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1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI IL DRAMMA DEI BAMBINI SOLDATO NELLA GUERRA DELL’UGANDA Relatore: Tesi di Laurea di: Prof.ssa Bianca Maria Carcangiu Daniela Spano

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI - conoscere.it · loro l’occasione di frequentare la scuola e corsi di riabilitazione e integrazione sociale. Gli accordi di pace, ancora deboli

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI

IL DRAMMA DEI BAMBINI SOLDATO NELLA GUERRA DELL’UGANDA

Relatore: Tesi di Laurea di: Prof.ssa Bianca Maria Carcangiu Daniela Spano

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Alla mia famiglia

A tutti i bambini vittime delle guerre dei grandi,

in particolare ai bambini del Nord Uganda

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Indice

Introduzione…………………………………………………………………… Pag. 6

1 Un passo indietro nella Storia… per capire l’origine del conflitto nel Nord dell’Uganda……………………………………………………………………… » 8 1.1 Dalla colonizzazione fino alla costituzione di una Repubblica indipendente .. » 9

1.2 La guerra è l’unico strumento della lotta politica negli anni dell’indipendenza » 14 1.3 La presidenza di Museveni: un cammino difficile verso una ripresa ostacolata dalla violenza nel Nord…………………………………………………………… » 17 2 La guerra civile nel Nord Uganda……………………………………………. » 20 2.1 Cenni geografici sul Nord Uganda e inizio del conflitto……………………... » 20 2.2 L’Holy Spirit Movement di Alice Lakwena………………………………….. » 21 2.3 Dal Lord’s Army al Lord’s Resistance Army (o olum)………………………. » 23 2.4 Sostegno del governo sudanese a Kony, inasprimento della sua atrocità e introduzione di pratiche islamiche nell’LRA…………………………………….. » 25 2.5 Tentativi di pace tra Uganda e Sudan………………………………………… » 27 2.6 Intensificarsi del conflitto nel 2004 e condanna dell’LRA da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU………………………………………………… » 31 2.7 L’armistizio del novembre 2004 non sfocia in una pace duratura…………… » 32 2.8 Intervento dell’International Criminal Court contro l’LRA e referendum del 2005 sulla reintroduzione del multipartitismo………………………………….... » 33 2.9 La guerriglia nel 2006 e speranze di pace……………………………………. » 35 2.10 Intervista al leader dell’LRA nel mese di giugno 2006…………………….. » 37 2.11 Il racconto delle atrocità subite di una vittima dell’LRA………………….... » 38 2.12 Ultimi tentativi di pace con promessa di amnistia…………………………... » 40 3 I bambini soldato……………………………………………………………... » 44 3.1 L’uso dei bambini soldato nel mondo……………………………………….. » 44 3.2 I motivi dell’utilizzo dei bambini soldato…………………………………… » 46

3.2.1 Mutata natura della guerra e indottrinamento dei bambini……………… » 46 3.2.2 La proliferazione delle armi leggere…………………………………... » 48 3.2.3 La logica del terrore e la lunga durata della guerra…………………….. » 52 3.2.4 L’ombra del terrorismo internazionale………………………………… » 53

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4 Il dramma del Nord Uganda: bambini soldato e altri effetti della guerra Pag. 54 4.1 Il rapimento e maltrattamento dei bambini da parte dell’LRA per obbligarli a combattere……………………………………………………………………… » 55

4.1.1 La cattura e i primi giorni dopo il sequestro………………………….... » 55 4.1.2 Vivere in cattività…………………………………………………….. » 58 4.1.3 La fuga: la rischiosa via di salvezza ………………………………….. » 59

4.2 Il reclutamento dei bambini da parte dell’esercito ugandese………………… » 60 4.2.1 Il reclutamento dei bambini nel Local Defence Units e il loro uso da parte

dell’UPDF………………………………………………………………… » 60 4.2.2 Reclutamento dei bambini precedentemente rapiti dall’LRA…………… » 62

4.3 Altri effetti del conflitto nel Nord Uganda…………………………………... » 64 4. 4 La storia delle Ragazze di Aboke: una richiesta di aiuto affinché non continui il dramma nel Nord Uganda……………………………………………. » 65 5 Il futuro dei bambini soldato nel Nord Uganda…………………………….. » 69 5.1 Il reinserimento sociale………………………………………………………. » 69

5.1.1 Il programma di supporto psicosociale………………………………… » 74

5.2 Una vita dedicata alle vittime dell’ingiustizia……………………………….. » 78

6 La protezione giuridica internazionale dei bambini soldato………………. » 83 6.1 I primi strumenti di tutela dei bambini soldato: le Convenzioni di Ginevra del 1949 e Protocolli del 1977…………………………………………………… » 83 6.2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989……………… » 84 6.3 Il Comitato di Ginevra sui diritti dei Bambini………………………………. » 85 6.4 Lo studio di Graça Machel sull’impatto dei conflitti armati sui bambini…… » 86 6.5 Rappresentante Speciale del Segretario Generale per i bambini in situazioni di conflitto armato……………………………………………………………….. » 87 6.6 Gli strumenti di tutela dei bambini soldato più recenti (1998-2000)………... » 88

6.6.1 Protocollo Opzionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti

dell’Infanzia sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati…………….. » 89 6.6.2 La Coalizione Internazionale Stop using child soldiers………………… » 91 6.6.3 La Convenzione n. 182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulle

forme estreme di lavoro minori …………………………………………….. » 92 6.7 Le diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU in materia di bambini soldato……………………………………………………………………………. » 92 6.8 Tutela giurisdizionale dei bambini soldato: la Corte Penale internazionale…. » 95 6.9 La Carta Africana dei diritti e del benessere dei bambini……………………. » 96 Conclusione……………………………………………………………………… » 98

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ALLEGATI Testimonianze di bambini soldato nel Nord Uganda…………………………. » 102 Bibliografia ………………………………………………………………………. » 107

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Introduzione

La tematica dei diritti umani, soprattutto quelli dei bambini, ha sempre attirato la mia attenzione. Il mio interesse per l’Uganda e i bambini soldato è sorto dopo aver letto il libro di Giulio Albanese “Soldatini di Piombo. La questione dei bambini-soldato”, che racconta il dramma dei bambini che hanno partecipato ad azioni militari in Uganda e in Sierra Leone, ed aver assistito ad un servizio su un’emittente televisiva privata, proprio sulle condizioni dei soldati bambini in Uganda e sulle possibilità di liberarli e di dare loro l’occasione di frequentare la scuola e corsi di riabilitazione e integrazione sociale. Gli accordi di pace, ancora deboli e dall’esito incerto, sono stati preceduti in Uganda, e più precisamente nel nord del Paese, per vent’anni da una terrificante guerra civile, iniziata dopo la conquista del potere da parte dell’attuale presidente Yoweri Museveni nel 1986. Da allora, ogni sera, all’imbrunire, migliaia di bambini hanno lasciato i propri villaggi per recarsi a dormire in città per paura di essere rapiti dal Lord’s Resistance Army, la formazione ribelle ugandese, che combatte in nome di Dio, affermando di voler instaurare il Regno dei Dieci Comandamenti sulla Terra. Infatti, sono stati rapiti altrettante migliaia, non solo dalle loro case, ma anche dalle scuole e dalle strade, così, arruolati con la forza sotto minaccia della vita, sono stati costretti ad uccidere. Le fanciulle sono state usate anche come cuoche e concubine per i capi guerriglieri. Per loro l’unica via di salvezza è stata la fuga ad altissimo rischio per la loro vita. Anche l’esercito governativo ha reclutato bambini per combattere contro il Lord’s Resistance Army. Mentre nei Paesi in pace i bambini si divertono con le armi giocattolo, a setto-otto anni, in Uganda migliaia di bambini si sono trovati in mano un mitra vero, e hanno fatto sul serio la guerra. Colpita e sconcertata da questa terribile realtà, agli antipodi della nostra, ho voluto condividere con quanti leggeranno questa tesi le informazioni di cui sono venuta in possesso per non permettere di assolvere le nostre coscienze distraendo lo sguardo da ciò che fa orrore, ignorandolo o rifiutandolo. Il mio lavoro di ricerca, che si è svolto non solo in Italia ma anche in Francia, nella Bibliothèque Nazionale de France a Parigi e in Inghilterra, alla School of Oriental and African Studies (SOAS) a Londra e nella University of Essex a Colchester, ha avuto inizio dallo studio dei fondamentali testi in italiano, inglese e francese di storia e cultura dell’Africa subsahariana in generale e dell’Uganda in particolare. Successivamente ho cercato materiale bibliografico di varia natura che avrebbe potuto essere utile per la ricostruzione dei fatti storici, ma anche per la comprensione del quadro generale. Questo doveva fornire una visione più chiara dei motivi che hanno portato alla guerra civile nel Nord Uganda. Anche internet è stato molto utile nella mia ricerca.

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In seguito ad una accurata riflessione, i risultati di questo lavoro sono stati suddivisi in sei parti principali:

- Il primo capitolo intende, attraverso lo studio della storia dell’Uganda a partire dalla colonizzazione inglese sino alla presidenza di Museveni, far capire le origini del conflitto;

- Il secondo capitolo analizza la guerra civile nelle sue diverse fasi, dal suo inizio nel 1986 fino al 2006.

- Il terzo capitolo è incentrato sul fenomeno dei bambini soldato in generale e sui motivi del loro utilizzo nei conflitti armati.

- Il quarto capitolo tratta del dramma che affligge il Nord Uganda: dal reclutamento dei bambini da parte della guerriglia e dell’esercito governativo agli altri effetti devastanti della guerra.

- Il quinto capitolo è dedicato alla delicata questione del futuro dei bambini soldato, del loro recupero e reinserimento nella comunità grazie al supporto psicosociale offerto da molte ONG e dai missionari comboniani.

- Nel sesto capitolo vengono esaminati i diversi passi compiuti a livello internazionale a favore dei diritti dell’infanzia.

Ho poi voluto riportare alcune testimonianze di bambini soldato del Nord Uganda, che descrivono gli orrori che queste piccole vittime sono state costrette a subire. Spero che questa mia ricerca rappresenti un contributo, anche se minimo, alla causa dei bambini ugandesi, sensibilizzando almeno qualcuno che vive vicino a noi e che ancora ignora questa terribile realtà o resta indifferente di fronte a queste orribili atrocità.

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1 Un passo indietro nella Storia… per capire l’origine del conflitto nel Nord dell’Uganda

L’Uganda1, il Paese che un tempo gli inglesi chiamavano “la perla d’Africa”2, si trova sul fianco centro-orientale dell’Africa, tra il Sudan, Kenya, Tanzania, Ruanda e il Congo, nella regione dei Grandi Laghi3. Situata a cavallo dell’equatore, al Sud presenta un clima equatoriale, favorito anche dalla presenza di uno dei più grandi laghi del mondo, il lago Vittoria, e al Nord ha un clima tropicale. Per le diversità climatiche e per ragioni storico-politiche e geografiche, il Sud è più ricco e gode di una condizione di pace e sviluppo economico, grazie anche agli investimenti statali, mentre il Nord, più povero, è sconvolto da una guerra che ha sempre suscitato scarsissima attenzione a livello internazionale non ricoprendo questa zona uno specifico ruolo strategico e non ospitando risorse economiche importanti. Il conflitto, iniziato nel 1986, è nato sia dal movimento della guerriglia, sorto come protesta delle popolazioni del Nord contro le discriminazioni subite dal governo del Sud, sia per la vicinanza con il Sudan, che rappresenta particolari interessi locali e internazionali. Per capire l’origine del problema bisogna fare un passo indietro nella storia.

1 Il nome originario è Buganda, dalla radice ganda che assume significati diversi a seconda dei prefissi che si usano: così si ha bu-ganda=il paese; mu-ganda=l’abitante (pl. ba-ganda); lu-ganda=lingua parlata. I mercanti arabi della costa invece del “bu” per indicare “paese” usavano un semplice “u” e si ebbe quindi U-ganda. Fino alla proclamazione del protettorato inglese (1894) Buganda ed Uganda furono usati promiscuamente come sinonimi ed indicavano lo stesso territorio, “il regno abitato dai baganda”. Dopo l’arrivo degli inglesi il termine Uganda venne esteso a tutto il Paese da loro amministrato, quindi incluse tutte le altre tribù, la nuova patria, mentre Buganda rimase nome proprio del regno abitato dai baganda (A. Medeghini, Storia d’Uganda, Bologna, Editrice Nigrizia, 1973, p. 45). 2 Così chiamato perché era dotato di una fiorente economia. 3 La regione dei Grandi Laghi è formata da una vasta zona di alte terre (superiori in genere ai mille metri), su cui si innalzano grandi massicci montuosi. Su questo territorio si trovano i tre laghi più vasti dell’Africa: il Lago Vittoria, il Tanganica e il Malawi.

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1.1 Dalla colonizzazione fino alla costituzione di una Repubblica indipendente Nel continente africano, quando gli europei nel XIX secolo se ne impadronirono, non esistevano confini razziali, culturali, linguistici e di organizzazione politica. Vi era una estrema eterogeneità sociale dovuta soprattutto a un’elevatissima frammentazione etnica: la natura dei raggruppamenti sociali e politici era fluida, la dimensione e le forme di organizzazione delle società erano diverse. Le tribù, che per molto tempo sono state considerate dagli Occidentali come entità culturali e politiche omogenee e statiche, non esistevano, mentre erano presenti Stati premoderni caratterizzati da diversi livelli di centralizzazione del potere e dell’autorità, e società senza stato, anch’esse distinte dai più diversi tipi di decentralizzazione, distribuzione sul territorio, segmentazione4. La colonizzazione di fine Ottocento portò alla piena occupazione dei territori delle società africane e alla stabilizzazione dei confini territoriali da cui sarebbero poi emersi stati africani indipendenti all’interno dei quali vennero introdotte nuove strutture di governo, meccanismi di sfruttamento economico e spazi di mercato diversi l’uno dall’altro. L’autonomia delle autorità indigene venne distrutta dai sistemi di governo coloniali, anche quando veniva loro delegato il controllo delle popolazioni. Facendo appello a presunte entità antiche, complessi statuali vennero frammentati in entità locali in un processo che si può definire di “invenzione della tradizione”5. In vari casi, entità etniche ben definite furono inglobate in altre considerate prevalenti, in una determinata regione o comunque più funzionali al governo coloniale. Parecchi dei raggruppamenti etnici dell’Africa moderna, quindi, non sono tanto sopravvissuti da un passato precoloniale, ma sono piuttosto, in larga misura, creazioni da parte di funzionari coloniali e intellettuali africani. Fu, perciò, durante il colonialismo, che si formarono le categorie etniche6. L’identità etnica, in epoca coloniale e postcoloniale, si trasformò e fissò in funzione delle ideologie e delle amministrazioni praticate dai colonialisti per poi diventare uno dei principi di aggregazione nella competizione e nel conflitto d’interesse durante la decolonizzazione e in seguito, nella lotta per la conquista del potere e il controllo delle risorse. Con l’istituzione di regimi a partito unico o militari che impedirono la formazione e l’espressione di qualunque organizzazione di dissenso, l’etnicità è diventata strumento di opposizione politica spesso armata. Il territorio in cui sorge oggi l’Uganda include circa una cinquantina di gruppi etnici che appartengono alle diverse famiglie linguistiche che si trovano nella regione: quelle dei

4 A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore: storia dell’Africa subsahariana, Roma, Nis, 1995, p. 16. 5 «La tradizione inventata è un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente e tacitamente accettate e dotate di natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità con il passato. Di fatto laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato. […] Ciò che veniva chiamato diritto consuetudinario, diritti consuetudinari della terra, strutture politiche consuetudinarie fu di fatto tutto inventato dal processo di codificazione coloniale. […] Il punto non è tanto che le “tradizioni” mutavano per adattarsi a nuove circostanze, ma che a un dato momento esse non poterono più cambiare: una volta che le “tradizioni” relative all’identità della comunità e al diritto della terra furono messe per iscritto in registri giudiziari e improntate ai criteri del modello consuetudinario inventato, era stato creato un nuovo e immutabile corpo di tradizioni» (In E. Hobsbawm e T. Ranger, L'invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987). 6 G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica i conflitti, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 36.

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bantu (tra le comunità più consistenti vi sono quelle dei baganda, dei banyakole, dei banyoro, dei bakiga, dei basoga e dei bagisu), dei nilotici (che comprendono i gruppi luo: acholi, lango, japadhola ecc.), dei nilohamitici (in particolare i teso e karamojong) e dei sudanici (tra cui i lugbara, i kakwa, e i madi). Nel XIX secolo, questi gruppi formavano delle comunità sociopolitiche a sé stanti, e parecchi di essi erano divisi al loro interno. Nelle regioni centromeridionali c’erano i regni del Buganda, dell’Ankole, del Bunyoro e del Toro mentre in quelle del nord erano stanziate società prive di un’autorità politica centralizzata, solitamente governate da consigli degli anziani7. La storia delle trasformazioni delle società africane nel XIX secolo permette di capire sia la trasformazione secolare, prodotta da fattoti endogeni, sia gli effetti provocati dalla tratta e dal commercio di lunga distanza, effetti che sono maggiormente visibili nelle società costiere e comunque in quelle più direttamente coinvolte nel mondo esterno, ma che nel corso del secolo sono penetrate anche nel cuore dell’Africa. La tratta degli schiavi provocò stagnazione demografica, distruzione di intere società, mutamento dei sistemi politici e sociali, introdotto stratificazioni e gerarchie di potere e sistemi predatori. Nel XIX secolo aumentarono notevolmente le operazioni commerciali e la penetrazione verso l’interno smise di essere occasionale e sporadica. Ben presto, infatti, venne creata una rete complessa di postazioni commerciali, mercati sistemi di scambio intermedi, che coinvolgeva sempre più regioni, popolazioni e diventava importante veicolo di mutamenti religiosi e di valori etici. Il commercio, lecito, di lunga distanza, si fondò sull’istituzione della schiavitù interna, che creò nuove strutture economiche, provocò ulteriori spostamenti di popolazione e sotto il profilo ideologico, introdusse i nuovi valori della competitività, dell’accumulazione su basi individuali, e contribuì all’indebolimento dei sistemi di solidarietà familiari e di lignaggio, o di quello che restava delle società tradizionali. L’Uganda è sempre stato un territorio di rilevante importanza strategica ed economica ed è per questo che per qualche tempo fu oggetto di competizione fra la compagnia tedesca Deutsche Ost Afrika Gesellschaft (DOAG) e la Imperial British East African Company (IBEA), la quale nel 1888 ottenne la Royal Charter8. Nonostante le rivalità sul

7 I primi europei ad arrivare nell’area furono il britannico Richard Burton e John Hanning Speke nel

1858, seguì il missionario Livingstone e il giornalista americano di origine gallese Henry Morton Stanley nel 1871. Alla ricerca delle sorgenti del Nilo e di informazioni economiche e politiche sull’Africa centrale, gli esploratori arrivarono solo laddove li portarono le carovane zanzibarite, ovvero sulle rive del grande lago. Burton e Livingstone ritenevano che le sorgenti del Nilo fossero nel lago Tanganica, Speke invece sosteneva che il Nilo avesse origine dall’altro grande lago che poi venne chiamato Vittoria. La sua versione, più vicina alla realtà, non fu all’epoca creduta e solo negli anni Novanta dell’Ottocento il rilievo dell’idrografia della regione avrebbe confermato che il bacino orografico del Nilo aveva origine sulle colline del Burundi. Ma furono le esplorazioni degli anni Novanta dell’Ottocento le più direttamente legate alla conquista coloniale: nel 1892 l’austriaco Oscar Baumann attraversò la regione per conto del comitato antischiavista tedesco, il cui obiettivo era di prospettare l’itinerario di una futura ferrovia tra le coste e il lago. Due anni più tardi fu la volta del botanico scozzese Gorge Scott Elliot. Missionari protestanti inglesi della London Missionari Society (LSM) arrivarono a Ujiji nel 1878 seguiti l’anno seguente dai padri francesi della Societé des Missionaires d’Afrique (Padri Bianchi) fondata da monsignor Lavingerie. In quest’area (ma più in Sudan) svolgeva la sua opera (anche contro lo schiavismo) padre Daniele Comboni, che nel 1867 creò l'Istituto dei Missionari Comboniani e nel 1872 fondò un suo Istituto di Suore esclusivamente consacrate alle missioni: le Suore Missionarie Comboniane. Nel 1877 fu ordinato Vescovo e nominato Vicario Apostolico dell'Africa Centrale. I missionari diventarono ben presto un fattore di importanza fondamentale nella storia coloniale della regione (A. M. Gentili, op. cit., p. 130). 8 Era una lettera, ovvero un documento, assegnato da un sovrano che concedeva determinati diritti su un territorio. In questo caso, poiché il territorio in cui sorge oggi l’Uganda alla Conferenza di Berlino del

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terreno che coinvolsero oltre ai commercianti in modo rilevante anche i missionari, il destino dell’Uganda si giocò in Europa e venne deciso con il trattato di Heligoland del 1890, dal nome dell’isola del Mare del Nord ceduta alla Germania in cambio del controllo sulle sorgenti del Nilo, essenziale per l’Inghilterra, potenza dominante in Sudan e in Egitto. I Buganda erano la comunità più consistente e politicamente più organizzata. Il loro regno era basato sulla figura del sovrano, il Kabaka, che comandava due diversi sistemi di capi, i bataka (i capi dei clan) e una gerarchia di capi di nomina regia. Nel 1890 Frederik Lugard penetrò nel regno dei Buganda, determinato a estendervi l’influenza britannica, e ottenne vaste concessioni dal Kabaka; concessioni che vennero strumentalmente interpretate come cessione di sovranità territoriale a favore dell’IBEA. Il periodo di governo di quest’ultima, che durò dal 1888 al 1894, terminò con la cessione dei territori al governo britannico, che si apprestò ad assumere il controllo dell’area che nel 1894 fu proclamata protettorato britannico col nome di Uganda9. Gli inglesi, contrastati dai baganda e dal loro regno, dopo averne piegato la resistenza alla fine del XIX secolo, li riconobbero come alleati privilegiati per l’estensione del dominio coloniale alle aree circostanti10. Così, nel 1900 fu negoziato fra l’oligarchia baganda e il rappresentante della Corona Britannica, sir Harry Johnston, il Buganda Agreement, un accordo anglobugandese che, nonostante assoggettasse il regno alle autorità britanniche, sanciva altresì un rapporto privilegiato. Anche la scelta del termine

1885 e poi con il Trattato anglo-tedesco del 1890 venne definito area di influenza inglese, l’IBEA ebbe l'autorizzazione inglese a commerciare in quell’area e ad amministrarla. 9 La Compagnia fallì economicamente a causa della scarsità di capitali, necessari peraltro a sviluppare il sistema di comunicazioni, in particolare la costruzione della ferrovia verso il porto di Mombasa che avrebbe permesso di sfruttare appieno le potenzialità agricole dell’Uganda. Inoltre, si rivelò inadeguata a trattare e gestire i delicati problemi diplomatici e politici posti dall’espansione verso l’interno nel Buganda, dove era in atto un a trasformazione significativa del potere. Diverse guerre di religione fra il 1887 e il 1890 portarono il trasferimento del potere effettivo dal Kabaka a una oligarchia formata di convertiti al cristianesimo e alla sconfitta dei Baganda musulmani. I cristiani furono a loro volta divisi in partiti rivali: cattolico (Fransa, alleato col Kabaka) e protestante (Iglesa). I nomi dei due partiti rivelano il coinvolgimento e l’influenza di missionari, francesi per il cattolico e inglesi per il protestante. Il Kabaka aderì al patito Fransa non per ragioni religiose, ma perché sospettava le intenzioni della Compagnia inglese. All’arrivo di Lugard tuttavia la minaccia posta dalla rivolta dei musulmani baganda convinse il Kabaka ed entrambi i partiti ad accettare nel 1890 un trattato di protezione con l’IBEA. Nel 1891 l’esercito guidato da Lugard sconfisse i musulmani sul confine del Bunyoro e caccio l’esercito di questo Stato dal regno del Toro in cui era installato dal 1876. Nel Toro venne reinsediato un principe alleato di Lugard. Le intenzioni di Lugard erano di mantenere il controllo pieno della Compagnia sul territorio e acquisirlo per l’Inghilterra, ma le sue continue interferenze negli affari del regno di Buganda riaccesero la rivalità fra i partiti. La supremazia dei protestanti nel regno venne decisa dalla battaglia di Mengo del 24 gennaio 1892 grazie all’intervento di Lugard. I protestanti vittoriosi imposero una ripartizione geografica di terre e cariche, sicché i cattolici che erano molto più numerosi, ne furono pesantemente penalizzati. I Fransa ottennero solo la provincia di Buddu, ai musulmani andarono tre piccoli distretti, mentre tutto il resto del ricco paese compensava i vincitori Iglesa. Al Kabaka, che continuò a godere di un immenso prestigio, fu consentito di ritornare sul trono, ma con poteri ridotti e sotto la tutela del partito alleato al progetto coloniale. Chi ne uscì peggio furono i musulmani che abbandonarono ogni tentativo di mediazione diplomatica per rivolgersi alla guerra santa, alleandosi all’ammutinamento dei soldati sudanesi della Compagnia insoddisfatti del loro trattamento. Malgrado l’arresto del capo dei soldati sudanesi, i musulmani insorsero nel 1893 e si ritirarono nel Toro, ove furono di nuovo sconfitti (A. M. Gentili, op. cit., pp. 158-159). 10 Il Kabaka Mwanga nel 1897 guidò la rivolta contro il potere inglese dalla provincia di Buddu. Contro la ribellione si schierarono i capi protestanti e cattolici più influenti, la cui posizione e le cui cariche dipendevano dal favore inglese. Lo stesso fecero eminenti leader musulmani. Mwanga e i suoi seguaci furono sconfitti e così il Kabaka scappò in territorio tedesco dove venne internato ma riuscì a fuggire e non a recuperare il trono. Deposto venne eletto Kabaka un bambino di un anno con il potere effettivo retto da tre reggenti, due protestanti e uno cattolico (A. M. Gentili, op. cit., p. 160).

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Uganda, che è il nome del Buganda in lingua swahili, rivela la centralità di questo regno prima nel processo di formazione dello stato coloniale e successivamente di quello indipendente. Attorno a esso, l’Uganda nasceva dall’artificiale unione di popolazioni diverse per lingua, tradizioni, formazioni sociopolitiche e affiliazioni religiose. Lo status di protettorato venne conseguentemente conferito ai regni di Bunyoro, Toro, Ankole e Bugosa. La Gran Bretagna quindi concesse al regno del Baganda di mantenere il proprio sistema sociopolitico e governò utilizzandolo come tramite11. L’amministrazione coloniale contribuì a rafforzare le differenze etniche. I confini dei distretti amministrativi dello stato coloniale furono disegnati sulla base di una mappa dei gruppi etnici della regione tratta dall’esperienza di missionari, antropologi e funzionari coloniali. Ciò da un lato rafforzò l’identità e l’unità dei regni centromeridionali, che i britannici vedevano come strutture ideali per l’applicazione di un indirect rule e dall’altro, la creazione di divisioni distrettuali corrispondenti ai raggruppamenti etnolinguistici. Talvolta ciò significava riunire gruppi senza una precedente organizzazione politica comune e implicò la selezione e il consolidamento di determinati elementi identitari a scapito di altri. La strategia dell’indirect rule, che non si basava sulla premessa che si dovesse operare per l’evoluzione di tutte le società verso una civilizzazione omogenea, bensì metteva in risalto il primato e l’esclusività della diversità culturale, di razza, di lingua e istituzioni sociali, non poté che contribuire negativamente alla formazione di una comune identità “ugandese”. Tale governo indiretto fu quindi esercitato per mezzo dell’imposizione, su entità territoriali del tutto nuove ed etnicamente eterogenee, di capi provenienti da altre entità politiche, considerate dalle popolazioni altrettanto straniere delle europee. La forza mostrata dall’organizzazione politica dei baganda spinse altri gruppi a mobilitarsi lungo linee etniche, fino a elaborare “tradizioni” e simboli propri. L’utilizzazione di personale baganda per amministrare altri gruppi peggiorò le cose, creando un diffuso risentimento nei confronti del regno centrale e del suo status di privilegiato. In segno di riconoscenza per la cooperazione con gli inglesi venne addirittura sottratta una parte del territorio al regno del Bunyoro e annessa al Buganda. La disparità fra nord e sud-est, quest’ultima la regione delle ricche produzioni d’esportazione, è sempre stata notevole ed è evidenziata dal forte deficit nel nord di infrastrutture e servizi e dalla bassa scolarizzazione. I giovani del nord andavano a cercare opportunità nell’emigrazione, oppure nel servizio militare. Dal nord proveniva il grosso della truppa coloniale trasferita con l’indipendenza all’esercito ugandese, un’eredità che avrà un enorme peso nella storia politica del Paese. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i soldati attinti dalla regione settentrionale combatterono al fianco degli inglesi in tutte le parti del mondo. Ma è stato il fertile sud, specie la regione dei buganda, che ha tratto profitto dallo sviluppo e ha dato il maggior numero di intellettuali

11 L’accordo formalizzò il riconoscimento dei mutamenti intervenuti nella struttura politica del Buganda nel processo di incorporazione nell’impero britannico e dunque l’emergere di nuovi capi legati alle due fedi cristiane (cattolica e protestante), mentre il Kabaka, all’epoca un’infante, perso ogni potere effettivo rimase un sovrano rituale e i capi dei clan tradizionali furono ridotti a posizioni subordinate. Il sistema di governo Buganda denominato "kiganda" fu esteso a tutta la regione, affidandolo per l'esecuzione ad agenti baganda. Il Protettorato era amministrato da un Governatore, sotto il quale c'erano i Commissari Provinciali e Distrettuali. Questi ultimi erano coadiuvati da capi di contea e subcontea (gombolola) e numerosi capi minori. C'erano consigli locali modellati sull'esempio del Lukiko, Consiglio reale del Buganda che da allora era diventato la sede di effettivo potere, dominato dall’oligarchia baganda (A. M. Gentili, op. cit., p. 231).

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al Paese12. Già prima del ritiro delle autorità coloniali, lo scontro tra il regno del Buganda, che si trovava nel cuore politico e economico dell’Uganda, e le aree periferiche, specialmente quelle del nord, da cui venivano reclutate manovalanza economica e la maggior parte dei soldati (acholi e langi), che entravano così a far parte dell’élite militare, cominciò a riflettersi negli apparati politico-amministrativi che vennero gradualmente aperti alla partecipazione africana. Tale scontro si intrecciava alla contrapposizione tra i due più grandi raggruppamenti religiosi del Paese, cattolici e protestanti, i primi meno agiati economicamente e socialmente dei secondi13. Verso la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si costituirono i primi partiti politici che davano espressione a queste divisioni. Da un lato l’Uganda People’s Congress (UPC), che riuniva i protestanti di tutte le aree periferiche decisi a contrastare il predominio del regno centrale, dall’altro il Democratic Party (DP) riprendeva la protesta dei cattolici contro il predominio economico e sociale dei protestanti e voleva uno stato unitario indipendente dell’Uganda, contrario quindi alle ambizioni della popolazione baganda di non diminuire l’influenza del Buganda dopo l’indipendenza14. Nel 1960 il Buganda chiese il riconoscimento dell’indipendenza, ma non l’ottenne. Contro la prospettiva di uno Stato ugandese indipendente governato dai leader dei nuovi partiti politici e contro la vittoria del DP alle elezioni del 1961 del Consiglio legislativo, venne organizzato il Kabaka Yekka (KY), partito del re e dei tradizionalisti, cioè dei proprietari terrieri e dei funzionari di lignaggio aristocratico15. Nel 1962, con la concessione all’Uganda dell’autogoverno, UPC e KY concordarono di ignorare la mutua antipatia pur di escludere dal governo i cattolici, e la loro coalizione elettorale portò, nell’aprile dello stesso anno, alla vittoria l’UPC e Milton Obote (1924– 2005), un lango del nord, che divenne primo ministro. Fu promulgata una Costituzione federale, definita “asimmetrica” in cui si stabiliva che i distretti e i regni venissero regolati da tre diversi tipi di relazione con il governo centrale, secondo criteri di omogeneità etnica e di unicità dell’autorità politica. In essa spiccava la posizione speciale del Buganda che poteva mantenere in toto il sistema di governo tradizionale e selezionare tra i membri del Lukiko, chi inviare al parlamento nazionale. Infatti, nonostante nella Costituzione si dichiarasse formalmente che l’Uganda consisteva dei regni federati di Ankole, Buganda, Bunyoro e Toro e del territorio di Busoga con l’aggiunta dei distretti repubblicani, cioè senza sovrani, solo il Buganda godeva di un notevole grado di autonomia. Negli altri casi l’autonomia consisteva esclusivamente nel rispetto della posizione e dello status dei governanti, ma il controllo sui loro affari era del governo centrale. Alla mediazione britannica, perciò, venne sostituita quella di

12 Il Buganda Agreement aveva permesso all'oligarchia che lo aveva negoziato di usare il potere politico per promuovere la propria ricchezza economica. Furono infatti i bakungu,i signori del Lukiko a ottenere il controllo della distribuzione delle terre e della forza lavoro, secondo le loro interpretazioni del diritto consuetudinario. Subito dopo l’accordo venne data titolarità su vaste estensioni di terreno a mille capi e nel 1926 furono già in 10.000 con pieni diritti di possesso. Il sistema detto mailo divideva la terra fra possedimenti del re, dei notabili e del demanio governativo. La Buganda Land Law, legiferata dal Lukiko (1908), aveva proibito di trasferire la terra mailo a stranieri cioè a non baganda senza il consenso del Lukiko e governo coloniale. Con a disposizione terre mailo si era creato un mercato della terra, che poteva essere venduta o affittata all’interno della comunità baganda. Il mercato della terra si sviluppò soprattutto in rapporto all’estendersi delle coltivazioni per l’esportazione prima di cotone, poi di caffè (A. M. Gentili, op. cit., p. 232). 13 A. M. Gentili, op. cit., p. 233. 14 A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1238. 15 G. Carbone, op. cit., p. 39.

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un’alleanza debolissima di partiti fra loro molto differenti e con diversi obiettivi. Il Kabaka Yekka non aveva abbandonato le sue mire egemoniche peraltro realizzabili attraverso la supremazia economica della regione del baganda. L’UPC si collegava al discorso del nazionalismo statuale, ma rappresentava in ogni caso e non nella loro totalità le popolazioni che rifiutavano la supremazia baganda. Le successive fasi della vita politica indipendente metteranno in evidenza le drammatiche conseguenze di queste contraddizioni16. Il 9 ottobre 1962 l’Uganda divenne indipendente e un anno dopo, nel 1963, divenne una Repubblica, con Mutesa II, il Kabaka, Presidente del Paese.

1.2 La guerra è l’unico strumento della lotta politica negli anni dell’indipendenza In Uganda lo statuto federale non resistette molto al dissenso interno all’alleanza fra UPC e KY. Le tensioni nacquero soprattutto a causa della questione dei territori del Bunyoro che in epoca coloniale erano stati trasferiti al Buganda. Obote assunse rapidamente uno stile di governo sempre più autoritario e nel maggio del 1966 con un colpo di Stato, sostenuto dai militari comandati da Idi Amin Dada, si impadronì del potere esecutivo, spingendo all’esilio il Kabaka. I seguaci del re furono perseguitati, torturati o uccisi. A migliaia furono caricati su camion e gettati nel Nilo alle Cascate Murchison o sepolti vivi17. Da allora la violenza è diventata uno strumento chiave per la risoluzione delle controversie politiche del Paese. Ne 1967 venne introdotta una nuova Costituzione, che stabiliva una repubblica unitaria con Obote come presidente, abolendo la divisione federale in vari sottoregni tradizionali imposta dagli inglesi e i diritti legati alla carica di Kabaka. L’imposizione della nuova Costituzione con poteri presidenziali rafforzati, unita ad un’epurazione interna all’UPC per lasciare la leadership in mano alla comunità del nord e la messa al bando dei partiti di opposizione accentuarono la svolta autoritaria del regime. Obote ereditò una nazione promettente, con un’industria, un commercio e un’agricoltura fiorenti. Questa prosperità continuò anche negli anni immediatamente successivi all’indipendenza e il Paese visse un periodo di grande crescita economica e sociale. L’esercito conquistò una posizione di assoluta preminenza nel sistema politico grazie all’appoggio della presa di potere di Obote, che anche al culmine del suo potere, riuscì solo in parte a consolidare il suo controllo sui militari. Il suo continuo tentativo di diminuire l’influenza dell’esercito, aumentando in esso la presenza di langi e acholi (gruppo etnico di Obote il primo, etnia di medesima lingua il secondo) e la scelta politico-ideologica orientata verso forme di socialismo, determinarono l’intervento militare che portò al potere il suo influente capo di stato maggiore, il generale

16 A. M. Gentili, op. cit., pp. 234-235. 17 E. De Temmerman, Le ragazze di Aboke. Adolescenti rapite & bambini soldato nella tragedia dell’Uganda, Edizioni Ares, Milano 2004, p. 12.

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musulmano Idi Amin Dada (1924-2003)18, introducendo un violento e caotico regime militare. Idi Amin governò dal 1971 al 1979, la sua dittatura fece cadere l’Uganda in un profondo disordine economico e sociale che aggravò le differenze presenti fra i due poli del Paese. Alla fine degli anni Settanta l’Uganda era il caso più grave di deterioramento politico e sociale in Africa. Le aree rurali erano devastate dalla guerra civile, molti personaggi eminenti erano in esilio o erano stati trucidati, l’amministrazione aveva cessato di funzionare. Amin instaurò un regime di terrore, utilizzando i massacri e le “scomparse” come deterrente. Poiché proveniva dalla regione del West-Nile, temeva il prevalere degli acholi e dei langi nell’esercito, ritenuti sostenitori di Obote e perciò ordinò l’esecuzione di centinaia di ufficiali e li rimpiazzò con uomini del suo stesso gruppo etnico. I suoi conosciuti squadroni della morte eliminarono quindi ogni opposizione. Centinaia di migliaia di persone (comprese molte del nord) furono uccise con mazze e spranghe di ferro o torturate nelle prigioni e nelle stazioni di polizia in tutto il territorio durante gli otto anni del regime di Amin19. L’economia crollò, specie dopo la guerra economica contro gli imprenditori asiatici, che terminò nel 1972 con la confisca delle loro proprietà e la loro cacciata dal Paese. Amin effettuò una vera e propria espulsione di tutti gli abitanti di origine asiatica ed ebraica. Si innescò una carneficina di proporzioni enormi e chi riuscì a sottrarsi alle armi dell’esercito di Amin si rifugiò nei paesi vicini da dove, già nel 1972, si iniziò ad organizzare un’opposizione armata al regime. Altri andarono nel Regno Unito, che tagliò le relazioni diplomatiche e impose un embargo commerciale contro l’Uganda, portando così alla nazionalizzazione di tutte le piantagioni e compagnie britanniche. Il generale e i suoi complici si portarono via il bottino di questa operazione, valutato un miliardo e mezzo di dollari20. Per questi motivi l’economia, nel giro di pochi anni, si trovò in condizioni disastrose e Amin fu costretto a chiedere l’intervento degli Stati arabi a lui solidali. Nel 1972 il precedente Capo di Stato Maggiore, David Oyite-Ojok e Yoweri Museveni, un ufficiale superiore, guidarono un attentato per estromettere Amin invadendo l’Uganda dalla Tanzania, dove lo stesso Obote aveva trovato rifugio. In rappresaglia, le forze aeree ugandesi bombardarono le città tanzane. Il regime di Amin fu armato con aiuti militari provenienti dalla Libia e dall’URSS, e alla fine del 1972 cessarono tutti gli aiuti da parte degli occidentali all’Uganda. Sul finire del 1978 fu invasa la Tanzania, l’ultimo atto di follia di Amin. Il Presidente della Tanzania, Julius Nyerere, incoraggiò esiliati politici a formare un fronte politico 18 Nacque nella sperduta regione del Koboto, nel nordovest dell’Uganda, da una tribù ultraminoritaria, che lasciò ancora giovane per giungere poverissimo nella capitale Kampala con sua madre. Anche grazie alla sua stazza impressionante, fece buona impressione sui britannici, allora potenza coloniale del Paese, e venne arruolato nel corpo d'elite dei fucilieri africani di sua maestà. Come sottufficiale, si distinse (anche per ferocia) nella repressione della rivolta dei mau-mau in Kenya (1952-56), producendosi in una terrificante serie di persecuzioni, torture ed eliminazioni. Si ritrovò così generale, e quando la Gran Bretagna dovette lasciare l'Uganda, fu proprio Londra a sponsorizzarne l'ascesa a capo dell’esercito presso il primo presidente indipendente, Milton Obote. Dopo un periodo di diffidente ma obbligata convivenza avvenne il colpo di stato militare. 19 Anni in cui attorno al suo nome si moltiplicarono le voci, mai dimostrate, ma sempre insistenti, sulle più diverse atrocità. Si dice che gettasse i resti dei cadaveri dei suoi principali oppositori ai coccodrilli nel lago Vittoria, che conservasse i crani degli stessi nei suoi frigoriferi, che si cibasse delle loro carni. Il primo a parlare del dittatore “cannibale” fu il suo segretario e ministro della sanità Henry Kyemba. Se queste siano leggende non si sa, ciò che è certo sono migliaia i cadaveri di oppositori rinvenuti senza testicoli, o labbra, o occhi, o nasi (Sito Internet http://www.repubblica.it). 20 E. De Temmerman, op. cit., p. 12.

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unito per estromettere Amin. Furono schierati 40.000 uomini della Tanzania, a cui si affiancarono circa 2.000 esiliati ugandesi, prevalentemente acholi, che diedero vita all’Uganda National Liberation Army (UNLA), sotto il comando di Oyite-Ojok e Yoweri Museveni. La guerra si protrasse per alcuni mesi ma, alla fine, con la presa di Kampala, Amin e il suo esercito furono costretti dall’UNLA a deporre le armi. Amin si rifugiò in Arabia Saudita, dove rimase sino alla sua morte nell’agosto 200321. La ricostruzione del Paese passò attraverso una serie di governi di transizione dove si scontrarono le diverse forze e fazioni del movimento anti-Amin22. Le elezioni del 1980 riportarono Obote alla presidenza, anche se vennero manipolate dai suoi fedelissimi. Ma la ripresa del potere da parte di Obote non mise fine alla violenza, egli era determinato a vendicarsi di chiunque avesse sostenuto Amin. All’interno dell’esercito governativo gli Acholi e i Lango tornarono ad essere la forza numericamente più significativa. Il governo era contestato da ogni parte da fazioni che conducevano ad azioni di guerriglia. Da subito ebbe inizio una sanguinosissima guerra civile tra l’esercito governativo, l’UNLA, e il più importante di questi gruppi, il National Resistance Army (NRA), comandato da Yoweri Museveni e da suo fratello Salim Saleh, che composto in maggioranza da elementi sudisti e occidentali, aveva la sua forza tra le popolazioni meridionali banyarwanda e baganda. I ribelli annunciarono di voler cambiare totalmente il “sistema di violenza istituzionalizzata che permetteva a soldati e agenti armati di saccheggiare, rapire e distruggere popolazioni e villaggi” 23. Vittima di questo conflitto fu soprattutto la popolazione civile. L’NRA insorse nell’area conosciuta come “Triangolo di Luwero”, regione al centro dell’Uganda e a nord della capitale Kampala. Fu in quest’area che Obote, incapace di fermare l’avanzata dei ribelli, fece ricorso a un’operazione di pulizia brutale, detta “Operazione Bonanza”. Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa almeno 300.000 persone, senza alcuna distinzione tra donne, anziani e bambini furono uccise nel corso di tale operazione e migliaia furono gli sfollati. Nelle regioni del West Nile, Bushenyi, Mpigi e Luwero in cui il governo di Obote fronteggiava l’opposizione, l’UNLA fu responsabile di uccisioni di massa. Inoltre, il presidente Obote, per stroncare la guerriglia e per privare i ribelli dell’appoggio logistico della popolazione, fece confluire i civili in campi protetti, dove migliaia di persone furono lasciate in preda alla fame e alle epidemie, senza che nessuna organizzazione umanitaria vi avesse accesso. Ma, nonostante queste misure, non riuscì a

21 I. Ciapponi, I bambini primo bersaglio. Il dramma del Nord Uganda, Bologna, EMI, 2004, pp. 49-50. 22 Un mese prima della liberazione di Kampala, i rappresentanti civili dell'opposizione ad Amin si incontrarono a Moshi e formarono la Unity Conference che istituì l’Uganda National Liberation Front (UNLF). Come Incaricato Esecutivo fu designato Yussuf Lule, già rettore dell'Università di Makerere. In quanto accademico e non politico, non impensieriva nessuna delle ventidue formazioni politiche presenti. Dopo la caduta di Amin, Lule divenne Presidente, con un parlamento provvisorio (National Consultative Council -NCC). Fu presto accusato di autoritarismo di favoritismi verso i Buganda. Dopo tre mesi, con l'approvazione di Nyerere (che controllava ancora Kampala con l'esercito tanzàno), Lule fu forzatamente destituito ed esiliato. Fu sostituito da Godfrey Binaisa, anch'egli del Buganda, ex collaboratore d'alto livello di Obote. La sua incapacità di controllare un esercito sempre più potente gli fu fatale. L'esercito postbellico era costituito da 1000 uomini, come il King's African Rifles del 1962. Ma nel 1979 i leader come Yoweri Kaguta Museveni e Major-General David Oyite Ojok iniziarono ad arruolare migliaia di uomini che divennero le loro armate private (il primo passò da 80 a 8000 uomini, il secondo da 600 a 24000). Il colpo di stato maturò nel maggio 1980, ideato da Ojok, Museveni e Paulo Muwanga, collaboratore di Obote. In effetti l'Uganda fu diretta da Muwanga fino alle elezioni di fine 1980 (A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1238). 23 E. De Temmerman, op. cit., p. 13.

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sconfiggere i ribelli. Pian piano si arrivò a una stabile e ben delimitata suddivisione del territorio, con l’NRA stanziato nel Sud Ovest e l’UNLA barricata a Nord del Paese24. I bambini orfani, conosciuti come kadogos, cioè piccoli, già a partire dal 1983, venivano accolti tra le fila dell’NRA e sottoposti all’addestramento militare e utilizzati come facchini o cuochi. La maggior parte di questi proveniva dai villaggi del Sud della regione che, animati da uno spirito di vendetta verso i soldati dell’UNLA, furono responsabili di molteplici crudeltà. Con l’intensificarsi del conflitto, il loro numero aumentò notevolmente fino alla fine del 1985, anno in cui Obote venne nuovamente destituito dal suo stesso esercito, travolto dalla crisi economica e dalle accuse di atrocità25. Nel luglio 1985, la lotta per il potere tra il gruppo lango e quello acholi all’interno dell’UNLA terminò con la vittoria del generale Tito Okello che, sostenuto dagli elementi acholi, alleati alle forze ribelli del West Nile, divenne il nuovo presidente. Per la prima volta entrambi i poteri, politico e militare, si riunirono nelle mani di un acholi. L’Uganda era divisa, poiché sul governo avevano la supremazia i militari provenienti dal Nord, mentre le regioni ricche del Sud erano leali all’NRA. La nuova presidenza, nonostante tentativi di mediazioni tra le fazioni in guerra, non portò la pace. Il regime di Okello, durò solo sei mesi: dopo diversi negoziati, sempre falliti, le armi ebbero la meglio.

1.3 La presidenza di Museveni: un cammino difficile verso una ripresa ostacolata dalla violenza nel Nord Nel gennaio del 1986, le truppe dell’NRA presero la capitale Kampala e tre giorni più tardi Museveni divenne presidente, capo di un Consiglio nazionale di resistenza, composto da militari e civili. Fu durante la marcia d’ingresso nella capitale che per la prima volta i bambini soldato apparirono pubblicamente, attirando l’attenzione della stampa. Ci furono diversi giudizi contrastanti: alcuni parlavano di questi bambini come di giovani liberatori, altri condannarono pesantemente l’accaduto. Molti di essi continuarono a rimanere nell’esercito nonostante il dialogo apertosi, già nel 1985, tra l’UNICEF e NRA e la promessa del nuovo governo. L’NRA si giustificò sostenendo che erano i bambini stessi a volersi arruolare e che, essendo orfani, l’esercito costituiva una nuova famiglia che si prendeva cura di loro. Inoltre, Museveni sottolineò che l’addestramento militare infantile si poteva ricondurre ai valori tradizionali africani26.

24 I. Ciapponi, op. cit., pp. 50-51. 25 Ibidem, p. 51. 26 Il governo ugandese prontamente ammise nell’esercito regolare i bambini soldato, impiegandoli ampiamente dal 1980 nella lotta condotta da Museveni a capo dell’NRA. Il governo giustificò alla Commissione sui Diritti del Bambino che l’utilizzo di questi piccoli soldati era dettato dalle circostanze; sosteneva però di aver preso misure appropriate per il recupero e l’integrazione sociale di queste piccole vittime. Negli anni successivi, in particolar modo nel 1998, il governo smentì l’evidente fatto che tra le reclute ci fossero ancora molti adolescenti sotto i 18 anni, mentre i rapporti di Human Rights Watch sostenevano che molti di questi bambini reclutati fossero di strada. Ancora nel 2000 si continuava a registrare la presenza di ragazzi sotto i 18 anni nelle file dell’Ugandan People’s Defence Force (UPDF), la nuova denominazione assunta dall’esercito governativo (I. Ciapponi, op. cit., p. 52).

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La caduta di Kampala nelle mani di Museveni sembrò segnare l’inizio di una nuova era per l’Uganda così crudelmente segnata dalla violenza, ma non fu così. Mentre per la maggior parte della popolazione iniziava il lungo cammino verso la ripresa, nel nord un nuovo ciclo di violenze incominciava. Quando presero il potere i leader dell’NRA avevano un programma di riconciliazione e democratizzazione e si professavano marxisti non dogmatici poiché la loro analisi della situazione derivava dalla esperienza specifica del Paese. Museveni ereditò un apparato statale screditato e perciò procedette a una radicale riforma, unica e innovatrice nel contesto africano. Vennero creati dei governi locali, i Consigli di resistenza, organizzati a livello di villaggio, parrocchia, sub-contea, contea e distretto. Questo sistema di Consigli eletti serviva a rafforzare la capacità dello Stato, sviluppando una cultura partecipativa a ciascun livello. Nel 1993 fu approvato lo statuto di decentralizzazione che consolidava ulteriormente i poteri delle amministrazioni locali. La decentralizzazione, quindi, e non il federalismo, fu considerata la risposta alla necessità di un maggiore controllo locale sulle realizzazioni e le decisioni politiche ed economiche. L’NRA divenuto l’esercito governativo, nel 1995 fu rinominato l’Ugandan People’s Defence Force (UPDF). La cautela sulla questione della democrazia multipartitica fu dettata dalla tragica storia del Paese: si voleva evitare il riprodursi delle condizioni che avevano portato al regno di terrore fra il 1971 e il 1986. Museveni, quando prese il potere si diede cinque anni di tempo per ristabilire la legge e l’ordine prima di restituire il potere a un governo civile eletto, ma nel 1990 ritenne che l’Uganda non fosse ancora pronta a una democrazia multipartitica e quindi la moratoria venne estesa altri cinque anni. Nel marzo 1994 gli ugandesi, in elezioni giudicate dagli osservatori libere e giuste, elessero un’Assemblea costituzionale, ma rimase il bando alla formazione di partiti politici così i candidati furono eletti individualmente27. Museveni venne rieletto presidente nel 1996 e nel 2001. Solo nel febbraio del 2006 ci sono state le prime elezioni multipartitiche, con le quali Museveni è stato confermato per la terza volta nella carica. La vittoria nel Nord delle truppe dell’NRA non risolse il problema dei rapporti tra Nord e Sud del Paese. Mentre la provincia del West Nile si adattò alla vittoria dell’esercito di liberazione, lo stesso non avvenne nella zona Acholi, i cui abitanti avevano costituito la base di appoggio del regime di Obote. I soldati acholi sconfitti, senza più nessun controllo, ritornarono a casa con le armi, che usarono per risolvere questioni personali e dopo aver razziato le regioni del Sud. La prima preoccupazione del nuovo governo fu quella di raccogliere le armi dei soldati sconfitti. I soldati dell’UNLA, dopo la sconfitta, si ritirarono nel Nord, tra Gulu e Kitgum, due dei tre distretti acholi, alcuni di loro invece oltrepassarono il confine e si unirono alla popolazione acholi del Sudan meridionale, dove erano liberi di agire a loro piacere a causa dei disordini della guerra civile. In Sudan, a Nimule, nove ex ufficiali insieme ad altri oppositori del governo di Museveni pianificarono la guerriglia e

27 L’opinione di Museveni era che i partiti non potessero prendere parte alla ricostruzione istituzionale dell’Uganda, almeno finché la società non fosse maturata. Egli considerava irresponsabile voler imporre un sistema partitico sul modello di quelli esistenti nelle società industriali avanzate a un Paese abitato prevalentemente da contadini analfabeti. Per Museveni la ricostruzione statuale e politica della Nazione passava in primis dal rafforzamento delle istituzioni di governo a livello locale, in cui ciascun candidato alla gestione della cosa pubblica rispondeva individualmente e non per mezzo dell’adesione o col sostegno di un partito (A. M. Gentili, op. cit., p. 353)

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formarono un’alleanza di ribelli, l’Uganda People’s Defence Army (UPDA), accomunata dal desiderio di destituire il presidente che ritenevano illegittimo. Perciò furono scelti gli ufficiali che avrebbero dovuto controllare strade e villaggi, raccogliere le armi non ancora sequestrate e prepararsi a iniziare la guerriglia28. Nell’estate del 1986 le operazioni militari ripresero nei distretti di Gulu e Kitgum. Il 16 agosto 1986, indicato come l’inizio ufficiale della guerriglia contro il governo Museveni, cominciarono le prime imboscate in diversi posti in tutte le zone acholi. Questa guerriglia era diretta soltanto contro i soldati dell’esercito, le caserme, le vetture e i veicoli del governo che, per fermare la ribellione iniziò la raccolta delle armi in un modo molto brutale, servendosi spesso della tortura semplicemente sulla base di sospetti. La famosa legatura delle mani dietro le spalle, il three pieces, tre pezzi, paralizzò le braccia di molte persone. Così l’ostilità e l’odio contro il governo aumentarono. Malgrado ai media fosse proibito parlare, le notizie di queste atrocità si diffusero tra la popolazione nei villaggi, creando un clima antigovernativo, tanto da rendere popolare la guerriglia. L’UPDA, dunque, era appoggiato da una buona parte della popolazione dei distretti di Gulu e Kitgum e tutti gli Acholi sostenevano i guerriglieri per difendersi dalle aggressioni del governo29. I soldati dell’esercito governativo mandati al Nord avevano pochi rifornimenti e ciò spiega in parte la loro cattiva condotta e le loro ruberie, iniziarono i rastrellamenti e vennero portati via e interrogati tutti quelli sospettati di nascondere armi o di collaborare con i ribelli. Fu un periodo di terrore per la popolazione, sia per gli interrogatori brutali, sia per i rastrellamenti di giovani e uomini abili nell’uso delle armi. Per questo gli Acholi trovarono un motivo in più per continuare la guerriglia. La gente era terrorizzata e le chiese si trasformarono in rifugi e dormitori. Nel distretto di Kitgum, una missione comboniana divenuta un rifugio tanto sicuro venne trasformata dai soldati in una prigione, impedendo a chiunque si trovasse all’interno di uscire30. Da queste premesse trae origine la guerra civile nei distretti del Nord Uganda. La violenza attuata per il mantenimento del potere creò un sentimento di sfiducia tra gli Acholi verso il nuovo governo, e portò alla nascita di diversi gruppi ribelli.

28 I. Ciapponi, op. cit., p. 53. 29 Ibidem, p. 54. 30 Ibidem, pp. 54-55.

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2 La guerra civile nel Nord Uganda

2.1 Cenni geografici sul Nord Uganda e inizio del conflitto Il Nord Uganda, abitato prevalentemente dai gruppi etnici acholi e lango, ma anche dai kuman e teso, è una grandissima pianura ondulata, con una estensione di circa cinquantamila chilometri quadrati, interrotta ogni tanto dalla boscaglia e da montagne rocciose. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che costituiscono un confine naturale con il Sudan meridionale, alture frequentate spesso dai ribelli. I monti più alti sono il Langia, che si spinge dentro il Sudan e ha un’altezza di tremilacinquecento metri e il Lamwaka che supera i duemila metri. Ci sono poi molte altre montagne nella regione31. A sud il confine è segnato dal grande lago Kioga e soprattutto dal fiume Nilo che taglia praticamente in due l’Uganda. A parte questi grandi bacini che bagnano i territori popolati dai lango, l’acqua non è abbondante nella regione settentrionale. I corsi d'acqua che si incontrano qua e là sono torrenti che nella stagione secca si riducono a letti di sabbia inframezzati da piccole e grandi pozzanghere dove il bestiame trova refrigerio nei tempi di siccità. Immense sono le paludi e gli acquitrini che costituiscono il luogo ideale per la diffusione della malaria, una malattia tropicale a carattere endemico. Vi sono estese savane dall’erba altissima nella stagione delle piogge, con qualche boscaglia dove è possibile trovare un po’di fresco quando il sole è alto. Un tempo la fauna era molto ricca e varia, si potevano trovare quasi tutti gli animali tipici delle latitudini equatoriali e tropicali. In pochi anni vi è stato un vero e proprio sterminio di molte specie a causa del dilagare della povertà, del bracconaggio e della guerra. La popolazione acholi di origine nilotica e di religione cattolica, è stanziata in un territorio che dal 1970 è diviso nei due distretti di Gulu e Kitgum. Nel 2001 dall’ulteriore divisione dell’area di Kitgum è stato creato un terzo distretto, Pader. Questi tre circoscrizioni costituiscono una regione conosciuta come Acholiland, con una popolazione di circa 1.400.000 persone. In passato quest’area aveva subito molteplici incursioni, fra cui quelle dei Lwoo, una popolazione originaria del Sud del Sudan. Oggi la lingua lwoo, che accomuna diverse popolazioni nilotiche, è considerata la lingua locale e convive con la lingua ufficiale inglese. Il conflitto nella terra degli acholi incominciò pochi mesi dopo la presa al potere dell’attuale presidente Museveni, quando l’NRA, da lui guidato e composto soprattutto da persone del Sud del Paese, che avevano combattuto per cinque anni contro un governo dominato dalle etnie del Nord, abbatté il regime militare di Tito Okello, il generale di origine acholi. Molti Acholi si rifugiarono nel Sud del Sudan mentre altri nascosero le armi e restarono nelle loro case aspettando lo svolgersi degli eventi. Dopo sei mesi di calma apparente, alcune unità del nuovo esercito iniziarono a compiere ogni sorta di oltraggi contro la popolazione civile del Nord e ciò fu il detonatore che diede 31 I monti di Parabongo, Paimol, Adillang e Naporo a oriente, quelli di Orom e di Cwa a nord-est e quelli di Madi Opei, Lawieduny, di Payira.

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inizio alla rivolta contro il nuovo regime di Museveni. Nell’agosto del 1986, i vecchi ufficiali di Okello tornarono dal Sudan organizzati nell’UPDA. Cominciò cosi la guerra nel Nord Uganda, appoggiata dalla popolazione rurale.

2.2 L’Holy Spirit Movement di Alice Lakwena L’UPDA ebbe vita breve, poiché molti soldati si arresero alle autorità, mentre da alcune unità che rimasero prese vita, verso la fine del 1986, l’Holy Spirit Movement (HSM) comandato da Alice Auma, di etnia acholi, conosciuta con lo pseudonimo di Lakwena, che in lingua acholi significa “l’inviata”32. Donna dal forte carisma, guaritrice e profetessa che credeva di essere la reincarnazione dello Spirito Santo, iniziò la sua impresa pacificamente, servendosi dei suoi poteri per guarire la gente. Presto la sua fama si accrebbe e fece numerosi proseliti fra la popolazione acholi. Il suo successo può essere spiegato facendo riferimento alle credenze religiose degli Acholi33. Nelle culture tradizionali africane le credenze e le pratiche religiose sono tante e diverse in quanto la cultura africana è profondamente permeata di elementi religiosi. La paura reverenziale verso il mondo degli spiriti è stato il collante che ha tenuto insieme clan e tribù. Una religiosità basata sul timore, ma essenziale per guidare i popoli africani a crescere e moltiplicarsi, frenando gli istinti bellicosi entro gli argini della saggezza e del rispetto reciproco. Nell’epoca precoloniale gli ugandesi credevano in un Dio creatore, chiamato Jok dagli Acholi, a cui non furono eretti templi o altari né reso culto pubblico, poiché questo essere supremo era considerato buono e quindi innocuo e non si sentiva la necessità di placarlo con sacrifici. Al di sotto di questo spirito supremo vi erano spiriti minori, detti “Jogi” dagli Acholi. La cultura religiosa si basava originariamente sulla distinzione tra bene e male e considerava gli Jogi entità soprannaturali responsabili di tutti gli accadimenti, perciò gli Jogi venivano suddivisi in buoni e cattivi. I primi missionari cristiani che arrivarono in terra acholi tentarono di diffondere la cristianità cercando di adattare i dogmi cristiani a quelli acholi. Nei primi decenni del Novecento, l’attrazione principale che portò gli africani ad avvicinarsi alle missioni cristiane, fu la scuola, poiché solitamente gli studenti accettavano il battesimo e l’adesione alla Chiesa. Essere cristiano diventò sinonimo di secolarizzato e di “civile”. I primi studenti africani dovettero da un lato sradicarsi dai costumi tradizionali e dall’altro venivano ancora esclusi dagli ambienti coloniali. Nel periodo tra le due guerre mondiali, le missioni e i governi si impegnarono insieme nella lotta contro la stregoneria, di cui si aveva un’idea confusa e approssimativa, che

32 Alice Auma nacque nel 1956. Dopo due matrimoni in cui constatò la sua infertilità, si spostò dalla sua città natale. Si convertì al cattolicesimo, ma, il 25 maggio 1985, fu posseduta da uno spirito di un ufficiale italiano defunto, Lakwena, e diventò “pazza”, incapace di sentire e di parlare. Suo padre la portò da undici differenti streghe ma nessuna poté aiutarla. Secondo la storia, infine, Lakwena la guidò al Paraa National Park dove scomparve per 40 giorni e ritornò come medium degli spiriti. Alice esercitò la sua professione di guaritrice sino a quando, il 6 agosto 1986, Lakwena le ordinò di lasciare quel lavoro che era inutile nel mezzo della guerra e di creare un Movimento dello Spirito Santo per combattere il male e porre fine allo spargimento di sangue (Heike Behrend, Alice Lakwena & The Holy Spirits: War in Northen Uganda 1986-1997, Oxford, James Currey, 1999). 33 I. Ciapponi, op. cit., p. 56.

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portava alla condanna di tutti i riti tradizionali, ritenuti d’ostacolo alla civilizzazione. Nella cultura acholi fu introdotta l’estranea contrapposizione fra Dio e Satana, proprio per facilitare l’assimilazione dei dogmi cristiani. Alice costruì il suo potere sulla base di questa combinazione di elementi cristiani e locali. Voleva portare pace e prosperità al Paese, attraverso l’espurazione del male, rappresentato dai peccatori. Gli Acholi avevano bisogno di purificare la propria etnia per le atrocità commesse dai loro soldati durante i governi precedenti e riconobbero in Alice, grazie al suo forte carisma, l’esecutrice di tale missione. Alice prometteva miracoli voluti da Dio per il suo popolo, diceva che le pallottole sarebbero diventate acqua e le bombe a mano sassi. Era convinta che solo con un esercito santo si poteva riprendere il potere. Ciò ebbe un impatto enorme sui giovani e molti si arruolarono. I seguaci venivano sottoposti a riti di iniziazione che comprendevano il rogo dei vestiti indossati, cerimonie di purificazione e giuramenti sulla Bibbia, mentre chi non si arruolava spontaneamente veniva rapito34. I seguaci di Alice diventarono dei fanatici pronti alla militarizzazione quando l’NRA di Museveni ordinò agli ex soldati acholi di restituire le armi. Alice, diventata leader militare, ampliò i suoi obiettivi politici e decise di rovesciare il governo di Museveni35. Migliaia di giovani, a lei devoti, andarono in battaglia convinti che le pietre che scagliavano contro il nemico sarebbero esplose come granate, e che l’olio spalmato sul loro corpo avrebbe fatto rimbalzare le pallottole dal loro petto senza danno. Nonostante fossero male armati, i guerrieri di Alice, fanatici pronti a tutto, si avventarono con ferocia sulla popolazione civile e sui soldati del governo, giustificando le brutali uccisioni come una forma di punizione nei confronti di chiunque avesse a che fare con gli spiriti malvagi36. La guerriglia divenne presto impopolare perché, oltre alla morte di centinaia di ragazzi, i soldati cominciarono a saccheggiare i villaggi per procurarsi cibo. Alla fine del 1987, i combattenti dell’HSM marciarono fino a Jinja, seconda città della nazione, a sessanta chilometri dalla capitale Kampala, dove trovarono i soldati governativi, ben armati e organizzati, che in poco tempo li sconfissero. Molti soldati di Alice morirono sul campo di battaglia, altri si arresero all’esercito di Museveni, mentre i ragazzi che erano stati rapiti e arruolati forzatamente scapparono. La stessa Alice fuggì in Kenya e da sempre ha giustificato quella sconfitta con il fatto che, alle prime vittorie, gli Acholi smisero di osservare i comandamenti37.

34 I. Ciapponi, op. cit., p. 58. 35 Uno dei primi seguaci di Alice spiegò la sua trasformazione: « Il Lakwena apparve agli Acholi perché il piano di Museveni e del suo governo era quello di uccidere tutti i giovani uomini Acholi per vendetta…così il Lakwena era venuto a salvare i giovani uomini…Il buon Dio che mandò il Lakwena decise di cambiare il suo lavoro da quello di dottore a quello di comandante militare per una semplice ragione: è inutile curare un uomo oggi che sarà ucciso domani. Così è diventato un suo obbligo fermare lo spargimento di sangue prima di continuare il suo lavoro come dottore» (Heike Behrend, Is Alice Lakwena a Witch?, in Hanson and Twaddle, eds., Changing Uganda, London, James Currey, 1991, p. 165). 36 E. De Temmerman, op. cit., p. 32. 37 C. Clapham, African Guerrillas, Oxford, James Currey Ltd, 1998, p. 107.

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2.3 Dal Lord’s Army al Lord’s Resistance Army (o olum) Dopo la sconfitta alcuni soldati dell’HSM ritornarono nel Nord dell’Uganda per riorganizzarsi, rifugiandosi nella boscaglia. Nacque così un nuovo gruppo di opposizione, il Lord’s Army (LA), guidato da Severino Lokoya, il padre di Alice, che si faceva chiamare “Rubanga won”, cioè Dio Padre38. Questo movimento esercitò la propria azione di guerriglia nel distretto di Kitgum, dove il governo, per placarla, decise a livello nazionale di evacuare e chiudere tutte le missioni. Nel maggio del 1988, gli Acholi, furono vittime dell’attacco dei Karimojong, una tribù vicina di pastori seminomadi che, ben muniti di fucili automatici, saccheggiarono i villaggi acholi e uccisero molto bestiame. Gli assalti ai villaggi acholi durarono per alcuni mesi e alcuni sospettano che i saccheggi fossero realizzati con il tacito consenso del governo per indebolire l’economia rurale acholi39. In questo periodo di enorme smarrimento per la popolazione acholi, cominciò la prima negoziazione tra il governo di Museveni e i guerriglieri e nel giugno del 1988 venne raggiunto un accordo che prevedeva che gli ufficiali e le truppe dei ribelli fossero incorporati nell’esercito regolare. Ma la guerra non finì, poiché un piccolo gruppo di ribelli, rimasto fuori dalla negoziazione, decise di continuare la resistenza sotto il comando del presunto cugino di Alice Lakwena, Joseph Kony, anche lui di etnia acholi. Kony affermò di avere ereditato i poteri spirituali di Alice e di essere il medium di forze soprannaturali che, attraverso la sua persona, potevano aiutare la popolazione acholi ad abbattere il governo di Museveni40.

Quando Museveni conquistò Kampala, nel gennaio del 1986, Kony aveva venticinque anni. Nato a Odek, vicino a Opit, nel distretto di Gulu, manifestò fin da bambino segni di squilibrio, che costrinsero i suoi genitori ad affidarlo ad uno stregone locale41. Benché le credenze e i rituali dei seguaci di Kony fossero leggermente differenti da quelli dei seguaci di Alice, pare che i due leader avessero lavorato in stretta collaborazione prima della sconfitta dell’HSM. Durante certi rituali Kony si vestiva come Alice e probabilmente ne avevano compiuti molti insieme.

Inizialmente chiamò il suo movimento Lord’s Salvation Army che fu poi cambiato in United Christian Deomocratic Army e infine rinominato Lord’s Resistance Army (LRA), ossia Esercito di Resistenza del Signore, detto comunemente “olum” (erba) in lingua acholi. L’LRA mise le sue basi inizialmente in Uganda, poi nel Sud del Sudan. Il programma politico di Kony, che non si distaccava molto da quello di Alice, era quello di destituire il presidente Museveni e il suo governo, purificare la popolazione acholi 38 Il suo movimento era una pallida imitazione di quello della figlia ed egli dovette ricorrere alla forza per reclutare seguaci (E. De Temmerman, op. cit., p. 32) 39 I. Ciapponi, op. cit., pp. 59-60. 40 C. Clapham, op. cit., p.115. 41 La madre di Kony raccontò a padre Raffaele di Bari, missionario comboniano ucciso dai guerriglieri di Kony il primo ottobre del 2000, che il figlio fu sottoposto ad una specie d’esorcismo e che, a suo dire, era posseduto da uno “spirito di guarigione”. Negli anni successivi, lo stato mentale di Kony peggiorò ulteriormente (G. Albanese, Soldatini di piombo. La questione dei bambini soldato, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2005, pp. 20-21).

Il capo della guerriglia ugandese,

Joseph Kony

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per portarla al potere e governare secondo i “Dieci Comandamenti”. Per ottenere questi obiettivi si è servito della violenza, ma i giovani combattenti dell’LRA definiscono il loro capo un “santo maestro”, un “profeta buono”, tanto da far pensare a un’ipnosi collettiva perpetuata da Kony, il cui intento è cancellare la Costituzione ugandese per far sì che tutti obbediscano solo al decalogo dell’Antico Testamento42. La sua dottrina è un’insieme di credenze che legittimano l’uso della violenza contro chiunque si opponga al suo progetto. Dapprima, gli attacchi dell’LRA si concentrarono su obiettivi governativi, ma a partire dal 1991 iniziarono ad esser presi di mira anche luoghi pubblici. Case, scuole, ospedali ed altri edifici vennero saccheggiati e distrutti, i villaggi e i campi bruciati. Con il tempo la violenza si estese anche alla popolazione. Ci sono numerose testimonianze raccolte da organizzazioni umanitarie e per i diritti umani che parlano di uccisioni e di atroci mutilazioni di civili, puniti per non aver sostenuto la causa ribelle, e di rapimenti di bambini e adulti43. Malgrado la disorganizzazione dei distaccamenti dell’LRA, le strategie di isolamento e gli attacchi militari compiuti dall’esercito governativo, i ribelli di Kony continuarono ad essere una pesante minaccia per il Paese. Nel 1991, il governo, in risposta agli attacchi dell’LRA ai luoghi pubblici, lanciò una durissima offensiva militare conosciuta come “Operazione Sesamo”. Il governo isolò il Nord e catturò molti oppositori politici del regime di Museveni, e inoltre, costrinse i contadini a unirsi alla caccia dei guerriglieri con qualunque arma di cui potessero disporre. Ma questa operazione portò gli uomini di Kony a infuriarsi contro i contadini che furono oggetto di brutali vendette44. Nel corso degli anni la popolazione acholi ha in parte sostenuto Kony, credendo nelle sue promesse di voler difendere i diritti del suo popolo e confidando nei suoi poteri spirituali. Oggi Kony non gode più di alcun supporto da parte dei civili, perchè la violenza dei suoi seguaci colpisce indiscriminatamente. Il 90% dell’etnia acholi, secondo uno studio di Robert Gersony, commissionato e diffuso dall’ambasciata americana a Kampala, è contrario alla guerriglia. Nonostante questo, ci sono testimonianze che confermano la presenza di collaborazionisti dell’LRA nei villaggi, solitamente parenti dei ribelli. Anche molti civili sono costretti a collaborare con i guerriglieri, per paura, per non essere uccisi e per proteggere i loro bambini, in quanto opporsi ai ribelli significa uccidere i propri figli. Ci si chiede altresì come mai l’esercito ugandese, così ben armato e addestrato, non sia riuscito a fermare l’LRA quando, nel 1990-91, era ancora di dimensioni ridotte. 42 G. Albanese, op. cit., p. 20. 43 Le violenze vengono portate a compimento con precisione chirurgica, lasciando le vittime orribilmente mutilate come testimonianza della ferocia e della determinazione dell’LRA (I. Ciapponi, op. cit., p. 61). 44 I. Capponi, op. cit., p. 62

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Questo conflitto per molti è incomprensibile poiché è soprattutto la popolazione acholi a morire per mano dei ribelli, la cui maggioranza è anch’essa acholi. Il Nord Uganda è sprofondato in una gravissima crisi umanitaria. Tantissime persone hanno abbandonato la propria casa per fuggire dai ribelli e vivono ora nei cosiddetti “villaggi protetti” una sorta di campi per profughi presidiati dall’esercito regolare45. Questi villaggi sono sovraffollati, vi è malnutrizione e spesso manca la protezione perché il distaccamento militare si trova al centro del campo ed è perciò la popolazione stessa che, paradossalmente, protegge i soldati governativi. Dal 1996, l’esercito ugandese costrinse la popolazione a raggrupparsi in questi centri, utilizzando mezzi come bombardamenti intimidatori. Nel settembre del 2002 si è verificato l’ultimo episodio, quando i capi militari hanno comunicato alla radio che entro 48 ore le persone avrebbero dovuto lasciare le proprie abitazioni nelle zone rurali per evitare di trovarsi al centro dei combattimenti, mentre dall’altra parte i guerriglieri minacciavano la popolazione di non abbandonare i villaggi creando un clima di tensione insostenibile.

2.4 Sostegno del governo sudanese a Kony, inasprimento della sua atrocità e introduzione di pratiche islamiche nell’LRA Nell’agosto del 1991, fu annunciata dal governo la sconfitta di Kony. Da quel momento non ci furono più atti brutali di violenza ma solo fino alla metà del 1993, quando l’LRA cominciò a ricevere il sostegno del regime islamico del Sudan, che voleva vendicarsi per l’appoggio di Museveni a John Garang, leader dei ribelli sudanesi del Sudan People’s Liberation Army (SPLA). Infatti, il governo sudanese ha collaborato con l’LRA per ostacolare le operazioni dello SPLA che, secondo la classe dirigente sudanese, riceveva a sua volta aiuti militari e finanziamenti dall’Uganda. Tuttavia sarebbe più giusto dire che è stato il governo degli Stati Uniti a fornire le armi ed ogni tipo di collaborazione allo SPLA attraverso la mediazione del governo ugandese, il suo più fedele alleato nel continente africano, per ridurre l’influenza del governo islamico di Khartoum46. Grazie ai sostegni militari ed economici del governo sudanese, l’LRA divenne una costante minaccia per il governo ugandese e per la popolazione civile. La trasformazione dell’LRA in un vero esercito riguardò sia la capacità offensiva, ossia l’approvvigionamento di armamenti moderni e propri di un esercito regolare, quali fucili d’assalto, mine anticarro, mortai, mine antiuomo, pistole, sia l’introduzione di un’organizzazione, di una gerarchia e di una disciplina militare. Alla fine del 1993, dopo il fallito tentativo di negoziare la pace, attuato dal ministro ugandese Betty Bigombe, i guerriglieri ripresero gli attacchi nella regione acholi, soprattutto contro la popolazione civile, che smise di essere vittima accidentale sul campo di battaglia per diventare parte integrante di una strategia diabolica dove l’unico intento era controllare, umiliare e distruggere la popolazione acholi. Iniziò così il periodo più atroce della guerra47.

45 Secondo l’OCHA, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari, sono più di 840.000 gli sfollati, equivalenti all’80% della popolazione (I. Capponi, op. cit., p. 65). 46 Tratto dall’articolo: “Il dramma dimenticato del Nord Uganda” in http://www.giovaniemissione.it. 47 I. Capponi, op. cit., pp. 62-63.

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I distretti di Gulu e Kitgum divennero zone permanenti di battaglie. I ribelli torturarono e uccisero migliaia di persone e moltissime cercarono rifugio oltre il confine, mentre tantissimi bambini e bambine furono rapiti durante le incursioni nei villaggi. Dal 1994, la violenza contro i bambini non fece che aumentare. L’LRA cominciò a rapire i bambini e le bambine per rinforzare numericamente le sue truppe. Lasciate le sue basi in Sud Sudan, entrava nel Nord Uganda per sequestrare i bambini, che poi venivano portati, legati in fila, nei campi di addestramento situati nel territorio sudanese. Lo strumento utilizzato per terrorizzare i civili, per ammansire i rapiti o per punire i trasgressori delle leggi dell’LRA, è la violenza estrema. L’LRA ha imposto agli abitanti dei villaggi divieti assurdi, tra cui quello di non possedere e allevare maiali, nel rispetto del regime islamico sudanese, che rifornisce di armi i guerriglieri, quello di non andare in bicicletta, perché permetterebbe di raggiungere rapidamente l’esercito per chiedere aiuto e quello di non abitare lungo le strade principali, perché le persone potrebbero così vedere la preparazione delle imboscate48. I capi ribelli considerano la violenza come un modo per ripulire la società dalle impurità e considerano colpevoli di aver infranto i loro comandamenti spirituali o religiosi coloro che muoiono, siano essi civili, truppe governative o bambini soldato dell’LRA. L’appoggio del Sudan all’LRA ha favorito l’introduzione di consuetudini islamiche nel programma di Kony. I mass media spesso hanno descritto Kony e i suoi seguaci come fanatici fondamentalisti cristiani il cui obiettivo è di instaurare un governo basato sui Dieci Comandamenti, dandone così una definizione troppo semplicistica che può trarre in inganno. Infatti, col tempo, le pratiche e il credo dei ribelli sono cambiati notevolmente: molti dei vecchi rituali sono stati abbandonati e sostituiti con altri di derivazione islamica, a causa dell’influenza del governo sudanese49. In ogni caso è

48 G. Albanese, op. cit., p. 23. 49 L’Islam è profondamente inserito nella cultura e nella storia di molte etnie, soprattutto dell’Africa settentrionale, dove è penetrato con un’invasione armata, avanzando alla conquista dei Paesi africani del Nord, sotto la spinta espansionistica dei primi califfi. La prima islamizzazione dell’Africa oltre ad essere una conquista militare e un’occupazione politica, è stata anche un’immigrazione etnica araba, che ha innestato sulle culture preesistenti la nuova religione, l’Islam. Nell’Africa subsahariana invece l’Islam non ha attecchito come al Nord, le popolazioni locali non vi si identificano e l’Islam in qualche misura si è africanizzato. Per quanto riguarda il Sudan si parla spesso di fondamentalismo islamico. Il ricorso alle armi come mezzo di pressione e la violenza sono stati per decenni una pratica usuale, giustificandoli come conseguenza della contrapposizione tra Nord e Sud, separati virtualmente dalla linea del 10° parallelo. Ma il conflitto è etnico e religioso, aggravato da risvolti politici ed economici strettamente intrecciati. Esso è mantenuto vivo dalla volontà politica di islamizzare le minoranze del sud e di applicare la shar’ia come legge di Stato. Vi è anche una questione di potere, che oppone il governo centrale alle amministrazioni regionali per il controllo delle risorse locali, acutizzata dalle prospettive di depositi minerari nelle regioni meridionali. La lotta tra le due parti iniziò subito durante le trattative per l’indipendenza del Sudan, proclamata poi nel 1956. La presa di potere da parte degli arabi del Nord creò, tra le popolazioni non islamiche del Sud, il timore di una conseguente islamizzazione di cui intuivano la minaccia per la propria identità culturale e per l’autonomia amministrativa goduta fino a quel momento. Dal 1983 la guerriglia venne ripresa e rafforzata con la formazione dello SPLA, l’esercito popolare di liberazione del Sudan. Malgrado la volontà dell’allora dittatore Nimeiri di estendere la legge islamica a tutto il Paese, la lotta a carattere etnico-religioso è divenuta pian piano una guerra per le risorse naturali, poiché le aree del Sud occupate dai ribelli sono ricche di giacimenti petroliferi. Per garantirsi il controllo di queste aree, sia i ribelli dello SPLA sia le forze governative, con i loro rispettivi alleati, si sono accaniti contro i civili. Di fronte a queste ingiustizie, la comunità internazionale ha taciuto e le industrie estrattive, anche europee, hanno continuato a lavorare indisturbate. I profitti del commercio petrolifero sono stati impiegati per l’acquisto di armamenti e di conseguenza il potere del governo sudanese è stato legato alla

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difficile tracciare una mappa completa delle linee guida dell’esercito di Kony, perché tutto ciò che si sa delle loro usanze lo si è desunto dai racconti di chi è riuscito a scappare. Kony si è sempre limitato ad affermare di combattere per far cadere l’attuale governo ugandese, accusato di non curarsi dello sviluppo del Nord del Paese, e di rappresentare un’ennesima dittatura e che la sua non è una lotta personale, ma l’attuazione del volere dello Spirito Santo50. Il sostegno del governo sudanese è stato essenziale fin dal 1994: senza di esso l’LRA non avrebbe potuto disporre di così tante armi e di basi sicure in cui tenere prigionieri e addestrare ragazzi rapiti. Successivamente a questo contatto diretto con l’esercito sudanese, Kony continuò la sua lotta contro Kampala, reclutando con la forza i bambini nei distretti acholi e lango del Nord Uganda. L’esercito sudanese, servendosi dell’LRA per combattere lo SPLA, ha fornito in cambio armi e munizioni e concesso ai ribelli le basi operative sul proprio territorio a Jabuleni in Equatoria, a Sud del Sudan, al trentanovesimo miglio sulla strada che collega Juba a Nimule51.

2.5 Tentativi di pace tra Uganda e Sudan Nel 1999 l’esercito ugandese minò vaste zone della regione acholi, vicino al confine con il Sudan. Ciò rese impossibile il ritorno a casa dei bambini rapiti di queste aree. Durante tutto l’anno, i ribelli dell’LRA non uscirono dai propri campi militari del Sud del Sudan. Grazie a questo periodo di calma, fu possibile realizzare un intenso lavoro diplomatico di mediazione tra i governi di Sudan e Uganda. L’8 dicembre 1999, nella capitale del Kenya, Nairobi, il presidente ugandese Museveni e il presidente sudanese Omar al-Bashir firmarono un accordo di pace, mediato dal vecchio presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, con il quale entrambi i Paesi si impegnarono a non fornire più alcun tipo di aiuto ai gruppi armati contrapposti ai rispettivi governi, a disarmare l’LRA e a restituire tutti i ragazzi rapiti52. Con la promessa del governo del Sudan di disarmare l’LRA e di far rientrare in Uganda i bambini soldato, i capi dell’LRA che non avevano partecipato alle negoziazioni di pace, accolsero l’accordo fra le due nazioni come una minaccia per la loro sopravvivenza. Quasi nello stesso periodo, il Parlamento ugandese votò l’Atto di Amnistia, che garantiva totale clemenza a tutti i ribelli che si fossero arresi. Tuttavia il leader dell’LRA, Kony, respinse l’offerta e dichiarò che intendeva continuare a combattere. I ribelli continuarono così i loro attacchi e due giorni prima del Natale 1999, invasero nuovamente la regione acholi, dopo quasi un anno di assenza. Ricominciò la solita spirale di violenza: le incursioni e i rapimenti continuarono tutto l’anno e, soprattutto nei primi mesi del 2000, si verificarono numerosi combattimenti fra i guerriglieri e i disponibilità finanziaria prodotta da queste vendite. La guerra sudanese, che ha colliso con il conflitto in Nord Uganda, è terminata il 9 gennaio del 2005, quando il governo del Sudan e i ribelli del sud hanno firmato un accordo di pace a Nairobi. Con tale accordo i proventi petroliferi vengono distribuiti a metà tra nord e sud (I. Capponi, op. cit., pp. 67-70). 50 I. Capponi, op. cit., p. 65. 51 G. Albanese, op. cit., p. 21. 52 L’accordo tra i due presidenti recitava: «Noi intendiamo cooperare pienamente alla ricerca e alla liberazione delle vittime, incominciando immediatamente da quelle che possono essere identificate» (E. De Temmerman, op. cit., p. 185).

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militari. Durante queste operazioni militari solo un esiguo numero di rapiti vennero rimpatriati, secondo l’accordo di Nairobi53. Nel luglio del 2000, il Parlamento europeo votò una risoluzione che richiedeva l’immediata esecuzione dell’accordo di Nairobi. Dato che le informazioni dell’Associazione per i diritti umani confermavano che il petrolio fomentava la guerra, la risoluzione faceva anche appello alle compagnie petrolifere internazionali operanti nel Sudan, perché sospendessero le loro attività fino a quando rapimenti e schiavitù non fossero cessati e non fosse concordata una risoluzione pacifica del conflitto in Uganda. Il governo sudanese fu stigmatizzato anche nel corso della Conferenza Internazionale sui Bambini Vittime di Guerra, tenutasi nel settembre 2000 a Winnipeg, in Canada, dove i due Paesi interessati siglarono infine un altro accordo: il Sudan promise di prendere tutte le misure per assicurare il rilascio e il rimpatrio di 6.000 ragazzi rapiti dall’LRA e tenuti in Sudan, mentre il governo ugandese si impegnò a intavolare un dialogo con gli olum, per convincere i ribelli ad accettare l’offerta di amnistia e riconciliazione. Come risultato dell’accordo di Winnipeg, in ottobre furono restituiti altri undici ragazzi, incluse cinque giovani madri con i loro bambini54. Un’altra iniziativa fu presa dalla Libia e dall’Egitto. Il colonnello libico Gheddafi si sentì personalmente coinvolto nel dramma dei ragazzi rapiti dopo la visita, nell’agosto del 2000, di suor Rachele Fassera, missionaria comboniana, che nell’ottobre del 1996 andò personalmente a parlare con i guerriglieri per chiedere la liberazione delle ragazzine rapite dalla sua scuola di Aboke55. Il risultato fu che Tripoli e Il Cairo decisero di comune accordo di inviare osservatori al confine Sudan-Uganda, per controllare il traffico d’armi e impedire l’eventuale rifornimento militare ai movimenti di guerriglia presenti nei due Paesi. Con l’aiuto dell’UNICEF e del Centro Carter, fu predisposto un dettagliato programma per il rimpatrio, il disarmo e lo scioglimento dell’LRA. Tutti i ragazzi rapiti sarebbero dovuti tornare in patria entro la fine del 2000, a partire dalle ragazze di Aboke, che dovevano essere liberate il 15 ottobre. Nell’ottobre di quell’anno suor Rachele trascorse due settimane a Khartoum, in attesa del via libera per Juba, dove avrebbe proceduto all’identificazione delle sue ragazze. Purtroppo non accade nulla e la missionaria ritornò in Uganda a mani vuote: la leadership dell’LRA non aveva accettato nessuna delle proposte. Un incontro, nel gennaio del 2001, tra i capi religiosi dell’Acholi Religious Leader Peace Iniziative (ARLPI)56 e i comandanti degli “olum”, per tentare di convincere con il dialogo i ribelli ad accettare l’amnistia, fallì a causa dell’intervento dell’esercito governativo57. Inoltre, il dispiegamento degli osservatori lungo il confine Uganda-

53 Il primo gruppo di 21 persone fece ritorno nel gennaio del 2000, un secondo contingente, di altre 51, tornò in aereo in aprile, ma nessuna di esse proveniva direttamente dai campi dell’LRA, essendo state prelevate da ospedali e da case di Juba, dove erano nascoste. Molti non erano neppure ragazzi rapiti (E. De Temmerman, op. cit., p. 186). 54 A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1245. 55 Per un approfondimento sulla storia di suor Rachele e quella delle sue allieve rapite dai ribelli dell’LRA nell’ottobre del 1996 si veda il paragrafo 4.4 del capitolo 4. 56 Cartello delle comunità religiose anche non cristiane presenti nei distretti acholi del Nord Uganda. Si tratta di un gruppo di persone guidate dal coraggioso e temerario arcivescovo di Gulu, monsignor John Baptist Odama, che ha sempre creduto nella soluzione non violenta della crisi armata, incontrando, dal luglio del 2002 all’aprile del 2003, ben venti volte i ribelli nel “bush” (boscaglia). 57 La popolazione vittima di questo conflitto, accusò il governo ugandese di poca volontà politica di risolvere questa situazione drammatica. Museveni, ha sempre visto nel Nord un concorrente al suo potere,

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Sudan non ebbe luogo a causa del dilagare di un’epidemia mortale di ebola nel Nord Uganda58. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, nel nuovo quadro internazionale di lotta contro il terrorismo, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti definì l’LRA un movimento terrorista. La pressione internazionale esercitata sul Sudan diede finalmente i suoi frutti quando, nel 2001, Khartoum sospese ogni aiuto al leader dei ribelli, Kony, alcuni comandanti sudanesi arrivarono persino a favorire il tentativo di fuga di alcuni ragazzi rapiti, portandoli a Juba, da dove poi vennero rimpatriati dall’UNICEF. Nel giugno del 2001, ciò provocò addirittura uno scontro diretto tra l’LRA e le forze armate sudanesi, durante il quale furono uccisi cinque soldati del Sudan59. Poiché l’LRA non riceveva più rifornimenti di cibo dall’esercito sudanese e i ragazzi rapiti rischiavano di morire di fame, i ribelli incominciarono ad attaccare e a saccheggiare i villaggi vicini e anche a uccidere civili sudanesi per sopravvivere. Verso la metà del 2001, migliaia di persone del sud del Sudan furono costrette a rifugiarsi in campi protetti per sfuggire agli assalti dell’LRA60. A seguito della richiesta di chiarimenti, da parte del governo ugandese, sul mancato adempimento dell’Accordo di Nairobi, la leadership sudanese informò il ministro ugandese, Amama Mbabazi, che pur rimanendo fedeli all’accordo, essi non erano militarmente in grado di disarmare l’LRA. Dietro suggerimento dell’Uganda, concessero quindi all’esercito ugandese di entrare in Sudan, per debellare l’LRA e liberare tutti i rapiti. Il 5 marzo del 2002, Sudan e Uganda firmarono un nuovo Protocollo, che autorizzava l’esercito ugandese di compiere una limitata incursione militare entro il territorio sudanese per distruggere l’LRA. Tale operazione denominata “Iron Fist”, Pugno di Ferro, alla quale i diversi gruppi della società civile del Nord Uganda si opposero fin dall’inizio, iniziò quando il governo ugandese mandò 10.000 soldati dell’UPDF nel sud del Sudan, sostenuti dai marines statunitensi, per dare la caccia ai ribelli nei loro campi di addestramento61. Kony andò su tutte le furie per tale accordo: il 23 e il 24 marzo del 2002 lanciò una serie di micidiali attacchi contro i campi dell’esercito sudanese, uccidendo una trentina dei loro soldati e due ufficiali di collegamento ugandesi62. All’inizio dell’aprile successivo, l’esercito di Kampala aveva occupato tutti i campi dell’LRA entro i confini del Sudan, sequestrato ingenti scorte d’armi, munizioni e derrate alimentari. Ma Kony aveva prevenuto l’attacco. Portando con sé ragazzi rapiti, si era rifugiato sulle montagne Imatong, una vasta e inaccessibile catena montuosa a circa 60 km dal confine con l’Uganda. Là furono bombardati per mesi dall’esercito ugandese63. Kony, così, si scagliò contro la popolazione del sud del Sudan, che si rifiutava di dargli cibo e informazioni. Il 3 maggio seguente, le Nazioni Unite denunciarono che la

perciò dal mantenimento dello stato d’instabilità del Nord sembra derivare la sua permanenza al governo, inoltre la sua ricerca dei fondi “per la pace” garantisce il finanziamento dell’esercito. 58 E. De Temmerman, op. cit., p. 187. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 I militari ugandesi, in quei giorni, presentarono un bilancio ufficiale in cui sostenevano l’uccisione di molti ribelli, spesso tacendo che si trattava di bambini rapiti (Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003). 62 Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003. 63 Ibidem.

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situazione umanitaria nel Nord Uganda era la più seria nel mondo, molto di più di quella in Iraq: gli uomini dell’LRA avevano massacrato 300 civili sudanesi in una sola settimana. Ma il più efferato crimine venne compiuto il 26 aprile, quando 60 persone che partecipavano a un funerale furono costrette a cuocere e quindi a mangiare il cadavere, dopo di che vennero tutte uccise64. L’8 giugno del 2002, un gruppo di 700 combattenti dell’LRA, guidati dal comandante Vincent Otti, invase di nuovo l’Uganda, alla ricerca di viveri e medicinali. Essi scatenarono una nuova ondata di terrore: facevano saltare in aria i veicoli, assalivano e saccheggiavano i villaggi, i centri commerciali e i campi prottetti dei rifugiati interni, bruciavano le capanne, portavano via i bambini. I civili che non collaboravano con loro venivano picchiati o mutilati finché morivano65. Altri tentativi per negoziare un accordo non produssero alcun risultato. Nel marzo del 2003, il governo ugandese e l’LRA annunciarono entrambi un limitato cessate il fuoco, per consentire ai colloqui di pace di prendere l’avvio. Tuttavia i negoziatori incaricati delle trattative da Museveni tentarono invano di mettersi in contatto con i comandanti dell’LRA, che invece approfittarono della tregua per assalire i villaggi della zona franca66. I capi religiosi degli acholi attribuirono la mancanza di interesse per i negoziati da parte dell’LRA alle rinnovate forniture di armi consegnate dal Sudan67 e il governo ugandese accusò nuovamente quello sudanese di procurare armi all’LRA, permettendo a Kony di tornare nel Sud del Sudan per rifornire i suoi ribelli. L’esercito sudanese non si limitò a ripristinare le forniture di armi, ma diede anche all’LRA informazioni sulle posizioni dell’esercito ugandese e impiegò i bombardieri Antonov per scoraggiare un’eventuale avanzata delle forze di Kampala contro le postazioni dell’LRA uccidendo anche in uno scontro tre militari ugandesi. Sembra che il voltafaccia del Sudan fosse provocato da due avvenimenti. Uno fu la caduta nelle mani dello SPLA della città di Torit nel sud del Sudan, avvenuta il 1° settembre del 2002. Khartoum sospettò che dietro l’attacco ci fosse l’Uganda, ma il governo di Museveni sostenne che lo SPLA aveva conquistato Torit senza alcuna connivenza, consenso o supporto da parte sua. Un secondo avvenimento fu l’assalto dell’LRA a un campo militare sudanese, il 22 settembre del 2002, che provoco la morte del colonnello Suleiman, uno dei più rappresentativi ufficiali sudanesi, e di altri 35

64 A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1242. 65 Le atrocià che accompagnavano questi assalti ricordavano i giorni più bui della guerra. Il 24 luglio del 2002, a Mucwini (Kitgum), 60 civili furono uccisi a colpi di machete, di ascia o di coltello, dopo essere stati costretti a sfracellare i loro bambini contro gli alberi. Il 12 ottobre, 34 persone furono rinchiuse nelle loro case ad Agogo e poi bruciate vive, mentre 18 venivano massacrate con bastoni e machete. Due settimane più tardi, a Koch Ongako, tre uomini anziani furono colpiti a morte e le loro mogli costrette a fare sesso con i cadaveri. Lo stesso mese, 28 persone provenienti dal centro commerciale di Gang Pa Aculu vennero ferite a morte, le loro membra tagliate e messe a cuocere in una pentola, quindi fatte mangiare a forza ai loro compaesani (E. De Temmerman, op. cit., p. 188). 66 Il 23 marzo i guerriglieri dell’LRA giunsero persino ad uccidere l’inviato di pace, Okec Kuru, mentre gli stava portando telefoni cellulari e lettere (E. De Temmerman, op. cit., p. 189). 67 Il rapporto dell’Iniziativa di Pace dei Leader Religiosi Acholi del 16 giugno 2003, basato su approfondite interviste ai ragazzi rientrati, fornisce dettagliate informazioni sulla consegna di armi e munizioni da parte di ufficiali delle forze armate sudanesi, a partire dagli ultimi mesi del 2002. Il rapporto conclude: «Secondo il parere concorde dei nostri sei informatori, l’LRA, rimasto a corto di scorte militari già dall’anno precedente, sarebbe stato costretto a negoziare con il governo ugandese un accordo, che avrebbe potuto dare pace al Nord Uganda» (E. De Temmerman, op. cit., p. 189).

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soldati. Temendo nuovi scontri, l’esercito sudanese riprese quindi i contatti con l’LRA 68. I nuovi rifornimenti di armi produssero un’escalation di violenza nel Nord Uganda verso la metà del 2003. La guerriglia infuriò estendendosi da cinque a dieci distretti, che ora includevano anche Katakwi, Kotido, Kumi, Soroti e Adjumani. La conseguenza fu un massiccio esodo della popolazione verso i campi per i rifugiati interni e i centri urbani. Nel novembre del 2003, il vice segretario generale per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite, Jan Egeland, definì la Situazione nel Nord Uganda «La più grande dimenticata e trascurata crisi umanitaria del mondo»69.

2.6 Intensificarsi del conflitto nel 2004 e condanna dell’LRA da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU Il conflitto continuò dall’inizio alla fine del 2004, con più di 190 persone uccise a metà febbraio in un attacco al campo Barlonya, a circa 16 miglia a nord di Lira, da parte dei ribelli. Appena tre settimane prima un attacco simile aveva causato la morte di 40 civili. In risposta il governo aumentò la sua campagna militare contro l’LRA. Nel mese di marzo il governo sudanese rinnovò il protocollo permettendo ai soldati ugandesi di attraversare il confine per combattere i ribelli dell’LRA. Alla fine dello stesso mese l’UPDF rivendicò di aver ucciso più di 50 ribelli che tentavano di attraversare il confine sudanese per entrare in Uganda. Ad aprile Kony rilasciò una rara intervista al Kenyan-based magazine, accusando i militari ugandesi di aver commesso molte delle atrocità addossate all’LRA e incolpò Museveni del fallimento di negoziare un accordo. Egli si rifiutò di considerare negoziazioni dirette con il governo ugandese e dichiarò che avrebbe comunicato con Museveni attraverso lo “Spirito Santo”, il quale gli aveva detto di uccidere il Presidente70. Nell’aprile del 2004 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò gli atti dell’LRA, in particolare il rapimento di fanciulli per usarli come bambini soldato. Il Presidente ugandese annunciò che avrebbe ordinato un cessate il fuoco se il leader

68 Nell’agosto del 2003 il leader sudanese, Omar al-Bashir, negò tali accuse affermando di aderire al protocollo firmato l’anno prima dai due Paesi e quindi di non sostenere più l’LRA. Ma testimonianze dirette, raccolte dalla società civile, hanno smentito tali dichiarazioni. Khartum continuava infatti ad appoggiare e a collaborare con Kony, fornendo equipaggiamento militare ai ribelli, recapitato a Nisitu, località a sud di Juba controllata dall’LRA, o in altri campi lungo il confine tra le due nazioni. All’inizio del 2003 la riconquista della cittadina di Torit da parte dei governativi sudanesi fu possibile proprio grazie all’aiuto dell’LRA (G. Albanese, op. cit., p. 21). 69 All’inizio del 2004, il “Programma contro la Fame nel Mondo” valutò il numero di rifugiati interni, nel nord e nell’est dell’Uganda, in 1 milione e 400 mila unità. Il numero dei rapimenti era lievitato vertiginosamente a livelli mai visti prima. L’UNICEF ha calcolato che tra il giugno del 2002 e il marzo del 2004, siano stati catturati più di 10.000 bambini. Gli episodi più clamorosi sono stati il sequestro di 80 studentesse della Lwala Girls School di Soroti, avvenuto il 23 giugno 2003, e quello di 55 seminaristi del Seminario St, Mary’s Lacor di Gulu, l’11 maggio dello stesso anno. Nello stesso periodo migliaia di ragazzi furono liberati dall’esercito ugandese o riuscirono a scappare durante i combattimenti. Tra giugno del 2002 e marzo 2004, vennero registrati nei diversi centri di accoglienza del Nord Uganda più di 9.600 ragazzi, la maggior parte dei quali profondamente segnati sia fisicamente che psicologicamente (E. De Temmerman, op. cit., p. 190). 70 A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, pp. 1242-1243.

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dell’LRA avesse voluto intraprendere una pace negoziata. La risposta immediata fu un no e l’esercito ugandese fece ancora pressione con la sua campagna militare. Nel mese di maggio quasi cento persone furono uccise in due attacchi dei ribelli al villaggio di Lokodi e a un campo profughi nel nord. A giugno del 2004 Museveni dichiarò che l’esercito aveva ucciso 781 ribelli e liberato 1.500 ostaggi a partire da gennaio. Malgrado questi successi, i ribelli dell’LRA continuarono a colpire i campi per profughi. Più di 20 persone vennero uccise in un campo profughi che offriva rifugio a 11.000 persone nel distretto di Apac. L’LRA lanciò attacchi nel sud del Sudan, uccidendo soldati dello SPLA, civili e rubando bestiame71. In risposta ai continui attacchi l’esercito aumentò ulteriormente la sua campagna militare contro i ribelli. In un’operazione militare nel mese di luglio, l’UPDF riuscì quasi a intrappolare Kony e catturò quattro delle sue mogli e alcuni suoi figli. Inoltre, l’amnistia concessa dal governo sembrava essere un’attrazione a disertare per un significativo numero di ribelli. A luglio circa 300 soldati dell’LRA di unirono all’esercito ugandese dopo diversi mesi di addestramento ed educazione. Verso la fine del 2004 sembrava che il numero degli attacchi dell’LRA stesse diminuendo e i rifugiati nel distretto di Lira cominciarono a tornare nelle loro case72.

2.7 L’armistizio del novembre 2004 non sfocia in una pace duratura Nel mese di novembre del 2004 un portavoce dell’LRA, il Brigadier Sam Kolo, annunciò che l’LRA voleva una pace negoziata. Museveni in risposta ordinò un cessate il fuoco di sette giorni, estendendolo per altre settimane in seguito alle firme della leadership dell’LRA per un successivo impegno a una pace negoziata e annunciò che alla fine di novembre il cessate il fuoco sarebbe stato esteso indefinitamente se l’esercito ribelle avesse rispettato tale impegno. Comunque, sporadici combattimenti continuarono al di fuori della zona di sospensione delle ostilità. Benché l’armistizio fu esteso a dicembre, le speranze per una fine permanente della guerriglia svanirono quando, alla fine di questo mese, l’LRA rifiutò di firmare un accordo duraturo, dichiarando che erano ancora in discussione circa il fatto di impegnarsi pienamente al processo di pace. Nel gennaio del 2005 la tregua fu formalmente rotta quando Museveni ordinò di riprendere l’azione militare. Nei giorni dell’annuncio di una nuova azione militare, il Governo avanzò delle proposte per l’LRA e un nuovo cessate il fuoco entrò in vigore nel mese di febbraio. Venne confermata l’amnistia per qualunque soldato dell’LRA volesse disertare. Uno dei principali comandanti dei ribelli, il Colonnello Onon Kamdulu, lasciò l’LRA non appena l’armistizio entrò in vigore, e gli fu garantita una piena amnistia dal governo. Anche Sam Kolo abbandonò l’LRA dopo una discussione con il leader numero due Vincent Otti73.

71 A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1243. 72 Ibidem. 73 Ibidem.

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Alla fine di febbraio del 2005 la tregua terminò senza un accordo e l’LRA ricominciò con i suoi attacchi ai campi profughi e alle città. A marzo l’LRA rapì quarantanove persone dopo un attacco a un villaggio a 30 chilometri a sud di Gulu. Nelle prime due settimane dello stesso mese aveva lanciato cinque attacchi rapendo altre venticinque persone e uccidendone almeno dodici. A maggio circa venti persone vennero uccise in due attacchi. Tuttavia il governo rimase in contatto con i leader dell’LRA e cercò di riniziare pacifiche negoziazioni74.

2.8 Intervento dell’International Criminal Court contro l’LRA e referendum del 2005 sulla reintroduzione del multipartitismo L’International Criminal Court (ICC)75 a l’Aja, Paesi Bassi, nel luglio del 2004 aprì un’inchiesta sui crimini di guerra commessi dall’LRA dal luglio del 2002. Benché la Corte dichiarò di avere la piena collaborazione del governo ugandese, alcuni ufficiali espressero la loro preoccupazione sul fatto che l’inchiesta e la potenziale prosecuzione avrebbe potuto minare le negoziazioni tra il governo e l’LRA. L’ICC annunciò, nel gennaio del 2005, che il processo sui crimini di guerra sarebbe cominciato nel mese di luglio. A marzo una delegazione di sei membri della società civile, comprendente il capo culturale David Onen Acana II e l'arcivescovo di Gulu John Baptiste Odama si recò nella sede dell’ICC per conferire con il procuratore Luis Moreno Ocampo e tentare di ritardare l'emissione dei mandati di cattura per i leader dell’LRA, accusati di serie violazioni dei diritti umani. Il timore della delegazione Acholi era infatti che i mandati di cattura potessero dissuadere i capi ribelli dall'uscire allo scoperto e impegnarsi concretamente nei colloqui di pace76. Per tutto il mese di giugno del 2005 le violenze non si placarono e la guerra era più viva che mai, con nuove uccisioni di ribelli e rapimenti di civili. In diversi scontri avvenuti nel nord dell'Uganda diciannove ribelli persero la vita, tra cui sei annegati nel tentativo di oltrepassare un fiume presso Gulu. Nel campo di Agoro, a circa 60 chilometri da

74 A. Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1243. 75 La Corte Penale Internazionale ha il compito di processare persone ritenute responsabili di crimini di guerra, contro l’umanità, di genocidio e di aggressione ad altri Paesi. I crimini giudicati saranno quelli commessi dopo il 1° luglio 2002. La Corte esercita una giurisdizione di tipo complementare rispetto a quella esercitata dagli Stati parte. Essa non può sostituirsi alla giurisdizione nazionale: potrà infatti procedere solo allorquando i tribunali nazionali siano nell’impossibilità accertata o non vogliano giudicare i crimini predetti. Una persona potrà essere perseguita e portata davanti alla Corte sulla base di un procedimento d’ufficio avviato alla procura dello stesso tribunale su denuncia di governi o di Organizzazioni Non Governative, o su indicazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’azione penale “ex Officio” del procuratore sarà vagliata da una camera preliminare, che potrà concedere l’eventuale autorizzazione a procedere. La Corte potrà chiedere agli Stati membri l’estradizione delle persone da giudicare e avrà l’incarico di proteggere i testimoni e le vittime dei crimini giudicati. La Corte è composta da 18 magistrati che rimangono in carica nove anni, scelti in base alle competenze in materia e alla loro imparzialità. Essa non è un’organo dell’ONU ed è finanziata dai contributi volontari dei governi, da organizzazioni internazionali o private. Le Nazioni Unite possono erogare fondi, una volta autorizzate dal Consiglio di Sicurezza (L. Bertozzi, op. cit., p. 122). 76 Rake, Uganda. Recent History in Africa South of the Sahara, the Europa Regional Surveys of World, 2006, p. 1243.

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Kigtum, lungo il confine con il Sudan, il raid dell’LRA si trasformò in uno scontro a fuoco tra gruppi ribelli, dove oltre ad un combattente dello SPLA, rimase ucciso un bambino, colpito per sbaglio mentre cercava scampo dalle pallottole insieme alla madre. A luglio l’LRA attaccò e uccise almeno quattordici persone, nel distretto ugandese di Kitgum. In quell'occasione, sette uomini armati assaltarono un pick-up carico di civili che si stavano recando nel vicino mercato di Potika. Un altro attacco al campo profughi di Juba nel sud del Sudan provocò almeno nove morti. Alcuni soldati dell’esercito ugandese intercettarono e uccisero sette ribelli nella regione settentrionale di Kitgum. Inoltre, l'UPDF confermò che otto dei dodici civili sequestrati nel villaggio di Apala, erano stati liberati77. I tentativi di riportare il territorio sotto il controllo completo delle autorità arrivarono in un momento estremamente delicato per l'Uganda. Nel mese di luglio il Paese votò per decidere se ritornare o meno ad un sistema politico multipartitico. Museveni che aveva infatti abolito i partiti dopo la sua ascesa al potere nel 1986, incalzato dalla comunità internazionale, si trovò a dover recedere dalle sue posizioni e a dover acconsentire allo svolgimento di un referendum ad hoc. Il 90% degli elettori si espresse per il Sì, nonostante la percentuale totale dei votanti non superò il 44% degli aventi diritto. Questo referendum ha portato, dopo vent'anni, una nuova ventata fresca di democrazia in Uganda, e la possibilità per la Nazione di abbandonare un passato di violenze e tensioni per un nuovo corso di stabilità politica. Nel mese di agosto più di quaranta guerriglieri rimasero uccisi in diversi raid aerei lanciati lungo il confine con il Sudan78. L'intensificarsi delle operazioni militari di repressione della guerriglia nel nord del Paese da parte delle autorità di Kampala, coincise con il rilancio, anche se un po' in sordina, di un tavolo di trattative per mettere fine alle ostilità. Protagonisti dei nuovi tentativi di mediazione quattro Paesi sostenitori dell’Uganda: Inghilterra, Olanda, Norvegia e Stati Uniti. Diversi messaggi radiofonici furono inviati ai ribelli dell’LRA con l'obiettivo di spronare il gruppo a prendere contatti per avviare un dialogo che portasse alla deposizione delle armi. Capo dei mediatori occidentali era Betty Bigombe, la quale si era messa a disposizione come tramite tra milizia e governo ugandese. Scarsi i risultati dell'iniziativa. Soltanto qualche breve telefonata fu la risposta dell’LRA all'invito ricevuto, un rapido scambio di battute in cui non si fece accenno a nulla di veramente concreto. Una nuova operazione dell'esercito ugandese tra il nord del Paese e il sud del Sudan fu effettuata a settembre, in cui quaranta combattenti dell’LRA vennero uccisi, mentre cinque bambini ostaggio dei ribelli (e futuri baby-combattenti) furono liberati 79. Agli inizi di ottobre l’ICC e l’Interpool, che consta delle forze di polizia dei suoi 184 stati membri, emisero mandati di cattura per cinque dei membri più alti in grado dell’LRA, incluso il leader del gruppo, Kony, incriminato per trentatrè capi d’accusa per crimini di guerra e contro l’umanità. La decisione dell’ICC attirò le critiche di alcuni leader nel nord dell’Uganda, che sostenevano che l’implicazione della Corte nel conflitto impediva gli sforzi di pace in corso guidati dall’ex Ministro dell’Uganda Betty Bigombe. Il Ministro Ugandese degli Affari Interni Ruhakana Rugunda li tranquillizzò

77 Sito Internet http://www.warnews.it 78 Ibidem. 79 Ibidem.

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dichiarando che gli sforzi per una risoluzione pacifica sarebbero proseguiti a prescindere dall’emissione di questi mandati di cattura. L’offensiva intrapresa dai ribelli nel nord dell'Uganda a fine ottobre, provocò la morte di un operatore della Caritas e uno del Agency for Cooperation and Research in Development (Acord), oltre a feriti, tutti appartenenti a organizzazioni umanitarie attive nella zona80. Così, l’azione militare delle truppe regolari ugandesi, sostenuta dalle decisioni dell'ICC e dalla maggiore collaborazione sudanese, si fece ancora più incisiva.

Betty Bigombe, il 30 novembre del 2005, dichiarò che Vincent Otti, il vice comandante dell’LRA, la contattò per esprimere la volontà di riprendere i colloqui con il Governo. Otti aveva chiamato la BBC il giorno prima per annunciare che i ribelli volevano negoziare per far terminare quella guerra che aveva devastato il nord del Paese e cooperare con l’ICC aggiungendo però che anche gli ufficiali del Governo avrebbero dovuto affrontare la giustizia nella stessa Corte, essendo responsabili di alcuni crimini commessi nel Nord Uganda. Alla radio della BBC, Otti, tramite telefono satellitare, sostenendo di parlare con il permesso del leader dei ribelli Kony, disse: «Sono il Tenente-Generale Vincent Otti e voglio parlare con il Governo dell’Uganda per terminare la ribellione, poiché abbiamo combattuto per vent’anni e da oggi siamo pronti per questi colloqui»81. Ruhakana Rugunda, Ministro degli Interni, dichiarò che il Governo accolse positivamente l’offerta e sperava che fosse “seria e autentica” in quanto, se così fosse, il Governo avrebbe tenuto le porte sempre aperte e sarebbe stato disposto a terminare il conflitto con il dialogo. Ma nel mese di dicembre l’UPDF attaccò i ribelli dell’LRA uccidendone sei al confine fra Sudan e Congo, uccise poi sette civili e ferì altre sedici persone nel campo Lalogi, vicino a Gulu, dove le vittime si erano rifugiate dagli attacchi dell’LRA, mentre protestavano per l’uccisione, da parte di un soldato, di un ragazzo perché scambiato per un ribelle82.

2.9 La guerriglia nel 2006 e speranze di pace Nel gennaio del 2006 i ribelli dell’LRA hanno ucciso tre civili e ferito altri dodici in una discoteca del nord-ovest dell’Uganda nella sub-contea di Zaipi nel distretto di Adjumani, all’una del mattino. L’esercito ha ucciso poi due dei sospettati aggressori, uno dei quali maggiore dell’LRA, e nella regione a nord del Paese cinque ribelli in combattimenti non correlati all’evento: tre lungo il Fiume Aswa, nel distretto di Pader, uno in quello di Kitgum e l’altro nel distretto di Gulu83.

80 Furono tre gli attacchi che i guerriglieri dell’LRA portarono a compimento contro operatori disarmati. Il primo agguato, avvenuto ad una decina di chilometri da Kitgum, costò la vita ad un cittadino ugandese al servizio della Caritas. Il secondo, diretto contro un mezzo della Acord che viaggiava nelle vicinanze di Pader, causò la morte di un operatore e il ferimento grave di altri due. Una terza aggressione, risalente al giorno precedente i primi due, portò al ferimento di due dipendenti della Christian Children’s Fund (CCF) nei dintorni di Okwango (Sito Internet http:// www.warnews.it). 81 Sito Internet http:// www.warnews.it. 82 Ibidem. 83 Ibidem.

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Un gruppo internazionale di esperti ha affermato che ufficiali dell’esercito sudanese continuavano a dare supporto all’LRA nonostante i mandati di arresto internazionali per i leader del gruppo ribelle ugandese. La posizione di Kony, a circa 100 chilometri a nord della città sudanese di Juba, indicava che gli era ancora dato rifugio da alcuni elementi del Governo sudanese. Alle prime elezioni presidenziali e parlamentari multipartitiche degli ultimi 26 anni tenutesi il 23 febbraio 2006, Museveni, che ha guidato il Paese per due decenni ed ex leader di guerrilla, ha ottenuto un altro mandato della durata di cinque anni, il terzo per lui84. La vittoria del Presidente Museveni secondo molte persone significa che l’Uganda continuerà il cammino di crescita economica e stabilità politica, ma in molti al nord hanno sostenuto che l’elezione abbia acuito la divisione fra il nord ed il sud85. Museveni, dopo l’annuncio della vittoria, ha affermato: «Il conflitto al nord è finito […] abbiamo sconfitto Kony […] l’Uganda sarà totalmente pacifica e concentrata sullo sviluppo»86. Ma solo nel mese di maggio Kony ha offerto per la prima volta un ramoscello d’ulivo al governo, inviando una richiesta al Presidente Museveni per avviare dei colloqui di pace. Il messaggio è stato consegnato da Riek Machar, vice-presidente del sud Sudan, e da Salva Kiir Mayardit, attuale presidente del sud Sudan87. Kony ha dichiarato di aver ucciso delle persone nel sud del Sudan come rappresaglia per il sostegno dell’Uganda allo SPLA, e ha chiesto che gli fosse concesso del tempo per rimanere in Sudan durante le negoziazioni con Museveni. Il Presidente ugandese, durante un incontro con Hilary Benn, Ministro di Sviluppo degli Esteri Britannico, tenutosi il 16 maggio, ha comunicato che il suo Paese ed il Sud Sudan avrebbero dato tempo a Kony fino alla fine luglio per terminare le ostilità. Inoltre, Museveni ha detto al Ministro britannico che se Kony non avesse accolto questa proposta, lo SPLA e l’UPDF avrebbero preso in considerazione mosse militari.

84 Museveni ha ottenuto il 59% dei voti; Kizza Besigye (leader dell’opposizione del Forum for Democratic Change) il 37% dei voti. Mentre il partito di Museveni, il National Resistance Movement, ha sostenuto che le elezioni sono state “libere, eque e democratiche”, secondo l'opposizione ci sono state irregolarità nello svolgimento delle elezioni. Molti dei loro sostenitori, recandosi alle urne, non hanno trovato il loro nome nelle liste elettorali, altri sono stati trasportati in luoghi sbagliati e non quelli in cui si poteva votare, molte schede non sono state distribuite nei campi sfollati, quindi alla maggioranza della popolazione del nord colpita dal conflitto e da sempre ostile al Presidente. Inoltre, coloro che hanno ricevuto la scheda per recarsi a votare avrebbero dovuto attraversare la foresta, ma nella foresta ci sono i ribelli. Tali accuse però non sono state confermate dagli osservatori dell’Unione Europea (Sito Internet http:// www.warnews.it). 85 Durante la campagna elettorale Museveni aveva detto che il ritorno degli sfollati nei propri villaggi sarebbe cominciato, una volta che il Governo avesse distrutto l’LRA, dalla regione di Teso, poi dalle sub-regioni settentrionali di Lango e successivamente da tutta la regione Acholi. «Voglio che gli Acholi vivano in case decenti fatte di lamine di ferro come la gente nelle altre parti del Paese […] I soldi serviranno per rifornire gli sfollati con almeno trenta lamine di ferro per famiglia» affermava Museveni (Sito Internet http:// www.warnews.it). 86 Sito Internet http:// www.warnews.it. 87 Kony si è incontrato precedentemente con Riek Machar, chiedendogli appunto di consegnare il messaggio. Machar, dal canto suo, si era già incontrato in Sud Sudan con Vincent Otti.

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2.10 Intervista al leader dell’LRA nel mese di giugno 2006 Nel mese di giugno Kony ha concesso un’intervista ad un giornalista indipendente, riportata nel Times e trasmessa dalla BBC TV nella quale ha rivelato che la sua ribellione per rovesciare il governo è stata guidata dagli “Spiriti” e di ricorrere ai Dieci Comandamenti per liberare l’Uganda. L'appuntamento per questa esclusiva intervista è stato approvato da operativi dell'LRA in Kenya e, all'aeroporto di Nairobi, il giornalista si è incontrato con due uomini che lo hanno trasportato a Juba, in Sudan, dove si è unito ad un convoglio dello SPLA e condotto infine da Kony. Il leader dell’LRA ha dichiarato che l'intervista è stata la prima concessa ad un giornalista, e che le affermazioni che gli sono state attribuite durante interviste telefoniche a programmi radio sono false e non sono mai state da lui rilasciate. Le apparizioni pubbliche e dichiarazioni di Kony, infatti, sono sempre state molto rare, ma lo scorso maggio è apparso in un video ad un incontro nel bush con i leader sud-sudanesi, nel quale si è rivelato che fosse stato persuaso ad intraprendere negoziati con il Governo ugandese e che i soldi pagati agli ufficiali sudanesi erano per comprare cibo e non armi. Nella sua lunga intervista Kony ha fatto molte dichiarazioni, toccando diversi punti, dagli ordini ricevuti dagli "spiriti" alla lotta per liberare il popolo dell'Uganda. I più significativi vengono riportati di seguito88.

"Guidati dagli spiriti"

«Gli spiriti parlano con me. Non so quanti siano ma parlano con me. Danno gli incarichi attraverso la mia persona. Mi dicono cosa accadrà. Mi dicono “tu, Sig. Kony, dì alla tua gente che il nemico sta pianificando di attaccare”. Essi arrivano come i sogni. Ci dicono qualunque cosa. Sa, noi siamo ribelli, non abbiamo medicine. Ma gli Spiriti ci aiuteranno dicendo “tu, Sig. Kony, vai e prendi queste e quelle cose”».

"Liberare il popolo"

«Vogliamo che il popolo dell'Uganda sia libero. Combattiamo per la democrazia. Vogliamo che il nostro leader sia eletto ma non vogliamo un movimento come quello di Museveni».

«Sono un combattente per la libertà che sta combattendo per liberare l'Uganda. Non sono un terrorista».

«Se (il Presidente Museveni) accetterà di parlare con me è solo una buona cosa, che so porterà la pace alla gente dell'Uganda».

88 Sito Internet http//www.bbc.co.uk.

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"I dieci comandamenti"

«Sì, stiamo combattendo per i Dieci Comandamenti. E' un male? Non è contro i diritti umani. E questi Comandamenti non sono stati dati da Joseph. Non sono stati dati dall'LRA. No, i dieci comandamenti sono stati dati da Dio».

«Sono un essere umano come lei. Ho occhi, un cervello e indosso vestiti ma loro dicono che non parliamo con la gente, che mangiamo la gente. Siamo assassini. Questo non è vero. Perché mi avrebbe incontrato se fossi stato un killer?».

Secondo Kony le descrizioni delle mutilazioni ai civili sono state propaganda del Governo ugandese, negando anche il rapimento da parte del suo gruppo di bambini, spiegandolo in questo modo: «Mi lasci dire chiaramente cosa è successo in Uganda: Museveni è andato nei villaggi e ha tagliato le orecchie alle persone, dicendo alla gente che era stata opera dell'LRA. Io non riesco a tagliare le orecchie a un mio fratello». Ha conluso poi sul Presidente ugandese: «E' Museveni che sta opprimendo gli Acholi. Le nostre ricchezze, le nostre proprietà sono state distrutte da Museveni. Lui vuole distruggere tutti gli Acholi in modo che la terra degli Acholi sia la sua terra. Non ho ucciso i civili dell'Uganda. Ho ucciso i soldati di Museveni». Kony, ricercato dall'ICC con altri quattro comandanti, ha negato le responsabilità per aver rapito circa 25 mila bambini, massacrato più di 10 mila persone e costretto circa 2 milioni di esseri umani a vivere in condizioni disastrose nei campi IDP (Internally Displaced Person). Parlando nella giungla della Repubblica Democratica del Congo circondato da circa 3 mila soldati che lui ha definito "leggermente armati", Kony ha insistito di non essere il mostro che è stato dipinto.

2.11 Il racconto delle atrocità subite di una vittima dell’LRA Successivamente alle dichiarazioni del leader dell’LRA, che ha negato di aver commesso atrocità, una vittima dei ribelli, l’ugandese venticinquenne Ochola John ha risposto raccontando la sua storia. Fu rapito dai ribelli dal suo villaggio, Namkora, nel Nord Uganda, che fu attaccato nel febbraio del 200289. «Vorrei essere nato in un altro luogo. Fa male vedermi così come appaio ora. I ricordi sono così dolorosi. Era notte quando vidi delle torce lampeggiarmi. Mi fu ordinato di sdraiarmi con la faccia a terra. Mentre lo feci, i ribelli iniziarono a saccheggiare altre case intorno a me.

89 Sito Internet http//www.bbc.co.uk.

Ochola John è stato deformato dai ribelli del Lord’s Resistance Army

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Arrestarono, legarono e fecero sdraiare nel pavimento le vittime in tre linee. Le persone urlavano da tutti gli angoli del nostro villaggio. Due uomini furono incatenati e forzati a terra, le loro teste legate insieme. I ribelli provarono a costringermi a prendere un sasso e colpire le loro teste ma mi rifiutai, così uno venne da me con un coltello e mi tagliò l’ orecchio sinistro. Mi accusò di essere un soldato del governo e mi disse che sarei morto se non avessi fracassato le loro teste. Ma poi iniziarono loro stessi a spaccare le teste delle persone. Io fui messo in mezzo mentre loro fracassavano le teste delle persone. Alle sette circa del mattino, condussero 35 di noi nella boscaglia. A circa cinque km dalla scena iniziarono a insultarmi e, poiché non avevo ubbidito ai loro ordini, sarei stato cucinato vivo. Ci bastonavano e non ci davano cibo o acqua. Ci lamentavamo dicendo che eravamo affamati e assetati. Smisero di violentare le donne che erano nel nostro gruppo e permisero loro di darci da mangiare e da bere. Furono costrette a bollire dell’acqua in una pentola grande dentro la quale dissero che avrebbero cucinato il soldato del governo, suppongo me. Per molto tempo, i ribelli picchiarono a turno noi uomini con un metallo caldo, e violentarono le ragazze. Spiritualmente ero già morto. A un certo punto ritornarono da me e mi rilegarono prima di tagliarmi le labbra. Dopo mi recisero l’orecchio destro e il naso. Un po’ più tardi chiamò il loro comandante, Joseph Kony, dicendo loro di lasciare il posto immediatamente. Quindi noi fummo trasferiti a circa 15 km dalla boscaglia. Ero sanguinante. Non potevo piangere e per due giorni non potei bere acqua. I ribelli discussero per alcuni giorni sul fatto se dovevo essere ucciso o no. Mi dissero che ero un uomo cattivo e così dovevo soffrire. Le mie ferite iniziavano a putrefare. L’odore era così sgradevole. Ma ancora mi rifiutavano ogni cura. Dopo il settimo giorno, poiché non mi aspettavo di sopravvivere, insultai il loro comandante nella speranza che, per vendetta, venissi ucciso. Egli ordinò così ai suoi soldati di tagliarmi le mani. Lo fecero. Quella sera ricordo che vidi le mie compagne rapite piangere. Una di loro è stata uccisa e a un’altra le è stato amputato il seno. Io non so spiegarmi come, all’undicesimo giorno, fossi ancora vivo. I ribelli mi tenevano prigioniero e mi dicevano che presto sarei morto. Invece scelsero due moribondi e ordinarono alle donne, stremate per le continue violenze subite, di riportarmi a casa. Tre di noi erano deboli. Le ragazze piangevano, inconsolabilmente, quando alcuni soldati del governo ci trovarono dopo una lunga notte passata all’aperto. Ci portarono direttamente nell’ospedale più vicino dove ricevemmo cure. Mia moglie venne a vedermi con i miei genitori, parenti e amici. Trovarono così difficile guardarmi come un essere umano. Ero in putrefazione, puzzolente e deformato. Mia moglie non trovò le parole per parlarmi. Si sentì molto male. I miei pensieri erano pieni di amarezza. Odiavo la vita e avrei preferito essere stato ucciso. Tutto quello che volevo era suicidarmi e morire.

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Mia moglie iniziò a prendersi cura di me in ospedale. Le dicevo di lasciarmi solo, spiegandole che non sarei potuto essere più suo marito perché ero deformato, Lei rifiutò. Ogni giorno respingeva le mie richieste, dicendomi che il bimbo che portava, il bambino che stavamo aspettando, aveva bisogno di un padre. Continuava a dirmi che non dovevo dire di essere deformato e che un giorno o l’altro Dio mi avrebbe fatto sapere perché ero stato messo così alla prova. Mia moglie, Grace, col tempo mi aiutò a sopprimere i miei pensieri e sentimenti terribili. Quando nacque il nostro bambino, lo chiamai Anywar, che nella nostra lingua Luo significa un insulto o un abuso. Lo chiamai così per quello che mi fece il leader dell’LRA, Joseph Kony. Io provo, ma non posso perdonare, e non posso dimenticare».

2.12 Ultimi tentativi di pace con promessa di amnistia Il 4 luglio 2006 Museveni ha annunciato la possibilità di una totale amnistia per Kony a condizione che il leader ribelle rinunci al terrorismo ed accetti la pace, trascurando però, in questo modo, il mandato di arresto dell’ICC emesso nell’ottobre del 2005 verso di lui ed altri quattro leader del gruppo ribelle. La delegazione dell’LRA a Juba è sembrata inizialmente rifiutare l’offerta di amnistia in quanto Olweny Obonyo, portavoce del gruppo, ha dichiarato secondo quanto riportato da uno dei principali giornali quotidiani dell’Uganda, il Monitor, il 7 luglio, quindi tre giorni dopo l’offerta, che la propria organizzazione non considera l’offerta di Museveni. «L’amnistia è superflua», ha detto il portavoce della delegazione dell’LRA, «non risolve il problema del Nord Uganda. Non rappresenta una soluzione al conflitto». Un analista ha affermato che c’è stato un fraintendimento all’interno dell’LRA: Vincent Otti, avrebbe contraddetto la delegazione a Juba, dicendo che la leadership dei ribelli aveva accettato i colloqui, dichiarando anche a Radio France Internationale di aver accolto l’amnistia a braccia aperte. L’ICC ha sottolineato il fatto che Kony e gli altri accusati restano ricercati e devono essere arrestati. Sia il Governo degli Stati Uniti che il segretario Generale dell’ONU Kofi Annan hanno disapprovato l’amnistia offerta da Museveni. Ma il Presidente ugandese ha dichiarato che manterrà la promessa di garantire l’amnistia. In un pungente attacco alle Nazioni Unite egli ha affermato che le forze di peacekeeping dell’ONU hanno fallito o declinato il compito di arrestare Kony nei nove mesi durante i quali si è spostato verso la nuova base principale nella Repubblica Democratica del Congo, negando anche il permesso alle forze ugandesi di passare il confine per uccidere o detenere Kony ed i suoi seguaci90

. Per questo l’ONU, così come l’ICC, non hanno autorità morale per poter chiedere che Kony sia portato a processo, visto che hanno fallito nel suo arresto. Secondo il procuratore capo dell’ICC, Ocampo, sarà la Corte a decidere del destino di Joseph Kony, nonostante l’offerta di amnistia per crimini di guerra dal Presidente ugandese, il quale ha promesso di garantire la totale amnistia se i

90 Si crede che l’LRA abbia basi nel Garamba National Park così come nel sud Sudan, da dove i ribelli lanciano raid contro il Nord Uganda.

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colloqui di pace avranno successo. Egli non ha commentato direttamente l’ipotesi di amnistia se non dicendo che l’ICC «rispetta il mandato del Presidente», ma ha aggiunto anche che solamente la Corte può decidere il futuro di Kony e degli altri leader. «Crediamo», ha detto, «che la via migliore per fermare i crimini di guerra e restaurare la sicurezza nella regione sia arrestare i leader dell’LRA»91. Anche se la situazione che si è creata è complessa e controversa, con l’offerta di amnistia per Kony i colloqui di pace sono passati da speranza a realtà, ma questo ha fatto preoccupare coloro che lo vogliono vedere arrestato e portato davanti all’ICC. L’offerta del Presidente è stata giudicata come una violazione del suo impegno verso l’ICC 92. Kony e gli altri leader hanno continuato a negare con veemenza le accuse a loro rivolte, dichiarando di combattere per il proprio popolo, gli Acholi, i primi ed unici destinatari però proprio delle atrocità da parte dell’LRA. Dopo vent'anni di conflitto, il governo ugandese, a Juba, ha siglato il 26 agosto un cessate il fuoco con i ribelli dell’LRA. L'accordo è diventato operativo il 29 agosto, e se diverrà effettivo potrebbe rappresentare una svolta epocale per la storia dell'Uganda. In seguito alla tregua, l’LRA ha invitato i suoi uomini a radunarsi in tre campi scelti, poco oltre il confine tra l’Uganda e il Sudan e di attendere là l’esito dei negoziati. Ma la presenza di forze regolari ugandesi in territorio sudanese renderebbe l’operazione oltremodo difficile. La tregua, che non ha fornito indicazioni sul disarmo dei ribelli e sulla loro reintegrazione nella società ugandese, è stata raggiunta anche grazie alla mediazione dei diplomatici del sud Sudan, capeggiati dal vice-presidente della regione, Riek Machar. Secondo l’accordo ai ribelli è stato garantito passaggio sicuro a due luoghi designati come punti di raduno: i ribelli che si trovano nel sud del Sudan ed in Uganda dovrebbero confluire a Owiny-ki-Bul sul lato orientale del Nilo nell’est Equatoria in Sudan, quelli invece che si trovano nella Repubblica Democratica del Congo al Ri-Kwangba, nell’Equatoria occidentale lato ovest del Nilo. Ai ribelli impossibilitati a spostarsi dal sud Sudan è stato permesso riunirsi in qualsiasi luogo di culto in Uganda, secondo l’accordo93. Ciò che non è chiaro è cosa può accadere ai guerriglieri riuniti nei luoghi stabiliti nel caso in cui le due parti fallissero il raggiungimento di un accordo finale. Ruhakana Rugunda, capo della delegazione ugandese ai colloqui, ha dichiarato che, nell’improbabile evento del fallimento dei colloqui di pace, all’LRA deve essere permesso di lasciare le aree di riunione pacificamente, ma «la possibilità di fallire è poco improbabile». Sia il Governo che l’LRA sono ottimisti circa questa risoluzione pacifica riguardante un conflitto che dura ormai da vent’anni. La firma dell’intesa per cessare le ostilità ha dato ad entrambe le parti la speranza che sia finalmente realizzabile un accordo completo94. Ruth Nankabirwa, Ministro subalterno della difesa dell’Uganda, ha detto che l’UPDF ha il dovere di proteggere la gente e l’ordine di non sparare ai ribelli a meno che non si 91 Sito Internet http:// www.warnews.it. 92 Era stato lo stesso Museveni a chiedere all’ICC di intraprendere azioni contro l’LRA. 93 Il numero dei ribelli è stato stimato in totale fra i 500 ed i 5000 (Sito Internet http:// www.warnews.it). 94«Nonostante un inizio difficoltoso dei colloqui, attualmente c’è una volontà senza precedenti da entrambe le parti per raggiungere un accordo […] nonostante ci siano delle cose sulle quali non siamo ancora d’accordo […] vediamo un impegno maggiore e tutti noi siamo d’accordo sulla necessità di avere la pace nel nord dell’Uganda», queste le parole del capo della delegazione ugandese ai colloqui Ruhakana Rugunda. D’accordo anche la sua controparte dell’LRA, Martin Ojul, il quale ha dichiarato che l’LRA si stava impegnando più che mai in questo processo ( Sito Internet http:// www.warnews.it).

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tratta di difendere la popolazione. Ma il 23 settembre i ribelli hanno accusato il governo ugandese di aver violato la tregua “assediando” i loro combattenti, minacciando così di abbandonare i negoziati di pace a meno che l’esercito di Kampala non si ritiri dal Sud del Sudan95. La situazione al tavolo delle trattative tra governo ugandese e ribelli dell’LRA si è ulteriormente complicata. Il 28 settembre l’esercito ugandese ha accusato i ribelli di violare la tregua poiché hanno incominciato a lasciare i due campi di ricezione allestiti nel Sudan meridionale, dove entro il 12 settembre tutti gli uomini dell’LRA si sarebbero dovuti raggruppare per essere poi disarmati, secondo i termini della tregua concordata tra le parti96. Il giorno seguente è stato un portavoce dei ribelli ad incolpare l'esercito ugandese di aver rotto la tregua, sconfinando in territorio sudanese e avvicinandosi ai due campi di raccolta dove i ribelli sarebbero in attesa di venir disarmati. Nel mese di ottobre il governo ugandese ha minacciato di riprendere le operazioni contro i ribelli. Una missione composta da delegati dello stesso LRA, delle forze armate ugandesi e dei mediatori sud-sudanesi ha verificato che a Owiny-ki-Bul, nella regione di Eastern Equatoria, uno dei due centri di raccolta designati in Sud Sudan, non vi è traccia dei ribelli. In risposta all'annuncio da parte dei militari che erano pronti a ricominciare le operazioni contro i ribelli, Vincent Otti, ha dichiarato: «Se l’LRA ed esercito ugandese dovessero scontrarsi, si combatterà. E' quello che l'esercito vuole. Ma per quanto ci riguarda, non vogliamo combattere, vogliamo parlare». Nonostante le reciproche accuse e minacce si rimane ottimisti per la firma di un accordo. I negoziati in corso a Juba tra i ribelli ugandesi e il governo di Kampala sono proseguiti. Il 21 ottobre Museveni ha incontrato per la prima volta l'intera delegazione dell'LRA a Juba in un meeting a porte chiuse presso la Casa dell'Assemblea Nazionale, alloggio del Parlamento sud sudanese, tentando di salvare i vacillanti colloqui di pace97. La delegazione è stata guidata da Josephine Apira, vice capo del team di negoziazione dell'LRA98. Kony ed il suo vice, Vincent Otti, hanno rifiutato di unirsi ai colloqui. Museveni ha detto che «... Bashir (il presidente sudanese) in realtà ha provato a promuovere un primo dialogo fra me e Kony, ma Kony si è rifiutato di ascoltarlo» ed ha aggiunto inoltre che «Il motivo per il quale pensiamo che i colloqui di pace ci aiuteranno è che i tentativi precedenti sono sempre falliti»99. Museveni ha detto agli inviati dell'LRA che sebbene avesse perso interesse nei colloqui era stato il presidente Kiir ad esortarlo a dare un'ulteriore possibilità ad una soluzione pacifica. Infine, fonti hanno riferito che il Presidente ugandese ha, nonostante tutto,

95 Secondo i delegati dell’LRA, i militari ugandesi hanno circondato esponenti del gruppo ribelle al confine tra Sudan e Uganda, mentre questi si stavano riunendo. 96 Sembra che solo novecento su tremila ribelli hanno rispettato i termini della tregua. Tra i “latitanti” anche Joseph Kony e Vincent Otti. 97 Museveni si trovava a Juba su invito del Government of Southern Sudan (GoSS) per incontrare il Presidente Kiir, che è diventato comandante dello SPLA e nuovo presidente della sua ala politica, il Sudan People's Liberation Movement (SPLM), dopo la morte di John Garang, assumendone quindi tutte le cariche, e del suo vice Machar capo mediatore dei colloqui, lo speaker del parlamento ed il segretario generale dello SPLM che, con gli accordi di pace a Nairobi nel 2005, ha ottenuto anche la partecipazione all'esercizio del potere a Khartoum. 98 Ojul, il capo negoziatore della formazione ribelle, si trovava a Nairobi, in Kenya. 99 Infatti, la missione di peacekeeping dell'ONU non è riuscita ad aiutare il Paese a catturare Kony. Inoltre, anche gli Stati confinanti con l'Uganda sono stati d’intralcio in passato: il Governo della Repubblica Democratica del Congo, dove nel 2005 si sono rifugiati 400 ribelli ugandesi e Kinshasa non ha agevolato per nulla l'Uganda nel catturarli (Sito Internet http:// www.warnews.it).

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ringraziato i ribelli per aver partecipato ai colloqui ma li ha esortati ad una rapida conclusione del processo di pace. Nel frattempo però un altro massacro di civili si è verificato nel sud del Sudan nel quale hanno perso la vita 41 persone, facendo quindi tremare i colloqui di pace in corso a Juba. Testimoni oculari però hanno riferito che ad attaccare sono stati due ragazze e tre ragazzi soldato, dicendo che erano tongtong, soprannome sudanese per l’LRA. Vincent Otti ha dichiarato di aver dato ordini alle sue forze di procurarsi il cibo con qualsiasi mezzo in quanto i ribelli non ne avevano abbastanza, perciò, questa molto probabilmente è stata la causa dell'attacco100. A dicembre il governo ugandese e i ribelli del Lord's Resistance Army hanno raggiunto un accordo per la separazione delle proprie forze. L’esercito ugandese e ribelli si ritireranno dietro due linee cuscinetto nel Sudan meridionale101. Nonostante siano stati fatti molti buoni passi, ancora oggi lo sviluppo dei negoziati resta incerto, mentre l’emergenza sanitaria nei campi sfollati continua. Oltre un milione di dislocati continuano a rimanere in questi campi nei distretti acholi del Nord Uganda. Anche se molte migliaia hanno già fatto ritorno ai loro villaggi, la maggior parte esita ancora, perché l’insicurezza regna tuttora in troppe zone102.

100 Sito Internet http:// www.warnews.it. 101 L'accordo è arrivato a seguito di un colloquio telefonico tra il vice-comandante dell’LRA, Vincent Otti, e il presidente ugandese Museveni (Sito Internet http:// www.warnews.it). 102 Sito Internet http:// www.warnews.it.

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3 I bambini soldato

3.1 L’uso dei bambini soldato nel mondo Benché l’uso di adolescenti nei campi di battaglia sia di antica data (il termine “fanteria” deriva dal latino “infans”, fanciullo)103, è in questi anni che si è assistito a un notevole incremento del fenomeno dei bambini soldato: ragazzini di 12, 10 anni e addirittura 6 anni reclutati a forza da eserciti regolari e milizie ribelli per contribuire alle operazioni belliche104. Un bambino soldato è, perciò, un qualsiasi bambino che è parte di una forza armata o di un gruppo armato a qualsiasi titolo e tutti coloro che accompagnano questi gruppi, ad eccezione di coloro che lo fanno esclusivamente in qualità di familiari. Quindi non si fa riferimento solo a chi ha imbracciato un'arma105. Il fenomeno dei bambini soldato è esploso in Africa, in Asia e in America Latina, ma anche i Paesi del nord del mondo, come Gran Bretagna e Stati Uniti, non sembrano sottrarsi a questa vergogna. Con il passaggio dalla leva obbligatoria agli eserciti professionali e con la cronica carenza di volontari, alcuni governi “democratici” accettano il reclutamento di minorenni nelle proprie forze armate. Sono più di trecentomila i minori coinvolti nei conflitti armati, la maggior parte dei quali eseguono mansioni di fiancheggiamento come spie, messaggeri, facchini, cuochi, domestici, manovali, e sono costretti alla schiavitù sessuale. Molte decine di migliaia tra loro, invece, uccidono, torturano, muoiono nelle guerre dei grandi. Essi sono esposti ai pericoli della battaglia e delle armi, trattati brutalmente e puniti in modo estremamente severo per gli errori. Anche le bambine combattono in prima linea assieme ai ragazzi e sono particolarmente soggette allo sfruttamento sessuale da parte di un comandante o anche dell’intera truppa. Vengono assegnate come “mogli” ai comandanti o avviate alla prostituzione “militare”106. Molti bambini non sono istruiti o hanno abbandonato la scuola. Altri sono rapiti dai propri villaggi o le loro famiglie sono minacciate di morte se essi non raggiungono i ribelli. Per quanto molti Stati siano riluttanti ad ammetterlo, l'uso di bambini soldato può essere considerato come una forma di attività illegittima per la natura pericolosa del lavoro.

103 Anche se in contesti diversi dall’attuale, l’utilizzo di combattenti giovanissimi è parte della storia umana. Nella stessa Sparta l’educazione militare dei fanciulli costituiva un aspetto fondamentale della formazione dei ragazzi. Nel Medioevo durante la crociata dei fanciulli del 1212, migliaia di bambini partiti per la Terra Santa furono ridotti in schiavitù e ben pochi tornarono a casa. Nell’era moderna i piccoli sono stati utilizzati dagli eserciti di Federico il Grande, per lo più come tamburini, e di Napoleone, o come mozzi sulle navi. In tempi più recenti, la militarizzazione di cui era pervasa la società della Germania di Hitler, ha consentito fra le altre aberrazioni l’utilizzo, nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale, di ragazzini di 14-15 anni nei reparti della Volkssturm, una milizia territoriale e nell’Hitler Jügend, che servivano come carne da cannone per cercare di rallentare l’avanzata degli Alleati. Ma anche il regime di Mussolini attuò la militarizzazione dei bambini italiani attraverso l’inquadramento in organizzazioni giovanili fasciste (Balilla, Avanguardisti, ecc.), che impartivano loro un’educazione paramilitare (L. Bertozzi, I bambini soldato. Lo sfruttamento globale dell’infanzia. Il ruolo della società civile e delle istituzioni internazionali, Bologna, EMI, 2003, p. 9). 104 A. Atzori, I bambini della guerra, Roma, Comitato Italiano per l’UNICEF, 2000, p. 25. 105 Sito Internet, www.unicef.org. 106 A. Atzori, op. cit., p. 25.

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L'International Labour Organization (ILO)107 riconosce che: "Il concetto di età minima per l'ammissione all'impiego o lavoro che per sua natura o per le circostanze in cui si svolge porti un rischio per la salute, la sicurezza fisica o morale dei giovani, può essere applicata anche al coinvolgimento nei conflitti armati". L'età minima, secondo la Convenzione n. 138, corrisponde ai 18 anni. Ricerche ONU hanno mostrato come la maggior parte dei ragazzi che diventa soldato in tempo di guerra, sia soggetta allo sfruttamento lavorativo in tempo di pace. La maggioranza dei bambini soldato appartiene a queste categorie:

• ragazzi separati dalle loro famiglie (orfani, rifugiati non accompagnati, figli di single)

• provenienti da situazioni economiche o sociali svantaggiate (minoranze, ragazzi di strada, sfollati)

• ragazzi che vivono nelle zone calde del conflitto.

Chi vive in campi profughi è particolarmente a rischio di essere sfruttato da gruppi armati. Le famiglie e le comunità sono distrutte, i ragazzi sono abbandonati a se stessi e la situazione è di grande incertezza. I rifugiati sono, così, spesso alla mercé dei gruppi armati108.

I BAMBINI SOLDATO NEL MONDO

107 L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è un'agenzia specializzata dell'ONU, costituita nel 1919 e basata sul principio statutario che una pace universale e duratura può essere fondata soltanto sulla giustizia sociale. L'ILO rappresenta il contesto istituzionale che, su scala internazionale, consente di elaborare politiche e programmi internazionali finalizzati a promuovere i diritti fondamentali dell'uomo, migliorare le condizioni di vita e di lavoro e sviluppare le opportunità di occupazione. A tal fine, essa definisce standard internazionali in materia di lavoro, vigilando sulla loro applicazione attraverso un apposito sistema e organizza numerose attività internazionali di cooperazione tecnica, formazione, ricerca e editoria. L'ILO è l'unica istituzione internazionale dove politiche e programmi sono definiti dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, le "parti sociali" della vita economica, in condizioni paritarie rispetto ai rappresentanti dei governi. 108 Sito Internet http:// www.bambinisoldato.it.

Questa carta geografica indica solo le zone in cui i bambini hanno attivamente partecipato ai conflitti, non mostrando i Paesi in cui i minori vengono reclutati nell’esercito governativo o nei gruppi armati.

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3.2 I motivi dell’utilizzo dei bambini soldato In quest’ultimo periodo nello scacchiere bellico mondiale diversi sono i motivi che spingono ad utilizzare proprio i ragazzi più piccoli come combattenti. È cambiata la natura della guerra, diventata oggi prevalentemente etnica e religiosa e i conflitti, sempre più sanguinosi, richiedono di continuo nuova carne da cannone. Anche il progresso della tecnica, ha reso più facile l’impiego bellico dei bambini: oggi, con l’ampia diffusione delle armi leggere (fucili, mitra, lanciarazzi, ecc.) dotate di grande potenza di fuoco e facili da usare, anche un ragazzino di 10 anni diventa pericoloso, dal punto di vista militare, come un adulto. Inoltre, i fanciulli non disertano, non chiedono paghe e spesso per loro l’esercito rappresenta l’unico modo per potersi nutrire. Essi possono essere facilmente indottrinati e trasformati in spietate macchine belliche.

3.2.1 Mutata natura della guerra e indottrinamento dei bambini L’impiego dei bambini nelle lotte armate è aumentato perché è cambiata la natura stessa della guerra. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il teatro delle ostilità si è spostato sempre di più nei continenti extraeuropei. Si è assistito a una proliferazione degli scontri armati per ragioni etniche, religiose o sociali, mentre sono ormai eccezioni i conflitti internazionali, combattuti fra gli eserciti regolari degli Stati. Le “guerre civili” sono il sempre più frequente approdo della crisi e della frammentazione degli Stati nazionali da quando, con la caduta delle contrapposizioni ideologiche, conseguente al crollo del muro di Berlino, è venuto meno il severo controllo delle tensioni imposto dalle superpotenze in nome degli equilibri strategici fra i due blocchi. I movimenti indipendenti di matrice laica o religiosa hanno così contribuito a fare esplodere sanguinosi conflitti in quasi tutte le repubbliche ex–sovietiche dell’Asia centrale, nei Balcani e nel Corno d’Africa. Gli attacchi militari sono rivolti frequentemente ed in maniera indiscriminata contro la popolazione civile e meno contro i soldati addestrati a combattere per i quali ci può essere una possibilità di scampo, mentre per una donna o un bambino intrappolati in un’azione militare la speranza di sopravvivere è veramente scarsa. Inoltre, secondo la logica del “colpirne uno per educarne cento”, si uccide a basso rischio, in quanto il bersaglio è un civile inerme109. Nella guerra etnica il campo di battaglia è ovunque e nessuno e nessuna zona può considerarsi neutrale. I giovani vengono considerati “nemici in crescita”, poiché l’obiettivo non è soltanto la conquista di un territorio ma l’espulsione e l’annichilimento di un gruppo. Nell’ottica di colpire l’avversario alla base è compresa anche la strategia di distruggere le scuole e di eliminare gli insegnanti, la pratica di disseminare il territorio di mine e ordigni che attirano l’attenzione dei fanciulli. Ma i più piccoli coinvolti in questo tipo di guerre non sono solo obiettivi strategici, molti di essi vengono utilizzati nelle operazioni militari, dopo aver subito condizionamenti e violenze di ogni tipo. Il problema è particolarmente grave in Africa, dove nella maggior parte dei Paesi l’aspettativa di vita raggiunge al massimo i quarant’anni e il 60 % della popolazione arriva solo ai quindici anni110. 109 L. Bertozzi, op. cit., p. 11. 110 I. Ciapponi, op. cit., p. 18.

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I gruppi armati e, in alcuni casi le forze governative, usano i bambini perché spesso è più facile condizionarli a uccidere e a obbedire ciecamente. I bambini soldato vengono sottoposti alla brutale disciplina militare di guerra, che prevede punizioni fisiche per ogni mancanza e l’esecuzione sommaria per i disertori. Per privare i ragazzi di qualsiasi residua resistenza vengono utilizzati metodi quali la somministrazione di droghe e alcolici o l’ingestione di latte misto a polvere da sparo, unitamente a un pesante condizionamento psicologico fatto di minacce, indottrinamento politico-militare, distorte credenze religiose. Migliaia di fanciulli vengono così trasformati in una macchina bellica al servizio dell’odio etnico111. Molte guerre, all’interno del nuovo ordine internazionale, sono causate dalla volontà di controllare aree economicamente e politicamente strategiche. Infatti, molti dei conflitti in corso sono lotte di potere fra gruppi di interesse, generalmente governi e movimenti di guerriglia che mirano all’occupazione totale delle aree ricche di risorse. Queste guerre in cui si mischiano motivazioni economiche, politiche ed etniche, sono difficili da concludere perché nessuno Stato è così forte da riuscire a imporsi, sia perché non sono così netti e limpidi i ruoli della leadership, e sia perché gli interessi in gioco spesso oltrepassano i confini nazionali. I governi stessi hanno in molti casi convenienza a perpetuare i disordini, la pace, teoricamente impedisce o delegittima quegli abusi e quelle illegalità che invece, sotto copertura della guerra, possono essere ampiamente e impunemente sfruttati per iniziative economicamente remunerative, quali il traffico di armi, contrabbando di droga, di diamanti, di oro e di altre importanti risorse minerarie. Anche il sistema del neocapitalismo selvaggio, che ha come unico obiettivo il profitto a tutti i costi, ha reso instabile il quadro politico-economico internazionale compromettendo la pace di molti Paesi soprattutto del Terzo Mondo. La guerra continua così ad essere uno strumento ordinario di politica estera. Essa, legittimata e giustificata con diversi aggettivi, “umanitaria, “giusta”, “necessaria”, “preventiva”, è diventata non solo l’altra faccia delle politiche di dominio della globalizzazione neoliberale, ma anche il tragico risultato di questa in tante parti del mondo. Gli effetti delle politiche economiche, estere e militari dei Paesi occidentali sono devastanti in Africa, nei Balcani e in Asia: le comunità e i territori sono sconvolti dalla violenza, vi è un aumento esponenziale dei profughi, distruzione delle reti sociali e delle economie locali. Le guerre contemporanee sono particolarmente pericolose per l’infanzia poiché coinvolgono indistintamente combattenti e civili112. I circa 150 conflitti registrati negli anni compresi tra il 1946 ed il 1999, hanno coinvolto in particolar modo l’Estremo Oriente (42 guerre) e l’Africa Subsahariana (37). Seguono l’America Latina (24), il Medio Oriente (20), l’Europa (16) e l’Asia meridionale (13).

111 L’”etnia” è ogni raggruppamento umano distinto da cultura, storia, lingua e caratteri fisici comuni. L’etnicità è la concezione astratta dell’etnia, con particolare riferimento alla lingua e all’insieme dei sistemi di pensiero e organizzazione sociale comuni agli appartenenti a una stessa etnia. L’etnicismo è una delle forme, in parte deviata e suscettibile di manipolazioni, in cui si manifesta la partecipazione a sistemi che hanno soppiantato i regimi militari e sconfessato i presupposti teorici del partito unico riconoscendo la pluralità delle società. Esso non mette in discussione lo Stato, ma avvelena la lotta politica e nei casi più gravi provoca tensioni, guerre ed eccidi (Atzori A., op. cit., p. 26). 112 La percentuale di vittime civili è salita vertiginosamente dal 5% registrato nella Prima Guerra Mondiale a oltre il 90% nei conflitti degli anni Novanta, quelli della guerra tecnologica. Il tributo pagato dalla popolazione infantile nei soli conflitti armati interni, nei dieci anni successivi al 1982 e stato di 1,5 milioni di morti, 4 milioni di invalidi e 5 milioni di profughi. (I. Ciapponi, op. cit., p. 20).

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La maggior parte sono state guerre dimenticate, combattute nel Sud del mondo, ignorate dai grandi media e di cui l’opinione pubblica occidentale non conosce i tragici risvolti. Questi conflitti hanno causato oltre ventimilioni di morti, di cui due terzi civili inermi, in maggioranza donne e bambini. Le popolazioni civili sono sempre più spesso l’obiettivo privilegiato dei combattenti, intere popolazioni terrorizzate che confluiscono in esodi di massa. Migrazioni bibliche che a loro volta costituiscono elementi strutturali di grave instabilità regionale e tensioni internazionali. Si pensi agli enormi sconvolgimenti causati in tutta l’area dei Grandi Laghi dalle conseguenze del genocidio compiuto in Ruanda113. Dal 1990 sono più di 2 milioni i bambini che hanno perso la vita negli scontri armati e più di 6 milioni sono quelli che hanno riportato ferite e mutilazioni. Questo tragico bilancio non finisce di aggravarsi a causa dell’altissimo numero di mine che, distribuite in diversa concentrazione su tutti i continenti, uccidono o rendono invalidi più di 10 mila bambini ogni anno114. 3.2.2 La proliferazione delle armi leggere La proliferazione delle cosiddette “armi leggere”, quelle che possono essere maneggiate da una singola persona (pistole, fucili, mitra, lanciagranate portatili, mine anti-persona, armi più rudimentali, come le scimitarre o i machete)115, è una delle cause che ha contribuito ad accrescere il numero dei bambini soldato, arruolati negli eserciti dei “signori della guerra”. Il settore degli armamenti, sfuggendo al controllo dei singoli Stati e muovendosi spesso oltre i limiti della legalità, garantisce profitti elevati e si adegua rapidamente ai nuovi scenari geopolitici. Questo settore, negli ultimi anni, sta puntando in maniera rilevante sulle armi leggere e sull’ammodernamento degli arsenali obsoleti. Dal 1987 la spesa militare complessiva mondiale è diminuita con ritmo regolare, soprattutto a causa della riduzione delle spese per armamenti nucleari e strategici registrata nei bilanci delle superpotenze militari e alla profonda crisi economica della Russia116. Ma a tale dato non ha però corrisposto una diminuzione proporzionale nel numero e nell’intensità dei conflitti armati, perché per contendersi una regione diamantifera o per operare la “pulizia etnica” di una provincia non occorrono missili intercontinentali o bombardieri supersonici. In Africa, in Asia e nei Balcani si combatte quasi esclusivamente con le armi leggere e sono proprio queste ultime, e non i mezzi altamente tecnologici o le “bombe intelligenti”, a provocare il maggior numero di vittime nei conflitti armati117.

113 L. Bertozzi, op. cit., pp. 10-11. 114 I. Ciapponi, op. cit., p. 20. 115 Gli esperti dell’ONU definiscono “armi leggere” quelle che possono essere trasportate facilmente da una persona o da un gruppo di persone, trazione animale o con veicoli leggeri. Hanno individuato tre categorie di armi piccole e leggere: 1) Armi di piccolo calibro (revolver, pistole, fucili, carabine, pistole mitragliatrici e mitra); 2) Armi leggere (mitragliatori pesanti, lancia missili e lancia granate portatili, armi e mortai portatili antiaereo e antimissile con calibro inferiore ai 100 mm; 3) Munizioni ed esplosivi usati per le armi di piccolo calibro e leggere e mine antipersona. 116 Dal 1989 al 1998 la spesa militare degli Stati Uniti è declinata del 33%, quella della Russia è diminuita dell’80% (Atzori A., op. cit., p. 29). 117 La stima è di 150.000 morti all’anno nel mondo (Atzori A., op. cit., p. 30).

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Considerate i principali strumenti di repressione e di terrore quotidiano, le armi leggere aumentano il tasso di criminalità e le violazioni dei diritti umani, compromettendo lo sviluppo di molte società e sono causa di catastrofi umanitarie, provocando l’esacerbazione dei conflitti e rendendo sempre più difficili le soluzioni diplomatiche. Sono proprio i Paesi che hanno il maggior peso nella comunità internazionale ad avere un ruolo predominante nella vendita delle armi. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. i leader della coalizione contro il terrorismo, e Stati che hanno la maggiore responsabilità nella risoluzione delle controversie internazionali, hanno favorito la proliferazione di ogni tipo di arma. Anche l'Italia risulta tra i principali esportatori di armi piccole e leggere118. Il nostro Paese ha la più antica fabbrica di armi, la Beretta di Gardone Val Trompia (Brescia), risalente al 1600 circa, che è una delle principali aziende del settore a livello mondiale. Le armi italiane sono state utilizzate dalle forze di sicurezza sudafricane ai tempi dell’apartheid, dalle forze armate della Libia di Gheddafi. All’Iraq di Saddam Hussein sono state vendute le licenze di produzione delle pistole calibro 7,65 e 9 millimetri e all’Indonesia, che allora occupava Timor est, le licenze per diversi tipi di armi leggere. Più recentemente, nel periodo tra il 1996 e il 1998, sono state vendute armi leggere per 125.000 dollari alla Serbia di Milosevic. Tali cifre si riferiscono a dati ufficiali ISTAT per il commercio con l’estero. Inoltre, in questi ultimi anni, sono state documentate forniture di questo tipo di armi in Algeria, Serbia (fra cui i fucili a canna rigata prediletti dai cecchini), Croazia, Turchia, Burundi, Uganda, Repubblica Democratica del Congo e in numerosi Paesi “caldi” o addirittura sotto embargo da parte dell’ONU. L’Italia è stato il principale esportatore di armi leggere anche in Sierra Leone negli anni della prima guerra civile (1991-1997), per un valore di 1,6 milioni di dollari119, e solo nel 1997 sono state esportate 1.600.000 munizioni per fucili. E’ chiaro che in un contesto come quello delle Sierra Leone, in cui sono state uccise migliaia di persone, questi ordigni si trasformano in strumenti di oppressione120. Le armi piccole e leggere, alimentando le ostilità, aumentano la sofferenza ed ostacolano le mediazioni e soluzioni concordate. La regione del mondo in cui la proliferazione di armi leggere è più vasta e in continua crescita, e dove la quantità di armi in circolazione è molto superiore rispetto a quella dichiarata dai governi, è l’Africa subsahariana. Procurarsi un’arma leggera è facile, in quanto non ha un costo elevato essendo prodotta in serie121 e a basso contenuto tecnologico. Si pensi che in alcuni Paesi africani, un fucile mitragliatore può essere acquistato con 10 o 20 dollari presso qualunque mercato, o persino barattato con un animale da cortile (un pollo in Uganda, un montone in Kenya). L’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano i presidenti del Ruanda e del Burundi, che scatenò il genocidio del 1994-95, fu compiuto con lancia-missili a spalla122. Il ridimensionamento degli eserciti di molti Stati dopo la fine della Guerra Fredda e la “balcanizzazione” dell’arsenale sovietico, hanno messo a disposizione un elevato 118 È ampiamente noto che sono gli Stati Uniti i principali esportatori di strumenti di morte, con più del 50% delle vendite mondiali, seguiti dalla Gran Bretagna e, al terzo posto, dall’Italia (Bertozzi L, op. cit., p. 18). 119 F. Terreri, Fuochi d’artificio, in Nigrizia, marzo 1999. 120 L. Bertozzi, op. cit., p. 34. 121 Del celebre Kalashnikov, il mitra AK-47 di fabbricazione russa, esistono da cinquantacinque a settanta milioni di esemplari al mondo (A. Atzori, op. cit., p. 30). 122 A. Atzori, op. cit., p. 30.

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quantitativo di armi, che vengono rivendute attraverso canali clandestini. Gli Stati africani, in cui manca una produzione nazionale, ad esclusione del Sudafrica, Sudan ed Etiopia, riciclano le armi derivanti da precedenti conflitti e rese disponibili dalla smobilitazione degli eserciti. In Africa l’ampia disponibilità di armi ha contribuito e contribuisce ad aggravare l’instabilità politica, tanto più che il traffico illegale di armi si pone come uno dei maggiori ostacoli ai tentativi di pacificazione. Le armi sono un utile strumento per gestire situazioni difficili nella maggior parte degli Stati africani che hanno istituzioni democratiche deboli, e generano un ciclo di violenza in cui il governo al potere, nel nome dell’autodifesa, arma i propri eserciti per contrastare i gruppi di opposizione, reprimere gli oppositori politici e terrorizzare la popolazione civile. In molti Paesi africani le spese militari superano quelle per educazione e sanità e l’ampio ricorso all’acquisto di armi all’estero ha aumentato di gran lunga il debito. Vi è, infatti, una stretta correlazione tra Stati fortemente indebitati e Stati in situazione di conflitto, poiché le guerre richiedono ampi investimenti e alimentano la domanda di armi, ma, per far fronte a queste spese, viene tagliata la quota destinata alle spese per lo sviluppo, minando così la crescita economica. L’elevato numero di armi in circolazione è dovuto anche alla privatizzazione della sicurezza, ossia alla presenza di forze armate private al servizio degli Stati. Le armi leggere hanno terrorizzato i bambini più di carri armati, missili e mortai, durante e dopo le guerre e hanno probabilmente ucciso più giovani vite di quante ne abbiano mai protette. Un’arma leggera è compatibile con la corporatura esile di un ragazzino e ciò ha facilitato l’utilizzo dei bambini negli eserciti governativi e nelle truppe irregolari. In passato i minori venivano impiegati raramente come combattenti in prima linea, poiché era impossibile per loro competere fisicamente con un adulto, le armi erano troppo grandi e pesanti. Con l’adozione di nuove armi come l’AK-47, mitragliatrice di produzione russa, l’M-16, fucile d’assalto di produzione americana o il G-3 di fabbricazione tedesca, leggere e maneggevoli, è stato possibile il loro utilizzo anche da parte dei bambini. Queste armi necessitano di minore manutenzione rispetto a quelle vecchie, sono facili da riparare e smontare, sono durevoli e a basso costo. Un bambino, opportunamente addestrato, può imparare a smontare e rimontare rapidamente armi d’assalto di questo tipo, per poi usarle come e meglio di un adulto123. Nell’ambito delle armi leggere è da sottolineare il terribile ruolo svolto dalle mine antipersona. Esse sono dispositivi predisposti per uccidere o ferire chiunque entri in loro contatto attraverso un determinato innesco che potrebbe essere attivato da un interruttore a pressione o da un filo-trappola. Estremamente diffuse (decine di milioni di mine attive in 80 Paesi, per lo più in via di sviluppo), capaci di uccidere o mutilare anche a distanza di decenni dal loro posizionamento, continuano a mietere vittime. Ogni giorno di qualsiasi anno, nel mondo una cinquantina di persone vengono, uccise, mutilate e ferite da questi ordigni. Le vittime più frequenti sono i bambini perché escono dai sentieri, giocano ovunque, non riconoscono facilmente gli oggetti pericolosi e sono attratti da cose che non conoscono, specie da ordigni appositamente fabbricati per incuriosirli. Vi sono alcuni tipi di mine, infatti, che sono colorate e hanno la forma di giocattoli. Inoltre, in molte culture sono i bambini che devono andare a prendere

123 I. Ciapponi, op. cit., p. 25.

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l’acqua, raccogliere la legna da ardere o condurre il bestiame a pascolo, attività che li possono portare in zone a rischio124. Le mine, oltre ad essere un pericolo per l’integrità fisica, hanno conseguenze indirette anche sull’economia, rendendo inabili e incoltivabili molte zone, impossibili i trasporti, inaccessibili le strutture sociali e difficili gli aiuti umanitari. Perciò spesso le risorse destinate alla ricostruzione debbono essere investite nel processo di sminamento, aggravando ulteriormente economie già fragili e rallentando il processo di sviluppo. Ma oltre agli interventi di bonifica è necessario attuare programmi di sensibilizzazione per la popolazione, che, attraverso l’adozione di precauzioni e norme comportamentali, aiutino a ridurre il rischio di incidenti. L’Italia è stata fra i maggiori produttori di mine. Le sue aziende, Valsella, Tecnovar Italiana, Misar, anche se piccole, hanno avuto fatturati, miliardari, che si sono decuplicati in pochi anni. I principali acquirenti sono stati l’Asia e l’Africa. Tra il 1992 e il 1993 sono stati esportati grandi quantitativi di mine italiane in Sierra Leone, Ruanda e Uganda125. Fino agli anni Novanta, la mancanza di qualsiasi tipo di regolamentazione legislativa ha favorito questo irresponsabile mercato. La Campagna internazionale per la messa al bando delle mine costituita nel 1992, culminò con la ratifica nel 1997 a Ottawa della Convenzione sulla Proibizione dell’uso, dello stoccaggio, della produzione delle mine stesse. Fra i pochi Paesi che non hanno aderito vi sono alcuni importanti produttori, come Stati Uniti, Russia e Cina. L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge n. 106/1999, ma già in precedenza con la legge n. 374/1997 si è data una delle normative più avanzate nel mondo in materia126. I Paesi esportatori di mine antiuomo sono in forte calo e il mercato legale delle mine è in diminuzione, ma è in forte espansione quello illegale. Disinnescare una mina costa molto di più che fabbricarla127. L’Italia ha preparato molti specialisti sminatori impegnati a disinnescare le mine prodotte dalle stesse aziende italiane e disseminate in molti Paesi, soprattutto nel Medio Oriente. Nel maggio del 1999 è stata poi creata una rete internazionale per combattere il commercio incontrollato delle armi leggere. La necessità di introdurre controlli per far si che queste non vengano usate per gravi crimini, e l’urgenza di stabilire regole a livello internazionale ha spinto Amnesty International a unire le forze in 70 paesi del mondo. Così oltre 400 organizzazioni per i diritti umani, agenzie di sviluppo, istituti di ricerca impegnati nel controllo delle armi, gruppi religiosi, associazioni portano assistenza umanitaria, per lanciare l’Iternational Action Network on Small Arms (IANSA), cioè una rete internazionale che intende combattere il flagello provocato dalla proliferazione e dall’uso incontrollato delle armi leggere. Si può affrontare questo problema a livello globale sia facendo pressione per controlli delle esportazioni più rigidi nei Paesi produttori, sia attraverso iniziative di educazione ai diritti umani, operazioni di distruzione di armi e programmi di reintegrazione degli ex- combattenti. Nel febbraio del 2000, numerose organizzazioni in Italia hanno costituito la campagna contro le armi leggere, che fa riferimento a IANSA e ha per obiettivo quello di fermare la proliferazione e l’uso incontrollato di questo tipo di armi.

124 A. Atzori, op. cit., p. 33. 125 I. Ciapponi , op. cit., p. 26. 126 Vedi il sito della Compagna italiana contro le mine: http://www.campagnamine.org. 127 Una mina antiuomo costa meno di tre dollari. Per rimuoverla dal terreno ci vogliono dai 300 ai 1000 dollari ed un’infinità di tempo (Sito Internet http://www.analisidifesa.it).

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Dopo l’11 settembre 2001, la corsa al riarmo ha avuto un’impennata, specialmente in alcuni Paesi, gli Stati Uniti innanzitutto, ma anche l’Italia. L’Accordo quadro tra Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Svezia e Italia firmato a Farnborough il 27 luglio del 2000, nato su spinta dei rappresentanti delle industrie europee degli armamenti con il fine di facilitare il processo di integrazione e ristrutturazione del settore, è stato l’occasione per la modifica alla legge italiana 185/90 che regolava, con meccanismi di trasparenza e di controllo, la produzione e il commercio delle armi128. Ma dietro si cela una politica estera di allineamento con la politica americana, che dopo l’11 settembre ha attuato la Grand Strategy, basata sull’alleanza globale contro il terrorismo. I cambiamenti alla legge italiana 185/90 implicano una deregolamentazione dei controlli e delle verifiche delle destinazioni delle armi129. Ciò significa la possibilità di vendere le armi a Paesi in guerra o retti da governi che violano i diritti umani e maggiori possibilità di affari per gli armieri italiani130. 3.2.3 La logica del terrore e la lunga durata della guerra L’utilizzo dei bambini soldato è coerente con l’obiettivo delle guerre in corso di terrorizzare le popolazioni. Avendo paura dell’incontrollabile ferocia di questi giovanissimi combattenti, che sono privi della cognizione stessa di ciò che è bene o è male, e temendo l’eventuale rapimento e reclutamento dei propri figli, gli abitanti delle zone rurali abbandonano le loro terre agli assalitori. Far combattere bambini è un metodo a basso costo a disposizione di ribelli senza scrupoli che destabilizza le comunità, in quanto vengono sconvolti i valori tradizionali di fiducia, rispetto e protezione che lega gli adulti ai fanciulli, mentre si diffonde il concetto che qualunque bambino può diventare un pericoloso assassino. La lunga durata dei conflitti odierni, che non ha permesso ad intere generazioni di fanciulli di conoscere un solo giorno di pace, rende sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. In questo contesto i piccoli costituiscono una grande opportunità per i “signori della guerra”, che hanno necessità di gettare carne fresca al macello. Non è un caso che i ragazzini, mandati a combattere dopo un addestramento velocissimo, subiscano perdite elevate. I bambini cresciuti nella violenza, che considerano la guerra un modo di vivere permanente, soli, orfani, spaventati, stanchi e frustrati, alla fine scelgono spesso di combattere131. In questi casi molti ragazzi giovanissimi si uniscono alle milizia perché si ritrovano privi di mezzi per sopravvivere o perché vedono nell’esercito un sostituto della famiglia perduta. “Nel 1986 in Uganda l’NRA aveva fra le sue file, secondo le stime, 3.000 adolescenti, molti dei quali di età inferiore a 16 anni, tra cui anche 500 bambine. Si trattava per la maggior parte di orfani che consideravano l’esercito un sostituto dei

128 La legge italiana 185/90 dal 1990 regolava il commercio delle armi e: 1) consentiva al Parlamento un controllo sul commercio di armi che coinvolge l'Italia, sia per quantità che per tipo di armi; 2) vietava l'esportazione di armi verso nazioni in guerra; 3) vietava l'esportazione di armi verso nazioni che violano i diritti umani; 4) bloccava le "triangolazioni" di materiale bellico che hanno tristemente reso nota l'Italia prima del 1990. 129 Secondo la ratifica alla legge 185/90, gli operatori del settore non saranno più tenuti ad esibire il certificato d'uso finale che consente di individuare il destinatario ultimo delle armi. 130 I. Ciapponi , op. cit., p. 28. 131 L. Bertozzi, op. cit., pp. 37-38.

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propri genitori”132. Altri ragazzi si arruolano poiché hanno il desiderio di vendicare la morte dei parenti più cari uccisi nei combattimenti, o vogliono contribuire alla lotta per una società più giusta133. Come è stato già riportato nel capitolo 2 paragrafo 2.3 le incursioni dei guerriglieri dell’LRA, che hanno seminato terrore nel Nord Uganda, hanno causato tantissimi sfollati, con gravi ripercussioni sull’agricoltura ed sulla disponibilità di cibo. La maggior parte della popolazione è fuggita in luoghi considerati più sicuri ed ha abbandonato i campi, per non essere sottoposta alle razzie, al rapimento dei bambini ed alle uccisioni della guerriglia. L’esercito di Kampala ha ordinato alla popolazione civile di rifugiarsi nei “campi protetti”, dove in realtà i soldati governativi non hanno garantito la minima protezione a chi vi ha abitato. I ribelli dell’LRA hanno minacciato attraverso la diffusione di messaggi politici e attaccato le centinaia di migliaia di persone che si trovano in questi accampamenti. Le campagne di reclutamento per bambini non esistono. In molti Paesi vengono rapiti da movimenti guerriglieri, e anche gli eserciti regolari hanno utilizzato pratiche analoghe. È il caso dell’Uganda, dove l’LRA è responsabile del rapimento di alcune migliaia di bambini134. 3.2.4 L’ombra del terrorismo internazionale Sullo sfruttamento dei bambini sembra che, negli ultimi anni, si sia allungata anche l’ombra del terrorismo internazionale e in particolare di Al Qaeda135. Infatti, da alcuni rapporti datati 1998 risulterebbe che Bin Laden “compra” bambini in Uganda da Joseph Kony, per farli lavorare come schiavi nelle sue piantagioni di marijuana in Sudan, in Afghanistan e in altri Paesi del Medio Oriente. Qualche anno fa al quotidiano governativo ugandese “New Vision” l’allora comandante dell’esercito del nord dell’Uganda, Katuma Wamala, ha dichiarato: «I bambini venduti ad Osama Bin Laden sono sottoposti ad una selezione basata sulle loro capacità fisiche: quelli che superano l’esame ricevono un particolare addestramento, prima di essere mandati nelle piantagioni». Secondo la testimonianza dell’alto ufficiale, il leader di Al Qaeda per ogni bambino darebbe come contropartita ai ribelli ugandesi un kalashnikov con le relative munizioni. Quanti bambini siano finiti nelle piantagioni di droga di Bin Laden non è dato sapere, e neanche che fine abbiano fatto. Nel maggio del 2005 è arrivata una conferma indiretta del fatto che Al Qaeda abbia interessi in Africa: uno dei procuratori del Tribunale Speciale della Sierra Leone ha rivelato che l’organizzazione terroristica di Bin Laden ha delle basi in Guinea e che gode di appoggi da parte dell’ex dittatore liberiano Charles Taylor136.

132 C. P. Dodge, Child Soldiers of Uganda and Mozambique, in C.P. Dodge, M. Raundalen (a cura di), Reaching Children in War: Sudan, Uganda and Mozambique, Sigma Forlag, Uppsala 1991. 133 A. Atzori, op. cit., p. 26. 134 L. Bertozzi, op.cit., pp. 39-40. 135 Creata nel 1988 come base dati in cui erano inseriti tutti i seguaci di Osama Bin Laden che erano passati per i suoi campi: una struttura organizzata costituita intorno ad un archivio elettronico che una decina di anni dopo diventò celebre quando le autorità americane la descrissero come una rete terroristica ultrasegreta. 136 G. Carrisi, Kalami va alla guerra, I bambini-soldato, Milano, Editrice Ancora, 2006, p. 63.

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4 Il dramma del Nord Uganda: bambini soldato e altri effetti della guerra

I bambini del Nord Uganda sono le vittime di terribili violazioni dei diritti umani, una gravità che è difficile immaginare: le azioni del Lord’s Resistance Army hanno violato i principi base della consueta legge internazionale e della moralità umana. L’idea dell’infanzia come un periodo protetto di crescita sana è stata sistematicamente smentita nel Nord dell’Uganda. Per i bambini che vi abitano i 20 anni di conflitto hanno rappresentato un costante regno di terrore perpetuato dall’LRA. Migliaia di bambini sono stati rapiti dal gruppo ribelle di Kony, costretti a combattere e ridotti in servitù. Essi sono un bottino di guerra e vengono sfruttati con un cinismo sfrenato che travalica la soglia della follia. Senza più famiglia, senza genitori da cui tornare, i piccoli sono sottoposti a un regime d’obbedienza totale nel quale vengono costretti a imprese talvolta disperate, come piazzare mine o attraversare campi minati, eseguire azioni suicide o infiltrarsi nei villaggi che da un momento all’altro dovrebbero essere attaccati. Per evitare questa terribile sorte tantissimi bambini fuggono dalle loro case e dai villaggi per cercare rifugio nelle città dove possono evitare le aggressioni e il rapimento137. I bambini vengono reclutati come soldati anche dal governo ugandese. Dopo l’addestramento combattono con l’UPDF contro l’LRA, anche in Sudan. I ragazzi che sono fuggiti e si sono salvati dall’LRA vengono ugualmente reclutati dall’esercito ugandese e sottoposti a pesanti interrogatori. Ma anche i bambini che non sono stati rapiti dai ribelli e migliaia di civili soffrono a causa degli effetti del conflitto.

137 UNICEF, La condizione dell’infanzia nel mondo 2005. Infanzia a rischio, 2004.

“Mentre a casa nostra, nella confortevole culla dell’Occidente,

i bambini si divertono a fare la guerra con armi giocattolo,

a setto-otto anni se non di meno, in Uganda

i bambini si trovano in mano un mitra vero, e la guerra la fanno sul serio”.

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4.1 Il rapimento e maltrattamento dei bambini da parte dell’LRA per obbligarli a combattere 4.1.1 La cattura e i primi giorni dopo il sequestro Sin dall’inizio del conflitto nel 1986, l’LRA si è servito del rapimento di bambini per rinforzare le sue truppe. Sono 25.000 i minori sequestrati138. Con il ritorno del gruppo ribelle nel Nord Uganda, dopo l’operazione “Iron Fist”, lanciata agli inizi del 2002 nel Sud del Sudan, il numero dei rapimenti è aumentato drammaticamente, con una stima dai 10.000 ai 12.000 rapiti a partire da quell’anno139. Nonostante la matrice acholi del movimento fondato da Kony, negli ultimi anni i ribelli hanno arruolato forzatamente anche bambini provenienti da altre etnie, soprattutto i lango. Il fenomeno dei rapimenti ha anche coinvolto i kuman e i teso, più a sud, e i madi a nord-ovest, principalmente nella zona di Adjumani, sebbene queste etnie, numericamente, siano minori all’interno dell’LRA. I fanciulli vengono presi dalle loro case, scuole, e dalle strade140. Impedire questi sequestri significa prima di tutto porre fine all’esasperata violenza che avvolge il bambino non appena viene rapito. La strategia dell’LRA è proprio quella della pratica inesorabile della violenza fisica e psicologica, sia per garantire la disciplina nei campi dove si trovano i ragazzi rapiti, sia nei confronti dei civili. I ribelli, per la maggior parte bambini combattenti, di solito attaccano all’imbrunire, circondando piccoli insediamenti civili e campi profughi per rubare cibo e rapire bambini e adulti per ingrossare le loro file. I bambini sono particolarmente vulnerabili a questi attacchi violenti e spesso sono costretti ad uccidere i loro genitori o altri bambini. Quelli rapiti dall’esercito ribelle vengono usati come soldati e portatori e le bambine anche come schiave sessuali. Temendo i rapimenti da parte dell’LRA, ogni notte migliaia di bambini dei distretti di Gulu, Kitgum, e Pader, lasciano le loro case e i loro villaggi al tramonto per trascorrere la notte nei centri urbani o nei campi profughi dove cercano rifugio. Questi bambini noti come i “pendolari della notte”, vanno a dormire nei ricoveri provvisori, nelle chiese vuote, nel perimetro degli ospedali, sulle verande, nelle stazioni degli autobus o dietro portoni polverosi. Vengono chiamati “oring ayela”, quelli che fuggono alla guerra141. Alcuni di questi sono profughi due volte, prima lasciando le proprie case a causa del conflitto e poi a causa delle incursioni dei ribelli fuggendo anche dai luoghi in cui avevano trovato rifugio. Il pendolarismo notturno c’è anche nei campi degli sfollati

138 Sito Internet http://www.unicef.org 139 Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003. 140 G. Albanese, op. cit., p. 26. 141 Sito internet http://www.mostrabambinisoldato.org.

Alcuni “pendolari della notte”, bambini che ogni sera lasciano le proprie case per timore di essere rapiti dal Lord’s Resistance Army

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all’interno di un paese dove i bambini, i cui ricoveri sono situati alla periferia, vanno a dormire vicino agli edifici dei servizi pubblici. La mancanza di misure di sicurezza vanifica la sorveglianza notturna dei campi142. Gli adulti solitamente rimangono nelle loro case a proteggere la proprietà. Nella maggior parte dei casi quando vengono rapiti dall’LRA sono generalmente trattenuti per brevi periodi soprattutto per aiutare a trasportare beni saccheggiati e poi vengono rilasciati. Invece per i minori che vengono rapiti la cattività può durare per anni.

L’età media dei sequestrati è intorno ai 9-15 anni. I maschi vengono scelti anche a seconda dell’età, poiché più sono piccoli più sono facili da controllare, e della loro robustezza, in quanto dovranno maneggiare armi e trasportare carichi pesanti. Le ragazze vengono selezionate in base alla bellezza e all’età perché più sono giovani minore è probabilità che siano infette dal virus dell’HIV. Una ragazza rapita racconta che i ribelli entrarono nella sua casa dove stava dormendo. Svegliarono lei

e le due sorelle, saccheggiarono la casa e le portarono via. I ribelli entrarono in un’altra casa e rapirono quattro ragazzi e poi procedettero verso la casa dello zio, da dove anche suo padre fu sequestrato. L’LRA prima legò i rapiti attorno alla vita e successivamente li legò l’uno all’altro. Avevano anche il bottino da portare sulle loro teste. Poi dice «Rapirono 32 persone dal villaggio, sia bambini che adulti. Il giorno seguente divisero i prigionieri e alle persone più grandi, incluso mio padre, dissero di sdraiarsi nel campo, dove iniziarono a picchiarli con un machete. Li mutilarono brutalmente e li lasciarono là»143. Dopo il rapimento inizia la lunga marcia nella boscaglia legati in fila con corde, per raggiungere i campi. I bambini vengono divisi in piccoli gruppi e sono costretti a camminare per giorni, trasportando le armi e la refurtiva, spesso senza acqua né cibo. Parecchi di essi sono morti per strada a causa delle malattie, della fame e dello sfinimento. Uno o due giorni dopo il loro sequestro, tutti i bambini per entrare a far parte del movimento vengono iniziati. Prima, per rafforzarli e indurirli per essere pronti alla vita militare, vengono picchiati e non devono piangere altrimenti saranno uccisi. Successivamente ricevono l’unzione, in lingua acholi “wiro ki moo”, somministrata sul corpo della nuova recluta secondo un rituale voluto e ideato dallo stesso Kony. Per la cerimonia si utilizza l’olio ricavato dall’albero del burro denominato in acholi “yaa” 144. Un ribelle veterano spalma l’unguento facendo una croce sulla fronte, sul petto, sulle spalle, sulla schiena, sul palmo delle mano e sui piedi della recluta. Ciò serve a proteggere il giovane combattente dal fuoco delle pallottole e a vincolarlo al movimento attraverso un legame ritenuto indissolubile. Ai bambini viene detto che l’olio

142 UNICEF, La condizione dell’infanzia nel mondo 2005, 2004. 143 Le testimonianze contenute in questo capitolo sono tratte dal rapporto di Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army pubblicato nel 2003 e dal rapporto di Amnesty International, Breaking God’s commands: the destruction of childhoon by the Lord’s Resistance Army, pubblicato nel 1997. 144 Il nome scientifico è Butyrospermum partii, var. niloticum, Sapotaceae. Produce un frutto simile alla noce, all’esterno ha una polpa di sapore dolciastro e all’interno racchiude una ghianda da cui di ricava l’olio.

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renderebbe più facile trovarli qualora tentassero di scappare145. Un bambino fuggito racconta che quando fu unto con l’olio, gli dissero «serve per non farvi scappare, se ci tentate quest’olio ci aiuterà a trovarvi». Inoltre, dicono ai bambini che l’olio è il potere dello Spirito Santo e chi ubbidirà alle sue regole non morirà negli scontri armati, perché saranno uccisi soltanto coloro che lo avranno offeso. Ogni bambino subisce un addestramento militare in campi provvisori nel Nord Uganda e nelle basi nel Sud del Sudan. I ribelli obbligano i ragazzi a compiere atti particolarmente crudeli, come uccidere un loro coetaneo, spesso anche a mani nude. I bambini che riescono a scappare raccontano che, oltre alle percosse durante l’iniziazione, i comandanti e i soldati dell’LRA li picchiano e li bastonano, spesso severamente, per qualsiasi disobbedienza commessa, se pur minima. Vengono picchiati anche per farli camminare più velocemente, inclusi quelli feriti nel combattimento. Quelli che non riescono a tenere il passo e si lamentano, perché stanchi o feriti, vengono picchiati brutalmente, e, qualche volta, quelli che non possono più continuare la marcia vengono uccisi. I bambini sono poi costretti a essere testimoni o a partecipare direttamente al massacro dei loro coetanei, solitamente quelli che hanno tentato di fuggire. Un ragazzo del distretto di Gulu racconta com’è stato costretto a uccidere un bambino che conosceva: «Arrestarono un ragazzo di nome Oyet che aveva cercato di dare l’allarme. Lo legarono e lo pugnalarono alla schiena. Quella notte il nuovo gruppo di bambini catturati fu distribuito ai vari comandanti. Io venni assegnato al comandante “O”. Alle due di mattina cominciarono a battere le mani per farci svegliare: misero tre lampade intorno ad una stuoia sul pavimento e portarono dentro Oyet. Il comandante ci disse di colpirlo tre volte e poi ucciderlo. Tutte le nuove reclute circondavano la stuoia. A quel punto il comandante chiamò un ragazzo e questi cominciò a lamentarsi perché non voleva essere scelto. Il comandante si arrabbiò e si fece dare un “paga”, un machete pesante a lama larga. Le sue guardie cominciarono a colpire il ragazzo finché cominciò a sputare sangue e non gridò più. Dopo di che fu rimandato a sedere al suo posto. Allora il comandante scelse un altro ragazzo a cui diede un’ascia, mentre fu detto a Oyet di stendersi per terra. Ordinarono al ragazzo di colpire Oyet una volta , quindi, di passare l’ascia ad un altro compagno che colpì Oyet una seconda volta. A questo punto diedero a me l’ascia e io lo colpii per la terza volta. So che fu il mio colpo a farlo morire». Un altro ragazzo racconta: «Giusto pochi giorni prima di un assalto aereo dell’UPDF, ci fu un gruppo di bambini che scappò. Due ragazze di 14 anni furono catturate e portate nel gruppo di ragazzi rapiti e ci fu detto che dovevamo ucciderle con delle mazze. Ognuno dei nuovi reclutati fu costretto a partecipare. Ci avvertirono che se avessimo tentato di fuggire saremo stati uccisi nello stesso modo». La pratica di obbligare i bambini a uccidere collettivamente altri bambini crea sensi di colpa e paure, poiché la stessa fine toccherà a loro se proveranno a scappare. Inoltre, sono costretti a picchiare e qualche volta a uccidere civili inermi durante le operazioni di saccheggio, a partecipare ai rapimenti di altri coetanei, e a bruciare case nella loro regione, contro la loro stessa gente. 145 Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003.

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4.1.2 Vivere in cattività Secondo le testimonianze dei bambini all’interno dell’LRA vi è una struttura gerarchica al cui vertice si trova, con il ruolo di generale, Kony, ed è fondata su una orrenda imitazione delle esperienze “familiari” ai bambini. Il nucleo dell’organizzazione interna è infatti quello che i bambini descrivono come “famiglia”, resa possibile dalle ragazze rapite che sono costrette a “sposare” i ribelli. Pare che l’LRA riconosca quattro categorie di membri. I bambini al di sotto di tredici anni sono riconosciuti come “fratelli”, i bambini rapiti da poco, che non hanno ancora ricevuto l’addestramento militare, si chiamano “reclute”, quelli che invece hanno ricevuto l’addestramento sono i “soldati”, infine vi sono in vetta i “comandanti”, noti anche come “insegnanti”. I bambini soldato che mostrano entusiasmo per l’arte militare diventano presto comandanti. Ogni bambino rapito è legato a una “famiglia” guidata da un comandante. Gli uomini alla guida di ciascuna famiglia hanno dei poteri tali da possedere i bambini loro affidati come “beni mobili”. Essi impongono duri lavori, punizioni fisiche e uccidere146. In questi casi la condizione dei bambini è coerente con la definizione internazionale di schiavitù, fondata essenzialmente sulla violenza con la quale si ottiene obbedienza147. I bambini sono obbligati ad effettuare una molteplicità di compiti domestici e non, in condizioni disumane e in continuo pericolo di vita. Con l’operazione Iron Fist e il ritorno dell’LRA in Nord Uganda, nel 2002, la vita dei bambini è cambiata in funzione dello stato di alta mobilità dei ribelli. Ogni notte si spostano in un luogo diverso. Durante il giorno vengono divisi in piccoli gruppi per poi ritrovarsi tutti insieme nella notte. Tutto ciò è indispensabile ai ribelli per far fronte agli attacchi dell’esercito governativo. Le truppe dell’LRA così cercano di evitare l’UPDF, essendo sempre in movimento e coprendo grandi distanze per raggiungere nuovi obiettivi. Per i minori rapiti e gli adulti costretti ad aiutarli è difficile trasportare continuamente per lunghe distanze i pesanti carichi di merci, munizioni, attrezzatura militare, acqua e cibo, che molto spesso scarseggiano. Un ragazzo di quindici anni, fuggito dopo sette mesi trascorsi nelle mani dell’LRA, racconta: «Ci spostavamo continuamente, spesso per giornate intere senza fermarci per mangiare. Dovevamo trasportare carichi pesanti. Se non l’avessimo fatto ci avrebbero ucciso. Ho visto uccidere tante persone. Una volta successe a un uomo, al quale avevano dato così tante cose da portare che non riusciva più a muoversi. Allora lo uccisero e diedero lo stesso carico a un’altra persona». Le bambine e le ragazze vengono sfruttate sessualmente e sono obbligate a compiere tutti i lavori domestici che nella società rurale acholi spettano alla donna, come cucinare, pulire, procacciare acqua e cibo. La preparazione dei pasti deve essere eseguita velocemente affinché il fumo della cottura non sia visto. L’oppressione degli uomini sulle donne, la poligamia e la sottomissione sessuale sono pratiche esistenti nella società ugandese che, però, all’interno dell’LRA vengono spinte all’estremo, violando tutti i diritti delle donne.

146 I. Ciapponi, op. cit., pp. 80-81. 147 La schiavitù è la perdita della libertà individuale, la costrizione a lavorare senza possibilità di scelta, senza tutela e riconoscimento del proprio status, senza essere pagati, in condizioni disumane e sottoposti a violenza e crudeltà. Gli individui vengono resi schiavi con la brutalità e mantenuti tali contro la loro volontà a fini di sfruttamento (K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana dell’economia globale, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 23-25).

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L’uso di concedere delle donne ai soldati costituisce una sorta di premio e di incentivo. Infatti, l’assegnazione delle donne è una dimostrazione di status, possedere una moglie è simbolo di prestigio e rispecchia il proprio impegno, poiché più elevata è la posizione all’interno della gerarchia dell’LRA, maggiore è il numero di ragazze che un ribelle può avere. Una ragazza racconta: «Il comandante attribuiva a ognuna di noi un marito, tranne a quelle che avevano 13 anni. Non vi era nessuna cerimonia di matrimonio, ma se ti rifiutavi venivi uccisa». La maggior parte delle giovani vittime intervistate si definisce “aiutante”, non “moglie”, proprio per manifestare il rifiuto a riconoscere a loro stesse e agli altri le relazioni sessuali che hanno forzatamente dovuto subire. La schiavitù sessuale è imposta a tutte le ragazze rapite eccetto alle bambine che non hanno ancora raggiunto la pubertà. Dagli esami medici effettuati sulle ragazze che sono riuscite a fuggire si vede che quasi il 100% ha contratto la sifilide e altre malattie a trasmissione sessuale148. L’instabilità e i continui spostamenti si riflettono anche sui cambiamenti delle relazioni. Entro un anno, ogni ragazza ha cambiato parecchi “mariti”. Solo le donne che hanno avuto già figli sembrano godere di una situazione migliore, molte di esse usufruiscono di alcuni privilegi, come lavorare poche ore, ricevere più cibo e soprattutto non sono obbligate a partecipare alle sevizie o ai combattimenti. Successivamente all’operazione Iron Fist, l’LRA ha liberato più di cento ragazze madri con i loro figli, molto probabilmente perché i loro piccoli rappresentavano un ostacolo. 4.1.3 La fuga: la rischiosa via di salvezza Nonostante il rischio di morte sia molto alto se vengono ricatturati, molti bambini tentano di fuggire dall’LRA. Chi scappa mette in pericolo la vita dei suoi compagni, che vengono puniti per la loro presunta complicità, e quella dei propri parenti, perché i ribelli si vendicano con rappresaglie nel villaggio di appartenenza del bambino. Per paura di queste violenze molti villaggi non accolgono i fuggitivi. I bambini che riescono a scappare e a ritornare nei propri villaggi rischiano di essere ritrovati e nuovamente rapiti. Un ragazzo fuggito, che si è diretto verso l’abitazione di suo zio racconta: «Seppi più tardi che a causa della mia fuga due ragazzi della mia famiglia furono catturati e picchiati. Poi i ribelli raggiunsero l’abitazione dei miei genitori. Tutto ciò mi fu raccontato più tardi. Quando i ribelli arrivarono a casa mia trovarono quattro donne e non sapendo quale fosse mia madre, presero un uomo e lo picchiarono finché non si decise ad indicarla. Iniziarono a picchiare mia madre finché non disse dov’era mio fratello. Quando lo trovarono, picchiarono entrambi finché non li uccisero. Continuarono a cercarmi. Minacciarono di continuare a uccidere persone finché non mi fossi consegnato. Incendiarono la mia casa. Il tutto mi fu raccontato da un ragazzo che viveva vicino alla mia famiglia; mi disse di vergognarmi per tutto quello che avevo causato, che era colpa mia se mia madre e mio fratello erano morti». Il ragazzo, dopo qualche mese dalla fuga, ha incontrato nel campo di rieducazione di Gulu un altro ragazzo che gli ha confessato in lacrime di avere ucciso sua madre. Il ragazzo lo ha perdonato: sapeva che cosa vuol dire essere costretti a uccidere.

148 I. Ciapponi, op. cit., p. 84.

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La libertà dei bambini dall’LRA può essere ottenuta anche in altri modi, arrendendosi all’esercito governativo durante gli scontri per farsi catturare e quindi liberare, o riuscendo a sopravvivere quando vengono abbandonati dagli olum perché malati o feriti. A partire dal 2002 è aumentato il numero dei bambini che si sono liberati dall’LRA a causa della crescita esponenziale dei rapimenti e dell’aumento dell’attività ribelle in Uganda. Per i bambini è più facile fuggire e ritrovare la via di casa quando si trovano in un ambiente geografico più familiare. Possono trovare aiuto molto prima, percorrendo distanze più brevi. Nonostante in Uganda ci sia in atto un processo di pace, molti bambini sono ancora in mano ai ribelli.

4.2 Il reclutamento dei bambini da parte dell’esercito ugandese 4.2.1 Il reclutamento dei bambini nel Local Defence Units e il loro uso da parte dell’UPDF I bambini vengono reclutati come soldati anche dall’esercito ugandese. Ragazzi di dodici anni vengono attirati con promesse di denaro ad unirsi alla Local Defense Units (LDUs) chiamata anche “Home Guards”, che ha il compito di provvedere alla sicurezza dei villaggi locali o campi. Dopo l’addestramento, i ragazzi vengono usati per combattere a fianco dell’UPDF contro l’LRA, in alcuni casi anche in Sudan. Lo stipendio di un soldato dell’LDUs è di 40.000 scellini ugandesi (Ush) al mese (23 $), mentre un soldato dell’esercito regolare UPDF riceve tra i 90.000 e 150.000 Ush (tra i 51$ e 86$ rispettivamente)149. Per molti ragazzi provenienti da famiglie impoverite dalla guerra e senza una fonte di guadagno, la promessa di un salario è sufficientemente incentivante a unirsi all’LDUs. Nonostante l’Home Guards è sottoposta all’autorità militare dell’UPDF, i salari per l’LDUs vengono pagati attraverso il Ministero degli Interni, mentre quelli per l’UPDF provengono dal Ministero della Difesa. Secondo i rapporti ricevuti dall’Human Rights Watch, molti stipendi dei soldati dell’LDUs vengono pagati in ritardo o non a tutti. Secondo l’Ufficiale delle pubbliche relazioni per la Quarta Divisione dell’esercito, Lt. Paddy Ankunda, i candidati per l’LDUs devono avere minimo diciotto anni, aver completato la loro istruzione al livello S4 o sopra (quattro anni di educazione secondaria), essere in buona salute, ed essere raccomandati dal loro Consigliere Locale (LCI)150. Ha affermato che la responsabilità del processo di reclutamento è dell’LCIIIs, i leader della subcontea, e che la responsabilità dell’età è compito dei leader locali che presumibilmente conoscono i candidati e le loro famiglie151. I consiglieri locali hanno messo in dubbio la candidatura LDU sostenendo che esiste sia un processo di reclutamento ufficiale, sia uno non ufficiale. Il reclutamento ufficiale è

149 Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003. 150 I Consiglieri locali sono gruppi eletti che iniziano a livello di villaggio (LCI) e avanzano attraverso la parrocchia (LCII), la sub-contea (LCIII), la contea (LCIV), e il distretto (LCV). 151 Intervista del 5 febbraio 2003 a Gulu di Human Rights Watch a Lt. Paddy Ankunda, ufficiale delle pubbliche relazioni (Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003).

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condotto secondo quanto descritto sopra da Lt. Ankunda. Il reclutamento non ufficiale trapassa i consiglieri locali, con gli uomini e i minorenni presentati direttamente ai posti militari. La verifica dell’età e dell’istruzione come le lettere di raccomandazione non vengono né presentate né domandate. Un consigliere locale responsabile di una zona appena fuori dalla città di Gulu si accorse di questo reclutamento non ufficiale quando i genitori dei ragazzi andarono da lui e lo rimproverarono perché credevano che avesse raccomandato i loro figli a servire. Il più giovane reclutato dal suo municipio nel 2002 aveva 12 anni. Quando questo consigliere locale si rivolgeva alla caserma in diverse occasioni per protestare gli veniva detto che i ragazzi non erano là o che stavano combattendo per la difesa del loro Paese. Il leader di una zona fuori Gulu disse che i ragazzi si erano rivolti direttamente alle caserme per il reclutamento152. Alcuni rappresentanti della Chiesa dell’Uganda hanno fornito a Human Right Watch dei dettagli raccontati da ventidue ragazzi e giovani uomini dell’età compresa tra i quindici e i diciotto anni, che sono stati reclutati nell’LDUs e successivamente sono scappati dall’UPDF153. Il reclutamento avvenne nel distretto di Nebbi a marzo e aprile del 2002. Alcuni dei reclutati avevano risposto agli annunci alla radio riguardanti il reclutamento e gli fu promesso che dopo l’addestramento sarebbero potuti tornare nelle zone dove abitavano. Altri avevano sentito che l’UPDF stava offrendo borse di studio per collegi secondari. Molti gruppi vennero caricati in autocarri con sopra altri trecento ragazzi e vennero portati al quartiere generale della Quarta Divisione a Gulu, dove tutta la loro documentazione, incluse carte d’identità e certificati di nascita, venne bruciata. I reclutati vennero portati nei campi di addestramento UPDF chiamati “waligo” e alloggiati nelle caserme di Ngomoromo nella contea di Lamwo nel distretto di Kitgum. I ragazzi dissero che l’addestramento militare durò un mese e che durante questo periodo molti apprendisti morirono a causa delle malattie, della mancanza di cibo e per altre avversità. Essi erano molto deboli e commettevano sempre più errori e le punizioni erano sempre più frequenti. In alcuni casi, i reclutati che tentavano di scappare venivano uccisi. Ai ragazzi furono date uniformi militari ma non documenti, numero di immatricolazione o stipendio. Diciotto dei ventidue ragazzi che ritornarono erano scappati dai campi di addestramento in Uganda. I rimanenti quattro vennero mandati in Sudan con altri ragazzi e giovani uomini ad assistere durante l’Operazione Iron Fist. Non vennero usati come combattenti ma come messaggeri e facchini. Successivamente riuscirono a scappare dal Sudan nel giugno e luglio del 2002. I leader della Chiesa hanno creduto che il reclutamento dei bambini nel 2002 fosse legato all’inizio dell’Operazione Iron Fist e che l’ampio numero di reclutamenti, come quelli a Nebbi, sia finito in parte a causa delle proteste della Chiesa. Comunque altri rapporti indicano che un piccolo numero di reclutamenti di bambini nell’LDUs sia continuato. Un consigliere locale rappresentante di una zona vicino a Gulu disse a Human Rights Watch che nel mese di dicembre del 2002 molti ragazzi risposero agli annunci alla radio per nuove reclute per l’LDUs. I giovani furono attratti dalle promesse salariali, il reclutamento rappresentava “un’uscita dalla frustrazione” per la loro situazione, e

152 Interviste di Human Right Watch, Gulu, 5 e 9 febbraio 2003 (Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003). 153 Intervista del 6 febbraio 2003 di Human Rights Watch ai rappresentanti della Chiesa dell’Uganda. Questi ultimi intervistarono direttamente i reclutati nel mese di giugno e luglio del 2002 (Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003).

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spesso essi si unirono senza il permesso dei loro genitori. Furono addestrati nelle postazioni militari a Binya o a Acet, entrambi nella strada di Omoro, distretto di Gulu. A dicembre erano stati reclutati cinquanta ragazzi. Il consigliere fornì anche dettagli specifici su sette ragazzi tra l’età di 12 e 16 anni delle contee di Omoro, Nwoyia e Aswa, i cui genitori dissero che erano stati reclutati nell’LDUs con la consapevolezza delle autorità locali154. Il consigliere affermò che alcuni genitori provarono a riportare indietro i loro bambini attraverso LCIs e LCIIIs, ma gli fu detto dai soldati che i loro figli sarebbero stati in addestramento per due settimane e più e non potevano essere rilasciati. Circa 10 ragazzi erano fuggiti dall’LDUs dopo l’arruolamento ma erano stati ritrovati e ripresi dai soldati. Alcune famiglie dissero al consigliere che i loro figli erano stati uccisi dall’LRA durante le battaglie155. 4.2.2 Reclutamento dei bambini precedentemente rapiti dall’LRA La politica ufficiale del governo verso i bambini soldato catturati o fuggiti dall’LRA, è quella di lasciarli il minor tempo possibile presso i distaccamenti a cui si sono consegnati. Ufficialmente rimangono solo per un breve periodo nelle caserme. Quelli con più di diciotto anni vengono sottoposti a un severo interrogatorio e in qualche caso portati davanti alla corte giudiziaria militare. I più piccoli invece vengono portati in appositi centri di recupero. Spesso ai minori, però, viene chiesto di unirsi all’esercito governativo; altri bambini, invece, vengono utilizzati nelle operazioni militari come guide e informatori circa le attività dell’LRA, la sua struttura e le sue recenti manovre. Pare che alcuni bambini che rimangono nell’esercito subiscano maltrattamenti e aggressioni dagli stessi soldati governativi. Queste accuse sono sempre state negate dall’UPDF, ma è ovvio che la priorità dell’esercito governativo è sempre stata quella di localizzare le armi, mentre quella dei bambini fuggiti è sempre stato il cibo. Alla maggior parte dei ragazzi, intervistati da Human Rights Watch per il rapporto del 2003, nei ditretti di Gulu, KItgum e Pader veniva chiesto dai soldati di arruolarsi nell’esercito governativo, pur sapendo la loro età e che il reclutamento di minori viola la legge ugandese e internazionale. Il più giovane aveva tredici anni. I ragazzi, alcuni dei quali avevano passato anni con l’LRA subendo privazioni, furono tentati con promesse di rispetto, denaro, nuove uniformi e una vita migliore. Nessuno dei ragazzi intervistati 154 Intervista del 5 febbraio 2003 di Human Rigths Watch a un consigliere locale (LCI) a Gulu (Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003). 155 Intervista del 5 febbraio 2003 di Human Rigths Watch a un consigliere locale (LCI) a Gulu (Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003).

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nei centri di riabilitazione acconsentì ad unirsi, ma fornirono dettagli credibili su altri che avevano aderito all’UPDF. Un distaccamento militare dove questo tipo di reclutamento avveniva spesso era l’Achol-Pii nel distretto di Pader. Un sedicenne che passò nove giorni, nel mese di gennaio, nelle caserma di Achol-Pii racconta: «I soldati mi attirarono con l’inganno per aderire all’esercito dell’Uganda e mi dissero cose come ‘ti tratteremo bene, ti daremo soldi e una nuova uniforme. Perché sprecare il tuo tempo andando a casa e non fare niente?’ A un certo punto i soldati mi si avvicinarono con una nuova uniforme stirata e 80.000 Ush (45$). Mi dissero che avrei avuto quei soldi e gli abiti subito, e anche più in là se acconsentivo ad unirmi a loro»156. Un altro ragazzo passò una settimana agli inizi di dicembre all’Achol-Pii: «Quando arrivai nella caserma, c’erano altri 24 fuggitivi, erano quasi tutti ragazzi sotto i 17 anni. Ci fu domandato se ci volevamo unire all’UPDF. Cinque di noi accettarono, ma io rifiutai. Il più giovane aveva 15 anni e si chiamava Michael. I soldati ci tentarono e schernirono, insultandoci per essere stati in un esercito come l’LRA che fuggiva durante i combattimenti. ‘Essere un uomo reale, combattere con un esercito reale ora come l’UPDF. Tu avrai denaro per il tuo lavoro, una pistola e un’uniforme’»157. I ragazzi che ritornano dall’LRA sono spesso esperti combattenti, ben informati circa le attività dell’LRA e sono comprensibilmente preziosi per l’UPDF negli scontri contro i ribelli. Essi sono anche malnutriti, abusati e spesso arrivano con solo gli abiti che indossano. In uno stato fisicamente e psicologicamente debole, possono facilmente cedere alle tentazioni dei soldati governativi, a promesse di denaro e a una nuova vita. Per l’esercito è molto difficile distinguere tra i veri ribelli e i bambini che sono stati rapiti. Secondo una testimonianza del tenente Shaban, militare dell’esercito governativo, quelli che sono stati rapiti da poco tempo non sono armati e non hanno intenzione di combattere. Nei combattimenti aerei e quando l’esercito spara dall’elicottero, i bambini appena sequestrati tendono, per fuggire alla furia ribelle, a ripiegare verso il campo dell’UPDF. Quelli che sono da più tempo con gli olum, invece, induriti, probabili vittime della sindrome di Stoccolma, ossia gli ostaggi che, in mano ai sequestratori, finiscono per simpatizzare con gli stessi, o semplicemente affiliati alla causa, tentano di

156 Storia tratta dal rapporto di Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003. 157 Ibidem.

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attaccare o di disperdersi nella boscaglia, per non farsi catturare. Naturalmente c’è un rischio molto alto che questi bambini vengano uccisi o feriti nei combattimenti. Secondo il tenente l’UPDF è impegnato in una guerra che si combatte con gli ostaggi perciò a volte è difficile salvare dei ragazzini senza ferirne altri, anche se l’UPDF cerca di limitare il più possibile il numero delle vittime158.

4.3 Altri effetti del conflitto nel Nord Uganda I bambini rapiti non sono le sole vittime della guerra nel Nord Uganda. Il conflitto, che persiste da vent’anni, ha preso le vite di migliaia di civili di ogni età. Alcuni sono stati uccisi dai ribelli durante gli attacchi, altri sono stati sorpresi nei fuochi incrociati tra i ribelli e i soldati del governo. Interi villaggi vivono nell’incubo di attacchi da parte dei ribelli. Le infrastrutture nei distretti del Nord Uganda sono in uno stato di collasso. I rischi costanti dei campi minati e le imboscate dei ribelli costituiscono dei pericoli per lavorare. Gli attacchi dei ribelli hanno distrutto migliaia di case. L’agricoltura si è fermata nella regione, da quando l’insicurezza ha costretto gli abitanti a lasciare le loro case e abbandonare i loro campi. Anche l’educazione si è fermata. Scuole e insegnanti sono stati spesso l’obiettivo dei ribelli. Solo nel 1996, nel distretto di Gulu, più di 75 scuole furono bruciate dai ribelli e 215 insegnanti furono uccisi. Molti altri insegnanti sono stati rapiti o hanno lasciato la regione159. Gli attacchi alle scuole rappresentano una strada efficace per i ribelli per rapire molti bambini in una sola volta. Il sistema sanitario nel nord, da sempre rudimentale, è ugualmente collassato. Molti dei feriti negli scontri a fuoco hanno ricevuto poca o nessuna assistenza medica. L’LRA attaccando il personale di organizzazioni non governative (ONG) nelle zone di conflitto, ha reso l’accesso degli aiuti umanitari pericoloso. In risposta agli attacchi dei ribelli, il governo ugandese ha radunato la popolazione in campi protetti in cui, però, non è possibile condurre una vita normale perché sono privi di servizi di base: cibo, acqua, strutture mediche, scuole. Inoltre il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche li hanno resi vulnerabili a malattie, tra cui il colera. La conseguenza di tutto questo è il crollo dell’economia e un’incontrollata diffusione delle epidemie. In questi campi la popolazione non solo non è protetta dagli attacchi dell’LRA, poiché la postazione militare si trova al centro del campo, attorniata quindi da rifugiati che le fanno da scudo in caso di attacco da parte dei guerriglieri, ma è soggetta ad abusi e violazioni dei diritti umani anche da parte delle forze governative. Il 16 ottobre del 2005, una famiglia di quattro persone fu uccisa a colpi d’arma da fuoco da un membro dell’UPDF all’entrata principale del quartier generale della 4ª Divisione nella città di Gulu. Secondo quanto riferito, il soldato era un ex combattente dell’LRA 160

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158 I. Ciapponi, op. cit., pp. 91-92. 159 Human Rights Watch, The Scars of Death, Children Abducted by the Lord’s Resistance Army in Uganda, London 1997. 160 Amnesty International, Rapporto annuale 2006: Uganda.

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4.4 La storia delle Ragazze di Aboke: una richiesta di aiuto affinché non continui il dramma nel Nord Uganda

Una testimonianza e un monito sulla sofferenza del popolo del Nord Uganda è l’incredibile storia delle ragazze di Aboke rapite dall’LRA dalla scuola superiore femminile di Aboke, il St. Mary’s College, gestita dalle suore comboniane, nel distretto di Apac, e di una suora, suor Rachele Fassera, che con determinazione ha seguito i ribelli per liberarle161. Le scorrerie dei ribelli dell’LRA erano ormai una vecchia conoscenza del St. Mary’s College di Aboke. Il 21 marzo 1989, infatti, gli uomini di Kony avevano già preso di mira la scuola delle suore italiane. Allora furono rapite dieci ragazze, una delle quali non tornò più. Inoltre, i ribelli sequestrarono trentatrè seminaristi e alcuni abitanti del villaggio. Questa incursione lasciò dietro di sé una lunga scia di morte: chiunque si mise sul loro cammino fu ucciso, come un uomo che passava di lì in bicicletta e una donna che fu arsa viva nella sua capanna mentre cercava di dare l’allarme. Suor Rachele, vicedirettrice e insegnante della scuola di Aboke, già in quell’occasione si mise sulle tracce delle dieci studentesse rapite. La religiosa, però, dovette sospendere le ricerche e tornare sui suoi passi perché i soldati governativi avevano intercettato i ribelli in fuga, attaccandoli. Dopo questa vicenda, suor Alba, direttrice del St. Mary’s college, chiese all’esercito governativo maggiore protezione, minacciando di chiudere la scuola in caso di rifiuto. Protezione che, giunta nel 1991, venne a mancare proprio la sera in cui sarebbe stata necessaria: il 9 ottobre 1996. Nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 1996, verso le due e un quarto, più di cento ribelli dell’LRA invasero la scuola di Aboke, circondando i dormitori delle studentesse e rompendo le finestre, e rapirono 139 ragazzine dai 12 ai 15 anni. Le suore colte alla sprovvista si trovarono a dover decidere in pochissimo tempo tra l’uscire allo scoperto o nascondersi in attesa che i guerriglieri se ne fossero andati. Ancora oggi, suor Rachele non sa dire se la scelta di nascondersi fu giusta. Questa decisione, tuttavia, permise loro di mettere in salvo le ragazze ospitate negli altri due dormitori della scuola, che non furono assaliti dai ribelli. Subito dopo l’attacco, nonostante la situazione fosse estremamente difficile, suor Rachele decise senza esitazioni di inseguire i ribelli, pronta a offrire la sua vita in cambio di quella delle ragazze. Munita del denaro sufficiente per un eventuale scambio o riscatto, e accompagnata da un insegnante, John Bosco, suor Rachele partì alla ricerca dei rapitori, seguendo le tracce (come refurtiva abbandonata, resti di cibo e bevande consumate durante la fuga) lasciate lungo la strada dai guerriglieri e dalle ragazze. L’inseguimento, reso ancora più pericoloso dal terreno insidioso e dalle mine disseminate dai fuggitivi sul sentiero, si concluse tre ore e mezzo dopo, quando suor Rachele e John raggiunsero un gruppo di guerriglieri che si era fermato a risposare in un grande spiazzo nella boscaglia. Ai due insegnanti, durante il cammino, si unì una donna alla quale i ribelli in fuga avevano rapito la figlia. Suor Rachele e John Bosco, seguendo il drappello dei guerriglieri, riuscirono così a trovare anche le loro studentesse che, spaventate e con i vestiti strappati, erano state divise in gruppi di quattro o cinque, ognuno dei quali era sorvegliato da un gruppetto di

161 Questa testimonianza è tratta dal libro di E. De Temmerman, Le ragazze di Aboke, Adolescenti rapite & bambini soldato nella tragedia dell’Uganda, Milano, Edizioni Ares, 2004.

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ribelli. Tutti insieme furono condotti ad Acokara, vicino alla ferrovia, dove il comandante aveva fatto allestire il campo. Lì il capo dei ribelli fece separare le studentesse del St. Mary’s College da tutti gli altri rapiti, alcuni dei quali avevano ancora le mani legate dietro la schiena, mentre suor Rachele continuò a chiedere la liberazione delle ragazze. Proprio quando la vicenda sembrò avviarsi verso una soluzione, si sentì il rumore di un elicottero che sorvolava la zona. Sulle orme dei ribelli, infatti, non si mise solo la suora di Aboke, ma anche l’esercito governativo. Sentendo il rumore dell’elicottero il capo ordinò immediatamente di nascondersi nel bosco, in piccoli gruppi. Suor Rachele fu costretta persino a togliere il velo bianco perché sarebbe stata troppo facilmente individuabile dall’alto, nella macchia verde. Quell’interruzione mise in fuga i ribelli e sospese la trattativa per la liberazione delle ragazze. Avvistati dall’esercito governativo, i fuggitivi furono coinvolti in una sparatoria e le ragazze fecero da scudo alla suora con i loro corpi per proteggerla dalle pallottole. Per rallentare l’azione dei soldati di Museveni, i bambini e le bambine sequestrati furono mandati a combattere in prima fila, mentre alcuni dei ribelli fecero da retroguardia. La marcia venne continuamente interrotta da improvvisi attacchi, che costringevano il gruppo a fermarsi e nascondersi, in attesa del momento adatto per ripartire. Dopo quattro ore di marcia forzata il gruppo giunse a un nuovo accampamento, in cui si trovavano altri bambini sequestrati. Appena arrivati, il capo dei ribelli fece separare nuovamente le ragazze di Aboke dalle altre. Suor Rachele cercò subito di riprendere il dialogo con il comandante, che si dimostrò disponibile. Egli le chiese un’immagine della Madonna, che purtroppo la suora non aveva con sé. Suor Rachele, allora offrì al capo un crocifisso, che egli si mise in tasca. Dopo questo primo approccio la tensione si allentò e fu possibile avviare una conversazione. Il comandante si presentò come Mariano Ocaya. Suor Rachele gli chiese di interrompere la spirale di violenza, di cui egli stesso si era reso partecipe e di porre così fine alla sofferenza del suo popolo. Le venne risposto che l’LRA avrebbe terminato la guerra quando il presidente Museveni si fosse deciso a guidare la nazione secondo la legge dei Dieci comandamenti. A quel punto il guerrigliero ordinò alla religiosa di lavarsi con acqua e sapone e la suora, pur non capendo il significato di quel gesto, preferì assecondarlo nascondendosi dietro una capanna. Nello stesso tempo Mariano iniziò a scegliere quali ragazze del gruppo di Aboke avrebbe liberato, e quali avrebbe tenuto con sé. Egli si disse disposto a liberarne 109, mentre le trenta più carine sarebbero rimaste con i ribelli. Di fronte a questa decisione, suor Rachele si inginocchiò ai piedi di Mariano, supplicandolo e offrendo la sua vita in cambio della liberazione di tutte le ragazze. Sentendo questa offerta il capo dei ribelli rispose che solo Kony in persona avrebbe potuto decidere al riguardo, e la suora si rese disponibile a parlargli personalmente. Mariano escluse categoricamente questa possibilità, e invitò suor Rachele a scrivere un biglietto a Kony e a compilare un elenco di tutte le ragazze tenute prigioniere. Quando la suora si avvicinò al gruppo delle trenta per salutarle, tutte si alzarono in piedi piangendo e supplicandola di non abbandonarle. Non sopportando questa scena, Mariano ordinò ai suoi soldati di mettere a tacere le ragazze, ed essi si avventarono su di loro picchiandole, frustandole e prendendole a calci. Le giovani di fronte a tanta brutalità smisero immediatamente di piangere e la furia dei soldati si placò. Suor Rachele capì così che non poteva fare più nulla per le trenta malcapitate ragazze. In quel momento dolorosissimo si dovette affrettare per

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portare in salvo le altre, prima che Kony e i suoi uomini cambiassero idea. In mano ai ribelli rimasero trenta studentesse di Aboke, insieme ad altre venti bambine rapite dai villaggi vicini. Il gruppo delle 109 ragazze liberate da suor Rachele fu accolto ad Aboke dalle manifestazioni di gioia di genitori e parenti, allo stesso tempo fu grande la disperazione di chi sapeva che le proprie figlie erano ancora in mano ai ribelli. Suor Rachele e le ragazze tratte in salvo cercarono tutte le vie possibili per riavere le giovani prigioniere. Si misero immediatamente in contatto con le autorità militari di Gulu, con il presidente Museveni, le autorità religiose, la Croce Rossa Internazionale, l’UNICEF, l’ambasciata sudanese a Nairobi e altre organizzazioni. La loro incessante richiesta era: «Aiutateci a liberare le nostre figlie, aiutateci a parlare con i ribelli perché ce le restituiscano, aiutateci a parlare con il presidente del Sudan, Bashir, perché dica a Kony di liberare le nostre ragazze». Trovarono grande solidarietà, ma le ragazze non furono mai liberate. Anche il Papa inviò il suo appello ai rapitori. Anche i genitori si attivarono, formando il “Gruppo Genitori”, per lavorare e pregare insieme per la liberazione delle loro figlie. Nel 1996, anno della vicenda di Aboke, i rapimenti di bambini e bambine avvenivano già da diversi anni in Nord Uganda, ma nessuno aveva mai osato sollevare la questione a livello internazionale. Dopo il rapimento delle ragazzine di Aboke, grazie al coraggio e alla determinazione della religiosa comboniana, le cose sono cambiate. Durante le ricerche, suor Rachele e il Gruppo Genitori sono entrati in contatto con ex bambini soldato ospitati nei centri di riabilitazione di Gulu, World Vision e GUSCO, dove si sono resi conto dell’enormità della tragedia vissuta da questi ragazzi. Vedere le condizioni fisiche dei bambini liberati, ascoltare le loro storie, venire a conoscenza delle atrocità subite all’interno dell’LRA, è stato per loro veramente drammatico, ma allo stesso tempo li ha incoraggiati a lavorare con più urgenza per questa causa. L’UNICEF di Kampala sostiene il loro lavoro, facendosi portavoce di questa tragedia, cercando di intensificare il suo impegno per liberare i bambini rapiti e di collaborare con le altre organizzazioni per la riabilitazione di quelli che tornano alle loro case. Ai genitori delle ragazze di Aboke in mano ai ribelli si sono aggiunti altri genitori provenienti da diversi distretti particolarmente colpiti dai rapimenti e insieme hanno dato vita a una organizzazione non governativa, la Concerned Parent’s Association, che ha l’obiettivo primario di lavorare per la liberazione di tutti i bambini, perché non avvengano più rapimenti, perché cessi l’insicurezza e venga la pace in Uganda. Tra la metà del novembre 1996 e il maggio 1997, nove delle trenta ragazzine sono tornate, sette sono riuscite a fuggire e ritornare in Uganda, due sono state liberate dallo SPLA in Sudan. Due studentesse sono scappate dai campi del Sudan e sono riuscite, tra mille peripezie, a giungere fino a casa. Un’altra ragazza di Aboke, Pauline, è riuscita a fuggir e a ritornare a casa il 30 gennaio 2003, con il suo bambino di tre anni. E’ rimasta quasi tutto il tempo in Sudan, dove si occupava dei lavori agricoli e ha fatto da “moglie” a un comandante dell’LRA, è riuscita a scappare solo quando il guerrigliero è stato ucciso durante un combattimento. Il 23 marzo 2004 un’altra ragazza di Aboke, Agata, è tornata a casa. Purtroppo due delle ragazze di Aboke sono state uccise. Judith venne bastonata a morte alla fine del 1998, per ordine di Kony, perché aveva accettato del cibo da un soldato sudanese. Jeska è morta il 4 marzo del 2004 durante uno scontro a fuoco

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con l’esercito governativo ugandese. Suo figlio di 4 anni è sopravvissuto all’attacco ed è stato portato in uno dei centri di accoglienza del Nord Uganda162. Le ragazze liberate raccontarono le loro sofferenze e di essere state obbligate a uccidere bambini che avevano tentato di fuggire; dissero che le altre loro compagne e tanti altri bambini e bambine si trovavano nei campi dei ribelli in Sudan. Le diverse pressioni politiche, i contatti con il presidente Museveni e la collaborazione dei mass media nazionali e internazionali hanno contribuito a far conoscere il dramma dei bambini in Nord Uganda163. Con la collaborazione dell’UNICEF si è potuto elaborare una risoluzione che condanna il rapimento dei bambini e chiede la loro liberazione. Nell’aprile del 1998 questa risoluzione è stata approvata a Ginevra dalla Commissione dell’ONU per i Diritti Umani. Inoltre, con l’aiuto dell’ Associazione Volontari per il servizio Internazionale (AVSI), la Concerned Parent’s Association vuole impegnarsi per continuare la riabilitazione e il reinserimento degli ex bambini soldato usciti dai centri di recupero cercando di aiutare i genitori e le loro comunità164. In Nord Uganda, proprio per la situazione di terrore che si vive quotidianamente, è impensabile che un bambino caduto prigioniero dei ribelli, dopo essere stato al contempo vittima e carnefice di una guerra che non desiderava, possa di nuovo essere tranquillamente accolto dalla propria comunità. La tattica brutale, utilizzata dai ribelli per controllare i bambini, rende la loro personale riabilitazione e reintegrazione nella comunità d’appartenenza alquanto difficile. Per un bambino scampato alla furia ribelle, il senso di appartenenza alla propria famiglia e alla propria comunità deve essere ricostruito smantellando quello che lo legava al gruppo che lo ha reso schiavo. Affinché questi bambini superino il loro trauma è necessario che sappiano che i loro genitori, parenti, amici e la loro comunità li accetteranno anche se hanno commesso brutalità durante il periodo di prigionia. Bisogna incoraggiarli a scendere a patti con quello che hanno visto e sono stati obbligati a fare, e alimentare in loro la speranza e il desiderio di riprendere una vita normale. Oltre ai bisogni materiali, i bambini ugandesi e tutti quelli che sono afflitti dalle conseguenze della guerra, hanno esigenze connesse allo sviluppo della personalità che devono essere ascoltate da chi interpreta la protezione dell’infanzia in termini di diritti umani, cioè quei diritti che non possono venire meno o stemperarsi a seconda delle circostanze.

162 E. De Temmerman, op. cit., pp. 190-191. 163 Grazie all’interessamento del presidente Museveni, suor Rachele e i suoi collaboratori hanno potuto presentare la richiesta al Ministero degli Esteri iraniano, al presidente Bashir, all’ex presidente Mandela, alla signora Clinton, al Segretario Generale dell’ONU e hanno potuto recarsi in Sudan, a Khartoum, a Juba e nei campi di Kony per cercare le ragazzine di Aboke. Grazie poi all’impegno dell’UNICEF e di Human Rights Watch, la direttrice della Concerned Parent’s Association, Angelina, una delle mamme delle ragazze in mano ai ribelli, si è potuta recare a New York, a Bruxelles, a Ginevra per far conoscere ciò che sta accadendo in Nord Uganda. 164 I. Ciapponi, op. cit., pp. 101-102.

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5 Il futuro dei bambini soldato nel Nord Uganda

5.1 Il reinserimento sociale La sfida maggiore che attende la comunità internazionale è quella di affrontare la delicata questione del futuro dei bambini soldato. Prima di tutto è necessario creare delle strategie finalizzate a impedire il reclutamento e per rimediare agli insuccessi di questa prevenzione bisogna operare nell’ambito della scuola, sostenere le famiglie e le comunità locali. I bambini sono la parte più vulnerabile della popolazione civile e l’esperienza terribile delle atrocità della guerra provoca in loro un trauma psicofisico che può condizionare irreversibilmente la loro crescita. Le organizzazioni umanitarie internazionali che intervengono durante i disastri bellici sono consapevoli che, nei progetti di assistenza, le azioni intraprese devono non soltanto rispondere ai bisogni fisici di base ma anche a quelli che contribuiscono alla salute mentale dell’individuo sia nella componente psicologica che in quella sociale. Il benessere e lo sviluppo di un individuo dipendono infatti da un processo dinamico di interazioni tra i suoi bisogni e le sue risorse, presenti a livello individuale e nell’ambiente in cui vive. La persona, che non è un individuo isolato, appartiene e interagisce in un determinato tempo e spazio con la comunità in cui si trova a vivere. La risposta ai bisogni dipende, quindi, dall’interazione tra soggetto e ambiente165. Per quanto riguarda i bambini del Nord Uganda, la guerriglia mina le fondamenta della loro vita, distruggendo le loro case, mandando in pezzi le loro comunità e abbattendo la loro fiducia negli adulti. Il loro mondo è in frantumi a causa della violenza fisica, sessuale ed emotiva a cui sono esposti. Il sostegno psicologico è essenziale per la guarigione, la crescita e lo sviluppo dei bambini e dovrebbe essere sempre incluso nei programmi di soccorso. La parola “psicologico” sottolinea la relazione dinamica tra effetti psicologici e sociali, che sono interdipendenti. Per “effetti psicologici” si intendono quegli effetti che hanno un impatto sull’emotività, sul comportamento, sui pensieri, sulla memoria, sulla capacità di apprendimento, sulle percezioni e sulla comprensione. Gli “effetti sociali” invece sono quelle relazioni alterate a causa di morte, separazione, estraniamento e altre perdite, dello sgretolamento della famiglia, della comunità, dei danni a valori sociali e alle consuetudini, della distruzione di strutture e servizi sociali. Questi ultimi effetti si estendono anche alla dimensione economica, poiché molti individui e famiglie diventano poveri a causa della devastazione materiale provocata dal conflitto, della perdita della posizione sociale e della posizione nella compagine familiare166. Ogni bambino reagisce in modo diverso in una situazione di conflitto armato, in base all’età, al genere, alla personalità, alla sua storia personale e familiare, al tessuto culturale, alla sua esperienza e anche alla natura e alla durata dell’evento. Lo stress può manifestarsi attraverso un’ampia sintomatologia, che include maggiore ansia da separazione, ritardi dello sviluppo, disturbi del sonno, incubi, diminuzione dell’appetito, comportamento introverso e mancanza di interesse nel gioco. I bambini più piccoli 165 AVSI, Il bambino in situazioni di conflitto, New York 2001, p. 15. 166 I. Ciapponi, op. cit., pp. 105-106.

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(quelli al di sotto di 5 anni) possono assumere un comportamento regressivo e hanno spesso incubi, quelli un po’ più grandi (dai 6 ai 12 anni) possono avere difficoltà nell’apprendimento, mostrare un comportamento ansioso o aggressivo e più infantile e depressione. Gli adolescenti possono assumere comportamenti autodistruttivi, diventare introversi e soffrire di disturbi psicosomatici167. L’esperienza ha mostrato che con l’appoggio di assistenti e comunità sicure, la maggior parte dei bambini guarisce. I programmi di recupero dovrebbero rispettare la cultura e le tradizioni locali e dovrebbero garantire la partecipazione ad ampio raggio di istituzioni locali, comunità e genitori. Il recupero è proprio l’aspetto più difficile nel tentativo di offrire un futuro diverso a ragazzi segnati da terribili esperienze. La separazione dalle famiglie è particolarmente dannosa per il benessere dei bambini del Nord Uganda, vittime dei rapimenti. Il distacco dalle famiglie per un lungo periodo rappresenta una delle sofferenze più grandi in quanto in questa età è essenziale il sostegno e la protezione degli adulti. I bambini riusciti a fuggire quando tornano nei loro villaggi spesso si ritrovano orfani perché nella maggior parte dei casi i loro genitori sono stati uccisi proprio dai ribelli. Vengono accolti con diffidenza e ostilità dagli abitanti del villaggio che li considerano degli assassini criminali per aver partecipato alla crudele e spietata causa ribelle. Il rientro delle ragazze, che spesso portano con sé uno o due figli, concepiti e nati durante la permanenza nei campi dei guerriglieri, è ancora più difficile. Le giovani madri, insieme ai loro bambini sono ritenuti parte integrante della “famiglia” ribelle e perciò vengono emarginati. Oltre al rifiuto sociale e alla povertà, i bambini che riescono a tornare a casa devono affrontare anche i malesseri provocati dall’aver vissuto esperienze terribili con l’LRA.

167 Nei bambini sotto i 5 anni, la regressione ai precedenti stadi evolutivi, quale il ritorno ai passati oggetti transizionali (per esempio succhiarsi il pollice ecc.) oppure una regressione nel linguaggio, rappresentano tutti segni di disagio, inoltre è frequente che, a causa della pressione determinata dal dover comprendere un evento molto stressante, questi bambini molto piccoli da svegli o durante il sonno abbiano incubi e terrori notturni. I bambini dai 6 ai 12 anni potrebbero avere difficoltà a concentrarsi e il loro rendimento scolastico potrebbe calare, causata dall’intrusione di ricordi traumatici e da sentimenti di tristezza. Inoltre, potrebbero assumere un comportamento ansioso caratterizzato da nervosismo (per esempio, dondolamento, balbuzie, onicofagia), eccessiva dipendenza emotiva, iperattività e disturbi dell’alimentazione, oppure potrebbero diventare aggressivi ed esigenti (per esempio, mentre giocano sono rumorosi e sgarbati o agiscono in modo prepotente e provocatorio, gridando e strillando). In questa fascia d’età sono frequenti anche la regressione verso comportamenti più infantili (per esempio bagnare il letto di notte) e i disturbi del sonno. Gli adolescenti possono assumere comportamenti autodistruttivi come modalità per affrontare i sentimenti di rabbia e depressione, infatti, in seguito a esperienze stressanti, molti di essi metteranno in atto comportamenti a rischio, per esempio, ribellandosi di fronte ad autorità importanti, drogandosi, unendosi alle milizie armate, rubando e saccheggiando. Inoltre, possono diventare introversi, cauti con gli altri e aspettarsi che accada loro qualcosa di brutto. Anche l’ansia, sotto forma di nervosismo, preoccupazione costante e disturbi psicosomatici è un fenomeno comune in questa fascia d’età (M. Macksoud, I bambini e lo stress della guerra, Roma, Edizione Magi, 1999, pp. 54-61).

Un’ ex bambina soldato con il figlio

avuto durante la permanenza nei campi del Lord’s Resistance Army

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Isolati dalla propria comunità ed emarginati, i bambini, quando ritornano al loro villaggio, hanno bisogno di ricostruire la propria fiducia nei confronti dell’adulto e di sviluppare relazioni sostenibili. Alcuni degli ex ribelli, una volta tornati a casa, per superare il trauma rimuovono dalla coscienza piccoli segmenti o interi episodi di cui sono stati vittime o protagonisti, mettono cioè in atto quelli che i psicologi chiamano “comportamenti dissociativi”. Si tratta di un meccanismo di autodifesa che può degenerare in forme di tipo patologico e impedire il normale sviluppo psichico. L’integrazione degli ex bambini soldato non deve essere considerato un problema che richiede un intervento a breve termine, ma necessita di un impegno lungo e costante, esito di una stretta collaborazione fra comunità locali, missionari e organismi non governativi, cosa non sempre possibile soprattutto per difficoltà di carattere economico. Aiutando il bambino a rielaborare il passato, egli potrà sperimentare concretamente le sue risorse interiori e riacquistare la capacità di interagire col presente168.

Gulu Support the Children Organisation,

centro di riabilitazione per ex bambini soldato a Gulu Nel Nord Uganda, precisamente a Gulu, sono presenti e attivi dal 1995 due centri di riabilitazione per il recupero dell’infanzia perduta, che accolgono i bambini scappati dai ribelli: il World Vision gestito da una Organizzazione non Governativa americana, e il Gulu Support the Children Organisation (GUSCO), gestito da norvegesi e personale locale. A Lira, nel, 2003, è stato fondato un nuovo centro, il Rachele Rehabilitation Centre, destinato al recupero fisico e psicologico nonché alla scolarizzazione dei bambini e ragazzi che sono riusciti a fuggire dall’LRA169. Queste giovani vittime hanno prima di tutto bisogno di cure mediche. La maggior parte dei bambini liberati portano sul corpo i segni indelebili di ciò che hanno vissuto: ferite d’arma da fuoco, bruciature, mutilazioni di arti. La schiena e le spalle possono essere deformate a causa dei pesanti carichi che sono stati costretti a trasportare, molti hanno perso l’udito, la vista o gli arti a causa delle mine; le lunghe marce nella boscaglia, che sono stati costretti ad affrontare a passo spedito, hanno lacerato i loro piedi. Le infezioni respiratorie, malattie della pelle e infezioni da germi, sono state provocate dalle precarie condizioni igieniche in cui hanno

168 G. Albanese, op. cit., p. 40. 169 I. Ciapponi, op. cit., pp. 107-108

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vissuto. L’AIDS e la sifilide sono frequentissime, non solo fra le ragazze. La malnutrizione blocca poi la loro crescita e il loro sviluppo170. A questi bambini bisogna ridare l’infanzia, quel mondo di valori portato via dalla vita militare, dalle azioni di guerra, dalla vista della morte e dall’obbligo di uccidere. Sono bambini che per mesi o anni non hanno giocato, non sono andati a scuola. Al posto della famiglia hanno avuto come modelli adulti soldati spietati. Il loro reinserimento ha costi sociali enormi sia per le famiglie sia per l’intera società, che dovrà provvedere alle cure, alla riabilitazione e alla loro istruzione. Reinserire questi bambini non ha solo un valore umanitario, ma concerne la sicurezza, poiché se non si fornisce un’adeguata risposta ai loro bisogni, si corre il rischio di creare un circolo vizioso in cui la violenza genera ulteriore violenza. Gli ex bambini soldato necessitano di cure fisiche, di assistenza psicologica e di un’educazione scolastica e professionale. Sarebbe doveroso che proprio i Paesi occidentali, che spesso hanno sostenuto o sostengono regimi autoritari con l’esportazione di armi o con l’appoggio politico, riuscissero a porre fine all’utilizzo dei bambini soldato e si impegnassero adeguatamente per il loro recupero. Ci sono molte ONG che operano a favore dei bambini in situazioni di guerra. Non esiste un modello d’intervento che può essere applicato universalmente, in quanto le soluzioni adottate variano a seconda delle risorse finanziare e umane disponibili, del numero di bambini coinvolti e delle modalità del loro rilascio, ma vi sono delle priorità che devono essere considerate. Ogni programma di riabilitazione dovrebbe innanzitutto prevedere un’assistenza sanitaria per la dipendenza da alcool e da droghe e per le malattie a trasmissione sessuale e provvedere alle carenze nutrizionali. Inoltre, dovrebbe cercare di riunire i bambini con le loro famiglie, facendo partecipare anche queste ultime a programmi di integrazione, che abbiano l’obiettivo di insegnare loro come relazionarsi con gli ex bambini soldato, sia nel contesto familiare che all’esterno, evitando qualsiasi emarginazione all’interno della comunità. In Nord Uganda, però, c’è anche il problema che molti bambini rapiti non tornano nella comunità d’origine soprattutto perché hanno paura di essere nuovamente rapiti dagli olum. All’inizio del 2002, dall’indagine condotta dai leader religiosi acholi sui risultati dell’amnistia concessa dal governo di Kampala agli ex ribelli dell’LRA, ne è emerso che il 55% di quanti hanno goduto del provvedimento non vive più nella comunità d’origine. Bisogna considerare che, a parte il risentimento che i parenti possono avere nei confronti di questi minori, soprattutto nei distretti acholi quasi tutte le famiglie vivono in condizioni economiche disagiate, senza un lavoro, e hanno dovuto cercare rifugio nei campi profughi situati in zone spesso lontane dal villaggio di origine. Gli ex ribelli se non vengono seguiti da qualche operatore umanitario o da un missionario, rischiano di diventare accattoni o di essere arruolati di nuovo, seppur dalla malavita organizzata. Questi ex ribelli vivono sempre in preda alla paura e temono che tornando

170 I. Ciapponi, op. cit., p. 108.

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al loro villaggio natale possano essere nuovamente sequestrati o di essere uccisi dai guerriglieri. Secondo la ricerca dei leader religiosi acholi, nel 17% dei casi gli ex combattenti devono fronteggiare gravi problemi di salute, maturati nel periodo di prigionia. In ogni caso una buona parte degli intervistati, il 52%, ha una gran voglia di ricominciare e di andare a scuola171. La ripresa dell’attività educativa è senza dubbio il metodo più efficace per aiutare il bambino a superare le difficoltà di ordine psicologico e gli consenta di intravedere la prospettiva di un futuro migliore: ricostruisce un clima di normalità spezzando l’incubo dell’emergenza continua, permette ai bambini di condividere i traumi vissuti e offre importanti occasioni formative per educare al dialogo e alla pace. La ripresa dell’attività scolastica è una fonte di stabilità nella vita quotidiana di un bambino, essenziale per ridurre lo stress psicologico causato dalla guerra. Lo sviluppo di un bambino non è una questione che riguarda solo lui, ma è un’impresa evolutiva congiunta del soggetto in crescita e di chi se ne prende cura. Il compito educativo è l’esito di un progetto comune, condiviso dagli adulti che si assumono liberamente la responsabilità di condurlo e che, immediatamente, ha una visibilità nel contesto sociale. La visibilità può creare le condizioni per favorire la partecipazione all’impresa educativa di altri adulti presenti sul territorio172. L’itinerario educativo si manifesta nella capacità di prendersi cura del bambino, dei suoi bisogni manifesti o latenti, materiali e spirituali. Aspetti della realtà umanamente inspiegabili quali il dolore, la malattia e il lutto richiedono una condivisione all’interno di un rapporto quotidiano che, alleviando la sofferenza, faccia emergere il valore della persona e, dove è possibile, sia capace di identificare risposte ai bisogni173. Nei Paesi del sud del mondo però si può cadere facilmente nel rischio dell’assistenzialismo nei confronti dei bambini, sia per l’urgenza dei bisogni, sia per la loro gravità.

171 Sito internet http://www.misna.org. 172 A. Atzori, op. cit., p. 64. 173 AVSI, Educare il bambino, in famiglia, in comunità, nel mondo, Milano 2001, p. 41.

Ex bambini soldato nel centro riabilitativo di Gulu,

il Gulu Support the Children Organisation

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5.1.1 Il programma di supporto psicosociale Da un lavoro effettuato da un gruppo a Nairobi, nel corso di un seminario internazionale sui programmi psicosociali a favore dei bambini in situazioni di conflitto, nel quale si cercava di identificare quali sono i coping mechanisms da utilizzare per aiutare i bambini a superare situazioni pericolose e difficili e per continuare a vivere, ne è emerso che amore/accettazione e spiritualità/significato della vita sono i due elementi comuni alle varie esperienze, indispensabili per aiutare il bambino a elaborare i traumi174. L’AVSI, l’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, è una ONG italiana creata nel 1972 e impegnata in Uganda dal 1984, prevalentemente in progetti di sviluppo. Dal 1993 opera anche nell’area dell’emergenza, gestendo tutti i servizi nel campo dei rifugiati di Achol Pii, nel distretto di Kitgum. L’attenzione di AVSI in questo settore è rivolta soprattutto ai bisogni dei bambini e dei gruppi più vulnerabili. Dal giugno 1997, insieme con UNICEF e le autorità distrettuali, ha avviato un programma di supporto psicosociale nel distretto di Kitgum, uno dei più colpiti dall’LRA. Grazie all’aiuto dell’UNICEF e all’assistenza tecnica di World Vision, iniziò a dar vita al Trauma Counselling Programme, primo progetto psicosociale intrapreso dal governo locale nel distretto di Kitgum, per il quale creò un’apposita commissione, la Disaster Relief Committee (DRC), che collaborò attivamente con AVSI. Tale programma si basava su tre principali obiettivi:

- identificare i bambini traumatizzati e contribuire al loro recupero psicologico ed emotivo;

- seguire i bambini e le loro famiglie all’interno delle loro comunità; - promuovere le attività educative e ricreative nei campi dei rifugiati.

Il programma aveva lo scopo di sviluppare le capacità delle comunità locali in modo da renderle in grado di affrontare le loro traumatiche esperienze di conflitto e di violenza. L’obiettivo principale e iniziale del programma si basava su un percorso educativo e formativo per volontari locali, detti Community Volunteers Counsellors (CVC), i quali erano selezionati, a loro volta, dalle stesse comunità. La maggior parte di questi volontari sono genitori di bambini rapiti dall’LRA. Il progetto in sei mesi ha formato un totale di 108 CVC e 28 insegnanti della scuola primaria. Inoltre, il progetto ha formato 12 Community Development Assistants (CDA), che a loro volta dipendono dal Communuty Development Office (CDO), il centro coordinatore e amministrativo del progetto, del quale è parte il Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali locale. Alla fine del 1997, i CVC, gli insegnanti e i CDA, in seguito alla loro preparazione formativa, hanno individuato e sostenuto un totale di 2.954 bambini traumatizzati dal conflitto armato e dalla violenza subita e operata durante la prigionia175. Nel 1997 è stato fatto un’ulteriore passo avanti con la creazione da parte dell’UNICEF di un database176 per i bambini rapiti dall’LRA, per poter combattere battaglie più mirate per la loro liberazione. Le maggiori fonti d’informazioni del database per il distretto di Kitgum sono i missionari, i leader e i volontari della comunità locale, coordinati dal CDO, all’interno del governo locale. L’aiuto logistico essenziale per far funzionare il database e anche per eseguire un controllo di qualità, per assicurare che

174 I. Ciapponi, op. cit., p. 112. 175 Sito Internet http:// www.avsi.org. 176 È una base di dati, cioè un’insieme di informazioni e annotazioni memorizzate su un computer.

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l’informazione fosse accurata e aggiornata il più possibile, è stato fornito dall’UNICEF. Su iniziativa di quest’ultima, diversi dipartimenti del governo locale e diverse ONG si sono unite insieme per chiarire il concetto di supporto psicosociale e per sviluppare il programma sul territorio. Agli inizi del 1997 è nato così il National Psycho-Social Core Team (NCT) col proposito di capire come far fronte ai bisogni psicosociali della popolazione abitante nei sei distretti del Nord Uganda177. Nel giugno 1998, nel distretto di Kitgum, governo locale, UNICEF e AVSI hanno firmato un Tripartite Agreement per un programma psicosociale della durata di due anni, con lo scopo di sviluppare delle reti sociali, attraverso le quali è possibile aiutare i bambini e le loro famiglie colpiti dal conflitto nord ugandese. I principali obiettivi di questo programma erano:

- promuovere la comunità e il supporto politico al programma; - sviluppare una sostenibile e coordinata comunità di base per il supporto

psicosociale; - promuovere la famiglia e la vita quotidiana; - migliorare le capacità di recupero dei bambini.

Il Tripartite Agreement è stato una nuova forma di collaborazione tra governo locale, UNICEF e ONG. Per il governo locale del distretto di Kitgum questo accordo era un’opportunità per attrarre nuove risorse e abilità nella regione che per molto tempo è stata trascurata dalle agenzie internazionali, ONG e ministeri governativi. Da allora il Psycho-Social Support Programme (PSSP) è stato integrato nel Piano di Sviluppo Distrettuale. L’Agreement definisce i compiti delle tre parti in causa. Il governo locale del distretto di Kitgum, rappresentato dal CDO, era responsabile sul territorio delle attività svolte per la realizzazione del progetto e forniva gli spazi. L’UNICEF, ha fornito circa il 60% del budget per i primi due anni del programma e ha realizzato un lavoro di assistenza per il rimpatrio dei bambini che sono stati rapiti dai loro villaggi e mantenuto attivo e aggiornato il sistema di database relativo all’infanzia sequestrata. Infine, l’AVSI ha garantito l’assistenza tecnica, soprattutto per le attività di formazione del programma stesso. Le attività delle agenzie governative e delle principali ONG coinvolte nel PSSP sono state coordinate attraverso incontri bimestrali, i quali rappresentavano una buona opportunità per valutare l’andamento del programma, per aggiustarlo e discutere i problemi. Questi incontri sono molto importanti perché consentono di mantenere una comunicazione effettiva tra le diverse organizzazioni coinvolte nel programma. Si vuole sviluppare progressivamente la capacità di recupero degli individui, delle famiglie e delle comunità, colpite dal conflitto178. Nel distretto di Kitgum, quindi, l’AVSI ha individuato le risorse che possono contribuire al processo di reintegrazione dei bambini sequestrati. Tali risorse sono rappresentate dalle persone volontarie della comunità, che per carisma, posizione sociale e aspirazione, svolgono un ruolo di aiuto per gli altri, dagli anziani che hanno a cuore i valori tradizionali, alle associazioni e gruppi locali già esistenti che cercano di promuovere un discorso di pace e di riconciliazione e dagli insegnanti che già lavorano con i bambini nelle scuole. AVSI ha da sempre il compito di sviluppare le possibilità di un dialogo e di una collaborazione tra le diverse componenti della società, promuovendo una rete, fornendo formazione e potenziando le loro capacità di identificare i bisogni e di rispondervi. Tra le attività principali del progetto psicosociale

177 Sito Internet http:// www.avsi.org. 178 Ibidem.

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a Kitgum, gli interventi formativi si basano su corsi di formazione, sensibilizzazione e follow up (verifica dei risultati) dei corsi. Queste attività hanno lo scopo di rendere la persona consapevole dei propri bisogni e di rinforzare le risorse individuali per renderla così capace di compiere delle scelte179. Nei rapporti interpersonali, specie quelli tra adulto e bambino è molto importante centrare l’attività educativa sulla valorizzazione delle potenzialità di ciascuno. In questa logica, l’educatore è lasciato libero di condividere il suo vissuto e di partecipare alla ricerca di risposte che diano un senso alle esperienze fatte dal bambino. La condivisione della situazione vissuta da ciascuno, e la ricerca comune di una risposta, permettono il cambiamento di sé e dell’altro e aiutano il recupero di un rapporto di fiducia tra il bambino e l’adulto. Il bambino ha infatti bisogno di un rapporto adulto sufficientemente buono per costruire la propria identità e personalità, laddove questo si perde, come in situazioni di conflitto, è fondamentale recuperarle lavorando sulle attitudini delle persone (fiducia, autocoscienza, autoconsapevolezza), sulle relazioni (cooperazione, amicizia) e sulla rete di rapporti sociali (famiglie, associazioni, organizzazioni, autorità locali). Si devono promuovere diversi interventi che permettano al bambino di esprimere i sentimenti e le emozioni collegate agli aventi dolosi e nello stesso tempo lo aiutino a ricostruire una continuità tra passato, presente e futuro interrotta dall’evento traumatico180. Si vuole sviluppare un progetto educativo che ha l’obiettivo di cambiare il rapporto della persona con il suo ambiente, facendone maturare il senso di responsabilità. Ugualmente importante all’interno del lavoro di AVSI è instaurare una collaborazione corresponsabile con organizzazioni e istituzioni locali. Nel PSSP anche altre ONG hanno collaborato con il CDO. In particolar modo bisogna ricordare una ONG locale, la Kitgum Concerned Women’s Association (KICWA), che con il supporto finanziario dell’AVSI e CDO ha dato vita a un centro di accoglienza per gli ex bambini soldato, l’unico nel distretto di Kitgum, con lo scopo di aiutarli a reintegrarsi nelle loro famiglie e nelle loro comunità. Questo centro è nato nell’agosto del 1998, su iniziativa di un gruppo di sei donne e può ospitare circa quaranta bambini e nelle situazioni di emergenza può arrivare ad accoglierne anche una settantina. Il centro offre inizialmente un supporto di tipo medico in cui ogni bambino viene sottoposto a un controllo sanitario generale. Ogni bambino ha poi bisogno di cure e di supporto psicosocale, poiché ognuno mostra sintomi di stress post-traumatico, i membri del centro incoraggiano e aiutano i bambini a esternare le loro sensazioni facendo raccontare loro ciò che hanno vissuto dal momento in cui sono stati rapiti dai ribelli. Altri strumenti efficaci per il recupero psichico sono il disegno, la musica, la danza, la rappresentazione teatrale. KICWA collabora con AVSI, con gli ospedali e le scuole, con i CVC locali, con gli anziani e gli insegnanti coinvolti nel PSSP181. Questa importante mobilitazione è iniziata solo dopo il 1997 successivamente alla presa di posizione di suor Rachele e ciò vuol dire che tra il 1988, anno di inizio dei rapimenti da parte dell’LRA, e il 1996 nulla o quasi si è fatto, sia dal governo ugandese sia dalla comunità internazionale. Successivamente alla creazione della Concerned Parent’s Association, dopo il rapimento delle ragazze di Aboke, che si è battuta contro i sequestri dei bambini e ha

179 AVSI, Educare il bambino, in famiglia, in comunità, nel mondo, Milano 2001, pp. 43-44. 180 AVSI, Educare il bambino, in famiglia, in comunità, nel mondo, p. 44. 181 Sito Internet http:// www.avsi.org.

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fatto conoscere il problema nord ugandese a livello internazionale, si può affermare che la società civile locale, malgrado sia quotidianamente colpita dalla crudeltà di un conflitto logorante, non si dà per vinta. Essa reagisce e si organizza, affrontando la situazione con coraggio, attivandosi e collaborando con chiunque creda e speri in un futuro migliore182.

IL RACCONTO DI UN DRAMMA ATTRAVERSO I DISEGNI

5 Chi rallenta la marcia viene ucciso

182 I. Ciapponi, op. cit., p. 117.

4 I bambini rapiti dai ribelli vengono

legati e obbligati a marciare

2 Chi si oppone viene ucciso brutalmente

1 Al tramonto i ribelli attaccano i villaggi

3 I guerriglieri non hanno pietà di nessuno

“ I bambini che hanno subito un attacco dei ribelli convivono quotidianamente con la paura.

Quelli che sono stati rapiti subiscono dei traumi da cui rimangono emotivamente segnati.

Terrore e dolore tornano costantemente alla loro mente attraverso i ricordi e gli incubi.

Uno dei primi lavori per far uscire il loro dramma, ma così pure il desiderio e le speranze di pace,

è il disegno. Con questa tecnica l’educatore può vedere la vita

dei bambini attraverso i loro occhi, insieme all’indescrivibile tragedia delle loro esperienze in

un mondo che non ha saputo proteggerli. Ma oltre al dramma, i disegni degli ex bambini soldato

mostrano il loro coraggio, il loro ottimismo, la loro forza d’animo”.

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5.2 Una vita dedicata alle vittime dell’ingiustizia In questo remoto angolo del mondo, attanagliato da violenze e miserie, ci sono anche persone generose che scelgono di condividere la loro vita con i più poveri e con le vittime dell’ingiustizia. I missionari comboniani e le Pie Madri della Nigrizia, che fin dal 1911, anno in cui, varcati i confini del Sudan, hanno cominciato a operare nel nord del protettorato britannico dell’Uganda, precisamente a Gulu, hanno dovuto fare i conti prima con la diffidenza britannica, poi con l’ostilità dei potenti locali183. Oggi, secondo il presidente ugandese Museveni, i missionari comboniani sono troppo vicini alla popolazione acholi, a lui ostile, ma allo stesso tempo riconosce i meriti del loro lavoro di promozione sociale su tutto il territorio. La convinzione di Museveni, basata sulla sua rilettura della storia del Paese, è che le religioni hanno contribuito al caos politico. Infatti, per l’attuale governo ugandese, l’arrivo dei religiosi, sia cristiani che musulmani, è stato causa di alcuni problemi del passato e del presente, ma al tempo stesso riconosce che hanno avuto un’influenza moderatrice sui conflitti interni. Il Presidente, perciò, si è attribuito il compito di impedire che i partiti politici siano legati alle religioni, e tende ad assicurarsi che nessun nuovo partito politico sia influenzato da un organismo religioso, cercando di mantenere il più possibile separate le due sfere. La Chiesa cattolica, però, è decisamente schierata dalla parte della giustizia. I missionari comboniani, particolarmente impegnati in Uganda, mettono in primo piano i poveri della terra, proteggendoli e lottando contro le ingiustizie. Grazie alla loro azione la Chiesa cattolica ha assunto una posizione più attiva di fronte alla guerra che devasta il Nord Uganda. Le pene di queste popolazioni sono inaccettabili per la Chiesa cattolica e

183 Mons. Comboni sognò a lungo di arrivare in Uganda, per predicare il vangelo ad africani non ancora toccati dall’Islam. Si diede da fare per organizzare una spedizione verso la regione dei laghi, che era parte del suo immenso vicariato. Una serie di circostanze sfavorevoli gli impedirono, però, di realizzare il suo progetto. La zona venne affidata al cardinale Lavigerie e ai suoi Padri Bianchi, che sbarcarono vicino ad Entebbe, sul Lago Vittoria, nel 1879. Nell’ultimo scorcio della sua vita, Comboni seguì da lontano con interesse e apprensione le vicende di quella missione. A quasi trent’anni dalla sua morte, nel 1910, il secondo successore di Comboni, Mons. Geyer, guidò personalmente, lungo il corso del Nilo, il primo gruppo di comboniani che dal Sudan entrarono nel Nord Uganda, ad Omach, tra gli Alur. La malattia del sonno li obbligò ben presto a spostarsi. L’anno seguente, si aprì, così, la missione di Gulu, fra gli Acholi. Fu l’inizio di una vera epopea missionaria, che tra grosse difficoltà fece sorgere a poco a poco numerose missioni in tutto il territorio del Nord Uganda, dal West Nile (1917) al Lango (1930) al Karamoja (1933). A pochi anni dagli inizi, nel 1918, arrivarono a Gulu anche le Suore comboniane, per dedicarsi in particolare alle donne. Il lavoro di prima evangelizzazione e sviluppo si svolse in un intreccio che vide collaborare fianco a fianco i due istituti comboniani, ciascuno con i propri doni e caratteristiche, nel campo della pastorale e catechesi, dell’assistenza sanitaria, della scuola e della promozione integrale della gente e del suo territorio. La Seconda Guerra Mondiale portò con sé l’internamento di tutto il gruppo per diciotto mesi a Katigondo, vicino a Masaka. Ma era solo una pausa. Gli anni ’50 e l’inizio dei ’60 segnarono l’apice dell’impegno nel settore della scuola. Il periodo precedente all’indipendenza fu marcato da un particolare impegno nella formazione sociale e politica di leader cristiani, perché sapessero assumersi le loro responsabilità nella conduzione del Paese. L’espulsione in massa dei comboniani dal Sud Sudan nel 1964 diventò l’occasione per aprire nuove presenze nel Sud dell’Uganda, nelle diocesi di Kampala, Hoima e Kabale e per inserire la presenza comboniana nel tessuto ecclesiale del resto del Paese. Le vicende politiche che dai tempi di Idi Amin alla presa di potere dell’attuale presidente Museveni hanno sconvolto l’Uganda anche attraverso la lotta armata, hanno certo reso più difficile ma non impedito il lavoro missionario. La testimonianza più importante data dai missionari durante questi anni è la capacità e la volontà di restare a fianco della gente, anche in situazioni di grave pericolo personale (A. Meneghini, op. cit., pp. 419-528)

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i missionari comboniani non hanno paura a dichiarare con forza che i politici locali hanno molto da rimproverarsi. La Chiesa cattolica in particolare sta svolgendo da tempo una lenta mediazione tra governo e guerriglia. E accanto a lei lavorano la chiesa anglicana e la comunità musulmana. Da una parte incontri pubblici, intese con le chiese sudanesi, documenti e incontri di sensibilizzazione; dall’altro un lavoro in sordina fatto di contatti diretti con la guerriglia per cercare di fermare le violenze insensate che devastano la terra degli acholi184. Nella diocesi di Gulu i missionari comboniani padre Tarcisio Pazzaglia e padre Josè Carlos Rodriguez da diversi anni lavorano per la riconciliazione e per la pace, a nome della “Commissione Giustizia e Pace”, collaborando con l’ARLPI, l’organismo ecumenico e interreligioso composto dai capi religiosi cattolici, anglicani e musulmani. Nato nel 1997, questo gruppo interreligioso, composto da un vescovo cattolico, monsignor Odama, due vescovi protestanti e un leader musulmano, che oltre ad avere l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione, di unirla e di far capire il valore della pace, ha lo scopo di trovare la strada per arrivare ai rivoluzionari, per convincerli ad abbandonare i combattenti, ritornare in patria e avviare un processo di riconciliazione. Per di più, ha il compito di dialogare con il governo per preparare il terreno adatto a ricevere i rivoluzionari185. I missionari comboniani, dunque, collaborando attivamente con l’ARLPI, hanno sempre cercato di favorire l’incontro tra i ribelli e il governo ugandese e di avviare trattative di pace. Inoltre, padre Tarcisio e padre Carlos lavorano per promuovere la difesa dei diritti umani. Accanto alla denuncia e alla mediazione del conflitto, i missionari lavorano intensamente nel recupero dell’infanzia, impegnandosi per l’accoglienza e la riabilitazione dei ragazzi e delle ragazze che riescono a fuggire dall’LRA. Nei due centri di riabilitazione di Gulu, World Vision e GUSCO, i missionari comboniani incontrano regolarmente i ragazzini. Un’opera molto importante in quanto i ragazzi e le ragazze che riescono a scappare dai ribelli, vengono inseguiti e minacciati. L’LRA teme che possano dare informazioni importanti sulle sue basi o che possono essere d’esempio per gli altri che vogliono fuggire. Inoltre, alcune volte, le stesse famiglie hanno paura di accoglierli perché hanno il terrore delle rappresaglie. La permanenza nei centri e la mediazione delle missionarie e dei missionari comboniani consentono ai ragazzi di superare i traumi che hanno subito, e le famiglie a reinserirli al loro interno. In Nord Uganda, poi, sono sempre di più gli orfani a causa della diffusione dell’AIDS. I comboniani lavorano sulla prevenzione, ricordando il pericolo di contagio e insistendo sull’importanza di adottare comportamenti non a rischio. Sostengono i malati e gli orfani nelle esigenze materiali e spirituali, operano a favore degli sfollati e lavorano con i carcerati186.

184 A. Valle, Lascia andare il mio popolo, in Nigrizia, maggio 2002, p. 23. 185 Gli esponenti dell’ARLPI si sono recati in Kenya e in Inghilterra, dove hanno fatto conoscere il loro lavoro. Hanno incontrato i rappresentanti della Comunità Internazionale per instaurare una sinergia con altre Nazioni e con il Governo sudanese, per convincere i rivoluzionari a sospendere le ostilità e avviare un dialogo tra i diversi gruppi. Hanno contattato anche le Organizzazioni di pace; nel 1999 tre esponenti dell’ARLPI sono stati all’ONU, dove si sono tenuti incontri importanti e positivi. Hanno coinvolto le numerose agenzie dell’ONU, come l’UNESCO, e hanno incontrato il Sottosegretario dell’ex presidente Clinton, i rappresentanti delle Nazioni africane, i Congressi più influenti e gli esponenti delle varie religioni (I. Ciapponi, op. cit., p. 120). 186 A. Valle, Quei rompiscatole, in Nigrizia, maggio 2002, p. 25.

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Nel 1959 è stato fondato dai comboniani e dalla diocesi di Gulu il St. Mary’s Lachor Hospital, in cui la gente cerca protezione dalla guerriglia e cura per le malattie. Nel Nord Uganda, agli inizi degli anni Settanta, i missionari hanno anche avviato trecento scuole primarie e decine di scuole secondarie. La maggior parte di esse sono state nazionalizzate, ma alcune continuano ad essere gestite dai padri e dalle suore comboniane, come la scuola di Aboke. Molto forte è tuttora l’impegno nello sviluppo dei mezzi di comunicazione. Nella diocesi di Gulu è attiva la Gulu Catholic Press, una tipografia che stampa giornali in lingua locale, la rivista Leadership e sussidi per la formazione sia religiosa che civile. Oltre a padre Carlos e padre Tarciso, anche molti altri comboniani si sono impegnati nell’opera di mediazione con l’LRA, denunciando sistematicamente rapimenti e violenze da parte della guerriglia e battendosi per il rilascio dei ragazzini sequestrati. Un’esposizione pubblica che si attira minacce e attentati, dei quali è stato vittima padre Raffaele di Bari, assassinato il 1° ottobre del 2000187. Le ripetute violenze e i saccheggi hanno fatto aumentare il clima di insicurezza. Padre Tarcisio, perseverando nel suo tentativo di mediazione, ha ottenuto una difficile corrispondenza con uno dei capi ribelli, Tabuley. Tra luglio e agosto del 2002, il religioso ricevette una lettera in cui Tabuley gli chiedeva di andare a Koyo Laloghi a prendere diciotto donne e tredici bambini, che voleva affidare alla sua custodia e che il missionario sistemò poi presso la Caritas diocesana di Pajule. Le bambine erano state sequestrate anni prima, portate in Sudan e diventate mamme. Dal Sudan le donne percorsero 200 km a piedi in tre settimane. Altre lettere sono arrivate a padre Tarcisio e in posti diversi, i ribelli hanno rilasciato al missionario 63 persone ad Atanga e 93 a Lanyatongo, che poi sono state portate alla missione di Pajule. Tutte queste donne, rapite quando ancora erano bambine, hanno subito tutte la stessa trafila: il rapimento, il lungo viaggio verso il Sudan, l’arrivo alla base di Kony, la purificazione e l’assegnazione in moglie agli ufficiali, che già avevano più mogli, i maltrattamenti, la fame, il duro lavoro, l’esercitazione nell’uso del mitra e la partecipazione ad azioni di guerriglia188. Padre Tarciso è sempre stato uno degli uomini più impegnati nel processo di pacificazione e già nell’aprile del 2001 riuscì a incontrare per la prima volta i ribelli e il capo Oywak a Koyo, nei pressi di Pajule. Un secondo colloquio, pochi giorni dopo fallì per l’intervento armato dell’esercito governativo. Dopo questo fatto, il governo si scusò e si dichiarò apertamente pronto a rispettare la legge sulla amnistia. Ma poche settimane dopo i soldati, in un’imboscata, ferirono un ribelle che voleva arrendersi e uccisero un bambino 189. La Commissione giustizia e pace della diocesi di Gulu insiste perché non siano commesse azioni che portino i ribelli a credere che sia inutile arrendersi. Con una lettera del febbraio del 2002, la Commissione ha chiesto all’esercito di non convincere i ragazzi rientrati nelle loro famiglie a guidarli in territorio sudanese alla ricerca delle basi dell’LRA. Secondo la Commissione, tornare nei posti dove sono stati addestrati ad 187 Padre Raffaele Di Bari venne ucciso da alcuni colpi d’arma da fuoco sparati dai ribelli mentre viaggiava dalla missione di Pajule (40 km a sud di Kitgum) verso Acholi bur, un piccolo centro 20 km a sud di Kitgum dove sorge una piccola chiesa. A bordo della macchina sul quale viaggiava si trovavano anche una suora ed un catechista che miracolosamente riuscirono a fuggire. Il veicolo poi si incendiò, pare in seguito all’esplosione del serbatoio. Originario di Barletta (Bari) e in Uganda dal 1959, si era particolarmente distinto nel denunciare pubblicamente le vessazioni perpetrate dall’LRA. 188 I. Capponi, op. cit., p. 122. 189 A. Valle, Lascia andare il mio popolo, in Nigrizia, maggio 2002, p. 23.

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uccidere, dove sono stati violentati, dove hanno dovuto assistere alla morte di tanti loro compagni e partecipare all’assassinio, li priverebbe della possibilità della riabilitazione e reintegrazione in una vita normale190. Non si può negare che alcuni missionari godano di una certa fiducia agli occhi dei ribelli, in modo particolare padre Tarcisio, ma affermare che sono amici dei ribelli è travisare la realtà. Il 22 agosto del 2002, il maggiore Toopaco dell’LRA scrisse a padre Tarcisio per avere farmaci e batterie. Il missionario accettò l’incontro pensando che sarebbe stata una buona occasione per negoziare la pace, o almeno porre fine ai rapimenti. Prima dell’incontro però padre Tarcisio informò il Vescovo e le autorità civili e militari. Il Vescovo mandò anche padre Carlos il suo segretario e padre Giulio Albanese, direttore dell’Agenzia Stampa delle congregazioni missionarie, MISNA, da poco arrivato dall’Italia, ad assistere all’incontro. Il 28 agosto i tre missionari lasciarono Kitgum per dirigersi a Tomangu, che in lingua acholi significa: “il luogo dove abita la bestia feroce”, un piccolo villaggio a circa una trentina di chilometri. Sul sentiero però vennero fermati da tre soldati governativi che chiesero dov’erano diretti, effettuarono un’accurata perquisizione e confiscarono farmaci e batterie. Dopo la sosta forzata i tre missionari ripresero la strada verso i ribelli, o meglio verso una trappola ordinata dal colonnello dell’esercito del governo, Kazora, che aveva già dato ordine a un centinaio di soldati di fare un’imboscata a Tomangu. A metà strada il sentiero diventò impraticabile e i missionari furono costretti a lasciare l’auto e a proseguire a piedi. Arrivati all’accampamento dei ribelli, si accorsero che il maggiore Toopaco non era presente e che quello non era il suo gruppo. I religiosi furono ugualmente accolti e dopo una preghiera padre Carlos spiegò lo scopo della loro visita. Ma la conversazione durò poco: all’improvviso arrivarono i soldati governativi e iniziarono a sparare all’impazzata provocando immediatamente la risposta dei ribelli. I religiosi erano stati imbrogliati e usati dall’esercito per portare a termine la loro imboscata. La sparatoria continuò per circa una ventina di minuti. Alla fine i missionari furono arrestati dall’esercito governativo e portati nella caserma di Kitgum, perché ritenuti complici dei ribelli. Il giorno seguente furono trasferiti nella caserma di Gulu, dopo una lunga notte trascorsa in condizioni disumane, senza acqua, sdraiati su una terra piena di spine, disturbati dai pipistrelli, con la paura di essere pizzicati dalle zanzare che trasmettono la malaria. A Gulu, prima di essere rilasciati, i missionari vennero accusati dagli ufficiali governativi di non avere seguito la corretta procedura stabilita per gli incontri con i ribelli. Padre Tarcisio protestò, ricordando che aveva avvisato le autorità civili, e mostrò come prova la lettera del prefetto che avrebbe dovuto consegnare ai ribelli. Gli ufficiali, allora, riformularono su due piedi la procedura per poter incriminare i missionari. Secondo la versione ufficiale fornita a Kampala, l’unità mobile aveva sparato contro i missionari perché le autorità competenti non erano state avvertite della loro missione di pace. Davanti a queste affermazioni, i missionari protestarono, intervennero in maniera decisa e prendendo le loro difese anche il Vescovo e l’ambasciata, ricordando che le autorità di Kitgum erano state preventivamente avvertite come di consueto. Alla fine venne detto che si era trattato di un incidente191. La presenza missionaria nel Paese è diventata sempre più “scomoda” agli occhi del governo ugandese a causa della sua presa di posizione nei confronti del conflitto.

190 A. Valle, Lascia andare il mio popolo, in Nigrizia, maggio 2002, p. 23. 191 G. Albanese, op. cit., pp. 70-74.

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I missionari si confrontano ogni giorno con la necessità di alleviare le sofferenze di un intero popolo, compito troppo grande per i loro mezzi. Ma la loro presenza e il loro operato hanno da sempre contribuito a mantenere viva la speranza in una risoluzione del conflitto. Si pensi a Suor Rachele e al suo gesto, che ha rivelato che il dialogo è sempre possibile: i ribelli hanno prestato ascolto alla missionaria e hanno risposto positivamente al suo appello, risparmiando vite umane. Il governo e gli ugandesi da questa vicenda hanno imparato che impegni e prese di posizione costanti, fondati sul dialogo, la sensibilizzazione, l’aiuto concreto, possono in qualche modo migliorare la drammatica situazione nord ugandese. L’impresa di Suor Rachele ha incoraggiato anche gli stessi missionari e i leader religiosi, che dopo il 1996 hanno deciso di organizzarsi e attivarsi per la pacificazione del Paese. Dal 1999, infatti, sono iniziati a Gulu una serie di seminari di studio su giustizia e pace per coinvolgere la popolazione perché non subisca passivamente le continue vessazioni e si assuma l’impegno a favore della pace. A Kitgum è nata una commissione decennale per monitorare gli sviluppi del conflitto e denunciare gli abusi contro i civili inermi e i bambini rapiti, costretti a diventare soldati. Nel 2002-2003 è sorta Mai più bambini soldato, un’iniziativa di informazione e sensibilizzazione sulla situazione nord ugandese, proposta dallo Scolasticato “Daniele Comboni” di Roma e veicolata attraverso il contatto diretto con padre Carlos. Il progetto consiste nell’appoggiare la diocesi di Gulu nel suo lavoro di accoglienza e reinserimento dei bambini e prevede l’acquisto di scrivanie di legno fabbricate dai falegnami locali, per attrezzare le scuole e stimolare l’economia locale. La stessa ARLPI ha creato un fondo, il Solidarity Fund, attraverso il quale vengono finanziati e appoggiati microprogetti per il recupero degli ex bambini soldato192.

192 I. Ciapponi , op. cit., p. 126.

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6 La protezione giuridica internazionale dei bambini soldato

6.1 I primi strumenti di tutela dei bambini soldato: le Convenzioni di Ginevra del 1949 e Protocolli del 1977 Il diritto internazionale oggi offre una solida tutela giuridica ai diritti dei bambini coinvolti nei conflitti armati. In anni meno recenti, l’infanzia aveva un ruolo piuttosto marginale nelle elaborazioni giuridiche in quanto era ancora lontana l’idea che il bambino come persona potesse essere titolare di veri e propri diritti umani. In ragione della loro “immaturità fisica e intellettuale”, si faceva riferimento ai bambini soltanto come destinatari di tutela da parte degli adulti. A Ginevra, nel 1949, furono sottoscritte quattro Convenzioni di diritto umanitario per affermare in maniera certa e solenne che mai avrebbero dovuto ripetersi gli orrori della “guerra totale” condotta dai nazisti senza alcun rispetto per la vita e la dignità dei civili, prigionieri o dei nemici. Solo la IV Convenzione di Ginevra, quella avente per oggetto il trattamento dei civili in tempo di guerra, parla espressamente della tutela dei minori193. Le Convenzioni di Ginevra sono state aggiornate dai Protocolli aggiuntivi sulla protezione delle vittime dei conflitti armati, internazionali e non, stipulati a Ginevra nel 1977, in cui per la prima volta è stato affrontato il problema dei bambini soldato. In particolare il I Protocollo aggiuntivo dell’8 giugno 1977 all’art. 77, comma 2, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali recita: «Le parti in conflitto adotteranno tutte le misure praticamente possibili affinché i fanciulli di meno di 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità, in particolare astenendosi dal reclutarli nelle rispettive forze armate. Nel caso in cui reclutassero persone aventi più di 15 anni ma meno di 18 anni, le parti in conflitto procureranno di dare la precedenza a quelle di maggiore età». Il II Protocollo aggiuntivo dell’8 giugno 1977 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali all’art. 4 dispone: «I fanciulli di meno di 15 anni non dovranno essere reclutati nelle forze armate o gruppi armati, né autorizzati a prendere parte alle ostilità»194.

193 «Le parti in conflitto prenderanno ogni misura necessaria per assicurare che i fanciulli minori di quindici anni, che siano orfani o separati dalle loro famiglie a causa di guerra, non siano lasciati alle loro stesse risorse, e che il loro mantenimento, l’esercizio della loro religione e educazione siano facilitate in ogni circostanza» (art. 24). «Le forze occupanti, in cooperazione con le autorità nazionali e locali, faciliteranno il lavoro di tutte le istituzioni che si dedicano alla cura e all’educazione dei fanciulli […] Le forze occupanti prenderanno misure per il mantenimento e l’educazione, se possibile tramite persone della stessa nazionalità, lingua e religione, dei fanciulli orfani o separati dalle loro famiglie a causa della guerra o che non possono essere adeguatamente seguiti da prossimi o amici» (art. 50) (A. Atzori, op. cit., p. 40). 194 L. Bertozzi, op. cit., pp. 117-118.

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6.2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, approvata dall’Assemblea Generale ONU il 20 novembre 1989, più di qualsiasi altro documento giuridico, ha costituito una svolta nella cultura dei diritti dei bambini. La Convenzione affronta la tematica del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati nell’articolo 38195. L’elaborazione di questo articolo e soprattutto dei parametri relativi all’età, ha rappresentato uno degli argomenti più dibattutti tra i delegati nazionali durante le negoziazioni sul progetto della Convenzione. Sin dalla sua approvazione è apparso a molti che la protezione offerta dall’articolo 38, che fissa l’età minima per la partecipazione alle ostilità a 15 anni, genera un’anomalia nel corpus normativo che ha stanziato lo status internazionale del bambino, in quanto è incoerente sia al principio della Convenzione stessa, per la quale sono minori tutti i soggetti con un’età inferiore a 18 anni, sia ad un’altra norma della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, ossia l’articolo 2, che sancisce il principio di non discriminazione196. Nonostante rappresenti un contributo decisivo nella disciplina internazionale concernente i minori, la Convenzione del 1989 ometteva di proteggerli nelle situazioni di maggiore vulnerabilità, non riuscendo ad intervenire in merito agli abusi sull’infanzia più gravi: la partecipazione dei minori alle guerre. Dai rapporti e dalle riunioni preparatorie e dalle negoziazioni che hanno portato alla redazione della Convenzione emerge che furono alcuni Stati membri ad opporsi a standard di età più elevati. Infatti, sono gli interessi particolari di alcuni Stati a rappresentare un ostacolo al lavoro delle Nazioni Unite e dei rappresentanti della società civile per migliorare la protezione dell’infanzia in situazioni di conflitto armato. Queste perplessità non sono state però d’ostacolo al raggiungimento di un consenso della comunità internazionale per la redazione di un Protocollo Opzionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, volto a rimediare l’insufficiente livello di protezione accordato dagli strumenti giuridici internazionali ai bambini colpiti dal dramma della guerra. La Convenzione è stata ratificata da tutti i Paesi, ad eccezione della Somalia e degli Stati Uniti. L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge n. 176 del 17 maggio 1991. In Uganda, in seguito alla ratifica della Convenzione, è stato redatto un testo storico e innovatore per il continente africano: lo Statuto dell’infanzia, in cui si afferma la volontà del governo e l’impegno delle istituzioni nel risolvere le necessità dei bambini, si conferisce alle autorità regionali il potere di costruire Tribunali per la

195 «1. Gli Stati parte si impegnano a rispettare e a far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale loro applicabili in caso di conflitto armato, e la cui protezione si estende ai minori. 2. Gli Stati parte adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità. 3. Gli Stati parte si astengono dall’arruolare nelle loro forze armate ogni persona che non ha raggiunto l’età di 15 anni. Nel reclutare persone aventi più di 15 anni, ma meno di 18 anni, gli Stati parte si sforzano di arruolare con precedenza i più anziani. 4. In conformità con l’obbligo che spetta loro in virtù del diritto umanitario internazionale di proteggere la popolazione civile in caso di conflitto armato, gli Stati parte adottano ogni misura possibile a livello pratico, affinché i minori coinvolti in un conflitto armato possano beneficiare di cure e protezione». 196 Secondo l’art. 2: «Gli Stati si impegnano a rispettare tutti i diritti enunciati nella Convenzione e a garantirli a ogni minore […] senza distinzione di sorta […]» (L. Bertozzi, op. cit., pp. 118-119).

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Famiglia e i Bambini, nonché si stabiliscono precise regole che disciplinano in materia di adozione e riabilitazione della criminalità minorenne197.

6.3 Il Comitato di Ginevra sui diritti dei Bambini In seguito all’adozione della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, venne diverse volte proposta dalle organizzazioni non governative la richiesta di rafforzare l’articolo 38, alzando i parametri dell’età, ma il fenomeno dei bambini soldato non era ancora arrivato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Si iniziò ad interessarsi di questa realtà agli inizi degli anni Novanta, e più precisamente è stato nel 1992, che grazie al Comitato di Ginevra sui Diritti dei Bambini198, la problematica dei bambini soldato è entrata nell’agenda delle istituzioni internazionali e gradualmente portata all’attenzione dell’opinione pubblica. Fino ad allora, le informazioni a disposizione erano frammentarie, le azioni intraprese a riguardo scoordinate e, soprattutto, si riscontrava un insufficiente riconoscimento della specifica vulnerabilità dei bambini, ragazzi e ragazze di tutte le età, come vittime e combattenti. Nel 1992, poiché vi era la necessità di promuovere nuove misure normative per incrementare la tutela dei bambini durante le operazioni belliche, il Comitato riservò una sessione ordinaria alla tematica, in particolare all’articolo 38 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia199. Nel gennaio del 1993 il Comitato adottò una raccomandazione che invitava l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a richiamare l’attenzione del Segretario Generale e delle altre Istituzioni specializzate dell’ONU sulla questione. In particolare, auspicava che il Segretario Generale effettuasse uno studio sui modi e i mezzi da adottare per migliorare la protezione dei minori dagli effetti avversi del conflitto e avanzava la possibilità di redigere un protocollo addizionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, che stabilisse una soglia di età più elevata per partecipare alle ostilità, cioè 18 anni, rispetto a quella indicata dall’articolo 38. Nello stesso anno, con la Dichiarazione di Vienna, veniva richiesto al Comitato sui diritti dell’Infanzia di riconsiderare l’innalzamento dell’età minima per il reclutamento dei minori nelle forze armate200. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adempì all’invito del Comitato di Ginevra adottando la risoluzione A/48/157 sulla “Protezione dei bambini affetti da conflitti armati” con la quale raccomandava agli Stati di migliorare la situazione dei bambini negli eventi bellici e alle istituzioni delle Nazioni Unite di cooperare al fine di ridurre

197 Sito Internet http://www.unicef.org. 198 Il Comitato sui Diritti dell’Infanzia è stato istituito per monitorare l’applicazione della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 attraverso l’esame di rapporti periodici presentati dai Paesi membri sullo stato di attuazione della Convenzione, ed esprimendo osservazioni e commenti in merito. 199 Può essere utile ricordare che sulla base dell’articolo 75 del proprio regolamento interno il Comitato può dedicare una o più sedute delle sue sessioni regolari ad un dibattito generale inerente ad uno specifico articolo della Convenzione o ad un argomento ad esso connesso. 200 Al paragrafo 50, parte II, si legge: «La Conferenza Mondiale sui Diritti Umani sostiene con vigore la proposta che il Segretario Generale inizi uno studio dei mezzi per migliorare la tutela dei bambini nei conflitti armati […]» (G. Carrisi, op. cit., p. 192).

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l’impatto della guerra sui minori. Inoltre, l’Assemblea richiedeva al Segretario Generale, Boutros Ghali, di nominare un esperto che redigesse un rapporto dettagliato e completo sui problemi vissuti dai minori nei conflitti armati. Una richiesta che portò ad una importante tappa nel cammino delle Nazioni Unite per la promozione dei diritti dei bambini soldato201.

6.4 Lo studio di Graça Machel sull’impatto dei conflitti armati sui bambini Sulla base della risoluzione dell’Assemblea Generale, nel novembre del 1994, il Segretario Generale dell’ONU incaricò Graça Machel, vedova del presidente mozambicano Samora Machel e attuale consorte di Nelson Mandela, già Ministro dell’Educazione in Mozambico, di compiere uno studio esauriente sull’impatto dei conflitti armati sui bambini Il Rapporto Machel ha denunciato la realtà dei bambini vittime del conflitto e protagonisti delle ostilità, favorendo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale sulla gravità del problema. Dopo un periodo di ricerche di quasi due anni, con l’aiuto dell’UNICEF, del Centro delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (l’attuale Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani), e dell’Ufficio delle Nazioni Unite per l’Alto Commissariato dei Rifugiati, il rapporto è stato presentato il 26 agosto 1996 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros Ghali, all’Assemblea Generale riunita nella sua 55ª sessione, con il titolo l’Impatto dei conflitti armati sui bambini202. Nel settembre dello stesso anno l’Assemblea Generale approvò lo Studio, attribuendogli la veste di documento ufficiale delle Nazioni Unite e contribuendo così in modo incisivo all’inclusione del tema bambini e conflitti armati nell’agenda politica internazionale.

201 G. Carrisi, op. cit, pp. 152-153. 202 Può essere utile riportare, sia pure sinteticamente, le “Azioni raccomandate” contenute nel Rapporto Machel:

- Il Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti del bambino, il Radda Barnen, i Quaccheri (seguaci di una setta protestante inglese fondata nel 1647 da Fox, vivono con austera semplicità, non giurano, non celebrano cerimonie religiose, non giocano e non portano mai armi), l’UNICEF, l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, la Croce Rossa Internazionale ed il Movimento della Mezzaluna Rossa dovrebbero essere sostenuti nei loro sforzi per eliminare l’arruolamento dei ragazzi al di sotto dei 18 anni.

- Tutti gli Stati dovrebbero assicurare una rapida e positiva ratifica della bozza del Protocollo Opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti del bambino, che porta a 18 anni l’età per il reclutamento e la partecipazione ai combattimenti.

- Le agenzie delle Nazioni e gli altri attori della società civile internazionale dovrebbero esercitare una diplomazia silenziosa nei confronti dei governi e delle forze armate non statali e dei loro sostenitori internazionali al fine di facilitare l’immediata smobilitazione dei bambini soldato e l’adesione alla Convenzione per i diritti del bambino.

- I media dovrebbero essere incoraggiati a rivelare l’impiego in guerra di bambini soldato e a propugnare la necessità di un loro congedo.

- Tutti gli accordi di pace dovrebbero prevedere l’adozione di misure specifiche per congedare i bambini soldato e reinserirli nella società civile. C’è urgente bisogno che la comunità internazionale sostenga programmi per il congedo dei bambini soldato e il loro reinserimento nella comunità. (G. Machel, Impact of armed Conflict on Children, United Nations A/51/306, 1996).

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Questo rapporto ha contribuito al riconoscimento dell’esistenza dei bambini soldato e ad un avanzamento nella concettualizzazione delle maggiori problematiche relative a bambini e conflitti armati: la riabilitazione degli ex bambini soldato; il problema dello sfruttamento sessuale dei bambini, ed in particolare delle bambine, durante i conflitti; le problematiche specifiche per le bambine soldato; l’impatto delle sanzioni sull’infanzia; la mancanza di istruzione scolastica; il flagello del contagio da HIV; la questione delle mine e delle armi leggere; la smobilitazione e la reintegrazione dei bambini soldato; la lotta contro l’impunità per i crimini commessi contro di loro. Le raccomandazioni del Rapporto Machel furono fondamentali per la creazione nell’ambito delle Nazioni Unite, di un ufficio che tenesse aggiornata la comunità internazionale sulla violazione dei diritti dei bambini durante i conflitti e anche per promuovere ed accelerare l’adozione di nuove misure normative, come il Protocollo Opzionale alla Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia relativo al coinvolgimento dei minori nei conflitti armati. Grazie al Rapporto Machel, le azioni rivolte ai bambini coinvolti nei conflitti armati sono divenute prioritarie nella stessa programmazione del lavoro delle Agenzie e Programmi delle Nazioni Unite e della società civile, sia nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, sia in quello dell’assistenza umanitaria. È negli anni successivi alla pubblicazione del Rapporto che iniziano programmi ed allocazioni di risorse destinate alla smobilitazione, riabilitazione e reintegrazione dei bambini coinvolti nelle guerre, in particolare al loro supporto psicologico, alla loro educazione e alle appropriate opportunità vocazionali, come misure preventive e come modo per reintegrare questi bambini nella società203.

6.5 Rappresentante Speciale del Segretario Generale per i bambini in situazioni di conflitto armato Le raccomandazioni del Rapporto Machel trovarono seguito nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, nella risoluzione 51/77 del dicembre 1996, richiese al Segretario Generale di istituire la figura del Rappresentante Speciale per i bambini e i conflitti armati. Questa decisione evidenzia l’alto profilo che viene dato alla problematica dei bambini in guerra all’interno delle Nazioni Unite. L’Assemblea ne specificò il mandato, prevedendo che tale organo dovesse svolgere le seguenti funzioni204:

1. Funzione programmatica: determinare le misure per migliorare le condizioni dei minori nelle ostilità.

2. Funzione di advocacy: sensibilizzare la comunità internazionale in merito. 3. Funzione di raccordo fra il Comitato dei Diritti dell’Infanzia, gli organismi

competenti delle Nazioni Unite, le istituzioni specializzate e le organizzazioni non governative.

203 G. Carrisi, op. cit., pp. 153-154. 204 Il Rappresentante si reca di persona nei Paesi in guerra, acquisendo le informazioni preziose sulle condizioni dell’infanzia e svolgendo delicate funzioni diplomatiche in favore del rispetto dei diritti dell’infanzia. Egli può essere definito “l’avvocato internazionale dei bambini nelle guerre” (A. Atzori, op.cit., p. 46).

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4. Funzione di sviluppo di una cooperazione a livello internazionale fra i governi nazionali, le agenzie delle Nazioni Unite, i comitati ONU e le organizzazioni regionali, per il rispetto dei minori nei conflitti205.

Il 19 agosto 1997 venne nominato Olara A. Otunnu, ugandese, avvocato con lunghi trascorsi all’ONU (Rappresentante Permanente dell’Uganda presso le Nazioni Unite dal 1980 al 1985) ed esperto di diritto umanitario, costantemente violato nel suo Paese (Presidente della Commissione per i Diritti Umani nel 1983-84). Il Rappresentante presenta ogni anno un dettagliato rapporto all’Assemblea Generale, illustrando le situazioni di conflitto in cui vengono coinvolti i minori, i progressi compiuti e gli ostacoli da affrontare. Il funzionamento dell’ufficio del Rappresentante Speciale si basa soprattutto su contributi volontari da parte degli Stati206. Mentre precedentemente la tematica dei bambini in guerra era limitata all’area dell’assistenza umanitaria all’infanzia in situazioni di emergenza, è stato grazie all’intuito, al duro lavoro e alla sofisticata conoscenza del diritto internazionale di esperti quali Graça Machel e Olara Otunnu che la problematica dei bambini soldato è stata portata ad un livello più alto della politica internazionale. Olara Otunnu, durante il suo mandato, è riuscito a far si che la problematica dei bambini soldato diventasse una priorità nell’agenda di pace e sicurezza internazionale del Consiglio di Sicurezza e in una serie di importanti risoluzioni; ad inserire la protezione dell’infanzia nel mandato delle operazioni di pace delle Nazioni Unite e di organizzazioni regionali quali l’Unione Europea e ECOWAS; a creare un sistema di monitoring and reporting; a promuovere sia la redazione del Protocollo Opzionale sul coinvolgimento dei minori in conflitti armati alla Convenzione 1989, sia quella della Convenzione 182 dell’ILO e dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Il Rappresentante Speciale per i bambini e i conflitti armati si è preposto come elemento di impulso nel sistema delle Nazioni Unite per azioni concrete in favore dei minori esposti al rischio di arruolamento. Il suo operato è stato altamente efficace nella promozione di iniziative orientate all’affermazione dei diritti dei bambini negli eventi bellici, sia nella comunità internazionale sia in specifiche aree geografiche, e nella sensibilizzazione alla tematica. Oggi il ruolo di Rappresentante Speciale è passato a Radhika Coomaraswamy, originaria dello Sri Lanka, che aveva già ricoperto la carica di Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per uno studio sulla violenza sulle donne207.

6.6 Gli strumenti di tutela dei bambini soldato più recenti (1998-2000) La normativa internazionale antecedente al maggio 2000, anno di adozione del Protocollo Opzionale alla Convezione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia era inadeguata rispetto alla gravità del fenomeno, soprattutto riguardo al nodo centrale del problema: l’età minima dell’arruolamento.

205 G. Carrisi, op. cit., pp. 154-155. 206 L’Italia non compare fra i 19 Paesi che hanno finanziato l’operato di Olara Otunnu (L. Bertozzi, op. cit., p. 120). 207 G. Carrisi, op. cit., pp. 155-156.

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Poiché si trattava di una materia ai confini tra la sfera umanitaria e quella dei diritti umani, in quanto categoria presente nei contesti di guerra, questa esigenza è stata recepita da due branche del diritto internazionale: il diritto internazionale umanitario e l’insieme normativo dei diritti umani. La necessità di tutela dei minori ha investito, in entrambe, due aspetti: da una parte la fissazione dell’età minima per prendere parte alle ostilità, dall’altra l’individuazione delle modalità che consentano la partecipazione. La formulazione di quei parametri si è di frequente tradotta in un compromesso giuridico debole, derivante dal concorso di considerazioni militari e valutazioni di sofferenza umana. La debolezza insita in quei dispositivi normativi sembra dedursi dal numero ancora molto alto di minori che partecipano alle operazioni belliche. Forse è la loro inadeguatezza ad aver generato negli anni più recenti una fervente ricettività del fenomeno in ambito internazionale e regionale, permettendo di compiere passi avanti nella promozione giuridica della difesa dei minori. È possibile notare un atteggiamento iniziale restio degli Stati ad accordarsi sui parametri più elevati di protezione per eliminare la figura dei bambini soldato. Significative sono le disposizioni contenute nell’articolo 38 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Questa reticenza ad accordarsi è sfociata negli anni più recenti in una maggiore produzione normativa. Fra il 1998 e il 2000, si sono compiuti passi giuridici di grande valore: dal più recente Protocollo Opzionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (cioè un emendamento dell’articolo 38 della Convenzione), alla Convenzione n. 182 dell’ILO sulle peggiori forme di lavoro minorile (che richiama l’articolo 32 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). 6.6.1 Protocollo Opzionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati

Il Protocollo Opzionale è stato approvato il 25 maggio 2000 ed entrato in vigore il 12 febbraio 2002208. Ha fornito una risposta alla questione dell’età minima dell’arruolamento dei minori sollevata dall’articolo 38 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989. Il provvedimento ha avuto un percorso molto travagliato durato molti anni. E’ infatti entrato in vigore dopo dieci anni di dibattiti nei consessi internazionali. Proprio nel 1992, in occasione della Giornata dei bambini nei conflitti armati, indetta dal Comitato per i diritti dell’infanzia, fu proposto di redigere un Protocollo Opzionale alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia che elevasse a 18 anni l’età minima per l’arruolamento e la partecipazione alle ostilità. Nel 1994 la Commissione ONU sui Diritti Umani decise di costituire un gruppo di lavoro per redigere un Protocollo opzionale, con la Risoluzione 1994/91: Implementation of the Convention on the Right of the Child. Il gruppo di lavoro ONU per diversi anni non è riuscito a pervenire a risultati concreti. Se teoricamente tutti gli Stati erano inclini ad esprimere un parere favorevole all’esigenza di garantire protezione ai minori in guerra, il dibattito stagnava su quattro questioni importanti, ad indirizzo politico, su cui non si riusciva a produrre un accordo: 1) fissazione dell’età minima di partecipazione alle ostilità e di arruolamento; 2) modalità di arruolamento: adesione volontaria o coscrizione?; 3) modalità di partecipazione previste: dirette e/o indirette?; 4) applicazione del Protocollo

208 Risoluzione dell’Assemblea Generale A-RES-54-263 del 25 maggio 2000.

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ai gruppi non governativi209. Nel gennaio 2000 è stato raggiunto un accordo in seno al gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sul Protocollo Opzionale alla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia che ha sbloccato la situazione210. Il Protocollo Opzionale rappresenta un passo importante per la comunità internazionale, innalzando a 18 anni l’età minima per l’arruolamento coercitivo e per la partecipazione diretta nei conflitti, ma non soddisfa completamente le richieste che avrebbero voluto il limite minimo dei 18 anni imposto anche per il reclutamento volontario negli eserciti regolari. Il Protocollo Opzionale prevede l’obbligo da parte degli Stati di non arruolare coercitivamente i minori nelle ostilità e di impedirne la partecipazione attiva. Tuttavia, resta loro la possibilità di arruolare volontari nelle forze armate regolari di età superiore ai 16 anni, purché, come disposto dall’articolo 3, il loro consenso sia “genuinamente volontario”. Inoltre, gli Stati si fanno carico dell’impegno di garantire che i minori di 18 anni non siano reclutati in qualsiasi gruppo armato diverso dall’esercito statale. Infine, il Protocollo stabilisce la cooperazione fra i ratificanti per smobilitare, smilitarizzare e reintegrare i bambini soldato nel loro contesto sociale adeguato. «Questo costituisce una nuova conquista nella protezione dei bambini nelle situazioni di conflitto», ha affermato Olara Otunnu in occasione della conferenza stampa tenutasi a New York. «Ciò offre l’opportunità di monitorare e riferire con maggiore efficienza circa il comportamento delle parti in conflitto relativamente all’arruolamento e all’uso dei bambini nei conflitti». Otunnu ha fatto appello a tutti gli Stati affinché usino la loro influenza per mettere fine all’arruolamento e all’uso dei bambini in guerra. «Dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti disponibili per segnalare, umiliare, isolare e negare ogni legittimità», ha ribadito Otunnu211. Ciò non toglie che i problemi giuridici sollevati e rimasti irrisolti siano davvero molti e tutt’altro che marginali. Infatti, per gli Stati la soglia dei 18 anni vale segnatamente per l’arruolamento coatto e la partecipazione diretta alle ostilità, legittimandosi però ancora indirettamente la modalità di coinvolgimento che più interessa i bambini, ossia quella indiretta. Inoltre, il Protocollo Opzionale per essere operativo deve essere ratificato dagli Stati stessi212. Il 6 maggio del 2000 l’Uganda ha accettato il Protocollo Opzionale alla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. Secondo il Protocollo Opzionale, l’Uganda ha fatto una dichiarazione vincolante, affermando i 18 anni come l’età minima per ogni reclutamento volontario nelle sue forze armate: «Il Governo della Repubblica dell’Uganda dichiara che l’età minima per il reclutamento di 209 Dai dibattiti dei lavori preparatori emerge come le probabilità di alzare la soglia di età per il reclutamento e la partecipazione alle ostilità fossero più elevate nei casi relativi ai gruppi armati, mentre per le forze statali occorresse fissare standard inferiori, e che il Protocollo stava forgiandosi secondo una duplice linea politica, volta a differenziare le previsioni normative a seconda del gruppo di riferimento. Da un lato, cioè, si sarebbero fissati parametri per gli Stati e dall’altra parametri che venivano in rilievo per i gruppi non governativi. Naturalmente, ciò creava un quadro normativo internazionale disomogeneo per le parti che erano coinvolte nello stesso conflitto. Tale progetto di protocollo, inoltre, sintetizzava le posizioni di Gran Bretagna, Pakistan, Canada e Iran, che si battevano per mantenere sui 16/17 anni l’arruolamento volontario, e quella degli Stati Uniti, contrari ad ogni costo ad accettare la soglia dei 18 anni (G. Carrisi, op. cit., p. 158). 210 In tale ambito è da sottolineare che gli Stati Uniti hanno cambiato orientamento, sostenendo per la prima volta la messa al bando dell’impiego nei conflitti armati dei minori di 18 anni (L. Bertozzi, op. cit., p. 129). 211 I. Cipponi, op. cit., pp. 33-34. 212 L’Italia ha ratificato il Protocollo Opzionale con la legge n. 46 dell’11 marzo 2002 (Vedi L. Bertozzi, Ratificati Protocolli Convenzione ONU sui bambini soldato, in “MISNA”, 21 febbraio 2002).

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persone nelle forze armate è secondo la legge di diciotto anni. Il reclutamento è interamente e fermamente volontario e eseguito con il pieno consenso delle persone reclutate. Non c’è arruolamento obbligatorio in Uganda»213. 6.6.2 La Coalizione Internazionale Stop using child soldiers Il risultato ottenuto, dopo dieci anni dall’entrata in vigore della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, cioè l’adozione di un Protocollo Opzionale, non è frutto del caso. Nel giugno del 1998, infatti, è nato un movimento internazionale di organizzazioni e individui che si era posto l’obiettivo di porre fine all’utilizzazione dei bambini come soldati. La Coalizione internazionale Stop using child soldiers è stata costituita da diverse organizzazioni quali: Amnesty International, Human Rights Watch, International Federation Terres des Hommes, Jesuit Refugee Service, Quacker United Nations Office, Radda Banen (for the International Alliance Save the Children). Successivamente si sono aggiunte Defence for Children International, World Vision International e alre ONG regionali dell’Africa, America Latina e Asia214. Una serie di conferenze regionali sono state promosse dalla Coalizione Internazionale per portare all’attenzione degli Stati sia la necessità dell’adozione di un’adeguata normativa a livello internazionale, sia l’opportunità di promuovere una normativa nazionale conforme per i minori di 18 anni. Sulla spinta della coalizione internazionale sono nate coalizioni nazionali od organizzazioni che appoggiano il lavoro della coalizione internazionale in diversi Stati215.

213 «The Government of the Republic of Uganda declares that the minimum age for the recruitment of persons into the armed forces is by law set at eighteen (18) years. Recruitment is entirely and squarely voluntary and carried out with the full informed consent of the persons being recruited. There is no conscription in Uganda». Dichiarazione vincolante depositata al Segretario Generale delle Nazioni Unite quando l’Uganda accettò il Protocollo Opzionale il 6 maggio del 2000 in Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003. 214 Amnesty International è un movimento mondiale di volontari che cerca di prevenire le più gravi violazioni dei diritti umani da parte dei governi. Human Rights Watch effettua delle indagini regolari e sistematiche sugli abusi dei diritti dell’uomo in 70 Paesi. Vigila sul rispetto dei diritti umani da parte di tutti i governi. International Federation Terres des Hommes è una coalizione di movimenti che operano a favore dei diritti dell’infanzia e di uno sviluppo equo, senza nessuna discriminazione fondata sulla razza, sulle opinioni politiche, sulla cultura o il genere. A tal fine sostengono progetti destinati a migliorare le condizioni di vita dei bambini più poveri, delle loro famiglie e comunità. Il punto di riferimento della loro attività è la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia. Jesuit Refugee Service è un’organizzazione impegnata ad assistere e a tutelare i diritti dei rifugiati e degli sfollati, offrendo sostegno pratico, consulenza legale e programmi educativi, prescindere dal credo religioso. È una rete mondiale di enti associati ed istituzioni dei Gesuiti. Quacker United Nations Office-Ginevra rappresenta l’organismo internazionale dei circa 300.000 Quaccheri presenti nel mondo. L’Ufficio di Ginevra opera dal 1923 sul tema dei diritti umani e tutela dei rifugiati, su quello della pace e disarmo. Defence for Children International è un’Organizzazione Non Governativa fondata nel 1979, l’Anno Internazionale del Bambino, per promuovere e tutelare i diritti dell’infanzia. 215 Tra questi Stati non è compresa l’Uganda. In Italia, invece, il 19 aprile 1999 è stata fondata la Coalizione Italiana Stop all’uso dei bambini soldato!, promossa da Amnesty International sezione italiana, Bice Italia, Comitato italiano per l’UNICEF, COCIS, Jesuit Refugee Service, Centro Astalli, Società degli Amici, Quaccheri, Telefono Azzurro, Terre des Hommes Italia, Volontari nel mondo, FOCSIV. Successivamente hanno aderito alla campagna COOPI, Alisei, Save the Children e Intersos. La Coalizione Italiana persegue a livello nazionale gli stessi obiettivi della Coalizione Internazionale: la

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6.6.3 La Convenzione n. 182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulle forme estreme di lavoro minori Un altro elemento sollevato in difesa dei bambini soldato è rappresentato dal fatto che il reclutamento dei minori e la loro partecipazione ai conflitti armati contraddicevano l’articolo 32 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, ossia il diritto di essere tutelati dallo sfruttamento economico e di non essere costretti ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di danni per la loro salute o il loro sviluppo fisico e mentale. Tale diritto è stato rafforzato dall’articolo 3 della Convenzione sulle forme estreme di lavoro minorile, conclusa nel 1999 in seno all’OIL, che classifica l’arruolamento di minorenni allo scopo di partecipare a conflitti armati fra le forme di schiavitù che gli Stati ratificanti si impegnano a rimuovere senza compromessi o dilazioni216. Nell’esaminare il quadro tracciato da questa norma si è detto anche come la forte correlazione fra l’uso di minori negli eventi bellici e le forme estreme di schiavitù sollevi una questione, che prescinde dal problema dell’età minima per essere integrati negli eserciti: equiparando l’arruolamento dei minori ad una forma di lavoro coatto, con l’impiego dei giovani nei dissidi interni gli Stati contravverrebbero implicitamente alla Convenzione sulla schiavitù e ad un principio consuetudinario che ritiene tale pratica un’offesa all’intera comunità internazionale217.

6.7 Le diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU in materia di bambini soldato Benché il quadro del diritto internazionale in materia di bambini soldato si sia ampliato, resta ancora molto da fare per quanto riguarda l’applicazione a livello nazionale degli obblighi assunti dagli Stati e i meccanismi di supervisione dell’attuazione della normativa in atti concreti. Muovendosi su diversi versanti, le Nazioni Unite hanno fatto diverse pressioni sugli Stati membri al fine di veder applicate le normative esistenti218. Un passo molto importante nel sistema delle Nazioni Unite è stato l’inserimento del tema dei bambini coinvolti nelle operazioni belliche nell’agenda del Consiglio di Sicurezza come una questione di pace e sicurezza internazionale219.

conduzione di campagna di sensibilizzazione sul tema e di pressione sulle istituzioni italiane e internazionali per il cambiamento delle rispettive legislazioni. 216 L’Italia ha ratificato il provvedimento con la legge n. 148 del 25 maggio 2000 (L. Bertozzi, op. cit., p. 125). 217 G. Carrisi, op. cit., p. 159. 218 Le iniziative partono dall’inserimento nell’agenda del Consiglio di Sicurezza della problematica dei bambini coinvolti nei conflitti armati come una questione di pace e sicurezza internazionale, alla criminalizzazione dell’atto del coinvolgimento dei minori nelle ostilità nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, alla promozione di interventi concreti di rilevanti organizzazioni regionali. Recentissima poi è l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza di una “lista nera” dei Paesi che arruolano bambini e della creazione di un sistema di monitoring and reporting (G. Carrisi, op. cit., pp. 159-160).

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Già nel 1996, successivamente alla presentazione del Rapporto Machel sull’impatto del conflitto sui minori, il Consiglio di Sicurezza in un incontro informale aveva concentrato la sua attenzione sul tema. Ma è solo con la risoluzione 1261 del 25 agosto 1999 che la tematica dei bambini nei conflitti armati è stata formalmente inserita nel programma del Consiglio di Sicurezza, in quanto questione attinente agli ambiti di sua competenza in merito al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Infatti, in questa risoluzione, il Consiglio di Sicurezza ha formalmente dichiarato che la protezione e la sicurezza dei bambini coinvolti nei conflitti armati rappresentano un tema strettamente connesso con la pace e la sicurezza, e che dunque rientrano legittimamente nella proprie competenze220. Di conseguenza, si è creata la prassi annuale di organizzare un incontro pubblico del Consiglio su questa problematica, che è diventata parte integrante anche dei rapporti regolari del Consiglio di Sicurezza sulle situazioni di conflitto. L’idea di coinvolgere il Consiglio di Sicurezza è frutto anche dell’importante contributo del Rappresentante Speciale del segretario Generale per i bambini e i conflitti armati, Olara Otunnu. Il Consiglio di Sicurezza ha successivamente adottato una serie di risoluzioni in materia che, creando una base di riferimento per la tutela dei bambini nelle situazioni di conflitto, esortano non solo le agenzie delle Nazioni Unite e suoi Stati membri, ma tutti gli attori che possono avere un’influenza sulle situazioni di conflitto221, ad adottare misure per proteggere i bambini dall’impatto dei conflitti. Mentre la prima risoluzione, la 1261 del 1999, si limita ad una condanna del reclutamento dei bambini e ad alcune raccomandazioni, tra le quali la richiesta agli Stati membri di facilitarne la reintegrazione, la risoluzione 1379 del 2001 va oltre. Quest’ultima contiene una serie di importanti raccomandazioni, e soprattutto la richiesta al Segretario Generale di redigere una lista delle parti coinvolte nei conflitti che arruolino o utilizzino i minori nelle operazioni belliche contrariamente agli obblighi internazionali, in circostanze che siano sull’agenda del Consiglio di Sicurezza e che possano minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Pur proponendo per la non obbligatorietà delle risoluzioni è stato rilevato l’alto valore che le connota, dato che per la prima volta vengono resi pubblici i nomi dei trasgressori della normativa. Nella stessa risoluzione viene poi richiesto alle agenzie delle Nazioni Unite e alla Banca Mondiale di finanziare la smobilitazione e la reintegrazione e di dedicare adeguate risorse alla riabilitazione dei bambini coinvolti dei conflitti armati, specialmente al loro supporto psicologico, alla loro educazione e alle appropriate opportunità vocazionali, come misure preventive e come modo per reintegrarli nella società. La risoluzione, inoltre, sollecita gli Stati membri a scoraggiare i corporate actors222 dal commercio con

219 Il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza è da interpretare come ulteriore sforzo da parte del sistema delle Nazioni Unite di indirizzare ed esercitare pressioni sugli Stati verso il rispetto e l’applicazione delle normative internazionali (G. Carrisi, op. cit, p. 160). 220 Sulla base di questa pronuncia il Rappresentante Speciale del Segretario Generale per i bambini e i conflitti armati, Olara Otunnu, ha istituito la figura del Child Protection Advisor (CPA), ossia un tutore speciale dei bambini nei Paesi in guerra. I CPA devono occuparsi, in altre parole, di controllare che gli interessi e le esigenze dei bambini non siano ignorati o calpestati durante le operazioni di peace-keeping, come purtroppo è avvenuto spesso in passato. I CPA lavorano in stretto coordinamento con tutte le Agenzie ONU ed in particolare con l’UNICEF e l’ACNUR, inoltre hanno il compito di formare il personale di peace-keeping, sia militare sia civile (A. Atzori, op. cit., p. 48) 221 I gruppi armati paramilitari, il settore privato (multinazionali e corporate actors), le organizzazioni regionali e le istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale. 222 “Attori corporati”, ossia imprese statali nazionali, gruppi industriali, istituzioni pubbliche.

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le parti coinvolte nei conflitti armati che non proteggano i bambini e a prendere in considerazione l’adozione di misure contro i trafficanti che sono coinvolti in scambi illeciti di risorse naturali, diamanti e armi leggere. Infine, la risoluzione 1379 riconosce, per la prima volta, la guerra come vettore per l’AIDS, sollecita il personale delle operazioni di peace-keeping a seguire corsi di formazione e richiede sostegno di tutte le agenzie dell’ONU per i programmi di prevenzione e per le campagne di informazione223. Un passo significativo è stato l’integrazione della protezione dei bambini negli accordi di pace e nelle operazioni di peace-keeping avvenuta già con la risoluzione 1314 del 2000. La protezione dei bambini è sempre stata assente dagli accordi di pace fino a quando il Rappresentante Speciale, il DPKO (Dipartimento delle Nazioni Unite per le operazioni di Peace-Keeping) e l’UNICEF si sono impegnati in un’azione di lobby con il Consiglio di Sicurezza e con i Paesi in questione224. Nella risoluzione 1314 del 2000 è stato introdotto il tema della correlazione fra il traffico illecito delle armi leggere e delle risorse naturali e il problema dei bambini soldato, ed esprime l’allarme da parte del Consiglio per il nesso fra il commercio illecito in risorse naturali e armi leggere e i conflitti armati. Tale preoccupazione deriva dalla consapevolezza che il commercio illecito delle armi leggere e delle risorse naturali fomenta le circostanze del conflitto, prolungandolo. Rispetto alla risoluzione 1314 del 2000, la risoluzione 1379 del 2001 esamina la questione ed evidenzia elementi di novità: il rapporto esistente fra conflitto armato e terrorismo; un invito agli Stati a porre in essere misure contro i corporate actors, che sono coinvolti in traffici illegali di risorse naturali (diamanti) o armi leggere; nonché l’esortazione ad adottare misure finalizzate a scoraggiare i corporate actors a proseguire i loro commerci con le parti di un conflitto in cui si arruolano bambini. La stessa risoluzione invita anche le organizzazioni regionali e subregionali ad impegnarsi per eliminare i traffici trasnazionali, che possono sortire effetti indesiderati sui fanciulli nelle aree di conflitto. Nella risoluzione 1379/2001, il Consiglio di Sicurezza richiede agli Stati di monitorare e di riportare le modalità con cui le truppe di peace-keeping prestano il loro soccorso ai minori combattenti225. La necessità di addestrare il personale di peace-keeping alla protezione dei minori nel conflitto è rimarcata in tutte le risoluzioni in materia. In esse si richiede di includere programmi di formazione sui bisogni dell’infanzia afflitta dal conflitto, con particolare attenzione alla prevenzione della diffusione dell’HIV e alle pratiche di stanziamento dei minori nelle forze armate. Con la risoluzione 1460 del 2003 il Consiglio ha compiuto un ulteriore passo avanti nella promozione della tutela dei minori durante gli eventi bellici, nominando espressamente coloro che infrangono la normativa internazionale pertinente alla tutela dei minori, riferendosi esplicitamente alla lista di 23 gruppi armati (governativi e non)

223 G. Carrisi, op. cit., p. 161. 224 L’opera di sensibilizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha fatto sì che la problematica dei bambini in guerra fosse inserita stabilmente negli accordi di pace, come nel caso degli accordi di pace in Irlanda del Nord (1998), Sierra Leone (1999) e Burundi (2000), senza contare, inoltre, che anche i governi e i gruppi insurrezionali di Sudan, Colombia e Repubblica Democratica del Congo si sono impegnati in tal senso (G. Carrisi, op. cit., p. 162). 225 Questa avvertenza è stata particolarmente sottolineata nel Rapporto Machel, relativamente a bambini vittime di prostituzione, dovuta all’arrivo delle forze di peace-keeping sul territorio, come tristemente confermato dalle denunce presentate contro operatori di pace in alcune missioni, colpevoli della vergognosa pratica del “food for sex (cibo in cambio di sesso)” contro alcuni minori (G. Carrisi, op. cit., p. 163).

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in 5 situazioni di conflitto (Afghanistan, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Liberia e Somalia), resi noti nel Terzo Rapporto sui bambini e i conflitti armati dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, che reclutano o impiegano i minori nel conflitto. Oltre a richiamare l’attenzione della comunità degli Stati su alcuni trasgressori della normativa internazionale pertinente ai minori, di rilievo è l’impegno del Consiglio ad instaurare un dialogo con le parti in lotta226. Le risoluzione 1539 del 2004 e la 1612 del 2005, oltre a rinforzare le raccomandazioni contenute nelle precedenti risoluzioni, hanno portato ulteriori importanti risultati. Tra le innovazioni più importanti vi sono la creazione di un sistema di monitoring e reporting, e di un Working Group all’interno dello stesso Consiglio, ad hoc, la riorganizzazione delle competenze e responsabilità del sistema ONU finalizzata a dare maggiore ruolo alle agenzie presenti sul terreno, per poter meglio assistere a collaborare con i Paesi interessati a sviluppare dei piani di azione per smobilitare e reintegrare i bambini soldato227.

6.8 Tutela giurisdizionale dei bambini soldato: la Corte Penale internazionale Una delle sfide più grandi è porre fine all’impunità dei crimini commessi contro i bambini in armi. In assenza di meccanismi per sanzionare gli Stati che non adempiono agli obblighi internazionali, un possibile deterrente al coinvolgimento dei minori nelle ostilità da parte dei singoli è la criminalizzazione del loro arruolamento e uso nel conflitto, e la possibilità di perseguire in base al diritto internazionale gli individui responsabili del reclutamento dei minori di 15 anni. Questa possibilità si è aperta con l’entrata in vigore dello Statuto della Corte Penale Internazionale nell’aprile del 2002228, che prevede, tra i crimini di guerra, ogni tipologia di reclutamento (volontario e costrittivo) o modalità di partecipazione ai conflitti (diretta o indiretta) per i bambini d’età inferiore ai 15 anni. Tale norma apre interessanti prospettive alla repressione di questo crimine, poiché con la messa in atto della Corte, l’accertamento di quel reato e la punizione dei colpevoli, a prescindere dalle loro cariche, posizioni militari o istituzioni, sono demandati potenzialmente ad un organo internazionale giuridicamente permanente, complementare alle giurisdizioni nazionali. La criminalizzazione di questo fenomeno oltre a rafforzare la condanna, apre concrete opportunità di repressione delle infrazioni. L’inserimento di queste clausole è stato il frutto di un’intensa negoziazione tra i delegati dei vari Stati coinvolti nei lavori preparatori. Mentre per la Corte Penale Internazionale l’infanzia si estende fino al compimento del 15° anno d’età, le organizzazioni non governative si battevano per portare questa soglia ai 18 anni. Ma la loro richiesta fu

226 G. Carrisi, op. cit., p. 163. 227 G. Carrisi, op. cit., p. 163. 228 Lo Statuto della Corte è stato adottato a Roma dalla Conferenza Diplomatica dei plenipotenziari il 17 luglio 1998. L’11 aprile 2002 le ratifiche necessarie (60) sono state raggiunte o superate, rendendo possibile l’entrata in vigore della sua giurisdizione il 1° luglio 2002. L’Italia è stato il secondo Paese a ratificarlo, il 26 luglio 1999 (L. Bertozzi, op. cit., p. 122).

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accantonata per evitare uno scontro con alcune delegazioni statali che arruolavano volontari diciassettenni, in primis gli Stati Uniti. Nello Statuto della Corte emergono due elementi di rilievo per quanto attiene la fattispecie: da un lato la volontà manifesta di perseguire penalmente coloro che coinvolgono i bambini nelle guerre, e dall’altro l’implicito riconoscimento dell’immaturità dei minori, come garanzia della loro irresponsabilità penale nel caso in cui siano colpevoli di gravi reati. Lo Statuto ha previsto l’impunibilità dinanzi alla Corte di persone di età inferiore ai 18 anni. Scegliendo l’età di 18 anni per sollevare la responsabilità penale di un individuo sono state poste nuove garanzie per i minori in generale e per i bambini soldato in particolare. Molti dei crimini perpetrati dai bambini soldato ricadono tra le competenze della Corte, perciò nella Conferenza dei Plenipotenziari si riconobbe a un civile non ancora diciottenne, accusato di crimine grave, l’impunibilità penale in ragione dell’immaturità ingenerata dall’età e dalle scarse capacità cognitive. Al minore deve essere riservato un trattamento riabilitativo, mirante alla sua educazione, piuttosto che una sua punizione penale. L’Uganda ha ratificato lo Statuto della Corte Penale Internazionale il 14 giugno 2002 e il Procuratore della Corte già dal 2005 ha aperto una investigazione sulla situazione nel nord del Paese per crimini relativi al reclutamento di minori229.

6.9 La Carta Africana dei diritti e del benessere dei bambini A favore dell’innalzamento dell’età minima ai 18 anni si è pronunciata anche l’Organizzazione dell’Africa Unita (OUA), ora Unione Africana (UA)230. L’assemblea congiunta degli Stati europei e africani si è riunita a Strasburgo nella prima settimana di aprile del 1999 e ha elaborato una risoluzione nella quale si chiede agli Stati membri della Convenzione di Lomé di vietare il reclutamento e la partecipazione dei bambini nei conflitti e di elaborare piani per la smobilitazione e il reinserimento sociale degli ex bambini soldato. Riguardo alla legislazione regionale relativa al continente africano, l’OUA ha adottato nel 1990 ad Addis Abeba la Carta Africana sui diritti e il benessere del bambino. All’articolo 22, in cui la Carta si occupa del problema del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, è previsto il rispetto da parte degli Stati contraenti delle leggi del diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati in cui sono coinvolti bambini; è poi previsto che gli Stati prendano tutte le misure necessarie per assicurare 229 G. Carrisi, op. cit., pp. 164-165. 230 L'Organizzazione dell'Unità Africana nacque nel 1963 ad Addis Abeba, a seguito di una conferenza che vide la partecipazione di 32 Stati africani indipendenti. Era un debole organismo intergovernativo, che si proponeva l’unità politica dell’Africa al di là dei confini artificiosamente tracciati dagli europei, nel cui statuto si postulava il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale degli Stati membri. In sostituzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana è stata fondata il 9 luglio 2002, a Durban in Sudafrica, l'Unione Africana. Creata sul modello dell'Unione Europea (ma con poteri ridotti), si pone come obiettivi la promozione della democrazia, dei diritti umani e dello sviluppo in Africa. La sede dell'UA si trova ad Addis Abeba in Etiopia. Il primo Segretario Generale fu il presidente sudafricano Thabo Mbeki. L'UA comprende i Paesi dell'intero continente ad eccezione del Marocco che ha deciso di rimanerne fuori, a causa del riconoscimento da parte dell'Unione dell'indipendenza dell'antica colonia spagnola del Sahara Occidentale, che il Marocco rivendica come parte del suo territorio (http://www.studiperlapace.it).

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che nessun bambino prenda parte diretta alle ostilità. La Carta riprende quindi a livello regionale ciò che era stato affermato nelle varie Convenzioni a carattere universale e anche in essa vengono considerati minori tutti gli individui al di sotto dei 18 anni. Dopo aver richiamato gli Stati all’obbligo di rispettare le norme del diritto umanitario internazionale, l’articolo 22 si occupa dei bambini soldato: «Gli Stati parti della presente Carta devono prendere tutte le misure necessarie per assicurarsi che nessun bambino prenda direttamente parte alle ostilità e in particolare devono astenersi dal reclutare qualsiasi bambino». La Carta è entrata in vigore il 29 novembre 1999 ed anche l’Uganda ne è parte231.

231 I. Ciapponi, op. cit., pp. 34-35.

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Conclusione

Nel loro complesso, i diritti umani dispongono ormai di un grande apparato legislativo in grado di assicurare al minore la protezione di cui ha bisogno, ma la sua grande debolezza è la mancanza di strumenti in grado di garantirne l’attuazione e il rispetto. Il problema rimarrà irrisolto finché tanti governi continueranno ad ignorare le leggi da loro stessi firmate. Malgrado in tutti questi anni si siano fatti grandi passi avanti, migliaia e migliaia di bambini continuano ad essere coinvolti nelle guerre e ad essere vittime della violenza. Questo è quello che accade anche ai bambini del Nord Uganda, dove, come nella maggior parte dei Paesi del Sud del mondo, i diritti garantiti dai trattati internazionali rimangono vuote promesse, mentre la povertà schiacciante e la sostanziale mancanza delle libertà fondamentali danno luogo alla negoziazione dei diritti umani di base. Sia l’LRA sia il governo ugandese violano gli standard internazionali che proibiscono il reclutamento e l’uso dei bambini come soldati. L’Uganda contravviene anche alle sue leggi nazionali, che stabiliscono i 18 anni come età minima per il reclutamento negli eserciti232. Inoltre, l’esercito governativo è stato spesso accusato dalla popolazione civile di non offrire una protezione adeguata di fronte agli attacchi dell’LRA, inclusi i rapimenti dei bambini. In vent’anni di guerra i militari governativi hanno fatto ben poco per migliorare la situazione. Spesso è accaduto che invece di difendere la popolazione dagli abusi commessi dai guerriglieri, siano stati loro stessi a commettere crimini, ammazzando o derubando le persone ai posti di blocco o saccheggiando le capanne. Molte persone in Nord Uganda credono che il resto del Paese non abbia nessuna intenzione di preoccuparsi della loro disperata situazione. Condannano l’LRA e allo stesso tempo non hanno fiducia nel governo. La sistematica violazione dei diritti umani, anche da parte delle forze governative, ha rafforzato questo sentimento di sfiducia233. Il rapporto della Sessione Speciale dell’Assemblea dell’ONU dedicata all’infanzia segnala come il periodo 1990-2000 sia stato un decennio di grandi promesse e di modesta realizzazione degli impegni. Si è data particolare attenzione al problema delle risorse da destinare alla soluzione delle violazioni dei diritti dell’infanzia, capendo che cambiare è possibile e che i diritti dei bambini sono un nodo cruciale per la realizzazione dello sviluppo in ogni Paese. Nessun fine è più importante che costruire un mondo in cui tutti i bambini possano sviluppare pienamente le loro potenziali capacità e crescere sani, dignitosamente e in pace. I bambini del Nord Uganda e quelli di tanti altri Paesi coinvolti in guerre, però, aspettano da troppi anni. Nel febbraio 2004 la delegazione della Commissione per i Diritti Umani del Senato italiano, guidata da Enrico Pianetta e composta anche da Antonio Iovene e Alessandro Forlani, si recò in Nord Uganda, a Gulu, dove verificò le condizioni di migliaia di sfollati e incontrato missionari e volontari italiani di ONG attive nella zona settentrionale del Paese. I senatori vennero ricevuti anche a Kampala dal presidente Museveni. A conclusione della visita, il senatore Iovene riferì alla MISNA che la situazione che avevano trovato nel Nord Uganda era drammatica e si augurava che la

232 Human Rights Watch, Abduction and abuses against children by the Lord’s Resistance Army, 2003. 233 I. Ciapponi, op. cit, pp. 89-90.

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visita potesse servire a far aprire gli occhi alla comunità italiana e internazionale su quella vera e propria emergenza umanitaria. Poi aggiunse: «Lo scenario è estremamente complesso: dietro il genocidio di un’intera popolazione, soprattutto bambini, esiste un intreccio di interessi che vanno evidenziati, denunciati e per quanto possibile combattuti. L’Italia ha una grande, storica presenza in Uganda e ha il diritto e il dovere di dire la sua, sia nei rapporti bilaterali, sia nelle sedi multinazionali in cui è impegnata (Unione Europea e Nazioni Unite)». «Non si può avere una sensibilità per i diritti umani a fasi alterne, a seconda dei rapporti e delle amicizie tra Paesi» disse poi il senatore, precisando che la Commissione, in base agli elementi raccolti durante la missione, avrebbe interrogato il governo su quel che intendeva fare234. Intanto la crisi umanitaria in Nord Uganda è continuata. Una pace durevole può essere costruita solo combattendo le gravi violazioni dei diritti umani e portando avanti una politica di riconciliazione fra le parti in causa.

Sino a quando gli Stati non dimostreranno la volontà di sacrificare interessi economici e militari, di impegnarsi seriamente nel combattere le cause del fenomeno dei bambini soldato o semplicemente di lottare contro la proliferazione delle armi leggere che permettono ai bambini di avere un ruolo nella guerra, i minori saranno sempre coinvolti nei conflitti armati. Le Nazioni Unite hanno condotto una campagna di mobilitazione per la protezione dei bambini esposti alle guerre, che ha portato a importanti risultati e innovazioni: si è venuto a creare un comprensivo corpus normativo internazionale; la tematica è entrata stabilmente nell’agenda di Pace e Sicurezza internazionale del Consiglio di Sicurezza; la protezione dell’infanzia è inclusa negli accordi di pace e nei programmi post-conflitto per la ricostruzione e riabilitazione; la figura del Child Protection Advisor è stata integrata nelle operazioni di pace; le organizzazioni regionali hanno inserito la loro tematica nei loro programmi e politiche; sono state create la Corte Penale Internazionale e le Corti a carattere locale; si sono moltiplicate le raccomandazioni del Consiglio di Sicurezza in materia di armi leggere e commercio illecito di risorse naturali, rivolte sia a Stati sia al settore privato, fino alla creazione del sistema di monitoring and reporting con la risoluzione 1612. Ma tutto ciò non basta, è necessario realizzarle concretamente. Dalla fase dello sviluppo e rafforzamento degli standard internazionali di protezione dei bambini coinvolti nei conflitti armati si deve passare all’effettiva attuazione a livello nazionale dell’impalcatura di norme e raccomandazioni internazionali. Bisognerebbe fare leva sulla cooperazione multilaterale come strumento di pressione politica nei confronti degli Stati in cui il dramma dei bambini soldato continua ad avvelenare gli animi delle nuove generazioni. Per esempio potrebbe essere efficace fare leva sui gruppi che arruolano bambini da parte di quegli Stati o organizzazioni regionali che hanno fama di donatori o forniscono equipaggiamento militare alle parti in lotta. Anche l’azione politica all’interno dei Paesi è molto importante. Occorre promuovere una sensibilizzazione della popolazione locale al problema, in modo che questa possa esercitare una pressione dal basso sul governo e sui gruppi armati che reclamano un ruolo politico. Un altro modo per portare ad una conclusione il fenomeno dei bambini soldato, oltre a quello di sradicare tutto ciò che causa i conflitti armati, è quello di insegnare strumenti

234 Sito Internet http://www.misna.org.

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di non violenza, non solo nelle risoluzioni dei conflitti, ma anche per la loro prevenzione. Insegnare una nuova cultura, che non dovrebbe nascere dal tamburo di una pistola, dai machete bensì dalla partecipazione, dal dialogo, dalla collaborazione, dal perdono, dal rispetto e dalla riconciliazione, è di immensa importanza. Come illustrato nel rapporto di Graça Machel, «I bambini che crescono in un clima di omicidi, rapimenti e terrore tendono a diventare adulti senza sviluppare un’idea di quello che significhi apprendere, giocare, vivere in sicurezza in una casa con la propria famiglia e socializzare con i propri coetanei. E così si ritroveranno a perpetuare un ciclo di violenza». Una cultura della pace per combattere e proteggere i bambini e le future generazioni da ogni forma di sfruttamento compreso il loro reclutamento chiama persone di tutte le culture, fedi religiose, categorie sociali, economiche e politiche e ideologiche di tutto il mondo. Ricordando le parole di Albert Einstein: «Il mondo non è cattivo solo a causa di chi fa del male ma anche a causa di chi guarda e non fa nulla per impedirlo», ci si accorge che la strada per impedire che i bambini siano coinvolti nei conflitti armati è ancora lunga235. Intanto speriamo che i negoziati in corso in Uganda portino finalmente a una pace duratura così che ai bambini nord ugandesi non venga più negata l’infanzia. Non si può delegare all’operato degli organismi politici la soluzione di questi gravi problemi, ogni cittadino del mondo, soprattutto dei Paesi dove c’è la pace, deve collaborare, anche se, apparentemente, con forze molto limitate o inefficaci. Per esempio, se si smettesse di regalare ai bambini e ragazzi armi giocattolo, come già avviene in Svezia, dove questi “doni” diseducativi sono vietati per legge, si inizierebbe a lanciare il messaggio che la guerra e la violenza sono da bandire dalle società civili poiché non provoca divertimento, ma sofferenza e morte. Anche i videogiochi basati sulla violenza, film e spettacoli che propongono scene di efferata crudeltà, dovrebbero essere proibiti soprattutto per i più piccoli. Intanto, le fabbriche di armi e di equipaggiamenti militari godono di “ottima salute”, anche in Italia, a scapito di un’umanità doppiamente sfortunata: quella dei Paesi più poveri ma quasi sempre con risorse appetibili per quelli sviluppati. Il progresso, con il business, non ha portato la pace e allontanato la violenza, ma tende a rendere più malvagi gli uomini che vanno incontro a un mondo peggiore senza regole morali, cancellate da un neocapitalismo selvaggio. I crimini contro l’umanità più indifesa e sfortunata, come i bambini, non devono essere accettati da nessuno, pena la negazione della stessa essenza umana. In nome della religione si sono compiuti e si compiono orrendi misfatti, calpestando il messaggio di Cristo e il fondamentale comandamento del Cristianesimo: «Ama il prossimo come te stesso». Ma parte dei cristiani o presunti tali non praticano l’insegnamento evangelico e la giustizia sociale, e addirittura si arrogano il diritto, con varie motivazioni, di infierire sui più deboli. Se tutti gli uomini avessero come obiettivo il bene degli altri, sicuramente ci sarebbe un mondo migliore, soprattutto per i bambini e le future generazioni che vanno incontro a mille difficoltà e problemi da un punto di vista oltre che umano anche ecologico-ambientale. Purtroppo l’egoismo umano regna ancora su gran parte del mondo. Restare indifferenti di fronte al dolore di tanti nostri simili è quasi esserne complici. I missionari e i volontari delle ONG, mettendo a repentaglio la propria vita, soccorrendo i più sfortunati, sono testimoni mirabili di solidarietà umana.

235 G. Carrisi, op. cit., p. 169.

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Infine, concludendo, la pace resta la condizione da cui non si può prescindere per evitare ai popoli le tragedie causate da stragi, massacri e altre calamità, in primo luogo la fame, che perseguita ancora gran parte della popolazione mondiale.

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ALLEGATI Testimonianze di bambini soldato nel Nord Uganda

Di seguito sono riportate alcune testimonianze di bambini soldato del Nord Uganda che dimostrano la crudeltà di coloro che li hanno costretti a compiere terribili atrocità e descrivono le sofferenze patite da piccoli innocenti, trasformati dagli adulti in spietate macchine per uccidere o seviziare.

La storia di John236 «Sono vissuto per quasi tre anni con Kony», racconta John, un giovane di 17 anni, «I soldati sono venuti di notte al mio paese e hanno distrutto tutte le case. Sono stato catturato insieme ad altri dieci bambini. Siamo stati costretti a camminare notte e giorno per un mese. Ci hanno indottrinato, dovevamo dimenticare i nostri affetti, per rinascere nella “comunità degli eletti”. La disciplina era molto dura e l’addestramento principale era quello di correre per parecchie ore con un sacco di pietre sulle spalle. Sapevamo che il comando era una parola: uccidere, assassinare la nostra gente». Un giorno John riuscì a fuggire e arrivò così all’ospedale di Gulu.

La storia di Mary237 «Sono stata catturata come John, ma non lo stesso giorno. Colui che mi tormentava aveva il soprannome di Palaro, un capo dei ribelli. Mi ha costretta a diventare la sua terza moglie. Dovevo portare tutti i giorni l’acqua, affinché lui si lavasse, dargli da mangiare inginocchiata e dormire con lui quando così desiderava». Un dramma indescrivibile vissuto per tre anni e mezzo. «Una notte decido di fuggire insieme ad altre tre bambine della mia età. Abbiamo camminato giorno e notte. Le gambe erano stanche, ma non ci potevamo fermare, perché la paura di essere catturate nuovamente era terribile: era meglio morire. Finalmente dopo una settimana ci siamo sentite libere». Mary raggiunse il suo obiettivo, ritornare al suo villaggio, ma la sua sofferenza non è finita perché è stata contagiata dall’AIDS. «La violenza a cui sono stata sottoposta non voglio ricordarla mai più, soltanto mi chiedo, come mai nessuno si preoccupa dei bambini e delle bambine sequestrati dalla guerriglia? La sofferenza non è solo quello che ci hanno tolto, ma anche per ciò che ci è rimasto».

236 Testimonianza tratta dal sito della BBC, che contiene anche articoli ed interviste sui bambini soldato http://www.bbc.co.uk. 237 Testimonianza tratta dal Sito Internet http://www.bbc.co.uk.

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La storia di Ogwal238 Ogwal, un ragazzo di 17 anni di Cwero, racconta: «Era notte fonda quando improvvisamente gli olum iniziarono a sparare all’impazzata. Molta gente terrorizzata uscì dalle capanne, così fecero anche i miei genitori e i miei fratellini, mentre il soldati del fortino risposero al fuoco senza però difenderci come avrebbero dovuto. L’attacco durò più di un’ora e si sparava da ogni parte; un vecchio mi cadde addosso colpito alla testa da una pallottola. Poco dopo fui catturato da un ribelle che mi bastonò urlando e io svenni dal dolore. Alle due di mattina mi trovai legato assieme a una ventina di miei coetanei. Avevo paura e piangevo. Eravamo vicini a un fiumiciattolo, a meno di mezz’ora di cammino da Cwero. Ero stato trascinato fin lì da non so chi, incatenato mani e piedi. Improvvisamente, un capitano degli olum ci fece slegare e disse che saremo diventati valorosi combattenti, ma che, per esserlo davvero, avremo dovuto superare una prova. Fummo costretti a fare un girotondo attorno a una bimba del nostro campo, chiamata Lucy, che aveva una gamba fratturata e non poteva camminare. Per dare prova del nostro coraggio ci dissero che avremmo dovuto ammazzarla con la panga. A quel punto molti di noi tentarono di reagire e protestare, ma ci presero tutti a calci. Fummo fatti sedere e improvvisamente calò il silenzio nel piccolo accampamento, illuminato da tre o quattro torce elettriche. Il capitano era alto e aveva uno sguardo terrorizzante. Alle sue spalle, c’era la luna piena che favoriva gli spostamenti notturni. Uno di noi fu costretto a dare il primo colpo. Io chiusi gli occhi ma sentii le urla della bimba. Il capitano passo la panga a un altro e poi fu il mio turno. La poveretta si lamentava e sputava sangue e il mio colpo, il terzo, la finì. “Almeno ha finito di soffrire”, mi dissi per consolarmi. Poco dopo ci misero in fila indiana e ci fu ordinato di seguire i ribelli che aprivano la strada mentre il resto degli olum ci scortava. Camminammo velocemente per un’ora, ma alle prime luci del giorno i soldati ci sbarrarono la strada. Gli olum si misero a urlare e ci costrinsero a fare da scudi umani. Tre o quattro dei miei amici caddero sotto le pallottole. Io mi nascosi sotto i loro corpi mentre nel frattempo i ribelli sparivano nell’erba alta. Fummo liberati dai militari che però prima di portarci a Cwero sottoposero ognuno di noi a lunghi ed estenuanti interrogatori. Li accompagnammo nel pomeriggio sul luogo dove era stata uccisa la nostra compagna e lì demmo degna sepoltura al suo corpo. Una volta a Cwero piansi molto e solo il giorno dopo ebbi il coraggio di raccontare come sono andate le cose ai miei genitori che mi avevano già dato per morto. Loro mi accompagnarono dalla mamma di Lucy e toccò a me dirle che sua figlia era stata uccisa. Era una vedova ed era malata. Non versò una lacrima, credo non ne avesse più perché aveva già perso per colpa dei ribelli il resto della sua famiglia».

238 Questa testimonianza, raccontata direttamente da Ogwal a padre Giulio Albanese a Cwero, un “villaggio protetto” a pochi chilometri dal fiume Asswa, lungo la strada che collega la città di Gulu al centro di Kitgum, è stata tratta dal libro di G. Albanese, op. cit, pp. 28-30.

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La storia di Katy239 Katy viene rapita a 17 anni dai ribelli e assegnata come cuoca ai comandanti. Durante la prigionia rimane incinta e contrae l’AIDS; grazie al suo ruolo all’interno del gruppo le viene risparmiata la vita e dopo diverse traversie riesce a mettersi in salvo. Ora vive a Kampala con i suoi tre figli, una dei quali sieropositiva, come lei. Ma ad una sua compagna è toccato un destino diverso. «Quando i ribelli si sono accorti che nel gruppo c’era una donna incinta, sono andati su tutte le furie: avrebbe rallentato la marcia, e poi non era di buon auspicio. Così hanno scelto un’altra donna del gruppo, una dello stesso villaggio, e le hanno ordinato di ucciderla. E quando hai paura di essere ucciso, uccidi. Poi l’hanno fatta a pezzi e me l’hanno data da cucinare: è stato questo il nostro primo pasto da prigionieri, e non si poteva certo rifiutare, a costo della propria vita». La storia di Alice240 Nel distretto di Gulu, Alice, madre di un bimbo, ha trascorso ben sette anni con gli olum ed è riuscita miracolosamente a fuggire per la disperazione e la sua straordinaria voglia di vivere, racconta così la sua storia. «Vivevo nel villaggio con i miei genitori e sei fratellini e una notte all’improvviso arrivarono i ribelli. ricordo gli spari, le grida, e la gente che scappava da ogni parte pur di salvare la pelle. Mia madre ci fece segno di stare zitti e di rimanere coricati per terra, anche se sapeva molto bene che la nostra capanna si sarebbe potuta trasformare in una micidiale trappola. E in effetti così fu perché gli olum sfondarono la porticina e appiccarono il fuoco al tetto di paglia. Allora fummo tutti costretti a uscire. Mio padre fu colpito alla testa con un bastone mentre mia madre mi si buttò addosso per proteggermi. Ero la più piccola e disse a squarciagola: “Prendete me, lasciatela, è solo una bambina!”. Ma un ribelle, alto e arcigno, mi portò via. Avevo tredici anni e da allora non ho più saputo nulla della mia famiglia; credo sia stata sterminata dagli olum. Da quel momento cominciò una lunga marcia nella savana. Si dormiva al massimo quattro o cinque ore e si mangiava e si beveva una volta al giorno. Dopo diverse settimane raggiungemmo un campo ribelle nei pressi di Juba, in territorio sudanese. Mi fu ordinato di fare la serva di un capo ribelle che aveva otto mogli: dovevo cucinare, spazzare, prendere l’acqua. Se non rispettavo gli ordini alla lettera, mi picchiavano. Un giorno venni a sapere di essere stata destinata come sposa a un giovane olum con cui praticamente ho convissuto fino al giorno della mia fuga. Aveva già tre mogli e io ero la più giovane, ma mentre le altre erano stanziali nel campo, io lo accompagnavo quando andava in safari per combattere in Uganda. Fu allora che rimasi incinta. Volevo piangere perché non amavo il mio uomo, ma se l’avessi fatto sono certa che avrebbe capito il mio malessere e mi avrebbe picchiata, se

239 Testimonianza tratta da S. Morara, Fantasmi. La guerra dimenticata d’Uganda, in www.warnews.it, 1°marzo 2004. 240 Questa testimonianza, raccontata direttamente da Alice a padre Giulio Albanese, è stata tratta dal libro di G. Albanese, op. cit., pp. 61-62.

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non addirittura ammazzata. Era un marito violento, incapace di dare affetto. Partorii nove mesi dopo, sull’erba vicino a Padibe. Nelle settimane e nei mesi che seguirono portai il mio bambino sulle spalle durante i raid nei villaggi. La nostra vita era bestiale e non riuscivo a dare un senso alla follia di Kony e dei suoi seguaci. Per questo motivo una notte abbandonai il campo ribelle, in territorio sudanese, portandomi dietro il bimbo, un sacco pieno di abiti civili e un po’ di cibo. Avevo studiato bene il percorso da seguire e fui sempre molto prudente. Il problema più grande, ogni notte, era mio figlio che piangeva e voleva il latte. Me lo attaccavo continuamente al seno per farlo tacere, ma alla fine, una volta arrivati in Uganda, lo stress fu tale che non riuscii più ad allattarlo. Mi nutrivo di bacche selvatiche e bevevo dove trovavo un po’ d’acqua, ma evitavo di proposito i villaggi per timore di essere nuovamente catturata. Intanto le forze andavano scemando di giorno in giorno e pensai d’essermi ammalata. Ma non potevo mollare. Una mattina, raggiunsi una strada in terra battuta e vidi un uomo in bicicletta, un catechista. Gli spiegai chi ero e lui con grande affetto mi accompagnò da sua moglie che lavorava come infermiera in un dispensario. La loro accoglienza mi trovò impreparata. Avevo subito raccontato per filo e per segno tutte le mie disavventure, avevo spiegato loro che ero un ex ribelle e che quindi mi ero macchiata di crimini orrendi di cui chiedevo perdono a dio. Nonostante questo, si presero cura di me. Due giorni dopo fui accompagnata al Lachor Hospital, il più importante presidio ospedaliero del Nord Uganda, e lì fui sottoposta a diversi esami clinici. Da giorni ero affetta da vari disturbi e non riuscivo a capire che cosa avessi; si trattava di una brutta infezione intestinale che mi fece penare non poco, ma alla fine guarii». Alice oggi abita a Gulu con il suo bimbo e grazie all’aiuto dei missionari ha recuperato la voglia di vivere. Nonostante questo, tutte le notti cerca riparo vicino alla stazione delle corriere, sotto un portico, per timore degli olum.

La storia di Paul Ocwero241 Paul, un giovane ventenne che ha trascorso cinque anni con i ribelli, è riuscito a scappare grazie alla confusione creatasi durante un attacco a un villaggio, ha trovato il coraggio di nascondersi dentro un fosso e di rimanere immobile in mezzo al fango per oltre due giorni, sempre con la paura di essere scoperto. Egli parlando dei suoi trascorsi nell’LRA racconta in particolare un episodio avvenuto verso la fine del 2002, nei pressi di una missione cattolica di Patongo, un evento che ha determinato la sua conversione. «Avevamo deciso di colpire un importante villaggio della zona, perché eravamo stati informati che lì si nascondeva il carico di cibo trasportato da un grosso camion diretto a Kitgum e rimasto in panne. Il nostro capitano ci aveva suggerito di entrare nel centro abitato a bordo di una camionetta dei governativi, sequestrata nel corso di un raid. Visto che indossavamo già uniformi mimetiche, non fu difficile far credere alla gente che eravamo soldati e che dunque non dovevano avere paura di noi. Invitammo tutti a uscire dalle capanne e a quel punto iniziò la strage. Usammo una tecnica già

241 Questa storia, raccontata direttamente da Paul a padre Giulio Albanese a Kitgum, è stata tratta dal libro di G. Albanese, op. cit., pp. 55-57.

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sperimentata in altre circostanze: radunammo i nostri prigionieri in gruppetti di venti-trenta persone al massimo, soprattutto donne, vecchi e bambini al di sotto di dieci anni. i maschi del villaggio, invece, tentarono la fuga e furono quasi tutti freddati a colpi d’arma da fuoco. I prigionieri cominciarono a urlare e per calmarli li prendemmo a bastonate; eravamo certi che terrorizzandoli non avrebbero più avuto la forza di parlare. A un tratto invece il nostro capitano si presentò con il suo machete e cominciò a tagliare la gente a pezzi. Un colpo secco e via. Noi dovevamo fare lo steso. Tra noi ribelli, c’era uno dei più piccoli che raccoglieva pezzi di mani, gambe, dita, orecchi… e li infilava con disinvoltura in un sacco di iuta. A un certo punto mi accorsi che a pochi passi da me c’era una bambina sui dodici anni che aveva tra le mani un crocifisso. Tentai di strapparglielo ma lei si mise in ginocchio e mi disse che mi avrebbe perdonato anche se l’avessi uccisa perché non sapevo quello che stavo facendo. Per me fu come un angelo: capii che ero finito in una condizione di schiavitù e che solo allora stavo riacquisendo, proprio attraverso quella bambina, la libertà che Kony mi aveva portato via. Non riuscii a salvare il mio angelo. Purtroppo arrivò un mio compagno che prima la pugnalò alle spalle poi la sgozzò come un capretto. Feci in tempo a raccogliere il suo crocifisso che infilai in tasca dei pantaloni. Non ne potevo più di vedere quella carneficina e decisi, in cuor mio, che alla prima occasione sarei fuggito. Capii che uccidevo per essere accettato dai miei capi, ma soprattutto perché temevo io stesso di essere ucciso se non avessi fatto il mio dovere come predicato da Kony. Non era vero che tutto era normale, che stavo difendendo il mio paese, il mio popolo, la gente acholi. Stavo facendo l’esatto contrario. Compresi che l’unzione del “wiro ki moo” era una baggianata ideata per farci credere che saremmo stati imbattibili. Massacravo per il gusto di uccidere, con rabbia e fanatismo». Paul è stato affiancato per mesi da uno psicologo, messo a disposizione da una ONG straniera, il quale ha tentato di aiutarlo a superare le angosce che si porta dentro, e che egli stesso fa fatica a decifrare e condizionano non poco il suo comportamento. Il ragazzo è spesso affetto da attacchi di panico e teme che un giorno Kony lo verrà a riprendere per farlo a pezzi.

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