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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PVIAAlucacalatroni.weebly.com/uploads/2/3/7/8/23782219/... · 2018. 9. 9. · pensare alla eoriaT di Morse come ad un potente strumento in grado di fornirci

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  • UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIAFACOLTÀ DI SCIENZE MM. FF. NN.

    Dipartimento di Matematica

    Alcuni risultati sulla

    Teoria di Morse

    Relatore:

    Dott.ssa Paola Frediani

    Tesi di Laurea di

    Luca Calatroni

    Anno Accademico 2008/2009

  • Indice

    Introduzione 2

    1 Concetti e risultati preliminari 41.1 Omotopia e gruppo fondamentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4

    1.1.1 Omotopia di applicazioni continue . . . . . . . . . . . . . . . . . 41.1.2 Il gruppo fondamentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6

    1.2 Omologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81.2.1 Omologia singolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91.2.2 Sequenze esatte e scissione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

    1.3 CW-complessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131.3.1 De�nizione, esempi e prime proprietà . . . . . . . . . . . . . . . . 131.3.2 Omologia cellulare e CW-complessi . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

    2 Punti critici, funzioni di Morse e di�eomor�smi 192.1 De�nizioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192.2 Un primo risultato: il lemma di Morse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212.3 Esistenza di funzioni di Morse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232.4 Gruppi ad un parametro di di�eomor�smi . . . . . . . . . . . . . . . . . 28

    3 Omotopia e valori critici 303.1 Funzioni di Morse e omotopia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303.2 Equivalenza a CW-complessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

    4 Le disuguaglianze di Morse 394.1 Disuguaglianze in forma debole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 414.2 Disuguaglianze in forma forte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

    5 Applicazioni ed esempi 445.1 Teorema di Reeb . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 445.2 Gruppi di omologia di CPn . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 455.3 Studio della funzione altezza de�nita sul Toro . . . . . . . . . . . . . . . 46

    Bibliogra�a 49

    1

  • Introduzione

    In questo breve lavoro cercheremo di descrivere alcuni dei risultati più importanti dellaTeoria di Morse, un ambito molto vasto della geometria di�erenziale che deve il suonome al matematico americano Marston Morse il quale, tra le altre cose, si occupòdelle relazioni esistenti tra la topologia di una generica varietà di�erenziabile M e lecaratteristiche di particolari punti critici di una funzioni di classe C∞ de�nite sullavarietà.L'idea cardine della Teoria di Morse è la seguente: considerata una funzione f : M → Rdi classe C∞ e avente solo punti critici non degeneri, se nell'intervallo della retta reale[a, b] non ci sono valori critici di f , allora gli insiemi di livello fa = f−1(−∞, a] e f b =f−1(−∞, b] sono omeomor�; se, invece, esiste un valore critico per f che chiamiamoc ∈ (a, b), allora possiamo ottenere f b da fa 'attaccando', per ogni punto criticodell'insieme f−1(c), una cella la cui dimensione sia uguale all'indice di tale punto.Poichè tale operazione di attaccamento di una cella ha conseguenze sull'omologia dellospazio topologico f b, la presenza e la quantità di punti critici aventi un dato indicepuò essere valutata studiando i gruppi di omologia della varietà M . Possiamo quindipensare alla Teoria di Morse come ad un potente strumento in grado di fornirci unnuovo modo di studiare la topologia di una varietà M dalla sola analisi degli insiemidi livello prima nominati.

    Le applicazioni di tale Teoria sono molteplici: Topologia Algebrica, Algebra Omo-logica, Geometria Di�erenziale, Analisi Reale e Funzionale e molti altri ambiti ancora.Uno di questi, particolarmente interessante e reale, riguarda l'elaborazione e il tratta-mento di immagini. Per dare un'idea di tale applicazione dobbiamo immaginare che,attraverso opportuni usi di tale teoria, è possibile ricostruire una super�cie o, gen-eralmente parlando, una varietà di�erenziale tramite la sola analisi di funzioni liscede�nite su essa. Come vedremo più nel dettaglio nel presente lavoro, infatti, l'analisidei punti critici di tali funzione, permette di ricavare informazioni algebriche e, so-prattutto, topologiche sulla natura della varietà, ricostruendola qualora essa sia unasemplice immagine acquisita da uno scanner.

    Nel capitolo 1 di questo lavoro introdurremo i concetti di Topologia Algebricamaggiormente coinvolti nella Teoria di Morse. De�niremo e analizzeremo, infatti, leproprietà dell'omotopia, dell'omologia e costruiremo dei nuovi spazi topologici, i CW -complessi, che ricorreranno quando entreremo nel vivo della trattazione. Di questivaluteremo l'omologia e de�niremo il concetto di caratteristica di Eulero che, insiemea quello di numero di Betti si rivelerà importante nelle sezioni successive.

    Nel capitolo 2 daremo dapprima alcune de�nizioni caratteristiche della teoria, pri-ma tra le altre quella di punto critico non degenere. In seguito poi enunceremo edimostreremo alcuni lemmi fondamentali che descrivono il comportamento di una fun-zione avente solo punti critici non degeneri (detta in quest'ambito funzione di Morse)in prossimità di uno di questi punti. Mostreremo poi alcuni risultati di esistenza di

    2

  • Introduzione 3

    funzioni di Morse, mettendo in evidenza come queste siano un sottoinsieme denso del-l'insieme delle funzioni C∞ e, a �ne sezione, enunceremo e dimostreremo un teoremariguardante una speciale classe di di�eomor�smi.

    Il capitolo 3 racchiude i teoremi cardine della teoria: formalizzeremo l'idea accen-nata poco sopra a proposito dello studio degli insiemi di livello e dei punti critici nondegeneri e mostreremo come sia possibile creare un'equivalenza omotopica tra una va-rietà di�erenziabile e un opportuno CW -complesso la cui struttura cellulare sia legatasolo ai punti critici non degeneri di un'opportuna funzione di Morse e al loro indice.

    Il capitolo 4 si occupa delle cosiddette disuguaglianze di Morse che legano i punticritici di una funzione di Morse su una varietà ai gruppi di omologia della stessa.Vedremo le due versioni, una debole e l'altra forte, di tali disuguaglianze mostrandonele relazioni con i concetti di numero di Betti e caratteristica di Eulero prima nominati.

    In�ne, il capitolo 5 vuole dare alcuni esempi signi�cativi di applicazione di tale Teo-ria. Mostreremo il teorema di Reeb, di interesse essenzialmente geometrico, studieremopoi, servendoci dei risultati mostrati nelle sezioni precedenti, i gruppi di omologia diCPn e, per concludere, daremo un esempio di studio della topologia di una varietà dif-ferenziabile (il toro di rivoluzione in R3) a partire dalla funzione altezza de�nita sullavarietà, dando un'analisi qualitativa del cambio di topologia nel passaggio da punticritici non degeneri, fornendo dunque un signi�cativo esempio di come sia possibilela ricostruzione di una varietà di�erenziale a partire dall'analisi dei punti degeneri diun'opportuna funzione di Morse de�nita su essa.

  • Capitolo 1

    Concetti e risultati preliminari

    Questo primo capitolo contiene tutte le nozioni necessarie alla comprensione dei con-cetti principali di topologia algebrica coinvolti nella Teoria di Morse.Richiameremo infatti le principali de�nizioni e proprietà riguardanti l'omotopia el'omologia (dando maggior rilievo alla omologia singolare), e de�niremo poi i CW-complessi, fornendo alcuni esempi e mettendo in evidenza le loro caratteristiche prin-cipali.

    1.1 Omotopia e gruppo fondamentale

    1.1.1 Omotopia di applicazioni continue

    Ci occupiamo in questa sezione dell'omotopia, una relazione di equivalenza tra appli-cazioni continue di importanza fondamentale in topologia. Denoteremo con I l'inter-vallo chiuso [0, 1] di R.

    De�nizione 1.1.1. Siano X e Y due spazi topologici e f0, f1 : X → Y due applicazionicontinue; f0 e f1 sono dette omotope se esiste un'applicazione continua:

    F : X × I→ Y

    tale che F (x, 0) = f0(x) e F (x, 1) = f1(x) per ogni x ∈ X. Se un'omotopia esistediciamo che f0 è omotopa a f1 e scriviamo f0 ' f1.

    Figura 1.1: Omotopia di applicazioni continue

    4

  • 1.1. Omotopia e gruppo fondamentale 5

    Introduciamo un concetto più generale di omotopia: quello di omotopia relativa adun sottoinsieme A, per la quale si richiede che l'omotopia lasci �ssi tutti i punti di A.

    De�nizione 1.1.2. Sia X uno spazio topologico e sia A un sottoinsieme di X. Sianoinoltre f0, f1 : X → Y due applicazioni continue. Diciamo che f0 e f1 sono omotoperelativamente ad A se esiste un'omotopia F : X × I → Y tra f0 e f1 tale che, sea ∈ A, F (a, t) non dipende da t; in altre parole, F (a, t) = f0(a) per ogni a ∈ A e perogni t ∈ I.

    Dalla de�nizione 1.1.2 segue subito che si ha, per ogni a ∈ A, f0(a) = f1(a). Se unatale omotopia esiste, scriviamo f0 'relA f1. Ovviamente, se A = ∅, i due concetti diomotopia e di omotopia relativa coincidono. Consideriamo dunque l'omotopia de�nitain 1.1.1 come un caso particolare di omotopia relativa in cui A = ∅.

    Enunciamo ora, senza dimostrarlo, il seguente risultato che stabilisce che la re-lazione di omotopia tra funzioni continue, induce una relazione di equivalenza traspazi topologici:

    Lemma 1.1.3. Siano X e Y due spazi topologici e A ⊆ X. Nell'insieme delle ap-plicazioni continue di X in Y la relazione 'relA è una relazione di equivalenza. Inparticolare dunque, l'omotopia è una relazione di equivalenza.

    Possiamo ora introdurre la nozione di equivalenza omotopica:

    De�nizione 1.1.4. Due spazi X e Y si dicono omotopicamente equivalenti seesistono due applicazioni continue f : X → Y, g : Y → X tali che:

    g ◦ f ' 1X , f ◦ g ' 1Y .

    In tal caso le applicazioni f e g sono chiamate equivalenze omotopiche.

    Esempio 1.1.5. Il cilindro è omotopicamente equivalente alla circonferenza S1.

    Se X e Y sono omeomor�1 allora X e Y sono anche omotopicamente equivalenti,ma non vale il viceversa. Ad esempio Rn, n ≥ 1, non è omeomorfo ad un punto {p},ma è ad esso omotopicamente equivalente. Basta infatti considerare come funzioni fe g nelle condizioni della de�nizione 1.1.4:

    i) f : {p} → Rn, ponendo f(p) = 0;

    ii) g : Rn → {p}.Si veri�ca che g ◦ f = 1{p} e f ◦ g ' 1Rn .Gli spazi che risultano omotopicamente equivalenti ad un punto hanno un nomeparticolare:

    De�nizione 1.1.6. Uno spazio topologico X è detto contraibile se è omotopicamenteequivalente ad un punto.

    Osservazione 1.1.7. Abbiamo prima notato che Rn è contraibile. Una dimostrazioneanaloga può essere fatta per Dn (il disco chiuso unitario n-dimensionale) e per ognisottoinsieme convesso di Rn. Essi sono dunque spazi contraibili. Intuitivamente pos-siamo pensare ad uno spazio contraibile come uno spazio che può essere 'schiacciato'su un suo singolo punto in modo continuo. In quest'ottica appare dunque chiaro cheuna circonferenza non è contraibile perché non può essere schiacciata su un suo puntocon continuità.

    1Ricordiamo che due spazi topologici sono detti omeomor� se esiste un'applicazione continua,invertibile e con inversa continua detta omeomor�smo de�nita dall'uno all'altro. Gli omeomor�smipreservano le proprietà topologiche.

  • 1.1. Omotopia e gruppo fondamentale 6

    De�nizione 1.1.8. Un sottoinsieme A di uno spazio topologico X è chiamato unretratto di X se esiste una funzione continua r : X → A tale che r ◦ i = Id : A→ A(equivalentemente r|A = Id), dove i : A ↪→ X è l'inclusione. La funzione r è chiamataretrazione.

    De�nizione 1.1.9. Un sottoinsieme A di uno spazio topologico X è un retratto dideformazione di X se esiste una retrazione r : X → A tale che i ◦ r ' Id : X → X.

    Dalla de�nizione segue che A è un retratto di deformazione di X se esiste un'omo-topia F : X× I→ X tale che F (x, 0) = x per ogni x ∈ X, F (x, 1) ∈ A per ogni x ∈ Xe F (a, 1) = a per ogni a ∈ A. Dall'esempio 1.1.5 deduciamo che la circonferenza è unretratto di deformazione del cilindro. Notiamo che X è omotopicamente equivalentead ogni suo retratto di deformazione.

    De�nizione 1.1.10. Un sottoinsieme B di uno spazio topologico X è detto retrattoforte di deformazione se esiste una retrazione r : X → B tale che i ◦ r 'relB Id :X → X.

    Naturalmente un retratto forte di deformazione è un retratto di deformazione. In-tuitivamente si può pensare che un sottospazio B è un retratto forte di deformazione diX se X può essere deformato con continuità �no a farlo coincidere con B, mantenendoB �sso durante il processo di deformazione.

    1.1.2 Il gruppo fondamentale

    Vogliamo ora vedere come, utilizzando la nozione di omotopia, sia possibile associaread ogni spazio topologico un gruppo le cui proprietà algebriche ri�ettano le proprietàtopologiche dello spazio.

    De�nizione 1.1.11. Sia X uno spazio topologico. Un arco (o cammino) nello spazioX è un'applicazione continua f : I → X; f(0) è detto punto iniziale e f(1) punto�nale dell'arco; diremo che f è un arco da f(0) a f(1).

    Siano ora f e g due archi tali che f(1) = g(0). Il prodotto di f per g, che indicheremocon f ∗ g, è l'arco così de�nito:

    (f ∗ g)(t) =

    {f(2t) 0 ≤ t ≤ 1/2

    g(2t− 1) 1/2 ≤ t ≤ 1.(1.1)

    Vediamo ora come, in termini di omotopia relativa all'insieme {0, 1}, possiamostudiare le proprietà di questo prodotto e renderlo un'operazione di gruppo.

    De�nizione 1.1.12. Due archi f0, f1 in X sono equivalenti, e scriveremo f0 ∼ f1se sono omotopi relativamente a {0, 1} (ovvero f0 'rel {0,1} f1).

    Grazie al lemma 1.1.3 siamo sicuri che ∼ è una relazione di equivalenza sugli insiemidegli archi di X; indichiamo d'ora in poi con [f ] la classe di equivalenza dell'arco f .

  • 1.1. Omotopia e gruppo fondamentale 7

    Figura 1.2: Equivalenza di archi

    Ponendo ora:[f ][g] = [f ∗ g] (1.2)

    de�niamo un prodotto su tale insieme. Questo prodotto è ben de�nito come a�ermail seguente Lemma che ci limitiamo ad enunciare:

    Lemma 1.1.13. Siano f0, f1, g0, g1 degli archi in X, con f0(1) = g0(0) e f1(1) =g1(0). Se f0 ∼ f1 e g0 ∼ g1, allora f0 ∗ g0 ∼ f1 ∗ g1.

    Il prossimo lemma, anch'esso enunciato senza dimostrazione, asserisce che taleprodotto è associativo, ovvero che vale:

    ([f ][g])[h] = [f ]([g][h]) (1.3)

    a patto che il prodotto sia de�nito (f(1) = g(0) e g(1) = h(0)).

    Lemma 1.1.14. Siano f, g, h tre archi in X tali che f(1) = g(0) e g(1) = h(0); allora(f ∗ g) ∗ h ∼ f ∗ (g ∗ h).

    Mostriamo ora che il gruppo che ci apprestiamo a de�nire è dotato di elementoneutro. Per farlo, ricordiamo che dato un punto x ∈ X, εx denota l'arco costantein x (ovvero εx(t) = x per ogni t ∈ I). Il lemma seguente a�erma che la classe diequivalenza dell'arco costante si comporta come elemento neutro destro e sinistro peril prodotto de�nito. Ciò signi�ca che:

    [εx ∗ f ] = [εx][f ] = [f ] = [f ][εy] = [f ∗ εy] (1.4)

    Lemma 1.1.15. Se f è un arco in X con punto iniziale x e punto �nale y. Alloraεx ∗ f ∼ f e f ∗ εy ∼ f.

    Consideriamo in�ne il problema dell'esistenza dell'inverso moltiplicativo per unaclasse di equivalenza. Dato un arco f de�niamo l'arco f come f(t) = f(1 − t). Illemma seguente asserisce che la classe di equivalenza di f si comporta come inversomoltiplicativo per la classe di equivalenza di f ; in altre parole

    [f ][f ] = [εx] [f ][f ] = [εy] (1.5)

    per ogni arco f che inizia in x e termina in y.

    Lemma 1.1.16. Se f è un arco in X con punto iniziale x e punto �nale y, alloraf ∗ f ∼ εx e f ∗ f ∼ εy.

  • 1.2. Omologia 8

    In base a quanto visto sembra dunque che gli assiomi di gruppo siano soddisfatti.Notiamo però due di�coltà: una è che il prodotto di due classi non è sempre de�nito(i due archi si devono 'incollare') e l'altra è che l'elemento neutro non è �sso poichédipende dal punto x ∈ X. Quello che dobbiamo fare è introdurre la nozione di laccio,o arco chiuso.

    De�nizione 1.1.17. Un arco f è detto laccio (o arco chiuso) se f(0) = f(1). Sef(0) = f(1) = x ∈ X, diremo che f è un laccio di base x.

    Il prodotto f ∗g risulta de�nito per ogni coppia di lacci con la stessa base. L'insiemedelle classi di equivalenza di lacci di base il punto x ∈ X, munito dell'operazionede�nita in 1.2 è, grazie ai lemmi 1.1.13, 1.1.14, 1.1.15 e 1.1.16, un gruppo chiamatogruppo fondamentale o primo gruppo di omotopia di X con punto base x eusualmente indicato con π1(X,x).

    Ora che abbiamo de�nito π1(X,x) elenchiamo qui alcune sue proprietà che rendonointeressante e utile la costruzione appena fatta:

    • Se esiste un arco in X che congiunge i punti x, y ∈ X, allora i gruppi π1(X,x)e π1(X, y) sono isomor�. In ogni spazio connesso per archi dunque π1(X,x) eπ1(X, y) sono gruppi isomor� per ogni coppia di punti x, y ∈ X.

    • Se due spazi topologici X e Y sono omeomor� tramite un'applicazione φ i gruppiπ1(X,x) e π1(Y, φ(x)) sono isomor�.

    • Se due spazi topologici X e Y sono omotopicamente equivalenti tramite l'omo-topia ψ, i gruppi π1(X,x) e π1(Y, ψ(x)) sono isomor�. Il gruppo fondamentaledi uno spazio contraibile, dunque, è il gruppo banale.

    Possiamo quindi considerare il gruppo fondamentale come un mezzo per passaredalla topologia all'algebra, idea che sta alla base della topologia algebrica, disciplinanella quale si cerca di sostituire alcune nozioni topologiche con nozioni algebriche inmodo da utilizzare conoscenze algebriche note per dedurre dei risultati d'interessetopologico.

    1.2 Omologia

    Le proprietà di π1(X) sono molto utili nello studio di spazi topologici di dimensioneperlopiù bassa: la stessa de�nizione di gruppo fondamentale abbiamo visto che coin-volge solo applicazioni de�nite da spazi di dimensioni basse in uno spazio topologicoX, precisamente lacci de�niti da I ⊂ R a valori in X e omotopie di lacci, ovvero ap-plicazioni continue I× I ⊂ R× R in X. Tale caratteristica si mostra essere limitativanello studio di spazi di dimensione alta: un esempio illuminante è che il gruppo fonda-mentale non è in grado di 'distinguere' le sfere Sn con n ≥ 2 (si ha infatti π1(Sn) = 0per ogni n ≥ 2). Ciò che sembra naturale fare è considerare gli analoghi multidimen-sionali di π1(X), ovvero i gruppi di omotopia πn(X), de�niti in termini di applicazionidal cubo n-dimensionale In a valori in X e le relative omotopie. Si può mostrare cheessi si comportano come vorremmo: tali gruppi di omotopia riescono per esempio adistinguere le sfere di ogni dimensione (si mostra che: πi(Sn) = 0 per i < n e Z peri = n). Il problema è che questi gruppi sono, in generale, molto di�cili da costruireanche per spazi topologici apparentemente semplici. Il problema si aggira introducen-do i gruppi di omologia Hn(X). Tali gruppi sono profondamente legati alla struttura

  • 1.2. Omologia 9

    geometrica dello spazio topologico studiato, precisamente alla sua cosiddetta strutturacellulare e in particolare a come ogni elemento ad essa appartenente è 'attaccato' aglialtri. In questo risiede il grosso vantaggio di questa teoria e contemporaneamente lagrande di�erenza esistente con i gruppi di omotopia prima citati: questi ultimi infattisono in generale slegati dalla struttura cellulare dell'oggetto studiato.

    1.2.1 Omologia singolare

    L'obiettivo di questa sezione è quello di de�nire i gruppi di omologia singolare di unospazio topologico. Ci sono diversi modi di associare gruppi abeliani ad uno spaziotopologico, e ognuna di queste procedure viene etichettata con il nome di 'teoria diomologia'; molte di queste teorie, però, hanno il limite di basarsi su spazi topologici'fatti bene'. L'omologia singolare da questo punto di vista presenta due vantaggi: èinnanzitutto forse la teoria d'omologia più semplice e, inoltre, essa ha senso per tuttigli spazi topologici.

    De�nizione 1.2.1 (n-simplesso). Un n-simplesso [v0, · · · , vn] di vertici vi in unospazio euclideo Rm è il più piccolo sottoinsieme convesso contenente n + 1 puntiv0, · · · , vn che non appartengono a un iperpiano di dimensione minore di n.

    De�nizione 1.2.2 (n-simplesso standard). Il simplesso standard di dimensionen è il seguente sottoinsieme di Rn+1:

    ∆n =

    {(x0, x1, · · · , xn) ∈ Rn+1 |

    n∑i=0

    xi = 1, xi ≥ 0 ∀i = 0, · · · , n

    }(1.6)

    i cui vertici sono i vettori unitari lungo gli assi coordinati.

    Osservazione 1.2.3. Precisiamo che l'ordine dei vertici di un simplesso risulteràimportante, e pertanto con 'n-simplesso' intenderemo in realtà 'n-simplesso con verticiordinati'. Un'immediata conseguenza di tale ordine è l'orientazione di ogni segmento[vi, vj ] quando i < j, come mostrato nelle �gure sottostanti.

    Figura 1.3: Esempi di simplessi

    Dalla de�nizione 1.2.2 segue che ∆0 è un singolo punto, ∆1 è un segmento di retta,∆2 è una regione triangolare e ∆3 è un tetraedro solido.

  • 1.2. Omologia 10

    De�nizione 1.2.4 (n-simplesso singolare). Un n-simplesso singolare (o simplessosingolare di dimensione n) in uno spazio topologico X è un'applicazione continua σ :∆n → X.

    Dalla de�nizione 1.2.4 segue che uno 0-simplesso singolare è semplicemente unpunto di X, mentre un 1-simplesso singolare è essenzialmente un cammino in X:a partire da un 1-simplesso singolare σ possiamo de�nire un arco da σ(v0) a σ(v1)ponendo f(t) = σ(t, 1− t); viceversa a partire da un arco f : I→ X possiamo de�nireun 1-simplesso singolare σ : ∆1 → X ponendo σ(x0, x1) = f(x1).

    De�nizione 1.2.5 (n-catena singolare). Una n-catena singolare in X è una serieformale �nita

    ∑α nασα i cui coe�cienti nα ∈ Z e i σα sono n-simplessi singolari.

    De�nizione 1.2.6. L'insieme Cn(X) delle n-catene singolari in X forma un gruppoabeliano libero, generato dalle n-catene singolari, con l'operazione (scritta in notazioneadditiva) de�nita da: ∑

    α

    nασα +∑α

    mασα =∑α

    (nα +mα)σα

    L'elemento neutro è∑α 0σα e l'inverso additivo di

    ∑α nασα è

    ∑α(−nα)σα

    Introduciamo ora la de�nizione di mappa di bordo:

    De�nizione 1.2.7 (mappa di bordo). La mappa di bordo ∂n : Cn(X)→ Cn−1(X)è l'omomor�smo de�nito nel modo seguente:

    ∂n(σ) =∑i

    (−1)iσ|[v0,··· ,v̂i,··· ,vn] (1.7)

    D'ora in poi scriveremo, quando non ci sarà ambiguità, ∂ anzichè ∂n. Mostriamoora un'importante proprietà dell'omomor�smo di bordo:

    Teorema 1.2.8. La composizione Cn(X)∂n−→ Cn−1(X)

    ∂n−1−→ Cn−2(X) è zero.

    Dimostrazione. E' su�ciente dimostrare che tale composizione si annulla su ungenerico n-simplesso. Dalla de�nizione 1.2.7 discende direttamente che

    ∂n−1∂n(σ) =∑ji

    (−1)i(−1)j−1σ|[v0,··· ,v̂i,··· ,v̂j ,··· ,vn] = 0

    dove l'ultima uguaglianza si ottiene scambiando gli indici i e j nella seconda somma-toria che diventa l'opposto della prima.

    La proprietà del precedente teorema viene solitamente scritta in maniera più com-patta nel seguente modo: ∂2 = 0. Otteniamo dunque una sequenza di omomor�smi digruppi abeliani del tipo:

    · · · → Cn+1∂n+1−→ Cn

    ∂n−→ Cn−1 → · · · → C1∂1−→ C0

    ∂0−→ 0

    con ∂n∂n+1 = 0 per ogni n. Una tale sequenza (che abbiamo esteso tramite ∂0 = 0a destra) è chiamata un complesso di catene. Arriviamo ora alla de�nizione deigruppi di omologia di complesso di catene, introducendo le seguenti de�nizioni:

  • 1.2. Omologia 11

    De�nizione 1.2.9.

    (i) Una n-catena singolare c ∈ Cn(X) è detta un n-ciclo se ∂c = 0; l'insieme deglin-cicli di X viene denotato con Zn(X).

    (ii) Una n-catena singolare d ∈ Cn(X) è detta un n-bordo se d = ∂e per qualchee ∈ Cn+1(X); l'insieme degli n-bordi viene denotato con Bn(X).

    In altri termini:Zn(X) = ker {∂ : Cn(X)→ Cn−1(X)}

    Bn(X) = Im {∂ : Cn+1 → Cn(X)}Zn(X) e Bn(X) sono entrambi sottogruppi di Cn(X).

    Il teorema 1.2.8 implica che Bn(X) è un sottogruppo di Zn(X), e quindi un sot-togruppo normale perché Zn(X) è abeliano; ha senso dunque considerare il gruppoquoziente Zn(X)/Bn(X):

    De�nizione 1.2.10 (gruppi di omologia singolare). L'n-esimo gruppo di omologiadi uno spazio topologico X è de�nito come:

    Hn(X) = Zn(X)/Bn(X) = ker∂n/Im∂n+1

    Gli elementi di Hn(X) sono classi di omologia, ossia classi di equivalenza di ciclirispetto alla relazione di equivalenza

    c ∼ c′ ⇐⇒ c− c′ ∈ Bn(X)

    dove c, c′ ∈ Zn(X). Se c ∼ c′, diremo che c e c′ sono cicli omologhi.

    Conviene introdurre una de�nizione leggermente modi�cata di omologia che citornerà comoda in seguito.

    De�nizione 1.2.11 (gruppi di omologia ridotta). Con gruppi di omologia ridottaintendiamo i gruppi di omologia H̃n(X) del seguente complesso di catene esteso:

    · · · → C2(X)∂2→ C1(X)

    ∂1→ C0(X)ε→ Z→ 0

    dove ε(∑i niσi) =

    ∑i ni.

    Osservazione 1.2.12. Nella de�nizione appena data, poiché ε ◦ ∂1 = 0, ε si annullasu Im∂1 e induce dunque una mappa ψ : H0(X) → Z, con ker(ψ) = H̃0(X), dunqueH0(X) ∼= H̃0(X)⊕ Z. Ovviamente, per n > 0 si ha Hn(X) ∼= H̃n(X).

    Diamo ora qualche esempio di calcolo di gruppi di omologia e di proprietà che licontraddistinguono.

    Proposizione 1.2.13. Se X è uno spazio topologico non vuoto e connesso per archi,allora H0(X) ∼= Z. In generale, per ogni spazio topologico X, H0(X) è la sommadiretta di Z tante volte quante sono le componenti connesse per archi di X.

    Proposizione 1.2.14. Se X è un punto, allora Hn(X) = 0 per n > 0 e H0(X) ∼= Z.Vale inoltre H̃n(X) = 0 per ogni n ≥ 0.

    Teorema 1.2.15. Se X e Y sono spazi topologici omeomor�, Hn(X) ∼= Hn(Y ) perogni n ≥ 0.

    Teorema 1.2.16 (invarianza omotopica). Se X e Y sono spazi omotopicamenteequivalenti, Hn(X) ∼= Hn(Y ) per ogni n ≥ 0.

  • 1.2. Omologia 12

    1.2.2 Sequenze esatte e scissione

    Vogliamo ora trovare qualche relazione tra i gruppi di omologia di uno spazio topologicoX, un sottospazio A, e lo spazio quoziente X/A. Sarebbe in questo modo possibilecostruire e comprendere i gruppi di omologia di spazi come i CW -complessi (vedisottosezione seguente), costruiti induttivamente da sottospazi sempre più complessi.Per fare ciò ci servono alcune de�nizioni preliminari.

    De�nizione 1.2.17 (successione esatta). Una sequenza di omomor�smi

    · · · −→ An+1αn+1−→ An

    αn−→ An−1 −→ · · ·

    è detta esatta se e solo se Kerαn =Imαn+1 per ogni n.

    Caratterizziamo ora alcune proprietà tipicamente algebriche in termini di sequenzeesatte:

    (i) 0→ A α→ B è esatta se e solo se Kerα = 0, ovvero se α è iniettiva.

    (ii) Aα→ B → 0 è esatta se e solo se Imα = B, ovvero se α è suriettiva.

    (iii) 0→ A α→ B → 0 è esatta se e solo se α è un isomor�smo, da (i) e (ii).

    (iv) 0 → A α→ B β→ C → 0 è esatta se e solo se α è iniettiva, β è suriettiva eKerβ=Imα.

    De�nizione 1.2.18 (sequenza esatta corta). Una sequenza esatta 0 → A → B →C → 0 come quella in (iv) è chiamata sequenza esatta corta.

    Troveremo ora delle sequenze esatte legate a coppie (X,A) dove X è spazio topo-logico e A è un sottospazio, tramite l'introduzione dei gruppi di omologia relativa.

    Dato uno spazio X e un sottospazio A ⊂ X, sia Cn(X,A) il gruppo quozienteCn(X)/Cn(A). Le n-catene di A sono dunque banali in Cn(X,A). Poiché la mappadi bordo ∂ : Cn(X)→ Cn−1(X) manda Cn(A) in Cn−1(A), essa induce una mappa dibordo al quoziente ∂ : Cn(X,A) → Cn−1(X,A). Lasciando variare n otteniamo unasequenza di mappe di bordo:

    · · · → Cn(X,A)∂→ Cn−1(X,A)→ · · · (1.8)

    La relazione ∂2 = 0 sussiste per queste mappe di bordo poiché come abbiamo visto nel1.2.8 sussiste prima di passare al quoziente. Abbiamo dunque ottenuto una complessodi catene.

    De�nizione 1.2.19 (gruppi di omologia relativa). I gruppi di omologia del complessodi catene de�nito in 1.8 sono detti gruppi di omologia relativa e vengono indicaticon Hn(X,A).

    E' possibile dimostrare un importante risultato per questi gruppi di omologia:

    Teorema 1.2.20. La sequenza di gruppi di omologia:

    · · · → Hn(A)i∗−→ Hn(X)

    j∗−→ Hn(X,A)∂−→ Hn−1(A)

    i∗−→ Hn−1(X)→ H0(X,A)→ 0

    dove:

  • 1.3. CW-complessi 13

    • i∗ è la mappa indotta in omologia dall'inclusione i : A ↪→ X;

    • j∗ è la mappa quoziente indotta in omologia dalla proiezione j : X → X/A;

    • ∂ è una mappa di bordo così descritta: se una classe [α] ∈ Hn(X,A) è rappre-sentata da un ciclo α, allora ∂[α] è la classe del ciclo ∂α in Hn−1(A).

    è una sequenza esatta.

    Osservazione 1.2.21. Il teorema 1.2.20 ci dà un'idea precisa di quello che rappre-sentano i gruppi Hn(X,A): essi infatti misurano la di�erenza tra i gruppi Hn(X) eHn(A). In particolare la proprietà di esattezza implica che se Hn(X,A) = 0 per ognin, allora l'inclusione i induce isomor�smi Hn(A) ∼= Hn(X) per ogni n, grazie allaproprietà (iii) derivante dalla de�nizione 1.2.17.

    Ci accingiamo ora a descrivere una proprietà fondamentale dei gruppi di omologiarelativa: la escissione. Essa descrive i casi in cui i gruppi Hn(X,A) non risentonodalla cancellazione di un sottoinsieme Z ⊂ A.

    Teorema 1.2.22 (di escissione). Dati due sottospazi Z,A, tali che Z ⊂ A ⊂ X etali che Z ⊂Int(A), allora l'inclusione (X − Z,A − Z) ↪→ (X,A) induce isomor�smiHn(X − Z,A− Z)→ Hn(X,A) per ogni n.

    Possiamo ora ricondurci ai gruppi di omologia non relativi, premettendo una de�nizione:

    De�nizione 1.2.23 (coppia con collare). Se X è uno spazio topologico e A è unsottospazio non vuoto chiuso che sia un retratto di deformazione di qualche aperto diX. Chiamiamo la coppia (X,A) coppia con collare o buona coppia.

    Proposizione 1.2.24. Per ogni coppia con collare (X,A), la mappa quoziente q :(X,A)→ (X/A,A/A) induce isomor�smi q∗ : Hn(X,A)→ Hn(X/A,A/A) ∼= H̃n(X/A)per ogni n.

    Diamo ora due de�nizioni che, nei capitoli successivi, risulteranno fondamentalinell'esposizione della teoria di Morse.

    De�nizione 1.2.25 (numero di Betti). Se un gruppo di omologia Hn(X) è sommadiretta di gruppi ciclici, allora il numero intero di addendi uguali a Z è de�nito comel'n-esimo numero di Betti di X. Esso è quindi il rango di Hn(X).

    1.3 CW-complessi

    1.3.1 De�nizione, esempi e prime proprietà

    Un CW-complesso è uno spazio topologico X dotato di una decomposizione particolareche ci permette di studiarne i gruppi di omologia singolare. Tale decomposizionesi trova valutando una partizione di X in sottospazi più piccoli omeomor� a palleaperte di Rk, con k opportuno. Questi sottospazi sono chiamati celle aperte delladecomposizione. Tali celle sono incollate tra di loro lungo i loro bordi e la loro unioneforma l'intero spazio X.

    De�nizione 1.3.1. Sia n ≥ 0, n ∈ Z. Una cella di dimensione n o n-cella en èuno spazio topologico omeomorfo al disco chiuso unitario di Rn, ovvero all'insieme:

    Dn = {x ∈ Rn : ‖ x ‖≤ 1}

  • 1.3. CW-complessi 14

    Una cella aperta di dimensione n o n-cella aperta è uno spazio topologicoomeomorfo alla palla aperta unitaria n-dimensionale ovvero all'insieme:

    Bn = Dn \ ∂Dn = {x ∈ Rn : ‖ x ‖< 1}

    Diamo ora una de�nizione di CW -complesso di tipo induttivo-costruttivo.

    De�nizione 1.3.2. Un CW-complesso è uno spazio topologico X costruito comesegue:

    1. X0 è un insieme discreto di partenza i cui punti sono considerati come 0-celle.

    2. Induttivamente, si costruisce l'n-scheletro Xn a partire da Xn−1 attaccando len-celle Dnα tramite le applicazioni continue ϕα : S

    n−1 → Xn−1 dette mappe diattaccamento. Ciò signi�ca che Xn è lo spazio ottenuto quozientando l'unionedisgiunta Xn−1 tα Dnα con l'identi�cazione x ∼ ϕα(x) per tutti gli x ∈ ∂Dnα. Lacella enα è l'immagine omeomorfa di D

    n \ ∂Dn tramite l'azione della proiezionea quoziente.

    3. Se per qualche n

  • 1.3. CW-complessi 15

    otteniamo una struttura cellulare CPn = e0 ∪ e2 ∪ · · · ∪ e2n con celle dunque solo indimensioni pari. Analogamente CP∞ ha una struttura cellulare con una cella in ognidimensione pari.

    Estendiamo ora la nozione dimappa di attaccamento data al punto 2 della de�nizione1.3.2.

    De�nizione 1.3.6. Ogni cella enα del CW-complesso X possiede una mappa carat-teristica φα : Dnα → X che estende la mappa di attaccamento ϕα, relativa allo stessoα, ed è omeomor�smo dall'interno di Dnα su e

    nα. Possiamo considerare φα come la

    composizione Dnα ↪→ Xn−1 tα Dnα → Xn ↪→ X dove la mappa centrale è la proiezionea quoziente che de�nisce Xn.

    Osservazione 1.3.7. La mappa caratteristica è una funzione continua in quantocomposizione di applicazioni continue. Notiamo infatti che l'applicazione Xn ↪→ X ècontinua grazie al punto 3 della de�nizione 1.3.2.

    De�nizione 1.3.8. Un sottocomplesso di un CW-complesso X è un sottospaziochiuso A ⊂ X che è unione di celle di X tali che la chiusura di ogni cella in A ècontenuta in A.

    Da questa de�nizione notiamo che, poiché A è chiuso, la mappa caratteristica diogni cella in A ha immagine contenuta in A, e in particolare l'immagine della mappadi attaccamento di ogni cella in A è contenuta in A, ovvero A è esso stesso un CW-complesso.Enunciamo qui un teorema sui sottocomplessi cellulari di cui ci serviremo in seguito:

    Proposizione 1.3.9. Un sottospazio compatto di un CW complesso è contenuto inun sottocomplesso �nito-dimensionale.

    De�nizione 1.3.10. Una coppia (X,A) dove X è un CW-complesso e A è un sotto-complesso è chiamata coppia CW.

    Elenchiamo ora, senza dimostrarle, alcune proprietà topologiche dei CW-complessi:

    • Ogni CW-complesso è uno spazio topologico normale2, ed in particolare, diHausdor�3.

    • Ogni punto in un CW-complesso possiede intorni aperti contraibili arbitraria-mente piccoli. Ogni CW-complesso è dunque localmente contraibile.

    • Ogni CW-complesso è localmente connesso per archi. Ogni CW-complesso èconnesso per archi se e solo se è connesso.

    1.3.2 Omologia cellulare e CW-complessi

    L'omologia cellulare è uno strumento molto utile per valutare i gruppi di omologiadei CW-complessi. Prima di de�nire esattamente di che cosa si tratta premettiamo ilseguente lemma:

    2Uno spazio topologico X è normale se: i) I punti sono sottoinsiemi chiusi (lo spazio è T1). ii) Perogni F1, F2 ⊂ X chiusi e tali che F1 ∩ F2 = ∅, esistono aperti U1, U2 tali che: F1 ⊂ U1, F2 ⊂ U2,U1 ∩ U2 = ∅

    3Uno spazio topologico si dice di Hausdor� (o spazio T2) se: per ogni coppia di punti distintiu, v ∈ X esistono due aperti U, V di X tali che u ∈ U , v ∈ V e U ∩ V = ∅

  • 1.3. CW-complessi 16

    Lemma 1.3.11. Se X è un CW-complesso allora:

    (a) Hk(Xn, Xn−1) = 0 per k 6= n ed è abeliano libero per k = n, con una base incorrispondenza biunivoca con le n-celle di X.

    (b) Hk(Xn) = 0 per k > n. In particolare, se X è �nito-dimensionale, alloraHk(X) = 0 per k >dimX.

    (c) L'inclusione i : Xn ↪→ X induce un isomor�smo i∗ : Hk(Xn)→ Hk(X) se k < n.

    Sia ora X un CW-complesso. Usando il lemma 1.3.11, parti delle sequenze esattelunghe delle coppie (Xn+1, Xn), (Xn, Xn−1) e (Xn−1, Xn−2) si adattano al seguentediagramma dove dn+1 e dn sono de�nite rispettivamente come la composizione jn◦∂n+1e jn−1 ◦ ∂n:

    Figura 1.4: Schema per l'omologia cellulare

    La composizione dn ◦ dn+1 è composta da due successive applicazioni in una dellesequenze esatte, dunque è 0. La riga centrale del diagramma è un complesso di catene,chiamato complesso di catene cellulare di X. Gli elementi di Hn(Xn, Xn−1),grazie al punto (a) del lemma 1.3.11 possono essere pensati come combinazioni linearidi n-celle di X. I gruppi di omologia di questo complesso di catene sono chiamatigruppi di omologia cellulare di X e indicati con HCWn (X).

    Teorema 1.3.12. Vale l'isomor�smo: HCWn (X) ∼= Hn(X).

    Vediamo ora un'importante risultato riguardante i CW -complessi che tornerà utilein un punto cardine della teoria di Morse. Premettiamo la seguente:

    De�nizione 1.3.13. Siano X e Y due CW -complessi e sia f : X → Y . Diciamo chef è una mappa cellulare se e solo se per ogni n vale f(Xn) ⊂ Y n ovvero ogni cellan-dimensionale viene mappata in una cella di dimensione minore o uguale di n.

    Ogni applicazione tra due CW -complessi può essere 'deformata' �no a farla di-ventare una mappa cellulare. Questo è quanto a�erma il seguente importante:

    Teorema 1.3.14 (approssimazione cellulare). Siano X,Y due CW -complessi. Ognimappa f : X → Y è omotopa a una mappa cellulare. Inoltre, se f è già cellulare incorrispondenza di un sottocomplesso A ⊂ X, si può scegliere l'omotopia in modo chelasci �sso A.

  • 1.3. CW-complessi 17

    Dimostrazione. Supponiamo per induzione che la mappa f : X → Y sia cellularesull'(n − 1)-scheletro Xn−1 di X e sia en una n-cella di X. Poiché en è l'immaginedella mappa caratteristica per en, essa è compatta: f dunque manda en in un insiemecompatto di Y . Poiché un insieme compatto di un CW -complesso può intersecaresolo un numero �nito di celle (cfr. teorema 1.3.9), segue subito che f(en) intersecasolo un numero �nito di celle di Y . Sia ek ⊂ Y una delle celle di dimensione piùalta che f(en) interseca. Se k ≤ n allora f è cellulare su en, dunque supponiamo chek > n. Ciò che si può mostrare è che è possibile deformare f|Xn−1∪en , tenendo �ssoXn−1, in modo tale che l'immagine di en tramite f non contenga tutta la cella ek,ma lasci fuori almeno un punto p ∈ ek. E' poi possibile fare in modo che f(en) nonintersechi l'intera cella ek utilizzando la retrazione di Y k \{p} su Y k \ek. Iterando taleprocedimento è quindi chiaro che possiamo fare in modo che f(en) non intersechi tuttele celle di dimensione maggiore di n. Facendo questo per tutte le n-celle e restando �ssisulle n-celle di A sulle quali f è già cellulare, otteniamo un'omotopia di f|Xn ad unamappa cellulare relativamente all'insieme Xn−1 ∪ An. Possiamo ora estendere questaomotopia, insieme all'omotopia costante su A, ad un'omotopia de�nita su tutto lospazio X: in questo modo il passo induttivo è dunque completato. Facendo tendere nall'∞, la sequenza risultante (eventualmente in�nita) di omotopie può essere realizzatausando una sola omotopia sfruttando l'n-esima omotopia scelta tra quelle trovate, ognivolta che t varia nell'intervallo [1 − 1/2n, 1 − 1/2n+1]. Ogni punto di X giace infattiin un qualche scheletro Xn, che è eventualmente stazionario nella catena in�nita diomotopie. Per ultimare la dimostrazione serve dunque dare una de�nizione di taleomotopia. Per farlo si usa un lemma che enunciamo senza dimostrare qui sotto checi permette di 'deformare' delle applicazioni in modo tale da dar loro una qualchelinearità. Prima di enunciarlo occorre de�nire due concetti:

    (i) Un poliedro in Rn è un sottospazio che è l'unione di un numero �nito di poliedriconvessi, ognuno compatto.

    (ii) Una mappa lineare a tratti de�nita su un poliedro in Rn è un'applicazione cherisulta lineare se ristretta ad ogni poliedro convesso che compone una possibiledecomposizione del poliedro in questione.

    Il lemma annunciato è il seguente:

    Lemma 1.3.15. Sia f : In → Z un'applicazione in cui Z è ottenuto da unsottospazio W tramite attaccamento di una cella ek. Allora f è omotopa relati-vamente a f−1(W ) ad un'applicazione f1 per la quale esiste un poliedro K ⊂ Inche abbia le seguenti proprietà:

    � f1(K) ⊂ ek e f1|K è lineare a tratti tramite una qualche identi�cazione diek con Rk.

    � K ⊃ f−11 (U) per qualche insieme aperto non vuoto U ⊂ ek.

    Per concludere la dimostrazione del teorema serviamoci dunque di tale lemma. Com-ponendo la mappa data f : Xn−1 ∪ en → Y k con una mappa caratteristica In → Xper la cella en otteniamo una funzione che gioca il ruolo della f del lemma, operandole sostituzioni Z = Y k e W = Y k \ ek. L'omotopia data dal lemma è �ssa su ∂In einduce dunque un'omotopia ft di f|Xn−1∪en stazionaria su Xn−1. L'immagine dellamappa f1 interseca l'insieme aperto U ⊂ ek in un insieme contenuto nell'unione di unnumero �nito di sottospazi di dimensione al più n, dunque se n < k ci saranno puntip ∈ U non contenuti nell'immagine di f1.

  • 1.3. CW-complessi 18

    L'ultima de�nizione preliminare che ci serve è quella di caratteristica di Eulero, unconcetto che ritornerà nelle sezioni successive.

    De�nizione 1.3.16. Sia X un CW-complesso �nito. La caratteristica di Euleroχ(X) è de�nita come segue:

    χ(X) =∑n

    (−1)ncn (1.9)

    dove cn è il numero delle n-celle di X.

    Il risultato seguente mostra che χ(X) può essere de�nito esclusivamente in terminidi omologia. Inoltre, χ(X) è indipendente dalla scelta dalla struttura cellulare di X.

    Teorema 1.3.17. χ(X) =∑n(−1)nrankHn(X)

  • Capitolo 2

    Punti critici, funzioni di Morse e

    di�eomor�smi

    Iniziamo a presentare la Teoria di Morse, introducendo le nozioni principali di cui ciserviremo e dimostrando un importante risultato che utilizzeremo in seguito: il lemmadi Morse. Premettiamo che d'ora in poi avremo a che fare con varietà di�erenziabililisce, intendendo con tale aggettivo che le varietà sono di classe C∞. Chiameremonello stesso modo anche funzioni ugualmente regolari de�nite da tali varietà a valoriin esse. Indicheremo con Tp(M) lo spazio tangente ad una varietà liscia M nel puntop ∈M . Inoltre, seM e N sono due varietà lisce ed è assegnata una mappa g : M → Ncon g(p) = q, indicheremo il di�erenziale di g, ovvero la mappa lineare indotta tra glispazi tangenti, con dgp : Tp(M)→ Tq(M).

    2.1 De�nizioni preliminari

    Ripensando al caso di funzioni lisce de�nite da un aperto U ⊂ Rn a valori in R,generalizziamo qui la nozione di punto critico per funzioni de�nite su una genericavarietà M .

    De�nizione 2.1.1 (punto e valore critico). Sia M una varietà liscia, f una funzioneliscia: M → R. Un punto p ∈ M si dice punto critico di f se il di�erenzialedfp : Tp(M)→ Tf(p)R è la mappa nulla. Questa condizione si traduce col dire che p èun punto critico se e solo se, scelto un sistema di coordinate locali (x1, x2, · · · , xn) inun aperto U contenente il punto p, vale:

    ∂f

    ∂x1(p) = · · · = ∂f

    ∂xn(p) = 0 (2.1)

    Il numero reale f(p) viene chiamato valore critico di f .Se a ∈ R è tale che per ogni q ∈ f−1(a), q non è un punto critico, a viene detto valoreregolare.

    Notiamo che tale de�nizione rispecchia in tutto e per tutto quella di 'punto critico'per funzioni de�nite in aperti di Rn: questo perché il di�erenziale df risulta ben de�nitoquando si ha a che fare con varietà di�erenziabili. Tale corrispondenza si perde quandosi vuole introdurre l'hessiana della funzione f in un generico punto x ∈M . É possibile

    19

  • 2.1. De�nizioni preliminari 20

    però dare una de�nizione ben posta di hessiana di f in corrispondenza di un puntocritico p della varietà, de�nendola come un opportuno funzionale:

    De�nizione 2.1.2 (funzionale hessiano). Sia f : M → R una funzione liscia de�nitasulla varietà liscia M . Sia p ∈ M un punto critico di f . L'hessiano di f nel puntop è il funzionale bilineare e simmetrico così de�nito:

    Hessfp : TpM × TpM → R

    Hessfp(v,w) = Vp(W (f))(p) (2.2)

    dove v e w sono vettori di Tp(M) e V,W sono le rispettive estensioni a campi vettoriali(e si ha ovviamente Vp(p) = v,Wp(p) = w).

    La veri�ca che il funzionale 2.2 appena introdotto è simmetrico deriva dal fatto chep è un punto critico. In questo caso vale infatti l'identità:

    Vp(W (f))(p)−Wp(V (f))(p) = [V,W ]p(f) = dfp([V,W ]) = 0

    dove [V,W] è la parentesi di Poisson tra i campi V e W .Esso è anche ben de�nito in quanto i valori della funzione Vp(W (f)) = v(W (f)) sonoindipendenti dall'estensione V di v scelta e così pure lo sono i valori di Wp(V (f)) =w(V (f)), rispetto ad ogni scelta dell'estensione W di w.

    Sia ora (x1, · · · , xn) un sistema di coordinate locali. Usando la base coordinata diTp(M) associata a tale sistema, possiamo scrivere:

    v =n∑i=1

    ai∂

    ∂xi|p, w =

    n∑j=1

    bj∂

    ∂xj|p

    dove gli ai e i bj sono numeri reali e considerare poi:

    W =n∑j=1

    bj∂

    ∂xj

    dove stavolta le bj rappresentano funzioni costanti. Possiamo allora trovare unarappresentazione per il funzionale hessiano nella base coordinata. Si ha infatti:

    Hessfp(v,w) = v(W (f))(p) = v(n∑j=1

    bj∂f

    ∂xj)(p) =

    ∑i,j

    aibj∂2f

    ∂xi∂xj(p) (2.3)

    e dunque la matrice ( ∂2f

    ∂xi∂xj(p)) è quella che dà la rappresentazione cercata. Dopo

    queste considerazioni, grazie alla 2.3 ha senso la seguente de�nizione:

    De�nizione 2.1.3 (punto critico non degenere). Un punto critico p è detto nondegenere se e solo se la matrice (

    ∂2f

    ∂xi∂xj(p))

    è non-singolare.

    De�nizione 2.1.4 (funzione di Morse). Una funzione liscia f : M → R de�nita suuna varietà di�erenziabile liscia M che presenti soltanto punti critici non degeneriviene detta funzione di Morse.

  • 2.2. Un primo risultato: il lemma di Morse 21

    Richiamiamo ora due concetti che saranno ricorrenti nelle sezioni successive.

    De�nizione 2.1.5 (indice). Sia V uno spazio vettoriale reale (anche di dimensionein�nita) e sia B : V × V → R un funzionale bilineare e simmetrico de�nito su V .L'indice di B, chiamato anche indice di Morse e indicato con n−(B), è de�nito come:

    n−(B) = sup {dim(W ) : W è sottospazio di V in cui B è de�nita negativa} (2.4)

    ovvero come la massima dimensione (eventualmente in�nita) del sottospazio su cui Bè de�nita negativa;

    De�nizione 2.1.6 (nullità). Sia V uno spazio vettoriale reale (anche di dimensionein�nita) e sia B : V × V → R un funzionale bilineare e simmetrico de�nito su V . Lanullità di B è de�nita come la dimensione del nucleo dell'applicazione φ : V → V ∗de�nita da:

    φ(v) = B(v, ·) ∀v ∈ V (2.5)

    Chiameremo d'ora in poi indice (nullità) di f in p l'indice (la nullità) di Hessfp suTp(M).

    Osservazione 2.1.7. Grazie alla 2.5 possiamo dire che p ∈M è un punto critico nondegenere per f se e solo se la nullità di f in p è uguale a 0.

    2.2 Un primo risultato: il lemma di Morse

    Dimostreremo in questa sezione il lemma di Morse, un risultato importante di cuisi farà uso anche nei capitoli seguenti. A livello intuitivo esso a�erma che esiste unintorno di un punto critico non degenere, nel quale una funzione f può essere espressatramite un'opportuna forma quadratica dipendente solo dal suo indice.Premettiamo il seguente:

    Lemma 2.2.1. Sia V un intorno convesso di 0 ∈ Rn e sia f : V → R una funzioneliscia con f(0) = 0. Vale allora l'espressione:

    f(x1, · · · , xn) =n∑i=1

    xigi(x1, · · · , xn) (2.6)

    dove le gi sono funzioni lisce de�nite su V e tali che gi(0) = ∂f∂xi (0).

    Dimostrazione. Applicando il teorema fondamentale del calcolo insieme all'ipotesif(0) = 0 e derivando usualmente rispetto a t, otteniamo subito:

    f(x1, · · · , xn) =∫ 1

    0

    df(tx1, · · · , txn)dt

    dt =∫ 1

    0

    n∑i=1

    ∂f

    ∂xi(tx1, · · · , txn) · xi dt

    Possiamo allora prendere come gi(x1, · · · , xn) =∫ 1

    0∂f∂xi

    (tx1, · · · , txn)dt.

    Lemma 2.2.2 (Lemma di Morse). Sia f : M → R una funzione di Morse, p ∈ Mun suo punto critico non degenere e λ l'indice di f in p. Esiste allora un sistema dicoordinate locali (y1, · · · , yn) in un intorno U di p con yi(p) = 0 per ogni i e tale chel'uguaglianza:

    f(q) = f(p)− (y1(q))2 − · · · − (yλ(q))2 + (yλ+1(q))2 + · · ·+ (yn(q))2 (2.7)

    valga per tutti i punti q ∈ U .

  • 2.2. Un primo risultato: il lemma di Morse 22

    Dimostrazione. Mostriamo come prima cosa che se esiste un'espressione di f comequella data dalla formula 2.7, λ deve necessariamente essere l'indice di f in p ∈M .Per ogni sistema di coordinate (z1, · · · , zn), se vale la rappresentazione di f analoga aquella del teorema:

    f(q) = f(p)− (z1(q))2 − · · · − (zλ(q))2 + (zλ+1(q))2 + · · ·+ (zn(q))2

    si ha immediatamente:

    ∂2f

    ∂zi∂zj(p) =

    −2 se i = j ≤ λ,

    2 se i = j > λ,0 altrimenti

    il che mostra che la matrice H che rappresenta Hessfp rispetto alla base coordinata∂∂z1|p, · · · , ∂∂zn |p è:

    H =

    −2. . . 0

    −22

    0 . . .2

    Esiste pertanto un sottospazio di Tp(M) di dimensione λ nel quale Hessfp è de�nitonegativo, e un sottospazio V di dimensione n−λ dove Hessfp è invece de�nito positivo.Se esistesse un sottospazio di Tp(M) di dimensione maggiore di λ su cui Hessfp fossede�nito negativo, allora l'intersezione di tale sottospazio con V non sarebbe vuota,il che è impossibile perché in tale intersezione Hessfp sarebbe contemporaneamentede�nito positivo e de�nito negativo. Pertanto λ è la massima dimensione del sot-tospazio in cui Hessfp è de�nita negativa, ovvero l'indice di f in p.Mostriamo ora che esiste un sistema di coordinate locali che soddisfa alle richiestedella tesi. Possiamo assumere che il punto p sia l'origine di Rn e che f(p) = f(0)= 0.Grazie al lemma 2.2.1 sappiamo che esiste un intorno dell'origine in cui vale:

    f(x1, · · · , xn) =n∑j=1

    xjgj(x1, · · · , xn)

    Poiché 0 è un punto critico non degenere possiamo scrivere inoltre:

    gj(0) =∂f

    ∂xj(0) = 0

    Applicando nuovamente il lemma 2.2.1, stavolta alle funzioni gj (siamo nelle ipotesi dipoterlo fare) troviamo:

    gj(x1, · · · , xn) =n∑i=1

    xihij(x1, · · · , xn)

    per certe funzioni lisce hij . Ne segue subito che:

    f(x1, · · · , xn) =n∑

    i,j=1

    xixjhij(x1, · · · , xn)

  • 2.3. Esistenza di funzioni di Morse 23

    Osserviamo ora che è sempre possibile scrivere h̃ij = 12 (hij + hji) e avere h̃ij = h̃ji equindi f =

    ∑xixj h̃ij . Inoltre, la matrice (h̃ij(0)) è uguale a ( 12

    ∂2f∂xi∂xj

    (0)) e quindiessa è non-singolare se e solo se è non singolare H. Possiamo da subito supporre quindiche hij = hji.

    Vogliamo ora trovare una trasformazione delle funzioni coordinate tramite la qualesia possibile ottenere l'espressione cercata per f in un aperto opportunamente piccolodell'origine. Per farlo, procediamo ricalcando il ragionamento di diagonalizzazione delleforme quadratiche. Supponiamo per induzione che esistano coordinate (u1, · · · , un) diun aperto U1 3 0 dove valga, per opportune matrici simmetriche (Hij(u1, · · · , un)),

    f(q) = ±(u1(q))2 ± · · · ± (ur−1(q))2 +∑i,j≥r

    ui(q)uj(q)Hij(u1, · · · , un)(q)

    per tutti i punti q ∈ U1. Possiamo assumere che Hrr(0) 6= 0, operando eventualmenteun cambio di coordinate lineare nelle ultime n− r + 1 coordinate. Sia ora:

    g(u1, · · · , un)def=√|Hrr(u1, · · · , un)|.

    La funzione g è sicuramente non nulla e liscia in qualche intorno U2 ⊂ U1 di 0.Introduciamo un nuovo sistema di coordinate locali così de�nito:{

    vi = ui i 6= rvr(u1, · · · , un) = g(u1, · · · , un)

    [ur +

    ∑i>r ui

    Hir(u1,··· ,un)Hrr(u1,··· ,un)

    ]Dal teorema della funzione inversa segue che il sistema di coordinate (v1, · · · , vn) potràessere utilizzato come sistema di coordinate locali in un intorno su�cientemente piccolodi 0 che chiameremo U3. E' immediato veri�care che, per ogni q ∈ U3, f ha la seguenteespressione:

    f(q) =∑i≤r

    ±(vi(q))2 +∑i,j>r

    vi(q)vj(q)H ′ij(v1, · · · , vn)(q)

    il che completa il ragionamento per induzione e dimostra il lemma di Morse.

    Come immediata conseguenza del lemma 2.2.2 abbiamo il seguente:

    Corollario 2.2.3. Data una funzione f : M → R liscia, i punti critici non degeneridi f sulla varietà M sono isolati1.

    Dimostrazione. Basta scegliere, per ogni punto critico non degenere, l'intorno dentrocui vale l'identità enunciata nel lemma di Morse.

    2.3 Esistenza di funzioni di Morse

    Abbiamo �nora considerato funzioni senza punti critici degeneri, senza però mai mostrareche tali funzioni esistano davvero. Senza addentrarci nei particolari, in questa sezionedaremo alcuni risultati di esistenza di tali funzioni per varietà immerse in Rn, perqualche n. Tale condizione non è limitativa visto che, grazie al teorema di Whitney,ogni varietà di�erenziabile può essere immersa in uno spazio Rn, con n opportuno.

    1Ricordiamo che con la dizione 'punto critico isolato' intendiamo un punto critico per cui esisteun intorno su�cientemente piccolo da non contenere altri punti critici oltre a se stesso.

  • 2.3. Esistenza di funzioni di Morse 24

    Sia M ⊂ Rn una varietà di�erenziabile di dimensione k < n immersa in mododi�erenziabile in Rn. Per ogni punto p∈ Rn, de�niamo la funzione Lp : M → R comeLp(q) =‖ p − q ‖2. Ciò che dimostreremo è che la funzione Lp è una funzione diMorse. Per dimostrare tale importante risultato introduciamo alcune de�nizioni:

    De�nizione 2.3.1. Lo spazio totale del �brato normale di M è il sottoinsiemeN ⊂M × Rn così de�nito:

    N = {(q,v) : q ∈M,v ⊥M nel punto q}

    Osservazione 2.3.2. Si veri�ca facilmente che N è una varietà di�erenziabile didimensione n, immersa in maniera di�erenziabile in R2n.

    De�nizione 2.3.3. La mappa di punto �nale è l'applicazione E : N → Rn de�nitacome segue:

    E(q,v) = q + v

    per ogni q ∈M e ogni v ∈ Rn.

    De�nizione 2.3.4. Un punto e ∈ Rn è detto punto focale di (M,q) con moltepli-cità µ, se e solo se e = q + v = E(q,v) dove (q,v) ∈ N e la matrice jacobiana diE valutata in (q,v) ha nullità µ > 0. Il punto e sarà invece chiamato semplicementepunto focale di M se e è un punto focale di (M,q), per qualche q ∈M .

    Possiamo pensare intuitivamente ad un punto focale di una varietà M come unpunto di Rn in prossimità del quale le normali si intersecano.Per procedere nella trattazione occorre ora utilizzare, tra le altre cose, una versionedel lemma di Sard che esponiamo senza dimostrazione.

    Teorema 2.3.5 (di Sard). Data una funzione liscia f : M → N de�nita tra duevarietà di�erenziabili, l'insieme dei valori critici di f ha misura nulla in N .

    Sfruttando questo risultato possiamo subito enunciare e dimostrare il seguentecorollario il quale a�erma che i punti focali di una varietà M sono un insieme trascu-rabile:

    Corollario 2.3.6. Per q.o. x ∈ Rn, il punto x non è un punto focale di M .

    Dimostrazione. Ricordandoci dell'osservazione 2.3.2 e sfruttando la de�nizione dipunto focale di M , notiamo che x è un punto focale di M se e solo se esso è unvalore critico della funzione E. Applicando quindi la versione 2.3.5 del lemma di Sard,abbiamo subito la tesi.

    Per spiegare meglio cosa intendiamo per punto focale, richiamiamo qui di segui-to le de�nizioni di prima e seconda forma fondamentale di una varietà di�erenzia-bile immersa in uno spazio euclideo sfruttando un sistema di coordinate locali cheimmaginiamo �ssato.

    Sia dunque U ⊂M un aperto sulla varietà e indichiamo con (u1, · · · , uk) un sistemadi coordinate locali de�nito su U e centrato in un punto p ∈ M ⊂ Rn. L'immersionedella varietà M nello spazio euclideo Rn fornisce n funzioni lisce:

    x1(u1, · · · , uk), · · · , xn(u1, · · · , uk).

    Esse possono essere più brevemente riunite nell'espressione di un'unica funzione vet-toriale liscia che scriveremo come:

    −→x = −→x (u1, · · · , uk) = (x1(u1, · · · , uk), · · · , xn(u1, · · · , uk)).

  • 2.3. Esistenza di funzioni di Morse 25

    Diamo ora la de�nizione di prima forma fondamentale di una varietà sfruttando quantodetto:

    De�nizione 2.3.7. La prima forma fondamentale di una varietà M associata adun sistema di coordinate scelto, è la matrice così de�nita:

    (gij) =(∂−→x∂ui· ∂−→x∂uj

    )Essa è una matrice simmetrica e de�nita positiva, costituita da funzioni reali e l'o-perazione indicata è l'ordinario prodotto scalare.

    La matrice che invece rappresenta la seconda forma fondamentale è costituita dafunzioni vettoriali. Vediamo come arrivare ad una sua possibile de�nizione.Un qualsiasi vettore della forma ∂

    2−→x∂ui∂uj

    ammette la seguente decomposizione:

    ∂2−→x∂ui∂uj

    =−→tij +

    −→lij

    nella quale−→tij è un vettore tangente alla varietà nel punto considerato, mentre

    −→lij è un

    vettore normale ad essa.

    De�nizione 2.3.8. Scelto un sistema di coordinate locali, la seconda forma fon-damentale della varietà M è la matrice simmetrica (lij) costituita dalle funzioni avalori vettoriali

    −→lij il cui valore in ogni punto è la componente normale di

    ∂2−→x∂ui∂uj

    in

    quel punto. Inoltre dato un vettore v, ‖ v ‖= 1, normale a M nel punto q, la matricedi numeri reali: (

    v · ∂2−→x

    ∂ui∂uj(q))

    =(v ·−→lij(q)

    )è chiamata seconda forma fondamentale di M in q nella direzione di v.

    D'ora in poi assumiamo che il sistema di coordinate locali sia scelto in modo taleche la matrice (gij), valutata nel punto q sia l'identità.

    De�nizione 2.3.9. Gli autovalori λ1, · · · , λk della matrice(v ·−→lij(q)

    )sono chiamati

    curvature principali di M in q nella direzione normale v. I reciproci λ−11 , · · · , λ−1k

    delle curvature principali sono invece detti raggi principali di curvatura. Potrebbe

    accadere che la matrice(v ·−→lij(q)

    )sia singolare. In questo caso una o più curvature

    principali λi saranno nulle e quindi alcuni raggi principali di curvatura non sarannode�niti.

    Consideriamo adesso la linea normale ` costituita da tutti i punti della forma q+tv,dove v è un vettore unitario �ssato ortogonale a M nel punto q.

    Lemma 2.3.10. I punti focali di (M,q) lungo la linea ` sono precisamente i puntiq+λ−1i v, dove 1 ≤ i ≤ k, λi 6= 0. Ci sono dunque al massimo k punti focali di (M,q)lungo la linea `, contando ognuno con la propria molteplicità.

    Dimostrazione. Scegliamo n−k funzioni vettoriali de�nite su M , in modo tale che ivettori w1(u1, · · · , uk), · · · ,wn−k(u1, · · · , uk), ossia i valori assunti in ogni punto dellavarietà siano tali che:

    ‖ wi ‖= 1, wi ⊥ wj , wi ⊥M ∀i, j.

  • 2.3. Esistenza di funzioni di Morse 26

    Introduciamo un sistema di coordinate locali sulla varietà N .Le coordinate (u1, · · · , uk, t1, · · · , tn−k) corrispondano al punto(

    −→x (u1, · · · , uk),n−k∑α=1

    tαwα(u1, · · · , uk)

    )∈ N

    Allora la funzione E : N → Rn crea una corrispondenza che chiamiamo −→e :

    −→e : (u1, · · · , uk, t1, · · · , tn−k) 7→ −→x (u1, · · · , uk) +n−k∑α=1

    tαwα(u1, · · · , uk)

    le cui derivate parziali:∂−→e∂ui

    =∂−→x∂ui

    +n−k∑α=1

    tα∂wα∂ui

    per i = 1, · · · , k

    ∂−→e∂tβ

    = wβ per β = 1, · · · , n− k

    Consideriamo ora i prodotti scalari dei vettori considerati con i vettori linearmenteindipendenti ∂

    −→x∂u1

    , · · · , ∂−→x

    ∂uk,w1, · · · ,wn−k. Quello che otteniamo è una matrice n× n,

    avente per rango quello della jacobiana di E valutata nel punto corrispondente. Lamatrice ha la seguente forma: (∂−→x∂ui · ∂−→x∂uj +∑n−kα=1 tα ∂wα∂ui · ∂−→x∂uj ) (∑n−kα=1 tα ∂wα∂ui ·wβ)

    0 Id

    dove il blocco in basso a sinistra rappresenta la matrice nulla e quello in basso a destrala matrice identità, entrambe di ordine n−k. La nullità della matrice scritta è dunqueuguale a quella del suo blocco in alto a sinistra. Usando l'identità:

    0 =∂

    ∂ui

    (wα ·

    ∂−→x∂uj

    )=∂wα∂ui

    · ∂−→x∂uj

    + wα ·∂2−→x∂ui∂uj

    notiamo che il blocco che ci interessa non è nient'altro che la matrice:(gij −

    n−k∑α=1

    tαwα ·−→l ij

    )

    Possiamo dunque a�ermare che q+tv è un punto focale di (M,q) con molteplicità µ sela matrice

    (gij(q)− tv ·

    −→l ij(q)

    )è singolare con nullità µ. Per ipotesi sappiamo che la

    matrice (gij(q)) è l'identità e dunque abbiamo che(gij(q)− tv ·

    −→l ij(q)

    )è singolare

    se e solo se 1/t è un autovalore della matrice(v ·−→l ij(q)

    ). Inoltre, la molteplicità di

    µ è uguale alla molteplicità algebrica di 1/t come autovalore.

    Fissiamo ora il punto p ∈ Rn e poniamo per comodità f := Lp : M → R.

    Lemma 2.3.11. Un punto q ∈M è un punto critico degenere della funzione f = Lpse e solo se p è un punto focale di (M,q) e la nullità di q come punto critico è ugualealla molteplicità di p come punto focale.

  • 2.3. Esistenza di funzioni di Morse 27

    Dimostrazione. Ricordando la de�nizione della funzione Lp, possiamo esprimere lafunzione f come segue:

    f(−→x (u1, · · · , uk)) =‖ −→x (u1, · · · , uk)− p ‖2= −→x · −→x − 2−→x · p + p · p.

    Abbiamo dunque:∂f

    ∂ui= 2

    ∂−→x∂ui· (−→x − p)

    Pertanto q è un punto critico per f se e solo se q− p è ortogonale ad M in q.Per quanto riguarda le derivate seconde, invece, notiamo che esse sono date da:

    ∂2f

    ∂ui∂uj= 2

    (∂−→x∂ui· ∂−→x∂uj

    +∂2−→x∂ui∂uj

    · (−→x − p)). (2.8)

    Facendo ora la posizione p = −→x + tv, la 2.8, valutata nel punto q diventa:

    ∂2f

    ∂ui∂uj(q) = 2(gij(q)− tv ·

    −→lij(q))

    da cui si ha subito la tesi.

    Riunendo ora quanto a�ermato con il corollario 2.3.6 otteniamo subito il seguenteteorema che a�erma che la funzione Lp è un esempio di funzione di Morse.

    Teorema 2.3.12. Per quasi ogni p ∈ Rn, la funzione Lp : M → R non ha punticritici degeneri.

    Il precedente teorema ha un interessantissimo corollario, il quale a�erma sostanzial-mente che le funzione di Morse sono un insieme denso nell'insieme delle funzioniC∞:

    Corollario 2.3.13 (densità delle funzioni di Morse). Ogni funzione liscia limitataf : M → R può essere approssimata nel senso della convergenza uniforme da unafunzione liscia g priva di punti critici degeneri. Inoltre, la funzione g può essere sceltain modo tale che, scelto un insieme compatto K ⊂M all'interno del quale si è �ssatoun sistema di coordinate locali (u1, · · · , uk), la derivata ∂g∂ui approssimi nel senso dellaconvergenza uniforme la derivata ∂f∂ui , per ogni i ≤ k.

    Dimostrazione. Scegliamo un'immersione h : M → Rn in modo tale che la varietàM venga mappata in un sottoinsieme limitato di qualche spazio euclideo e che la primacoordinata h1 coincida esattamente con la funzione f . Scegliamo ora un numero c ∈ Rsu�cientemente grande e delle quantità ε1, ε2, · · · , εn tutte positive e arbitrariamentepiccole tali che, scegliendo p = (−c + ε1, ε2, · · · , εn) ∈ Rn, la funzione Lp : M → Rsia non degenere. De�niamo ora la funzione g come segue:

    g(x) =Lp(x)− c2

    2cLa funzione g è non degenere e con un breve calcolo otteniamo che:

    g(x) = f(x)− ε1 +n∑i=1

    (hi(x))2

    2c−

    n∑i=1

    εihi(x)c

    +n∑i=1

    ε2i2c

    Da questa scrittura è chiaro che, scegliendo c abbastanza grande e gli εi abbastanzapiccoli, si può fare in modo che g e le sue derivate approssimino rispettivamente f e lesue derivate nel senso della convergenza uniforme.

  • 2.4. Gruppi ad un parametro di di�eomor�smi 28

    2.4 Gruppi ad un parametro di di�eomor�smi

    Concludiamo questo capitolo introducendo e dando un risultato di esistenza e unicitàper i gruppi ad un parametro di di�eomor�smi, nozione tramite la quale, nel capitoloseguente, enunceremo e dimostreremo un teorema cardine della Teoria di Morse.

    De�nizione 2.4.1. Un gruppo ad un parametro di di�eomor�smi de�nito suuna varietà M è un'applicazione liscia ϕ : R × M → M che soddisfa le seguentiproprietà:

    1. per ogni t ∈ R la mappa ϕt : M → M de�nita da ϕt(q) = ϕ(t, q) è undi�eomor�smo2 di M su se stessa;

    2. per ogni t, s ∈ R si ha ϕt+s = ϕt ◦ ϕs.

    Dato un gruppo ad un parametro di di�eomor�smi è sempre possibile de�nire uncampo vettoriale X su M nel modo seguente. Per ogni funzione reale liscia f e sceltoun punto q ∈M , si consideri

    Xq(f)def= lim

    h→0

    f(ϕh(q))− f(q)h

    (2.9)

    Diciamo che il campo vettoriale de�nito in 2.9 genera il gruppo ϕ.Il teorema seguente ci dà una condizione su�ciente perché un campo vettoriale asse-gnato generi un unico gruppo ad un parametro di di�eomor�smi.

    Teorema 2.4.2. Sia X un campo vettoriale liscio a supporto compatto de�nito su unavarietà M . Allora X genera un unico gruppo a un parametro di di�eomor�smi su M .

    Dimostrazione. Data una qualunque curva liscia t 7→ c(t) ∈M , de�niamo il vettorevelocità dcdt ∈ Tc(t)(M) come:

    dc

    dt(f)

    def= lim

    h→0

    f(c(t+ h))− f(c(t))h

    Sia ora ϕt un gruppo ad un parametro di di�eomor�smi, generato dal campo vettorialeX. Allora, per ogni punto q ∈ M �ssato, la curva t 7→ ϕt(q) soddisfa il problema diCauchy: {

    dϕt(q)dt = Xϕt(q)ϕ0(q) = q

    (2.10)

    La prima delle due equazioni è vera poiché:

    dϕt(q)dt

    (f) = limh→0

    f(ϕt+h(q))− f(ϕt(q))h

    = limh→0

    f(ϕh(p))− f(p)h

    = Xp(f)

    dove p = ϕt(q). Come sappiamo però, un problema di�erenziale del tipo 2.10 che, intermini delle coordinate locali u1, · · · , un assume la forma più familiare

    duidt

    = xi(u1, · · · , un), i = 1, · · · , n

    possiede, localmente, un'unica soluzione che dipende in maniera C∞ dalle condizioniiniziali. Per ogni punto di M , pertanto, esiste un intorno U del punto stesso ed un

    2Ricordiamo che un di�eomor�smo tra due varietà di�erenziabili è una funzione di�erenziabile,invertibile e con inversa di�erenziabile.

  • 2.4. Gruppi ad un parametro di di�eomor�smi 29

    numero ε > 0 per i quali il problema di�erenziale 2.10 ha un'unica soluzione liscia perogni q ∈ U e | t |< ε.

    Grazie alla proprietà di compattezza, inoltre, K può essere ricoperto da un numero�nito di tali intorni U . Sia ora ε0 > 0 il più piccolo degli ε corrispondenti a questiintorni e poniamo ϕt(q) = q per q 6∈ K. Segue allora subito che questa equazionedi�erenziale ha un'unica soluzione ϕt(q) per tutti i t, | t |< ε0 e per q ∈ M . Talesoluzione è liscia vista come funzione di due variabili ed è inoltre chiaro che ϕt+s =ϕt ◦ ϕs ogni volta che | t |, | s |, | t+ s |< ε0. Inoltre ogni ϕt è un di�eomor�smo.Quello che dobbiamo fare per completare la dimostrazione è de�nire ϕt per tutti it, | t |≥ ε0. Ogni t ∈ R può essere espresso come un multiplo di ε0/2 più un resto r,con | r |< ε0/2. Se dunque t = k(ε0/2) + r, k ≥ 0, poniamo:

    ϕ = ϕε0/2 ◦ ϕε0/2 ◦ · · · ◦ ϕε0/2︸ ︷︷ ︸kvolte

    ◦ϕr

    Se invece k < 0 sostituiamo nella de�nizione di ϕt il di�eomor�smo ϕε0/2 con ϕ−ε0/2 eiterare la trasformazione −k volte. In questo modo ϕt risulta de�nito per tutti i valoridi t. Si mostra facilmente che ϕt è ben de�nito, di classe C∞ e soddisfa la condizioneϕt+s = ϕt ◦ ϕs.

    Osservazione 2.4.3. L'ipotesi che il campo vettoriale X abbia un supporto compattoè essenziale. Si consideri il caso in cui M è l'intervallo unitario aperto (0, 1) ⊂ R, esia X il campo vettoriale standard ddt su M . Esso non ha supporto compatto e nongenera alcun gruppo ad un parametro di di�eomor�smi su M .

  • Capitolo 3

    Omotopia e valori critici

    Nel seguente capitolo ci serviremo del Lemma di Morse 2.2.2 per studiare come cambiala topologia di una varietà di�erenziabile tramite l'analisi dei valori critici di funzionidi Morse. I teoremi presentati costituiscono la parte centrale della Teoria di Morse edi questo breve lavoro.

    3.1 Funzioni di Morse e omotopia

    Prima di enunciare il primo importante teorema del capitolo, diamo due ulterioride�nizioni di cui ci serviremo. Muniamo d'ora in poi M di una metrica riemannianae indichiamo con < v,w > il prodotto scalare associato da tale metrica a due vettoritangenti v e w.

    De�nizione 3.1.1. Per ogni a ∈ R poniamo:

    Madef= f−1(−∞, a] = {p ∈M : f(p) ≤ a}

    De�nizione 3.1.2. Il gradiente di una funzione f : M → R è un campo vettorialeindicato con ∇f e de�nito su M dall'identità:

    < X,∇f >= X(f)

    per ogni campo vettoriale liscio X de�nito su M . Scelto un sistema di coordinate locali(u1, · · · , un), il gradiente di f ha componenti:

    (∇f)i =n∑j=1

    gij∂f

    ∂uji = 1, · · · , n

    dove le gij sono le componenti del tensore metrico.

    Osservazione 3.1.3. Per come è stato de�nito, il campo vettoriale ∇f si annullaesattamente in corrispondenza dei punti critici di f . Se il campo vettoriale X dellade�nizione 3.1.2 è il campo vettoriale velocità dαdt di una curva α : R → M , valel'identità:

    <dα

    dt,∇f >= d(f ◦ α)

    dt

    30

  • 3.1. Funzioni di Morse e omotopia 31

    Teorema 3.1.4. Sia f : M → R una funzione liscia de�nita sulla varietà M . Pera, b ∈ R tali che a < b si supponga che l'insieme f−1[a, b] = {p ∈M : a ≤ f(p) ≤ b}sia compatto e non contenga punti critici. Allora Ma è di�eomorfo a M b. Inoltre,Ma è un retratto di deformazione di M b, dunque la mappa di inclusione i : Ma ↪→M bè un'equivalenza omotopica.

    Dimostrazione. Sia g : M → R la funzione liscia così de�nita:

    g(x)def=

    −1

    < ∇f(x),∇f(x) >se x ∈ f−1[a, b]

    0 se x ∈M \K

    dove K ⊂M è un intorno compatto contenente l'insieme f−1[a, b]. De�niamo ora, perun generico q ∈M il campo vettoriale:

    Xqdef= g(q)(∇f)q

    e notiamo che esso soddisfa le ipotesi del Teorema 2.4.2. Applicandolo possiamo quindidedurre cheX genera un unico gruppo ad un parametro di di�eomor�smi ϕt : M →M .Fissiamo ora q ∈ M e consideriamo la funzione t 7→ f(ϕt(q)). Se ϕt(q) è contenutonell'insieme f−1[a, b], allora:

    df(ϕt(q))dt

    =〈dϕt(q)dt

    , (∇f)ϕt(q)〉

    =〈Xϕt(q), (∇f)ϕt(q)

    〉= −1.

    Se invece f(ϕt(q)) 6∈ K si ha df(ϕt)dt = 0 perché X è nullo fuori da K. La funzione:t 7→ f(ϕt(q)) è dunque lineare con derivata uguale a -1 quando f(ϕt(q)) ∈ [a, b],ovvero, detto in altre parole: f(ϕt(q)) = f(q)− t se f(q) ∈ [a, b] e se a ≤ f(q)− t ≤ b.Si ha allora che ϕt(f−1(c)) = f−1(c − t) per c ∈ [a, b] e a ≤ c − t ≤ b. Il �ussoϕt scambia quindi gli insiemi di livello di f . Ciò signi�ca che ϕb−c mappa f−1(b)di�eomor�camente in f−1(c) per ogni c ∈ [a, b] e, per ogni t, ϕt è l'identità fuorida f−1(K). Abbiamo quindi dimostrato la prima parte del teorema considerando ildi�eomor�smo ϕb−a : M → M che porta M b di�eomor�camente su Ma. Inoltre,de�nendo la famiglia di applicazioni rt, dove rt : M b →M b, tramite:

    rt(q) =

    {q se f(q) ≤ aϕt(f(q)−a)(q) se a ≤ f(q) ≤ b

    si ha che r0 è l'identità e r1 è una retrazione da M b a Ma. Dunque Ma è un retrattodi deformazione di M b.

    Osservazione 3.1.5. La condizione che f−1[a, b] sia un insieme compatto è essen-ziale. Immaginiamo di considerare una varietà M cui togliamo un punto p ∈ f−1[a, b].Ovviamente non è possibile retrarre con continuità M b su Ma e pertanto il teoremanon vale.

    Il seguente teorema precisa invece cosa succede alla topologia di una varietà inprossimità di un punto critico.

    Teorema 3.1.6. Sia f : M → R una funzione liscia de�nita sulla varietà liscia Me sia p ∈ M un punto critico non degenere di indice λ. Sia c il valore critico di fassunto in corrispondenza di p e si supponga che, per un ε > 0 opportunamente scelto,f−1[c − ε, c + ε] sia compatto e non contenga altri punti critici diversi da p. Alloral'inseme M c+ε è omotopicamente equivalente a M c−ε con una λ−cella attaccata.

  • 3.1. Funzioni di Morse e omotopia 32

    Dimostrazione. Come prima cosa applichiamo il lemma di Morse 2.2.2 alla funzionef e al punto p, trovando un intorno U di p e un sistema di coordinate locali (y1, · · · , yn)tali che, per ogni q ∈ U valga l'identità:

    f(q) = c− (y1(q))2 − · · · − (yλ(q))2 + (yλ+1(q))2 + · · ·+ (yn(q))2 (3.1)

    e si abbia y1(p) = · · · = yn(p) = 0.Scegliamo ora ε > 0 abbastanza piccolo in modo tale che si abbiano veri�cate leseguenti proprietà:

    (i) L'insieme f−1[c− ε, c+ ε] sia compatto e non contenga altri punti critici oltre a p.

    (ii) Considerata l'immersione liscia ψ : U → Rn, data dalla scelta delle coordinatelocali, si abbia che ψ(U) ⊃ B√2ε ovvero la palla chiusa n-dimensionale di raggio√

    2ε e centro l'origine de�nita da:

    B√2ε =

    (y1, · · · , yn) :n∑j=1

    (yj)2 ≤ 2ε

    De�niamo ora la n-cella eλ come segue:

    eλ ={

    (y1, · · · , yn) : (y1)2 + · · ·+ (yλ)2 ≤ ε, yλ+1 = · · · = yn = 0}

    Diamo una rappresentazione gra�ca della situazione che ci aiuterà a capire comemuoverci:

    Figura 3.1: Rappresentazione della situazione in prossimità del punto critico p

    Gli assi coordinati rappresentano rispettivamente i piani yλ+1 = · · · = yn = 0 e

  • 3.1. Funzioni di Morse e omotopia 33

    y1 = · · · = yλ = 0; la circonferenza rappresenta il bordo di B√2ε; le iperboli sono levarietà f−1(c− ε) e f−1(c+ ε). Sostituendo infatti f = c− ε nella 3.1 si ottiene:

    c− ε = c− (y1(q))2 − · · · − (yλ(q))2 + (yλ+1(q))2 + · · ·+ (yn(q))2

    e si ricava quindi:

    ε =λ∑i=1

    y2i −n∑

    i=λ+1

    y2i = X2 − Y 2

    ovvero proprio l'equazione di un'iperbole nel piano XY , dove X =| (y1, · · · , yλ) | eY =| (yλ+1, · · · , yn) |. In modo analogo si può procedere imponendo le condizionif = c+ ε e f = ε, trovando rispettivamente:

    −X2 + Y 2 = ε −X2 + Y 2 = 0

    La regione M c−ε è quella colorata in modo più scuro, la regione f−1[c− ε, c] è quellapuntinata e la regione f−1[c, c + ε] è quella colorata in modo più chiaro. La lineaorizzontale scura passante per p rappresenta la cella eλ. Dalla �gura è chiaro che:eλ∩M c−ε = ∂eλ, e dunque la λ-cella eλ è attaccata aM c−ε come richiesto. Mostriamoora che M c−ε ∪ eλ è un retratto di deformazione di M c+ε.

    Per fare ciò consideriamo una funzione liscia γ : R→ R con le seguenti caratteris-tiche:

    γ(0) > εγ(t) = 0 se t ≥ 2ε

    −1 < γ′(t) ≤ 0 per tutti i t

    Figura 3.2: Andamento qualitativo della funzione γ de�nita

    L'ultima condizione signi�ca che la funzione γ è non crescente nell'intervallo [0, 2ε]e ivi non può assumere massimi relativi. Notiamo, inoltre, che in questo intervallo lafunzione γ è sempre non negativa (vedi �gura 3.2).

    Per tutti i punti q ∈ U , l'intorno precedentemente trovato, de�niamo le due funzioniξ, η : M → [0,∞) come segue:

    ξ(q) = (y1(q))2 + · · ·+ (yλ(q))2

  • 3.1. Funzioni di Morse e omotopia 34

    η(q) = (yλ+1(q))2 + · · ·+ (yn(q))2

    Notiamo che, tramite queste posizioni, l'identità 3.1 può essere scritta come:f(q) =c − ξ(q) + η(q). De�niamo ora una funziona liscia F : M → R, F ≤ f nel modoseguente:

    F (q)def=

    {f(q) se q ∈M \ Uc− ξ(q) + η(q)− γ(ξ(q) + 2η(q)) se q ∈ U

    Analizziamo ora nel dettaglio la funzione F appena de�nita.Occupiamoci, per prima cosa, di studiare com'è fatto l'insieme:

    F−1(−∞, c+ ε] = {q ∈M : F (q) ≤ c+ ε} .

    Consideriamo un generico punto q ∈ M : se vale ξ(q) + 2η(q) > 2ε (ovvero se siamofuori dall'ellissoide ξ+2η ≤ 2ε), si ha che γ(ξ(q)+2η(q)) = 0, pertanto per de�nizionedi F si ha che essa coincide con f dato che vale: F (q) = c − ξ(q) + η(q) = f(q). Seinvece ci troviamo dentro l'ellissoide allora vale:

    F (q) ≤ f(q) = c− ξ(q) + η(q) ≤ c+ 12ξ(q) + η(q) ≤ c+ ε

    Pertanto deduciamo che

    F−1(−∞, c+ ε] = f−1(−∞, c+ ε] = M c+ε. (3.2)

    Vediamo ora come sono fatti i punti critici di F . Ricordandoci la condizione su γ′

    possiamo scrivere:

    ∂F

    ∂ξ= −1− γ′(ξ + 2η) < 0

    ∂F

    ∂η= 1− 2γ′(ξ + 2η) ≥ 1

    e banalmente si ha che:

    dF =∂F

    ∂ξdξ +

    ∂F

    ∂ηdη.

    I due vettori dξ e dη sono nulli solamente in corrispondenza del punto p e da questosegue che l'unico punto critico di F all'interno di U è il punto p stesso. Tale ragiona-mento può essere ripetuto per tutti i punti critici di f e concludiamo pertanto che Fe f hanno gli stessi punti critici.

    Studiamo ora l'insieme: F−1[c − ε, c + ε]. Grazie alla 3.2 e alla disuguaglianzasempre vera F ≤ f , abbiamo che vale:

    F−1[c− ε, c+ ε] ⊂ f−1[c− ε, c+ ε]

    L'insieme f−1[c− ε, c+ ε] è compatto per ipotesi e, poiché F−1[c− ε, c+ ε] è chiuso,deduciamo che è anche compatto. Inoltre, per quanto detto, non può contenere altripunti critici eccetto, eventualmente, p. Vediamo però che p non appartiene a questoinsieme, dal momento che: F (p) = c − γ(0) < c − ε. Siamo quindi nelle condizionidi poter applicare il teorema 3.1.4 e concludere dunque che F−1(−∞, c − ε] è unretratto di deformazione di M c+ε. Possiamo pensare all'insieme F−1(−∞, c− ε] come

  • 3.1. Funzioni di Morse e omotopia 35

    all'unione tra M c−ε e un 'manico' attaccato. Scriveremo d'ora in poi, al posto diF−1(−∞, c− ε], M c−ε ∪H dove H è la chiusura di F−1(−∞, c− ε] \M c−ε.

    Osserviamo ora che la cella eλ consta di tutti i punti q tali che ξ(q) ≤ ε e η(q) = 0ed è contenuta in H. Questo perché, come abbiamo visto, ∂F∂ξ < 0 e dunque, per tuttii punti q ∈ eλ, valgono:

    F (q) ≤ F (p) < c− εf(q) ≥ c− ε

    Mostriamo ora cheM c−ε∪eλ è un retratto di deformazione diM c−ε∪H. La retrazioneche consideriamo rt : M c−ε∪H →M c−ε∪H è de�nita come l'identità fuori dall'apertoU , mentre per i punti appartenenti a questo aperto, dobbiamo distinguere alcuni casi.

    • Come primo caso consideriamo l'insieme dei punti in cui ξ ≤ ε: per questi puntirt agisce in questo modo:

    (y1, · · · , yn)rt7→ (y1, · · · , yλ, tyλ+1, · · · , tyn)

    Con una tale de�nizione r1 risulta essere l'identità e r0 mappa l'insieme consid-erato in eλ.

    • Come secondo insieme consideriamo quello in cui: ε ≤ ξ ≤ η + ε. Al suo internode�niamo rt in modo tale che agisca come segue:

    (y1, · · · , yn)rt7→ (y1, · · · , yλ, styλ+1, · · · , styn)

    dove st è un numero reale dell'intervallo [0, 1] de�nito tramite il t dell'omotopiacome:

    st = t+ (1− t)

    √ξ − εη

    Notiamo allora che r1 è ancora l'identità mentre r0 mappa tutto l'insieme con-siderato nella regione f−1(c− ε).

    • L'ultimo insieme da considerare è quello dei punti in cui η+ε ≤ ξ (ovvero dentroM c−ε). Per questi punti basta de�nire rt come l'identità per tutti i t ∈ [0, 1].Notiamo che tale de�nizione ha anche il vantaggio di essere coerente con quellaprecedentemente data non appena ξ = η + ε.

    Quanto detto mostra cheM c−ε∪eλ è un retratto di deformazione di F−1(−∞, c+ε]e completa la dimostrazione del teorema.

    Osservazione 3.1.7. I due teoremi appena visti dicono quindi che, data una funzionedi Morse f , se l'insieme f−1[a, b] è compatto, la topologia tra Ma e M b cambia nonappena esistono valori critici nell'intervallo [a, b]. La richiesta che il punto critico sianon degenere è essenziale: consideriamo il controesempio in cui M è la retta reale e lafunzione in esame è f(x) = x3. Scegliamo un a < 0: si ha che 0 è un punto critico, mala topologia di Ma non cambia quando a passa per 0.

    Osservazione 3.1.8. Tramite una dimostrazione simile a quella vista è possibile di-mostrare il risultato più generale secondo cui se nell'insieme f−1(c) ci sono k punticritici non degeneri p1, · · · , pk con indici rispettivamente λ1, · · · , λk, allora M c+ε èomotopicamente equivalente a M c−ε ∪ eλ1 ∪ · · · ∪ eλk .

  • 3.2. Equivalenza a CW-complessi 36

    Osservazione 3.1.9. E' possibile mostrare, modi�cando leggermente la dimostrazionedel teorema 3.1.6, che anche l'insieme M c è un retratto di deformazione di M c+ε.L'insieme M c è infatti un retratto di deformazione di F−1(−∞, c] il quale è a suavolta un retratto di deformazione di M c+ε. Quanto detto, insieme al teorema 3.1.6 cipermette di concludere che M c−ε ∪ eλ è un retratto di deformazione di M c.

    3.2 Equivalenza a CW-complessi

    L'ultimo teorema che ci accingiamo ad enunciare e dimostrare richiede due lemmipreliminari riguardanti un generico spazio topologico X con una cella attaccata.

    Lemma 3.2.1 (di Whitehead). Siano ϕ0, ϕ1 : ∂eλ → X due mappe omotope def-inite sulla sfera Sλ−1. Allora la mappa identica su X si estende ad un'equivalenzaomotopica:

    k : X ∪ϕ0 eλ → X ∪ϕ1 eλ

    Dimostrazione. Scelto un sistema di coordinate locali (u1, · · · , un) : eλ → Rn per lacella eλ, de�niamo k come segue:

    k(x) = x se x ∈ Xk(tu) = 2tu se 0 ≤ t ≤ 1/2 e u ∈ ∂eλ

    k(tu) = ϕ2−2t(u) se 1/2 ≤ t ≤ 1 e u ∈ ∂eλ

    dove ϕt indica l'omotopia tra ϕ0 e ϕ1. Si veri�ca che k è ben de�nita. Si puòanalogamente de�nire un'applicazione:

    l : X ∪ϕ1 eλ → X ∪ϕ0 eλ

    tramite: l(x) = x se x ∈ X

    l(tu) = 2tu se 0 ≤ t ≤ 1/2 e u ∈ ∂eλ

    l(tu) = ϕ2t−1(u) se 1/2 ≤ t ≤ 1 e u ∈ ∂eλ

    Non è ora di�cile mostrare che le composizioni k◦l e l◦k sono omotope rispettivamenteall'identità suX∪ϕ1eλ e suX∪ϕ0eλ. La funzione k è dunque un'equivalenza omotopica.

    Lemma 3.2.2. Sia ϕ : ∂eλ → X una mappa di attaccamento di una λ-cella sullospazio topologico X. Allora ogni equivalenza omotopica f : X → Y si estende adun'equivalenza omotopica:

    F : X ∪ϕ eλ → Y ∪f◦ϕ eλ

    Dimostrazione. De�niamo F in modo tale che:

    F (x)def=

    {f(x) se x ∈ X

    x se x ∈ eλ

    Sia ora g : Y → X l'inversa omotopica di f e de�niamo G come segue:

    G : Y ∪f◦ϕ eλ → X ∪g◦f◦ϕ eλ

  • 3.2. Equivalenza a CW-complessi 37

    G(y)def=

    {g(y) se y ∈ Yy se y ∈ eλ

    La composizione g ◦ f ◦ ϕ è omotopa a ϕ e grazie al lemma 3.2.1 ricaviamo l'esistenzadi un'equivalenza omotopica k : X ∪g◦f◦ϕ eλ → X ∪ϕ eλ.Come prima cosa mostriamo che la composizione k ◦ G ◦ F : X ∪ϕ eλ → X ∪ϕ eλ èomotopa alla mappa identica.

    Sia ht un'omotopia tra g ◦ f e l'identità. Usando le de�nizioni di k,G e F notiamoche:

    (k ◦G ◦ F )(x) = (g ◦ f)(x) se x ∈ X(k ◦G ◦ F )(tu) = 2tu se 0 ≤ t ≤ 1/2 e u ∈ ∂eλ

    (k ◦G ◦ F )(tu) = (h2−2t ◦ ϕ)(u) se 1/2 ≤ t ≤ 1 e u ∈ ∂eλ.

    De�niamo ora l'omotopia cercata come:

    qτ (x) : X ∪ϕ eλ → X ∪ϕ eλqτ (x) = hτ (x) se x ∈ X

    qτ (tu) = 2tu/(1 + τ) se 0 ≤ t ≤ (1 + τ)/2, u ∈ ∂eλ

    qτ (tu) = (h2−2t+τ ◦ ϕ)(u) se (1 + τ)/2 ≤ t ≤ 1, u ∈ ∂eλ

    La funzione F ha, pertanto, un'inversa omotopica sinistra. Per concludere ricordiamoil risultato seguente: se una generica funzione α ammette sia un'inversa omotopicasinistra L, sia un'inversa omotopica destra R, allora α è un'equivalenza omotopica edR (o L) è un'inversa omotopica bilatera. Notiamo infatti che la relazione k◦G◦F ∼ Idasserisce l'esistenza per F di un'inversa omotopica sinistra e analogamente si puòmostrare che anche G ammette un'inversa omotopica sinistra. Per concludere oranotiamo che:

    • Poiché k ◦ (G ◦ F ) ∼ Id e k è supposta avere un'inversa sinistra, segue che(G ◦ F ) ◦ k ∼ Id.

    • Poiché G ◦ (F ◦ k) ∼ Id e G è supposta avere un'inversa sinistra, segue che(F ◦ k) ◦G ∼ Id.

    • Poiché F ◦ (k ◦ G) ∼ Id e F ha k ◦ G come inversa sinistra, segue che F èun'equivalenza omotopica.

    Enunciamo e dimostriamo ora l'ultimo importante teorema di questa sezione ilquale asserisce che, sotto particolari ipotesi, una qualsiasi varietà di�erenziabile èomotopicamente equivalente ad un opportuno CW -complesso.

    Teorema 3.2.3. Sia f : M → R una funzione liscia de�nita su una varietà compattaM . Se f non ha punti critici degeneri allora M è omotopicamente equivalente ad unCW -complesso �nito dimensionale tale che, per ogni λ = 1, · · · , dim(M), il numerodelle λ-celle è uguale al numero dei punti critici di f aventi indice uguale a λ.

    Dimostrazione. Siano c1, c2, · · · i valori critici di f . Possiamo supporre, a menodi riordinamento, che c1 < c2 < c3 < · · · . La successione {cn} non ha punti diaccumulazione dal momento che, grazie alla compattezza di M , anche ogni Ma ècompatto e Ma = ∅ per a < c1. Procediamo per induzione: supponiamo che per

  • 3.2. Equivalenza a CW-complessi 38

    a 6= c1, c2, · · · la sottovarietàMa sia omotopicamente equivalente ad un CW -complessoY tramite la mappa F ′ : Ma → Y . Sia c̄ il più piccolo dei ci tale che ci > a. Grazieai teoremi 3.1.4, 3.1.6 e all'osservazione 3.1.8, troviamo che, per ε su�cientementepiccolo:

    • c'è un'equivalenza omotopica F : M c̄−ε →Ma;

    • M c̄+ε è omotopicamente a M c̄−ε ∪ϕ1 eλ1 ∪ · · · ∪ϕj(c̄) eλj(c̄) per opportune mappedi attaccamento ϕi il cui numero dipende dal numero c̄.

    Applichiamo ora il teorema di approssimazione cellulare 1.3.14 ad ogni composizioneF ′ ◦F ◦ϕi per i = 1, · · · , j(c̄). Troviamo allora che ognuna di queste mappe è omotopaa una mappa:

    ψi : ∂eλi → Y λi−1

    dove ricordiamo che con Y λi−1 indichiamo il (λi − 1)-scheletro di Y . Usiamo ora ilemmi prima dimostrati. Grazie al lemma di Whitehead 3.2.1 troviamo che:

    Y ∪ψ1 eλ1 ∪ · · · ∪ψj(c̄) eλj(c̄) ' Y ∪F ′◦F◦ϕ1 eλ1 ∪ · · · ∪F ′◦F◦ϕj(c̄) e

    λj(c̄)

    E grazie al lemma 3.2.2, applicato operando le sostituzioni f = F ′ ◦ F e (X,Y ) =(M c−ε, Y ), troviamo proprio che:

    M c+ε ' Y ∪ψ1 eλ1 ∪ · · · ∪ψj(c̄) eλj(c̄)

    Per induzione possiamo in�ne concludere la dimostrazione: ogni Ma′e quindi anche

    M è equivalente ad un opportuno CW -complesso.

    Osservazione 3.2.4. Lo stesso risultato può essere dimostrato anche nel caso in cuila varietà M non è compatta, ma