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Un’introduzione Un’introduzione Gabriele La Porta IL DOPPIO

Un’introduzione Gabriele La Porta IL DOPPIO. Il DOPPIO Gabriele La Porta Assistenti: Simona Condorelli – Egidio Senatore

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Gabriele La Porta IL DOPPIO

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Nella tradizione iranica il doppio celeste dell’anima riveste i tratti della Daena. La quale apparirà all’anima all’aurora che segue la terza notte dalla sua dipartita da questo mondo, quando l’anima del giusto deve affrontare la prova del passaggio sul ponte Chinvat. Lì ha luogo l’incontro del giusto con la sua Daena sotto l’aspetto di una fanciulla di incomparabile bellezza.

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Alla domanda dell’anima destinata al paradiso, che chiede: chi sei? Ella risponde: io sono in persona la fede che hai professato, colei che te l’ha ispirata, che ti ha guidato e riconfortato ed ora ti giudica; ero bella e tu m’hai fatto ancora più bella.

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Per gli Gnostici valentiniani ognuno di noi, nel mondo della generazione, esiste quale “immagine” depauperata di un Angelo trascendente, che è noi stessi nella forma della pienezza, il nostro pleroma.

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Mediante l’unione dell’“immagine” e del suo Angelo si compie la rigenerazione nella forma di “nozze mistiche”, di “matrimonio spirituale”. Nella angelologia valentiniana ogni angelo inviato da Cristo per la redenzione del seme spirituale è Cristo stesso in relazione all’esistenza individuale.

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In quella affascinante versione poetica del mito gnostico che è l’Inno della perla il principe che, nella sua discesa nel mondo materiale (simboleggiato dall’Egitto), aveva dimenticato la sua origine, ritorna alla coscienza del suo vero essere quando gli si fa incontro la splendida veste abbandonata all’inizio del viaggio. La veste, nella quale egli si specchia, simboleggia il suo gemello celeste, il suo Io trascendente.

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È nel manicheismo che il tema del gemello celeste trova l’esplicazione più perspicua. A cominciare dalla persona stessa di Mani, il quale parla del suo “gemello”, apparsogli in due riprese per annunciargli la sua missione ed istruirlo. Nella tradizione occidentale esso si manifesterà anche come Cristo, nella tradizione orientale come Vergine di Luce.

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Quello che Mani chiama il suo syzygos è detto il suo consigliere, l’ausiliario, il guardiano, colui che lo proteggerà e sosterrà in ogni circostanza. In esso, come in uno specchio, si rivela a Mani come la propria “forma” trascendente. Entrambi sono espressione di un solo e medesimo essere su due piani e due livelli diversi.

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Anche ogni altra anima ha il suo doppio celeste, che presiede alla sua salute quale nous individuale ed è destinato a guidarla verso il regno della Luce. Colui che ne avrà coltivato l’immagine nella propria mente ne avrà la visione al momento della morte, allorché gli apparirà con gli stessi tratti della Daena zoroastriana.

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La Figura in questione si ripresenta nella gnosi islamica, in ispecie nei racconti visionari. In particolare, merita di essere citato il Racconto dell’esilio occidentale di Sohravardi (1155-1191). La “natura perfetta” di cui questi parla è l’Angelo che rappresenta l’“Io di luce”, separato dal quale si trova l’io esiliato nel mondo materiale. Liberato dal suo ottenebramento, questi potrà ritornare alla sua vera patria, ricongiungendosi alla sua “natura perfetta”. La teosofia illuminativa di Sohravardi è formulata in termini che manifestano un’influenza manichea.

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La gnosi propria al catarismo concepisce la salvezza come ricostituzione della sizigia anima-spiritus, che aveva subito uno smembramento in occasione della caduta dell’anima. Lo spiritus sanctus, rimasto saldo in cielo, costituisce l’Io trascendente dell’uomo, la sua parte angelica.

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Ad esso Dio ha affidato la custodia di ciascuna anima. Esso discende per ricondurre l’anima al cielo. Rappresentato come un angelo, esso svolge nei confronti dell’anima il ruolo di Salvatore. Con il rito del consolamentum scendeva sul neofito lo spiritus paraclitus ad operare il ricongiungimento dell’anima con il suo “coniuge” celeste.

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Nella Commedia Beatrice viene la prima volta presentata indirettamente, nel canto II dell’Inferno, attraverso il discorso di Virgilio che riferisce dell’incontro con lei, discesa dal suo scanno in cielo per venire in soccorso di colui che definisce «l’amico mio, e non de la ventura». A noi sembra che una definizione come questa aderisca meglio di tante altre, più pedestri, alla interpretazione di Beatrice quale Angelo personale di Dante, testimoniando di uno stretto legame del tutto particolare con lui, che rischia di perdersi.

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Sin da principio ella appare come un’entità redentrice, capace di restituire l’“amico suo” a se stesso, al suo essere autentico, liberandolo dalla servitù alle potenze mondane. Il che viene confermato, compiutasi l’opera, nell’inno di gratitudine che le sarà diretto: «Tu m’hai di servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi, / che di ciò fare avei la potestate».

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Del rapporto particolare che, ai fini della salvezza dell’individuo Dante, ha con lui il suo Angelo personale si può leggere anche nel verso nel quale Beatrice chiede che lo si aiuti «sì ch’i’ ne sia consolata». Anche la controparte celeste, rimasta dimidiata, aspira non meno che quella terrena alla ricomposizione dell’unità.

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Questo verso ha di che intrigarci, poiché può essere letto come alludente al rito del “consolamento”, fondamentale nel catarismo.

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