.L’arte urbana ha introdotto nelle città occidentali la propor-zione, la regolarità, la simmetria, la prospettiva applicandolealle vie, alle piazze, agli edifici o trattando i loro rapporti e i loroelementi di congiunzione (arcades, colonnati, porte monu-mentali, archi, giardini, obelischi, fontane, statue, ecc.). Ad essa si deve la nozione di composizione urbana, derivatadalla composizione pittorica.L’arte urbana fu praticata in Italia, in anticipo di un secolo sulresto dell’Europa. Dalla seconda metà del Quattrocento, essainterviene, soprattutto con interventi episodici per regolariz-zare, ristrutturare ed abbellire il tessuto medievale, come i pro-getti e le realizzazioni di Nicolò V e Alberti che, a Roma, a metàdel Quattrocento, cercano di ritrovare il volto della città antica,i progetti e le realizzazioni di Federico da Montefeltro eFrancesco di Giorgio Martini a Urbino, ma anche nella crea-zione di entità urbane autonome come l’addizione erculea aFerrara del 1491.Si deve attendere la fine del XVI secolo perché l’arte urbanasi diffonda in Europa, subendo l’attrazione dei modelli italianibarocchi, come quelli del Bernini, di Pietro da Cortona e diBorromini nella Roma di Alessandro VII, e il modello francesesuccessivo, più pittorico e geometrico, segnato dall’arte deigiardini, come a Versailles.

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In alto, veduta della piazza

del Campidoglio a Roma.

Piano di Domenico Fontana

per la trasformazioni urbane di

Sisto V a Roma, 1585-1590.

Foto zenitale del Tridente che

converge verso Piazza del

Popolo, a Roma.

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Alla fine del XVI secolo l’ampiezza delle operazioni compiutenella Roma di Sisto V, dopo Bramante, Raffaello e Michelangelo,raggiunge vette che fanno apparire modeste le prime espe-rienze francesi tentate durante il primo decennio del XVII se-colo nella Parigi di Enrico IV (Place des Vosges, PlaceDauphine). Le realizzazioni dell’arte urbana testimoniano d’u-na grande diversità quanto alla loro natura e alla loro scala, an-dando da operazioni d’abbellimento strutturale o frammenta-rio (simbolizzate in Francia dalla realizzazione delle placesroyales), "cours" e prospettive o espansioni fuori delle muradelle città medievali (Bath, Nancy, Berlino) o nella creazioneex nihilo, il più spesso legate alle residenze principesche(Charleville, Richelieu, 1633; Aranjuez, Mannheim, 1699;Karlruhe, San Pietroburgo, 1763). Camillo Sitte, con il suo "L’urbanistica secondo i suoi fonda-menti artistici", ovvero "L’arte di costruire le città", un testo con-siderato un classico a dieci anni dalla sua pubblicazione, av-venuta nel 1889, che fu soggetto poi a polemiche edimenticanze, ripropone in tutti i suoi valori l’arte urbana, e oc-cupa insieme a Semper e Viollet Le Duc una posizione di ri-lievo nel panorama europeo.

L!urbanistica come tecnica La terza posizione è quella di un’urbanistica fortemente an-corata alle esigenze del “fare”, che nella maggior parte deicasi è un attuare tutto empirico, soprattutto attento al partico-lare, a volte ha la connotazione nobile di una “prassi” che hastrategia complessiva, visione d’insieme, e che sa esprimereun approccio globale ai problemi. Precursore di questo "fareurbanistico" può essere considerato Georges HeugèneHaussmann, contemporaneo di Ildelfonso Cerdà, i cui “gran-di lavori” (1853-1869) nella città di Parigi suscitarono l’ammi-razione dell’ingegnere spagnolo. Georges E. Haussmann, prefetto di Napoleone III, che talvoltaè considerato tout court come il creatore dell’urbanistica. LeCorbusier ne fa il precursore del movimento moderno nella suaopera del 1933, La ville radieuse, dove loda il carattere “chi-rurgico” della sua urbanistica. Georges E. Haussmann ha fatto subire una mutazione allo spa-zio parigino adattandolo alle esigenze dell’era industriale e dan-do a Parigi l’aspetto che oggi conosciamo; ha tagliato nel vivodel tessuto antico, per altro molto degradato; ha fatto attuare ilprimo piano globale di Parigi, trattando per primo la città comeuna totalità concepita come un insieme di sistemi interconnes-si: sistemi delle vie di circolazione, di spazi verdi, di reti idriche,di reti fognarie.

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Piante di piazze italiane

ed europee, tratte da

"L'arte di costruire le città"

di Camillo Sitte.

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La sua opera è servita d’esempio in Francia dove il comples-so della rete urbana, durante il Secondo Impero, è stata notaper la “haussmannizzazione”; ma la sua influenza si è estesaattraverso l’Europa (Vienna, Budapest, Roma) e che è giuntafino agli Stati Uniti (Chicago).Mentre nell’approccio di Cerdà, c’era la volontà di “fondaresulla verità” il suo piano di espansione della città diBarcellona, Haussmann ha rivelato nelle sue Mémoires (1890-1893) che i metodi e i principi che hanno guidato il suo pro-cedere, sono sempre di carattere globale ma empirico; eglidescrive e giustifica le scelte fatte con il concorso di unamolteplicità di soggetti intervenenti e dettati da un insiemedi condizioni specifiche, proprie alla città di Parigi nel mo-mento in cui egli scrive. Haussmann non considera la creazione di nuove entità ur-bane, ma si propone solamente la “regolarizzazione” di Parigi,non dichiara di compiere un’opera da teorico, non genera-lizza le sue soluzioni e non cerca, a differenza di Cerdà, dilegittimarla attraverso un apparato teorico scientifico: men-tre Haussmann aderisce di più al suo tempo, Cerdà vuoletrascenderlo appoggiandosi alla concezione, propria del-l’utopia, della conversione e del condizionamento della so-cietà attraverso lo spazio urbano.All’urbanistica tecnica fanno riferimento, inoltre, le elabora-zioni sistematiche, soprattutto tedesche, di ingegneri e tec-nici che hanno responsabilità diretta nelle amministrazionicittadine e che si traducono, emblematicamente, in un te-sto, Der Städtebau, dove si pretende siano raccolte “tutte”le operazioni progettuali che riguardano la costruzione del-la città.Der Städtebau, pubblicato a Darmstadt nel 1890 e ristampa-to a Stoccarda nel 1907 diffonde, con un grande apparato il-lustrativo, il “sapere” riguardo la progettazione urbana di J.Stübben, che raccoglie le ricerche della scuola tedesca del-la fine dell’Ottocento, da W. Baumeister a Camillo Sitte, sele-zionando un gran numero di soluzioni, date come esemplariper le loro qualità formali e funzionali. La pretesa dell’urbanistica tecnica sta proprio in questa esem-plarità assunta fuori da ogni contesto storico e fisico, e confi-nandola ai problemi funzionali della città, che, di per sé, è crea-zione ben più complessa.

La “cosa” dell’urbanistica

Ma per indagare meglio nella natura dell’urbanistica, vediamo“cosa” sia, di “che cosa sia fatta”, di “cosa si occupi”.L’ultima, più aggiornata riflessione, fino a tentarne una defi-nizione, è di Bernardo Secchi, che insegna Urbanisticaall’Istituto universitario di Architettura di Venezia, è autore dimolti saggi e articoli in riviste di architettura e urbanistica, di-rigendo per anni la rivista “Urbanistica” e collaborando a“Casabella”, ha elaborato piani per città come Siena,Bergamo, Prato, Pesaro.Per Secchi “L’urbanistica si occupa delle trasformazioni delterritorio, dei modi nei quali avvengono e sono avvenute, deisoggetti che le promuovono, delle loro intenzioni, delle tecni-che che utilizzano, dei risultati che si attendono, degli esiti chene conseguono, dei problemi che di volta in volta sollevano in-ducendo a nuove trasformazioni”. L’urbanistica per Secchi“non è quindi tanto un insieme di opere, di progetti, di teorieo di norme unificate da un tema, da un linguaggio e da un’or-ganizzazione discorsiva, tanto meno un insegnamento, un in-sieme, più o meno sistematico, di conoscenze tecniche fina-lizzato alla predisposizione di qualche piano urbanistico”, masoprattutto “le tracce di un vasto insieme di politiche e di pras-si” (B. Secchi, 2001).Questa definizione raccoglie, e supera, quella che ne avevadato nel 1938 l’architetto Piero Bottoni, uno dei massimi espo-nenti del razionalismo italiano, membro del C.I.A.M. con LeCourbusier, autorevole architetto e urbanista, docente dellaFacoltà di Architettura del Politecnico di Milano fino alla metàdegli anni Settanta.Bottoni, partito dal criticare il concetto di urbanistica, ridutti-vamente inteso come “edilizia della città”, definiva in un suolibro uscito in occasione della VI Triennale di Architettura, in-titolato appunto “Urbanistica”, essere l’urbanistica la “dot-trina” (il termine, evidentemente datato, risente del periodoin cui fu usato) che si occupa “con criteri architettonici, este-tici, scientifici” dell’organizzazione dei luoghi destinati all’a-bitazione, alla produzione, alla distribuzione, alla vita collet-tiva, allo svago e riposo dell’uomo ed alle correlate reti dicomunicazione e di trasporto “nel modo più conforme allaintrinseca funzionalità di quelli e alle superiori necessità so-ciali collettive” (P. Bottoni 1938).

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Secchi mette in evidenza l’aspetto ricognitivo e di studio (“sioccupa delle trasformazioni”) proprie di un analista e di un cri-tico prima ancora che di un urbanista, Bottoni mette soprat-tutto in evidenza l’aspetto operativo in quel “si occupa del-l’organizzazione dei luoghi destinati a…”.Ma nell’attenzione ricognitiva di Secchi, l’oggetto si estendeimmediatamente agli attori di questa trasformazione, ai “sog-getti che le promuovono, alle loro intenzioni”, in Bottoni l’at-tenzione viene da subito posta sull’apparato disciplinare del-l’urbanistica, ai criteri che la sovrintendono ed in questo, in unaimplicita polemica con il riduzionismo scientifico operato ne-gli anni Trenta dal Movimento Moderno reintroduce nell’ope-rare urbanistico il criterio estetico, la venustas vitruviana e diLeon Battista Alberti, e il criterio architettonico che dall’ope-rare urbanistico non può dunque essere separato.In questo operare Bottoni pone dichiaratamente al centro l’uo-mo, gli spazi del suo abitare, lavorare, commerciare, gli spa-zi della sua vita collettiva, i luoghi del suo tempo libero, le retidi mobilità che interconnettono e strutturano questi luoghi.Secchi coglie, ancora, un aspetto di grande rilevanza, comecioè l’urbanistica sia soprattutto “un vasto insieme di politi-che e di prassi” e non possa essere ridotta alla conoscen-za delle tecniche finalizzate alla predisposizione dei piani ur-banistici.Anzi, nella predisposizione di quello che è definito, un pòspregiativamente, “un qualche piano urbanistico”, individuauna sorta di riduzionismo che configge con la complessitàdell’operare urbanistico, che vede l’insufficienza degli stru-menti del piano.La posizione di Secchi si trova, in questo, in consonanza conuna posizione che per quasi quarant’anni anni non ha certorappresentato la main stream dell’urbanistica, quella che haavuto in L.S. D’Angiolini, l’iniziatore e il principale animatoreculturale di una diversa tradizione di studi che ha fondato i suoistrumenti soprattutto attraverso l’urbanistica di una “prassi”che ha creduto, più che nella forza cogente del “piano”, nel-l’efficacia di un sistema articolato di azioni, che nell’insiemequalificano l’operare urbanistico come una “politica degli in-terventi” attenta a guardare sempre al complessivo, a man-tenere costante l’attenzione ad un approccio globale che nonfaccia perdere di vista la visione d’insieme.

In questo porsi nei confronti della natura dell’urbanistica si èlontani dalla concezione di Giovanni Astengo per il quale l’ur-banistica ha il carattere di scienza che studia i fenomeni ur-bani in tutti i loro aspetti ed ha come fine la "pianificazionedel loro sviluppo storico". Il campo di azione, che caratteriz-za l’urbanistica di Astengo è costituito dal riordinamento, il ri-sanamento, l’adattamento funzionale degli aggregati urbanigià esistenti e dalla disciplina della loro crescita attraverso laprogettazione di nuovi aggregati, la riforma e l’organizzazionedei sistemi di raccordo tra gli stessi aggregati urbani e tra gliaggregati urbani con l’ambiente naturale (G. Astengo 1966).Un’altra riflessione sulla "cosa" dell’urbanistica, di particolaresignificato, è quella formulata dall’architetto Ludovico Quaroni.Secondo Quaroni l’urbanistica è “la disciplina che studia ilfenomeno urbano nella sua complessa interezza, onde forni-re su di esso dati conoscitivi interessanti i singoli suoi aspettie le reciproche loro interrelazioni, perché possano eventual-mente venire utilizzati per meglio orientare le molte azioni dicarattere politico, legislativo, amministrativo e tecnico che con-tinuamente vengono a modificare la realtà di un territorio”.Innanzi tutto è “disciplina” che rappresenta una precisa po-sizione in un dibattito che ha percorso, e percorre, l’intero iti-nerario di formazione dell’urbanistica, dal suo sorgere alla finedell’800 alla seconda metà del Novecento: “disciplina” e non“scienza”, “disciplina” e non “dottrina”, “disciplina” e non an-cora “discipline” (L. Quadroni, 1969). L’urbanistica ha come campo d’azione e di studio “il feno-meno urbano”. Questo studiare la fenomenica pone in lucel’atteggiamento scientifico di chi astrae da ogni posizione ideo-logica e “indaga” il fenomeno.Un fenomeno che, circoscritto all’”urbano”, sembrerebbe unaforte limitazione di campo, ma che in realtà, in quell’”urbano”ricomprende il complesso intreccio che la città ha con il terri-torio, o che le città nelle loro molteplici relazioni hanno tra loro,così che il territorio, non essendo uno spazio residuale tracittà e città fa parte, a pieno titolo, del fenomeno “urbano”.Questo occuparsi del fenomeno urbano “nella sua com-plessa interezza” porta poi ad evidenziare un approccio chepotremmo definire “complessivo” o “globale”, in quanto perl’urbanistica non è possibile occuparsi dell’urbano in termi-ni settoriali, ma anzi indagarne “da diversi punti di vista” così

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Dodici lezioni di urbanistica

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da coglierne “i singoli suoi aspetti”. Un approccio scientifi-co che presuppone l’uso di strumenti, e di discipline che liabbiano forgiati, molteplici, capaci di cogliere ciascuno l’es-senza di un aspetto di questa natura complessa che è ilfenomeno urbano.Ma centrale nel punto di vista urbanistico è cogliere ciascunaspetto non tanto in sé, ma bensi “nelle reciproche interrela-zioni” degli aspetti fenomenici, ponendo in questo studio pri-ma il fenomeno poi l’apporto disciplinare.Questo fine è dichiarato: lo “studio” del fenomeno urbano infunzione dell’orientare “l’azione”. Se ne ricava che per Quaronil’urbanistica non produce direttamente un’azione ma la “orien-ta”; non si limita in un prodotto “tecnico”, come può essereun piano “di qualunque ordine e grado”, ma bensì orienta“le molte azioni” di carattere politico, amministrativo e, fi-nalmente, tecnico.Queste azioni vengono a modificare la realtà di un territorio:non quindi solo la realtà della città, ma di quel “fenomeno ur-bano” a cui la città partecipa insieme al suo contesto.Una diversa concezione dell’urbanistica quella di Lucio S.d’Angiolini, una figura singolare di intellettuale critico e di ur-banista, che ha marcato all’inizio degli anni Sessanta il rin-novamento negli studi urbanistici nella Facoltà di Architetturadi Milano.Impegnato dentro e fuori la Facoltà in un’urbanistica militanteda “urbanista condotto”, in analogia con il medico che è dia-gnosta e all’occorrenza opera nel vivo del corpo, e che nellaprassi, anche là dove i piani dessero pochi lumi, deve ope-rare avendo coerenza di “progetto complessivo” attento a mi-surare l’attuazione con la visione d’insieme.Anche d’Angiolini ha visto i limiti di un atteggiamento ridu-zionista di un’urbanistica confidente nella sola forza cogentedei piani, ed ha messo in rilievo il nesso stretto che corre trail piano urbanistico e una "gestione", intesa non come "at-tuazione" in senso normativo del piano, ma come insiemearticolato di politiche capaci di tradurne in concreto i con-tenuti strategici.In questo contesto, L.S. d’Angiolini, formatosi sulle battaglieculturali urbanistiche del dopoguerra, sentendo la necessitàdi “astrarre da ogni suggestione culturalistica e dalla memo-ria del processo storico che ha dato luogo allo stato delle co-

noscenze che vi si richiamano”, ha sostenuto che "le discipli-ne urbanistiche" attengono allo studio dell’insediamento uma-no, del suo ambiente e in vista del suo divenire più attendibi-le” (L.S. d’Angiolini 1966); le discipline urbanistiche studiano“l’ecologia degli insediamenti umani” finalizzanda “alla indivi-duazione dell’ottimale capacità di intervento della società, delconsorzio umano, sul proprio destino”.Proprio per questa specifica finalizzazione, le discipline urba-nistiche si distinguono da tutti quegli studi che vogliono inve-ce restare descrittivi.Dare basi scientifiche all’urbanistica non può fondarsi che sul-la ricerca estesa al quadro globale della fenomenica urbani-stica, indagata attraverso la tendenza insediativa e i fenome-ni della correlata mobilità che, in quanto capace di orientarealle prime definizioni spazio-temporali, assume un ruolo pre-valente e riveste il principale interesse. La comprensione del-le “leggi di struttura” che regolano il formarsi della città può es-sere enormemente agevolata da conoscenze conseguibilidallo studio di altre discipline, quali l’economia, la tecnica e l’e-conomia dei trasporti, ecc., evitando tuttavia che le risultanze,che da ciascuna derivano, non risultino prevaricare, comespesso accade, riguardo l’attendibile esito degli interventi.In questo riprende forse ciò che Luigi Piccinato aveva intro-dotto nel 1950 definendo l’urbanistica come “costituita datutto il complesso delle discipline che hanno per oggetto ivari aspetti della vita degli agglomerati urbani” (L. Piccinato1950), ma con un in più un dichiarato interesse “infra-disci-plinare”, ben distinto dalla pretesa che la giustapposizione“inter-disciplinare” dei diversi punti di vista possa produrrerisultanze utili.

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Origine del termine urbanistica

Il termine urbanistica è, insospettabilmente, recente: se, etimo-logicamente deriva dal latino urbs, città, è traduzione dal termi-ne spagnolo urbanización, un neologismo coniato nel 1867 dal-l’ingegnere architetto Ildelfonso Cerdà nella sua Teoria generalde l’urbanización per designare una materia definita “nuova”come “scienza dell’organizzazione spaziale della città”."Io voglio iniziare il lettore allo studio di una materia comple-tamente nuova – egli afferma nella su Teoria – intatta e vergi-ne. Siccome tutto vi è nuovo, ho bisogno di cercare e inven-tare delle parole nuove, per esprimere idee nuove la cuispiegazione non si trova in alcun lessico".In Cerdà il termine urbanización a volte designava ciò che sichiama oggi processo di urbanizzazione e a volte i “principiimmutabili e le regole fisse” che sostengono tale processo.Per la prima volta nella storia, Cerdà intendeva dare con il suotrattato uno statuto scientifico ad una disciplina autonoma,interamente a sè stante, cui competesse la creazione e l’or-ganizzazione delle città.Il compito che Cerdà si dà consiste nello scoprire le leggi cheregolano il processo di urbanizzazione, il cui funzionamentospontaneo era rimasto fino ad allora nascosto, nell’integrarlein una teoria generale e nell’applicarle consapevolmente nel-la concezione e nell’organizzazione dello spazio edificato.Fin dall’origine la disciplina urbanistica si forma su due filoniparalleli: quello della continuità storica del fatto urbano e quel-lo riferibile ai problemi nuovi, nuovi per qualità e quantità, po-sti dalla vitalità prorompente della città industriale.Virgilio Vercelloni, un architetto, urbanista e landscape garde-ner milanese, oltrechè storico dell’architettura, a proposito de-gli ingegneri e degli architetti impegnati, tra la fine dell’Ottocentoe i primi decenni del Novecento, ad elaborare teorie di pro-gettazione urbana, scriveva che "molti di essi operavano con-cettualmente e propositivamente, a volte in maniera semplici-stica, all’interno di una sorta di continuità storica del fatto urbano,mentre per altri quella progettazione era riferibile soltanto allanuova città industriale che cresceva biologicamente attorno aquella antica, della quale, per nuove quantità e qualità, avreb-be stravolto il senso" (V. Vercelloni, 1992).Legati a queste teorie di progettazione urbana nascevano neo-logismi a definire le nuove esigenze tecnico-progettuali.

In Inghilterra, dove per la prima volta si manifesta il fenome-no dell’industrializzazione, si utilizzarono, pragmaticamente,le locuzioni town planning, city planning (poi arricchite da townand country planning e city and regional planning). Le setto-rialità specifiche vennero poi definite town design, urban de-sign e civic art (l’equivalente del francese art urbain).In Germania, alla fine del secolo, quando la storia urbana in-glese era oggetto di studio per le necessità prossime ventu-re delle nuove città industriali tedesche, in forma più pro-grammatica venne coniato il neologismo Städtbau (letteralmentecostruzione della città), implicitamente riferito alla nuova cittàindustriale, il cui plurale Städtebau indica tutte le operazioniprogettuali e di ricerca relative alla costruzione della città.Il neologismo francese, che traduce i significati dell’inglesetown planning e del tedesco Städtbau, è urbanisme, e fu in-trodotto tra il 1910 e il 1914, per estensione di urbaniste, nel-l’ambiente degli operatori che gravitavano intorno a E. Hénarde al Museé Social (la Société Français des Urbanistes rac-coglieva gli specialisti della cultura dell’igiene della città, maanche i tecnici, ingegneri e architetti, che si offrivano comeprogettisti della nuova città). Il neologismo italiano "urbani-stica" è il calco del termine francese e viene per la prima vol-ta usato nel 1929, quando si fonda l’Istituto di urbanisticae si pubblica una rivista omonima.

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Una pratica più antica del nome

Se recente è la nascita della disciplina urbanistica e perfi-no del nome che la designa, c’è comunque da chiedersi sel’urbanistica in sé, legata com’è alla nascita e allo sviluppodella città, non sia in realtà una pratica, se non una discipli-na, più antica.In passato l’organizzazione dello spazio urbano a volte derivadirettamente dal funzionamento di certe pratiche sociali, in par-ticolare religiose e giuridiche, la cui permanenza storica ha pereffetto di costituire delle tipologie riprodotte col passare deltempo, come nelle città dell’Islam e dell’Occidente medieva-le; altre volte, essa è prescritta dai testi d’origine sacra, che nefanno l’espressione di una cosmologia, come nella Cina anti-ca; altre volte ancora, delle tipologie urbane, sono deliberata-mente riprodotte nel corso di un processo di migrazione o dicolonizzazione, come nelle città della Magna Grecia o dellaIonia, o come nelle città di fondazione romana; infine, in tuttele culture succede che dei piani originali di città siano con-cepiti per dei fini precisi, per la volontà del principe, come adesempio Bagdad.I tentativi di storicizzare la cultura urbanistica antica indivi-duano nella forma urbana la "concentrazione degli interessisociali delle comunità" anche se è probabile che in Egitto unacerta inclinazione mentale verso schemi ortogonali sia ve-nuta dalla costruzione di canali di argini e di serbatoi. È qua-si certo, secondo l’architetto Mario Morini, docente dellaFacoltà di architettura fino a metà degli anni Sessanta, auto-re di un bell’Atlante di storia dell’urbanistica pubblicato nel1963, che le prime città sorsero in Egitto lungo le carova-niere che correvano parallelamente al fiume nei punti in cuiqueste si incrociavano con le strade e le piste provenienti daicampi: quindi a prescindere dalla ratio di tracciati ordinato-ri dettati dal criterio dell’orientamento dovuto a concezioni re-ligiose, come sostenuto, per le città egizie, dallo storico fran-cese Pierre Lavedan nella sua straordinaria Histoire del’urbanisme del 1926.La questione della coesistenza di una disciplina urbanisticaalla formazione antica della città è pertanto controversa: se-condo Françoise Choay nel suo La règle et le modèle (F. Choay1980), prima del Rinascimento non si trova alcuna società dovela produzione dello spazio costruito derivi da una disciplina ri-

flessiva autonoma in quanto la prima rivoluzione in rapporto aqueste pratiche ha avuto luogo nell’Italia del XV secolo ed èstata concettualizzata da Leon Battista Alberti nel De ReEdificatoria, il trattato d’architettura offerto nel 1452 al PapaNicola V e pubblicato dopo la morte di quest’ultimo, nel 1485.Per Alberti l’arte di costruire è esplicitamente "una disciplina,teorica e applicata, autonoma". Una volta in possesso dellesue regole e dei suoi principi, l’architetto diventa il grande or-dinatore dello spazio degli uomini. Egli ha per compito quellodi strutturare ed edificare la cornice della loro vita, dal pae-saggio rurale, le grandi strade e i porti fino alla città, i suoi giar-dini, le sue piante e i suoi edifici concependo e legando inmodo razionale e coerente gli elementi di una totalità, per cuiè possibile vedere la casa come una piccola città e la cittàcome una grande casa.

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Il formarsi della disciplina

Leonardo Benevolo esordisce nel suo testo sulle origini del-l’urbanistica moderna, ricordando che essa non nasce "con-temporaneamente ai processi tecnici ed economici che fan-no sorgere la città industriale, ma si forma in un temposuccessivo, quando gli effetti quantitativi delle trasforma-zioni in corso sono divenuti evidenti ed entrano in conflittotra loro, rendendo inevitabile un intervento riparatore" (L.Benevolo 1963).

Cosi ché la grande città è lo scenario entro il quale operano lariflessione e la sperimentazione urbanistica all’inizio del XIXsecolo. Lo stato di grave insoddisfazione in cui versano le gran-di città entro le quali le nuove quantità indotte dai nuovi inse-diati aggravano i problemi urbani di antica data induce duedistinti filoni d’indagine e di azione: il primo si muove versoun allargamento della disciplina in vista di una sua applica-zione razionalizzante lo sviluppo urbano che tuttavia avanzapiù velocemente e più caoticamente, il secondo va verso l’i-

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Tony Garnier, la Cité

industrielle, 1901.

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deazione di nuovi modelli urbani alternativi che tentano di mo-dificarne le forme spaziali, muovendosi entro le regole e le leg-gi del sistema economico e sociale.Al primo filone appartengono le elaborazioni sistematiche, so-prattutto tedesche, di ingegneri e tecnici che hanno respon-sabilità diretta nelle amministrazioni cittadine e che può rias-sumersi in un testo, Der Städtebau, plurale di Städtbau(letteralmente “costruzione della città”), che, come si è dettoprecedentemente, indica tutte le operazioni progettuali e di ri-cerca relative alla costruzione della città.Der Städtebau, pubblicato a Darmstadt nel 1890 e ristam-pato a Stoccarda nel 1907 diffonde, con un grande appa-rato illustrativo, il “sapere” riguardo la progettazione urbanadi J. Stübben, che raccoglie le ricerche della scuola tede-sca della fine dell’Ottocento, da W. Baumeister a CamilloSitte, selezionando un gran numero di soluzioni, date co-munque come esemplari per le loro qualità formali e fun-

zionali, assunte al di fuori di ogni contesto storico e fisico, edimostrando, in ogni caso, una grande attenzione ai nuoviproblemi funzionali della città, con particolare riguardo alleinfrastrutture di trasporto.Nascono in questa manualistica i concetti di lottizzazione(divisione in lotti edificabili), di zonizzazione (residenziale,industriale, per servizi), di indici edificatori (di volume, di su-perficie coperta, di distanza dai confini, di altezza), di tipo-logia edilizia, di reti di urbanizzazione (fognaria, idrica, elet-trica, telefonica) legati all’impianto stradale, di attrezzaturepuntuali che, nell’insieme, già prefigurano l’idea delloStadplan, ovverosia del “piano regolatore” come strumentoesteso all’intero abitato urbano e al territorio d’ambito am-ministrativo e perfino all’ambito gravitazionale delle funzio-ni urbane.Al secondo filone fanno capo le iniziative, teoriche e appli-cate, delle “città giardino” esposte dall’inglese Ebenezer

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Le Corbusier, Une ville

contemporaine, planimetria

generale, 1922.

Le Corbusier, Le Plan Voisin

studi per Parigi, 1925.

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Howard nel 1902 in Garden Cities of Tomorrow, che ripro-pongono, in una ideologia sostanzialmente antiurbana unaserie di modelli utopistici della prima età industriale (la preur-banistica degli utopisti socialisti contro i quali Marx ed Engelscontrapposero il socialismo scientifico, di Robert Owen,Charles Fourier, Pierre-Ioseph Proudon, Jean-Baptiste Godin),elisi dalla componente di riforma sociale, e improntati dagrande spirito imprenditoriale che tuttavia coglie nel se-gno delle aspirazioni di quanti, in questo rapporto nuovo tracittà e campagna, vedono la possibilità di reintrodurre nelvivere quanto nella città industriale era ormai negato.Lo straordinario successo delle idee di questa ideologia sostan-zialmente antiurbana (V. Vercelloni 1992), non produce se nondue iniziative concrete nell’area di Londra (Letchworth e Welwyn)ma alimenta la diffusione dei garden suburbs a bassa densitànelle periferie urbane, resa possibile dal ramificarsi delle reti ditrasporto su rotaia e dalla prima motorizzazione, che evolverànell’arco di cinquant’anni verso le forme della motorizzazione dimassa che, nella persistente attrattività, per quanto fallace, delmessaggio della “città giardino”, produce oggi gli effetti di quel-la città diffusa cresciuta attorno alle città storiche, cui è imputa-bile gran parte della congestione da traffico.Meno presa, anche se di un notevole interesse concettua-le, ha dimostrato il contemporaneo movimento per la “cittàlineare” teorizzato dallo spagnolo A. Soria y Mata, teso adaffermare un modello di crescita correlato nel suo impiantoai sistemi di trasporto urbani e interurbani di massa, piutto-sto che alla crescita radiocentrica attorno agli antichi nucleiurbani.Nel 1917 Tony Garnier pubblica la sua Citè Industrielle, doveelabora la proposta utopico-realistica della città industriale,progettando il manufatto urbano fino alle singole parti edi-lizie (e nel frattempo collaborando, in qualità di architetto edi urbanista con il sindaco radical-socialista di Lione E.Herriot).Negli Stati Uniti, accanto alla teoria della città giardino, chealimenta la spinta verso i quartieri suburbani, comincia a pe-netrare anche l’esigenza di una "razionalizzazione e di unascientifizzazione dei processi di controllo-produzione dellacittà (city functional, city efficient), e, in parallelo, il programmadel City Beautiful Movement , che come nell’opera di Camillo

Sitte, "pone la storia e la centralità estetica del fatto urbanoe dei suoi sviluppi come garanzia per un futuro non alienantedelle generazioni future collocate in anonime periferie" (V.Vercelloni 1992).Contro la tutto questo e con l’intento di un generale distaccoda passato, all’indomani del primo conflitto mondiale, si sca-glia l’urbanistica progressista del Movimento Moderno, cheassegna all’architettura il significato più vasto di progettazio-ne e ordinamento di tutto l’ambiente costruito, e che vuole "pie-gare lo sviluppo urbano dell’età dell’industrializzazione al finedi migliorare le condizioni sociali dei ceti subalterni, e anzitut-to della classe operaia protagonista, per quantità e qualità,di quegli sviluppi" (V. Vercelloni 1992).I protagonisti di questa proposta possono identificarsi inTony Garnier, in Walter Gropius, che nella direzione delBauhaus, nel primo dopoguerra, diverrà il fondatore delMovimento Moderno dell’architettura e dell’urbanistica, e inLe Corbusier, che propugnava lo stesso progetto con la for-za poetica del suo individualismo e, più tardi, all’interno deiprestigiosi CIAM (Congrès International d’ArchitectureModern) degli anni Trenta.Fu nella Germania socialdemocratica della Repubblica diWeimar che l’impegno sociale del Movimento Moderno fu com-piutamente manifesto: si elaborano lì gli existentialminimum,gli standard esistenziali che l’abitazione e la città dovevanogarantire a fasce sempre più estese di popolazione, in una vi-sione sociale egualitaria e socialistica.La "totalizzante convinzione che il moderno e il nuovo avreb-bero potuto generare, meccanicamente, una nuova civiltà ur-bana, permisero a Le Corbusier di prevedere nel Plan Voisin,la pressoché totale distruzione del centro storico di Parigi, nel-l’ipotesi di una ricostruzione con rarefatti edifici di grande al-tezza" (V. Vercelloni 1992).La Charte d’Athènes, che uscirà postuma nel 1943 a Parigiin piena occupazione nazista, riassume i punti dottrinari e pro-grammatici sull’urbanistica, stesi, soprattutto per mano di LeCorbusier, su una nave che da Marsiglia ad Atene nel 1933portava i membri del III Congresso dei CIAM (Le Corbusier1960 nella trad. it.), organismo che, attivo dal 1928, proponeuna gestione universale e cosmopolita dei fondamenti delrazionalismo architettonico.

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"La funzione è il parametro privilegiato per muovere alla ri-cerca delle leggi di aggregazione nel passaggio dalle strut-ture edilizie semplici a quelle più complesse degli insiemi ur-bani" (Detti e Sica 1984). Partendo dai dati che definiscono le esigenze dell’alloggio nel-le sue componenti di abitabilità e mettendo a punto tipologieedilizie ottimali, in quanto capaci di rispondere a queste esi-genze, si arriva a verificare l’incompatibilità delle tipologie stu-diate con le modalità storiche di formazione del tessuto ur-bano, esemplificate dalla strada affiancata da cortine edilizie(la rue corridor). Si rompe così il rapporto tra isolati e lotti, tra gli edifici e lastrada e si trovano nuovi rapporti nella disposizione degliedifici entro aree residenziali e quartieri, con una rete stra-dale interna svincolata dalla viabilità primaria urbana, entrola quale pedonalmente si possano raggiungere le attrezza-ture (scuole, parchi, centri commerciali) allo stretto servi-zio dell’area.La zonizzazione, fattore di misura e di grande ordine, divienenella Carta d’Atene quell’operazione che assegna a ogni fun-zione e ad ogni individuo “il suo giusto posto”; si basa sulladiscriminazione tra le diverse attività umane che richiedonociascuna il proprio spazio particolare.Assai diverse le esperienze condotte nella “Vienna Rossa”tra il 1925 e il 1930 dove i complessi residenziali pubblici,come il celebre Karl Marx Hof di K. Ehn, dimostrano la pos-sibilità di coniugare modelli edilizi tradizionali combinati conuna nuova concezione dell’abitare, ricco di servizi sociali in-terni, e nel contempo, pietre miliari, veri e propri “mattoni ur-bani” nelle zone urbane di espansione con le loro forti ca-ratterizzazioni architettoniche.Una sola grande applicazione dei principi della modernaurbanistica è stata possibile a livello di un’intera città: è que-sto il caso del Piano di Amsterdam, elaborato negli anni cen-trali del periodo tra le due guerre, che tuttavia proprio daicanoni funzionali e formali del Movimento Moderno ebbea discostarsi. Questo piano, che tanto ha influenzato gli anni seguenti nel-la pratica e nelle aspirazioni dell’urbanistica, può rappre-sentare, emblematicamente, la fase culminante dell’urbani-stica moderna.

I contorni disciplinari dell’urbanistica

L’urbanistica è dunque "l’esito di un processo di selezionecumulativa" (B. Secchi 2000) e pertanto se è importanteguardare all’evoluzione storica del suo significato, è so-prattutto importante guardare a quel che essa può dare nel-l’affrontare i problemi della città del nostro tempo, complessie diversi in relazione ai contesti, alle dimensioni, alle aspet-tative della qualità del vivere.È importante al proposito chiedersi con quali strumenti con-cettuali e in vista di che cosa occorra operare, nella consa-pevolezza di trovare una risposta che non sarà mai del tuttocompleta se si decida di attraversare questo territorio dell’ur-banistica nel farsi, concreto e paziente, della città.Per disegnare i contorni disciplinari dell’urbanistica convienepartire da che cosa l’urbanistica può dare, ovvero che cosarappresenti, per rispondere alle nuove qualità richieste dallacittà contemporanea, ai nuovi problemi posti dalla crescenteurbanizzazione nei paesi sviluppati e dalla rivoluzione epoca-le dell’inflazione urbana, nei paesi in via di sviluppo.I suoi contorni disciplinari sono dati dalle necessità di forgiaregli strumenti necessari alla comprensione di un reale semprepiù complesso, ma soprattutto a rendere più “attendibili” le so-luzioni urbanistiche proposte attingendo non solo da un con-solidato specifico disciplinare, che sarebbe poca e riduttivamateria, ma guardando all’urbanistica come risultante di unapparato critico di discipline diverse, legittimato da un atteg-giamento che sappia percorrere infradisciplinarmente, fuorida superate suggestioni interdisciplinari, l’orizzonte comunedei tanti saperi e delle pratiche settoriali che partecipano al-l’edificazione dello spazio antropico.Questo orizzonte comune si amplia nelle misura in cui cre-sce la consapevolezza della complessità dei problemi e del-le necessità di darne, anche provvisoria, soluzione e non po-trebbero oggi esaurirsi in quelle citate da Cerdà nella sua Teoria:la biologia, l’igiene e la storia.L’interesse per lo studio scientifico del fenomeno urbano e de-gli insediamenti umani prende avvio nell’ultimo decennio delXIX secolo e si sviluppa quasi contemporaneamente secon-do vari filoni separati, e spesso contrastanti, facenti capo allediscipline geografiche sociologiche ed economiche che inquegli anni si formano; sia pure nella molteplicità degli ango-

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li visuali alcuni principi comuni vengono tuttavia riconosciuti enel tempo costituiranno il quadro di riferimento concettuale del-le ricerche specifiche nel campo urbanistico. Per Giovanni Astengo, che tra gli urbanisti italiani nel secon-do dopoguerra più si impegnato nel mettere a punto la co-struzione disciplinare dell’urbanistica, le discipline cui occor-re guardare sono principalmente tre: la geografia umana, lasociologia, gli studi economici e statistici.Astengo richiama a base degli studi di geografia umanal’Antropogeografia di Ratzel (1891), interessante in quanto de-finiva il principio della "unitarietà ambientale" e quindi della con-catenazione di tutti i fenomeni di geografia fisica ed umana el’Ecologia di Haeckel (1884), in quanto apriva lo studio dellemutue relazioni di tutti gli organismi viventi in un solo ed uni-co luogo e del loro adattamento all’ambiente circostante. L’unoe l’altro di questi studi hanno aperto la strada all'insegnamen-to di Vidal de la Blache ed al suo testo fondamentale di“Geografia umana” (uscito postumo nel 1922), a cui ricono-scono di far capo le moderne scuole di geografia.Di grandissima importanza sono gli studi di Richard Hartshorne(Hartshorne 1959), di Georges Chabot, (Chabot 1963) il cuitesto fondamentale è pubblicato in Italia nel 1970, di PierreGeorge, che scrive numerose opere tradotte in Italiano, come il“Manuale di geografia economica” del 1967, il “Manuale di geo-grafia della popolazione” e “Geografia delle città” entrambi del1964, il “Manuale di geografia rurale”, del 1965, “l’Organizzazionesociale ed economica degli spazi terrestri” del 1968, “Gli uo-mini sulla terra, la geografia del Duemila” del 1989.Chi voglia oggi ripercorrere la prima fase delle tappe di questadisciplina, che è risultata fondamentale per l’apporto dato al-l’urbanistica, può fare riferimento al testo di Paul Claval, sull’e-voluzione storica della geografia umana” (Claval 1971). Nello stesso periodo di tempo, Astengo ricorda come si svi-luppino gli studi della moderna sociologia, che prende lemosse dalla prima opera di Emile Durkheim, “La divisionedel lavoro sociale” del 1893, le cui attinenze con l’esperienzadegli studi urbanistici affiora fin dalla definizione di socio-logia come “scienza che studia, con vedute d’insieme, inmodo tipologico ed esplicativo, i differenti gradi di cristal-lizzazione della vita sociale, la cui base si trova negli stati dicoscienza collettiva, irriducibili ed opachi alle coscienze in-

dividuali; questi stati si manifestano nelle costruzioni, isti-tuzioni, pressioni e simboli esteriormente osservabili, si ma-terializzano nella trasfigurazione della superficie geografi-co-demografica ed impregnano al tempo stesso tutti questielementi con le idee, valori ed ideali cui tende la coscien-za collettiva e nel suo aspetto di libera corrente di pensie-ro e di aspirazione”, ma soprattutto da quanto affermaGeorges Gurvitch, della scuola di Emile Durkheim, per il qua-le “la prima tappa nello studio di un fenomeno sociale tota-le è data dalla ricognizione della superficie morfologica edecologica, che studia le esteriorizzazioni materiali della real-tà sociale (densità, movimento e distribuzione spaziale del-la popolazione, insediamenti urbani, vie di comunicazione,utensili etc.) che si possono considerare sociali in quantopenetrate e trasformate continuamente dall’azione umanacollettiva”. Lo scopo comune degli studi di sociologia urbana è statodefinito da Denis Szabo (1933) come “lo studio dei gruppisociali e della loro interazione in quanto influenzati da quel-l'ambiente fisico-psico-socio-culturale che è l'agglomera-zione urbana”.Tra gli studiosi di sociologia urbana, Guido Martinotti con unbel saggio del 1993 traccia una panoramica dell’urbaniz-zazione contemporanea e mostra come i cambiamenti incorso siano assai più che una oscillazione del ciclo urba-no e invece riflettano una trasformazione radicale della cit-tà, con il passaggio dalla città tradizionale a quella stato diurbanizzazione che fa cadere la definizione netta tra cittàe campagna e che rende più articolato e complessa ognianalisi statistica basata su unità di riferimento tradizionali eobsolete. In questo saggio, particolare rilievo assume l’a-nalisi della popolazione urbana che quotidianamente abi-ta le grandi città, e dove accanto alle tradizionali categorie,dei residenti e dei pendolari, ne individua altre, quali i “con-sumatori urbani”, city users e businessmen.Per quanto riguarda le scienze economiche, un decisivo svi-luppo del pensiero economico ha inizio, negli ultimi decennidel secolo, per opera delle scuole austriaca e di Losanna; laprima sviluppa la ricerca sull’utilità marginale applicata al cam-po della microeconomia, la seconda gli studi sull'equilibrio ge-nerale. Di particolare interesse, ai fini della programmazione

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economica, e della correlata pianificazione territoriale, gli svi-luppi macroeconomici della scuola londinese di Alfred Marshalle, soprattutto, di Keynes (1916) che nella sua “Teoria gene-rale, cerca una teoria esplicativa del funzionamento delle flut-tuazioni di tutti i settori produttivi. Negli Anni Settanta si è assistito allo sforzo di far converge-re le varie scuole moderne di pensiero economico verso unanuova metodologia, basata sulla unificazione dei metodi sta-tistici e matematici e delle teorie economiche, che apre unnuovo campo di osservazione e di congettura; ricerche eco-nometriche, modelli teorici e loro applicazione al mondo rea-le, schemi globali di bilancio nazionale, modelli previsio-nali e decisionali sono i principali capitoli e le fondamentalitappe di questa nuova scienza economica. Negli anniSettanta fondamentale per la formazione delle variabili ma-crourbanistiche legate alle acquisizioni concettuali della ma-croeconomia, il bel saggio su “Il reddito nazionale” di CharlesL. Schultze del 1970, utile a far comprendere le ragioni de-gli spostamenti delle popolazioni, ieri tra il nord e il sud d’Italia,oggi tra il nord e il sud del mondo.Il richiamo alle scienze economiche per illustrare il fonda-mento scientifico dell’urbanistica potrebbe apparire, a pri-ma vista, quasi senza nesso pratico, se, proprio nelle fasi fi-nali dell’evoluzione del pensiero economico, non fosserostati ritrovati strumenti di osservazione e di previsione di un'e-conomia globale territorialmente definita, che si possono ap-plicare e si incomincia ad applicare anche a regioni, ad ag-glomerazioni urbane ed a città. Così trovano ormai stabileposto nella formazione urbanistica “L’economia regionale”di Harry W. Richardson (1969), “Economia urbana” di AlanW. Evans (1985).Ma se questi sono i caposaldi cui l’insegnamento di Astengoindirizzava, essi non sono i soli riferimenti disciplinari cui l’ur-banistica deve guardare per dotarsi dei necessari “stru-menti” capaci di cogliere gli aspetti essenziali di questo “ma-teriale complesso” che è la città contemporanea e affrontarnei problemi.Innanzitutto le discipline storiche, come già ricordava Cerdà:l’urbanistica non può guardare al futuro, e dare senso ai se-gni formali del suo specifico disciplinare, fuori da un fortesenso della storia e della memoria.

Storia e memoria della città e delle città e storia e memoriadelle idee che attorno ad esse si sono formate, sia che ab-biano lasciato tracce materiali sia non abbiano avuto esitifattuali.Un approccio storico ai problemi del territorio è necessario inquanto la maggior parte della superficie della terra è un im-menso deposito di segni consapevolmente lasciati da chi ciha preceduto: città, villaggi, case, capanne isolate, strade esentieri, canali, gallerie, dighe, terrazzamenti, disboscamenti,divisione di campi e loro destinazione a specifiche colture, fi-lari di alberi e piantagioni.Come una pergamena raschiata per scrivervi di nuovo, nelquale la scrittura sia stata sovrapposta ad altra precedente ra-schiata o comunque cancellata, per usare la metafora di AndréCorboz il territorio è un palinsesto (palinsesto dal latino pa-limpsestu(m), nom. palimpsestos), restituitoci dalle diverse ge-nerazioni che vi hanno scritto, corretto, cancellato e aggiunto(A. Corboz, 1983). In questo immenso archivio di segni pos-siamo cogliere un altrettanto vasto insieme di intenzioni, di pro-getti e concrete azioni di singole persone, di ristretti gruppi odi intere società. Sovrapponendosi, deformandosi e alle voltecontraddicendosi, essi hanno dato luogo a esiti spesso sor-prendenti per gli stessi autori e di difficile interpretazione (B.Secchi, 2000).Gli studi storici di chi vede come la città sia il luogo per ec-cellenza della memoria collettiva, e quindi della conoscenzadel passato e che quindi, traendo le giuste conseguenze dalfatto che ogni generazione osserva i documenti/monumentilasciati da quelle precedenti, li interpreta in modi diversi neltempo e in relazione al significato della loro presenza nel con-testo della propria specifica vita in un processo che “in unacontinuità di elisioni e integrazioni può essere globalmente de-finito di accumulazione semantica” (V. Vercelloni, 1993). Studiper i quali dove, come nella città, è più evidente la presenzadell’uomo per la concretezza del manufatto e per la continui-tà della sua presenza il fenomeno del significato “acquista di-mensioni e strutture più complesse che si connettono alla sto-ria antropologica e alla storia dell’immaginario”.Tra le “storie”, in particolare, gli studi di storia del paesaggioagrario, nella tradizione di Marc Bloch in Francia (Bloch 1952)e di Emilio Sereni in Italia (Sereni 1962), che ci ha dato una bel-

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lissima sintesi della storia del paesaggio agrario italiano dal-l’epoca della colonizzazione greca ed etrusca fino ai tempi no-stri, attraverso la ricognizione degli aspetti che, di epoca inepoca, le nostre campagne hanno assunto in conseguenzadell’azione trasformatrice del lavoro umano.Studi di storia del paesaggio inteso come storia dell’antropiz-zazione del territorio, che comprenda la costruzione storicadelle reti di mobilità, elementi strutturanti del territorio e dellearee urbane, articolato nelle diverse modalità di trasporto, ca-paci ognuna di diversi assetti insediativi, come la strada, por-tatrice di indifferenza localizzativa e del continuum insediativoai suoi margini, o la ferrovia, capace di sviluppi urbani punti-formi e ad alta concentrazione in corrispondenza delle stazionie dell’elevata accessibilità che garantiscono.Alle discipline della geografia, già ricordate, si aggiunge la geo-grafia antropica, un modo per osservare gli insediamenti uma-ni entro la storia quantitativa della popolazione, collocata entrola storia globale, che ci permette di avvicinarci correttamentea complesse specificità qualitative (V. Vercelloni, 1992). La pri-ma di queste, convenzionale alla scala della moderna statisti-ca, strutturale invece per la storia reale degli uomini, sta nelladicotomia tra popolazione urbana e popolazione rurale, sud-divisione riferita al significato storico-geografico di città, che de-finisce gli insediamenti umani concentrati e compatti, quandoaccolgono stabilmente alcune migliaia di abitanti.Gli studi sulla “forma urbis”, secondo l’insegnamento dellascuola di Carlo Aymonino e di Aldo Rossi che, nel saggio dianalisi urbana sulla città di Padova (Aymonino e Rossi 1970)e ne “L’Architettura della città” (Rossi 1966) hanno lasciato unatraccia metodologica fondamentale nella comprensione del-le leggi del costituirsi fisico della città ed in particolare "del-l’architettura come fenomeno urbano per eccellenza" e dalriguardare alla città “come un unico manufatto che si costrui-sce nel tempo come creazione inscindibile della vita civile edella società in cui si manifesta”.O nella lezione di Lewis Mumford che, nel suo testo fonda-mentale (L. Mumford 1963) dell’indagine sulla storia della cit-tà ci aiuta a capire come tra le tante possibilità di analisi ri-guardanti la fenomenica urbana, quella che appare piùcomplessiva è data dal considerare la conformazione del-l’ambiente costruito.

L’urbanistica quindi non potrà mai prescindere dalla com-prensione della costruzione della città, della “forma urbis”, cosìcome non potrà non prendere le mosse dalla “conoscenza deisingoli fatti urbani” nei loro aspetti più particolari e individuali.Inoltre, come dimenticare gli apporti delle discipline esterneindicate da Vittorio Gregotti per ordinare “materiali comples-si”? Oltre alla geografia, di cui si è detto, occorre aggiungerela tradizione di studi riferita agli strumenti di comunicazionecon le sue forme di strutturazione della forma visuale, propo-ste da quegli artisti capaci di far fronte alla dinamica dello svi-luppo temporale e spaziale suggerita dalla dimensione geo-grafica, definita come land art; e gli studi sulla figura della città,come caso particolare del problema della figura del territo-rio, secondo l’insegnamento di Kevin Lynch (K. Lynch 1964).I contributi fecondi dell’archeologia urbana, secondo la le-zione di Andrea Carandini e degli archeologici soprattutto in-glesi e tedeschi, che hanno mostrato come nell’opportunitàdel metodo dello scavo stratigrafico, dove non si rimuove soloil terreno ma si indaga operando uno smontaggio della strati-ficazione in cui i singoli elementi che la compongono sonoindividuati ed asportati seguendo un ordino inverso a quellodella loro deposizione, leggendo la stratificazione come unlibro di storia che cominci dall’ultima pagina e che restituiscenon solo la forma del manufatto ma, quel che più conta, la “sto-ria degli uomini”, che quel paesaggio hanno vissuto e deter-minato (A. Carandini 1975 e 1991).Per definire i contorni della disciplina urbanistica dobbiamoguardare inoltre ad altri saperi: l’antropologia culturale, i cui in-segnamenti sono stati utilizzati soprattutto nei paesi in via disviluppo, l’etologia umana, che ha rivelato l’importanza delleculture differenti nella percezione e nel trattamento dello spa-zio (Konrad Lorenz soprattutto, ma anche Bruce Chatwin nelsuo romanzo “Le vie dei canti”).L’economia dei trasporti e gli studi sul traffico urbano, sia vi-sto, come nella lezione di L.S. d’Angiolini (L.S. d’Angiolini 1996),nell’ottica che privilegia la lettura del rapporto tra tendenza in-sediativa e mobilità e i problemi urbanistici legati all’accessi-bilità trasportistica, sia nella tradizione di studi che ha in ColinBuchanan un riferimento fondamentale (C. Buchanan 1963).Nell’introduzione al suo Rapporto, uno dei primi studi compiutiin Europa sul traffico urbano, commissionato dal Ministero dei

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trasporti di Sua Maestà Britannica, che risale ai primi anniSessanta, già si affermava che "anche il più superficiale stu-dio delle condizioni delle nostre città mostra chiaramente comele congestioni di traffico pongano ogni giorno a repentaglio ilbenessere degli abitanti e l’efficienza di molte attività. L’aumentopotenziale del numero di veicoli è tanto forte che, a meno chenon si adottino adeguati provvedimenti, la situazione diverràfra non molto tempo estremamente seria. Forse, nei centri ur-bani, i veicoli non saranno più di alcuna utilità o l’ambiente per-derà quelle naturali attrattive e la sicurezza che gli erano ca-ratteristiche, o forse ancora, entrambe le cose accadrannocontemporaneamente. I problemi da risolvere sono tali e tan-ti che gli eventuali miglioramenti che si dovessero apportareal sistema stradale, al solo scopo di mantenere il traffico in mo-vimento, non produrranno probabilmente benefici costanti,data la sfrenata corsa all’acquisto dei veicoli ed il loro conse-guente enorme aumento".Gli studi demografici e statistici previsionali. Se è vero chenell’operare urbanistico non si tratta soltanto di compren-dere l’oggi in senso statico, ma soprattutto di seguire le traiet-torie che disegnano e prospettino le condizioni future, alloraall’urbanistica compete comprendere e dare significato aisegni, avere attenzione alle premonizioni, fare critico affida-mento, alle previsioni che sono, per loro natura, più estrapo-lative che predittive.Il contributo degli studi demografici e il loro “azzardo” nell’o-perare proiezioni statistiche di popolazione alla grande scalaattraverso le componenti naturali e sociali della crescita de-mografica, soprattutto in relazione ai processi di inurbamen-to a livello mondiale ed ai flussi migratori, ma anche in rela-zione alla modificabilità dei dati cosiddetti “naturali”.La tradizione degli studi demografici e statistici, capace di va-lutare la dinamica migratoria alla scala regionale e urbanadipendente da variabili relative alla rigidità della disponibilitàdi abitazioni, della mobilità occupazionale, della crescita dellavoro che genera movimenti non sistematici, diversi quindi daquelli tradizionali di tipo pendolare, le modificazioni indotte dal-la occupazione femminile generalizzata, la disponibilità illimi-tata di mezzi di locomozione individuale, le modalità di occu-pazione del parco alloggi, secondo l’insegnamento di Ricciche rivoluzione i metodi di calcolo passando dalle tradizio-

nali unità statistiche costituite dagli abitante e dalle stanza, allacomplessità derivante dal rapporto tra le grandezze riferite alleunità reali di consumo, costituito dalle famiglie, e di produzio-ne, costituito dalle abitazioni.Il contributo decisivo degli studi che fanno capo alla “teoriadelle decisioni” nell’indagare il processo reale nella costruzio-ne della città nel passaggio dalle teorie della decisione indivi-duale, o “politica liberistica”, tipica della prima fase dell’urba-nistica nella città preindustriale, della decisione collettivizzata,o “politica del governo centralizzato”, tipica della seconda fasedell’urbanistica nella città industriale, e, infine, della decisionecollettiva, che ha portato alla prassi e alla traduzione legisla-tiva della “politica degli accordi di programma” e alle conse-guenti modalità operative della definizione dei contenuti stra-tegici e dell’attuazione, tipica della terza fase dettata dallaconsapevolezza della complessità della città post industriale.Ultimi e non per importanza, ma per sottolinearne il caratterecentrale in ogni atto teso a modificare il territorio e la città, glistudi che fanno riferimento alle scienze ambientali e al delica-to equilibrio che occorre portare nei processi di trasformazio-ne del territorio, atteso che tali trasformazioni siano giudicatenecessarie e giuste in un’ottica complessiva di sviluppo del-la società.Coordinare ed integrare le parti delle discipline che si interes-sano dei fenomeni urbani in un'unica coerente scienza urba-na, come già osservava Astengo a proposito dei soli campidella geografia, della sociologia e dell'economia, è “un passoancora da compiere sul piano teorico e metodologico”. Talepasso è reso oggi ancora più complicato, e forse non più at-tuale, per le molte discipline che si sono dimostrate interagenti.Più che puntare su un’unica e coerente scienza urbana sem-bra preferibile dotarsi di strumenti concettuali tali da metterel’urbanistica nella capacità di interloquire propositivamentecon le tante discipline che ruotano attorno ai problemi dellacittà, attrezzandosi più nella capacità di porre le giuste do-mande che pretendendo di dotarsi di tutti gli infiniti strumentinecessari a fornire le risposte.A chi sostiene che l’urbanistica è in crisi, o è inadatta ad af-frontare le domande sempre più complesse del nostro tem-po, occorre tuttavia rispondere che nel cercare le basi diuna nuova autorità disciplinare "non si può ricominciare da

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zero; che siamo costretti ad utilizzare ciò che la scienza haprodotto prima di noi. Se volessimo ricominciare da zero,alla nostra morte saremmo come Adamo ed Eva quandomorirono. (…) Se vogliamo progredire nella scienza dob-biamo salire sulle spalle dei nostri predecessori. Dobbiamoproseguire una certa tradizione" (K. Popper, 1962) .La stessa etimologia della parola tradizione "significa innanzitutto, trasmissione di un complesso di esperienze che pas-sa da una generazione all’altra, che non solo consente,

ma anzi implica la rielaborazione dei sistemi ereditati" (B.Cravagnuolo, 1991) per cui il senso della memoria dei va-lori del passato non va confuso con la rinuncia a produrreavanzamenti disciplinari.Trovare i nuovi contorni della disciplina urbanistica significa ri-considerare la città nel suo complesso manifestarsi, com-prendere che al “farsi della città” cooperano pratiche e attori(individuali e collettivi) multipli, avere, e condividere con gli al-tri, una visione del futuro, una strategia, un disegno.

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Veduta del centro storico

di Amsterdam.

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Il paradigma del Piano

Il punto culminante dell’urbanistica che si concretizza nella for-mazione di un piano regolatore si ha senz’altro nel caso diAmsterdam che si assume a paradigma di molta dell’urbani-stica contemporanea Conviene dunque illustrarne i presup-posti e le principali fasi attuative per cogliere alcuni aspetti es-senziali di una certa importante concezione stessadell’urbanistica.Per l’Olanda ha inizio dopo il 1840 un periodo di prosperità edi riforme istituzionali, ispirate a un cauto liberalesimo e sor-rette da un pronunciato intervento statale in alcuni settori del-l’organizzazione della vita pubblica. (…). Di fronte agli effetti della rivoluzione industriale, l’attività urba-nistica, inserendosi all’interno di una sicura tradizione di con-trollo del territorio, riesce a traformare adeguatamente i propristrumenti operativi, evitando in parte le incertezze di gestioneche sono comuni alle altre città europee. (…). Quando la po-polazione prende a crescere e alle attività mercantili tradizio-nali si affiancano i primi sviluppi produttivi (industrie di tra-sformazione e alimentari nella zona industriale di Amsterdam)questi controlli sembrano per qualche tempo indebolirsi e glieffetti del liberismo economico e del lassaiz-faire urbanisticotendono ad investire il perfetto equilibrio della città. Tuttavia con sufficiente tempestività l’amministrazione comu-nale riesce ad adeguare l’apparato di controllo e di inter-vento al nuovo momento di sviluppo economico e urbano(Sica, 1977).Nel 1901 il Parlamento olandese approva la Woningwet, la"legge sull’abitazione", che estende a scala nazionale la pras-si dell’esproprio per le aree di nuova edificazione (collauda-ta nella capitale sul finire del secolo); la legge obbliga le cit-tà con più di 10.000 abitanti a dotarsi di un piano regolatoregenerale; inoltre la legge precisa la distinzione fra piani ge-nerali e piani particolareggiati, ai quali viene subordinata l’e-spansione, stanzia consistenti sovvenzioni statali per l’edili-zia popolare e fissa le norme per la concessione dei creditialle cooperative edilizie. Questo provvedimento rappresenta, per tanti aspetti, una pie-tra miliare nella storia della legislazione urbanistica europea e“incentiverà una sperimentazione pionieristica nell’ambito deimodelli abitativi, finanziando circa il 20 per cento dell’intera

produzione residenziale olandese dei primi quarant’anni delNovecento (B. Cravagnuolo, 1991).(…) Sovvertendo la prassi che consentiva l’intervento pub-blico locale nei soli campi della polizia urbana e dell’educa-zione scolastica, dai primi anni del Novecento i Comuni sonoimpegnati in una politica attiva che implica l’urbanizzazionepreventiva dei terreni attraverso la mano pubblica, il taglio dicanali, la costruzione di fognature, strade, ponti, parchi e par-terres (Sica, 1977).La municipalità di Amsterdam affidò nel 1900 a H.P. Berlage,in collaborazione con il direttore dell’Ufficio lavori pubblici, J.Van Hasselt, il compito di curare il piano di espansione per l’a-rea sud (Amsterdam Zuid) della città. Berlage sottopose all’approvazione comunale il suo piano nel1904; nessuna decisione fu presa fino al 1907, quando il pro-getto fu approvato, ma senza essere assunto come vinco-lante dall’amministrazione comunale.Il piano, denso di riferimenti a Camillo Sitte, era una combi-nazione di pittoresco e monumentale: una rete di canali e stra-de di scorrimento sinuose, due piazze monumentali, un in-treccio di aree a diversa densità. Benché solo genericamenterichieste dall’amministrazione, erano inoltre localizzate nell’a-rea alcune grandi attrezzature e una zona industriale. Complessivamente, un piano con un basso rapporto edifica-zione-superficie, che impegnava l’amministrazione in un va-sto programma di espropri. Un ostacolo alla sua attuazione era costituito dal fatto che ilpiano includeva anche aree ancora esterne al territorio am-ministrativo della municipalità di Amsterdam; così solo dopo il1921, quando fu condotto a termine il programma di amplia-mento dei limiti comunali, l’attuazione del piano definitivo potèessere completata (Casciato 1987).Pur se approvato, il piano non ebbe però seguito e, a un de-cennio di distanza, si pose il problema della sua revisione, cosìcome l’art. 10 della Woningwet , la legge per regolare la ma-teria edilizia e urbanistica, approvata in Olanda nel 1901, al-l’art. 10 prevedeva che i piani dovessero essere rivisti e ag-giornati ogni dieci anni, prevedeva. Se ne affidò ancora il compito a Berlage, che presentò, nel1915, una versione integralmente nuova del piano; l’approva-zione definitiva venne nel 1917.

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I caratteri specifici di questo secondo piano e le differenze conil primo progetto li ricaviamo da una descrizione di J.H.W.Leliman: “Per riassumere i cambiamenti, si potrebbe dire chei principi medievali hanno fatto spazio al barocco. Il piano nonè più un mosaico di piccoli gruppi, di quartieri indipendenti, dipiccole e intime piazze.

Ora c’è molta più unità e coerenza. È divenuto un insieme uni-tario (…). L’avversione per la linea retta ha lasciato campo li-bero al suo opposto. Domina la linea retta e lunga, la sim-metria è stata ripristinata. I lotti non sono più frammentatisecondo un disegno capriccioso, ma esistono spazi squa-drati e regolari. "Costruzione a blocchi", questa è la nuova pa-rola d’ordine (…) essa comporta una certa monumentalità epuò divenire noiosa se realizzata su ampia scala con mezzisobri (…). Il piano ha guadagnato in coerenza e razionalità.Sebbene più sistematico ha perso il carattere di puro dise-gno del precedente” ("De Bouwwereld", n. 16/1917). Il pianoera il risultato dell’incrocio di due orientamenti principali, chedesignavano due distinte parti dell’area di espansione.Una prima zona, ad est, era orientata secondo la direttriceest-ovest, su cui si collocava la famosa struttura viaria a Y,matrice urbanistica della parte urbana. L’asse viario princi-pale era costituito da un ampio boulevard alberato, l’attua-le Vrijheidslaan, il cui tracciato prosegue anche al di làdell’Amstel, attraversato da un nuovo ponte (il Berlage brug,progettato nel 1926 e aperto nel 1932). Su questo tracciatoregolare a Y si appoggia la struttura delle strade seconda-rie. (Casciato, 1987).Gli isolati acquistano possibilità nuove di uso nei lunghi temidei cortili interni unificati (Berlage adotta il blocco rettangola-re chiuso largo 50 metri e lungo da 100 a 200 metri con casea quattro piani e giardino interno di 25 metri di larghezza);l’omogeneità e semplicità architettonica dei corpi di fabbricae delle facciate indica il tentativo di saggiare vie di soluzioneinnovatrici per il problema dell’abitazione collettiva di massa;le stesse simmetrie appaiono usate non casualmente ma se-condo intenzioni e prospettive che nascono dalla relazionecon i punti di cerniera con la città (Sica, 1977).Un secondo settore, previsto al di là dell’attuale NoorderAmstelkanaal, aveva inizio nella vasta piazza della stazio-ne, uno dei punti forza del piano, che scomparirà definiti-vamente nella successiva realizzazione, e un prevalenteorientamento nord-sud. Un’arteria rettilinea, fiancheggiatada gallerie commerciali, conduceva dalla stazione alla mo-numentale piazza su cui avrebbe dovuto affacciarsil’Accademia di belle arti anch’essa non realizzata. Il con-corso, bandito nel 1917, vide ben 114 progetti.

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Prospettiva, prospetto e pianta

dell’Accademia di Amsterdam.

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Fra questi, solo dieci furono considerati idonei e solo cinqueammessi al secondo grado, che si concluse nell’anno suc-cessivo. Il concorso fu vinto da J. Duiker e B. Bijvoet e al pro-getto di De Klerk fu assegnato il secondo premio. Solo dopo il giudizio si decise di non dare più corso alla rea-lizzazione.Questo settore dell’espansione era disegnato mediante l’ac-costamento di sistemi di strade a tridente, che davano vitaa una maglia geometricamente articolata.

All’estremità occidentale era localizzato uno stadio e una se-rie di attrezzature per lo sport e il tempo libero.L’attuazione del piano ebbe tempi differenziati: l’edificazio-ne iniziò dapprima, alla fine degli anni Dieci, nell’area oc-cidentale (che ospiterà poi lo Stadio delle Olimpiadi del 1928)e negli anni immediatamente successivi sia in quella adia-cente Roelof Hartplein sia in quella più orientale, prossimaall’Amstel; si trattò per lo più di grandi complessi popolari oper la classe media.

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In alto, Berlage, progetti

per Amsterdam sud.

Veduta del centro storico

di Amsterdam.

Veduta aerea della stazione

ferroviaria presso il centro di

Amsterdam.

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Nella seconda metà degli anni Venti e nei primi anni Trentafu urbanizzata la vasta parte centrale, che si estende fraOlympiaplein e Victoriaplein, con complessi residenziali perla classe media e anche con una fascia di lussuose abita-zioni unifamiliari che bordeggiano il Vondelpark. La com-pleta realizzazione della grande area di espansione coinci-se esattamente con gli anni in cui la Scuola di Amsterdamsi espresse ed è per questo che l’area è, per eccellenza, ungrande documento costruito della sua vicenda creativa (M.Casciato, 1987).

La logica del disegno urbano

Esiste una progettazione urbanistica che non sia una deri-vazione del Piano urbanistico, né la sua attuazione, nè quelterreno intermedio tra il Piano e il progetto di architettura,quando sia risultante di due diversi approcci progettuali:macro e micro-urbanistico. Questi due distinti approcci de-rivano da riferimenti concettuali e strumenti conoscitivi ra-dicalmente differenti necessari a comprendere la natura deiproblemi della città e darne soluzione attendibile, se non ri-solutiva.A questa progettazione, che potremmo definire “Disegnourbano” occorre un sistema disciplinare articolato, non in-dividuabile una volta per tutte in maniera definitoria, che ne-cessita adattamenti in funzione della complessità della fe-nomenica urbana.Necessita di un approccio macro-urbanistico dal quale de-riverà gli elementi essenziali della strategia localizzativa del-le funzioni di vita associata (produttive, residenziali, dei ser-vizi, del tempo libero) che costituiscono parte non esaustivadel progetto ma che assumono un’importanza decisiva nelquadro complessivo della città.Decidere, infatti, la collocazione più appropriata delle fun-zioni urbane significa cogliere il quadro articolato di interdi-pendenze all’interno della città, cogliere l’occasione di tra-sformazione e leggere le potenzialità derivanti dalle possibilisinergie derivanti non dalla sommatoria delle singole fun-zioni, ma dall’azione simultanea di ciascuna di esse nel per-seguire un determinato risultato. Trovare la collocazione più appropriata significa muoversinella ricerca di un assetto che complessivamente abbia le

caratteristiche proprie di un ambiente complesso in equili-brio, la ricerca nell’ambito urbano di un’"ecologia delle fun-zioni" (L.S. D’Angiolini 1963).Dall’approccio macro-urbanistico deriva la comprensionedelle relazioni che intercorrono tra un certo luogo e il suocontesto, tra esso e la città e tra la città e le altre città con lequali instaura un più articolato e complesso sistema.Già la Carta di Atene (La Charte d’Athènes) di Le Corbusier,che esce anonima nel 1941 a Parigi, in piena occupazionenazista, e che riassume il dibattito e le conclusioni delCongresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM)tenutosi ad Atene nel 1933, si apriva con il seguente assuntofondamentale: "Un problema di urbanistica non può essereaffrontato se non riferendosi costantemente agli elementi co-stitutivi della regione e particolarmente alla sua geografia,che ha in tal caso un compito determinante: gli spartiacque,i vicini rilievi disegnano un contorno naturale che confer-ma le vie di traffico tracciate naturalmente nel terreno.Nessuna attività può essere presa in considerazione quan-do essa non si leghi al destino armonico della regione".Questo modo di intendere la progettazione urbana deriva,dialetticamente, da un approccio micro-urbanistico che in-daga le condizioni necessarie per trasformare un “sito”, cioèuno spazio senza qualità, in un “luogo”, cioè in uno spaziourbano, con le sue caratteristiche, le sue peculiarità che nefanno un luogo non altrimenti riproducibile se non in un pro-cesso di grande semplificazione progettuale.Questo stesso processo dialettico tra approccio macro e mi-cro-urbanistico percorre ogni buon progetto di architettura,che voglia avere rilievo e consapevolezza di concorrere allacostruzione della città, anzi, nessun progetto di architetturapuò, pregiudizialmente, “chiamarsene fuori”, in quanto inogni caso presuppone una strategia e un disegno implici-to di grande scala. Disporre di una strategia macrourbanistica non significa tut-tavia trovare la chiave che, meccanicisticamente, faccia de-rivare le qualità di un progetto architettonico; ma avernedichiarata consapevolezza significa, assumendone le risul-tanze, che diverrà componente intrinseca del processo pro-gettuale, anche per le risultanze formali e simboliche. La ricerca di questo rapporto tra progetto di architettura e

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quadro macro-urbanistico è cosa diversa da un “supportourbanistico” alla progettazione architettonica, quasi che ba-sti un “quadro di riferimento” entro cui collocare il propriooggetto architettonico.È un processo impegnativo e complesso, che tuttavia oc-corre affrontare per avvicinare quella ricomposizione tra ur-banistica e architettura, che ha costituito il terreno di ricer-ca di molti più avvertiti urbanisti contemporanei, tra i qualispicca Giuseppe Samonà, che in quasi un cinquantennio,con la sua attività di scrittura, il suo insegnamento e i suoiprogetti si è adoperato a riflettere sul significato di questapossibile unità urbanistica-architettura, col fine di costruirele logiche e gli strumenti operativi utili al superamento degliattuali limiti disciplinari (G. Samonà 1978).Il Disegno urbano supera la rappresentazione bidimensio-nale del piano urbanistico, sufficiente alle logiche dello zo-ning e degli standard urbanistici, che lascia scoperta, nel-la maggior parte dei casi, quell’attenzione ad unaprogettualità attenta a restituire la complessità delle relazionispaziali e delle relazioni che rimandano alla costruzione ge-nerale della città.Il Disegno urbano supera i limiti di quell’architettura che nonsi vede come “mattone urbano”, partecipi della costruzionedel paesaggio urbano, ma che guarda esclusivamente aipropri riferimenti linguistici, ai principi e alle regole compo-sitive, o che si accontenta delle componenti tecnologiche efunzionali del progetto.Un progetto urbanistico che vuole mantenere quell’attitu-dine progettuale che ha contrassegnato, fin dall’antichità “ildisegno della forma fisica dello spazio urbano come svi-luppo delle teorie architettoniche” (B. Cravagnuolo 1973).Un modo di concepire il progetto urbanistico diverso daquell’Urban Design, definito da Christian F. Otto, che indicail processo di concezione e di realizzazione degli interven-ti fisici, che consentono di materializzare l’organizzazioneformale della crescita urbana attraverso permanenze e cam-biamenti ed è anche cosa diversa dall’essere definibile comeil campo di attività “che sta a mezza strada tra l’attività de-gli architetti e quella degli urban planners: i primi, gli archi-tetti, che si interessino della concezione formale degli edifi-ci senza poter esercitare alcun controllo formale sugli spazi

adiacenti (costruiti e non) e, tutt’al più, cercando di stabilireuna relazione tra i loro progetti e l’intorno, i secondi, gli ur-ban planners, che si occupino della ripartizione delle risor-se secondo la proiezione dei bisogni futuri” (P. Merlin e F.Choay 1988).È diverso dall’art urbain che è stata sottovalutata come per-sistenza nella progettazione urbana del XX° secolo dei me-todi della composizione urbana derivanti dalla tradizionedella Ecole des Beaux-Arts”, e che non si è affrancata dal-la preponderanza che essa ha accordato alla dimensioneestetica rinunciando nel contempo ad ogni riferimento di ca-rattere più generale (B. Cravagnuolo 1973).Questa idea di Disegno urbano potrebbe illustrarsi attra-verso molti progetti tratti dalla città costruita, quando sianocompresenti le attenzioni ai fatti dell’architettura ed, insieme,la consapevolezza delle implicazioni macro-urbanistiche. Preferiamo tuttavia farlo attraverso un’esperienza didattica,due delle molte tesi di laurea che in questi anni abbiamo se-guito e che alla pratica di questo modo di intendere il dise-gno urbano hanno fatto riferimento. In entrambi questi progetti ci sono l’ansia e la fatica di un“fare urbanistico” consapevole della necessità di una coe-renza con la città nel suo insieme, capace di ritessere i filicon la città storica e con la tradizione che, come già detto,è trasmissione ma anche evoluzione della conoscenza edè da intendersi, come per Hendrick Petrus Berlage, come“principio di progresso”. Si legge in entrambi sia il rifiuto di un’ideologia anti-urbana(già del green movement e oggi legata al credo del villag-gio globale), sia l’ideologia del “non-luogo” teorizzata in annipiù recenti da Marc Augè.

Un’introduzione all’urbanistica

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La ricerca di nuove centralità urbaneLa prima tesi, degli architetti Alessandro Barzaghi e VeronicaGaiani, sviluppata nel corso del 2001, riguarda il tema dellenuove centralità urbane del nostro tempo e prende in esamei problemi macro e microurbanistici connessi alla riqualifica-zione urbana di una antica fabbrica, posta, a mezza via traMonza e Milano.La tesi parte da una lettura del sistema insediativo milanese elombardo diversa da quella, da tanti più accreditata, che pre-sume Milano al centro di una grande conurbazione e privilegia,invece, l’antica natura policentrica degli insediamenti lombar-di mostrando come possa derivarne un diverso approccio pro-gettuale per le aree cosiddette “di frangia” o “nuova periferia”dalla tradizione di studi che si richiama alla lettura “metropoli-tana” dell’area milanese e che viceversa, in altra ottica, è oc-

casione per costituire condizioni di nuove centralità urbane. Ai margini, appunto, della “periferia” monzese e non ancora“periferia” della Milano allargata starebbe l’area della FossatiLamperti. La tesi mostra che un progetto su un’area dismes-sa come questa può non costituire, banalmente, una sorta di“occasione” di riuso urbano, ma può rappresentare un nuovopunto di cerniera urbana tra Milano e Monza, e nel contem-po rappresentare una sorta di cambiamento paradigmaticonelle relazioni tra le due città.La prima riflessione al riguardo registra una sorta di antagoni-smo che ha sempre caratterizzato il “rapporto” tra Milano eMonza. L’atteggiamento di Monza nei confronti di Milano è sta-to, storicamente, caratterizzato da una sorta di distacco, tesoquasi a ricordare il proprio antico ruolo di capitale Longobarda.Quando, con l’adozione del Piano regolatore generale redat-

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Dodici lezioni di urbanistica

Planimetria del sistema

insediativo fra Milano

e Monza.

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to nel 1964 da Luigi Piccinato, si propone la realizzazione diuna ferrovia metropolitana a Monza, si avanzano fin da subitole resistenze di quella parte della società monzese che ve-deva nel collegamento diretto con Milano, il profilarsi di unasorta di riassorbimento entro la sfera milanese della propriastruttura produttiva, commerciale e sociale, tale da metternein pericolo la stessa identità culturale. Nel periodo in cui la tesi si sviluppa la situazione sembra apri-re nuove opportunità, si leggono i segnali di una volontà dif-ferente: Monza cerca di allargare la propria sfera di relazionied in luogo di riaffermare il suo essere provincia, e costituir-sene come tale staccandosi da Milano, cerca un nuovo rap-porto con Milano anche attraverso nuove e più efficienti col-legamenti e, per contro, Milano cerca un dialogo con questa“cittadina brianzola” splendida nel suo isolamento, sede del-

la Villa Reale di cui Milano è proprietaria, e supera questoatteggiamento che non la riconosce come parte del propriohinterland, ma non sufficientemente distante da essere cit-tà, come Como, Lecco, Bergamo ecc., con cui intrattenererelazioni misurando problemi, soluzioni, punti di vista, appor-ti sinergici, come nel caso della rete politecnica che appun-to comprende le sedi di Brescia, di Lecco, di Mantova, per-fino di Piacenza.La tesi cerca di cogliere il cambiamento in atto cercando dileggere, all’interno della maglia di un sistema policentrico ur-bano, il ruolo specifico che Monza viene ad assumere alla ri-cerca di nuovi equilibri, dove nessuna città eserciti un ruolo diprevalente attrazione. Questa trasformazione in atto coglieva Lucio Stellario D’Angioliniin un Convegno del 1994 quando illustrando “il cambiamento

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Il sistema insediativo nell’area

milanese e lombarda.

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dell’armatura urbana della Città Lombardia”, per le condizio-ni, i modi, l’uso di città, vedeva come per Monza i problemi ditrasporto si pongano in doppia serie di opportunità: le scelteche riguardano il Sistema Ferroviario Regionale e quelle cheriguardano i trasporti urbani milanesi”.Riconoscendo, dunque, come il ruolo del sistema delle rela-zioni trasportistiche possa modificare il sistema dei rapportidelle polarità urbane, la tesi avvia una propria autonoma ri-flessione sulle alternative di un collegamento tra Milano e Monzaipotizzando come una nuova linea metropolitana possa dar-

si occasione di disegno urbano, con nuovi e specifici conte-nuti, in un’area come quella della Fossati Lamperti, luogo dicerniera tra le due città.Si sono considerate criticamente quattro diverse ipotesi ditracciato per la nuova linea metropolitana, considerandoliin relazione a tre elementi costituiti dall’eventuale prolunga-mento della linea M1 dall’attuale terminale posto alla sta-zione ferroviaria di Sesto San Giovanni, dal prolungamentoverso nord della finanziata nuova linea metropolitana 5, dal-la stazione ferroviaria sul Passante di Porta Garibaldi

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Dodici lezioni di urbanistica

La tendenza insediativa

nell’area lombarda fra il 1888

e il 1935.

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all’Ospedale di Niguarda (la Cà Granda), e, terzo, dallagià finanziata linea metropolitana interna a Monza.Nella prima ipotesi la M1 prosegue dall’attuale capolinea diSesto S. Giovanni verso nord fino al nuovo terminale in locali-tà Bettola di Monza (Stazione di Monza-Bettola), dove si pre-vede un importante parcheggio d’interscambio a ridosso del-lo svincolo con la bretella autostradale. Si ipotizza poi che la linea prosegua verso nord deviando sul-la direttrice storica che congiunge Milano a Monza (la viaBorgazzi) e approdando su un’area libera, già utilizzata come

deposito autobus dalla Società di trasporto monzese, la TPM.Qui avverrebbe l’interscambio con la prevista metropolita-na leggera interna a Monza, che utilizza una tecnologia det-ta “a fune”, simile a quella in esercizio tra la stazione M2 diGobba e l’Ospedale S. Raffaele ai confini con Segrate e checollega la stazione ferroviaria di Monza, la Villa Reale,l’Ospedale San Gerardo, la futura “Cittadella Giudiziaria” efinanziaria prevista dal Nuovo Prg di Monza sulle aree del-la ex “Caserma 4 Novembre”.In questa soluzione si ipotizza che la prevista M5 (Porta

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La tendenza insediativa

nell’area lombarda fra il 1980

e il 1994.

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Garibaldi-Cà Granda) prosegua oltre i confini di Milano lun-go la direttrice del Viale Fulvio Testi (a Milano) e Viale Lombardia(a Monza) fino a raggiungere l’area della “Cittadella Giudiziaria”e lì interscambiare con la metropolitana leggera di Monza. Il principale aspetto negativo contenuto in questa propostaemerge se si considera che il proposto percorso della M5 se-gue una direttrice, il Fulvio Testi, che non ha ai margini signifi-cativi insediamenti terziari e residenziali ma ha mantenuto es-senzialmente l’originaria natura di strada “espressa” che noninteragisce in modo diretto con il tessuto circostante, soprat-tutto nel disegno di un suo progetto futuro che ne prefigura l’in-terramento per motivi ambientali.La seconda ipotesi prevede che la M1 sia prolungata solo fino

alla stazione di Monza-Bettola e quì interscambi con una M5,anch’essa prolungata, che in luogo di proseguire lungo il VialeLombardia pieghi ad est in prossimità dello svincolo autostra-dale. Dopo l’interscambio con la M1, la M5 proseguirebbesu via Borgazzi ricalcando il tracciato della metropolitana “afune”; come si vede questa soluzione avanza l’ipotesi che simantenga sia per la M5 che per la linea di metropolitana leg-gera di Monza un medesimo sistema tecnologico che quindiabbandoni l’utilizzo del sistema a fune, uniformandolo al si-stema della metropolitana leggera ad automatismo integraledella M5.Entrambe queste soluzioni prevedono la realizzazione, in im-minente corso di appalto, della nuova Metrotranvia Milano-

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Dodici lezioni di urbanistica

Contesto urbano dell’area

della vecchia fabbrica Fossati-

Lamperti a Monza.

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Cinisello Balsamo, linea di superficie prevalentemente in sederiservata, o protetta. È proprio questa presenza ad evidenziare la debolezza delledue soluzioni ipotizzate che non servono direttamente un ba-cino d’utenza molto elevato quale quello circostante CiniselloBalsamo.Si è presa in esame pertanto una terza ipotesi, che si discostadalle tendenze in atto, assunte dalle due Amministrazioni diMilano e Monza, per considerare come problema cui occorredare una risposta in tempi brevi costituito dai nuovi insedia-menti prossimi sulle aree della ex Falk-Vulcano. Per dotare di un adeguato sistema di trasporto collettivo que-sti nuovi insediamenti la M5 viene fatta deviare all’altezza del-

l’area Bicocca, interscambierebbe con la M1 sul Viale Monza(in Milano)in prossimità della fermata di Sesto-Marelli, e proseguirebbeverso nord attraversando l’area Falk-Vulcano. Procederebbe quindi verso Monza costeggiando la ferrovia,ricalcando a questo punto il tracciato previsto della metropo-litana a fune di Monza. Per la M1 non si prevederebbe, quin-di, il prolungamento oltre l’attuale terminale della stazioneferroviaria di Sesto San Giovanni.La quarta ipotesi rappresenta la sintesi tra le proposte pre-cedenti, e sembrerebbe ottimizzarle in quanto offre la possi-bilità di servire le principali aree di vecchio e nuovo insedia-mento con un’unica linea metropolitana.

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Planivolumetria del progetto

di disegno urbano dell’area

della fabbrica Fossati-

Lamperti a Monza.

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La linea metropolitana ad automatismo integrale, come la M5,propone un tracciato che parte dalla stazione del PassanteFerroviario di Garibaldi-Repubblica, attraversa il quartiere Isola,raggiunge l’Ospedale Cà Granda e il Parco Nord e dopo l’op-portunità di interscambio con la M3 in Zara, prosegue nel cen-tro di Cinisello Balsamo, rendendo progressivamente super-flua la metrotranvia Milano-Cinisello. Oltrepassata Cinisello, servirebbe le aree di Nova Milanese edi Muggiò fino a raggiungere la “Cittadella Giudiziaria” di Monza,nel luogo deputato a diventare nuovo centro servizi polifun-zionale. La soluzione, tra l’altro, non esclude la possibilità diuna biforcazione della linea per servire Seregno e Desio.In questo modo si crea un vero e proprio “anello” che si chiu-de con l’interscambio con la M1 alla Fossati Lamperti e chelascia aperta la possibilità di proseguire verso le aree dellaex-Falk.

Il prolungamento della M1 andrebbe oltre la stazione di Monza-Bettola raggiungendo le aree della ex Fossati-Lamperti.Su queste aree si avrebbe così non solo una generica riquali-ficazione urbana ma si identificherebbe il punto di giunzionetra le due città rappresentato dal luogo dell’interscambio tradue sistemi diversi, quello milanese della M1, metropolitana tra-dizionale ad alta capacità, e quello con la M5, metropolitanaleggera con tecnologia innovativa per una domanda più con-tenuta ma i cui standard di servizio sarebbero pari se non su-periori a quelli garantiti dall’attuale metropolitana di Milano.Il nuovo collegamento con questi presupposti rende disponi-bile la Fossati Lamperti ad una radicale trasformazione: di-venta luogo di giunzione tra le due città e contemporanea-mente tra due parti della stessa città di Monza, cerniera tra idue sistemi di trasporto metropolitani urbani di Milano e Monzacon livelli di accessibilità tali da rendere appetibile la localiz-

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Pianta a quota -0,00.

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zazione di funzioni urbane di livello superiore che potrebberoaffiancare quelle più propriamente di carattere locale.Il disegno urbano evidenzia i tracciati delle due metropolitanecon la precisa volontà di dimostrare che un interscambio puògenerare una serie di funzioni tali da dare un nuovo significa-to ad un’intera area tale da dare senso all’asserita “NuovaCentralità Urbana”.Le funzioni che troverebbero opportunità di insediamento sonoattività produttive e di ricerca ad alto contenuto tecnologico.Non un terziario generico, ma un terziario “avanzato” che fa-vorisca il collegamento culturale tra ricerca, sperimentazione

e realtà produttiva, dove le imprese possano trovare un dia-logo e mettere in gioco le proprie capacità e la propria espe-rienza per creare prodotti innovativi di qualsiasi tipo. Un pro-getto di attività che favorisca una sorta di “autosviluppo” perquelle attività che caratterizzano Monza e la Brianza. Leggendo il progetto di Disegno Urbano si vede come unanuova strada, che corre parallela alla M1 attraversando in sot-terranea la via Borgazzi, si collega ad una via (la via MonteGrappa) che muta notevolmente il suo carattere trasforman-dosi in collegamento tra il nord della città e la parte sud al con-fine con Sesto San Giovanni.

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Dodici lezioni di urbanistica

Vista assonometrica del

progetto.

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A nord si congiunge alla via Mentana, sottraendo in questomodo gran parte del traffico che congestiona il centro di Monzae il largo Mazzini, facilitando l’accesso alla stazione ferroviaria(dove si potrebbero realizzare nuovi parcheggi e nuovi sotto-passi pedonali) ed al “capolinea” delle linee metropolitane.Il disegno urbano, illustrato da queste immagini, consideracome si è visto una molteplicità di fattori, non da ultimo la vi-cinanza con un sistema del verde da proteggere e valorizza-re come quello che circonda la cosiddetta “Cascinazza”, ca-ratterizzato dai suoi campi regolari e dalle rogge che ne fannoun tipico esempio di paesaggio agrario lombardo.

L’allineamento con la Cascinazza e con il suo possibile riusodiventa una traccia nel disegno del progetto: è il verde, il par-co che “entra” nel Polo Tecnologico; la presenza del FiumeLambro e del canale Villoresi, che condizionano ma caratteriz-zano le forme, il parco che entra anche da nord seguendo l’an-damento della nuova Milano-Monza, la presenza-limite dellaferrovia diventano, così, segni direttori del disegno urbano.

Un’introduzione all’urbanistica

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Dodici lezioni di urbanistica

Vedute aeree della città di

Porto Torres, in Sardegna.

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La ricerca di nuovi ruoli nella città industriale che cambiaLa seconda tesi, dell’arch. Fabio Bruno, completata nel 2002,riguarda il progetto di un Parco Scientifico Tecnologico a PortoTorres sulle aree di una parte delle dimesse aree del centropetrolchimico dell’Enichem. A questa soluzione si è arrivatiattraverso un interessante processo di ricerca partito dallarisoluzione del problema microurbanistico di realizzare unnuovo approdo al terminale delle linee di traghetto intercon-nesso con una nuova stazione ferroviaria, una stazione au-tolinee e un grande parcheggio d’interscambio così da con-figurare un centro intermodale passeggeri capace dirappresentare, anche simbolicamente, una “porta” dell’Isola.Questa ipotesi di lavoro si è modificata progressivamente,ampliando la propria sfera di interesse, in seguito ad una ap-profondita valutazione che ha tenuto conto di una maggio-re complessità dei problemi che caratterizzano questo con-testo urbano.Già oggi Porto Torres rappresenta una delle principali “por-te” della Sardegna in quanto è uno dei maggiori porti com-merciali passeggeri. È anche uno dei più importanti porti perla movimentazione di merci, in entrata e in uscita, soprattut-to legate alla produzione petrolchimica.Il porto è collegato dalla statale “Carlo Felice”, che costitui-sce la dorsale stradale più importante della Sardegna cheunisce i due centri urbani più importanti, Cagliari e Sassari,e che svolge funzione di collegamento dei principali inse-diamenti produttivi, direzionali e residenziali con i principalipoli di interscambio con l’esterno, ivi compresi, in certi casicon brevi digressioni, gli aeroporti.I tratti di questa direttrice dove il traffico è più intenso sonoquelli terminali, nell’intorno di Cagliari, di Sassari e anche diPorto Torres, per via delle attività e delle funzioni urbane, chesono soprattutto concentrate nei due principali capoluoghie per via dell’essere questi centri anche i principali, anchese non i soli, approdi all’isola (si pensi ad esempio al ruolocrescente assunto dal porto di Olbia-Golfo Aranci, storica-mente il più diretto collegamento con Civitavecchia e Livorno,e soprattutto dall’aeroporto di Olbia, che in passeggeri annoha superato largamente l’aeroporto di Alghero).La “Carlo Felice”, arrivando all’antico porto, attraversa oggicentralmente Porto Torres svolgendo quindi il doppio ruolo

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Dodici lezioni di urbanistica

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di strada urbana e di grossa arteria di traffico con inevitabilieffetti congestivi per il traffico di lunga e media distanza edi poca vivibilità per l’abitato in quanto il transito dei veicoli,soprattutto nelle ore di punta coincidenti con le operazioni diimbarco e di sbarco che sovrapponendosi al traffico ordina-rio urbano congestionano la città.Anche per queste condizioni, i passeggeri che usufruisco-no del porto, raramente sono interessati alla città e, per con-tro, la città vive queste attività, altrimenti interessanti per ilcommercio, con sofferenza. A ciò si aggiunge che il portomanca di adeguate strutture di accoglienza e le funzioni pre-senti (biglietteria, ristoro, servizi igienici, ecc.) sono dissemi-nate in diversi edifici; inoltre per i passeggeri senza auto al

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Vedute dell'area

di progetto di un Parco

scientifico tecnologico

a Porto Torres.

Foto dal satellite della Nurra,

in Sardegna.

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Dodici lezioni di urbanistica

Indagine sulle Unità locali e gli

addetti per settore produttivo

dell’area di Porto Torres.

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seguito, non è agevole l’interscambio fra la nave il treno o gliautobus.L’ipotesi iniziale era quindi quella di strutturare l’approdo comeCentro d’interscambio attrezzato connotato da un ruolo ur-bano più marcato e da un migliore rapporto tra l’approdo ma-rittimo e la città.Tuttavia il problema localizzativi della nuova struttura inter-modale portava fatalmente ad imbattersi in un problema an-cora più grave per la città e per un contesto più ampio: il polopetrolchimico di Porto Torres. Questo, sviluppatosi progressivamente a partire dai primianni ’60, copre un’estensione superiore alla dimensione delcentro abitato: 1450 ettari.Posizionato a ridosso della città al di là del Rio Turritano hacondizionato notevolmente lo sviluppo urbanistico del cen-tro abitato determinando una crescita abnorme della popo-lazione e una espansione urbana disordinata e difficilmen-te regolamentabile; la città, bloccata ad ovest dagli impiantie dalla ferrovia, si è estesa lungo la statale e tra questa e lacosta settentrionale e, quasi a porre una zona di salvaguar-dia tra sé e il polo, ha lasciato una vasta area libera fra cen-tro abitato e zona industriale in profondo stato di degradoin quanto non attrezzata come zona “filtro” a parco e quasiin perenne attesa di nuova urbanizzazione.L’approccio con la presenza del polo petrolchimico è statocondotto con l’intento di valutarne, da un lato, l’importanzanel contesto produttivo petrolchimico nazionale, dall’altro ilruolo nell’economia provinciale e in particolar modo del con-testo territoriale circostante, la Nurra sassarese con i trepoli urbani di Sassari, Alghero e Porto Torres.L’impianto, nonostante sia stato iscritto dall’EniChem fra le“bad companies”, cioè tra gli stabilimenti da cedere o da li-quidare, nel giro di pochi anni, ha ancora oggi una ricono-sciuta buona produttività e risulta competitivo a livello nazio-nale. Impiega direttamente quasi 1500 addetti, oltre un indottoche, nell’insieme, costituiscono la struttura portante dell’e-conomia di Porto Torres e un elemento fondamentale nell’e-conomia della Nurra e della Provincia.La tendenza dell’EniChem negli ultimi anni sembrerebbequella di ritirarsi dal campo della chimica, scelta che signi-ficherebbe di fatto l’abbandono della chimica a livello na-

zionale, ha trascinato Porto Torres in una situazione di graveincertezza. Se si avverasse la ventilata chiusura dello stabilimento sen-za offrire una valida alternativa, ne scaturirebbe una situa-zione catastrofica per l’economia locale; ma all’ENI stessa,evidentemente, appare difficilmente gestibile lo smobilizzodi un patrimonio industriale cosi importante e sembrerebbevoler offrire un’alternativa alla città e al territorio. Le proposte fin qui avanzate sono, per contro assai deboli;infatti sembrerebbero riguardare una generica riconversio-ne verso attività turistiche nella consapevolezza, ammessadalla stessa industria, che “l’attuale vocazione industriale del-la città non è facilmente superabile” e che “le risorse naturalidella città non consentono di ipotizzare, con successo, unmodello di turismo marino simile a quello che contraddi-stingue Castelsardo e Stintino”, cioè le località prossime,insieme ad Alghero, storicamente meglio dotate di infra-strutture e certamente di maggior pregio sotto il profilo pae-sistico-ambientale.Ogni altra valutazione circa un possibile mantenimento diun’attività rivolta al medesimo settore produttivo e di pari va-lore obbligherebbe ad una profonda riorganizzazione deiprocessi produttivi attraverso una riconversione dalla chimi-ca di base a settori a maggior valore aggiunto quali quellofarmaceutico e della cosmesi.Meglio ancora se si potesse spostare questa riconversionedalla vendita del prodotto a quello della conoscenza realiz-zando un polo, ancora mantenuto nel settore della chimica,strettamente legato alla ricerca e alle strutture universitarie,nel quale soprattutto la sperimentazione fosse il motore trai-nante. Un polo chimico avanzato che sviluppi ambiti di ri-cerca anche nel campo della salvaguardia ambientale fortedel suo attuale know-how. Una tale soluzione proietterebbePorto Torres come centro di eccellenza nella ricerca e nellasperimentazione nei campi chimico e ambientale e quindicon ampie possibilità di estendere il campo di interesseper soddisfare nuove esigenze.L’ampia disponibilità di spazi, unita alla facilità di accesso of-ferta dal porto e dall’aeroporto costituiscono elementi favo-revoli ad uno sviluppo proiettato verso la collaborazione coni Paesi in via di sviluppo permettendo a Porto Torres assu-

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mere una posizione di rilievo nel trasferimento di conoscen-za nel bacino del Mediterraneo ed in particolare dell’Africasettentrionale. La partecipazione dell’università all’iniziativapuò essere favorita dalla recente inversione di tendenza, ve-rificata anche a livello nazionale, delle iscrizioni universitariefavorite dall’ampliamento dell’offerta formativa, oltre chedai corsi di diploma universitario, ed in particolare di quelladel gruppo scientifico.Per valutare in concreto l’apporto ipotizzabile da parte del-le università dell’Isola sono state considerate le sedi univer-sitarie che avrebbero interesse al progetto.

La sede universitaria più vicina, quella di Sassari, conta die-ci Facoltà: Agraria, Economia, Farmacia, Giurisprudenza,Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature Straniere, Medicinae Chirurgia, Medicina Veterinaria, Scienze Matematiche,Fisiche e Naturali e Scienze Politiche.Nella logica di perseguire un disegno di “università a rete”come l’attuale tendenziale struttura del Politecnico di Milano,si potrebbe proseguire nel disegno che ha localizzato adAlghero la Facoltà di Architettura, trasferendo, e incremen-tando all’occorrenza, a Porto Torres i corsi di laurea di ca-rattere scientifico: Farmacia, Scienze Matematiche, Fisiche

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Dodici lezioni di urbanistica

Indagine sul sistema

dell'Università, Centri di

Ricerca e Parchi Scientifici

Tecnologici in Italia.

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e Naturali. Inoltre si potrebbe affiancare a queste una nuovaFacoltà di Chimica e di Ingegneria Chimica, oggi presentia Cagliari.Ulteriori ambiti di studio (e di ricerca) possono attivarsi nelcampo della ricerca di fonti rinnovabili di produzione di ener-gia, dopo l’esperienza, in verità poco felice, della centraleeolica sperimentale di Fiumesanto, proprio vicino a PortoTorres, nel settore delle fonti di energia derivanti dalle bio-masse applicabili ad impianti produttivi che, come già ac-caduto per l’EniChem, sono sfavorite dall’importazione dienergia elettrica.

Inoltre, i centri di ricerca, oggi tutti di modeste dimensioni,potrebbero, concentrandosi a Porto Torres, condividere lestrutture e accrescere la loro competitività.L’area dove insediare le nuove funzioni è stata individuataimmediatamente a ovest del fiume, in quella “terra di nessu-no” che funge da anticamera a chi dalla città si reca al pe-trolchimico.Questa scelta può rivelarsi strategica sotto diversi punti di vi-sta: innanzitutto cerca di ricucire la frattura fra città e polo in-dustriale, andando ad occupare un’area attualmente privadi funzioni e in situazione di forte degrado; in secondo luo-

Un’introduzione all’urbanistica

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Indagine sul sistema

dell'Università, Centri di

Ricerca e Parchi Scientifici

Tecnologici in Sardegna

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Dodici lezioni di urbanistica

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go permette di fluidificare notevolmente i trasporti. Si deci-de, infatti, di realizzare un nuovo porto civico nel tratto di marecompreso fra i due porti esistenti (civico e industriale), im-mediatamente a ovest della foce del Rio Turritano e diretta-mente messo in relazione col Parco Scientifico Tecnologico;il porto civico esistente andrà ad assumere, opportunamen-te rimaneggiato, il ruolo di porto turistico e pescherecci, fun-zioni che più facilmente si legano alla città.I collegamenti del porto con l’interno dell’isola saranno ga-rantiti dalla variante del tratto terminale della Statale. 131 che,passando per l’attuale circonvallazione, arriva al nuovo por-to senza attraversare la città, risolvendo i problemi di con-gestione precedentemente enunciati.La città è servita anche dalla linea ferroviaria complemen-tare che, passando per Sassari, arriva a Chilivani dove si in-nesta sulla "dorsale sarda", linea fondamentale che collegaOlbia a Cagliari. La realizzazione della ferrovia ha arrecato notevoli inconve-nienti alla città. Terminata nel 1872, ha contribuito pesante-mente, insieme all’infrastrutturazione stradale, alla distruzio-ne dei resti archeologici dell’antica città romana, nucleooriginario dell’attuale Porto Torres. La collocazione dei binari scinde in due parti la vastissimaarea termale di quella che fu Turris Libisonis, provocandodanni irreparabili alle principali testimonianze della impor-tanza della città nella storia antica.Questa linea ferroviaria potrebbe utilmente essere deviataverso il nuovo porto dove verrebbe a realizzarsi la nuova sta-zione marittima; tale deviazione permetterebbe di “libera-re” l’area archeologica da un intruso tanto ingombrante quan-to scarsamente produttivo se si considera che attualmenteil numero dei vagoni merci che raggiunge il petrolchimiconon supera il numero di 20 unità l’anno.A definire il disegno urbano concorre anche un’altra grandericchezza di Porto Torres, costituita dai resti archeologici ri-salenti soprattutto al periodo romano: il ponte romano sul rioTurritano, che collega Porto Torres con la Nurra, costruito nelI secolo d.C., il grande complesso termale risalente al II-IIIsecolo d.C. chiamato Palazzo del Re Barbaro, e la basilicadi San Gavino, capolavoro dell’architettura romanica, ini-ziata nella seconda metà del XI secolo.

Un’introduzione all’urbanistica

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Immagini di Porto Torres fra

Ottocento e Novecento.

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L’insieme di questi resti potrebbe configurarsi in un ParcoArcheologico con l’avvio di campagne di scavi mirate a ri-portare alla luce gli ulteriori resti ancora sepolti e valorizza-re quelli già rinvenuti potrebbe agire da stimolo per lo svi-luppo di un turismo culturale che esclude oggi Porto Torres,da un itinerario che vede i numerosi resti presenti in questaparte della regione che affonda le sue radici nella civiltàpaleolitica con i complessi di Monte d’Accoddi e di AngheluRuju e che si sviluppa nel pieno della civiltà neolitica del bron-zo e del ferro. A tale progetto di Parco Archeologico po-trebbe contribuire con originalità la neonata Facoltà diArchitettura di Alghero.

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Le reti di mobilità del sistema

urbano di Porto Torres.

Vista zenitale del modello

del progetto per un Parco

scientifico tecnologico

a Porto Torres.

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Dodici lezioni di urbanistica

Articolazione funzionale

dell'intervento di Parco

Scientifico tecnologico

a Porto Torres.

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Questa valorizzazione in Porto Torres di una più estesa ri-sorsa culturale e archeologica potrebbe dare un contributoall’allargamento della base economica della città come poloindustriale.Il sito, con il complicarsi delle sovrapposizioni storiche e ar-cheologiche, determina sul piano micro-urbanistico, arric-chendolo, il Disegno Urbano del Parco Scientifico Tecnologico.Il progetto, magari con troppa enfasi, mette al proprio cen-tro il Ponte Romano che, mantenendo la peculiarità di es-sere utilizzato come attraversamento pedonale, assume ilruolo di asse ordinatore e assume, nella logica delle città di

fondazione, i due assi perpendicolari del cardo e del decu-mano, alla cui intersezione si sviluppa una piazza. Qui fanno capo e si accentrano le funzioni collettive quali ilCentro Congressi e la Biblioteca; da essa si dirama tutto l’ar-ticolarsi delle funzioni del Parco Scientifico. Attraverso il pon-te romano si raggiunge il Parco Archeologico e di qui il cen-tro storico della città.Ad ovest, sulla direttrice che porta allo stabilimento petrol-chimico, è posizionato il Centro di Ricerca. Sulla maglia or-togonale si sviluppa uno spazio aperto centrale, che si al-lunga verso la piazza, alla cui estremità si collocano gli edifici

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Planimetria generale

dell'intervento.

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amministrativi del Centro di Ricerca; sui lati lunghi si affac-ciano i laboratori. Il disegno non insiste su una edificazioneesaustiva delle potenzialità del programma edilizio: preferi-sce indicare l’ordito, i tracciati ordinatori ed i campi che sa-ranno oggetto dei futuri sviluppi.A nord si trova il nuovo porto, sostitutivo dell’attuale appro-do: una grande piattaforma avanzata sul mare dove possa-no attraccare più navi contemporaneamente. Su di essa sonoi piazzali per l’imbarco e lo sbarco ed il lungo asse, che rag-giunge la piazza, è accompagnato da un edificio sul suo svi-luppo dotato di quanto serve per l’accoglienza dei viaggia-tori, per la sosta in attesa dell’imbarco. Questo corpo difabbrica si collega, a sud, alla stazione intermodale dove, ol-tre alla stazione marittima, sono ospitate la stazione autobus,il parcheggio dei taxi e le attività di noleggio.La ferrovia è scavalcata con un attraversamento pedonalein quota, e di qui si procede lungo la strada che porta allapiazza, coronata da bar, ristoranti, ostelli.A sud della piazza, gli edifici adibiti a terziario.La sede universitaria occupa le aree a sud-est, in posizioneprivilegiata riguardo il rapporto con la città; occupa l’areache, nei primi anni del 1900, ospitava la stazione della tele-ferica che trasportava al porto i minerali estratti nelle minie-re della Nurra.

Da questa posizione domina con un punto di vista privile-giato sulla città, ed insieme sul Parco Archeologico e, percontro, fa bella mostra di sè, mostrandosi come elemento no-tevole per la città nei modi che lungo il fiume si sono imma-ginati per Bilbao.Elemento eccezionale questa architettura immaginata, chetuttavia si sviluppa su una maglia ortogonale secondo la lo-gica generale dell’intervento e ruotata di 45 gradi rispetto aglialtri assi ordinatori si adatta alla conformazione del terreno.Le ragioni della grande scala si incontrano con le ragioni del-l’architettura e del paesaggio: macro e micro-urbanistica sonoimmanenti nel progetto senza prevaricazioni disciplinari.

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