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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE FISICHE E NATURALI CORSO DI LAUREA IN FISICA STEFANIA TROPEA Studio sulla frammentazione del 12 C per lo sviluppo di un nuovo Sistema di Piano di Trattamento in Adroterapia. TESI DI LAUREA Relatori: Chiar.mo Prof. G. Raciti Dott. G. Cuttone Dott.ssa C. Agodi ANNO ACCADEMICO 2007 – 2008

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA

FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE FISICHE E NATURALI

CORSO DI LAUREA IN FISICA

STEFANIA TROPEA

Studio sulla frammentazione del 12C per lo

sviluppo di un nuovo Sistema di Piano di

Trattamento in Adroterapia.

TESI DI LAUREA

Relatori: Chiar.mo Prof. G. Raciti Dott. G. Cuttone Dott.ssa C. Agodi

ANNO ACCADEMICO 2007 – 2008

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Alla mia famiglia.

Ad hoc, ad loc and quid pro quo

so little time so much to know.

Jeremy Hillary Boob, Ph.D. The Nowhere Man in the Yellow Submarine

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I

INDICE

INTRODUZIONE 1

CAPITOLO 1: ADROTERAPIA CON FASCI DI IONI 12C

1.1 INTRODUZIONE: DAI RAGGI-X ALLA TERAPIA CON IONI 12C 5

1.2 LE BASI FISICHE DELL’ADROTERAPIA 12

1.3 LE BASI RADIOBIOLOGICHE DELL’ADROTERAPIA 22

1.4 VANTAGGI DEI FASCI DI IONI 12C 30

1.5 FACILITIES PER ADROTERAPIA CON IONI 12C 35

CAPITOLO 2: BEAM DELIVERY SYSTEMS

2.1 ACCELERATORI PER ADROTERAPIA 39

2.1.1 IL CICLOTRONE 42

2.1.2 IL SINCROTRONE 47

2.2 BEAM SHAPING SYSTEMS 49

2.2.1 PASSIVE SHAPING SYSTEMS 50

2.2.2 ACTIVE SHAPING SYSTEMS 58

2.3 CRITERI DI SCELTA DEL BEAM DELIVERY SYSTEM 62

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II

CAPITOLO 3: INTERAZIONE DEGLI IONI CON LA

MATERIA: GENERALITÁ

3.1. INTRODUZIONE 66

3.2. FRAMMENTAZIONE DEL PROIETTILE 72

CAPITOLO 4: PROGETTO INFN PER UN NUOVO PIANO DI

TRATTAMENTO IN ADROTERAPIA

4.1. INTRODUZIONE 76

4.2. PIANO DI TRATTAMENTO IN ADROTERAPIA 79

4.3. LE BASI DEL MODELLO RADIOBIOLOGICO 82

4.4. LOCAL EFFECT MODEL (LEM) 92

4.5. SVILUPPO DI CODICI MONTE CARLO PER IL TPS 97

CAPITOLO 5: IL DISPOSITIVO SPERIMENTALE

5.1. INTRODUZIONE 100

5.2. GLI ODOSCOPI 103

5.2.1 TECNICA DI IDENTIFICAZIONE ∆E-E 108

5.2.2 PROPRIETÁ DEI DIODI AL SILICIO 110

5.2.3 PROPRIETÁ DEL CRISTALLO DI CsI(Tl) 112

5.3. ELETTRONICA LINEARE 117

5.4. SISTEMA DI ACQUISIZIONE DATI 122

5.5. TRIGGER DELL’ESPERIMENTO 126

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III

CAPITOLO 6: MISURE SPERIMENTALI

6.1. CALIBRAZIONE DELL’ODOSCOPIO 129

6.1.1 INTRODUZIONE 129

6.1.2 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL RIVELATORE ∆E1 131

6.1.3 IDENTIFICAZIONE IN CARICA E MASSA

DEI FRAMMENTI 132

6.1.4 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL RIVELATORE ∆E2 135

6.1.5 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL RIVELATORE CsI (Tl) 136

6.2 ANALISI DEI DATI SPERIMENTALI E RISULTATI 138

6.2.1 FIT DEGLI SPETTRI IN ENERGIA 138

6.2.2 DISTRIBUZIONE ANGOLARE DELLA SEZIONE D’URT O 144

6.2.3 STIMA DELLA SEZIONE D’URTO DIFFERENZIALE 146

6.2.4 PRODUZIONE DI FRAMMENTI IN FUNZIONE DI Z ED A 157

6.2.5 STIMA DEL CONTRIBUTO DI DOSE

DELLE PARTICELLE α 159

CAPITOLO 7: CONCLUSIONI 163

BIBLIOGRAFIA 166

RINGRAZIAMENTI 172

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1

INTRODUZIONE

Da oltre quindici anni a questa parte ormai, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

(INFN) è coinvolto in progetti di ricerca volti alla realizzazione di centri di adroterapia in

Italia. Un caso esemplare è rappresentato dallo sviluppo della facility CATANA (Centro di

Adroterapia ed Applicazioni Nucleari Avanzate), attiva già dal 2002 presso i Laboratori

Nazionali del Sud (LNS) di Catania, e finalizzata alla cura di pazienti affetti da alcuni tipi di

tumore dell’occhio attraverso l’impiego di fasci di protoni di energia pari a 62 MeV,

penetranti nei tessuti fino ad una profondità massima di circa 3 cm e generati da uno dei due

acceleratori attualmente in uso, rappresentato da un ciclotrone superconduttore (CS).

Lo sviluppo di questa tecnica per il trattamento dei tumori ebbe inizio con una

pubblicazione di R.R. Wilson in cui venne proposto, per la prima volta, l’uso clinico di

particelle cariche più pesanti dell’elettrone, come i protoni e gli ioni leggeri, al fine di

superare tutte le limitazioni di carattere fisico e biologico della radioterapia convenzionale.

In base agli studi condotti sul profilo di dose con la profondità di penetrazione di fasci

di protoni, Wilson osservò un rapido aumento della deposizione di energia nel tratto finale

del range delle particelle, noto come picco di Bragg. L’aumento della densità di ionizzazione

alla fine del percorso dello ione garantisce il trasporto di dosi più elevate in corrispondenza di

tumori anche piuttosto profondi, eludendo nella misura massima possibile i tessuti sani

circostanti.

Gli aspetti fondamentali dei fasci di adroni sono rappresentati, inoltre, dalla dispersione

laterale meno pronunciata e dal range più definito rispetto ai fotoni, a cui si aggiunge

l’aumento della densità degli eventi di ionizzazione, su scala microscopica, al termine del

percorso delle particelle, che si traduce in una maggiore efficacia biologica, specie per ioni

più pesanti dei protoni. Quest’ultima proprietà, caratteristica di ioni leggeri come il Carbonio,

può essere sfruttata nel potenziamento della selettività del danno apportato dalla radiazione al

volume bersaglio.

Attualmente, a causa del processo di frammentazione di queste particelle entro il mezzo

attraversato, l’uso di sistemi passivi di degrado in energia in accoppiamento con acceleratori

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come i ciclotroni è preferito nelle terapie con protoni, mentre l’uso dei sincrotroni è

solitamente abbinato ai trattamenti con ioni più pesanti.

Un’alternativa alle scelte dei maggiori centri per adroterapia, basati sulla tecnologia dei

sincrotroni, è rappresentata dalla proposta, in ambito INFN, dei Laboratori Nazionali del Sud

di Catania di realizzare un centro medico basato sull’impiego di un ciclotrone

superconduttore capace di fornire fasci di protoni e di ioni leggeri con energia massima di

300 MeV/u. Il progetto, denominato SCENT (Superconducting Cyclotron for Exotic Nuclei

and Therapy), è basato sull’accoppiamento di un degrader di energia e di un sistema di

selezione magnetica per garantire l’eliminazione di eventuali frammenti dal fascio primario.

Difatti, il passaggio dalla radioterapia convenzionale all’adroterapia richiede, in generale,

nuove tecniche di gestione dei fasci e di pianificazione dei trattamenti, soprattutto in merito

alla conformazione della dose al bersaglio.

In virtù della collaborazione fra i diversi gruppi di lavoro presso l’INFN, si sono

formate specifiche competenze, utili a promuovere lo sviluppo di un nuovo Treatment

Planning System (TPS), che rappresenta l’insieme degli strumenti necessari a tradurre le

prescrizioni relative al rilascio di dose al paziente in tutta una serie di informazioni necessarie

a definire il tipo, l’energia e l’intensità del fascio ed il sistema di distribuzione al bersaglio

che risultino ottimali ai fini del trattamento, specialmente nel caso in cui vengano impiegati

fasci di ioni 12C.

Uno dei componenti fondamentali del TPS è rappresentato dal modello radiobiologico,

ossia di una teoria completa sul meccanismo di interazione della radiazione con il materiale

biologico, in cui bisogna tenere conto degli effetti aggiuntivi dovuti ai frammenti prodotti,

entro il corpo del paziente, e che dipendono in generale dal tipo di particella, dalla sua

energia e dal tipo di cellule irradiate. Fra gli obiettivi futuri del progetto TPS vi è proprio lo

sviluppo di modelli esaurienti, che offrano la possibilità di prevedere i meccanismi

responsabili del danno a livello microscopico, come l’induzione di lesioni complesse alle

strutture elementari delle cellule viventi in funzione della deposizione locale di energia.

L’introduzione della dipendenza dai meccanismi di riparazione della cellula nella

determinazione del danno cellulare ha consentito lo sviluppo del cosiddetto Local Effect

Model (LEM), che rappresenta un modello di riferimento per gli scopi qui presentati, e che

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viene applicato con successo, ormai da circa 10 anni a questa parte, nell’ambito dei piani di

trattamento per la cura dei tumori con l’uso di ioni Carbonio. Il LEM permette

essenzialmente di prevedere la risposta dei sistemi biologici in seguito ad irradiazione con

particelle di un certo tipo ed una certa energia a partire dalla conoscenza della risposta ai

raggi-X, compensando in tal modo la scarsa disponibilità di dati sperimentali relativi ai casi

di interesse clinico.

Le misure analizzate in questo lavoro di tesi, in particolare, rappresentano solo una fase

preliminare di un progetto molto più ampio che coinvolge svariati settori di ricerca scientifica

e che prevede, innanzitutto, la realizzazione di nuovi esperimenti con fasci di energia

differente su diversi tipi di bersagli.

Se si considera il problema della conformazione di dose al bersaglio, l’adattamento

longitudinale del fascio clinico con l’estensione in profondità di un tumore richiede la

variazione dell’energia del fascio incidente. In acceleratori quali i sincrotroni questo può

essere fatto variando direttamente l’energia del fascio con la stessa macchina. Nel caso dei

ciclotroni, invece, poiché l’energia del fascio in uscita è fissata, bisogna interporre degli

elementi esterni, detti energy degraders.

L’impiego di un degrader di energia, ossia di uno spessore di materiale

opportunamente scelto in cui gli ioni del fascio clinico perdono una certa quantità di energia,

rappresenta un modo semplice ed efficace di variare l’energia del fascio stabile in uscita da

un ciclotrone, risultando ottimale nel caso dei fasci di protoni. Diverso è il caso dei fasci di

ioni più pesanti, in particolare degli ioni 12C, che in parte rimangono coinvolti nel processo di

frammentazione nelle interazioni con il bersaglio con conseguente contaminazione del fascio

incidente e possibile incremento della dose al paziente. Si rende, così, assolutamente

necessario un sistema di “pulizia” del fascio dai frammenti indesiderati all’uscita dal

degrader, ottenuto di solito attraverso l’impiego di una serie di elementi magnetici che

operano una separazione spaziale sulla base delle proprietà fisiche dei frammenti stessi:

massa, carica ed impulso. In particolare i dipoli magnetici, obbedendo alla Forza di Lorentz e

per un valore prefissato del campo magnetico B , deflettono gli ioni su traiettorie stabilite, a

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seconda della velocità v e del rapporto AZ fra il numero atomico Z ed il numero di massa

A.

I frammenti prodotti entro un piccolo spessore di materiale o, analogamente, negli

ultimi millimetri dello spessore di un degrader, hanno velocità prossime a quelle degli ioni

Carbonio che emergono dal bersaglio stesso, di modo che l’impiego di un dipolo magnetico

consente di effettuare una selezione dei frammenti, ad eccezione dei casi in cui le particelle

da deviare dal percorso del fascio presentano lo stesso valore del rapporto AZ degli ioni

12C, come nel caso di deutoni, α, 6Li e 10B.

Nella prospettiva della realizzazione di un centro clinico basato su SCENT, il presente

lavoro di tesi si pone, fra gli obiettivi principali, quello di studiare il processo di

frammentazione degli ioni 12C nell’interazione con dei materiali, ottimi candidati per la

realizzazione pratica del degrader di energia. In particolare, le misure analizzate si

riferiscono ad un bersaglio di 197Au, con alto valore di Z, al fine di ridurre la lunghezza del

percorso degli ioni Carbonio entro il materiale bersaglio. Dal momento che la

contaminazione del primario è causata principalmente dalle interazioni che interessano, in

particolare, gli ultimi millimetri dello spessore di un eventuale energy degrader, in fase

sperimentale è stato utilizzato un bersaglio sottile (113.5 µm). Attraverso l’impiego di un

bersaglio spesso, infatti, i frammenti rivelati avrebbero velocità variabili in un ampio

intervallo di valori, a seconda della profondità di penetrazione in cui vengono prodotti

essendo, così, facilmente eliminabili dal fascio tramite il sistema di selezione magnetica.

L’analisi dei dati acquisiti, riferiti ad un fascio incidente di ioni 12C di energia pari a 62

MeV/u, è stata realizzata al fine di ottenere la distribuzione angolare delle rese di produzione

dei frammenti, di pervenire ad una stima della sezione d’urto differenziale ( )Ωddσ del

processo, di valutare le rese di produzione in funzione di Z e del numero di massa A degli

isotopi rivelati e di stimare, infine, il contributo al rilascio di dose ad un eventuale paziente

dovuto ai frammenti non eliminabili dal sistema di selezione magnetica.

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Figura 1.1.1: Una delle prime radiografie eseguite da Röntgen, nel Dicembre del 1895, sulla mano della moglie. Grazie alla scoperta dei raggi-X, nel 1901 il fisico venne insignito del primo Premio Nobel per la Fisica [Hen02].

1. ADROTERAPIA CON FASCI DI IONI 12C

1.1 INTRODUZIONE : DAI RAGGI -X ALLA TERAPIA CON

IONI CARBONIO

Nel Novembre del 1895 W.C. Röntgen, un fisico dell’Università di Würzburg,

effettuando degli esperimenti sul comportamento delle correnti elettroniche (raggi catodici)

nello spazio compreso fra i terminali di un tubo “a scarica”, osservò l’emissione di luce dai

cristalli di Bario posti alla seconda estremità del tubo. La radiazione prodotta, nota ancora

oggi col nome di raggi-X, mostrò capacità penetranti in diversi materiali che furono sfruttate,

inizialmente, come strumento di diagnostica medica, attraverso l’impiego di lastre

fotografiche (Figura 1.1.1), e, successivamente, nelle terapie di tessuti tumorali di diverso

tipo.

Al momento della scoperta dei raggi-X, la natura della radiazione era ancora

sconosciuta, così come non erano noti gli effetti biologici sugli esseri viventi, per cui le prime

applicazioni terapeutiche poggiavano su basi esclusivamente empiriche. Il primo trattamento

venne eseguito con successo a Vienna nel 1896 dal professore L. Freund e rappresentò la

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prima prova scientifica dell’efficacia terapeutica dei raggi-X (sebbene furono osservati gravi

effetti collaterali sulla pelle che si rivelarono, in taluni casi, letali).

Nello sviluppo storico della radioterapia sono individuabili due obiettivi principali

nell’approccio terapeutico: il conseguimento di una maggiore precisione nel rilascio di

energia al volume bersaglio e la possibilità di sfruttare la maggiore efficacia biologica di

determinati campi di radiazione. Numerose tecniche sono state sviluppate ed applicate al fine

di risolvere gli aspetti problematici dei trattamenti basati sull’uso dei raggi-X, rappresentati

dal caratteristico andamento esponenzialmente decrescente della distribuzione di dose con la

profondità e dal fenomeno di scattering laterale. La giustificazione di questi fenomeni va

ricercata nei meccanismi di interazione della radiazione elettromagnetica con la materia

attraversata, rappresentati principalmente dai tre processi schematicamente illustrati in

Figura 1.1.2: l’effetto fotoelettrico, lo scattering Compton e la produzione di coppie

elettrone-positrone. La probabilità che ognuno di questi processi si presenti è funzione

dell’energia del fotone incidente e del numero atomico Z del materiale attraversato.

Figura 1.1.2: Assorbimento fotoelettrico (A): l’energia del fotone incidente è completamente assorbita dall’atomo, che espelle un elettrone orbitale fortemente legato con energia cinetica pari alla differenza fra l’energia del fotone e l’energia di legame dell’elettrone; (B) scattering Compton: il fotone interagisce con un elettrone debolmente legato, che assorbe solo una frazione dell’energia incidente, di modo che il fotone diffuso viaggia con frequenza ridotta; (C) produzione di coppie: per energie incidenti pari o superiori a 1.022 MeV, quantità equivalente in MeV alla massa a riposo di due elettroni, l’energia del fotone è convertita, nel campo nucleare degli atomi bersaglio, in una coppia elettrone-positrone [Wey04].

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In particolare, ognuno di questi processi di interazione comporta la rimozione di un

fotone dal fascio primario, per assorbimento (effetto fotoelettrico e produzione di coppie) o

per deflessione laterale dalla direzione di incidenza (fotone Compton), di modo che il numero

I di fotoni trasmessi dopo aver percorso una distanza d entro il materiale assorbente

obbedisce alla seguente legge di decadimento esponenziale:

deII µ−= 0 (1.1)

dove I0 è il numero totale di fotoni incidenti e µ è il coefficiente di attenuazione lineare,

definito come la somma delle sezioni d’urto dei tre processi di interazione per unità di

lunghezza di cammino. La relazione (1.1) spiega dunque l’impossibilità di associare un range

ben definito alla radiazione elettromagnetica penetrante nella materia, biologica e non.

Specialmente nel trattamento dei tumori collocati in profondità nel corpo del paziente,

l’energia dei fotoni venne aumentata al fine, soprattutto, di ridurre il rilascio indesiderato ai

tessuti sani circostanti, di modo che i tubi a raggi-X furono presto sostituiti dalle sorgenti di 60Co prodotte nei reattori nucleari, capaci di generare raggi-γ di alta energia (γ1: 1.173 MeV,

γ2: 1.332 MeV), noti come 60Co-γ. In questo caso l’energia della radiazione incidente è

sufficientemente elevata da produrre elettroni Compton ad angoli piccoli rispetto alla

direzione di incidenza del fascio, causando un aumento della cessione di energia entro i primi

centimetri di percorso entro il tessuto.

Attualmente, come sorgenti di radiazione per la moderna terapia con fasci collimati, i

radioterapisti utilizzano i cosiddetti Electron Linacs1, acceleratori lineari in grado di fornire

sia fasci di elettroni approssimativamente monoenergetici, tipicamente nel range di 3÷4 MeV

e di 20÷25 MeV, sia fasci di fotoni, ottenuti rallentando gli elettroni accelerati entro un

bersaglio spesso (elettroni di bremsstrahlung2). La Figura 1.1.3 mostra le curve di

trasmissione in profondità della dose in acqua (energia media assorbita per unità di massa)

per fasci di fotoni prodotti da un acceleratore lineare. Dal grafico di vede chiaramente il

picco di dose a circa 3,5 centimetri di profondità per un’energia massima di 25 MeV, seguito

1 I Linac per elettroni si basano su una struttura detta Travelling Wave in cui l’energia richiesta per accelerare le particelle è fornita da generatori di tensione alternata alla frequenza delle microonde (tipicamente 3 GHz). 2 L’interazione degli elettroni con la materia può avvenire sia per collisioni con gli elettroni degli atomi bersaglio, che attraverso il processo di scattering nel campo coulombiano nucleare, con conseguente emissione di radiazione elettromagnetica, detta di frenamento o di bremsstrahlung.

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Figura 1.1.3: Curve dose-profondità in acqua per fasci di fotoni aventi energie massime nell’intervallo tra 6 e 25 MeV [Ama95].

dal caratteristico assorbimento di tipo esponenziale descritto dalla (1.1). La posizione del

picco corrisponde al percorso massimo degli elettroni secondari prodotti negli strati

superficiali del tessuto irraggiato, per cui il rilascio di dose alla cute, per fotoni di alta

energia, è da considerarsi relativamente basso.

I fasci di fotoni prodotti da un Electron Linac, caratterizzati da una bassa diffusione

laterale, sono adatti all’irraggiamento selettivo di bersagli situati ad una profondità di alcuni

centimetri dalla cute. In particolare, sono state sviluppate tecniche sofisticate che implicano

l’utilizzo, in istanti successivi, di molteplici punti d’ingresso del fascio, focalizzato

solitamente nel centro geometrico del target, secondo la cosiddetta tecnica di Intensity

Modulated Radiation Therapy (IMRT). Al fine di applicare questa tecnica è necessario che

l’intera struttura acceleratrice ruoti intorno ad un punto fisso nello spazio, detto isocentro, e

facendo uso di collimatori ad apertura variabile (multileaf collimators) è anche possibile

conferire al fascio la forma e le dimensioni del volume bersaglio. Altre tecniche sfruttano

l’impianto di sorgenti radioattive, che emettono fotoni poco penetranti nei tessuti,

direttamente entro la regione di interesse, in modo da ottenere un’esposizione conforme al

target.

Diversamente, i fasci di elettroni sono caratterizzati da un percorso massimo nel

tessuto, funzione dell’energia iniziale, al di là del quale si ha una coda di bassa intensità,

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Figura 1.1.4: Curve dose-profondità in acqua per fasci di elettroni nell’intervallo energetico tra 4.5 e 21 MeV [Ama95].

dovuta ai fotoni di bremsstrahlung. La penetrazione massima (calcolata nel punto in cui la

dose si è ridotta al 5% del valore di picco), espressa in centimetri, è praticamente uguale a

metà dell’energia iniziale del fascio, espressa in MeV, come risulta visibile in Figura 1.1.4.

Queste caratteristiche rendono i fasci di elettroni particolarmente adatti al trattamento di

focolai superficiali o semiprofondi, a qualche centimetro dalla superficie cutanea.

Tuttavia la radioterapia convenzionale descritta fin qui non risulta sempre adeguata,

specie nel trattamento di tumori profondi caratterizzati dalla presenza di cellule scarsamente

ossigenate (ipossiche), che mostrano una radioresistenza tre volte superiore rispetto alle

cellule normali. In questi casi la radiazione elettromagnetica viene sostituita da fasci collimati

di adroni, come i neutroni, i pioni, i protoni e gli ioni leggeri (Elio, Carbonio, Ossigeno e

Neon).

Neutroni di energia superiore a circa 0.5 MeV (neutroni veloci) rappresentano il primo

esempio di impiego degli adroni nei trattamenti radioterapici: le interazioni di neutroni veloci

con il materiale biologico (ricco di Idrogeno) sono dominate dalle collisioni elastiche

neutrone-protone in cui circa l’80%-90% dell’energia iniziale è trasformata in energia

cinetica del protone di rinculo che provoca, a sua volta, eccitazione e ionizzazione degli

atomi e delle molecole del mezzo. Dal punto di vista del trattamento di tumori radioresistenti,

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i fasci di neutroni consentono migliori prestazioni in virtù della maggiore efficacia biologica

rispetto ai fotoni ma, a causa di una distribuzione di dose con la profondità simile a quella dei

raggi-X, i danni apportati ai tessuti normali al di fuori del volume bersaglio sono inaccettabili

e responsabili di gravi effetti collaterali.

Grandi speranze furono successivamente riposte nell’uso di fasci di pioni negativi,

capaci di produrre una dose aggiuntiva, specie alla fine del percorso entro il mezzo

attraversato. In questa regione si presenta un rilascio di energia addizionale dovuto al

processo di cattura dei pioni incidenti da parte dei nuclei bersaglio ma, nonostante ciò, gli

studi clinici hanno mostrato un’efficacia biologica insoddisfacente per cui, dopo i trattamenti

eseguiti su circa 1000 pazienti, le applicazioni con fasci di pioni sono state definitivamente

abbandonate.

Al fine di superare tutte le limitazioni di carattere fisico e biologico della radioterapia

convenzionale, venne proposto per la prima volta da R.R. Wilson, in una sua pubblicazione

del 1946 [Wil46], l’uso clinico di particelle cariche più pesanti dell’elettrone, come i protoni

e gli ioni leggeri. In base agli studi condotti sul profilo di dose con la profondità di

penetrazione di fasci di protoni, prodotti dal ciclotrone di Berkeley, Wilson osservò un rapido

aumento della deposizione di energia nel tratto finale del range delle particelle, noto come

picco di Bragg, già evidenziato nel 1903 dalle misure effettuate da W. Bragg per particelle α.

L’aumento della densità di ionizzazione alla fine del percorso dello ione garantisce il

trasporto di dosi più elevate in corrispondenza di tumori anche piuttosto profondi, a

differenza di quanto accade con l’uso di fasci di fotoni. In Figura 1.1.5 è mostrato

l’andamento della dose in funzione della profondità per diversi tipi di campi di radiazione

[Kra00].

Gli aspetti fondamentali dei fasci di adroni, dal punto di vista della pratica clinica, sono

rappresentati inoltre dallo scattering laterale meno pronunciato e dal range più definito

rispetto ai fotoni, che corrisponde ad un decremento più netto del rilascio di dose oltre il

picco di Bragg, a cui si aggiunge l’aumento della densità degli eventi di ionizzazione, su

scala microscopica, al termine del percorso delle particelle, che si traduce in una maggiore

efficacia biologica, specie per ioni più pesanti dei protoni. Quest’ultima proprietà,

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Figura 1.1.5: Confronto tra il profilo di dose con la profondità degli ioni Carbonio, di energia pari a 250 e 300 MeV/u, e quello relativo a diversi tipi di radiazione (raggi-X, 60Co-gamma e fotoni di bremsstrahlung) [Kra00]. Con u si indica l’unità di massa atomica, pari a circa 931.49 MeV/c2.

caratteristica di ioni leggeri come il Carbonio, può essere sfruttata nel potenziamento della

selettività del danno apportato dalla radiazione al volume bersaglio.

.

Il passaggio dalla radioterapia convenzionale all’adroterapia richiede, in generale,

nuove tecniche di gestione dei fasci e di pianificazione dei trattamenti, soprattutto in merito

alla conformazione della dose al bersaglio. Nei primi test clinici effettuati a Berkeley, nel

1954 con protoni, nel 1957 con particelle α e nel 1975 con ioni Neon, i fasci terapeutici

venivano distribuiti entro il target mediante l’uso di sistemi passivi (passive shaping sistems),

come diffusori, modulatori e compensatori presi in prestito dalle terapie convenzionali, ma

con l’aggiunta di opportune modifiche. Con tali strumentazioni i fasci di ioni venivano

trattati alla stregua di fasci di fotoni, non mettendo a frutto la loro caratteristica più

importante, ossia la carica elettrica, che li rende più facilmente rivelabili, consentendone il

controllo direzionale attraverso l’impiego di campi magnetici. Questo principio è alla base

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della progettazione dei sistemi attivi di distribuzione di dose al bersaglio (active shaping

sistems), descritti con maggiori dettagli nel Capitolo 2.

I primi trattamenti furono così realizzati adattando, alla terapia dei tumori, i fasci

prodotti da acceleratori di particelle originariamente costruiti per gli esperimenti di fisica

nucleare. Questo è il caso della prima unità di adroterapia con protoni e ioni leggeri presso il

Lawrence Berkeley Laboratory (LBL) negli USA, oggi non più operativa, e dell’Harvard

Cyclotron Laboratory (HCL), il centro di protonterapia più longevo, istituito nel 1961, che

vanta il più grande numero di pazienti trattati con successo.

Il primo impianto dedicato alla protonterapia, basato su una struttura ospedaliera, è

rappresentato dallo statunitense Loma Linda University Medical Center (LLUMC), operativo

dal 1990, dove vengono eseguiti circa 1000 trattamenti per anno mentre, per quanto riguarda

le applicazioni mediche degli ioni Carbonio, la prima facility è nata in Giappone, presso

l’Heavy Ion Medical Accelerator in Chiba (HIMAC), entrato in funzione nel 1994.

Un importante risultato, dal punto di vista tecnologico, ottenuto al LLUMC, è

rappresentato dalla recente progettazione di sistemi mobili per la distribuzione del fascio, le

cosiddette testate isocentriche (gantries), che consentono l’irraggiamento del paziente da una

qualsiasi direzione spaziale e, conseguentemente, una conformazione ottimale della dose al

bersaglio.

1.2 LE BASI FISICHE DELL ’ADROTERAPIA

La motivazione principale su cui si basa l’utilizzo dei fasci di particelle cariche nel

trattamento dei tumori, in alternativa alla radioterapia convenzionale, è racchiusa nel

cosiddetto profilo inverso della distribuzione di dose con la profondità di penetrazione nei

tessuti (picco di Bragg), caratterizzato dalla deposizione di una frazione relativamente

piccola dell’energia totale nella regione d’entrata (plateau), più prossima alla pelle, e da un

netto aumento con successiva rapida caduta in prossimità della fine del percorso. La

profondità a cui si trova il picco di Bragg dipende dall’energia iniziale delle particelle e la

sua larghezza, solitamente dell’ordine di pochi millimetri, dipende dalla dispersione

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Figura 1.1.6: Curve di Bragg per un fascio di ioni. La curva (a) si riferisce al picco di Bragg puro (Pristine Peak), mentre la curva (b) rappresenta l’andamento del SOBP, caratterizzato da diverse regioni: il plateau, le regioni prossimale e distale (Proximal Peak e Distal Peak), la regione centrale (Midpeak) ed infine la coda (Tail) [Chu06].

energetica del fascio. Queste caratteristiche accrescono la selettività fisica, permettendo di

ottenere un rilascio di dose estremamente elevato nei tumori profondi e mantenere, allo

stesso tempo, il carico di radiazione ai tessuti sani posti sul percorso del fascio a livelli molto

più bassi rispetto a quelli ottenibili con l’impiego di fasci di fotoni o di elettroni. Inoltre, la

distribuzione di dose risulta fortemente localizzata sia in direzione longitudinale che in

direzione trasversale, in quanto le particelle cariche sono interessate da processi di scattering

laterale con probabilità decrescente all’aumentare del numero atomico e del numero di

massa.

Dal momento che molti tumori possono estendersi fino ad una profondità di circa 10

centimetri, è indispensabile, in questi casi, aumentare opportunamente la larghezza del picco

di Bragg, variando l’energia del fascio in modo ben controllato, così da poter costruire il

cosiddetto picco di Bragg allargato (Spread Out Bragg Peak, SOBP) mediante la

sovrapposizione di numerosi picchi, definiti a varie profondità. In Figura 1.1.6 è mostrato il

confronto tra l’andamento del SOBP ed il picco di Bragg puro ottenuto in corrispondenza del

valore massimo dell’energia incidente [Chu06].

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Dalla Figura 1.1.6 si evince che per gli ioni leggeri la dose superficiale non supera il

60% circa del valore corrispondente al SOBP, quando questo è largo circa 5 centimetri,

mostrando comunque una riduzione del rapporto fra dose di picco e di plateau rispetto alla

curva di Bragg di un fascio monoenergetico. Questo risultato è ugualmente soddisfacente se

si considera che la distribuzione di dose di un fascio di fotoni raggiunge il valore massimo a

circa 2-3 centimetri dalla superficie (Figura 1.1.5).

Nel caso di un fascio di particelle cariche nell’intervallo di energie di interesse clinico,

ossia fra 70 e 400 MeV/u, il principale meccanismo responsabile della perdita di energia

degli ioni é rappresentato dall’interazione Coulombiana con gli elettroni orbitali degli atomi

del mezzo. In particolare, attraversando un certo spessore di materia, le particelle cariche

collidono simultaneamente con gli elettroni più prossimi alla traiettoria cedendo, in ogni urto,

una piccola frazione della propria energia cinetica iniziale, in misura sufficiente a produrre

l’eccitazione o la ionizzazione degli atomi del mezzo, secondo lo schema di Figura 1.1.7.

Nel primo caso (collisioni soft) l’energia trasferita all’elettrone comporta solo un salto

dal livello fondamentale ad uno eccitato mentre, nel secondo caso (collisioni hard), si ha la

rimozione dell’elettrone dall’atomo con conseguente produzione di una coppia elettrone-ione

Figura 1.1.7: L’energia del proiettile è ceduta in piccole frazioni agli elettroni degli atomi bersaglio (raggi-δ) che, in alcuni casi, vengono emessi con energia sufficientemente elevata da produrre eventi di ionizzazione secondaria e formare così delle tracce individuali [Wey04].

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positivo che, in generale, tende a ricombinarsi, a meno che l’elettrone strappato non abbia

acquisito un’energia cinetica tale da causare eventi di ionizzazione secondaria (questi

elettroni energetici di rinculo sono noti come raggi-δ).

Si osserva che, oltre le collisioni inelastiche, possono presentarsi anche altri processi di

interazione fra gli ioni incidenti e gli atomi del mezzo come, ad esempio, l’eccitazione e la

ionizzazione del proiettile, la cattura elettronica, il rinculo nucleare, l’emissione di radiazione

elettromagnetica ma, soprattutto, le reazioni nucleari che saranno trattate in modo generale

nel Capitolo 3. Nell’intervallo di energie in gioco e trattandosi di particelle incidenti

relativamente leggere, è ragionevole assumere trascurabile il contributo di tali processi alla

perdita di energia entro il mezzo assorbente.

La grandezza fondamentale che descrive le interazioni di natura elettromagnetica degli

ioni con la materia è rappresentata dallo stopping power lineare S, definito come la perdita di

energia cinetica media per unità di lunghezza del percorso della radiazione che, quindi, può

esprimersi come:

dx

dES −= . (1.2)

L’espressione della perdita di energia specifica S fu determinata inizialmente da Bohr,

sfruttando argomentazioni classiche, e successivamente fu calcolata da Bethe e Bloch sulle

basi quantistiche della teoria perturbativa, ottenendo la relazione [Leo94]:

−−−

=−

Z

C

I

Wcmz

A

ZcmrN

dx

dE eeeA 22

2ln2 2

2max

222

2

222 δβγβ

βρπ , (1.3)

comunemente nota come formula di Bethe e Bloch, valida per particelle cariche, distinte dagli

elettroni, ad energie relativistiche nell’intervallo che va da qualche MeV a qualche GeV ed

espressa nel SI delle unità di misura.

Tutte le variabili in gioco nella (1.3) sono definite in Tabella 1.1.

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Simbolo Definizione Unità di misura o Valore

NA Numero di Avogadro 6.0221367 × 1023 mol-1

( )20

2 4 cmer ee πε= Raggio classico dell’elettrone 2.817940325 × 10-13cm

mec2 Energia a riposo dell’elettrone 0.510998918 MeV

ρ Densità del mezzo g × cm-3

Z Numero atomico del mezzo Adimensionato

A Massa atomica del mezzo g × mol-1

z Carica particella incidente Coulomb-1

cv=β Termine relativistico Adimensionato

v Velocità particella incidente cm/s

211 βγ −= Termine relativistico Adimensionato

Wmax Massima energia trasferita eV

I Energia di eccitazione media eV

δ Correzione per effetto-densità Adimensionato

ZC Correzione di shell Adimensionato

Tabella 1.1: Descrizione delle grandezze fisiche presenti nella formula di Bethe e Bloch.

In particolare Wmax rappresenta l’energia cinetica massima trasferibile ad un elettrone

libero in una singola collisione con il proiettile, I denota l’energia di eccitazione media degli

atomi del mezzo, mentre i parametri δ e C/Z costituiscono dei termini correttivi, necessari nel

limite delle alte e delle basse energie rispettivamente.

La correzione δ per effetto-densità è significativa solo quando l’energia cinetica del

proiettile è confrontabile o maggiore dell’energia della sua massa a riposo: in tal caso, il

campo elettrico dello ione incidente tende a polarizzare gli atomi del mezzo in prossimità

della sua traiettoria. A causa della polarizzazione così indotta, gli elettroni lontani dal

cammino della particella verranno schermati dall’intensità totale del campo di radiazione e,

di conseguenza, collisioni inelastiche con questi elettroni contribuiranno in misura minore

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alla perdita di energia totale rispetto a quanto previsto della formula di Bethe e Bloch. Tale

effetto risulta tanto più rilevante quanto più denso è il materiale attraversato.

D’altra parte la correzione C/Z di shell assume importanza nel caso in cui la velocità

del proiettile è confrontabile o minore della velocità orbitale degli elettroni legati agli atomi

del mezzo. In questo intervallo di energie la (1.3) inizia a perdere di validità in quanto lo ione

incidente, carico positivamente, tende ad acquistare elettroni riducendo così il suo stato di

carica e, di conseguenza, anche il ritmo di perdita di energia. Al fine di estendere la formula

di Bethe e Bloch in questo limite di basse energie, tali che cv 05.0≈ , occorre sostituire la

carica Z del proiettile con la carica effettiva Zeff espressa, con buona approssimazione, dalla

formula di Barkas [Bar63]:

)1(3

2

125−

−−= Zeff eZZ β . (1.4)

La relazione funzionale tra lo stopping power lineare e l’energia della particella

incidente è mostrata in Figura 1.1.8 per le diverse specie ioniche di interesse clinico.

Nel limite non relativistico, la dipendenza di S dall’energia è racchiusa nel termine

)1()1( 2 E≈β della (1.3) di modo che la rapidità con cui il proiettile perde energia nel mezzo

aumenta nettamente al decrescere dell’energia cinetica lungo il percorso di penetrazione, fino

Figura 1.1.8: Perdita di energia per diversi ioni di interesse in campo terapeutico in funzione dell’energia cinetica iniziale [Sch91]

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al raggiungimento di un massimo per piccoli valori di energia residua, nell’intervallo tra 0.1

ed 1 MeV, in cui la particella prosegue per pochi millimetri prima di fermarsi. Al termine del

percorso la perdita di energia specifica decresce bruscamente a causa della riduzione della

carica effettiva Zeff che si presenta al tendere a zero della velocità, in accordo con la relazione

(1.4). Graficando l’andamento della densità di ionizzazione prodotta da una particella carica

rispetto alla profondità di penetrazione si osserva una deposizione di energia

approssimativamente costante nel canale d’ingresso (plateau) mentre alla fine del percorso si

presenta un picco ben definito, in stretta analogia con il picco di Bragg.

Si osserva che, mentre lo stopping power descrive la perdita di energia specifica della

particella incidente, la dose assorbita si riferisce alla distribuzione spaziale dell’energia

depositata nel mezzo sia direttamente, per mezzo di eventi di ionizzazione dovuti agli ioni del

fascio primario, che indirettamente, per ionizzazione causata da particelle secondarie, come

gli elettroni-δ. Nella maggior parte dei casi pratici, inoltre, può ritenersi soddisfatta, in un

punto generico del mezzo attraversato, la condizione di equilibrio elettronico in base alla

quale l’energia radiante trasportata dagli elettroni secondari entro un volume infinitesimo

intorno al punto considerato è uguale, in media, a quella uscente. Fatta questa assunzione, se

si considera un volume bersaglio, di dimensioni finite, in cui lo stopping power del fascio

monoenergetico di particelle cariche sia approssimativamente costante, si definisce dose

assorbita D l’energia depositata per unità di massa [ICRU70], misurata in Gray ( kgJGy = )

ed espressa dalla relazione:

[ ] [ ]

×Φ×

×= −−

g

cmcm

m

keV

dx

dEGyD

329 1

)106.1(ρµ

, (1.5)

dove dxdE è la perdita di energia, ρ è la densità del mezzo mentre Φ è la fluenza delle

particelle, data da:

dA

dN=Φ , (1.6)

ossia dal rapporto fra il numero medio dN di particelle incidenti su un elemento di superficie

sferica dA, supposta perpendicolare alla direzione di propagazione.

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La descrizione del meccanismo di propagazione di una particella carica entro un mezzo

come un processo di continuo rallentamento, con un ritmo di perdita di energia rappresentato

dalla formula di Bethe e Bloch, permette di definire il cosiddetto range medio R(E0) secondo

la relazione:

∫−

=0

0

1

0 )(E

dEdx

dEER , (1.7)

che fornisce, con buona approssimazione, la lunghezza del percorso medio di uno ione di

energia incidente pari ad E0. In realtà, dal momento che le interazioni fra le particelle

penetranti e gli atomi bersaglio avvengono in modo casuale, la perdita di energia è da

considerarsi un processo statistico, soggetto a fluttuazioni attorno al valor medio, che si

riflette in un effetto di dispersione anche dei valori del range, noto come fenomeno di range

straggling (§ 2.3.1).

La distribuzione di perdita di energia è caratterizzata da un andamento quasi Gaussiano

prodotto, in particolare, dai numerosi processi di diffusione multipla che interessano, in

misura maggiore, il fascio di ioni nel suo insieme, piuttosto che la singola particella,

implicando un aumento della larghezza del picco di Bragg. Inoltre, l’effetto di dispersione

diventa più significativo al crescere dell’energia incidente di modo che, all’aumentare della

profondità di penetrazione, l’ampiezza del picco di Bragg aumenta, mentre la sua altezza

tende a diminuire a causa del maggior numero di reazioni nucleari avvenute lungo il

cammino del fascio. Al variare della specie ionica, l’effetto di range straggling varia con

l’inverso della radice quadrata del numero di massa cosicché, a parità di percorso, gli ioni più

pesanti presentano un picco di Bragg più stretto, una caduta distale più rapida ed una coda

dovuta ai frammenti prodotti nelle reazioni con i nuclei bersaglio. Nei tessuti la dispersione

di cammino associata ad un fascio di protoni è pari a circa l’1% mentre per ioni Carbonio è

intorno allo 0.03%, come mostrato in Figura 1.1.9, a dimostrazione delle migliori qualità dei

fasci di Carbonio rispetto ai protoni.

Dal punto di vista delle applicazioni cliniche, la dispersione laterale del fascio assume

un ruolo fondamentale, specialmente nel caso in cui il volume tumorale è posto in prossimità

di organi critici. In questi casi l’incertezza sul range delle particelle rappresenta un grosso

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Figura 1.1.9: Confronto tra le distribuzioni di dose con la profondità relative ai protoni ed agli ioni Carbonio di diversa energia. Si osserva l’attenuazione del picco di Bragg all’aumentare dell’energia del fascio di Carbonio, la coda dovuta al processo di frammentazione e la migliore definizione del range nel confronto con i protoni [Wey04].

limite nella definizione dei parametri del trattamento, che può essere compensato soltanto

dall’informazione sulla dispersione angolare del fascio.

Il fenomeno di scattering laterale è il prodotto delle ripetute collisioni elastiche dovute

all’interazione Coulombiana tra proiettili e nuclei bersaglio, a cui si aggiunge il contributo

delle reazioni nucleari, specie nella regione distale del picco di Bragg dove le particelle

primarie si sono fermate definitivamente e la dose residua è associabile al solo contributo dei

frammenti. La distribuzione angolare delle particelle rispetto alla direzione di incidenza,

dopo aver attraversato un certo spessore di materia, può essere interpretato come il frutto di

molteplici deflessioni di piccolo angolo, altamente probabili, e da qualche raro evento di

scattering ad angoli più grandi3. Dal confronto con le misure sperimentali, è possibile

descrivere, con buona approssimazione, la dispersione laterale in funzione dell’angolo α di

deflessione mediante una distribuzione Gaussiana, con deviazione standard σα data dalla

seguente formula empirica [Hig75]:

+=

radradp L

d

L

dZ

pc

MeV10log

9

11

1.14

βσ α , (1.8)

3 La trattazione più completa della diffusione multipla in campo Coulombiano, nell’approssimazione di piccoli angoli, è rappresentata dalla teoria di Molière.

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Figura 1.1.10: Confronto della dispersione angolare subita da fotoni, protoni e ioni Carbonio al variare della distanza di penetrazione in acqua. Si osserva che il range del fascio di ioni Carbonio è pari a 14.5 cm [Kra00].

dove p è il momento delle particelle, Lrad è la lunghezza di radiazione e d lo spessore del

materiale attraversato. Dalla relazione (1.8) si deduce che la diffusione multipla diventa più

significativa al diminuire dell’energia e che, a parità di percorso entro il mezzo, tale effetto

affligge maggiormente gli ioni più leggeri. In Figura 1.1.10 è mostrato un confronto in

termini di dispersione laterale per fasci di fotoni, protoni e ioni Carbonio da cui emerge

chiaramente che i protoni soffrono maggiormente del fenomeno di scattering laterale rispetto

ai fotoni per una profondità di penetrazione superiore a 7 centimetri, mentre la deflessione

subita dal fascio di Carbonio si mantiene inferiore al millimetro per un percorso massimo di

20 centimetri.

A differenza della radioterapia convenzionale, gli adroni carichi possono interagire con

i tessuti anche attraverso la forza nucleare forte. Le reazioni che possono presentarsi in

funzione dell’energia sono molteplici, dai processi di transfer, per energie inferiori a circa 20

MeV/u, alla frammentazione pura (break-up), per energie dell’ordine del GeV/u, senza che

sia possibile definire dei confini netti tra un processo e l’altro. Una trattazione generale di

questi processi è affrontata nel Capitolo 3, con uno sguardo privilegiato al processo di

frammentazione, di maggiore interesse dal punto di vista clinico.

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Figura 1.3.1: Curve dose-effetto per tessuti neoplastici (A) e normali (B). Sono indicate le dosi D1 e D2 corrispondenti ad una probabilità del 50% di ottenere il controllo locale del tumore e di provocare complicazioni serie ai tessuti sani, rispettivamente. Il rapporto (D2/D1) rappresenta il cosiddetto rapporto terapeutico [Ama95].

1.3 LE BASI RADIOBIOLOGICHE DELL ’ADROTERAPIA

Il principale obiettivo dell’adroterapia, e della radioterapia in generale, è rappresentato

dal controllo locale del tumore e, in alcune situazioni, dei possibili cammini di diffusione

delle cellule malate (radioterapia loco-regionale). A tal fine occorre cedere al focolaio

tumorale una dose talmente elevata da distruggerlo mantenendo, allo stesso tempo, la dose

nei tessuti sani circostanti, inevitabilmente irradiati, entro certi limiti, evitando complicazioni

e danni gravi o addirittura irreversibili.

Nell’ipotesi di una identificazione del bersaglio sufficientemente accurata, è possibile

valutare la probabilità di ottenere un controllo locale del tumore (Tumor Control Probability,

TCP) attraverso l’analisi delle cosiddette curve dose-effetto, che rappresentano:

i. per i tessuti tumorali, la possibilità di ottenere l’effetto desiderato in funzione

della dose assorbita;

ii. per i tessuti sani, la probabilità di provocare danni seri o irreversibili, sempre in

funzione della dose assorbita dai tessuti stessi.

Una ipotetica curva dose-effetto per un generico tessuto neoplastico è rappresentata

dalla linea continua di Figura 1.3.1, mentre la linea tratteggiata mostra l’andamento di una

curva dose-danni per un tessuto sano.

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Si osserva che per una dose assorbita corrispondente ad una TCP prossima al 100%, la

probabilità che vengano provocati danni ai tessuti sani (Normal Tissue Control Probability,

NCTP), che ricevono la stessa dose, è anch’essa elevata e spesso inaccettabile. Nella pratica

clinica occorre trovare, quindi, un compromesso tra l’efficacia del trattamento e l’emergenza

di complicazioni, che può esprimersi quantitativamente mediante il rapporto terapeutico,

definito come il rapporto tra la dose corrispondente al 50% di probabilità di produrre danni e

la dose corrispondente alla stessa probabilità di ottenere il controllo locale del tumore

(Figura 1.3.1).

Sulla base di queste considerazioni, le possibilità di successo associate al trattamento

radioterapico aumentano con la selettività balistica o conformità dell’irradiazione, definita

come differenza tra la dose ceduta al bersaglio e la dose assorbita dai tessuti sani coinvolti. In

particolare la migliore selettività balistica dei fasci di adroni, rispetto ai fasci di fotoni ed

elettroni, consente di ottenere la stessa TCP in corrispondenza di una minore probabilità di

complicazioni o una maggiore TCP per un dato valore della NTCP. L’effetto cumulativo per

fasci di adroni si traduce in uno spostamento della curva che descrive l’andamento della

NTCP verso valori di dose crescenti, con conseguente aumento del rapporto terapeutico.

L’ottimizzazione della dose assorbita è soltanto una parte del piano di trattamento di

una neoplasia, in quanto bisogna considerare il coinvolgimento di altri fattori, quali la

radiosensibilità cellulare, che non dipende solo dalla dose assorbita, connessa alla cessione

locale di energia a livello macroscopico, ma almeno da altri due parametri: il Trasferimento

di Energia lineare (Linear Energy Transfer, LET) ed il rapporto di ossigenazione (Oxygen

Enhancement Ratio, OER).

Il LET è legato alla modalità di trasferimento dell’energia da parte della radiazione

incidente al tessuto, ed è definito dalla relazione:

=dl

dEL , (1.9)

dove dE è l’energia ceduta localmente lungo un segmento di traccia dl, considerando solo le

collisioni che comportano un trasferimento di energia minore di un certo valore ∆, ed L∆ è

espresso in keV/µm. Nel caso in cui non si pongono limiti alla quantità di energia ceduta in

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ogni singola collisione della particella con un atomo o molecola del mezzo attraversato, il

LET assume lo stesso significato fisico dello stopping power, con la differenza che il LET

non include il contributo alla perdita di energia determinato dai fotoni di bremsstrahlung. In

questo caso il LET, noto anche come potere frenante non ristretto, viene spesso indicato con

il simbolo L∞, per distinguerlo dal cosiddetto “LET ristretto” L∆ espresso dalla (1.9). In

particolare, per gli ioni Carbonio il LET varia nell’intervallo fra 15 e 170 keV/µm, che risulta

100 volte maggiore rispetto al caso dei fasci convenzionali di fotoni.

La radiosensibilità cellulare dipende inoltre dal grado di ossigenazione in quanto

l’irradiazione in presenza di Ossigeno produce un danno biologico maggiore che in

condizioni di ipossia. In particolare, i tessuti tumorali, in quanto scarsamente vascolarizzati,

presentano un contenuto di Ossigeno minore rispetto ai tessuti sani, risultando così

maggiormente radioresistenti. Una misura di questo effetto, detto “effetto Ossigeno”, è

rappresentata dal rapporto di ossigenazione (OER), definito in base alla relazione:

0D

DOER= , (1.10)

dove D è la dose necessaria a produrre un certo effetto biologico nel tessuto non ossigenato e

D0 è la dose che produrrebbe lo stesso effetto se il tessuto fosse completamente ossigenato in

aria a pressione normale.

Dal punto di vista della valutazione degli effetti biologici indotti sui tessuti bisogna

distinguere la radiazione “densamente ionizzante”, o ad “alto LET”, rappresentata dagli

adroni carichi, dalla radiazione “scarsamente ionizzante”, o a “basso LET”, rappresentata da

fotoni ed elettroni. Nel caso della radiazione ad “alto LET”, la deposizione di energia nel

mezzo attraversato è ristretta a piccoli elementi di volume lungo la traiettoria della particella,

di modo che i danni indotti risultano fortemente localizzati e dunque difficilmente

recuperabili dai meccanismi di riparo delle cellule. Diversamente, nel caso della radiazione a

“basso LET” la cessione di energia a livello microscopico avviene in modo casuale, eventuali

rotture prodotte nel DNA cellulare si presentano stocasticamente nel volume irradiato per cui,

a parità di condizioni, sono necessarie dosi più elevate per il conseguimento dello stesso

effetto rispetto all’impiego di radiazione ad “alto LET”.

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25

In base a queste osservazioni, si deduce che la dose assorbita non può essere

considerata un buon indicatore degli effetti biologici delle radiazioni densamente ionizzanti, i

cui effetti possono essere quantificati correttamente solo in termini di Efficacia Biologica

Relativa (Relative Biological Effectiveness, RBE), parametro definito con riferimento alla

radiazione a “basso LET” e, nella maggior parte dei casi, ai raggi-X di energia pari a 220

KeV [ICRU86]. La risposta dei sistemi biologici ai raggi-X di questa energia, ed in generale

alla radiazione poco ionizzante, è rappresentata da una funzione non lineare della dose ed, in

particolare, per un livello di dose di qualche Gray, il meccanismo di inattivazione cellulare

può essere descritto, con buona approssimazione, dalla seguente legge esponenziale:

( )2

0)( DDeSDS βα −−= , (1.11)

dove S(D) è la frazione di cellule sopravvissute alla dose D, S0 è il livello di sopravvivenza

iniziale, mentre α e β sono i coefficienti che caratterizzano la risposta biologica alla

radiazione. Per valutarne quantitativamente l’effetto letale su popolazioni di cellule in

coltura, i risultati sperimentali vengono presentati facendo riferimento alla curva di

sopravvivenza cellulare, dal tipico andamento lineare-quadratico, ottenuta graficando la

relazione (1.11) in scala semi-logaritmica. A partire dalla curva di sopravvivenza per i raggi-

X, è possibile costruire la curva di risposta alla radiazione ad “alto LET”, a cui corrisponde

sperimentalmente un coefficiente β di valore prossimo a zero, di modo che la risposta

biologica, in tal caso, dipende dalla dose in base ad una legge puramente lineare (in scala

semi-logaritmica).

Questa differenza sostanziale nei meccanismi di interazione con il materiale biologico

fra radiazione scarsamente e densamente ionizzante viene descritta quantitativamente in

termini del valore di RBE, definito secondo la relazione:

Ion

rayX

D

DRBE −= (1.12)

dove DX-ray e DIon sono, rispettivamente, le dosi assorbite necessarie a produrre, in

corrispondenza di un preciso livello di probabilità, un certo effetto biologico, a seconda che il

sistema venga irradiato con raggi-X o con un fascio di ioni. In Figura 1.3.2 sono riportate le

curve di sopravvivenza riferite ai raggi-X e ad una generica specie ionica ed è mostrato un

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esempio di calcolo del valore di RBE in base alla relazione (1.12) per un livello di

sopravvivenza del 10% [Kra00].

Dal momento che la definizione di RBE si basa sul confronto con la curva dose-effetto

dei raggi-X, lo RBE dipende fortemente dalla probabilità che l’effetto considerato si presenti

e, in generale, assume valori prossimi all’unità per alti livelli di dose, dove le curve tendono

ad avvicinarsi diventando quasi parallele, ed aumenta notevolmente al diminuire della dose,

raggiungendo il valore massimo, RBEα, dato dal rapporto:

rayX

IonRBE−

=αα

α (1.13)

dove αIon ed αX-ray sono rispettivamente i coefficienti dei termini lineari delle curve dose-

effetto che ne determinano, quindi, la pendenza iniziale. In Figura 1.3.3 sono mostrati i

valori di RBE per ioni Carbonio di energia pari ad 11 MeV/u e per diversi livelli di

sopravvivenza.

Per una data specie ionica, l’efficacia biologica dipende, oltre che dalla dose rilasciata

ai tessuti, anche dall’energia iniziale e dal LET, ossia dalla modalità di cessione di energia

lungo il cammino di penetrazione.

Figura 1.3.2: Curve di sopravvivenza cellulare e definizione di RBE per un livello di sopravvivenza del 10% [Kra00].

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In particolare, la variazione dello RBE lungo il cammino dello ione dipende dalla

struttura della traccia che, essendo determinata dal range degli elettroni prodotti per

ionizzazione degli atomi del mezzo, è direttamente connessa all’energia incidente. Ad alte

energie la traccia ionica ha un diametro piuttosto ampio, la densità degli eventi di

ionizzazione è piuttosto bassa, di modo che le particelle, in tal caso, si comportano alla

stregua della radiazione a “basso LET”, producendo un danno biologico riparabile (basso

RBE). Al diminuire dell’energia le dimensioni della traccia diminuiscono e la perdita di

energia specifica cresce sensibilmente, cosicché le lesioni prodotte risultano fortemente

localizzate e, nella maggior parte dei casi, non riparabili (alto RBE). All’estremità della

traccia, il diametro si assottiglia ulteriormente determinando un aumento del LET tale da

comportare una sovrapproduzione di lesioni a livello microscopico, con conseguente

dispersione di dose, secondo il processo noto come overkill effect. In quest’ultimo caso lo

RBE decresce molto rapidamente oltre il picco di Bragg, assumendo valori molto piccoli,

intorno a 0.1 o addirittura inferiori, specie per ioni molto pesanti, come l’Uranio, o per

sistemi cellulari con ridotte capacità di autoriparazione. La complessa dipendenza dello RBE

Figura 1.3.3: Sopravvivenza di cellule CHO-K1 in funzione della dose per raggi-X e ioni Carbonio da 11 MeV/u e valori di RBE corrispondenti a diversi livelli di dose-effetto [Kra03].

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28

(a)

(b)

Figura 1.3.4: (a) RBE in funzione del LET per un valore fissato del numero atomico Z. La dipendenza dalla dose determina differenti valori dello RBE a seconda del livello di sopravvivenza; (b) Confronto schematico dei valori di RBE per diversi tipi di particelle. Si osserva che, per gli ioni pesanti, il massimo delle curve si sposta verso valori crescenti del LET mentre la sua altezza si abbassa gradualmente [Kra00].

dal LET e dall’energia è illustrata attraverso il grafico di Figura 1.3.4 (a), mentre in Figura

1.3.4 (b) è visibile, in particolare, la dipendenza dal tipo di particella.

Come mostrato in figura, al variare del numero atomico Z, la dipendenza dello RBE dal

LET mostra dei massimi distinti di altezza crescente al diminuire di Z in quanto, a parità di

LET, l’energia corrispondente per gli ioni più leggeri è minore, in base alla definizione (1.3)

di stopping power, per cui le dimensioni della traccia diminuiscono comportando così una

maggiore localizzazione del danno e, in definitiva, un valore più grande di RBE.

Si osserva infine che l’effetto negativo sulla sterilizzazione del tumore derivante dalla

mancanza di Ossigeno dei tessuti irradiati risulta sensibilmente ridotto nel caso delle

radiazioni ad “alto-LET”, ossia le differenze in termini di radiosensibilità cellulare fra cellule

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29

normali ed ipossiche aumentano gradualmente all’aumentare del LET, come mostrato in

Figura 1.3.5.

I dati sperimentali riportati in figura presentano un confronto tra i valori di RBE e di

OER per una particolare linea cellulare (V794) esposta a fasci di ioni Carbonio di LET

variabile tra 20 e 500 keV/µm. Si osserva che per valori del LET inferiori a circa 50 keV/ µm

la risposta biologica nelle due diverse condizioni di ossigenazione è identica, mentre, al di

sopra di questa soglia, la curva relativa alle cellule ipossiche presenta un valore di RBE

sensibilmente maggiore rispetto alle cellule normalmente ossigenate, pur presentando un

massimo in corrispondenza dello stesso valore del LET, pari a circa 200 keV/µm. I

4 Singoli fibroblasti di criceto.

Figura 1.3.5: Confronto tra i valori di RBE10 (in alto) e di OER (in basso) per cellule V79, in presenza ed in assenza di Ossigeno. In corrispondenza del valore di LET per cui l’effetto Ossigeno inizia a decrescere, le curve relative allo RBE nelle due diverse condizioni di ossigenazione si separano [Fur00].

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30

corrispettivi valori di OER mostrano un netto decremento, legato alla struttura della traccia

ionica ed all’aumento di deposizione locale di energia all’aumentare del LET.

Da queste considerazioni si deduce che, al fine di migliorare la probabilità di controllo

locale del tumore, risulta più ragionevole l’impiego delle particelle ad “alto-LET”, quali i

fasci di ioni energetici di Carbonio.

1.4 VANTAGGI DEI FASCI DI IONI 12C Le motivazioni, di natura fisica e biologica, alla base del crescente interesse verso le

terapie con fasci di ioni più pesanti dei protoni, come il Carbonio, sono svariate e

sperimentalmente documentate.

In primo luogo i fasci di 12C, penetrando nei tessuti, sono soggetti in misura minore ai

fenomeni di diffusione laterale e dispersione longitudinale rispetto ai fasci di protoni, per cui

depositano la massima densità di energia nel picco di Bragg producendo danni irreversibili

alle cellule colpite ma evitando, allo stesso tempo, i tessuti sani adiacenti, specie in presenza

di disomogeneità. Il rapido decremento laterale della dose rilasciata da un fascio di particelle

cariche, noto come penombra apparente, risulta più netto nel caso del Carbonio, da cui

deriva una migliore selettività balistica del trattamento, come mostrato in Figura 1.4.1

[Chu06].

Figura 1.4.1: Confronto tra le distribuzioni laterali di dose per fasci di ioni Carbonio e di protoni con lo stesso range. Il fenomeno di penombra laterale è più evidente nel caso dei protoni, a cui è associata una peggiore selettività balistica ai fini del trattamento [Chu06].

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Inoltre il fenomeno di dispersione longitudinale diventa più pronunciato per fasci di

piccole dimensioni per cui, da un esame delle curve dose-profondità ottenute a parità di

range, emerge un notevole abbassamento del picco di Bragg per fasci collimati di protoni,

mentre nel caso degli ioni Carbonio il picco di Bragg rimane sostanzialmente invariato,

anche in presenza di un collimatore di piccolo diametro, come visibile dai grafici di Figura

1.4.2 [Chu06].

Le migliori proprietà di focalizzazione dei fasci di Carbonio li rendono particolarmente

adatti, non solo nel trattamento di bersagli di minori dimensioni, ma anche nell’applicazione

delle tecniche di scansione attiva per tumori più estesi (§ 2.3.2).

Il principale vantaggio derivante dall’utilizzo del Carbonio è rappresentato dal profilo

ottimale dello RBE in funzione della distanza di penetrazione, presentato in Figura 1.4.3, in

base al quale, in corrispondenza del canale d’ingresso nel tessuto i danni prodotti sono per lo

più reversibili ed il valore di RBE è prossimo all’unità, mentre negli ultimi 2-3 centimetri

circa del range lo RBE aumenta in modo significativo, assumendo valori compresi fra 2 e 5,

a seconda del tipo di tessuto. In particolare, per molti sistemi biologici, l’efficacia biologica

relativa assume valori sensibilmente maggiori di 1 quando il LET della radiazione incidente

risulta maggiore di circa 20 keV/µm, come accade negli ultimi 40 millimetri della traccia di

Figura 1.4.2: Curve dose-profondità per fasci di protoni e di ioni Carbonio con lo stesso range in acqua. In particolare sono presentati, per ogni specie ionica, le differenze tra fasci collimati e non [Chu06].

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Figura 1.4.3: RBE in funzione della profondità di penetrazione per fasci di Carbonio, Neon, Silicio ed Argon, a parità di range. Si può vedere che, a differenza delle altre specie ioniche, il Carbonio presenta il valore massimo di RBE nella stessa posizione del picco di Bragg [Kra00].

uno ione 12C in acqua. Queste osservazioni non sono più valide nel caso di ioni più pesanti

del Carbonio, poiché in tal caso il valore di RBE inizia ad aumentare per profondità molto

più piccole del range, provocando lesioni serie anche ai tessuti superficiali.

Inoltre lo RBE dipende anche dalle capacità di ripristino della cellula ed assume

valori particolarmente elevati nel caso dei tumori a crescita lenta che, normalmente, risultano

resistenti sia alle terapie convenzionali che alla protonterapia e che, per questo motivo, sono

più adatti al trattamento con ioni Carbonio.

Un aspetto problematico derivante dall’uso di particelle più pesanti dei protoni nei

trattamenti adroterapici è rappresentato dal processo di frammentazione dei nuclei incidenti

nell’interazione sia con i sistemi passivi (§ 2.3.1), per il degrado in energia (energy

degraders), che con il tessuto bersaglio, entro il corpo del paziente. I frammenti più leggeri

hanno un percorso nella materia maggiore rispetto a quello degli ioni progenitori e danno

quindi luogo ad un aumento della dose assorbita oltre il SOBP. L’incremento percentuale

della dose, in questa regione, dipende dalla massa dello ione primario ed è pari a circa il 15%

per ioni leggeri come il Carbonio e l’Ossigeno, mentre raggiunge circa il 30% per gli ioni

Neon, come visibile in Figura 1.4.4. Per questa ragione non è giustificato, comunque, l’uso

di ioni più pesanti dell’Ossigeno per una terapia veramente conformazionale.

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Figura 1.4.4: Curve di trasmissione di dose con la profondità che si ottengono con una variazione controllata dell’energia del fascio di protoni, ioni Carbonio e ioni Neon [Ama95].

Le misure analizzate nel Capitolo 6 del presente lavoro di tesi, si riferiscono proprio

allo studio del processo di frammentazione degli ioni 12C ad energie intermedie

nell’interazione con un materiale ad alto Z come l’Oro, al fine di progettare un modulatore di

energia per il fascio terapeutico e valutare l’eventuale apporto dei frammenti alla dose

complessivamente ceduta dal fascio.

Tutti i possibili svantaggi dovuti al processo di frammentazione del Carbonio sono

largamente compensati dalle possibilità di monitoraggio in-situ del fascio offerte dalla

tecnica di Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron Emission Tomography, PET). Uno

dei processi di interazione con i tessuti biologici più frequenti nella terapia con ioni 12C è

rappresentato dallo stripping di uno o due neutroni, con conseguente trasformazione

dell’isotopo stabile 12C negli isotopi 11C e 10C, emettitori di β+, con tempi di dimezzamento

pari rispettivamente a 1222.8 e 19.4 secondi, attraverso cui è possibile effettuare la

ricostruzione delle immagini tomografiche in tempo reale (PET on-line). La perdita di uno o

due neutroni comporta solo una lieve perturbazione nel moto degli ioni primari, per cui i

prodotti di reazione continuano a viaggiare con velocità e range molto prossimi a quelli del

fascio iniziale. Il punto di arresto di queste particelle entro il paziente può essere valutato in

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base a misure di coincidenza dei fotoni di annichilazione prodotti, entro un intervallo di

tempo di circa 12 nanosecondi, in seguito all’emissione di β+, che consente di localizzare con

precisione millimetrica la posizione delle particelle del fascio entro il corpo del paziente

durante il trattamento, condizione estremamente vantaggiosa specie nel caso di tumori

prossimi ad organi critici. A questo si aggiunge la possibilità di ottenere ulteriori

informazioni sulla localizzazione laterale e sul rilascio di dose del fascio in base alla misura

della distribuzione spaziale dei fotoni di annichilazione dovuti al decadimento β+ degli

isotopi 15O, con tempo di dimezzamento di 121.8 secondi, prodotti nel processo, meno

frequente, di frammentazione del target. In Figura 1.4.5 sono illustrati, schematicamente, il

processo fisico descritto ed il principio di rivelazione dei due fotoni da 511 keV, che

rappresenta il valore in keV della massa a riposo di un elettrone.

Figura 1.4.5: In alto: disegno schematico che illustra il processo di stripping di un neutrone, che converte il proiettile stabile 12C e l’atomo bersaglio stabile 16O nei due isotopi emettitori di positroni 11C e 15O. In basso: la misura in coincidenza dei due fotoni di annichilazione emessi nel processo di decadimento degli isotopi radioattivi prodotti permette di risalire al punto di arresto delle particelle incidenti [Wey04].

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1.5 FACILITIES PER ADROTERAPIA CON IONI 12C

Dopo la chiusura della prima unità di adroterapia, presso il Lawrence Berkeley

Laboratory nel 1992, il primo trattamento con fasci di Carbonio è stato effettuato nel 1994

presso il Japanese National Institute of Radiological Science (NIRS), grazie alla

realizzazione di HIMAC (Heavy Ion Medical Accelerator in Chiba), proposta da Yasuo

Hirao. La facility HIMAC consiste di due sincrotroni che possono operare simultaneamente: i

fasci di Carbonio, di energia massima pari a 430 MeV/u, così prodotti vengono trasportati

verso tre sale concepite per i trattamenti con linee di fascio in direzione orizzontale e

verticale. Per diversi anni la modulazione in energia del fascio è stata realizzata con sistemi

passivi, come gli energy degraders ed i ridge filters, ma dal 2003 è stata portata a termine la

conversione ai sistemi attivi. Oltre 4000 pazienti sono stati trattati con fasci di ioni Carbonio

fino alla fine del 2007 ed i risultati clinici, specie nei casi di tumore al collo, alla testa ed al

polmone, hanno mostrato percentuali di controllo locale, ad un anno dalla terapia, superiori

all’80%. Una visione complessiva del progetto HIMAC è mostrata in Figura 1.5.1.

Figura 1.5.1: Layout generale della facility HIMAC per i trattamenti con ioni Elio e Carbonio presso Chiba, in Giappone [Kra00].

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Il primo trattamento presso il centro giapponese di Hyogo, HIBMC (Hyogo Ion Beam

Medical Center), è stato effettuato nel Maggio del 2001 con fasci di protoni. Questa unità per

adroterapia, di nuova concezione, è basata sull’uso di un linac per la fase di iniezione delle

particelle entro l’acceleratore principale, un sincrotrone con diametro di 29 metri capace di

accelerare sia protoni che ioni Carbonio fino ad un’energia massima di 230 MeV e 320

MeV/u rispettivamente. Le sale di trattamento dedicate alla protonterapia sono tre, di cui due

sono dotate di testate isocentriche (gantries), mentre le terapie con ioni Carbonio vengono

realizzate mediante tre linee di fascio, una orizzontale, una verticale ed una inclinata di 45°. I

pazienti trattati fino alla fine del 2007 sono circa 1000 con protoni e 200 con ioni Carbonio.

L’unico acceleratore che, a livello europeo, è in grado di fornire fasci di particelle

cariche, dai protoni fino agli ioni dell’Uranio, ad energie dell’ordine del GeV/u è il

sincrotrone in dotazione presso la facility del GSI (Gesellschaft für Schwerionenforschung), a

Darmstadt, in Germania proposta, fra gli altri, da Gerard Kraft. La realizzazione dell’unità

tedesca di adroterapia è iniziata nel 1993, e nel Dicembre del 1997 sono stati effettuati i primi

due trattamenti con la moderna tecnica di rasterscanning (§ 2.3.1) accoppiata ad un sistema

attivo di modulazione dell’energia, direttamente dall’acceleratore. Ad oggi i pazienti trattati

con fasci di Carbonio sono stati circa 350, in tre sessioni annuali di un mese, realizzate

parallelamente agli esperimenti in altri settori di ricerca della fisica nucleare.

Gli ottimi risultati del progetto pilota del GSI hanno favorito la creazione di un centro

dedicato alle terapie con gli ioni più pesanti dei protoni presso la clinica universitaria di

Heidelberg, in Germania.

Figura 1.5.2: Disegno schematico del progetto HIT. Sono visibili il sistema di accelerazione, le tre sale di trattamento e la testata rotante per la conformazione della dose al paziente con fasci di Carbonio.

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L’ambiziosa proposta di HIT (Heidelberg Ion Therapy), approvata nel 2001, basata

sull’applicazione della moderna tecnica di distribuzione del fascio ad intensità modulata

(IMPT), ospita tre sale di trattamento e, per la prima volta, dispone di una testata isocentrica

rotante, da circa 600 tonnellate, per le terapie con gli ioni Carbonio. Le particelle vengono

preaccelerate, ad una energia massima di 7 MeV/u, da un linac ed iniettate in un sincrotrone

capace di fornire sia fasci di protoni che di ioni Carbonio. Uno schema del progetto HIT,

entrato in funzione nel 2008, è mostrato in Figura 1.5.2.

Nel periodo compreso fra il 1996 ed il 2000 è stato sviluppato, grazie alla proposta di

Ugo Amaldi alla dirigenza del CERN, il progetto PIMMS (Proton and Ion Medical Machine

Study) al fine di studiare un sincrotrone ed un sistema di linee di fascio ottimali per i

trattamenti di tumori profondi con fasci collimati di protoni, Carbonio ed altri ioni leggeri. Il

gruppo PIMMS, nato dalla collaborazione di diversi enti, CERN (Svizzera), Med-Austron

(Austria), Oncology 2000 (Repubblica Ceca), TERA (Italia) e GSI, ha ultimato i lavori nel

2000 con la pubblicazione di due report, in cui sono definite tutte le caratteristiche

dell’impianto e dell’acceleratore, senza limiti in termini di costi e dimensioni. Difatti,

PIMMS è da considerarsi un progetto aperto, ideato al fine di fornire informazioni preziose

per la realizzazione di nuovi centri di adroterapia a livello europeo. Questo è il caso del

progetto CNAO (Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica), in fase di costruzione a Pavia

(§ 4.1) e del progetto austriaco Med-Austron, basato sul disegno del sincrotrone

PIMMS/TERA.

Un’alternativa alle scelte dei maggiori centri per adroterapia fin qui descritti, basati

sulla tecnologia dei sincrotroni, è rappresentata dalla proposta, in ambito INFN (Istituto

Nazionale di Fisica Nucleare), dei Laboratori Nazionali del Sud (LNS) di Catania di

realizzare un centro medico basato sull’impiego di un ciclotrone superconduttore capace di

fornire fasci di protoni e di ioni leggeri con energia massima di 250 MeV/u (§ 2.4). Il

progetto, denominato SCENT (Superconducting Cyclotron for Exotic Nuclei and Therapy), è

basato sull’accoppiamento di un degrader di energia e di un sistema di selezione magnetica

per garantire l’eliminazione di eventuali frammenti dal fascio primario, mentre la

distribuzione di dose al paziente è affidata ad una testata isocentrica rotante in un intervallo

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angolare di 180°. Il disegno schematico dell’unità di adroterapia, secondo le direttive di

SCENT, è mostrato in Figura 1.5.3.

Figura 1.5.3: Layout del centro di adroterapia basato sul progetto SCENT dei LNS di Catania.

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2. BEAM DELIVERY SYSTEMS

2.1 ACCELERATORI PER ADROTERAPIA

Originariamente concepiti nell’ambito della ricerca fondamentale in fisica nucleare, gli

acceleratori di particelle vengono impiegati attualmente in molteplici settori e per un ampio

spettro di applicazioni. I principali enti che progettano, finanziano e realizzano queste grandi

macchine, in funzione presso i laboratori più importanti del pianeta, sono legati alla ricerca

scientifica ma, oramai, un gran numero di acceleratori, di diversi tipi e dimensioni, vengono

costruiti in maniera industriale per soddisfare le necessità dei più svariati campi, da quello

medico a quello dell’industria alimentare, da quello militare a quello dell’elettronica.

La fisica degli acceleratori si basa sull’interazione fra le particelle cariche ed i campi

elettromagnetici di modo che, con questi sistemi, non risulta possibile accelerare direttamente

particelle neutre. Esiste, in proposito, un primo criterio di classificazione di queste macchine,

che si riferisce al rapporto q/m tra la carica e la massa del proiettile, per cui è possibile

individuarne tre tipi fondamentali:

a) gli acceleratori di elettroni e positroni;

b) gli acceleratori di protoni;

c) gli acceleratori di ioni più pesanti dei protoni (dalle particelle α fino agli ioni

dell’Uranio).

Si osserva che, mentre le prime due categorie sono assolutamente incompatibili fra

loro, a causa del gap insormontabile fra i rapporti q/m riferiti rispettivamente all’elettrone ed

al protone, le macchine studiate per accelerare protoni possono eventualmente essere

applicabili anche a qualche ione composito come, ad esempio, una particella α.

Un secondo criterio di classificazione si basa sia sul peculiare principio di

funzionamento che sul percorso evolutivo di queste macchine, iniziato intorno al 1930,

permettendo di distinguere quattro ulteriori tipologie di acceleratori: elettrostatici (che

sfruttano campi elettrici costanti estremamente intensi), lineari e circolari (basati

sull’applicazione di campi elettrici pulsati) e ad induzione (basati sul meccanismo di

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induzione del campo elettrico a partire da un campo magnetico variabile). Per quel che

riguarda la lunghezza L della traiettoria del proiettile, mentre negli acceleratori lineari essa è

fissata in base alla lunghezza della macchina, in quelli circolari L dipende dall’energia, in

modo proporzionale a partire da un certo valore in poi, detto energia di transizione.

La necessità di ottenere fasci di alta energia, superiore a circa 100 MeV/u, non

ottenibili mediante acceleratori elettrostatici5, ha così favorito la nascita degli acceleratori

circolari attraverso cui, grazie all’impiego di campi elettrici variabili, è possibile sfruttare

un’unica struttura accelerante per un numero imprecisato di volte, in modo da incrementare

notevolmente la soglia massima di energia del fascio in uscita. É necessario, a tal proposito,

che sia garantita la condizione di sincronismo fra il moto oscillatorio delle particelle ed il

campo elettrico accelerante, in modo tale che ogni particella incontri, istante per istante, un

campo concorde alla direzione del moto. Per le macchine circolari non è operativamente

possibile, infatti, l’impiego di un campo elettrostatico che, essendo conservativo, avrebbe

circuitazione nulla lungo un qualunque percorso chiuso, come quello compiuto dalla

particella che, quindi, ad ogni ciclo avrebbe sempre la stessa energia del precedente.

In particolare, nel settore dell’adroterapia, gli ioni energetici idonei alla cura dei tumori

sono ottenuti, quasi esclusivamente, attraverso due diverse tipologie di acceleratori circolari,

i ciclotroni ed i sincrotroni, che rappresentano una valida alternativa agli acceleratori lineari,

ancora largamente usati. La scelta ricade spesso su questi due tipi di macchine per diversi

fattori, primo fra tutti l’energia del fascio, che stabilisce automaticamente il tipo, le

dimensioni ed i costi dell’acceleratore.

Si osserva, in merito, che la massima energia del fascio richiesta deve essere conforme

ad un range in acqua o in un mezzo equivalente al tessuto umano che, per la maggioranza

degli scopi terapeutici, deve aggirarsi intorno ai 30 cm, tenendo conto anche di un eventuale

surplus di energia necessario nel caso siano presenti, entro il corpo del paziente, zone a più

alta densità poste sul cammino della radiazione. Per raggiungere la distanza di penetrazione

desiderata (o per ottenere, analogamente, il posizionamento del picco di Bragg ad una certa

5 I campi elettrostatici, utilizzati esclusivamente negli acceleratori lineari, sono generalmente limitati in tensione accelerante, poiché costituiti da generatori posti a cascata (oppure da un unico generatore con diversi stadi a potenziale crescente) per cui Vfinale=ΣVi.

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profondità) l’energia da rilasciare al paziente dipende dalla specie ionica impiegata: ad

esempio, per irradiare con protoni un tumore posto ad una profondità massima di 30 cm

bisogna fornire un’energia di circa 200 MeV, con ioni Carbonio occorrono circa 430 MeV/u

mentre con ioni più pesanti, come il Neon, è necessaria un’energia maggiore, intorno a 650

MeV/u.

Un ulteriore parametro fondamentale per la scelta dell’acceleratore è rappresentato

dall’intensità del fascio (o flusso) che rappresenta il numero di particelle che incidono, per

unità di tempo, su una porzione di superficie di area unitaria del bersaglio, perpendicolare

alla direzione del fascio. L’intensità richiesta per un particolare tipo di trattamento è legata a

diversi fattori come la durata totale della terapia, la dose prescritta da rilasciare al paziente, il

metodo con cui viene modulata l’energia del fascio, le dimensioni e la posizione del bersaglio

da colpire. Il progetto dell’acceleratore, della sorgente di ioni da utilizzare e della fase di

iniezione delle particelle, deve dunque rispondere a precise esigenze legate all’intensità

richiesta in un vasto range di specie ioniche. In Tabella 2.1 è indicato, ad esempio, il flusso

necessario al fine di applicare un dose rate pari a 6 Gy/minuto ad un bersaglio di volume pari

ad 1 litro al variare della superficie e della profondità [Hab93].

Particle required beam intensity

Area = 400 cm2

Depth = 2.5 cm

Area = 200 cm2

Depth = 5.0 cm

Area = 50 cm2

Depth = 20.0 cm

Helium 3.4 × 109 s-1 2.4 × 109 s-1 1.1 × 109 s-1

Carbon 6.7 × 108 s-1 4.5 × 108 s-1 2.2 × 108 s-1

Neon 3.0 × 108 s-1 2.3 × 108 s-1 1.0 × 108 s-1

Argon 1.1 × 108 s-1 7.8 × 107 s-1 3.8 × 107 s-1

Tabella 2.1: Valori di intensità del fascio richieste per ottenere un rateo di dose di 6 Gy/minuto in volumi bersaglio da 1 litro a differenti profondità [Hab93].

Si osserva inoltre che, al fine di ottenere un rilascio di dose accurato rispetto al volume

da trattare, riveste un ruolo fondamentale anche la struttura temporale del fascio estratto dalla

macchina acceleratrice, che ne determina automaticamente l’effettiva stabilità.

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Dal momento che la scelta dell’acceleratore si basa sulle proprietà del fascio viste

(energia, intensità e stabilità) e, quindi, sul tipo e sull’estensione del tumore da trattare, è

necessario affrontare, a grandi linee, il principio di funzionamento degli acceleratori dedicati

all’adroterapia, quali i ciclotroni ed i sincrotroni. I due tipi di macchine sono basate, inoltre,

su due distinte modalità atte alla modulazione in energia del fascio, che saranno trattate in

modo più approfondito per l’importanza che rivestono nell’ambito più generale di un piano di

trattamento in adroterapia (TPS).

2.1.1 IL CICLOTRONE Lo sviluppo attuale nel campo della fisica delle alte energie è da ritenersi strettamente

legato all’evoluzione concettuale e tecnologica degli acceleratori di particelle, resa possibile

principalmente grazie all’invenzione del primo ciclotrone da parte di E.O. Lawrence e di uno

dei suoi studenti M.S. Livingstone presso l’Università della California, a Berkeley, intorno al

1930. A quasi ottant’anni dalla sua scoperta, il ciclotrone rappresenta, ancora oggi,

l’acceleratore più diffuso per l’estrema compattezza, la versatilità e la semplicità di utilizzo

che lo rendono particolarmente adatto nelle applicazioni mediche.

Dal punto di vista costruttivo, il ciclotrone classico è caratterizzato da un unico sistema

magnetico che svolge sia la funzione di focalizzazione che di confinamento del fascio di ioni.

Dopo la produzione nella parte centrale della macchina, le particelle rimangono vincolate a

muoversi su un piano, detto Piano Mediano (P.M.), nella regione dove è indotto un campo

magnetico, generato da un elettromagnete energizzato da una coppia di bobine posizionate

simmetricamente rispetto al P.M.. La cavità accelerante è costituita da due semicilindri cavi,

denominati Dees, di cui uno è posto a massa mentre l’altro è collegato ad un oscillatore che

fornisce una tensione alternata con una frequenza tipicamente compresa fra 10 e 30 MHz.

In tali condizioni, la particella interagisce con il campo elettromagnetico muovendosi

sotto l’effetto della Forza di Lorentz LFr

, espressa dalla relazione:

( )BvtEqdt

pdFL

rrrr

r×+== )( , (2.1)

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43

dove q è la carica della particella, )(tEr

è il campo elettrico oscillante, che viene creato

esclusivamente entro il gap fra i due semicilindri, e Br

è il campo magnetico, di valore

costante e direzione ortogonale alla velocità vr

della particella. All’interno delle due dees il

moto si svolge lungo traiettorie circolari6 in virtù della condizione di equilibrio tra la Forza di

Lorentz e la forza centripeta FC, ossia:

LC FqvBr

mvF ===

2

, (2.2)

dove m è la massa totale dello ione ed r il raggio dell’orbita descritta. La particella, emessa

dalla sorgente al centro della cavità, viene accelerata dal campo )(tEr

, entra nel primo dee,

dove la traiettoria viene curvata per effetto del campo magnetico e, completato un semiciclo,

si ripresenta in corrispondenza del gap dove interagisce nuovamente con il campo elettrico

guadagnando, in tal modo, un’accelerazione tale da essere spinta nel secondo dee. Da questo

istante in poi lo ione, sotto l’effetto di Br

, percorrerà un’orbita ancora circolare ma di raggio

maggiore rispetto al moto iniziale, in virtù della proporzionalità tra r e la velocità v espressa

dalla (2.2), da cui si ottiene:

qBrmv= (2.3)

dove, in particolare, il termine Br prende il nome di rigidità magnetica. La traiettoria

risultante ha una forma a spirale, come mostrato in Figura 2.2.1 (a).

La condizione fondamentale per il funzionamento di una macchina di questo tipo è

rappresentata dall’equazione:

=== RFm

qB ωω0 costante, (2.4)

6 Le particelle non seguono, in realtà, traiettorie perfettamente circolari, ma compiono delle oscillazioni sia sul piano verticale che su quello orizzontale, attorno all’orbita di equilibrio, note come oscillazioni di betatrone.

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che esprime l’isocronismo tra il moto di rivoluzione della particella, con frequenza ω0 (detta

di ciclotrone), e le oscillazioni in Radio Frequenza ωRF7 del campo elettrico accelerante (si

osserva che in tal caso ωRF è costante e non dipende dall’energia).

Oltre un certo valore dell’energia cinetica, che dipende dal tipo di particella

accelerata8, la condizione di isocronismo non viene più rispettata poiché la frequenza ω0

inizia a diminuire con l’energia a causa dell’incremento relativistico della massa che, per ioni

relativamente pesanti, diventa un fenomeno non trascurabile. Una prima soluzione al

problema consiste nel variare ωRF in funzione dell’energia. Questo espediente ha consentito

lo sviluppo del cosiddetto sincrociclotrone (SC), una macchina molto complessa in grado di

produrre fasci di protoni fino ad 800 MeV di energia (questo è il caso del SC attivo al CERN9

in Svizzera). L’aspetto negativo che deriva dall’introduzione di una ωRF variabile consiste

nella drastica riduzione in termini di intensità del fascio estratto e di conseguenza nel

7 In genere ωRF può essere un multiplo intero di ω0 secondo la relazione:

0ωω hRF = ,

dove h prende il nome di numero armonico. 8Tenendo conto dell’aumento relativistico della massa, un ciclotrone classico può accelerare protoni fino ad un’energia massima di 10 MeV. 9 Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire.

(a) (b)

Figura 2.1.1: (a) Disegno schematico del ciclotrone classico dal punto di vista di una delle espansioni polari dell’elettromagnete. (b) Rappresentazione grafica della focalizzazione assiale: le linee di forza del campo magnetico sono opportunamente sagomate in modo che questo decresca leggermente col raggio al fine di controllare, ed eventualmente ridurre, le oscillazioni compiute dalle particelle entro la cavità accelerante, rendendo così più stabile il fascio.

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passaggio da una macchina Continuous Wave, in grado di fornire fasci continui, ad una

pulsata, alla stregua di un sincrotrone.

Le caratteristiche tipiche di alta intensità e continuità del fascio generato dal ciclotrone

rimangono invariate nel caso in cui, anziché agire sul campo elettrico, venga alterata la forma

del campo magnetico in direzione radiale in modo da compensare l’incremento relativistico

della massa, lasciando ωRF costante. Questa seconda possibilità, tecnicamente più semplice,

implica però l’aumento dell’intensità di campo magnetico con il raggio dell’orbita con

conseguente defocalizzazione assiale del fascio uscente o, analogamente, perdita di stabilità

lungo la direzione verticale, come si evince da un confronto con la Figura 2.1.1 (b) in cui è

mostrata la particolare configurazione di campo magnetico del ciclotrone classico che

garantisce un effetto focalizzante assialmente10. Il problema viene in parte risolto se si

considera la nuova generazione di ciclotroni, denominati AVF (Azimuthally Varying Field),

basati sulla tecnica della focalizzazione di Thomas. Negli AVF, per evitare la dispersione

verticale del fascio, le espansioni polari della macchina vengono suddivise in settori in

corrispondenza dei quali il campo magnetico presenta valori medi differenti: sulle creste (o

hills) il campo è più intenso che nelle valli (o valleys). In tal modo si ottiene un gradiente di

campo magnetico sia in direzione radiale che azimutale, ossia lungo la traiettoria delle

particelle, come risulta visibile dalla Figura 2.2.2.

10 Se il fascio risulta focalizzato sia in direzione verticale (assiale) che in direzione orizzontale (radiale), allora l’effetto complessivo prende il nome di focalizzazione debole, caratteristica del ciclotrone classico.

(a) (b)

Figura 2.2.2: (a) Rappresentazione grafica dei settori di un ciclotrone AVF. (b) Variazioni della componente del campo magnetico lungo la direzione assiale in funzione dell’azimuth per una fissata distanza R dal centro della macchina.

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Figura 2.1.3: A sinistra: mappa del campo magnetico sul P.M. relativo al ciclotrone del progetto SCENT (Superconducting Cyclotron for Exotic Nuclei and Therapy), sviluppato ai Laboratori Nazionali del Sud di Catania, in cui è ben visibile la conformazione a spirale dei quattro settori [Cal06]. A destra: lay-out della macchina.

Una distribuzione di campo magnetico di questo tipo provoca una deformazione del

percorso a spirale visto in precedenza, ma garantisce l’isocronismo in un range di energie

molto più vasto rispetto alla configurazione convenzionale. Nelle macchine più moderne, al

fine di ottimizzare ancor più la focalizzazione assiale del fascio, specie in corrispondenza

delle orbite di raggio maggiore, i bordi dei settori vengono sagomati a spirale impiegando la

cosiddetta tecnica di focalizzazione a spirale (fringing field). Un esempio dell’applicazione di

questa tecnica è mostrato in Figura 2.1.3.

Si osserva che i magneti e le bobine convenzionali a temperatura ambiente, utilizzati

nella maggior parte dei casi, possono produrre campi magnetici massimi di 2 Tesla di modo

che le dimensioni della macchina aumentano con l’energia delle particelle estratte, come si

evince dalla (2.3). Con l’avvento della tecnologia superconduttiva per la realizzazione delle

bobine, nei cosiddetti ciclotroni superconduttori, di elevata energia ed intensità di corrente, si

possono ottenere campi magnetici fino a 4÷5 Tesla che permettono di ridurre di un fattore

2÷2.5 le dimensioni del magnete con conseguente taglio dei costi legati alle dimensioni ed al

consumo di energia.

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2.1.2 IL SINCROTRONE

Storicamente i primi sincrotroni, acceleratori di nuova concezione capaci di produrre

fasci con energie dell’ordine del GeV, furono costruiti intorno al 1950 nei laboratori di

Brookhaven (Cosmotron da 3 GeV) a New York, e di Berkeley (Bevatron da 6 GeV) in

California. Ancora oggi i più grandi acceleratori in uso sono sincrotroni che, con i progressi

fatti intorno ai primi anni ’70 nel settore progettuale, operano anche con ioni relativamente

pesanti, dal Carbonio (Z=6) all’Argon (Z=18), alle energie di interesse in campo biomedico

per il trattamento dei tumori per mezzo di radiazioni ad alto LET [Chu06].

Il principio alla base del funzionamento dei sincrotroni consiste nella sostituzione

dell’unico magnete, caratteristico del ciclotrone, con una serie di elementi magnetici, di

minori dimensioni, che agiscano sul fascio a livello locale ottenendo così il disaccoppiamento

tra sistema curvante ed accelerante (con un impatto negativo sui costi di produzione). In

particolare, i dipoli magnetici hanno il compito di guidare il fascio lungo una traiettoria quasi

circolare di raggio fissato, mentre al sistema di quadrupoli, combinati con altri tipi di

elementi, è affidata la funzione di focalizzazione.

(a) (b) Figura 2.1.4: (a) Disegno schematico del sincrotrone in funzione a Houston (USA) capace di accelerare protoni fino ad un’energia massima di 250 MeV: sono visibili i 6 bending magnets (dipoli), combinati con dei deflettori elettrostatici per la corretta piegatura del fascio, ed una sequenza di elementi (quadrupoli) focalizzanti (QF) e defocalizzanti (QD) secondo la tecnica di alternating focusing [Smi03]. (b) Porzione della linea di trasporto del fascio.

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Il sistema di accelerazione è rappresentato da una cavità risonante (resonator)

alimentata da una tensione alternata in radiofrequenza, in analogia al caso dei ciclotroni e

degli acceleratori lineari. In Figura 2.1.4 (a) è mostrato il progetto relativo al sincrotrone

Hitachi attivo presso il Proton Therapy Center del MDACC11 di Houston, mentre in Figura

2.1.4 (b) sono visibili alcuni dei magneti impiegati nella realizzazione della macchina.

Si osserva che, essendo le orbite di lunghezza fissata, il periodo orbitale, ossia il tempo

necessario a percorrere un giro completo, dipende esclusivamente dalla velocità che, a sua

volta, varia in un ampio range di valori ad ogni ciclo di accelerazione. Per questa ragione si

rende necessario l’impiego di tensioni acceleranti di frequenza variabile proporzionalmente

all’energia del fascio [Wie01]. Per uno ione di carica q l’equazione del moto orbitale è

ancora del tipo:

m

tqBvtqBmv S

)()( ==⇒= ω

ρρ (2.5)

con lo stesso significato dei simboli della relazione (2.3), ma con una sostanziale differenza:

nella (2.5) il raggio dell’orbita ρ coincide con il raggio di curvatura del singolo magnete che,

essendo costante, comporta l’applicazione di un campo magnetico di intensità variabile che

compensi le variazioni della velocità, stabilizzando la traiettoria. Nella (2.5) la grandezza ωS

rappresenta la frequenza del moto orbitale (frequenza di sincrotrone), anch’essa variabile nel

tempo con l’energia del fascio. Dal momento che, tecnicamente, le variazioni di campo

magnetico richiedono un certo intervallo di tempo, durante il quale il fascio viene guidato

fuori dalla macchina, nei sincrotroni il processo di accelerazione risulta complessivamente

più lento rispetto ad altri acceleratori ed, inoltre, i fasci in uscita non sono continui ma

pulsati, con pulse rate dell’ordine del secondo.

I problemi relativi alla focalizzazione del fascio, specie con l’aumentare delle

dimensioni della macchina, sono stati risolti, già a partire dagli anni ’50, con l’introduzione

di una nuova tecnica, detta alternating focusing12 (AF). In pratica il metodo AF, sfruttando il

principio dell’ottica geometrica secondo cui un’opportuna sequenza di lenti convergenti e

11 M.D. Anderson Cancer Center, Università di Houston, Texas, USA. 12 La tecnica AF è anche nota come focalizzazione forte.

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divergenti ha un effetto complessivamente focalizzante sul fascio (Figura 2.1.4 (a)), ha reso

possibile l’evoluzione in scala di questi acceleratori consentendo la realizzazione delle

imponenti strutture odierne quali il Protosincrotrone (PS) da 27 GeV attivo al CERN o

l’ Alternative Gradient Synchrotron (AGS) da 33 GeV di Brookhaven.

Originariamente sviluppatisi nel campo della fisica delle alte energie, i sincrotroni

hanno rivestito un ruolo fondamentale nelle applicazioni biomediche ma, l’evoluzione

concomitante di acceleratori più compatti come i ciclotroni, ne ha messo in discussione il

primato in ambito terapeutico o, comunque, ha diviso l’opinione degli “addetti ai lavori” in

due diverse scuole di pensiero. Prima di affrontare questa problematica, saranno trattate in

dettaglio le due possibili tecniche di modulazione in energia del fascio a seconda che il piano

di trattamento sia basato sull’impiego di un ciclotrone (passive shaping system) o di un

sincrotrone (active shaping system).

2.2 BEAM SHAPING SYSTEMS In generale, nei trattamenti adroterapici, la larghezza del picco di Bragg e le dimensioni

laterali del fascio di particelle risultano insufficienti rispetto all’estensione del volume da

trattare, perciò si rende necessario estendere il fascio stesso, sia lateralmente che

longitudinalmente, in modo da intercettare il bersaglio con la massima precisione ottenibile.

A questo scopo si possono applicare due diverse strategie, note come sistema passivo

ed attivo (passive ed active shaping systems).

Storicamente i sistemi passivi si sono sviluppati per primi, in stretta analogia con le

tecniche di messa in forma dei fasci di fotoni adoperati nelle terapie convenzionali. Anche se

la maggior parte dei centri di adroterapia si affidano ancora ai sistemi passivi, sia al Paul

Scherrer Institute (PSI), in Svizzera, che al GSI13, in Germania, sono stati sviluppati sistemi

dinamici per protoni e Carbonio rispettivamente. Entrambi questi sistemi saranno trattati

separatamente e ne saranno valutati vantaggi e svantaggi in sede di trattamento.

13 Gesellschaft für Schwerionenforschung, Darmstadt, Germany.

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2.2.1 PASSIVE SHAPING SYSTEM Il passive shaping system è un metodo per controllare il diametro, l’energia massima e

lo spreading energetico del fascio di ioni attraverso tecniche di scattering e di degrading che

prevedono l’uso di una serie di scatteratori ed assorbitori utili ad ottenere una distribuzione

di dose al target spazialmente uniforme a tutte le profondità.

Sin dalla progettazione dei primi acceleratori, la modulazione in energia dei fasci

estratti si è dimostrata un’operazione complessa che richiede, inoltre, tempi piuttosto lunghi.

Al fine, quindi, di soddisfare tutti i requisiti relativi al range delle particelle nei diversi casi

clinici, l’energia del fascio viene fissata al massimo valore ottenibile dalla macchina e

successivamente degradata in accordo con la massima profondità di penetrazione necessaria

per uno specifico paziente, interponendo tra fascio e target una colonna d’acqua di altezza

variabile, mediante un apposito pistone, oppure un range shifter binario, costituito da due

lastre di diverso materiale con basso numero atomico, come il PMMA14 o altre sostanze

plastiche tessuto-equivalenti [Kra00]. In entrambi i casi si rileva, però, un peggioramento

della qualità del fascio a causa, principalmente, di tre fenomeni: lo scattering laterale e il

range straggling, specie per fasci di protoni, e la frammentazione del proiettile per ioni più

pesanti.

In particolare, lo scattering laterale (multiple scattering) consiste nella deflessione

complessivamente subita dal fascio di ioni incidenti rispetto al centro della traiettoria iniziale

e dovuta alle innumerevoli deviazioni, di piccolo angolo, per collisioni elastiche con i nuclei

del mezzo attraversato. Il processo è dominato dall’interazione Coulombiana ma possono

presentarsi, anche se in minima parte, eventi di scattering dovuti all’interazione nucleare tra

proiettile e bersaglio. Per piccoli angoli di deflessione, la distribuzione angolare delle

particelle scatterate è approssimativamente Gaussiana e la deviazione media del fascio è,

all’incirca, proporzionale alla profondità di penetrazione (§ 1.2).

L’effetto noto come range straggling corrisponde, invece, alla dispersione in termini di

lunghezza di cammino (range) del fascio di particelle, che trae origine dalle fluttuazioni

statistiche nel processo di perdita di energia entro il mezzo assorbente. Per una particella che 14 PoliMetilMetacrilAto.

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transita lungo una certa direzione (xr

) con un’energia E ed una profondità di penetrazione

media R, la distribuzione del range r(x) è di tipo Gaussiano e può scriversi [Chu06]:

2

2

2

)(

2

1)( x

Rx

x

exr σ

σπ

−−

= . (2.6)

dove:

Rx ∝σ ed A

x

1∝σ per )402( << R cm. (2.7)

Nella regione di validità della relazione (2.6), ossia per )402( << R cm, i fenomeni di

range straggling e di multiple scattering mostrano un andamento proporzionale ad R ed

inversamente proporzionale alla radice quadrata del numero di massa A delle particelle del

fascio, come mostrato in Figura 2.2.1 [Chu06].

Per quanto detto, la dispersione incontrollata del fascio dovuta a questi effetti risulta

molto più pronunciata per ioni più leggeri, come i protoni, che per ioni più pesanti, come gli

ioni Carbonio che, di conseguenza, sono indubbiamente più adatti, da questo punto di vista,

(a) (b)

Figura 2.2.1: Le interazioni fra gli ioni leggeri ed il materiale attraversato sono caratterizzate dai fenomeni di range straggling σ (a) e di multiple scattering (b). Ad esempio, i valori di σ relativi ad uno spessore di 20 cm di acqua per protoni, Elio, Carbonio e ioni Neon sono uguali a 2.0, 1.0, 0.6 e 0.5 mm rispettivamente [Chu06].

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ad essere impiegati nelle facilities basate su sistemi passivi di messa in forma del fascio

rispetto ai primi.

Il rovescio della medaglia è però rappresentato dal terzo effetto su menzionato

rappresentato dal processo per cui il nucleo proiettile, in seguito ad una collisione con il

nucleo bersaglio, si frammenta in parecchie particelle più leggere, che emergono dal

materiale attraversato con velocità molto prossima a quella del fascio incidente (anche i

nuclei bersaglio possono “rompersi” ma, in questo caso, i frammenti hanno energia

relativamente bassa rispetto al primario). Per protoni incidenti su un target tessuto-

equivalente, i principali prodotti di interazione sono i cosiddetti neutroni di rinculo (knocked-

out neutrons) provenienti dai nuclei bersaglio e responsabili di un piccolo contributo alla

dose complessiva rilasciata dal primario, oltre la regione di frenamento. Per ioni più pesanti,

come il Carbonio ed il Neon, il processo dominante nell’interazione col mezzo assorbente è

rappresentato, piuttosto, dalla frammentazione in un largo numero di specie nucleari, tale da

comportare il rilascio di una dose significativa oltre il picco di Bragg delle particelle del

primario, a cui si accompagna un rischio reale di danneggiamenti ai tessuti sani circostanti il

volume da trattare.

Per le motivazioni affrontate fino a qui, poiché i sistemi passivi sono basati

sull’impiego dei cosiddetti energy degraders per la modulazione in energia del fascio in

uscita dall’acceleratore (questo è il caso del ciclotrone), occorre che questi dispositivi siano

accoppiati a dei magneti di curvatura (bending magnets) al fine di garantire l’eliminazione

dei frammenti per selezione magnetica (in base al valore della rigidità, funzione del rapporto

tra massa e carica di ogni specie nucleare) e la riduzione di fenomeni indesiderati quali lo

straggling in energia. In particolare, i range shifters a base di sostanze tessuto-equivalenti,

come l’acqua, sono preziosi strumenti in campo dosimetrico utili anche per effettuare misure

di precisione di curve di Bragg. Sebbene questo tipo di degrader sia molto semplice

costruttivamente, lo shifter deve essere realizzato ed utilizzato con attenzione se si vuole

intervenire con alto grado di precisione anche su una grande area da trattare (la precisione

richiesta è dell’ordine del decimo di millimetro).

Le tecniche passive per la messa in forma del fascio si basano, inoltre, sui cosiddetti

scattering systems al fine di ottenere uno spreading laterale controllato in base alle

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dimensioni del volume bersaglio. Uno dei metodi impiegati è detto metodo del doppio

scattering che prevede un primo diffusore lungo il cammino del fascio che conferisce una

distribuzione bidimensionale approssimativamente Gaussiana alle particelle uscenti. La parte

centrale e laterale di questa distribuzione vengono bloccate al passaggio attraverso le aperture

concentriche ricavate in un anello occlusivo, che svolge una funzione di selezione e

ridimensionamento, posto subito dopo il primo diffusore; infine, un secondo diffusore rende

il fascio più omogeneo con una caratteristica forma piatta al centro (flat top) e rapidamente

decrescente ai lati, come mostrato in Figura 2.2.2 [Hir06]. La distribuzione uniforme di dose

così prodotta presenta dimensioni trasversali maggiori rispetto al bersaglio tumorale quindi è

necessario l’uso di un collimatore, posto in prossimità della parte da irradiare, per

l’adattamento laterale definitivo del profilo del fascio.

Nell’applicazione di questa tecnica di spreading passivo, una frazione considerevole

dell’intensità iniziale del fascio non viene trasmessa a causa dell’interazione con i dispositivi

di bloccaggio, per cui si rende necessaria una maggiore intensità del primario, anche se ciò

comporta la produzione di neutroni di rinculo specie ad angoli in avanti, nella direzione di

propagazione del fascio, che contribuiscono alla contaminazione del target. Al fine di

Figura 2.2.2: A sinistra: schema esemplificativo del metodo del doppio scattering. A destra: wobbling system e corrispondente distribuzione della dose nel volume bersaglio [Hir06].

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controllare lo spreading laterale del fascio ed allo stesso tempo di ripulirlo dalla presenza di

eventuali frammenti indesiderati, sono stati progettati diversi sistemi di deflessione

magnetica costituiti, in generale, da una coppia di dipoli, alimentati da correnti alternate, che

generano due campi ortogonali fra loro ed ortogonali al percorso della radiazione. Una di

queste tecniche dinamiche di messa in forma del fascio è nota come wobbling, sviluppatasi a

Berkeley per le applicazioni con ioni pesanti, secondo cui i magneti deflettenti sono

alimentati da correnti variabili sinusoidalmente nel tempo con la stessa frequenza, ma con

una differenza di fase di 90°, come mostrato in Figura 2.2.2. Lo spostamento di fase delle

correnti produce una distribuzione di dose al target di forma toroidale (evidenziata in Figura

2.2.2 con una freccia di colore verde) che viene corretta, specie nella regione centrale,

mediante l’uso combinato di sottili lamine di scattering con una serie di anelli di raggio

variabile a seconda della forma del campo di radiazione desiderata. Inoltre l’omogeneità della

dose si ottiene solo ricoprendo più volte l’intero volume del bersaglio, compensando in tal

modo le fluttuazioni proprie del fascio rilasciato dall’acceleratore.

In particolare, è possibile restituire una distribuzione di dose dai contorni netti, ad

esempio di forma rettangolare, e di diverse dimensioni, aumentando lentamente la corrente in

uno dei due magneti ed imponendo una corrente a dente di sega nel secondo, in base alla

tecnica di rasterscan. L’uniformità del campo di radiazione si ottiene, nuovamente, con una

scansione rapida e ripetuta dell’area bersaglio, secondo lo schema di Figura 2.2.3.

Figura 2.2.3: Raffigurazione del principio di rastescanning rettangolare, basato su frequenze fissate delle correnti di alimentazione dei magneti. Una distribuzione di dose omogenea è ottenuta muovendo il fascio secondo lo schema a zig-zag mostrato rispetto alla superficie da irradiare [Kra00].

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Le nuove tecniche dinamiche di wobbling e rasterscanning, in virtù dei numerosi

vantaggi che comportano, hanno quasi completamente sostituito, nella maggior parte delle

facilities per adroterapia, i più vecchi sistemi basati sullo scattering.

Uno dei compiti fondamentali del passive shaping system, come accennato in

precedenza, è rappresentato dalla modulazione del range delle particelle del fascio, ossia

dalla possibilità di sovrapporre parecchie curve di Bragg, corrispondenti ad energie diverse e

di intensità successivamente decrescenti, al fine di conseguire un profilo di distribuzione di

dose con la profondità relativamente elevato ed uniforme, come quello di Figura 2.2.4

[Wey04], denominato Spread-Out Bragg Peak (SOBP).

Nel caso dei protoni, per cui l’Efficacia Biologica Relativa (RBE) dipende debolmente

dal range, sommando fra loro diverse curve di Bragg si ottiene una distribuzione della dose

assorbita sufficientemente omogenea. Diversamente, nel caso degli ioni pesanti bisogna

tenere in considerazione la forte dipendenza dello RBE dal range, attribuendo un peso ad

ogni curva di Bragg, in modo da ottenere un effetto biologico omogeneo.

Analiticamente la dose D, corrispondente ad un certo valore della profondità di

penetrazione zi, è data dalla somma pesata dei contributi di dose dj relativi all’n-esima curva a

cui è associata la peculiare posizione Zi del picco di Bragg, secondo la relazione [Kra00]:

Figura 2.2.4: Costruzione di un picco di Bragg esteso per sovrapposizione di curve di Bragg singole, corrispondenti ai diversi valori di energia del fascio [Wey04]

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∑=

=n

jijji zdWzD

1

)()( , (2.8)

dove il peso Wj può includere (ioni pesanti) o meno (protoni) la dipendenza dello RBE dalla

profondità, essendo calcolato in base a modelli di fascio appropriati. In pratica i pesi Wj si

traducono in quelle porzioni di superficie del materiale assorbente (range modulator) tali da

produrre uno spostamento del picco di Bragg nella posizione voluta, conseguita tramite un

rapido movimento rotatorio o traslatorio del modulatore. Ogni regione elementare di area da

irradiare, in fase di trattamento, verrà più volte ricoperta dal fascio, che interagisce con uno

spessore variabile del modulatore, in modo da rivestire l’intero volume del tumore, dalla

regione prossimale a quella distale. L’applicazione di sistemi passivi implica che

l’andamento della distribuzione di dose fisica risulti, così, determinato dalle proprietà

meccaniche del modulatore.

A questo punto si osserva che, in accordo con la formula di Bethe e Bloch (§ 1.2), la

perdita di energia di uno ione risulta proporzionale al numero di atomi o molecole del

bersaglio per unità di volume, aumentando, di conseguenza, con la densità del materiale

attraversato. Nel caso specifico del corpo umano, tessuti di densità e composizione chimica

differente si trovano in posizioni talmente prossime fra loro che la densità varia tra 0.8 ed 1.7

g/cm3 nel passaggio da un tessuto adiposo ad uno osseo, e vale circa 0.0001 g/cm3 negli spazi

d’aria situati vicino all’orecchio ed al naso. Nella preparazione di un trattamento adroterapico

basato su un sistema di rilascio passivo della dose, occorre, dunque, tener conto della

distribuzione di densità entro il corpo del paziente. Dal momento che la maggior parte dei

tessuti umani hanno densità molto prossima ad 1 g/cm3, poiché costituiti essenzialmente di

acqua, eventuali deviazioni dall’unità entro il volume da trattare possono essere bilanciate

mediante appositi compensatori (o boli), di forma opportuna, montati lungo il cammino del

fascio, prima che questo raggiunga il paziente. Compensatori estremamente complessi

vengono, al giorno d’oggi, realizzati in modo computerizzato attraverso dei software di

calcolo della distribuzione di densità caratteristica del caso clinico analizzato.

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Width of SOBP

Figura 2.2.5: L’applicazione di un collimatore ad apertura regolabile accoppiato ad un compensatore comporta una migliore conformità della distribuzione di dose ai volumi elementari in cui è suddiviso il tumore da trattare [Kra00].

La distribuzione di dose ottenuta con i sistemi passivi descritti fin qui può, tuttavia,

estendersi oltre il volume prefissato ed interessare, in ugual misura, i tessuti sani circostanti.

Al fine di rendere conforme quanto più possibile il danno biologico da radiazione alla

regione di interesse, si immagina di suddividere il volume bersaglio in piccole porzioni da

trattare separatamente. Dal momento che ad ogni porzione viene rilasciata una distribuzione

omogenea della dose sia longitudinalmente che ortogonalmente rispetto all’asse del fascio,

l’irraggiamento delle porzioni poste a maggiore profondità produrrà, accidentalmente, una

deposizione di dose indesiderata anche alle regioni intermedie e prossime alla pelle.

L’introduzione di un compensatore aggiuntivo di forma opportuna, rendendo l’area della

sezione del fascio maggiore in corrispondenza della regione distale del target e riducendone

gradualmente le dimensioni procedendo in direzione prossimale, consente di ottenere una

conformità della dose al target decisamente più elevata, come risulta chiaro dallo schema di

Figura 2.2.5 [Kra00].

In ultima analisi, affinché il piano di trattamento sia efficace, è indispensabile che il

ciclo vitale di tutte le cellule malate sia inibito definitivamente ed in ugual misura, evitando il

presentarsi dei cosiddetti cold spots, regioni di sovrapposizione dei volumi elementari in cui

è suddiviso il tumore che presentano un livello di dose assorbita complessivamente inferiore

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rispetto alle altre zone, responsabili della crescita recidivante del tumore a distanza dal

trattamento.

Le tecniche passive di shaping dei fasci di adroni sono il frutto del lavoro pionieristico

portato avanti presso il Lawrence Berkeley Laboratory (LBL), negli Stati Uniti, dal 1975 fino

al 1993, e vengono attualmente impiegate anche in altri importanti centri di adroterapia,

come il National Institute of Radiological Science (NIRS), in Giappone, che rappresenta una

delle facilities più avanzate basate su fasci di Carbonio.

2.2.2 ACTIVE SHAPING SYSTEM Risale a Dicembre del 1997 l’attivazione del primo impianto sperimentale per

radioterapia con ioni pesanti al German Heavy Ion Research Center (GSI) a Darmstardt, in

Germania, con l’intento di analizzare l’impatto clinico dei fasci di ioni 12C e di dimostrarne i

vantaggi in termini di rilascio della dose al target e di efficacia biologica del trattamento

rispetto all’impiego di fasci di protoni.

In questo contesto è stata sviluppata la cosiddetta tecnica di active beam shaping,

soprattutto al fine di superare alcuni dei limiti dei sistemi passivi che, nonostante risultino

meno complessi, presentano una flessibilità ridotta nella conformazione tridimensionale della

dose al bersaglio ed un accoppiamento problematico ai fasci di ioni, a causa del fenomeno

della frammentazione.

Il sistema di shaping attivo associa la tecnica di scansione magnetica del fascio alla

modulazione in energia direttamente dall’acceleratore, che può essere ottenuta, ad esempio,

con l’uso di un sincrotrone. Il volume bersaglio viene suddiviso idealmente in elementi

tridimensionali, detti voxels (in analogia con i pixels bidimensionali). Ad ogni voxel deve

essere associata una distribuzione di dose appropriata o, nel caso degli ioni pesanti, una dose

biologicamente efficace ripartita omogeneamente. Dal momento che il profilo della dose con

la profondità di penetrazione nei tessuti, che corrisponde all’andamento della curva di Bragg,

prevede un rilascio graduale di energia, anche se molto più intenso verso la fine del percorso,

voxel distinti non possono essere trattati indipendentemente l’uno dall’altro, ma bisogna

considerare, per ciascuno di essi, il contributo alla singola dose dovuto all’irraggiamento dei

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volumi adiacenti. A questa componente si somma un’ulteriore dose aggiuntiva derivante dai

frammenti, prodotti nell’interazione degli ioni incidenti con il target, di modo che il valore di

RBE in ciascun voxel dipenderà dalla specifica composizione in energia e numero atomico

del fascio. Il metodo attivo risulta applicabile, dunque, solo con l’introduzione di modelli che

descrivano il comportamento del fascio e di software per il calcolo del valore di RBE in ogni

volume elementare, al fine di determinare il flusso di particelle necessario al conseguimento

della dose richiesta.

Il passo successivo nella progettazione di un sistema di shaping attivo è rappresentato

dalla scelta del metodo di scanning, ossia della tecnica di distribuzione dinamica del fascio

attraverso cui variarne le coordinate su un piano ortogonale alle direzione di propagazione ed

ottenere, così, la corretta conformazione di dose al volume bersaglio. I sistemi di scanning

attualmente in uso sono basati sulla deflessione magnetica trasversale in una o in due

direzioni, a seconda che il metodo sia sviluppato per fasci di protoni (PSI) o per ioni

Carbonio (GSI).

Nel primo caso l’area totale di un voxel viene idealmente suddivisa in elementi di

superficie puntiformi (spot), disposti in modo tale da tracciare una fitta maglia, che verranno

irradiati separatamente, secondo il lay-out di Figura 2.2.6 [Hab93].

In condizioni di fascio inattivo ed in base alla posizione di ogni spot, vengono

opportunamente regolati i due campi magnetici, ortogonali fra loro, impiegati per la

Figura 2.2.6: Suddivisione grafica di un’area bersaglio rettangolare secondo la tecnica di spot scanning (a sinistra) e di raster scanning (a destra) [Hab93].

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deflessione verticale ed orizzontale; attivato il fascio e fissato ad hoc il fluence delle

particelle, viene così rilasciata la dose richiesta al singolo spot. Secondo questa tecnica, detta

spot scanning, le operazioni descritte dovranno essere ripetute per ogni elemento di

superficie fino alla copertura completa del voxel, che richiede circa 103 ÷104 posizioni diverse

del fascio. Il limite principale del metodo dello spot scanning è rappresentato dai tempi morti

necessari ad attivare e disattivare il fascio ed a rendere stabile il campo magnetico deflettente,

mentre il pregio maggiore consiste nella possibilità di trattare sia superfici rettangolari che

irregolari.

La seconda modalità di scanning attivo si realizza attraverso un movimento continuo

del fascio secondo uno schema prefissato che prevede, stavolta, la suddivisione della

superficie di ogni voxel in strisce elementari, come mostrato in Figura 2.2.6, su cui incide un

numero ben preciso di particelle per unità di superficie. In base a questa tecnica, detta raster

scanning, non è necessario interrompere il flusso delle particelle, fissato il voxel da irradiare,

e la velocità di scansione del fascio deve essere aumentata in modo proporzionale

all’intensità ed inversamente proporzionale al rate di copertura.

L’indicazione relativa all’intensità è ottenuta mediante appositi monitor che rivelano le

fluttuazioni del fascio e la loro entità e trasmettono l’informazione al sistema di controllo

Figura 2.2.7: Schema della procedura di intensity-controlled raster scanning. Il volume bersaglio è suddiviso in porzioni (slice) che corrispondono ad un valore fissato del range, e quindi dell’energia, delle particelle incidenti [Hab93].

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(intensity controlled raster scanning). Uno schema esemplificativo della tecnica descritta è

mostrato in Figura 2.2.7.

Si osserva che i sistemi attivi, a differenza di quelli passivi, sono basati su un modello

di fascio altamente focalizzato, denominato pencil beam, che offre la possibilità di irradiare il

target, di forma spesso molto irregolare, in modo estremamente preciso ed omogeneo. Dai

risultati delle simulazioni si deduce, inoltre, che un ottimo grado di uniformità nella

distribuzione di dose al target si ottiene, con i metodi visti, a condizione che la spaziatura fra

gli spot, o fra le strisce elementari, risulti minore della semiampiezza della sezione

trasversale del fascio.

Ultimata la scansione di un voxel occorre, infine, variare l’energia del fascio in modo

da proseguire in direzione longitudinale con l’irradiazione del voxel adiacente, procedendo

secondo profondità decrescenti. Anche in questo caso, al fine di garantire una maggiore

uniformità nella distribuzione di dose, occorre che la distanza fra voxels adiacenti sia minore

della semiampiezza del picco di Bragg.

In questa fase l’energia può essere modulata in modo passivo, attraverso dei materiali

assorbenti di forme e spessori variabili, detti energy degraders, posti sulla linea di fascio,

oppure in modo attivo, a partire direttamente dall’acceleratore. Attualmente, nelle terapie con

fasci di protoni (PSI), si preferiscono i sistemi di degrado passivi accoppiati ad acceleratori,

quali i ciclotroni, per cui non è possibile variare l’energia direttamente dalla macchina. Nel

caso degli ioni pesanti, al contrario, risulta privilegiato l’impiego dei sincrotroni (GSI), che

consentono una modulazione dell’energia col metodo pulse to pulse, in base al quale è

possibile fissare inoltre l’intensità ed il diametro del fascio.

In contrapposizione a queste scelte, si vuole promuovere, nel presente lavoro di tesi,

l’impiego della tecnologia dei ciclotroni superconduttori nei piani di trattamento con fasci

ioni 12C ad intensità modulata (IMPT15), basata su sistemi di degrado passivi e rivolgere,

dunque, particolare attenzione al processo di frammentazione subita dagli ioni incidenti

nell’interazione sia con i degraders di energia che con i tessuti biologici irradiati.

15 Intensity Modulated Particle Therapy.

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Si ritiene necessario quindi indicare le motivazioni di questa preferenza tracciando un

quadro generale dei principali vantaggi e svantaggi derivanti dalla scelta dell’acceleratore e

del sistema di rilascio (beam delivery system) della dose al paziente.

2.3 CRITERI DI SCELTA DEL BEAM DELIVERY SYSTEM L’aspetto principale nella progettazione di un impianto ospedaliero dedicato alla terapia

con fasci di ioni, come il Carbonio, è rappresentato dal corretto accoppiamento

dell’acceleratore di particelle con una tecnica di rilascio della dose al paziente tale da poter

soddisfare ognuna delle possibili opzioni del piano di trattamento.

Dal momento che il primo step consiste nella scelta dell’acceleratore, si osserva che i

vantaggi derivanti dall’uso di un ciclotrone superconduttore rispetto ad un sincrotrone sono

molteplici e di varia natura.

In primo luogo, il ciclotrone classico rappresenta una macchina concettualmente e

costruttivamente meno complessa rispetto ad un sincrotrone, soprattutto in virtù della

produzione di fasci di energia fissata, ottenuti mediante una RF di accelerazione costante, e

delle impostazioni della linea di trasporto più facilmente gestibili. A queste caratteristiche si

aggiunge la possibilità di diminuire eventualmente le dimensioni del ciclotrone con

l’applicazione di campi magnetici più intensi, tipicamente ottenuti con dei magneti

superconduttori che contribuiscono, inoltre, alla riduzione del peso della macchina di circa la

metà rispetto all’uso di magneti a temperatura ambiente, con conseguente abbattimento dei

costi di funzionamento. Nel caso del sincrotrone la riduzione delle dimensioni non è

realizzabile, per cui l’acceleratore mantiene comunque dimensioni trasversali di circa 20

metri, contro il diametro tipico di un ciclotrone che si aggira su soli 6 metri.

In ambito radioterapico, al ciclotrone superconduttore (CS) sono associabili prestazioni

superiori rispetto al sincrotrone dal punto di vista, principalmente, della struttura temporale

del fascio estratto, estremamente intenso e stabile, fattore chiave per l’affidabilità, specie nel

caso in cui venga utilizzato un sistema di diffusione dinamico. In particolare, il CS è una

macchina Continuous Wave (§ 2.1.1) in cui il processo di accelerazione richiede un intervallo

di tempo estremamente breve, variabile da 10 a 20 µs, per cui è possibile attivare e disattivare

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Figura 2.3.1: Profilo di estrazione di un fascio di Kripton, di energia pari a 1 GeV/nucleone, generato dall’acceleratore SIS presso il GSI. Come si vede nel riquadro di destra, il fascio può essere spento in un intervallo di tempo di circa 500 µs [Hab93].

l’erogazione del fascio molto rapidamente. Il controllo dinamico dell’intensità può essere

realizzato semplicemente tramite una camera a ionizzazione posta lungo la linea di

estrazione, che consenta di stabilizzare il fascio a qualunque livello, con tempi di risposta

inferiori a 100 ms. Attraverso un apposito circuito di sicurezza è possibile, inoltre,

interrompere il funzionamento della macchina in meno di 10 ms evitando, in tal modo,

un’eventuale extradose al paziente [Wei01].

A differenza del CS, il sincrotrone produce fasci pulsati di energia variabile ad

intervalli di pochi MeV ed intensità limitata, caratterizzati da una struttura temporale

piuttosto complessa. Ad esempio, il fascio generato dal sincrotrone in funzione al GSI (SIS)

mostra un profilo di estrazione periodico tale che ogni ciclo da 1 secondo risulta suddiviso in

due intervalli da 250 ms di erogazione delle particelle accelerate (spill), ciascuno dei quali è

preceduto da 250 ms di preparazione [Hab93]. Ogni spill, a sua volta, evolve nel tempo in

modo complicato, come appare chiaramente dal grafico di Figura 2.3.1.

In tali condizioni non è possibile determinare l’eventuale extradose rilasciata al

paziente in seguito, ad esempio, ad uno spegnimento d’emergenza. Tale problema potrebbe

essere risolto imponendo una soglia di intensità del fascio, che consenta di ottenere una

maggiore uniformità nel profilo di estrazione tenendo conto, però, che questa scelta comporta

una riduzione dell’efficienza di produzione e l’aumento del tempo di erogazione della dose

prescritta, con conseguente attivazione degli elementi presenti sulla linea e maggiore stress

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della macchina. In fase di terapia, il fascio generato dal sincrotrone, essendo estratto in

pacchetti discreti, è presente tipicamente soltanto per metà, all’incirca, del tempo totale di

esposizione, per cui il sistema di scansione del volume bersaglio deve operare con velocità

doppia rispetto all’accoppiamento con un ciclotrone.

D’altra parte il sincrotrone possiede due aspetti vantaggiosi rappresentati dalla

mancanza di limiti operativi all’energia massima ottenibile e dalla possibilità di modulare

l’energia del fascio nella fase di estrazione, caratteristica che rende questi acceleratori

particolarmente adatti all’impiego clinico, specie con fasci di ioni. In tal caso, infatti,

l’assenza di un sistema passivo di modulazione dell’energia, indispensabile per i ciclotroni,

permette di annullare la contaminazione del fascio primario da parte di secondari più leggeri,

originati dalla frammentazione del proiettile sul materiale costituente il degrader di energia.

Sulla base di queste ultime considerazioni, si è oramai affermata la tendenza, nel

mercato internazionale, all’impiego dei ciclotroni presso i centri di protonterapia e dei

sincrotroni in tutte le facilities ove sia privilegiato il trattamento con fasci di ioni. Se si

considerano gli aspetti economici, impiantistici, edilizi e gestionali di un centro di

adroterapia, la scelta del ciclotrone risulta sicuramente preferibile. In particolare, dal punto di

vista economico, l’elevata stabilità del fascio estratto dal ciclotrone si traduce in sistemi di

gestione semplificati rispetto ad un sincrotrone che, per questa ragione, richiedono costi

complessivamente ridotti, specie se si considera l’elettronica di controllo dei parametri della

macchina, quali l’intensità del fascio. A tal proposito, l’investimento necessario ai fini della

progettazione, costruzione e messa in funzione di un acceleratore per protoni, particelle α,

Litio, Berillio e ioni Carbonio, ammonta a circa 20-25 M€ per un CS da 300 MeV/u,

includendo il sistema di selezione dell’energia, mentre per un sincrotrone da 400 MeV/u la

spesa si aggira intorno ai 40-45 M€.

É utile evidenziare, infine, che nel 70% dei casi clinici ed in relazione, specialmente,

alla profondità della regione tumorale da trattare, si ritiene particolarmente appropriato

l’utilizzo di fasci di ioni Carbonio di energia massima pari a 300 MeV/u, ottenibili con un

sincrotrone così come con un CS, dato che nel secondo caso l’energia massima non supera i

400 MeV/u.

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Da tutte le considerazioni fin qui esposte ed in virtù delle specifiche esperienze

maturate nell’ambito dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), sia dal punto di vista

dello sviluppo di ciclotroni superconduttori che della superconduttività in generale, è nata

l’idea del progetto SCENT (Superconductive Cyclotron for Exotic Nuclei and Therapy) come

proposta congiunta di ricercatori e tecnologi operanti presso i Laboratori Nazionali del Sud

(LNS) di Catania e della sezione INFN di Genova. Considerata l’assenza sul mercato

internazionale di una facility per adroterapia con protoni e ioni Carbonio basata sull’impiego

di un ciclotrone superconduttore, gli studi effettuati sono stati indirizzati, principalmente,

verso la determinazione dei limiti fisici ed ingegneristici di una macchina installabile presso

un centro ospedaliero. Il ciclotrone superconduttivo del progetto SCENT (Figura 2.1.3) avrà

un diametro di 5 m e potrà accelerare protoni con un’energia massima di 250 MeV e ioni

leggeri totalmente ionizzati fino ad un’energia di 300 MeV/u, permettendo così il trattamento

della quasi totalità dei tumori localizzati nella regione della testa e del collo, del polmone e

tutti i tumori cerebrali altamente resistenti alla radioterapia convenzionale, basata

sull’esposizione ai raggi-X [Cal06].

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3. INTERAZIONE DEGLI IONI CON LA MATERIA: GENERALITÁ

3.1 INTRODUZIONE La crescente richiesta di conoscenze più approfondite dei processi di interazione degli

ioni con la materia è un’esigenza legata, non solo alla ricerca di base della fisica nucleare, ma

anche a settori applicativi, quali l’adroterapia e la radioprotezione. In particolare, lo studio

del processo di frammentazione degli ioni di interesse in campo medico, come il Carbonio,

rappresenta la principale finalità delle misure analizzate in questo lavoro di tesi, realizzate

anche allo scopo di compensare la scarsa disponibilità di dati per fasci di 12C ad energie

intermedie, ossia comprese tra 20 e 400 MeV/u, su differenti tipi di bersagli.

Al fine di poter meglio interpretare i risultati dell’analisi dati in questo intervallo di

energie, caratterizzato dalla competizione di molti processi, occorrono dei criteri di

classificazione dei vari meccanismi di reazione.

Generalmente, le interazioni degli ioni con la materia vengono schematizzate in base

all’energia incidente ed al parametro d’urto che, essendo definito come la distanza fra la

traiettoria del proiettile durante il moto di avvicinamento e la retta ad essa parallela passante

per il nucleo bersaglio, rappresenta un indice del grado di centralità della collisione. Questo

aspetto è di fondamentale importanza nella caratterizzazione della dinamica del processo in

quanto, a parità di energia iniziale, i canali di reazione sono diversi al variare del parametro

di impatto.

Per bassi valori di energia, proiettile e bersaglio interagiscono esclusivamente

attraverso la forza di Coulomb, potendo essere diffusi sia elasticamente che anelasticamente.

Le forza nucleari entrano in gioco quando l’energia del centro di massa ECM del sistema è

sufficientemente elevata da superare la barriera coulombiana, di modo che la lunghezza

d’onda associata al proiettile risulti molto minore delle dimensioni del nucleo bersaglio.

Sulla base di una trattazione semiclassica delle interazioni [Hod78], è possibile darne

una classificazione in base alla distanza minima rmin tra i due ioni interagenti, legata al

parametro d’urto b ed all’energia del centro di massa ECM, tramite la relazione:

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Figura 3.1.1: Dipendenza dei vari tipi di reazione dalla relazione tra r ed R[n] , dove r è la minima distanza fra i due nuclei, fissato un parametro di impatto, ed R[n] è il raggio nucleare.

CMErV

br

)(1 min

min −= , (3.1)

dove V(rmin) rappresenta il potenziale nucleare. In base al confronto tra rmin ed il raggio

nucleare R[n], è possibile distinguere quattro regioni in cui certi tipi di processi sono

predominanti rispetto ad altri, secondo la seguente classificazione:

1. per ][min nRr << si ha la regione di fusione;

2. per ][min nRr < si ha la regione di deep-inelastic scattering e di fusione incompleta;

3. per ][min nRr ≈ si ha la regione periferica di scattering;

4. per ][min nRr > si ha la regione di scattering coulombiano,

come mostrato schematicamente nel diagramma di Figura 3.1.1.

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Nella regione di fusione, proiettile e bersaglio interagiscono formando un nucleo

composto, inizialmente lontano dall’equilibrio statistico, in quanto una frazione notevole

dell’energia in eccesso si converte in energia di eccitazione, dando origine ad un moto

collettivo traslazionale dei nucleoni al suo interno. Questo moto collettivo, originariamente

ordinato, in seguito ad una cascata di interazioni nucleone-nucleone, si trasforma in un moto

termico caotico, secondo il processo noto come termalizzazione del nucleo composto. Prima

che il sistema possa raggiungere la condizione di equilibrio termico, nucleoni o cluster di

nucleoni, con energia considerevolmente superiore all’energia di equilibrio poiché

fortemente accelerati da collisioni multiple, possono essere emessi nel continuo. Queste

emissioni, dette emissioni di pre-equilibrio, risultano dominanti all’aumentare dell’energia

relativa degli ioni interagenti e comunque non trascurabili anche ad energie poco superiori

alla barriera coulombiana.

Se l’energia dello ione incidente non è molto alta, inferiore a circa 25 MeV/u, le

particelle espulse dopo la fusione sono solitamente rivelate in coincidenza con il nucleo

residuo, rimasto dopo le emissioni di pre-equilibrio, di massa paragonabile a quella del

nucleo composto. In tali condizioni, i nuclei residui vengono rivelati in genere ad angoli

molto piccoli e con velocità simile a quella del nucleo composto, mentre le particelle di pre-

equilibrio sono emesse isotropicamente, hanno una massa piuttosto piccola se confrontata

con quella del nucleo composto e sono di bassa energia. All’aumentare dell’energia

incidente, il nucleo composto si troverà in uno stato eccitato tale che le particelle emesse

saranno dotate di massa ed energia maggiore, di modo che la velocità del nucleo residuo sarà

considerevolmente più bassa di quella del nucleo composto.

Nel caso in cui il nucleo composto, oltre che un’elevata energia di eccitazione, possieda

anche un alto valore del momento angolare può accadere che, subito dopo la sua formazione,

si fissioni in due parti. Difatti, ad un elevato momento angolare è associato un moto di

rotazione collettivo dei nucleoni che comporta lo stabilirsi di una deformazione lungo un asse

perpendicolare all’asse di rotazione, con conseguente formazione di nuclei prolati, in modo

da minimizzare l’energia rotazionale. Al crescere del momento angolare totale, l’ellissoide di

rotazione diviene sempre più allungato finché non si scinde in due grossi frammenti, ma

poiché non tutti gli stati sono accessibili, il nucleo composto emetterà prima di tutto particelle

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prevalentemente leggere (nucleoni) e poi procederà alla fissione, se l’energia ed il momento

angolare sono ancora sufficientemente elevati. Tali emissioni sono dette di evaporazione,

poiché il nucleo composto deformato può essere assimilato ad una goccia di liquido da cui si

separano delle molecole, in analogia al processo di evaporazione dei liquidi.

Tra le emissioni evaporative, assumono grande rilievo le particelle α, espulse

soprattutto alla fine della catena di evaporazione. Infatti, i frammenti di evaporazione

continuano ad essere espulsi finchè il nucleo residuo (evaporation residue) non raggiunge

uno stato energetico tale da sfavorire l’ulteriore emissione, continuando a diseccitarsi

mediante fissione o emettendo fotoni e/o particelle α, caratterizzate da grande simmetria e da

un alto valore dell’energia di legame, per cui esse sono più fortemente legate fra loro che con

il resto del nucleo residuo.

A differenza delle emissioni di pre-equilibrio, le particelle evaporate sono meno

energetiche e vengono emesse, in tutti i casi, isotropicamente. Inoltre i due tipi di emissioni

sono distinguibili fra loro poiché avvengono in tempi differenti: le particelle di pre-equilibrio

si arrestano dopo 10-21 secondi, mentre i prodotti di evaporazione perdurano fino a 10-16

secondi dopo l’urto fra il nucleo proiettile e bersaglio. Infine, le particelle evaporate si

presentano non appena viene superata la barriera coulombiana, mentre quelle di pre-

equilibrio vengono prodotte ad energie maggiori.

Nella regione di deep-inelastic scattering e di fusione incompleta, la sovrapposizione

degli ioni coinvolti è minore rispetto al caso della fusione, tuttavia è tale da permettere

un’interazione forte che comporta la conversione dell’energia cinetica in energia di

eccitazione.

Il meccanismo di reazione noto come deep-inelastic scattering è meno frequente nel

caso di un fascio di ioni 12C ad energie intermedie, essendo più probabile per proiettili più

pesanti ad energie incidenti di circa 10 MeV/u. Tale processo conduce alla formazione di due

frammenti, uno di massa paragonabile a quella del proiettile (projectile-like) ed uno di massa

confrontabile con quella del nucleo bersaglio (target-like). Ciò avviene prevalentemente

quando il proiettile, a causa della sua non elevata energia, è coinvolto in una collisione di

grazing con il bersaglio, un processo in cui i due nuclei, risentendo dell’interazione

coulombiana, vengono deflessi senza urtare, mentre si presenta soltanto una sorta di

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abrasione tra le superfici nucleari. Questo tipo di interazione è definita profondamente

anelastica in quanto vi è una grande perdita di energia da parte dei due nuclei interagenti, di

entità legata prevalentemente alla carica ionica, dato che il meccanismo di abrasione è più o

meno intenso in base al valore del potenziale coulombiano. In particolare, l’energia persa si

trasforma in energia di eccitazione dei frammenti stessi, che decadranno prevalentemente per

evaporazione di fotoni o particelle leggere.

Specie nel caso di ioni leggeri, può avvenire anche un altro tipo di reazione in cui la

maggior parte delle particelle espulse ha una massa più piccola rispetto a quella del proiettile

e velocità molto simile a quella del fascio incidente. Questi fenomeni indicano che è

avvenuto un processo di break-up o frammentazione binaria del proiettile. Da un esame dello

spettro delle particelle rivelate si nota che questi frammenti si presentano prevalentemente ad

angoli molto piccoli, cioè sono emessi preferibilmente in avanti. È possibile distinguere tre

tipi di processi di break-up:

a. break-up elastico, che comporta l’emissione immediata di entrambi i frammenti

dovuti alla rottura del solo proiettile e rivelati in coincidenza, senza che il bersaglio

subisca alcuna eccitazione;

b. break-up anelastico, in cui entrambi i frammenti vengono rivelati, ma solo uno dei

due ha interagito col nucleo bersaglio eccitandolo. Questo potrà diseccitarsi,

successivamente, emettendo particelle o fotoni;

c. break-up fusion o fusione incompleta, nel caso in cui, pur avvenendo una

frammentazione binaria del proiettile, solo uno dei due frammenti viene rivelato

(frammento spettatore), mentre l’altro (frammento partecipante) viene assorbito dal

nucleo bersaglio che rimarrà, quindi, in uno stato considerevolmente eccitato.

La produzione dei due frammenti è dovuta principalmente all’interazione con il campo

nucleare del bersaglio, che provoca la rottura dei legami tra le due parti del nucleo originario.

Secondo un modello proposto da R. Serber [Ser47] è previsto che, ad energie incidenti

sufficientemente alte, i vari frammenti del proiettile preservino l’originaria velocità in avanti,

essendo soggetti però ad un effetto di dispersione aggiuntivo, dovuto al moto interno dei

nucleoni. Questo fenomeno si osserva sperimentalmente da un’analisi della distribuzione

angolare dei frammenti, non rivelati esclusivamente in avanti, ma anche ad angoli che,

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seppur piccoli, sono diversi da zero. In base a questo modello, quindi, il campo nucleare del

bersaglio, pur generando i due frammenti, non ne influenza apprezzabilmente il moto, fatto

osservabile sperimentalmente almeno per uno dei due frammenti, quello non assorbito dal

bersaglio.

Nella regione delle collisioni periferiche gli ioni interagiscono solo attraverso il campo

coulombiano, avvicinandosi, senza mai entrare in contatto. Le reazioni che possono avvenire,

al crescere del parametro d’urto, e quindi al diminuire dell’energia relativa, sono

rappresentate dal trasferimento di uno o pochi nucleoni da uno ione all’altro, secondo il

meccanismo di Coulomb break-up, e da altri processi diretti come lo scattering anelastico e

lo scattering elastico.

Infine per collisioni distanti il potenziale nucleare diventa completamente trascurabile

rispetto al potenziale coulombiano, per cui domina il processo di scattering elastico di

Rutherford, di natura esclusivamente elettromagnetica. Considerando ioni interagenti

distinguibili16, la sezione d’urto di diffusione elastica può essere calcolata, quindi, in base

alla formula di Rutherford (§ 6.2.3). In particolare, per nuclei con un valore relativamente

alto del numero atomico Z, la distribuzione angolare delle particelle rivelate assume un

andamento molto simile a quello dato dalla formula di diffrazione di Fresnel. In particolare,

la sezione d’urto sarà molto prossima a quella di Rutherford ad angoli minori dell’angolo di

grazing, mentre ad angoli maggiori di questo valore la distribuzione crollerà

esponenzialmente a zero, come mostrato in Figura 3.1.2 [Hod78].

Inoltre è stato verificato sperimentalmente che, all’aumentare dell’energia, questa

decrescita della distribuzione angolare diventa gradualmente meno rapida.

Aumentando ulteriormente l’energia, la probabilità che il proiettile venga diffuso

elasticamente diminuisce, mentre il processo principale, in tal caso, è rappresentato dallo

scattering anelastico che può essere dominato dal potenziale coulombiano, subire

l’interferenza del potenziale nucleare oppure essere dominato dal potenziale nucleare. Negli

16 In generale, la distribuzione angolare delle particelle diffuse è descritta accuratamente dalla formula di Rutherford, eccetto nel caso in cui gli ioni interagenti sono identici, poiché entrano in gioco anche fenomeni quanto-meccanici che ne modificano la forma.

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Figura 3.1.2: Sezione d’urto differenziale di diffusione elastica di ioni 16O di energia pari a 170 MeV su un bersaglio di 208Pb (punti sperimentali) che dimostra l’analogia con l’andamento della sezione d’urto calcolata in base al modello di diffrazione di Fresnel [Hod78].

ultimi due casi possono avvenire trasferimenti di uno o due nucleoni da uno ione all’altro,

con conseguente eccitazione degli ioni residui.

3.2 FRAMMENTAZIONE DEL PROIETTILE I primi studi sulla reazione di frammentazione del proiettile (break-up) risalgono al

1978 e vennero effettuati, presso il Lawrence Berkeley Laboratory (USA) e successivamente

anche a GANIL17 (Francia), adoperando rispettivamente fasci ad energie intermedie e

relativistiche.

In tali reazioni, nuclei medi e pesanti accelerati ad energie molto al di sopra della

barriera coulombiana, interagendo per collisioni periferiche con un bersaglio fissato, si

frammentano originando diverse specie nucleari più leggere. Gli ioni prodotti vengono

emessi con velocità leggermente inferiore a quella del proiettile iniziale, distribuendosi entro

un cono di piccola apertura angolare intorno a zero gradi.

Tra i vari modelli che descrivono il processo, il più accreditato è il cosiddetto abrasion-

ablation model, proposto da R. Serber nel 1947 [Ser47]. In base a questo modello, le reazioni

periferiche tra ioni relativamente pesanti ed altamente energetici possono essere descritte

come un processo a due fasi. Il primo stadio della reazione (abrasion) è caratterizzato dalla 17 Grand Accelerateur National d’Ions Lourds (Caen, Francia).

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determinazione di una regione di sovrapposizione (fireball) tra il nucleo proiettile ed il

nucleo bersaglio, le cui dimensioni dipendono dal parametro d’urto, in cui i nucleoni

coinvolti, detti partecipanti, collidono portandosi in uno stato altamente eccitato, a differenza

dei nucleoni spettatori, non interagenti e soggetti soltanto a piccole variazioni dell’impulso

(pre-frammenti). Questa prima fase del processo è estremamente rapida in quanto richiede

tempi caratteristici dell’ordine di 10-23 secondi. I pre-frammenti del proiettile, che continuano

a muoversi indisturbati lungo la direzione di incidenza del fascio e con velocità molto

prossima a quella iniziale, risultano fortemente eccitati, in quanto altamente deformati

rispetto alla configurazione sferica dei nuclei stabili originari, per cui, prima di essere

rivelati, si diseccitano attraverso l’emissione di particelle (neutroni, protoni e nuclei leggeri)

e di fotoni. Questo secondo stadio della frammentazione (ablation) è più lento rispetto al

primo in quanto avviene in tempi caratteristici dell’ordine di 10-16-10-18 secondi, in funzione

dell’energia di eccitazione dei pre-frammenti, portando, infine, alla ridistribuzione dei

nucleoni rimasti che danno origine ai frammenti effettivamente rivelati. Una

rappresentazione schematica del processo è mostrata in Figura 3.1.3.

.

Questo modello descrive con successo le caratteristiche generali del processo di

frammentazione, pur sovrastimando sistematicamente la sezione d’urto dei frammenti a cui

sono stati “strappati” solo pochi nucleoni.

Nell’ambito della trattazione proposta da Serber, venne sviluppato successivamente da

A.S. Goldhaber, nel 1974, il cosiddetto modello statistico [Gol74], basato sull’assunzione che

la distribuzione in momento dei frammenti prodotti è legata all’impulso dei singoli nucleoni

Figura 3.1.3: Immagine semplificata del processo di frammentazione del proiettile.

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all’interno del proiettile nell’istante in cui avviene la reazione. Attraverso il modello statistico

è possibile riprodurre fedelmente le seguenti caratteristiche del processo:

a. i frammenti vengono prodotti con velocità leggermente inferiore rispetto al

fascio incidente;

b. i frammenti vengono emessi entro un cono di piccola apertura angolare attorno

alla direzione iniziale del fascio;

c. la distribuzione in impulso dei prodotti di frammentazione è isotropa nel

sistema di riferimento del centro di massa, ed è descritta da una curva gaussiana

con ampiezza data da:

( )

102

−−

=p

fpf

A

AAAσσ , (3.2)

dove Af ed Ap sono rispettivamente la massa del frammento e del proiettile,

mentre σ0 è la larghezza ridotta, legata al momento di Fermi pf dei nucleoni

all’interno del proiettile dalla relazione 520 fp=σ .

D’altra parte la probabilità attesa di formazione di un particolare frammento varia

esponenzialmente con la massa, presentando un massimo in corrispondenza della massa del

proiettile, ossia per pf AA = [Süm90], come confermato, in generale, dai dati sperimentali.

Con l’esperienza acquisita negli studi sulla frammentazione del proiettile, è stato

possibile evidenziare la competizione tra i diversi processi che si presentano al variare

dell’energia del fascio incidente, specialmente nel regime di energia intermedio fra le

reazioni di transfer, osservate a basse energie, ed i processi di pura frammentazione che

avvengono ad energie maggiori, fino a parecchi GeV/u.

Per la regione di bassa energia, tale che uMeVAE /20≤ , è disponibile una notevole

quantità di dati sperimentali che hanno rivelato la presenza di numerosi meccanismi di

reazione che contribuiscono al processo. Dal momento che, in questo intervallo di energia, le

reazioni che avvengono sono generalmente più complesse della frammentazione, non

possono essere descritte attraverso il semplice modello di ablation-abrasion proposto da

Serber. Il tempo di reazione, in questi casi, aumenta a causa del piccolo valore della velocità

relativa fra gli ioni interagenti, al punto che l’impulso di Fermi dei singoli nucleoni

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costituenti il proiettile ed il bersaglio è maggiore dell’impulso nucleare. Questi fattori

determinano una combinazione di vari processi, a seconda del parametro d’impatto, fra i

quali lo scattering coulombiano, il deep-inelastic scattering, la fusione e la fusione

incompleta (§ 3.1).

I meccanismi di reazione che si presentano ad alte energie, tali che uMeVAE /200≥ ,

sono invece considerati processi di pura frammentazione e, quindi, descrivibili attraverso il

modello di Serber.

Si osserva che i confini tra un certo regime energetico ed un altro non sono in realtà

così netti, in quanto la transizione tra i vari processi dominanti si presenta gradualmente in

funzione dell’energia ma, al fine di comprendere specialmente il passaggio dalla pura

frammentazione ad alte energie alla complessità delle reazioni a basse energie, si rendono

necessarie ulteriori indagini nel regime delle energie intermedie, tale che

uMeVAEuMeV /200/20 ≤≤ , sia ai fini della ricerca di base che per scopi terapeutici.

Analizzando le caratteristiche comuni alle reazioni di frammentazione ad alte energie,

indipendentemente dalla combinazione proiettile/bersaglio, è stata dedotta da K. Sümmerer

[Süm00] una formula analitica per il calcolo della sezione d’urto di produzione di diverse

specie nucleari. La formula, nota come parametrizzazione EPAX, è basata sull’analisi di ben

700 sezioni d’urto sperimentali e fornisce le rese di produzione per diverse combinazioni

proiettile/bersaglio ad alte energie incidenti, rappresentando anche un utile strumento di

previsione per le reazioni che avvengono ad energie intermedie.

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4. PROGETTO INFN PER UN NUOVO PIANO DI TRATTAMENTO IN ADROTERAPIA

4.1 INTRODUZIONE La prima esposizione terapeutica a fasci di particelle cariche altamente energetiche, in

particolare protoni, accelerate mediante un sincrociclotrone, fu realizzata nel 1954 da C.

Tobias e J. Lawrence presso il Radiation Laboratory dell’Università della California, a

Berkeley. Da allora, con l’esperienza maturata negli istituti di ricerca in fisica nucleare e nei

centri medici dedicati ad adroterapia, i risultati clinici ottenuti con questa tecnica hanno

dimostrato che, nel trattamento di vari tipi di tumori, le percentuali di controllo locale della

malattia e di sopravvivenza del paziente sono nettamente superiori rispetto agli esiti della

radioterapia convenzionale basata, soprattutto, sull’impiego di fotoni di energia massima pari

a circa 200 keV (raggi-X).

Fino alla fine del 2006 i casi trattati, in tutto il mondo, sono stati circa 53000, di cui

49000 con fasci di protoni mentre soltanto 3000 si riferiscono alle terapie, sviluppatesi da

circa dieci anni a questa parte, con fasci di ioni Carbonio. Il crescente interesse rivolto ai

possibili sviluppi dell’adroterapia è, inoltre, strettamente legato ai notevoli progressi

tecnologici fatti, sia nella progettazione di acceleratori dedicati ad uso clinico, che

nell’elaborazione di sistemi di calcolo della dose rilasciata al paziente, rendendo così

possibile la realizzazione di innumerevoli centri specializzati in applicazioni mediche.

In questo contesto si spiega il coinvolgimento, da oltre quindici anni, dell’Istituto

Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) in progetti di ricerca volti alla realizzazione di centri di

adroterapia in Italia. Un esempio emblematico è rappresentato dallo sviluppo della facility

CATANA (Centro di Adroterapia ed Applicazioni Nucleari Avanzate), attiva già dal 2002

presso i Laboratori Nazionali del Sud (LNS) di Catania e finalizzata alla cura di pazienti

affetti da melanoma della coroide, un tumore dell’occhio particolarmente aggressivo, o da

altre malformazioni oculari, mediante fasci di protoni di energia pari a 62 MeV, penetranti

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Figura 4.1.1: Linea di fascio CATANA [Cut04]. 1. Sedia per l’immobilizzazione del paziente in fase di trattamento. 2. Collimatore finale. 3. Laser di posizionamento. 4. Simulatore del campo luce. 5. Camere monitors. 6. Collimatore intermedio. 7. Scatola per la sistemazione del modulatore e del range shifter.

nei tessuti fino ad una profondità massima di circa 4 cm. In Figura 4.1.1 è mostrata una

porzione della linea di trattamento [Cut04].

Con la nascita nel 1992 della Fondazione Tera (Terapia con Radiazioni Adroniche),

formata da medici, fisici, ingegneri ed informatici provenienti da enti di vario genere quali

università, ospedali e laboratori di ricerca, è stato lanciato, in collaborazione con il CERN,

l’INFN ed altre importanti associazioni italiane, il Progetto Adroterapia con il proposito di

portare in Italia le più moderne tecniche di radioterapia che utilizzano fasci di protoni,

neutroni, ioni Carbonio e ioni Ossigeno [Ama95]. Da oltre dieci anni il principale obiettivo

del progetto è stato quello relativo alla realizzazione del primo Centro Nazionale di

Adroterapia Oncologica (CNAO), sito a Pavia, basato sull’impiego di un sincrotrone capace

di accelerare protoni con energia massima pari a 250 MeV e ioni Carbonio da 400 MeV/u,

che permetterà di trattare circa 1000 pazienti per anno e che sarà ultimato nell’estate del

2008. Il progetto del centro è visibile in Figura 4.1.2.

Queste ed altre attività svolte dai gruppi di ricerca dell’INFN hanno consentito la

nascita di specifiche competenze nel settore, utili a promuovere lo sviluppo di un nuovo

Treatment Planning System (TPS), che rappresenta l’insieme degli strumenti necessari a

tradurre le prescrizioni relative al rilascio di dose al paziente in tutta una serie di informazioni

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Hospital building High-tech building

Figura 4.1.2: Il progetto del centro CNAO, depositato alla fine del 2003, prevede due edifici separati, uno ospedaliero ed uno altamente tecnologico che accoglie al suo interno il sincrotrone, di diametro pari a 25 m. Le linee di fascio programmate sono quattro, tre orizzontali ed una verticale, che saranno trasportate nelle tre sale di trattamento [Ama08].

necessarie a definire il tipo, l’energia e l’intensità del fascio ed il sistema di distribuzione al

bersaglio che risultino ottimali ai fini del trattamento.

I settori di ricerca scientifica coinvolti, in particolare, nello studio di un TPS per

adroterapia con fasci di ioni leggeri, come il Carbonio, sono molteplici e comprendono la

fisica nucleare teorica e sperimentale, lo sviluppo di simulazioni Monte Carlo, le tecniche di

analisi numerica, la Radiobiologia e la progettazione in campo hardware e software a scopi

di monitoraggio.

Fra gli obiettivi del presente lavoro di tesi vi è quello di evidenziare, in modo

particolare, il ruolo cruciale giocato dal modello radiobiologico, componente fondamentale

del TPS, utile alla valutazione dell’Efficacia Biologica Relativa ed allo sviluppo di modelli di

interazione fra radiazione incidente e materiale biologico che risultino soddisfacenti, capaci

di prevedere il meccanismo responsabile del danno a livello microscopico quale è, ad

esempio, quello rappresentato dall’induzione di lesioni complesse nella struttura del DNA

(acido desossiribonucleico) in relazione alla deposizione locale di energia da parte delle

particelle ionizzanti.

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4.2 PIANO DI TRATTAMENTO IN ADROTERAPIA Con il termine Treatment Planning System si intende un complesso sistema di calcolo

utile in fase, sia di progettazione dei trattamenti con radiazioni, che di valutazione della dose

rilasciata al paziente. Difatti, uno dei principali obiettivi della radioterapia è proprio la

cessione della dose prescritta in modo conforme al volume bersaglio, ossia tale da eludere,

nella misura massima possibile, i tessuti sani circostanti ed, in particolare, gli organi critici

(OAR18).

A tal fine, la tecnica di irraggiamento che risulta maggiormente efficace è rappresentata

dalla modalità di terapia con fasci di particelle ad intensità modulata (Intensity Modulated

Particle Therapy, IMPT) secondo cui (§ 2.3.2), attraverso la sovrapposizione dei campi di

radiazione generati da migliaia di fasci sottili (pencil beams), pesati singolarmente in base

all’energia ed all’intensità, si perviene ad un rilascio di dose uniforme, indipendentemente

dalla particolare conformazione del volume tumorale programmato per il trattamento

(Planning Target Volume, PTV). Dal momento che un sistema di questo tipo possiede

innumerevoli gradi di libertà, si rendono necessarie tecniche di “pianificazione inversa”

basate su sistemi di calcolo automatici che, a partire dalla distribuzione di dose richiesta,

restituiscano informazioni precise sulle posizioni dello spot del fascio, sui valori dell’energia

e del fluence delle particelle al variare del numero atomico, in modo da garantire l’affidabilità

del piano di trattamento. In generale, l’ottimizzazione dei suddetti parametri è conseguita

solo quando è massima la probabilità di distruggere completamente tutte le cellule tumorali

clonogeniche senza danni ai tessuti normali adiacenti.

Inoltre un valido piano di trattamento dovrebbe essere valutato in tempo reale e in

modo interattivo, affinché l’utente possa istantaneamente modificare, calcolare e riesaminare

i diversi risultati in uscita.

Le tecniche di pianificazione inversa sono state discusse per la prima volta nei primi

anni ’80 da Brahme [Bra82] e le attività di ricerca in questo campo possono essere

classificate in due principali settori di approfondimento. In primo luogo gli studi necessari ad

un ampliamento delle conoscenze riguardanti gli effetti biologici delle radiazioni, al fine di 18 Organ At Risk.

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includere effettivamente nel TPS tutti i fattori biofisici coinvolti. Un secondo filone di ricerca

affronta i differenti metodi matematici ed algoritmi di calcolo finalizzati alla minimizzazione

dei tempi computazionali ed al miglioramento nella gestione delle memorie dati.

Un aspetto fondamentale nello sviluppo delle tecniche di ottimizzazione di un TPS è

rappresentato dal confronto, in termini di efficacia biologica, fra protoni e ioni leggeri (con

numero di massa A<18) in base al quale la dose fisica richiesta per il conseguimento di un

dato effetto è minore nel secondo caso rispetto al primo. In particolare, gli ioni Carbonio,

trattandosi di radiazione ad “alto LET”, presentano una distribuzione di dose fisica

favorevole, di per sé, ai fini del trattamento ed ulteriormente potenziata da un valore

particolarmente elevato dello RBE, specie verso la fine del range dello ione, vantaggio

aggiuntivo nel caso di tumori radioresistenti a crescita lenta.

Diversamente, l’efficacia biologica di un fascio di protoni è molto prossima a quella

della radiazione scarsamente ionizzante, associata alla radioterapia convenzionale con

sorgenti elettromagnetiche, in quanto lo RBE è assunto costante su tutto il volume irradiato

con valore prossimo all’unità.

Se da una parte queste considerazioni indirizzano la scelta sugli ioni leggeri, in

particolare ioni Carbonio, si osserva che, in tal caso, lo RBE non dipende linearmente dalle

caratteristiche fisiche della radiazione, quali il livello di dose assorbita, l’energia ed il

numero atomico e, di conseguenza, l’andamento dell’efficacia biologica del fascio primario

in funzione della profondità di penetrazione deve essere valutato con cautela, includendo

anche gli effetti dovuti ai frammenti secondari prodotti nelle reazioni nucleari che avvengono

entro il volume irradiato. Per questo motivo, infatti, l’esposizione a fasci di ioni equivale, in

generale, alla sovrapposizione di differenti campi di radiazione (mixed fields).

Dal momento che lo RBE dipende anche dal tipo di tessuto, le dosi prescritte devono

essere stabilite in base al tipo di cellule tumorali da irradiare e, per uno stesso paziente,

variare a seconda degli organi a rischio che circondano il volume bersaglio. Tutti questi

fattori devono essere parte integrante del TPS specie nella gestione delle terapie basate sullo

scanning attivo, per cui è necessario conoscere con precisione i diversi valori di RBE

associati a ciascuno dei voxel da irradiare ed alle strutture circostanti.

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Tutti i fattori che entrano in gioco nelle terapie con ioni leggeri rendono lo sviluppo del

piano di trattamento un procedimento più complesso rispetto all’uso di protoni volendo,

soprattutto, trarre vantaggio dall’elevato RBE di queste particelle ed allo stesso tempo

ottenere una precisa conformazione della dose al tumore.

L’unico software attualmente disponibile dedicato alla pianificazione di terapie basate

sulla tecnica di raster scanning con ioni Carbonio altamente energetici, nel range da 80 a 430

MeV/u, è rappresentato da TRiP9819, un codice sviluppato dai ricercatori del GSI che include

il calcolo analitico della perdita di energia della singola particella, in base alla formula di

Bethe e Bloch, l’effetto di straggling ed il processo di frammentazione del proiettile, al fine

di riprodurre il profilo della dose fisica ottenuto sperimentalmente con sufficiente accuratezza

[Jäk00]. Per quanto detto però, il calcolo della dose fisica non è un risultato sufficiente ai fini

del trattamento, mentre l’obiettivo principale coincide, piuttosto, con la possibilità di

convertire questa informazione nel dato di interesse, ossia la Dose Efficace Biologicamente

(Biological Effective Dose, BED), altrimenti nota come RBE clinico, data dal prodotto fra

dose fisica ed RBE. Si rende necessario, quindi, includere nei modelli di calcolo la

dipendenza dallo RBE che, a sua volta, è una funzione complessa di parametri fisici e

biologici (composizione del fascio in termini di numero atomico e di energia, livello di dose

assorbita, capacità di ripristino di cellule e tessuti irradiati).

Attualmente esistono due diverse strategie per risolvere la questione: un approccio

basato su misure sperimentali ed un altro orientato verso l’elaborazione di modelli biofisici.

Nel primo caso il calcolo dello RBE viene effettuato attraverso misure sistematiche in

differenti condizioni di irradiazione ma, per via dell’impossibilità di riprodurre esattamente

tutte le possibili situazioni clinicamente rilevanti rispetto a tutti i parametri coinvolti, sono

necessarie procedure di interpolazione ed estrapolazione dei dati. Dal momento che misure

sufficientemente precise possono essere ottenute solo per sistemi in vitro20, bisogna definire

ancora un’ulteriore procedura al fine di derivare, da questi dati, i valori dello RBE per sistemi

in vivo3 di tessuti più complessi. La dose clinica, in questi casi, viene ricavata in riferimento

19 TReatment planning for Particles. 20 I processi biologici in vitro avvengono in provetta, ossia al di fuori dell’organismo vivente, a differenza delle osservazioni in vivo, eseguite direttamente su cellule e tessuti viventi.

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ai dati raccolti, nelle medesime condizioni sperimentali, con l’uso di neutroni che, nel tratto

finale del range, mostrano caratteristiche radiobiologiche molto simili ai fasci di Carbonio.

Il secondo metodo è basato sullo sviluppo di un modello in grado di prevedere la

risposta di sistemi biologici in vitro in seguito ad interazione con diversi fasci ionici, di tipo

ed energia variabile. La risposta clinica si ottiene assumendo che il tessuto considerato ed il

campione in vitro presentino lo stesso RBE, condizione soddisfatta esclusivamente nel caso

in cui a questi sistemi sia associabile lo stesso valore del rapporto (α/β) fra i coefficienti

lineare e quadratico della curva di sopravvivenza riferita ai raggi-X. In tal modo si stabilisce

anche un legame tra i piani di trattamento con particelle cariche e l’esperienza clinica

maturata nell’ambito della radioterapia convenzionale con fotoni.

In particolare, le due metodologie sono state sviluppate indipendentemente presso due

fra i più importanti centri di adroterapia del mondo, unici esempi dell’impiego di fasci di

Carbonio per la terapia dei tumori, rappresentati rispettivamente dal National Institute of

Radiological Science (NIRS) in Giappone, dove è stato sviluppato l’approccio sperimentale,

e dal GSI in Germania, dove è stato ideato un innovativo modello radiobiologico, noto come

Local Effect Model (LEM), successivamente incluso nel programma TRiP98, in modo da

implementare il treatment planning attraverso l’ulteriore componente del danno biologico

apportato dalla radiazione su scala microscopica.

Nel seguito verrà approfondito essenzialmente l’aspetto radiobiologico del piano di

trattamento mentre sarà affrontato solo brevemente il ruolo dei codici di simulazione nel

processo di ottimizzazione.

4.3 LE BASI DEL MODELLO RADIOBIOLOGICO Nuclei e particelle subnucleari con un certo stato di carica, accelerati ad una data

energia, sono attualmente classificati come “radiazioni densamente ionizzanti” al fine di

distinguerli dalle “radiazioni scarsamente ionizzanti” rappresentate da raggi-X, raggi-γ ed

elettroni veloci, sebbene questa suddivisione non dipenda soltanto dalla natura della

radiazione considerata, ma anche dalla sua energia. La densità di ionizzazione nel mezzo

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attraversato è prodotta in misura maggiore o minore se associata rispettivamente a radiazione

ad “alto-LET” o a “basso-LET21”, tenendo in considerazione che il LET si riferisce

specificamente alla densità di ionizzazione lineare, creata lungo la traccia della particella, e

non a quella volumica. In base ai valori riportati in Tabella 4.1, gli elettroni sono considerati

particelle a “basso-LET”, mentre protoni, particelle α e nuclei più pesanti sono classificati

come radiazione ad “alto-LET”, dal momento che il confine tra le due categorie è stabilito

intorno ai 30-50 (keV · µm-1).

Particella LET

Elettroni 0.2-30 keV · µm-1

Protoni 50-100 keV · µm-1

Particelle α 40-250 keV · µm-1

Ioni pesanti 100-4000 keV · µm-1

Tabella 4.1: Valori del LET per diversi tipi di particelle [Pel91]

Si osserva inoltre che il parametro per mezzo del quale si prende in considerazione la

diversa qualità della radiazione è rappresentato dal cosiddetto fattore di qualità Q,

coefficiente numerico che dipende dalla distribuzione di energia assorbita a livello

microscopico. Dal momento che la cessione di energia ai tessuti dipende dalla natura e dalla

velocità delle particelle cariche che liberano la dose, è naturale che Q si esprima in funzione

del LET in acqua. I valori numerici di Q prescelti sono riportati in Tabella 4.2 [ICRP74],

mentre in Figura 4.3.1 è visibile l’andamento della funzione Q(L) secondo le pubblicazioni

26 e 60 dell’International Commission on Radiological Protection (ICRP).

L∞ = LET (keV · µm-1) Q(L)

L∞ < 10 1

10 ≤ L∞ ≤ 100 0.32 L∞-2.2

L∞ >100 300 L∞-1/2

Tabella 4.2: Relazione tra Q ed L [ICRP74].

21 La distinzione fra “alto-LET” e “basso-LET” si riferisce, in particolare, al potere frenante per collisione, senza imporre limiti al valore della perdita di energia nel mezzo, spesso indicato con il simbolo L∞ o, analogamente, LET∞.

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I valori di Q del grafico di Figura 4.3.1 sono derivati da quelli di RBE al fine di introdurre,

nel concetto di qualità della radiazione, gli effetti radiobiologici ritenuti significativi ai fini

della terapia come della radioprotezione22.

In particolare, la radiazione ad “alto-LET”, interagendo con la materia biologica, può

indurre reazioni di diverso tipo in diversi sistemi cellulari che si trovino alla massima

profondità di penetrazione, tutte le volte che l’Efficacia Biologica Relativa per questi sistemi

risulti maggiore dell’unità. È stato sperimentalmente dimostrato come la maggiore efficacia

biologica degli adroni, e della radiazione “densamente ionizzante” in generale, sia correlata

alla modalità di deposizione di energia su scala nanometrica, sebbene siano necessari ancora

ulteriori studi, sia sperimentali che teorici, per lo sviluppo di una teoria completa sul

meccanismo di interazione della radiazione con il materiale biologico.

I fasci di fotoni adoperati nella radioterapia convenzionale interagiscono con i tessuti

principalmente mediante effetto Compton, per cui gli elettroni secondari prodotti sono, in

media, sufficientemente energetici da percorrere distanze relativamente grandi, distribuendo 22 Il fattore di qualità entra in gioco, infatti, nella definizione di dose equivalente H, data dalla relazione:

QDNH = (4.1)

dove D è la dose assorbita ed N è il prodotto di fattori correttivi che descrivono le caratteristiche specifiche dell’irradiazione (frazionamento della dose, rateo di dose,etc.).

Figura 4.3.1: Andamento del fattore di qualità al variare del LET secondo le prescrizioni di ICRP26 (linea tratteggiata) e di ICRP60 (linea continua) [ICRP74].

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così l’energia iniziale in modo piuttosto omogeneo entro l’intero volume irradiato, come

accade tipicamente per la radiazione a “basso-LET”. Allo stesso tempo, ogni elettrone

Compton assorbe soltanto una frazione dell’energia del fotone incidente, per cui la qualità

della radiazione primaria, determinata approssimativamente dal LET medio degli elettroni

secondari, non varia in modo significativo nel transito attraverso i tessuti, di modo che la

dose assorbita è il principale indicatore degli effetti biologici associati ai fotoni.

Diversamente, gli ioni leggeri di un fascio terapeutico depositano la propria energia

lungo la traiettoria, dunque in una regione piuttosto definita del mezzo irradiato, con un

valore del LET crescente, che comporta l’intensificarsi di eventi di eccitazione e di

ionizzazione, specie nella regione di frenamento, caratteristiche che rendono queste particelle

energetiche qualificabili come radiazione ad “alto-LET”. In tal caso la qualità della

radiazione non è costante, ma varia lungo la traiettoria del fascio nei tessuti, a causa della

presenza di particelle energetiche secondarie prodotte nelle reazioni nucleari che coinvolgono

gli ioni primari e la materia attraversata, come accade nel processo di frammentazione del

proiettile o del bersaglio. In questo caso, quindi, la dose assorbita non è l’unico fattore

determinante gli effetti biologici indotti dalla radiazione.

Quando la materia attraversata dalla radiazione ad “alto-LET” è costituita da cellule

viventi, i processi di interazione primari (eccitazione e ionizzazione di atomi e molecole del

mezzo) innescano una complessa catena di eventi che talvolta comportano modificazioni

chimiche e cambiamenti biofunzionali (mutazioni, trasformazioni oncogeniche e morte

cellulare) di alcune importanti biomolecole, fra le quali il DNA è considerato bersaglio

critico. Le variazioni in termini di efficacia biologica della radiazione sono il risultato

dell’interazione tra paramentri fisici, come la densità di ionizzazione, e fattori biologici,

come la capacità del sistema cellulare di ripararsi.

Il legame tra le proprietà microscopiche relative alla deposizione di energia degli

adroni e gli effetti funzionali prodotti a livello cellulare è stabilito in base alla “qualità” delle

lesioni apportate al DNA. In corrispondenza a bassi livelli di dose, la doppia elica del DNA

non riporta nessun danno ma, a partire da certi livelli di energia ceduta localmente, possono

presentarsi rotture isolate in punti distanti (Single Strand Breaks, SSB) oppure in posizioni

molto prossime fra loro, con eventuale determinazione di una duplice rottura dell’elica

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(Double Strand Breaks, DSB), danno non sempre riparabile dalla cellula. Molte evidenze

sperimentali mostrano che il DSB non presenta in tutti i casi la stessa gravità che, piuttosto,

dipende dalla correlazione spaziale delle lesioni. Ad alte dosi localmente rilasciate un tipo di

lesione molto grave che può generarsi è rappresentata da un DSB “complesso”, definito come

un DSB con altre fratture molto vicine fra loro, in modo tale da stabilire un fitto

raggruppamento (clustered lesion), come schematizzato in Figura 4.3.2 [Wey04].

Esperimenti condotti con protoni di bassa energia hanno dimostrato che lo RBE può

assumere valori maggiori per cellule più resistenti ai raggi-γ, evidenziando che queste

particelle inducono lesioni meno riparabili rispetto a quelle generate dai raggi-γ.

Analogamente si è dimostrato che lo RBE per gli ioni Carbonio è correlato con la capacità di

ripristino della cellula. La Figura 4.3.3 mostra qualitativamente la configurazione spaziale

della deposizione di energia calcolata per diverse particelle, stabilendo un confronto con la

struttura di bersagli biologicamente significativi, come la cromatina, i nucleosomi ed il DNA.

Da questo confronto si deduce che gli ioni leggeri generano eventi di eccitazione e

ionizzazione fortemente raggruppati, a cui si associa una maggiore probabilità di provocare la

rottura di entrambe le eliche del DNA o addirittura clusters di lesioni, mentre non ci si

Figura 4.3.2: Visione schematica di una porzione di DNA non danneggiata (A), di due rotture singole e distanziate della doppia elica (B), di una duplice rottura (C) e di un raggruppamento di lesioni (D). Il simbolo (*) indica un danno della base [Wey04].

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aspetta che questi fenomeni siano rilevanti nel caso di radiazioni a “basso-LET”, per cui i

danni prodotti sono distribuiti in modo stocastico nel volume cellulare complessivo.

Si osserva che, per quanto detto, la risposta biologica di un tessuto all’esposizione di un

fascio di ioni pesanti non è funzione soltanto del meccanismo di deposizione di energia, ossia

Figura 4.3.3: Rappresentazione schematica delle tracce di radiazioni poco ionizzanti e densamente ionizzanti confrontate con bersagli biologicamente significativi (fibre di cromatina, nucleosomi e doppia elica del DNA). Le tracce relative ai protoni ed alle particelle α sono tratte dai lavori di Paretzke [Par74, Par80], mentre quelle relative al Carbonio dagli studi di Kramer e Kraft [Kra92].

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della dose, ma dipende fortemente anche dalla struttura interna delle tracce descritte dal

transito delle particelle. La formazione della traccia può essere considerata come un processo

a due fasi caratterizzato, in primo luogo, dall’emissione di elettroni dovuta all’impatto ionico

e, secondariamente, dal trasporto degli elettroni così prodotti attraverso il mezzo, nella

regione intorno alla traccia della particella incidente, responsabili di eventi di ionizzazione

secondaria e conseguente deposizione di energia ad una certa distanza dal punto di impatto.

Il calcolo della struttura della traccia, argomento trattato in molteplici pubblicazioni,

può essere effettuato secondo due approcci distinti. Il primo è basato su modelli semi-

empirici attraverso cui è possibile pervenire ad una descrizione analitica della distribuzione

di dose radiale a partire da assunzioni semplificate, relative all’energia degli elettroni ed alla

loro distribuzione angolare [But67]. Un secondo tipo di modelli tratta l’energia e la

distribuzione angolare degli elettroni primari e secondari in modo dettagliato mediante

simulazioni Monte Carlo, brevemente accennate nel seguito, in cui ogni interazione è

analizzata singolarmente [Krä92].

Sebbene le ipotesi di partenza e le variabili in ingresso di ogni modello siano

profondamente differenti, le distribuzioni radiali di dose D(r) ottenute nei vari casi sono

molto simili, mostrando in generale un andamento in funzione della distanza r rappresentato

da una dipendenza del tipo:

2

1)(

rrD ∝ , (4.2)

che risulta valida in un ampio range di valori di r, eccetto che per la regione in cui r < 10 nm

e per distanze molto prossime al raggio massimo della traccia, come mostrato dal confronto

di Figura 4.3.4. I modelli analitici presentano il vantaggio di essere più facilmente

comprensibili, esemplificando notevolmente i calcoli, mentre uno dei principali svantaggi è

rappresentato dal fatto che una distribuzione come la (4.2) risulta divergente per 0=r , per

cui è necessario ricorrere a procedure di cut-off al fine di ottenere valori finiti della dose per

distanze molto prossime a zero. Queste procedure non si applicano ai complessi modelli

Monte Carlo poiché più fedeli al reale meccanismo di deposizione dell’energia, che prevede

una distribuzione, dovuta agli ioni primari e nell’intero volume della traccia, caratterizzata da

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Figura 4.3.4: Confronto fra la distribuzione di dose radiale entro la traccia della particella incidente (Ossigeno) ottenuta dalle simulazioni (tratteggio) ed alcuni valori misurati sperimentalmente (punti) su un bersaglio acquoso [Kra94].

un forte gradiente di dose locale variabile da circa 10-3 Gray in corrispondenza del raggio

massimo fino a circa 106 Gray per 0=r .

Un possibile approccio, utile al fine di correlare le informazioni fisiche e la

configurazione cellulare, con particolare riferimento alla doppia elica del DNA, è basato sul

modello fisico di struttura della traccia (track structure model) che, basandosi su una

distribuzione D(r) analoga alla (4.2) entro la singola traccia, effettua il confronto tra la dose

totale depositata nel nucleo cellulare, eletto bersaglio critico, con la dose letale media D37

relativa ai raggi-X e definita come il valore della dose richiesto per ridurre la sopravvivenza

cellulare al 37%. Difatti la curva di sopravvivenza S(D) mostra un andamento lineare-

quadratico per dosi inferiori a circa 5 Gray mentre, al di sopra di questa soglia, la curva

assume un comportamento esponenziale, descritto dalla relazione:

37)( D

D

eDS−

= , (4.3)

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dove S(D), frazione di cellule sopravvissute alla dose D, si riduce al 37% (o ad e-1) per

D=D37, come mostrato in Figura 4.3.5.

L’andamento delle curve di sopravvivenza dipende da due importanti fattori, uno di

natura fisica e l’altro di natura biologica ossia, rispettivamente, dal tipo di radiazione

utilizzata e dal tipo di cellula. In molti sistemi biologici si osserva una “spalla” iniziale in

risposta alle radiazioni debolmente ionizzanti. La “spalla” si riduce progressivamente ed in

alcuni casi scompare all’aumentare del LET. Una risposta “lineare” (in scala logaritmica),

come quella visibile in Figura 4.3.5, indica una diminuzione esponenziale del numero di

cellule sopravvissute all’aumentare della dose, fenomeno spesso interpretato come dovuto ad

una mancata capacità di riparazione dei danni prodotti da radiazione [Ama95].

In particolare, la larghezza della “spalla” nella curva S(D) è strettamente legata al

numero di obiettivi sensibili della cellula che devono essere disattivati prima che

l’andamento inizi a decrescere esponenzialmente, o linearmente se si considera il plot in

scala semi-logaritmica. Estrapolando l’intercetta con l’asse verticale della porzione lineare

della curva si può risalire al numero di estrapolazione n, che costituisce il numero medio di

obiettivi sensibili per ogni cellula. Inoltre la frazione di cellule sopravvissute rimane unitaria

Figura 4.3.5:Grafico della curva di sopravvivenza cellulare riferita ai raggi-X. Sono indicati il numero di estrapolazione n, la dose di quasi-soglia Dq e la dose letale media D0=D37 [Hen02].

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fino ad un certo valore di dose, detto dose di quasi-soglia Dq, superato il quale inizia subito a

decrescere esponenzialmente, di modo che per quantità inferiori a Dq non si presenta morte

cellulare. Le grandezze n e Dq sono indicate in Figura 4.3.5 e sono legate fra loro dalla

relazione [Hen02]:

)ln(37 nDDq = . (4.4)

Non essendo possibile però identificare le caratteristiche degli obiettivi cellulari

sensibili all’irraggiamento solo sulla base delle curve S(D), occorrono dei modelli teorici

come quello di struttura della traccia che, per la definizione di D37, non mostra

esplicitamente una dipendenza dalla capacità di ripararsi della cellula, né include la natura

stocastica dell’interazione su cui si fondano altri modelli fisici. Nonostante ciò, fra tutti i

modelli teorici, quello di struttura della traccia esibisce l’accordo migliore con i dati

sperimentali, essendo anche in grado di spiegare in modo quantitativo l’effetto di saturazione

che si presenta per valori molto elevati del LET come una sovrapproduzione di lesioni letali,

responsabili della dispersione di energia in una regione fortemente localizzata, al termine del

percorso della particella entro il mezzo. Questo effetto, detto overkill effect, è la causa del

decremento subito dallo RBE per valori crescenti del LET. Difatti, ad ogni valore del numero

atomico Z è associata una curva distinta che mostra il decremento di RBE all’aumentare del

LET dovuto alla diminuzione delle dimensioni geometriche delle tracce che dipendono,

soprattutto, dalla velocità della particella e non dal LET.

L’introduzione della dipendenza dai meccanismi di riparazione della cellula nei calcoli

del modello di struttura della traccia ha consentito lo sviluppo del cosiddetto Local Effect

Model (LEM), elaborato dai ricercatori del GSI [Sch97] ed applicato con successo, ormai da

circa 10 anni a questa parte, nell’ambito dei piani di trattamento per la cura dei tumori con

l’uso di ioni Carbonio. Il LEM permette essenzialmente di prevedere la risposta dei sistemi

biologici in seguito ad irradiazione con particelle di un certo tipo ed una certa energia a

partire dalla conoscenza della risposta ai raggi-X, compensando in tal modo la scarsa

disponibilità di dati sperimentali relativi ai casi di interesse clinico.

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4.4 LOCAL EFFECT MODEL (LEM) La principale assunzione del LEM consiste nell’affermare che l’effetto biologico

locale, ossia il danno prodotto in un elemento di volume del nucleo cellulare, è determinato

solamente dal valore atteso dell’energia depositata in quel sottovolume, indipendentemente

dal particolare tipo di radiazione in gioco. In base a questa ipotesi, tutte le differenze, dal

punto di vista del valore di RBE, derivanti dall’uso di fasci di particelle cariche di diverso

tipo ed energia, vengono valutate essenzialmente dal confronto tra la struttura della traccia

della singola particella e la curva di sopravvivenza cellulare relativa ai raggi-X. Inoltre il

nucleo cellulare è supposto omogeneo, con densità e radiosensibilità costante.

In accordo col modello di struttura della traccia, si assume inoltre che la distribuzione

di dose locale dovuta alle particelle cariche, essenzialmente determinata dagli elettroni

secondari (raggi-δ), mostri un andamento in funzione della distanza radiale descritto dalla

relazione (4.2) risultando, in tal modo, simmetrica in un piano perpendicolare alla direzione

di propagazione. In accordo con i calcoli di cinematica relativi al moto degli elettroni-δ, la

massima distanza percorsa in direzione trasversale alla traiettoria, e corrispondente al raggio

della traccia, dipende dall’energia massima E trasferita dal proiettile secondo la legge:

7.1max cER = , (4.5)

dove c è una costante, Rmax è espresso in µm ed E in MeV/u.

Il nucleo cellulare è quindi considerato come bersaglio critico e, trascurando i

cambiamenti di forma e dimensioni subiti durante il ciclo vitale, la sua forma geometrica è

supposta, in prima approssimazione, cilindrica di raggio Rnucleus ed asse parallelo alla

traiettoria dello ione incidente.

In Figura 4.3.6 è mostrata l’influenza della struttura della traccia, riferita ai raggi-X ed

agli ioni Carbonio di diversa energia, sulla distribuzione di dose locale d(x, y, z)23 in un cubo

di lato 10 µm, dimensioni laterali tipiche del nucleo cellulare.

23 La distribuzione di dose locale d(x, y, z) è definita come il rapporto fra l’energia media depositata in un certo punto, associata ad un dato insieme di parametri d’impatto della particella incidente, e la massa del bersaglio.

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Dal confronto si vede chiaramente come, nel caso dei raggi-X, la deposizione di

energia media attesa risulti omogeneamente distribuita in tutto il volume cellulare mentre, per

ioni Carbonio di bassa energia (1MeV/u), la dose locale è ceduta a dei sottovolumi isolati

lungo la traiettoria della particella, dal momento che le tracce hanno raggi estremamente

piccoli. All’aumentare dell’energia (15 MeV/u) il raggio della traccia cresce, secondo la

relazione (4.5), cosicché la distribuzione della dose è data dalla sovrapposizione delle singole

tracce. Per valori di energia crescenti (200 MeV/u) la distribuzione d(x, y, z) diventa

gradualmente omogenea dimostrando, qualitativamente, come gli ioni Carbonio di alta

energia apportino effetti biologici del tutto simili al caso dei fotoni.

In accordo con il modello, al fine di determinare l’efficacia biologica per distribuzioni

di dose disomogenee, si prende come riferimento la curva di dose-effetto relativa ai fotoni

assumendo che la disattivazione cellulare sia una conseguenza dell’induzione di eventi letali

in numero proporzionale alla dose rilasciata.

Figura 4.3.6: Distribuzioni di dose locale per raggi-X e per ioni Carbonio di diversa energia. La dose media rilasciata è pari a 2 Gy in ognuno dei casi mostrati. La dimensione dell’area considerata è di 10 ×10 µm2 e corrisponde alle dimensioni tipiche del nucleo di una cellula mammaria [Kra03].

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Prendendo in considerazione inizialmente una ripartizione di dose omogenea, è

ragionevole assumere una distribuzione casuale di eventi letali entro le cellule appartenenti

ad una certa popolazione per una data energia media depositata localmente da fotoni. Dato il

numero medio di eventi letali lethalXN , la frazione SX di cellule non interessate da nessun

evento letale è determinata dalla seguente distribuzione di Poisson:

lethalXN

X eS −= . (4.6)

Nel caso dei fotoni, quindi, la densità di eventi letali )(DXν nel nucleo cellulare può

essere definita come:

nucleus

X

nucleus

lethalX

X V

DS

V

DND

)(ln)()(

−==ν (4.7)

dove Vnucleus è il volume del nucleo cellulare, )(DN lethalX è il numero medio di eventi letali

provocati dalla dose D rilasciata entro il nucleo ed )(DSX denota la probabilità di

sopravvivenza cellulare in corrispondenza della dose D.

Il numero medio di eventi letali indotti in ogni cellula da una radiazione costituita,

stavolta, da ioni pesanti può essere ottenuta tramite integrazione della densità di eventi locali

νion(d(x, y, z)), ossia:

∫= nucleusionionlethal dVzyxdDN )),,(()( ν . (4.8)

In accordo con l’ipotesi fondamentale del LEM, l’effetto biologico locale è determinato

unicamente dalla dose locale e non dipende dal particolare tipo di radiazione, che equivale ad

imporre )()( dd Xion νν = , per cui dosi locali uguali corrispondono ad effetti biologici locali

equivalenti e la relazione (4.8) può scriversi:

∫−

=−= nucleusnucleus

Xionionlethal dV

V

zyxdSDSDN

)),,((ln))(ln()( . (4.9)

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La relazione (4.9) mostra chiaramente il legame teorico che sussiste fra il danno

biologico riferito ai fotoni e quello riferito ad un fascio di particelle cariche, tenendo conto

che nel secondo caso, a differenza del primo, la distribuzione di dose locale d(x, y, z) è, in

generale, disomogenea. I principi del LEM sono schematicamente illustrati in Figura 4.3.7.

Dal momento che la curva dose-effetto relativa ai raggi-X include la dipendenza dai

meccanismi di riparazione cellulare, essa presenta una caratteristica “spalla” a basse dosi

(Figura 4.3.7), mentre ad alte dosi mostra un andamento esponenziale. La funzione di

risposta biologica è, quindi, determinata dalle relazioni:

Figura 4.3.7: Principi del Local Effect Model. Il nucleo cellulare è colpito da diverse particelle in modo casuale. Intorno a ciascuna traccia la dose è distribuita su anelli concentrici in modo che anelli adiacenti presentano valori di dose molto prossimi fra loro. Per regioni del nucleo fortemente localizzate, la probabilità di induzione di effetti biologici è calcolata in accordo con la curva di dose-effetto riferita ai raggi-X e pesata in base alle dimensioni del sottovolume considerato. Infine le probabilità di induzione di eventi letali sono integrate sull’intero volume cellulare [Sch97].

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−+++

=−=)(

)(ln)(max

2

2

cutcutXcutX

XXX

lethalX

DDsDD

DDDSDN

βαβα

cut

cut

DD

DD

≥<

(4.10)

dove cutDs βα 2max += è la pendenza massima nella regione cutDD ≥ , essendo Dcut il valore

della dose che denota la transizione dalla forma lineare-quadratica a quella puramente

lineare. Queste espressioni, unitamente al raggio Rnucleus del nucleo cellulare, descrivono

completamente le proprietà radiobiologiche del target considerato. La curva di risposta

relativa alle particelle cariche pesanti si ottiene dalla (4.9) dove la dose locale d(x, y, z) è

derivata dalla distribuzione di dose radiale d(T, E, r) a livello microscopico intorno alla

traiettoria del proiettile che, ovviamente, dipende dal tipo T di particella e dalla sua energia

E. In particolare, considerando l’ipotesi fatta sull’andamento della funzione D(r)24, si può

calcolare la dose dV per un qualsivoglia elemento di volume dV del nucleo cellulare

sommando su tutti i contributi dovuti agli ioni del fascio primario ed ai frammenti, tenendo

conto anche della loro distribuzione in energia. Si perviene, quindi, al valore della dose totale

dT ceduta al volume dV dalla relazione:

∑= VT dd , (4.11)

in modo da ottenere infine la dose totale dT(V) sul volume cellulare complessivo V, ripetendo

il calcolo della (4.11) per ogni elemento di volume dV. Il valore così ricavato è quello che

compare, infine, nella relazione (4.10). Questa procedura, reiterata per tutti i tipi di particelle

di interesse e per diversi valori di energia, permette di determinare il valore di RBE.

L’insieme dei cinque parametri RBE(T, E), αX, βX, Dcut ed Rnucleus costituisce il set di

informazioni fondamentali, riferiti alla specifica linea cellulare considerata, per la

24 In particolare, la distribuzione di dose radiale effettivamente considerata è del tipo:

=0

)( 20

0

rD

D

rD

max

max10

10

Rr

Rrnm

nmr

><<

<,

dove D0 è la dose massima ceduta dallo ione.

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progettazione di ogni piano di trattamento per adroterapia. I parametri relativi alla risposta

biologica ai raggi-X calcolati in base al modello sono riportati in Tabella 4.3 [Krä00].

Tissue αX

(Gy-1)

βX

(Gy-2)

α/β

(Gy)

Dcut

(Gy)

smax

(Gy-1)

Rnucleus

(µm)

Human brain 0.1 0.05 2 30 3.1 5

CHO 0.228 0.02 11 30 1.34 5.5

Pig lung 0.0684 0.0167 4.1 15 0.57 2

Pig skin 0.0172 0.0029 5.9 15 0.1 3

Rat CNS 0.1 0.05 2 30 3.1 5

Adenoid cystic carcinoma 0.016 0.022 0.7 22 0.984 3

Chordoma 0.1 0.05 2 30 3.1 5

Tabella 4.3: Parametri del modello radiobiologico per la determinazione della curva dose-effetto di vari tessuti [Krä00].

La dipendenza del LEM da grandezze misurabili sperimentalmente ha consentito di

verificarne la validità per diversi sistemi in vitro. Si è così dimostrato come il modello sia in

grado di prevedere, con ragionevole accuratezza, i risultati delle misure, anche nel caso di

campi di radiazione misti.

L’estensione delle strategie di calcolo del LEM per diversi scopi, come la

determinazione della risposta alla radiazione incidente dei dosimetri a termoluminescenza

(TLD), e di altri tipi di rivelatori, ha dimostrato la validità dei concetti generali su cui si basa

il modello anche per sistemi non biologici.

4.5 SVILUPPO DI CODICI MONTE CARLO PER IL TPS Attualmente i sistemi di piani di trattamento (TPSs) in commercio, dedicati ad

adroterapia, sono essenzialmente dei codici analitici basati su algoritmi ad alte prestazioni per

la simulazione di fasci sottili (pencil beams) utili, in particolare, nello sviluppo di tecniche di

active scanning del volume tumorale. Tuttavia, i metodi statistici Monte Carlo sono

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considerati potenti strumenti di calcolo, specie per un’accurata valutazione del rilascio di

dose, in quanto capaci di fornire una rappresentazione più realistica delle interazioni fisiche

coinvolte, con particolare riferimento alle reazioni nucleari subite dal fascio primario.

L’impiego di codici Monte Carlo (MC) affidabili rappresenta uno dei passi

fondamentali verso lo sviluppo e l’ottimizzazione di un TPS innovativo dal momento che,

attualmente, essi rappresentano l’unica via per superare i difetti dei calcoli analitici, specie in

presenza di campi di radiazione misti e/o di geometrie complesse relative al target della

terapia. In particolare le simulazioni MC sono strumenti necessari al fine di inglobare nei

calcoli gli effetti 3-D dovuti alla produzione ed allo spreading angolare dei frammenti.

Nell’ambito delle tecniche di ottimizzazione di un progetto TPS, questi algoritmi

vengono sviluppati al fine di generare i valori di energia e di fluence delle particelle del

fascio clinico che consentono di ottenere la distribuzione di dose prescritta entro il volume

bersaglio. I principi su cui si fondano le simulazioni per terapie con fasci di particelle ad

intensità modulata (IMPT) sono simili a quelli relativi alle tecniche di radioterapia IMRT con

fotoni, con la sostanziale differenza che nel caso di fasci di ioni le tecniche di ottimizzazione

sono effettuate in base alla distribuzione della dose biologica (BED) anziché in termini della

dose fisica.

Nella prospettiva dello sviluppo di un TPS in ambito INFN, la scelta è orientata su

FLUKA, un codice MC di carattere generale, in grado di descrivere i meccanismi di trasporto

e di interazione delle particelle cariche con la materia per oltre 60 specie ioniche diverse ed

in un vasto range di energia. Le interazioni degli ioni leggeri di interesse ai fini terapeutici,

come 12C ed 16O, e per energie incidenti fino a circa 100 MeV/u, vengono simulati secondo

un modello che ingloba processi come lo scattering anelastico, i meccanismi di break-up e le

reazioni di fusione completa. Questo tipo di approccio del codice FLUKA può essere

ulteriormente migliorato con lo studio di modelli che descrivano correttamente le interazioni

di questi ioni con i nuclei leggeri caratteristici dei tessuti biologici.

Lo sviluppo del progetto TPS prevede, infatti, il perfezionamento dei modelli fisici

impiegati nelle simulazioni, al fine di raggiungere l’obiettivo finale: l’applicazione pratica

del codice così sviluppato nell’ambito del piano di trattamento. Il primo passo da compiere in

questa direzione consiste nello sviluppo di uno strumento di validazione del TPS che sia

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accurato ed affidabile. Per una data situazione clinica il TPS fornisce un primo risultato che,

in generale, è soggetto a convalida sperimentale, in base a delle misure specifiche effettuate

utilizzando sistemi in vitro, come i cosiddetti fantocci. Questa procedura, attualmente

necessaria, è dispendiosa e richiede tempi lunghi. La prima fase del progetto consiste appunto

nell’elaborazione di un codice MC affidabile che sostituisca la convalida sperimentale dei

risultati del TPS. Inoltre, lo stesso algoritmo dovrebbe essere in grado di apportare le

correzioni necessarie nel caso siano presenti geometrie complesse, specie in corrispondenza

dell’interfaccia tra tessuti di densità e composizione differente.

Al fine di espletare tutte queste funzioni, un codice MC deve possedere una serie di

requisiti:

1) capacità di trattare in dettaglio la geometria del corpo umano, in base alle

immagini ottenute mediante tomografia computerizzata (Computed

Tomography, CT);

2) capacità di identificare le caratteristiche dei vari organi e di fornire dei

parametri corretti relativi al tipo di tessuto, quali la composizione e la densità,

3) possibilità di inglobare il modello radiobiologico (LEM) utilizzato dal TPS;

4) capacità di fornire risultati numerici entro l’intervallo di tempo richiesto dal

personale medico;

5) possibilità di operare attraverso un’interfaccia user friendly, in modo da

ridurre i tempi necessari alla gestione dei risultati in uscita.

In alcune applicazioni è stato dimostrato che il codice FLUKA possiede già molti dei

requisiti richiesti. Includendo nell’algoritmo di calcolo i principi del LEM, è stato possibile

determinare la sopravvivenza cellulare, la dose biologica e lo RBE successivamente

all’irraggiamento di fantocci acquosi, simulando i diversi bersagli cellulari ed i fasci di

Carbonio a varie energie [Mai07].

Infine uno degli aspetti più importanti da considerare, al fine di migliorare la

funzionalità e le prestazioni dei codici MC in ambito clinico, è rappresentato dal problema

degli organi in movimento, per cui un ulteriore requisito dell’algoritmo di calcolo è proprio la

possibilità di considerare geometrie variabili nel tempo legate alla respirazione del paziente.

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100

5. IL DISPOSITIVO SPERIMENTALE

5.1 INTRODUZIONE

Le misure sperimentali, analizzate nel presente lavoro di tesi, sono state effettuate

presso i Laboratori Nazionali del Sud (LNS) di Catania nell’ambito del progetto MOBIDIC25

nel giugno del 2006. L’obiettivo dell’analisi qui condotta è la stima dell’andamento della

sezione d’urto di frammentazione di un fascio di ioni 12C su un bersaglio di 197Au con

un’energia cinetica incidente di 62 MeV/u.

Gli ioni stabili e ad alto stato di carica del fascio primario vengono prodotti da una

sorgente ECR26, denominata SERSE, iniettati assialmente entro il Ciclotrone

Superconduttore (CS) di cui dispongono i LNS ed accelerati attraverso intensi campi elettrici

rapidamente alternanti, con frequenze dell’ordine del MHz (Radiofrequenze), applicati a dei

settori cavi in Rame (denominati Dees) immersi in un campo magnetico generato da una

coppia di bobine superconduttive. In questa fase il fascio, pulsato e sincronizzato

temporalmente con il segnale di Radiofrequenza (RF) del campo accelerante del CS, dopo

aver percorso una traiettoria a spirale al suo interno, viene estratto per mezzo di una coppia di

deflettori elettrostatici che applicano un intenso campo elettrico aggiuntivo (100 KV/cm) alle

particelle che raggiungono l’orbita più esterna. La corrente utilizzata in fase sperimentale è

stata di circa 10 enA (electricalnanoAmpere27).

Il fascio di ioni 12C, con energia di 62 MeV/u, così prodotto ed estratto dal CS, è stato

trasportato, attraverso una serie di elementi magnetici, alla sala sperimentale in cui è posta la

linea di trasmissione denominata 20°, per via della sua orientazione rispetto alla linea

principale, in cui è situata la camera di reazione TRASMA. In Figura 5.1.1 è mostrato un

disegno schematico delle linee di fascio delle diverse sale sperimentali operative presso i

LNS.

25 MOdulated Beams of Ions Delivered by INFN Cyclotron. 26 Electron Cyclotron Resonance. 27 Unità di misura della corrente del fascio che prescinde dallo stato di carica dello ione accelerato.

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101

Figura 5.1.1: Disegno schematico delle linee di fascio disponibili presso i LNS di Catania.

All’interno della camera TRASMA, in corrispondenza dell’ingresso, è stato posto il

porta-bersagli, costituito da un supporto scorrevole a tre posizioni che può ospitare, quindi,

fino a tre tipi di bersagli diversi. In fase sperimentale il fascio di ioni 12C ha inciso sul target

di Oro (197Au) dello spessore di 113,5 µm mentre, successivamente, è stato selezionato il

frame vuoto del porta-bersagli, solo per pochi cicli di misura, utili all’acquisizione degli

eventi di fondo, dovuti ad esempio all’urto tra gli ioni 12C ed il porta-bersagli, ed alla verifica

dell’effettivo centraggio del fascio.

In Figura 5.1.2 sono visibili, rispettivamente, l’ambiente di misura ed il porta-bersagli,

montato entro la camera sperimentale TRASMA, di volume pari ad 1 m3.

In seguito alla frammentazione del fascio primario sul bersaglio selezionato, i prodotti

di reazione vengono rivelati mediante un complesso sistema di telescopi ∆E-E, rappresentato

da due odoscopi Si-CsI, di differente granularità, denominati Hodo-Big ed Hodo-Small,

particolarmente adatti all’identificazione in carica ed in massa dei frammenti.

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102

Figura 5.1.2: A sinistra è mostrata la sala sperimentale posta sulla linea di fascio dei 20° presso i LNS, mentre a destra si può osservare il porta-bersagli posto all’ingresso della camera di reazione TRASMA (il frame vuoto ha dimensioni 70×70 mm2).

Si osserva che, in generale, nell’intervallo di energia in gioco, tali frammenti, dai più

leggeri a quelli di massa confrontabile con quella del proiettile, hanno velocità molto

prossima a quella del fascio primario e vengono emessi in avanti, entro un cono d’apertura

angolare relativamente piccola intorno alla direzione di incidenza, corrispondente a zero

gradi. Si rende necessario, quindi, che il sistema di rivelazione abbia un’efficienza di raccolta

ottimale, specie nella regione angolare di interesse.

Al fine di soddisfare queste esigenze, gli 88 telescopi costituenti l’Hodo-Big sono

disposti lungo una superficie sferica di raggio 60 cm, centrata nella posizione del bersaglio,

con apertura angolare ± 6.09° ≤ θlab ≤ ± 20.47° e copertura totale, in termini di angolo solido,

pari a 0.23 sr, cui corrisponde un’alta efficienza geometrica di circa il 90%; d’altra parte gli

81 elementi dell’Hodo-Small, anch’essi centrati rispetto al target, ma ad una distanza di 80

cm, sono sistemati in modo da formare un cubo di 9×9 telescopi, con apertura angolare θlab=

± 4.5°.

Si noti che, al fine di evitare che i telescopi dell’ Hodo-Big possano eventualmente

schermare l’Hodo-Small, il secondo rivelatore è stato posto ad una distanza maggiore dal

target rispetto al primo, secondo il set-up sperimentale mostrato schematicamente in Figura

5.1.3.

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103

5.2 GLI ODOSCOPI

L’acceleratore (CS) operante ai LNS è in grado di generare fasci di ioni monoenergetici

di energia cinetica compresa tra 20 MeV/u, per ioni pesanti, e circa 100 MeV/u per ioni

leggeri completamente ionizzati. Per questi valori di energia incidente, la sezione d’urto

d’interazione è dovuta, in gran parte, al processo di frammentazione del proiettile, con

conseguente produzione di frammenti, dai più leggeri a quelli di massa pari a quella degli

ioni del fascio primario.

Uno degli obiettivi principali del presente lavoro di analisi sperimentale è proprio la

stima della resa di produzione dei vari tipi di frammenti risultanti, dunque è fondamentale

che il sistema di rivelazione impiegato ne consenta l’identificazione, sia in termini di numero

atomico (Z), che di numero di massa (A). Per questa ragione sono stati impiegati dei rivelatori

multipli, quali gli odoscopi.

In particolare, ogni elemento dell’Hodo-Big è un telescopio a tre stadi costituito da un

primo rivelatore al Silicio (∆E1), con spessore di 50 µm ed area attiva di 3×3 cm2, seguito da

un secondo rivelatore al Silicio (∆E2), di spessore pari a 300 µm e di uguale area, ed infine da

Figura 5.1.3: A sinistra è mostrata l’immagine del set-up sperimentale mentre a destra è presentato un disegno schematico speculare in cui è visibile la disposizione, vista dall’alto, degli odoscopi rispetto al target all’interno della camera TRASMA

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un terzo rivelatore (E) rappresentato da un cristallo di CsI(Tl)28, di dimensioni 3×3×6 cm3, a

cui è accoppiato un fotodiodo per la lettura del segnale in uscita. L’intero sistema è sorretto

da un’apposita struttura metallica, suddivisa in settori di sezione quadrata, dove sono stati

collocati gli 88 telescopi dell’Hodo-Big, secondo la configurazione geometrica definitiva di

Figura 5.2.1.

Figura 5.2.1: Disposizione dei telescopi dell’Hodo-Big secondo la configurazione geometrica fissata in fase sperimentale.

Come illustrato in precedenza, l’odoscopio Hodo-Big, essendo caratterizzato da

un’apertura angolare maggiore rispetto all’Hodo-Small, ha il compito di evidenziare anche la

presenza di particelle con energia minore. L’impiego, in questo caso, dello spessore di Silicio

da 50 µm si rende necessario al fine di ridurre la soglia di energia minima rilevabile, rispetto

all’uso del solo ∆E2, al valore di 3 MeV, che rappresenta appunto la perdita di energia di una

particella nel ∆E1.

D’altra parte, ciascun componente dell’Hodo-Small consiste di un rivelatore al Silicio

(∆E), di spessore 300 µm e di area attiva 1×1 cm2, seguito da uno scintillatore (E), a base di

28 Ioduro di Cesio attivato con impurezze di Tallio.

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CsI(Tl) di uguale area e spessore pari a 10 cm, connesso ad un fotodiodo di read-out. In

questo caso, al fine di minimizzare gli spazi interstiziali tra un telescopio e l’altro e

migliorare quindi l’efficienza geometrica, non è stata impiegata una struttura di supporto per

ogni singolo modulo, bensì i telescopi sono stati appoggiati l’uno sull’altro, in modo da

formare un cubo, e sistemati entro un’opportuna struttura metallica, come mostrato in Figura

5.2.2.

Figura 5.2.2: Disposizione dei telescopi dell’Hodo-Small secondo il punto di vista del target.

Caratteristica comune ai due odoscopi è la seguente: i segnali elettrici prodotti dai

rivelatori al Silicio vengono prelevati attraverso dei sottili fili saldati su degli elettrodi in

Alluminio, di spessore 0.3 µm, ottenuti per evaporazione sulle due superfici laterali del diodo

semiconduttore. I cavi risultano poi saldati su delle strisce di Kapton che, poste all’interno

del rivestimento del cristallo di CsI(Tl), svolgono sia funzione di connessione, per la

trasmissione dei segnali, che di sostegno del diodo.

Dal punto di vista costruttivo, i cristalli di CsI(Tl) costituenti i due sistemi di rivelatori

esaminati fin qui, presentano delle differenze dovute alle due diverse coperture angolari

descritte in precedenza: nel caso dell’Hodo-Big i cristalli sono stati sagomati a forma tronco-

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piramidale con basi quadrate, di superfici 31×31 mm2 e 34×34 mm2 rispettivamente, in modo

da garantirne il centraggio alla stessa distanza dal target, cosicché ognuno di essi sottenda lo

stesso angolo solido. Un disegno schematico relativo ad un generico telescopio dell’Hodo-

Big è rappresentato in Figura 5.2.3.

Figura 5.2.3: Diagramma esemplificativo di un generico telescopio dell’Hodo-Big.

Per quanto riguarda i cristalli di CsI(Tl) associati all’Hodo-Small, la piccola apertura

angolare del rivelatore rispetto alla distanza dal bersaglio garantisce, di per sé, il centraggio

degli 81 telescopi, entro gli errori di misura, dunque non è necessaria alcuna particolare

geometria costruttiva. In generale, le superfici anteriore, a contatto con il Silicio, e laterale

della sostanza scintillante, sono state rese leggermente ruvide, mentre quella posteriore è

stata pulita e levigata, in modo da ottimizzare l’accoppiamento ottico con il fotodiodo.

Per di più, al fine di potenziare l’efficienza di raccolta della luce prodotta entro il

cristallo e di attenuarne la dipendenza dal punto di impatto sul fotodiodo, è stato adottato

l’uso combinato di materiali di rivestimento sia totalmente riflettenti, come il Mylar

alluminizzato, sia completamente diffondenti, come il Millipore ed il Teflon. In particolare,

la parte anteriore degli scintillatori è stata ricoperta con un foglio di Mylar alluminizzato, di

spessore 2µm, in modo da minimizzare la perdita di energia degli ioni incidenti ed

incrementare il fenomeno della riflessione interna della luce.

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Le altre superfici del cristallo sono state avvolte con delle strisce di Millipore, di

spessore 0.1 mm, e ricoperte con due strati di Teflon, di spessore pari a 0.5 mm, allo scopo di

eliminare il fenomeno del cross talk fra i segnali relativi a rivelatori adiacenti. Difatti, fra i

due strati di Teflon, è stato inserito un sottile foglio di Kapton, di spessore 0.1 mm, con la

funzione di trasporto dei segnali provenienti dai rivelatori al Silicio lungo le facce laterali del

cristallo, impiegando, in tal modo, il minimo spazio possibile e riducendo, così, le parti

inutilizzabili dell’odoscopio. Tutto il sistema, comprensivo del fotodiodo di read-out, è stato

ricoperto con un foglio di Alluminio collegato a massa, di spessore 0.2 mm, con il compito di

evitare penetrazioni di luce dall’esterno e di schermare il segnale trasmesso attraverso il

Kapton.

Sul rivestimento della superficie posteriore dei cristalli, è stata ritagliata un’apertura

quadrata per consentirne la connessione con il fotodiodo ΦD (visibile in Figura 5.2.3), di

spessore 250 µm ed area attiva pari ad 1×1 cm2 e di 0.6×0.6 cm2 per i telescopi,

rispettivamente, di Hodo-Big ed Hodo-Small. L’accoppiamento ottico dei due elementi è

stato ottenuto mediante l’uso di una colla siliconica a due componenti che possiede buone

proprietà di trasmissione della luce, specie nel range di emissione dello CsI(Tl) che risulta

centrato nel valore di 565 nm, permettendo inoltre una ferma coesione fra le parti. Un

supporto tronco-conico funge da sostegno del fotodiodo e della basetta, annessa ad ognuno

dei telescopi, con la quale sono assemblati i connettori Lemo relativi ai diodi di Silicio ed

agli stessi fotodiodi (vedi Figura 5.2.4). Infine, sulla base dei telescopi è montata una

piastrina, opportunamente sagomata, che ne garantisce il fissaggio alla struttura meccanica su

cui poggia l’apparato nel suo complesso.

Si osserva che la scelta del fotodiodo rispetto all’uso del fotomoltiplicatore comporta

una serie di vantaggi quali, ad esempio, la migliore efficienza quantica per lo spettro di

emissione dello CsI(Tl), dimensioni più ridotte, la maggiore stabilità del guadagno e la

minore tensione di alimentazione richiesta.

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Figura 5.2.4: Immagine di uno dei telescopi dell’Hodo-Big completo di basetta e piastrina.

Nei paragrafi successivi verrà illustrata, in primo luogo, la tecnica di identificazione

∆E-E alla base del metodo sperimentale applicato per la stima della carica, della massa e

dell’energia delle particelle incidenti sui due odoscopi; successivamente sarà fornita una

descrizione più dettagliata del principio di rivelazione su cui si basa l’impiego dei diodi al

Silicio e dei cristalli a base di CsI(Tl), costituenti elementari del dispositivo.

5.2.1 TECNICA DI IDENTIFICAZIONE ∆E-E

Il principio di funzionamento di un generico rivelatore di radiazione dipende

essenzialmente dalla modalità di interazione fra la radiazione incidente ed il materiale

costitutivo del mezzo assorbente, già descritto in precedenza (§ 1.2).

In particolare, a partire dalla formula di Bethe e Bloch, che descrive la perdita di

energia delle particelle entro il bersaglio, se si considerano particelle cariche di massa m e

carica ze ad energie non relativistiche ( cv << ), ma tali da supporre trascurabile la correzione

di shell, la relazione (1.3) può esprimersi, più semplicemente, come segue [Kno89]:

.

=−m

EC

E

mzC

dx

dE2

2

1 ln , (5.1)

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dove C1 e C2 rappresentano delle costanti29. Nell’equazione (5.1) il termine logaritmico varia

lentamente con l’energia per cui lo stopping power possiederà un andamento inversamente

proporzionale all’energia incidente (o, analogamente, 21 vS ∝ ) e dipenderà essenzialmente

dal prodotto mz2, assolutamente caratteristico del tipo di particella in esame. Su questa

relazione si basa, quindi, la cosiddetta tecnica di identificazione ∆E-E, attraverso l’impiego di

particolari dispositivi detti telescopi costituiti, in generale, da un rivelatore sottile ∆E (di

trasmissione), in cui il proiettile perde solo una piccola frazione della sua energia totale,

posizionato davanti ad un secondo rivelatore E, più spesso del primo, in cui lo ione incidente

viene completamente arrestato. Un sistema di questo tipo consente di determinare

simultaneamente, considerando solo gli eventi in coincidenza nei due contatori, la perdita di

energia specifica (segnale ∆E) e l’energia totale del proiettile, Etot= ∆E+E, ottenuta come

somma delle ampiezze dei segnali prelevati dai due rivelatori. Dal momento che, in virtù

della (5.1), la relazione che lega fra loro le grandezze ∆E ed Etot dipende fortemente dalla

massa m e dal numero atomico z, è possibile risalire al tipo di particella che ha attraversato il

telescopio semplicemente dalla stima della coppia di valori (∆E, Etot) [Gou64].

Si osserva che, nell’intervallo di energie in cui è da ritenersi valida la formula di Bethe

e Bloch, lo stopping power tende a decrescere all’aumentare della velocità incidente finché

non presenta un valore minimo, in corrispondenza di cv 96.0≅ : in tal caso, le particelle che

rallentano entro il mezzo di rivelazione (dette minimamente ionizzanti), che siano inoltre

caratterizzate dallo stesso valore di z, presentano approssimativamente lo stesso valore della

perdita di energia specifica per cui non risultano più essere distinguibili. Affinché la tecnica

di identificazione ∆E-E sia applicabile, occorre dunque considerare energie incidenti minori

del valore di minima ionizzazione.

29 Le costanti in gioco nella (5.3) sono date da:

C1=(NZe4)/(8πε02me) e C2=(4me)/I,

avendo posto N=(NAρ)/A, che rappresenta il numero di atomi o molecole bersaglio per unità di volume.

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5.2.2 PROPRIETÀ DEI DIODI AL SILICIO

L’impiego dei diodi al Silicio nella realizzazione dei telescopi dell’Hodo-Big e

dell’Hodo-Small è dettato dall’esigenza di ottimizzare la risoluzione energetica rispetto alla

scelta di altri dispositivi. In particolare, nel caso dell’Hodo-Big, l’accoppiamento dei due

spessori di Silicio ∆E1 e ∆E2, da circa 50 µm e 300 µm rispettivamente, al cristallo E di

CsI(Tl) è utile al fine di ottenere, nell’ampio range di energie in gioco, una migliore

separazione grafica fra le curve ∆E1 vs ∆E2 e ∆E2 vs E al variare del numero atomico Z della

particella da rivelare, rendendo possibile così l’identificazione in carica ed in massa dei

frammenti del primario. La presenza dello spessore più sottile ∆E1, come già accennato in

precedenza, ha la funzione di ridurre notevolmente la soglia relativa alla minima energia

rivelabile dell’Hodo-Big. In tal modo si evita la perdita di informazioni, soprattutto in merito

a quelle particelle che, in quanto maggiormente deflesse dalla direzione di incidenza,

rappresentano il frutto di processi di interazione fra proiettile e bersaglio distinti dalla

frammentazione e, per questo, aventi in alcuni casi energia cinetica molto minore rispetto, ad

esempio, ai frammenti poco deflessi raccolti dall’Hodo-Small.

I diodi a semiconduttore di cui sono dotati i due odoscopi appartengono alla categoria

dei fully depleted (o totally depleted) detectors ottenuti imponendo una tensione di

polarizzazione inversa ad un wafer di Silicio, diviso in due settori, in cui sono state introdotte

impurezze di due tipi: di tipo n (o donori di elettroni) e di tipo p (o accettori di elettroni).

L’inserimento degli atomi impurezze nel reticolo del cristallo di Silicio determina, così,

un forte aumento di portatori di carica, di entrambi i segni, liberi di muoversi nella banda di

conduzione, incrementando inizialmente la conduttività del dispositivo. La conseguente

migrazione dei portatori di carica maggioritari da un settore all’altro del wafer comporta il

raggiungimento di una condizione di sostanziale equilibrio e la creazione di una differenza di

potenziale, in corrispondenza della giunzione n-p, che impedisce l’ulteriore trasferimento di

cariche da una parte all’altra del diodo e dovuto al cosiddetto fenomeno di carica spaziale. In

tal modo, entro il wafer di Silicio, viene a crearsi una regione, detta di svuotamento, dove la

concentrazione di elettroni e lacune libere di muoversi attraverso il cristallo risulta

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estremamente ridotta. Applicando, infine, ai due settori del diodo una tensione di

polarizzazione inversa rispetto alle concentrazioni dei portatori di carica maggioritari, è

possibile estendere la regione di svuotamento all’intero spessore del cristallo ottenendo così

un rivelatore totally depleted. In tal modo, il numero di coppie elettrone-lacuna derivanti dal

passaggio di una particella carica attraverso il diodo non risulterà inficiato da cariche già

presenti nella banda di conduzione del cristallo, bensì il segnale in carica prelevato ai capi

della giunzione avrà ampiezza direttamente proporzionale all’energia depositata dalla

radiazione.

Inoltre uno dei principali vantaggi dell’impiego dei rivelatori a semiconduttore è

rappresentato dall’esiguo valore dell’energia di ionizzazione, definita come l’energia media

necessaria alla creazione di una coppia elettrone-lacuna, che risulta indipendente dal tipo e

dall’energia della radiazione da rivelare. Tipicamente l’energia di ionizzazione del Silicio è

di circa 3 eV per cui, a parità di energia depositata, il numero di trasportatori di carica per un

materiale semiconduttore è circa 10 volte maggiore rispetto ad un qualunque tipo di

rivelatore a gas. Tale prerogativa comporta la migliore risoluzione in energia ottenibile

rispetto ad ogni altro dispositivo di rivelazione in quanto rende minime le fluttuazioni

statistiche relative al singolo impulso in uscita ed ottimizza il rapporto segnale/rumore.

Per quanto riguarda i diodi al Silicio costituenti gli odoscopi Hodo-Big ed Hodo-Small,

la risoluzione energetica, ottenuta mantenendo la corrente inversa compresa tra [0.1÷1.0] µA,

è pari a circa 50 KeV.

In particolare, in Tabella 5.2, sono riportati, in dettaglio, i parametri costruttivi relativi

agli spessori ∆E1 e ∆E2 componenti l’Hodo-Big.

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∆E1 ∆E2

Superficie 31×31 mm2 31×31 mm2

Area attiva 31×31 mm2 31×31 mm2

Spessore 50 µm 300 µm

Tensione di full-depletion (20 ÷ 26) V (26 ÷ 40) V

Tensione di breakdown >100 V >100 V

Corrente inversa (35 V) ~0.1 µA 1.0 µA

Capacità di giunzione (20 V) 320 pF 320 pF

Tempo di salita 1-3 ns 1-3 ns

Metallizzazione della superficie Al (0.3 µm) Al (0.3 µm)

Tabella 5.2: Caratteristiche costruttive dei rivelatori ∆E1 e ∆E2 appartenenti ai telescopi dell’Hodo-Big.

5.2.3 PROPRIETÀ DEL CRISTALLO DI CSI(T L)

Nella progettazione dell’apparato di misura fin qui descritto, la scelta di uno

scintillatore come il cristallo di CsI(Tl) con la funzione di rivelatore di energia residua E,

capace di arrestare efficacemente al suo interno una grande varietà di specie isotopiche ad

energie relativistiche e non30, è dettata essenzialmente dall’alto numero atomico dei

costituenti e dall’alta densità di questo materiale, che si traducono in un valore notevole dello

stopping power, caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto agli scopi previsti.

Il principio di rivelazione della radiazione per questo genere di dispositivi è

rappresentato dalla possibilità di convertire l’energia cinetica delle particelle incidenti in

quanti di luce, con lunghezze d’onda nella regione del visibile, con un’alta efficienza di

scintillazione, definita come quella frazione dell’energia incidente effettivamente convertita

in fotoni.

In particolare, lo CsI(Tl) appartiene alla classe dei cristalli inorganici a base di

alogenuri alcalini, scintillatori dotati, inoltre, della migliore risposta di luce della categoria sia

30 Uno spessore da 6 cm di CsI(Tl), analogo a quelli utilizzati nei telescopi dell’Hodo-Big, è capace di fermare

completamente al suo interno protoni da 150 MeV e ioni con Z>10 ed energia pari a 400 AMeV.

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in termini di intensità che di linearità del segnale in uscita, ossia di proporzionalità tra luce

prodotta ed energia depositata.

L’interpretazione del meccanismo di scintillazione nei cristalli inorganici si basa sulla

struttura a bande di energia degli elettroni, determinata dalla configurazione reticolare del

materiale. Il passaggio di uno ione energetico attraverso il mezzo di rivelazione provoca la

formazione di un certo numero di coppie elettrone-lacuna, in misura proporzionale

all’energia depositata, dovute all’eccitazione degli elettroni dalla banda di valenza alla banda

di conduzione. Nel cristallo puro, il conseguente processo di diseccitazione degli elettroni

alla banda di valenza è inefficiente poiché comporterebbe l’emissione di fotoni (di energia

pari al gap tra i due livelli permessi) con lunghezze d’onda tipicamente inferiori rispetto al

visibile e passibili, inoltre, di fenomeni di autoassorbimento. Al fine, quindi, di ottimizzare

l’emissione di luce, vengono normalmente aggiunte piccole quantità di atomi impurezze,

dette attivatori, con la funzione di modificare localmente la struttura a bande del cristallo

puro attraverso la creazione di livelli di energia, caratteristici della specie chimica attivatrice,

entro la banda altrimenti proibita. Come in precedenza, la diseccitazione di un elettrone, dopo

aver interagito con un centro impurezza, può avvenire soltanto nel caso in cui la transizione

dallo stato eccitato a quello fondamentale dell’attivatore risulti permessa, con la differenza

che, in tal caso, il fotone emesso possiede energia minore del salto fra i livelli tipici del

cristallo puro. La specie attivatrice, in particolare, viene scelta opportunamente in modo da

spostare lo spettro di emissione verso lunghezze d’onda comprese nel visibile, rendendo così

il cristallo trasparente alla propria luce di scintillazione. Il processo descritto prende il nome

di fluorescenza ed è tale che la conversione dell’energia incidente in luce avviene in un

tempo caratteristico dell’ordine di 10-7 secondi [Kno89].

Sulla base di esperimenti condotti su campioni di CsI, senza aggiunta di impurezze, è

stato dimostrato che lo spettro di emissione di questa sostanza si compone di due bande, una

nell’ultravioletto, centrata intorno a 3300 Å e caratteristica del cristallo puro, l’altra nel

visibile, di colore blu ma di posizione spettrale variabile, in quanto associata alla presenza di

imperfezioni reticolari o di tracce ineliminabili di altre specie chimiche. Dopo aver attivato il

campione con impurezze di Tallio di fissata concentrazione ed in seguito all’esposizione a

diversi tipi di radiazione (raggi-X, protoni e particelle alfa), la risposta spettrale della

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Figura 5.2.5: (a) Spettri di emissione di un cristallo di CsI(Tl) avente una concentrazione di Tallio pari a 0,002 mole% per diversi tipi di radiazione incidente. (b) Spettri di emissione di cristalli di CsI(Tl) attivati mediante concentrazioni crescenti di Tallio ed irradiati con protoni di energia pari a 4,4 MeV [Gwi63].

(a) (b)

sostanza ha evidenziato la presenza di una nuova banda di emissione nel visibile, di colore

giallo, piuttosto intensa e centrata intorno a 5500 Å, caratteristica dell’attivatore [Gwi63]. I

risultati sperimentali sono mostrati in Figura 5.2.5(a) dove si può inoltre osservare

chiaramente come l’intensità della banda centrata intorno a 3300 Å, rispetto all’intensità di

emissione totale del campione, risulti essere funzione monotona crescente della densità di

ionizzazione media della particella eccitatrice. Allo stesso tempo, l’efficienza di conversione

dell’energia incidente in luce di scintillazione mostra un decremento a testimonianza del fatto

che la risposta del materiale dipende fortemente dallo stopping power della radiazione che

incide e quindi è funzione, non solo della sua energia, ma anche del numero atomico Z.

In particolare, l’andamento della luce di scintillazione in funzione dell’energia

incidente è quasi lineare, in un range di energie piuttosto ampio, solo nel caso di particelle

leggere, come protoni e deutoni. Per le particelle alfa e per ioni più pesanti la risposta di luce

del cristallo aumenta con l’energia depositata, ma con pendenza decrescente.

In Figura 5.2.5(b) è mostrato, per contro, il crescente aumento della luminescenza

esibita da un campione di CsI(Tl) irradiato con protoni di energia fissata, all’aumentare della

concentrazione percentuale dei siti impurezza entro il reticolo. Al fine di convertire la luce

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Figura 5.2.6: Efficienze quantiche di due tipi di fotorivelatori, un tubo fotomoltiplicatore (PMT) ed un fotodiodo a scarica (APD), in funzione della lunghezza d’onda [Yao06]. Sono mostrati in figura anche gli spettri di emissione di tre tipi di scintillatori a base di cristalli inorganici: BGO (Germanato di Bismuto), LSO (Ossiortosilicato di Lutezio) e CsI(Tl).

prodotta in un segnale elettrico, tale proprietà rende particolarmente vantaggioso

l’accoppiamento del cristallo ad un fotodiodo, piuttosto che ad un fotomoltiplicatore, in

quanto, come è noto in letteratura [Yao06], l’efficienza quantica nel primo caso raggiunge

valori intorno al 60-80 % nella regione spettrale di interesse (vedi Figura 5.2.6). Si osserva

inoltre che il principio di funzionamento dei fotodiodi è del tutto analogo a quello, descritto

in precedenza, di un generico rivelatore a semiconduttore a giunzione n-p.

Nell’interazione tra la radiazione ed il mezzo scintillante possono presentarsi,

sfortunatamente, altri processi che competono con il meccanismo di fluorescenza. Uno di

questi è il cosiddetto processo di fosforescenza o afterglow che si presenta quando un

elettrone, libero di migrare attraverso il cristallo, viene catturato da un sito impurezza con

conseguente formazione di uno stato eccitato metastabile, tale che la transizione allo stato

fondamentale dell’attivatore non è permessa. In tal caso la riemissione di energia sotto forma

di fotoni nel visibile è ritardata e richiede un periodo di tempo compreso fra alcuni

microsecondi ed alcune ore, a seconda del materiale. Può presentarsi inoltre l’eventualità che

il processo di diseccitazione dell’attivatore allo stato fondamentale sia non radiativo, come

nel caso della cattura elettronica. Meccanismi di questo tipo contribuiscono al cosiddetto

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fenomeno di quenching, ossia la mancata conversione dell’energia incidente in luce di

scintillazione.

In Tabella 5.3 sono riportate, in particolare, le caratteristiche fisico-chimiche relative ai

cristalli di CsI(Tl) impiegati nell’apparato qui presentato.

E

Densità 4.51 g/cm3

Lunghezza d’onda di emissione 565 nm

Fotoni emessi 4.5 × 104 fotoni/MeV

Gradiente di temperatura 0.6 %/°C

Stopping power lineare minimo 5.6 MeV/cm

Indice di rifrazione 1.80

Costante di decadimento ~1µs

Concentrazione di Tallio 0.02 mole %

Superficie della base minore 31 × 31 mm2

Superficie della base maggiore 34 × 34 mm2

Spessore 6 cm

Tabella 5.3: Caratteristiche fisico-chimiche dei cristalli di CsI(Tl), rivelatori di energia residua E, appartenenti ai telescopi dell’Hodo-Big.

Rispetto ad altri tipi di cristalli inorganici, come lo NaI(Tl), lo CsI(Tl) presenta

numerosi vantaggi pratici come la maggiore resistenza ad eventuali shock meccanici, la

migliore duttilità e la tenue igroscopia (è ugualmente necessario proteggere lo scintillatore

con avvolgimenti esterni, soprattutto in condizioni di forte umidità, per evitare

danneggiamenti).

Per completezza, sono infine riportati, in Tabella 5.4, le caratteristiche del fotodiodo di

read-out associato ad un generico telescopio dell’Hodo-Big.

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117

ΦD

Dimensioni 12 × 12 mm2

Area attiva 10 × 10 mm2

Spessore 250 µm

Spettro di assorbimento 4000 ÷ 11000 Å

Efficienza quantica 70 %

Capacità 70 pF (30 V)

Tempo di salita 15 ns

Tensione di polarizzazione inversa 10 V

Corrente inversa 1 nA

Tabella 5.4: Proprietà del fotodiodo ΦD abbinato ad un generico modulo dell’Hodo-Big.

5.3 ELETTRONICA LINEARE

Figura 5.3.1: Diagramma a blocchi della catena elettronica associata al singolo rivelatore dell’Hodo-Big.

PA 421 SHAPING AMPLIFIER

∆E1

A

TRIGGER

STRETCHER

Z.C.

GATEStr

GATEQDC

FASTBUS QDC

As

E

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L’elaborazione dei segnali prodotti dal sistema di rivelazione è affidata ad una catena

elettronica di tipo standard, concepita in modo da mantenere inalterata l’informazione di

interesse, relativa all’energia dei prodotti di reazione, e rappresentata dall’altezza dei segnali

in uscita dai rivelatori.

In Figura 5.3.1 è mostrato un disegno schematico dell’elettronica associata ad un

generico rivelatore dell’Hodo-Big.

In primo luogo i segnali che provengono dai diodi al Silicio e dal fotodiodo, annesso

allo CsI(Tl), sono posti all’ingresso di preamplificatori di carica (PA421) sistemati in delle

scatole (P.A. BOX) montate all’esterno della camera di reazione (per via delle sue

dimensioni limitate) alla minima distanza possibile dagli odoscopi, al fine di ridurre le

capacità nel trasporto dei segnali in uscita dai rivelatori. L’impiego dello stesso tipo di

preamplificatore (PA) nella gestione di segnali generati da tipi diversi di rivelatori ha reso

necessarie opportune modifiche, in modo da garantire il corretto accoppiamento capacitivo.

Inoltre, sono stati selezionati valori della sensibilità del PA pari ad 1 mV/MeV ed a 45

mV/MeV per i segnali prodotti rispettivamente dagli spessori di Silicio e dai fotodiodi.

Le caratteristiche tecniche dei PA sono riportate in Tabella 5.5.

Modello PA421

Dimensioni 38 × 38 mm2

Ingresso Impulso di carica positivo o negativo

Uscita Impulso di tensione unipolare con altezza del picco

proporzionale alla carica (invertente) e Vmax= (-10) V

Integrazione lineare ±0.035%

Sensibilità di ingresso (1, 47, 94) mV/MeV

Stabilità termica ±50 ppm/°C da 0 a 50 gradi Celsius

Tempo di salita 15 ns

Tempo di decadimento 250 µsec (100 µsec)

Alimentazione (±12, ±24) V

Potenza dissipata 590 mW

Tabella 5.5: Caratteristiche tecniche dei PA.

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Ciascuna delle P.A. BOX ospita due schede madri, su ognuna delle quali possono

essere montati, in gruppi da 8, fino a 48 PA, come risulta ben visibile in Figura 5.3.2. Ad

ogni gruppo di 8 PA viene fornita, attraverso la scheda madre, la stessa tensione di

polarizzazione per i rivelatori, applicata in parallelo a ciascun PA, così come la tensione di

alimentazione (±12 V, ±24 V). Inoltre, nella fase di controllo del funzionamento della catena

elettronica nel suo complesso, i PA di uno stesso gruppo ricevono un segnale, generato da un

impulsatore, all’ingresso detto di pulse-test mediante collegamento in serie.

La scelta dello schema a gruppi presenta vantaggi considerevoli quali la maggiore

flessibilità, la riduzione dello spessore delle piste di alimentazione e l’impiego di un numero

minore di generatori di tensione di bias, sia per i diodi al Silicio che per i fotodiodi. In

particolare, la possibilità di collegare le resistenze di bias in parallelo, ha reso minima la

caduta di tensione ai capi dei PA di uno stesso gruppo, determinata dal presentarsi di una

corrente di polarizzazione inversa entro i diodi. Con questo sistema, al crescere della corrente

parassita, non è stato dunque necessario aumentare la tensione per mantenere la corretta

polarizzazione del dispositivo.

Lo svantaggio di organizzare numerosi circuiti elettrici in una struttura così compatta è

rappresentato dal cosiddetto fenomeno del cross-talk per cui i segnali, che transitano lungo

connessioni molto prossime fra loro che non siano regolarmente schermate, possono subire

effetti di induzione. I segnali indotti interferiscono fra loro in modo tale che l’informazione

Figura 5.3.2: Immagine di una delle P.A. BOX.

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relativa all’altezza viene falsata. Per evitare quindi cross-talk tra i vari canali e garantirne

l’isolamento, il circuito integrato della scheda madre è stato realizzato alternando le piste che

trasportano il segnale con strati posti a massa, secondo la tecnica detta del multistrato.

Un’altra importante problematica da considerare è quella relativa allo smaltimento del

calore prodotto dai PA in condizioni operative. Nonostante le P.A. BOX non siano state

montate all’interno della camera sperimentale dove, in condizioni di vuoto spinto e quasi a

diretto contatto con i rivelatori, non sarebbe stato possibile lo scambio termico con l’aria

circostante e quindi la dissipazione del calore in eccesso, la temperatura dei PA raggiunge, a

regime, valori intorno a 40-50 °C. Per questa ragione è stato progettato un sistema di

raffreddamento costituito da una serie di serpentine metalliche poste entro una sbarra

principale in Rame collocata, a sua volta, entro ciascuna delle P.A. BOX. Le condutture di

tali serpentine sono collegate ad una pompa per il ricircolo del liquido di raffreddamento,

ottenuto mediante una miscela di acqua ed alcool. Il contatto termico fra ogni PA ed il

refrigerante è realizzato tramite un’altra sbarretta in Rame, saldata a quella principale, unita

al PA con una speciale resina elettroisolante e termoconduttrice. Tale sistema ha mantenuto i

PA ad una temperatura di circa 20 °C.

I segnali impulsivi (di tipo delta di Dirac) generati dai rivelatori e tradotti in segnali a

gradino in uscita dai PA, sono trasportati fino all’ingresso degli amplificatori lineari

(Shaping Amplifier), sistemati nella sala di acquisizione adiacente a quella sperimentale,

attraverso dei cavi coassiali. Ogni amplificatore (SA) è dotato di 8 canali di ingresso e

fornisce, per ciascun canale, un’uscita analogica, di altezza massima pari ad 8 V e shaping

time regolabili a .5, 1. e 3. µsec, e due uscite logiche, denominate Leading Edge (L.E.) e Zero

Crossing (Z.C.), ottenute derivando, dall’uscita del PA, un segnale veloce messo in forma da

una sezione dello SA con shaping time pari a 400 nsec. In particolare, il L.E. è prodotto da un

discriminatore a soglia (leading edge discriminator) nell’istante in cui il segnale, messo in

forma dallo SA, raggiunge la soglia fissata. Diversamente, lo Z.C. è generato nell’istante in

cui si annulla il segnale bipolare che si ottiene sommando fra loro il segnale originale ed una

sua copia caratterizzata da polarità invertita ed opportuno ritardo (constant fraction

discriminator). Lo Z.C. così determinato dipende sia dalla forma che dal tempo di salita (rise

time) dell’impulso trattato, ma risulta indipendente dalla sua altezza e, per questo motivo, è

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utile a realizzare la cosiddetta analisi in forma dei segnali. Le due uscite logiche dello SA

sono raggruppate in due connettori ECL31 da 8 pin ciascuno attraverso cui, in particolare, i

segnali di Z.C. vengono inviati a dei moduli AND-OR-ECL (AOE), dotati di 32 ingressi

(corrispondenti a 4 cavi ECL da 8 pin ciascuno), che consentono di eseguire operazioni

logiche elementari (AND, OR) sui segnali. Inoltre, i moduli AOE forniscono un segnale detto

di molteplicità: ogni volta che M segnali giungono contemporaneamente sullo stesso modulo

viene generato un segnale logico, di altezza pari a (150×M) mV, che risulta, pertanto,

proporzionale alla molteplicità dell’evento. L’utilizzo dell’uscita logica di Z.C. dello SA sarà

discusso più avanti, nella sezione riguardante il trigger dell’acquisizione (§ 5.5).

Come mostrato in Figura 5.3.1, l’uscita analogica dello SA (con shaping time di 1 µsec

e di 3 µsec per i segnali provenienti, rispettivamente, dai rivelatori al Si e dagli scintillatori) è

inviata, tramite un connettore lemo, ad uno stretcher, che prolunga la durata dell’impulso in

ingresso dopo che questo è giunto al suo valore massimo. La logica di controllo dello

stretcher è realizzata mediante due segnali di tipo NIM32: uno di start, che permette di

accettare i segnali in ingresso, ed un segnale di gate (GATEStr), attivato dall’elettronica di

trigger (§ 5.5), attraverso cui è possibile regolare la durata dell’impulso in uscita (è previsto

inoltre un reset con la funzione di riportare il segnale a zero). Gli impulsi posti all’ingresso

dello stretcher devono avere polarità negativa, frequenza non superiore a 63,3 kHz ed altezza

compresa tra 8 mV ed 8 V mentre i segnali in uscita hanno una durata minima di 500 nsec

(tempo di stretching). In fase sperimentale è stato impostato un GATEStr che presentava un

ritardo di 2 µsec rispetto al segnale originario ed una larghezza di 20 µsec.

L’uscita analogica dello stretcher viene digitalizzata da un FASTBUS-QDC Le Croy

a 96 canali che rappresenta un sistema di front-end ad alte prestazioni, le cui funzioni sono

discusse nella sezione riguardante il sistema di acquisizione dati dell’esperimento (§ 5.4).

31 Emitted-Coupled Logic. 32 Nuclear Instrument Module.

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5.4 SISTEMA DI ACQUISIZIONE DATI La conversione e la registrazione dei segnali analogici, trattati dall’elettronica lineare

dell’esperimento, sotto forma di pacchetti di segnali logici da 12 bits, è realizzata mediante

un sistema di acquisizione dati costituito da un FASTBUS-QDC Le Croy a 96 canali in

grado di gestire sia il notevole volume dei dati che il loro elevato rate. In particolare, il crate

FASTBUS è suddiviso in 26 stazioni (slots) ed ospita, su 20 di queste, dei moduli ADC

1885F Le Croy (Analog to Digital Converter), uno per ogni slot, aventi 96 ingressi che

consentono la lettura, da parte del sistema di front-end, di (96×20)≈2000 canali

contemporaneamente.

I moduli ADC impiegati sono di tipo charge sensitive in quanto corrispondenti a dei

QDC (Charge to Digital Converter), dispositivi che traducono il segnale in tensione in

ingresso (V(t)) in un segnale in corrente (I(t)), applicandolo ai capi di una resistenza R da 220

Ω. La corrente I(t) viene quindi integrata su un intervallo di tempo ∆t, pari alla larghezza del

segnale logico di gate del QDC (GATEQDC), restituendo come risultato l’informazione

relativa alla carica totale Q trasportata dal segnale di input. Analiticamente, la risposta del

QDC può esprimersi secondo la relazione:

∫ ∫∆∆

==t

t

dttIdtR

tVQ )(

)(. (5.4)

Il GATEQDC è ottenuto a partire dal segnale logico di trigger (Figura 5.3.1) e regolato

attraverso un gate generator che consente di fissarne il ritardo e la durata rispetto al primo. In

particolare sono stati adoperati GATEQDC con un ritardo di 10 µsec (pari a metà della

larghezza del GATEStr) e durata pari a 100, 200 e 300 nsec per i segnali generati,

rispettivamente, dai rivelatori al Silicio da 50 e 300 µm e dai cristalli di CsI(Tl). Inoltre, ogni

QDC è dotato di un multiple event buffer, che può registrare fino ad 8 eventi. La lettura del

buffer è compiuta ad una velocità di 10 megawords/sec e simultaneamente alla conversione

di eventi successivi riducendo, in tal modo, il tempo morto dell’acquisizione.

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Uno dei principali vantaggi derivanti dall’utilizzo di un FASTBUS-QDC è

rappresentato dalla possibilità di estendere il range dinamico relativo al singolo modulo ADC

mediante la cosiddetta tecnica del doppio gain (dual range technique) in base alla quale

vengono adoperate due scale di conversione, a seconda dell’altezza dell’impulso in ingresso,

come mostrato in Figura 5.4.1.

Ogni QDC dispone di 4096 canali di conversione digitale in modo tale che al massimo

valore di tensione V0 del segnale in ingresso sarà associato il canale 4096 e possiedono,

inoltre, una soglia posta ad (1/8) V0 che, espresso in termini della carica trasportata, è pari a

175 pC. Si distinguono due casi, a seconda che l’altezza del segnale di input sia minore o

maggiore di (1/8) V0. Nel primo caso la conversione in digitale è effettuata su 4096 canali,

secondo la retta riferita al Low Range (Figura 5.4.1), con una risoluzione di 50 fC/conteggio;

nel secondo caso la stessa operazione è compiuta, ancora su 4096 canali, ma attraverso la

retta di conversione riferita al High Range, con una risoluzione di 400 fC/conteggio, per un

segnale che trasporta una carica compresa tra 175 e 1450 pC. In definitiva, quindi, con la

Figura 5.4.1: Plot dimostrativo della duplice conversione operata dal QDC in base alla tecnica del doppio gain. In figura è mostrata anche la retta di conversione finale, congiungente i punti in rosso, definita per ogni valore dell’altezza del segnale di input ed ottenuta in seguito all’operazione di calibrazione dei guadagni (Gain Calibration).

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tecnica del doppio gain, il range dinamico viene così esteso da 4096 a circa (4096×8)≈32000

canali, con conseguente effetto di ingrandimento della regione di basse energie dello spettro

che altrimenti non verrebbe risolta. Il segnale viene digitalizzato in una word di 12 bit a cui si

aggiunge un tredicesimo bit, detto range bit, che indica l’appartenenza al Low Range o al

High Range, a seconda che sia posto a 0 oppure ad 1.

Si osserva inoltre che tutti i 96 ingressi di ciascun modulo QDC vengono attivati da un

unico segnale di gate (GATEQDC), con lo stesso ritardo (delay) e la stessa durata (width).

L’integrazione degli impulsi analogici di input, rappresentata dalla relazione (5.4), viene così

eseguita su un intervallo di tempo ∆t uguale per tutti i canali e, affinché l’operazione risulti

corretta, i 96 segnali dovrebbero giungere simultaneamente al QDC per essere

successivamente integrati. A seconda del tipo evento rivelato, i segnali in arrivo avranno, in

generale, caratteristiche diverse, sia in termini di tempo di salita che di ritardo, per cui un

GATEQDC di durata eccessiva produrrebbe l’integrazione del fondo, peggiorando la

risoluzione in energia dell’acquisizione, mentre un GATEQDC di durata troppo breve

comporterebbe l’integrazione di una porzione del segnale non rappresentativa dell’evento

considerato, falsando il risultato dell’acquisizione. Si spiega così l’importanza dell’impiego

degli stretchers (§ 5.3) che, prolungando il valore massimo dei segnali per l’intera durata del

GATEQDC, garantiscono la corretta integrazione su tutti i 96 canali del QDC. Le

caratteristiche tecniche del FASTBUS-QDC sono indicate in Tabella 5.6.

Modello 1882F

Numero di canali 96 multiplexati

Short gates Da 50 ns a 2 µs

Fast clear ≤ 0.6 µs

Calibrazione su scheda ± 1.5%

Tempo di conversione per 96 canali 2.65 µs

Alta sensibilità 50 pC/conteggi

Ampio range dinamico 15 bit

Buffer per eventi multipli 8 eventi

Full Scale 1500 pC

Tabella 5.6: Specifiche tecniche del crate FASTBUS-QDC utilizzato in fase sperimentale.

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Figura 5.4.2: Disegno schematico dei componenti del sistema di acquisizione dati dell’esperimento.

La lettura dei segnali digitalizzati è realizzata attraverso il backplane del crate

FASTBUS, un’estensione del backplane del computer, costituito da un digital data bus a 32

bit, denominato Segment, che espleta funzioni sia di controllo che di indirizzamento del

flusso dei dati. Le connessioni fra diversi Segment sono ottenute attraverso un’interfaccia

detta Segment Interface (SI) ed ogni SI comunica con le altre attraverso un bus, detto Cable

Segment. In particolare, ciascuna SI può comportarsi simultaneamente da Master rispetto al

Segment e da Slave rispetto al Cable Segment.

La gestione del FASTBUS-QDC è affidata al modulo Struck Fastbus Interface (SFI)

che funge contemporaneamente da Fastbus Master e da Read-out Controller basandosi su un

bus di tipo VME33. Sul modulo SFI è montato un processore Eurocom-7 (E7), una CPU

caratterizzata da un bus-clock da 25 MHz, un internal clock da 50 MHz ed una RAM multi-

ported da 16 MB, su cui è installato il sistema operativo real time LynxOS. In Figura 5.4.2 è

mostrato uno schema del sistema di acquisizione dati nel suo complesso in cui è visibile

anche il Trigger Box, le cui funzioni saranno illustrate nel seguito (§ 5.5).

33 Versa Module Europa.

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I dati digitalizzati vengono raccolti ed opportunamente formattati da E7 attraverso il

programma di acquisizione Multi-Branch-System (MBS), sviluppato presso il laboratorio GSI

(Darmstadt, Germania), che consente di registrare i dati su nastri, per l’analisi off-line, e di

inviarli attraverso una rete Ethernet, con protocollo di comunicazione TCP/IP34, per l’analisi

on-line.

5.5 TRIGGER DELL ’ESPERIMENTO La costruzione del cosiddetto trigger dell’esperimento rappresenta un passo

fondamentale per la corretta temporizzazione di ogni sistema di acquisizione dati. La

presenza del segnale di trigger, fissando un riferimento temporale per l’acquisizione, detto

time zero, indica l’esatto istante in cui tutte le condizioni logiche necessarie alla lettura di un

certo evento risultano soddisfatte; di conseguenza tutti i gate e gli start dell’acquisizione

sono derivati dal trigger. In questo contesto si osserva, innanzitutto, che a ciascun rivelatore

componente gli odoscopi viene associato un segnale logico posto a 0 oppure ad 1 a seconda

che questo sia colpito o meno da una particella. L’insieme di segnali così ottenuti viene

sottoposto ad una serie di operazioni logiche ben precise che danno come risultato un numero

più ristretto di segnali, adoperati per la determinazione del trigger e gestiti da un modulo

detto Trigger Box (TB) (Figura 5.4.2).

Attraverso il TB i segnali logici, adoperati come trigger, possono essere sommati (OR),

scalati in frequenza (scaling), accettandone in ingresso soltanto uno per ogni N, e selezionati

in base al blocco dovuto al tempo morto dell’acquisizione. Oltre a queste operazioni

preliminari, il TB fornisce una word di 16 bit, denominata Trigger Pattern (TPAT), tale che

ad ogni bit è associato un certo tipo di evento e, a seconda che questo si presenti o meno, il

bit corrispondente sarà posto, rispettivamente, ad 1 o a 0. In questo modo, in fase di analisi

off-line, è possibile identificare ed eventualmente selezionare gli eventi in base alle diverse

condizioni di trigger con cui sono stati acquisiti. Inoltre il TB genera un segnale, detto

Master Trigger, ottenuto dalla somma (OR) di tutti i segnali logici, in uscita dal TB, presenti

in un dato istante. Come mostrato in Figura 5.4.2, l’output del TB è collegato all’ingresso di 34 Transmission Control Protocol/Internet Protocol.

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trigger del FASTBUS mediante un gate generator dove i segnali vengono opportunamente

aggiustati in termini di ampiezza e/o ritardo.

Dal momento che l’obiettivo principale dell’esperimento qui presentato riguarda lo

studio della distribuzione angolare dei prodotti di reazione dovuti a frammentazione, non

interessano tanto i singoli eventi, quanto gli eventi in coincidenza, tali che almeno due

particelle siano rivelate simultaneamente nei due odoscopi. Per ottenere l’informazione sulla

molteplicità (M) sono state utilizzate le uscite logiche di Zero Crossing degli amplificatori

lineari, relative ai segnali generati dai singoli rivelatori al Silicio da 300 µm35, sia dell’Hodo-

Big che dell’Hodo-Small. Questi segnali logici vengono inviati, a gruppi di 32, all’ingresso

dei moduli AND-OR-ECL che, come detto precedentemente, restituiscono un segnale di

altezza pari a (150×M) mV per eventi di molteplicità M. Attraverso dei Linear Fan-In/Fan-

Out (Σ) viene estratta la somma analogica che, successivamente, è posta all’ingresso di un

discriminatore leading edge, con soglia fissata a 250 mV corrispondente a M≥2 (Figura

5.5.1).

35 La scelta del Silicio da 300 µm anziché quello da 50 µm è stata fatta in modo da ignorare eventuali segnali dovuti ad elettroni incidenti sullo spessore più piccolo e più direttamente esposto al fascio.

∆E (300 µm)

∆E2 (300 µm)

Σ

Σ

Σ

LEADING EDGE

DISCRIMINATOR

(M≥2)

TRIGGER

BOX

Figura 5.5.1: Schema relativo alla costruzione del trigger associato ad eventi con molteplicità M≥2.

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A partire da questo segnale viene poi costruito, dal TB, il cosiddetto Master Trigger

che funge da segnale di Interrupt Request (IRQ) per la CPU (E7) del sistema di acquisizione

e da common gate per i QDC e per gli stretchers.

Infine, per verificare la consistenza del trigger, il segnale analogico di molteplicità è

stato digitalizzato attraverso uno dei canali del QDC.

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6. MISURE SPERIMENTALI

6.1 CALIBRAZIONE DELL ’ODOSCOPIO

6.1.1 INTRODUZIONE La procedura di taratura in energia (E), carica (Z) e massa (A) dei telescopi costituenti

l’odoscopio costituisce il primo passo, certamente delicato e fondamentale, dell’analisi

sperimentale. Essa si basa sulla tecnica di identificazione ∆E-E e si articola in diverse

elaborate procedure.

Si osserva, innanzitutto, che la risposta di un rivelatore al Silicio è indipendente dalla

carica e dalla massa dello ione incidente ed, inoltre, essa varia in maniera lineare con

l’energia depositata. Diversamente, la relazione che lega la luce di scintillazione, prodotta da

particelle ionizzanti in un cristallo di CsI(Tl), con l’energia non è lineare e dipende dai valori

di Z ed A delle particelle medesime. Per questo motivo, la procedura di calibrazione in

energia dell’odoscopio prevede la determinazione, per ciascun telescopio, della funzione

L=L(E, Z, A) che esprime la dipendenza luce-energia per ogni coppia (Z, A), vale a dire per

ogni isotopo incidente sul cristallo.

Un modo efficace di rappresentare i dati sperimentali consiste nell’utilizzare dei grafici

bidimensionali, chiamati matrici, ottenuti ponendo in un sistema di assi cartesiano ortogonale

le perdite di energia, ∆E1-∆E2 oppure ∆E2-CsI, misurate in ciascun telescopio, come mostrato

in Figura 6.1.1 in riferimento ad un rivelatore non ancora calibrato, per cui le perdite di

energia, in tal caso, risultano espresse in canali.

Osservando una generica matrice ∆E1-∆E2 di un telescopio dell’Hodo-Big, è possibile

notare la caratteristica forma a “>” delle diverse bande. Questo effetto prende il nome di

punch through ed è legato alla nozione di range di una particella in un mezzo. La parte

superiore della banda rappresenta la perdita di energia di quelle particelle che, attraversato il

primo spessore di Silicio, si fermano nel secondo in modo tale che, maggiore è l’energia

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persa nel secondo spessore, meno ne hanno dissipata nel primo. La parte inferiore della

banda, invece, si riferisce a quelle particelle che attraversano i due spessori di Silicio

fermandosi nel cristallo di Ioduro di Cesio poiché, avendo un’energia iniziale maggiore

rispetto alle prime, per la formula di Bethe e Bloch (§ 1.2), presentano un valore minore dello

stopping power lineare, a cui è associata una lunghezza maggiore del percorso di

penetrazione.

Figura 6.1.1: A sinistra: Grafici ∆E1-∆E2 e ∆E2-CsI in canali per un generico telescopio dell’Hodo-Big. Nel primo caso risulta ben visibile l’effetto di punch through. A destra: Istogrammi bidimensionali corrispondenti.

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131

Infine, grazie al doppio range di conversione adoperato dal QDC, le matrici

presentano, in generale, una buona risoluzione in carica per tutti i frammenti prodotti nelle

reazioni, mentre la risoluzione in massa risulta soddisfacente solo fino a Z=4.

La procedura di taratura è stata eseguita mediante software basati sul linguaggio

Fortran77, mentre i dati sperimentali sono stati analizzati tramite il programma PAW,

(Physics Analisys Workstation, versione 2.14/04), particolarmente adatto alla trattazione dei

dati in quanto permette di avvalersi di un’interfaccia grafica (HIGZ) agevole da manipolare e

di realizzare programmi, chiamati MACRO, che consentono di gestire in modo semplice le

diverse routines della Cern-Library.

6.1.2 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL RIVELATORE

∆E1

In questa fase della calibrazione dei telescopi occorre determinare la relazione che lega

l’energia rilasciata dallo ione incidente ed il segnale fornito dal rivelatore al Silicio, da circa

60 µm (∆Ε1), e convertito in canali dall’ADC. Come accennato in precedenza, la risposta è di

tipo lineare, pertanto la funzione cercata coincide con l’equazione di una retta del tipo:

1111 EChbaE ∆+=∆ , (6.1)

dove ∆E1 è l’energia, espressa in MeV, depositata nel Si-∆E1, 1ECh∆ è il corrispondente valore

in canali fornito dal rivelatore ed a1 e b1 sono i coefficienti da determinare per ogni Si-∆E1.

Il comportamento lineare della funzione di risposta deve essere mantenuto lungo tutta

la catena elettronica, fino alla digitalizzazione dei segnali, pertanto, al fine di verificare che

ciò avvenga, si adopera un impulsatore. Questo, collegato all’ingresso Test dei

preamplificatori di carica (charge sensitive), fornisce impulsi di altezza V che, tramite una

capacità C chiamata charge terminator, simula la presenza di una carica Q=CV. Variando

l’altezza dei segnali prodotti dal Pulse Generator è possibile così appurare la linearità di tutta

la catena elettronica.

Per poter determinare completamente la retta di taratura è necessario disporre di

almeno due punti di riferimento, di tipo (canale, energia), ad energie note. Per alte energie

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132

sono stati scelti i punti di punch through di alcuni isotopi, in corrispondenza di quelle

particelle che, attraversato il Si-∆E1, si fermano appena superato il Si-∆E2. Il valore di

energia da associare a tali punti può essere calcolato, noti gli spessori di Si-∆E1 e Si-∆E2 ed il

tipo di isotopo, tramite un programma di calcolo di perdita di energia.

Per la regione di bassa energia, sono stati scelti quei punti nelle matrici ∆E1-∆E2 aventi

∆E2=0, corrispondenti quindi alle particelle che hanno perso tutta la loro energia nel Si-∆Ε1,

arrestandosi subito dopo averne attraversato lo spessore.

A partire da questi valori in canali ad energie note sono stati determinati, tramite la

tecnica del Best-fit e per ciascun Silicio da 60 µm dell’odoscopio, i coefficienti a1 e b1 che

compaiono nell’equazione della retta (6.1), con una stima dell’errore intorno al 2%.

Un iter analogo viene seguito per la calibrazione del primo rivelatore di ogni telescopio

dell’Hodo-Small (un Silicio da 302 µm). È da notare che nei telescopi dell’Hodo-Small non

si osserva punch through poiché i frammenti perdono tutta la loro energia nello scintillatore,

pertanto nella procedura di calibrazione sono state scelte come riferimento ad energie note

quelle particelle che dissipano tutta la loro energia nel rivelatore al Silicio.

6.1.3 IDENTIFICAZIONE IN CARICA E MASSA DEI

FRAMMENTI Il passo successivo della procedura di calibrazione dell’odoscopio consiste

nell’identificare le particelle acquisite da ciascun rivelatore, al fine di assegnare ad ognuna di

esse il numero di carica Z e di massa A. In particolare, ogni isotopo è identificato

univocamente da un numero intero positivo chiamato PIDN, vale a dire Particle

IDentification Number, in modo che alle particelle identificate come protoni corrisponda il

valore di PIDN uguale a 1, ai deutoni il valore 2 e così via.

La stessa procedura è stata applicata sia ai rivelatori dell’Hodo-Big che a quelli

dell’Hodo-Small.

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133

Innanzitutto, al fine di rendere più agevole il processo di identificazione, si effettua una

“linearizzazione” grafica delle bande osservate nelle matrici ∆E-E (∆E1-∆E2 e ∆E2-CsI nel

caso dell’Hodo-Big, e ∆E-CsI nel caso dell’Hodo-Small), tramite la funzione:

( ) EEEfpid log65.0log10.0log 2 ⋅−⋅+∆= , (6.2)

dove ∆E ed E sono espresse in canali. Graficando fpid in funzione di logE si può osservare la

netta riduzione in termini di curvatura delle bande, che mostrano un andamento quasi lineare

rispetto alla matrice originale. In questo modo, ad un generico punto sperimentale di

coordinate (E, ∆E) corrisponde, nella matrice così ottenuta, il punto di coordinate (logE,

fpid).

Lavorando dunque sulla matrice fpid-logE è possibile adattare graficamente ai punti di

ogni banda una linea spezzata (che, nella migliore delle ipotesi, coinciderà con una retta) con

un numero fissato di vertici (cinque in questo caso).

È stato realizzato un software apposito che permette di definire una variabile z reale e

positiva di modo tale che ai punti di una data spezzata venga associato uno stesso valore di z

e che a spezzate distinte corrispondano valori di z sufficientemente distanti tra loro, così da

evitare, in seguito, una possibile sovrapposizione dei punti sperimentali. In particolare, il

software lega ad ogni punto sperimentale il valore di z della spezzata più vicina, più o meno

la sua distanza da essa a seconda che il punto si trovi, rispettivamente, al di sopra o al di sotto

della medesima.

Se a questo punto si effettua un plot di z in funzione di ∆E+E si osserveranno, se il fit

dei punti sperimentali è stato ben eseguito, tante bande orizzontali pari al numero di isotopi,

centrate nei valori di z individuati dalle spezzate.

Mediante l’utilizzo di un altro programma è possibile poi proiettare i punti

sperimentali sull’asse z ottenendo delle distribuzioni, una per ogni isotopo, di tipo gaussiano

centrate nei valori di z corrispondenti a ciascuna spezzata. Il programma consente di

selezionare graficamente i limiti inferiore e superiore entro i quali si estenderebbe ogni

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134

z

Con

tegg

i

z

Con

tegg

i

Figura 6.1.2: Esempio di selezione grafica dei limiti relativi a tre isotopi della stessa specie chimica. La diversa colorazione delle linee, nero, rosso e blu, è utile al fine di discriminare, nell’ordine, tra un isotopo e l’altro. Questa tecnica consente di escludere dai conteggi totali associati ai frammenti di reazione, quelli relativi al rumore dell’elettronica, come nel caso del picco corrispondente a circa z=90.

gaussiana, come mostrato in Figura 6.1.2, associando al valore centrale di ogni distribuzione

un numero intero positivo che definisce il PIDN.

Il programma infine associa, ad ogni punto sperimentale, un valore di PIDN a seconda

che esso cada o meno all’interno dell’intervallo di una certa gaussiana, definito dai limiti

precedentemente fissati. La scelta di tali intervalli permette, quindi, di escludere dal processo

di identificazione quei punti, provocati ad esempio dal rumore di fondo, non associabili ad

alcun isotopo, riconoscibili da un esame visivo della matrice ∆E-E.

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135

6.1.4 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL RIVELATORE

∆E2 La tecnica di taratura qui descritta si applica esclusivamente ai rivelatori al Silicio da

300 µm dell’Hodo-Big, ed è definita indiretta in quanto si avvale della calibrazione del

rivelatore da 60 µm e dell’identificazione in Z ed A delle particelle rivelate. Noti infatti la

perdita di energia ∆E1 ed il tipo di isotopo incidente (quindi il valore di PIDN), mediante un

programma di calcolo di perdita di energia è possibile determinare l’energia Einc con cui una

particella è arrivata sul telescopio. A partire da questa si ricava l’energia residua Eres con la

quale la particella incide sul secondo spessore di Silicio, data da:

1EEE incres ∆−= . (6.3)

Per tutti i punti sperimentali della matrice ∆E1(MeV)-∆E2(canali) che si trovano prima

del punto di punch-through, vale a dire, per quelle particelle che, attraversato il Silicio da 60

µm, perdono tutta la restante energia nel 300 µm, ∆E2 coincide proprio con Eres. In tal modo

è pertanto possibile ricostruire la correlazione canali-energia per il ∆E2. È stato già osservato

come tale relazione sia lineare e non dipenda dal tipo di ione che ha attraversato il Silicio, di

conseguenza la retta di calibrazione, anche in questo caso, sarà la stessa per tutti gli isotopi.

Eseguendo dunque un Best-fit lineare, si ottiene l’equazione della retta di calibrazione

del rivelatore ∆E2:

2222 EChbaE ∆+=∆ (6.4)

dove sono stati stimati errori sui coefficienti a2 e b2 intorno al 3%.

È importante notare come, trattandosi di una tecnica di taratura di tipo indiretto, la

corretta calibrazione del ∆E2 fornisca un’immediata verifica anche della corretta calibrazione

del rivelatore ∆E1, alla quale la prima è strettamente legata.

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136

6.1.5 CALIBRAZIONE IN ENERGIA DEL RIVELATORE

CSI(T L) L’ultima fase della procedura di taratura di un generico telescopio dell’odoscopio

consiste nella calibrazione del rivelatore CsI(Tl), ossia nella determinazione della funzione

L(E, Z, A), che rappresenta la risposta in luce del cristallo per i diversi ioni incidenti. Anche

questa tecnica di calibrazione è di tipo indiretto, in quanto sfrutta i risultati in energia

precedentemente ottenuti su ∆E1 e ∆E2, nonché l’identificazione delle particelle incidenti sui

rivelatori.

Impiegando, ancora una volta, un programma di calcolo di perdita di energia, noti gli

spessori di Silicio attraversati ed i corrispondenti valori in MeV di ∆E1 e ∆E2, è possibile

risalire all’energia con cui un certo ione è giunto sul cristallo di CsI(Tl) di un dato telescopio,

coincidente con l’energia residua Eres della particella, data dalla relazione:

21 EEEE incres ∆−∆−= . (6.5)

Dal momento che la particella dissipa tutta la sua energia residua nello scintillatore

(ed a tal proposito non si osserva punch through nelle matrici ∆E2-CsI), è possibile correlare

il segnale in luce prodotto da CsI(Tl) con l’energia depositata dallo ione in esso. Tale

relazione funzionale, come già notato, non è lineare e varia al variare di carica e massa delle

particelle rivelate; occorre pertanto eseguire un fit per ogni tipo di ione. La curva che

permette di determinare il fit prende il nome di Burkard ed è rappresentata dalla seguente

equazione:

CsI

CsICsI Chd

cChba

++⋅+=Ε , (6.6)

nella quale ECsI rappresenta l’energia in MeV depositata in CsI(Tl), ChCsI il corrispondente

valore in canali della luce emessa dal cristallo ed a, b, c e d sono dei coefficienti determinati,

per ciascuno scintillatore, al variare di Z ed A dei frammenti rivelati.

È necessario osservare che, in generale, il risultato del fit dipende dalla massa dello

ione incidente solo per particelle leggere; all’aumentare di Z, infatti, la dipendenza dalla

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137

ECsI [MeV]

∆Ε

2 [M

eV]

ECsI [MeV]

∆Ε

2 [M

eV]

Figura 6.1.3: Esempio di matrice ∆E2-ECsI ottenuta al termine delle procedure di calibrazione in energia e di identificazione degli isotopi per i tre rivelatori costituenti un generico telescopio dell’Hodo-Big. Si osserva che la risoluzione in termini del numero di massa A delle particelle con lo stesso valore del numero atomico Z è soddisfacente soltanto per Z ≤ 4, ossia per gli isotopi di Idrogeno, Elio, Litio e Berillio, mentre gli isotopi di Boro e Carbonio non sono distinguibili.

massa si riduce. Da queste osservazioni resta, così, giustificata la scelta di determinare

un’unica curva Burkard per gli isotopi, rispettivamente, di Boro e Carbonio.

Ultimata l’intera procedura di taratura su ciascun telescopio si è in grado di conoscere,

non solo carica e massa di ogni frammento rivelato, ma anche il valore dell’energia cinetica

incidente, data da:

CsItot EEEE +∆+∆= 21 . (6.7)

É stato, infine, stimato un errore complessivo sulla calibrazione di Etot intorno al 6%.

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138

In Figura 6.1.3 è mostrata una matrice ∆E2-ECsI calibrata in energia secondo le

procedure descritte e riferita ad un generico telescopio dell’Hodo-Big.

6.2 ANALISI DEI DATI SPERIMENTALI E RISULTATI

6.2.1 FIT DEGLI SPETTRI IN ENERGIA I primi esperimenti relativi al processo di frammentazione nel regime delle energie

intermedie (20 MeV/u ≤ E/A ≤ 200 MeV/u) hanno dimostrato che, già nel dominio compreso

fra 30 e 60 MeV/u, la produzione di frammenti projectile-like presenta molte delle

caratteristiche che si osservano, in genere, ad energie incidenti superiori a circa 100 MeV/u,

quali ad esempio distribuzioni in massa estese ad un ampio intervallo di valori di Z ed A e

spettri in energia con andamento approssimativamente gaussiano, con un certo valore atteso

in termini di dispersione in energia. Nonostante ciò, alcuni fenomeni che si presentano

tipicamente per basse energie, come le reazioni di direct surface transfer ed i meccanismi in

cui viene dissipata una quantità di energia relativamente elevata, sembra che si verifichino

anche per energie oltre il livello di Fermi, causando delle deviazioni dal processo di

abrasione che, in generale, non avvengono nel regime delle alte energie.

Queste deviazioni sono rappresentate, principalmente, da un abbassamento della

velocità media rispetto alla velocità iniziale del fascio e dal presentarsi di una coda a basse

energie negli spettri relativi alle particelle rivelate.

In Figura 6.2.1 ed in Figura 6.2.2 sono mostrati gli spettri in β per le diverse specie

isotopiche, dai protoni agli ioni Carbonio, rivelate mediante un telescopio dell’Hodo-Big

posizionato ad un angolo °= 2.8ϑ rispetto alla direzione di incidenza del fascio. In

particolare, gli ioni 12C, che incidono con energia pari a circa 744 MeV, a causa della perdita

di energia di 41 MeV dovuta alle interazioni elettromagnetiche con gli elettroni degli atomi

bersaglio di 197Au, dovrebbero emergere con un’energia pari a circa 703 MeV, a cui

corrisponde un valore di 355.0≅β , come confermato dal grafico corrispondente di Figura

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139

6.2.2. Diversamente, i prodotti di frammentazione, dai protoni fino all’isotopo 9Be, aventi

massa minore, presentano un valore più piccolo del coefficiente β, mentre gli isotopi restanti

(10B, 11B e 11C), aventi massa maggiore, presentano più o meno lo stesso β del 12C. Questo

significa che i processi dissipativi sono più probabili nella produzione dei frammenti più

leggeri.

H2H3H

3He4He6He

6Li7Li

7Be9Be

β β

β β

H2H3H

3He4He6He

6Li7Li

7Be9Be

β β

β β

Figura 6.2.1: Spettri in β degli isotopi di H, He, Li e Be ottenuti ad un angolo ϑ = 8.2°.

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140

Gli spettri in energia ed i fit corrispondenti per gli isotopi 3He, 4He, 6Li, 7Li, 7Be, 9Be, 10B, 11B, relativamente ad un telescopio dell’Hodo-Big posto ad un angolo °= 2.8ϑ , sono

riportati in Figura 6.2.3, Figura 6.2.4 e Figura 6.2.5. Si osserva che tutti i grafici presentati

mostrano una piccola coda nella regione di bassa energia della distribuzione gaussiana dello

spettro, dovuta ai fenomeni dissipativi che accompagnano il processo di frammentazione. Al

fine di tenere in considerazione questo caratteristico andamento, specie in fase di

integrazione degli spettri in energia, ed evitare la perdita di informazioni, i fit sono stati

10B 11B

11C12C

β β

β β

10B 11B

11C12C

β β

β β

Figura 6.2.2: Spettri in β degli isotopi di B e C ottenuti ad un angolo ϑ =8.2°.

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141

3He 4He3He 4He

Figura 6.2.3: Spettri in energia degli isotopi 3He ed 4He, relativi ad un telescopio dell’Hodo-Big posto ad un angolo ϑ =8.2°, in cui sono mostrati i fit eseguiti mediante la somma di due curve gaussiane (linea continua).

realizzati mediante la somma di due curve gaussiane. In particolare, la procedura seguita è

basata sulla determinazione di una prima curva, centrata nel valore di picco dello spettro in

energia, e di una seconda curva, più piccola, centrata ad energie minori, in modo tale da

ottenere, dalla combinazione delle due, il miglior compromesso rispetto alla distribuzione

sperimentale. La natura statistica dei processi dissipativi comporta il coinvolgimento, nella

formazione dello spettro, di numerose energie minori del valore di picco, di modo che la

procedura più corretta dovrebbe basarsi su una convoluzione di curve gaussiane ma, a causa

degli errori sperimentali e per gli scopi previsti, ciò non produrrebbe comunque sensibili

differenze nel calcolo degli integrali.

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142

6Li 7Li

7Be 9Be

6Li 7Li

7Be 9Be

Figura 6.2.4: Spettri in energia degli isotopi di Li e Be e rispettivi fit gaussiani.

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143

10B 11B10B 11B

Figura 6.2.5: Spettri in energia e fit gaussiani degli isotopi 10B e 11B.

Un problema diverso deve essere affrontato in relazione ai frammenti con 1=Z

(protoni, deutoni e trizi). In questo caso, infatti, la regione a basse energie della distribuzione

gaussiana dello spettro si sovrappone alla distribuzione generata da altri processi, distinti

dalla frammentazione, e dal rumore dell’elettronica, per cui è stato realizzato un fit adattando

un’unica curva gaussiana al profilo del lato discendente di destra dello spettro sperimentale,

nella regione ad energie maggiori.

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144

6.2.2 DISTRIBUZIONE ANGOLARE DELLA SEZIONE

D’URTO L’integrazione di ognuno dei fit degli spettri in energia, determinati secondo i criteri

descritti fin qui, restituisce il numero di particelle rivelate da ciascun telescopio. Dopo aver

sommato i conteggi relativi a quei telescopi posizionati allo stesso angolo ϑ rispetto all’asse

del fascio, è necessario dividere il risultato per l’angolo solido corrispondente. In Tabella 6.1

sono riportati i conteggi ottenuti per unità di angolo solido (sr-1) in corrispondenza di sei

diverse posizioni angolari e per ognuno dei frammenti rivelati, dai protoni agli ioni Carbonio.

ϑ (gradi) 3.34 3.71 8.62 11.38 15.17 18.97

1H 316256 185984 270440 277600 205000 161080 2H 201664 100864 90780 139280 99680 53360 3H 80640 47360 53080 32400 42880 20120

3He 575232 146560 602720 58032 211440 134560 4He 4150400 1204480 3676800 295040 1010400 587280 6He 47040 13440 34568 1880 6080 5680 6Li 284608 137216 157820 78424 27672 16704 7Li 468032 196544 169180 91240 36092 18264 7Be 238112 118656 80320 38368 1093,2 8320 9Be 171904 68224 40700 13556 3640 2920 10B 294112 62080 40086 21572 3120 1320 11B 386976 160704 53266 3184 2160 1000 11C 60160 20480 17456 1822,8 240 240 12C 43433600 10329600 554940 20480 1360 520 13C 8320 3840 2040 800 200 360

Tabella 6.1: Numero di conteggi per unità di angolo solido per sei angoli ϑ differenti e per ognuna delle specie isotopiche rivelate, da 1H fino a 13C.

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145

Il grafico di Figura 6.2.6 è stato ottenuto sommando, per ogni valore dell’angolo ϑ , i

conteggi riportati in Tabella 6.1 e relativi alle particelle aventi lo stesso numero atomico Z e

normalizzando, successivamente, le somme risultanti al valore corrispondente all’angolo più

piccolo, pari a 3.34 gradi, per lo stesso gruppo di isotopi. Le barre di errore annesse ai punti

sperimentali sono state calcolate mediante la teoria di propagazione degli errori, associando

a ciascuna determinazione del numero di conteggi un errore pari alla sua radice quadrata,

nell’ipotesi che la distribuzione delle particelle rivelate sia descrivibile tramite la statistica di

Poisson. L’indeterminazione sulla stima degli angoli è data da 36.0=∆ϑ gradi per i

telescopi dell’Hodo-Small, mentre è circa 43.1=∆ϑ gradi per quelli costituenti l’Hodo-Big.

In entrambi i casi ϑ∆ coincide con la semiapertura del cono avente come base la superficie

del telescopio considerato, ed altezza pari alla distanza del telescopio dal bersaglio di

reazione.

Dopo aver riportato i punti sperimentali in un grafico, in scala semi-logaritmica, si è

tentato di determinare una linea di tendenza in base al metodo del Best-fit lineare. Nella

legenda di Figura 6.2.6 sono, infatti, riportati i coefficienti di correlazione lineare r

corrispondenti ai vari gruppi di isotopi, dai quali si evince un buon grado di correlazione per

le particelle più pesanti dell’Elio dal momento che, in questi casi, risulta 92.0>r . Per gli

isotopi dell’Idrogeno e dell’Elio la correlazione non è significativa come per gli altri

frammenti, probabilmente a causa degli errori commessi nella fase di calcolo degli integrali.

Per queste particelle, appunto, non è semplice distinguere, da un’analisi degli spettri in

energia, il contributo dovuto al processo di pura frammentazione da quello associabile ad

altri tipi di reazioni nucleari (§ 6.1). È possibile, comunque, affermare che la distribuzione

angolare di produzione dei frammenti diminuisce in modo approssimativamente esponenziale

in funzione dell’angolo ϑ , mostrando in tal modo che i prodotti di reazione vengono emessi

principalmente in avanti, entro un cono di apertura angolare relativamente piccola attorno

alla direzione del fascio incidente (§ 3.2). Inoltre, come si può osservare da un esame del

grafico di Figura 6.2.6, la pendenza delle rette ottenute diminuisce con il valore del numero

atomico Z, ossia le particelle più massive viaggiano in direzione tendenzialmente più

prossima a quella del fascio iniziale rispetto a quelle più leggere.

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146

6.2.3 STIMA DELLA SEZIONE D ’URTO DIFFERENZIALE La sezione d’urto differenziale ( Ωddσ ) non è una quantità determinabile

direttamente, in quanto il numero di ioni Carbonio incidenti sul bersaglio, per l’intera durata

dell’esperimento, non è un dato disponibile. La mancanza di questa informazione deriva da

problemi tecnici che hanno impedito di effettuarne la misura. Per questo motivo è possibile

pervenire solo ad una stima della sezione d’urto differenziale, con una percentuale di errore

piuttosto elevata.

Il metodo di calcolo applicato consiste nel confronto tra il numero di ioni 12C per unità

di angolo solido, dovuti al processo di scattering elastico, rivelati ad un angolo ϑ minore

dell’angolo di grazing (circa uguale, in questo caso, a 4.9 gradi), con la sezione d’urto

differenziale di Rutherford calcolata per lo stesso valore di ϑ . Dal rapporto fra queste due

Figura 6.2.6: Fit lineari delle somme dei conteggi, relativi alle diverse specie isotopiche, normalizzate rispetto all’angolo più piccolo e valori del coefficiente di correlazione lineare nei vari casi. Le barre di errore sui conteggi non sono visualizzate perché trascurabili.

0,000001

0,00001

0,0001

0,001

0,01

0,1

1

10

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angolo (Gradi)

Con

tegg

i per

ang

olo

solid

o no

rmal

izza

ti

H - r = 0.76

He - r = 0.59

Li - r = 0.95

Be - r = 0.92

B - r = 0.98

C - r = 0.97

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147

Figura 6.2.7: Rapporto tra il numero di ioni 12C rivelati per unità di angolo solido e la sezione d’urto

differenziale di Rutherford in funzione dell’angolo CMϑ .

0,001

0,01

0,1

1

10

0 5 10 15 20 25

Angolo nel sistema del CM (gradi)

Con

tegg

i/Sez

ione

d'u

rto

di R

uthe

rfor

d- N

orm

aliz

zati

grandezze è possibile determinare un fattore di calibrazione che consenta di convertire i

conteggi per unità di angolo solido (sr-1) in sezioni d’urto differenziali (barn/sr).

Il grafico di Figura 6.2.7 presenta in ordinate il rapporto tra il numero N di ioni

Carbonio rivelati per unità di angolo solido e la sezione d’urto differenziale di Rutherford

mentre in ascisse è riportato il valore dell’angolo CMϑ nel sistema del centro di massa, come

richiesto dalla formula di Rutherford.

Dal momento che si dispone di due punti sperimentali per valori di ϑ minori

dell’angolo di grazing, è ragionevole fare riferimento alla media fra questi due angoli

(opportunamente convertita nel sistema di riferimento del centro di massa, come richiesto in

base alla formula di Rutherford), per effettuare il calcolo della sezione d’urto, e prendere in

considerazione il valor medio (N ) dei conteggi corrispondenti, N1 ed N2, relativi agli ioni

12C. Naturalmente, questa procedura implica un errore significativo, specie nel calcolo di N ,

in quanto, in questo caso, la stima del numero di conteggi più prossima alla “verità” non è

rappresentata dal valor medio, ma da un qualunque valore compreso nell’intervallo tra

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148

11 NN δ+ ed 22 NN δ− , dove 1Nδ e 2Nδ sono gli errori su N1 ed N2, con 21 NN > . In

particolare, l’errore su N è dato da:

2

)()( 2211 NNNNN

δδδ −−+= . (6.8)

La sezione d’urto differenziale di Rutherford è stata calcolata mediante la famosa

equazione, data da [Wil97]:

24

4

2

10

2

1

=

Ω CMsenE

zZk

sr

barn

d

σ, (6.9)

dove:

cmMeVe

k ⋅×== −13

0

2

10439976.14πε

, (6.10)

mentre il fattore 1024 è utile ad effettuare la conversione dei valori di sezione d’urto

differenziale da (cm2/sr) a (barn/sr), essendo 224101 cmbarn −= .

L’errore sulla stima della sezione d’urto differenziale di Rutherford è stato calcolato

propagando gli errori sull’angolo ϑ e sull’energia, applicando la consueta teoria di

propagazione. In tal modo si è trovato che, ad un numero di conteggi per unità di angolo

solido pari a 26881600 corrisponde un valore della sezione d’urto differenziale pari a 576

(barn/sr), in seguito alla conversione della sezione d’urto differenziale nel sistema del centro

di massa a quella nel sistema del laboratorio. Determinato così il fattore di calibrazione

richiesto per la conversione da (conteggi/sr) a (barn/sr), a partire dai valori riportati in

Tabella 6.1, sono state calcolate le sezioni d’urto differenziali di produzione delle varie

specie isotopiche, riportate in Tabella 6.2, ed i corrispondenti errori.

Le sezioni d’urto differenziali di produzione dei vari tipi di frammenti sono riportate

nei grafici di Figura 6.2.8 (da (a) a (q)) in scala semi-logaritmica ed in funzione di ϑ .

Anche in questo caso è stato determinato un fit lineare dei punti sperimentali e sono stati

calcolati i coefficienti di correlazione che confermano le osservazioni fatte in precedenza, in

merito alla maggiore difficoltà di discriminare i prodotti di frammentazione dalle particelle

derivanti da altri meccanismi, specie nel caso degli isotopi più leggeri, per 1=Z e 2=Z .

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149

ϑ (gradi) 3.34 3.71 8.62 11.38 15.17 18.97 1H 6.777 3.985 5.795 5.949 4.393 3.452 2H 4.321 2.161 1.945 2.985 2.136 1.143 3H 1.728 1.015 1.137 0.694 0.919 0.431

3He 12.326 3.141 12.915 1.244 4.531 2.883 4He 88.937 25.810 78.788 6.322 21.651 12.585 6He 1.008 0.288 0.741 0.040 0.130 0.122 6Li 6.099 2.940 3.382 1.681 0.593 0.358 7Li 10.029 4.212 3.625 1.955 0.773 0.391 7Be 5.102 2.543 1.721 0.822 0.023 0.178 9Be 3.684 1.462 0.872 0.290 0.078 0.063 10B 6.302 1.330 0.859 0.462 0.067 0.028 11B 8.292 3.444 1.141 0.068 0.046 0.021 11C 1.289 0.439 0.374 0.039 0.005 0.005 12C 930.717 221.348 11.892 0.439 0.029 0.011 13C 0.178 0.082 0.044 0.017 0.004 0.008

Tabella 6.2: Stime di sezioni d’urto differenziali (barn/sr) per i diversi isotopi rivelati al variare dall’angolo.

0,1

1,0

10,0

100,0

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Protons: r = 0.68

Figura 6.2.8 (a): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 1H in funzione diϑ e fit lineare con r=0.68.

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150

0,1

1,0

10,0

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Deuterons: r = 0.68

Figura 6.2.8 (b): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 2H in funzione diϑ e fit lineare con r=0.68.

0,1

1,0

10,0

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Tritons: r = 0.72

Figura 6.2.8 (c): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 3H in funzione diϑ e fit lineare con r=0.72.

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151

0,1

1,0

10,0

100,0

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

He3: r = 0.45

Figura 6.2.8 (d): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 3He in funzione diϑ e fit lineare con r=0.45.

1,0

10,0

100,0

1000,0

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Alpha: r = 0.62

Figura 6.2.8 (e): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 4He in funzione diϑ e fit lineare con r=0.62.

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152

0,01

0,10

1,00

10,00

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

He6: r = 0.65

Figura 6.2.8 (f): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 6He in funzione diϑ e fit lineare con r=0.65.

0,01

0,10

1,00

10,00

100,00

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Li6: r = 0.96

Figura 6.2.8 (g): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 6Li in funzione diϑ e fit lineare con r=0.96.

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153

0,1

1,0

10,0

100,0

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Li7: r = 0.97

Figura 6.2.8 (h): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 7Li in funzione diϑ e fit lineare con r=0.97.

0,00

0,01

0,10

1,00

10,00

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Be7: r = 0.92

Figura 6.2.8 (i): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 7Be in funzione diϑ e fit lineare con r=0.92.

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154

0,010

0,100

1,000

10,000

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

Be9: r = 0.97

Figura 6.2.8 (l): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 9Be in funzione diϑ e fit lineare con r=0.97.

0,001

0,010

0,100

1,000

10,000

100,000

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

B10: r = 0.97

Figura 6.2.8 (m): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 10B in funzione diϑ e fit lineare con r=0.97.

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155

0,001

0,010

0,100

1,000

10,000

100,000

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

B11: r = 0.96

Figura 6.2.8 (n): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 11B in funzione diϑ e fit lineare con r=0.96.

0,0001

0,0010

0,0100

0,1000

1,0000

10,0000

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

C11: r = 0.96

Figura 6.2.8 (o): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 11C in funzione diϑ e fit lineare con r=0.96.

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156

0,001

0,010

0,100

1,000

10,000

100,000

1000,000

10000,000

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (Degrees)

Cro

ss S

ectio

n pe

r S

olid

Ang

le (

barn

/sr)

C12: r = 0.98

Figura 6.2.8 (p): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 12C in funzione diϑ e fit lineare con r=0.98.

0,0001

0,0010

0,0100

0,1000

1,0000

0,00 5,00 10,00 15,00 20,00 25,00

Angle (degrees)

Diff

eren

zial

cro

ss s

ectio

n pe

r so

lid a

ngle

(ba

rn/s

r)

C 13 : r=0.94

Figura 6.2.8 (q): Stima della sezione d’urto differenziale di produzione di 13C in funzione diϑ e fit lineare con r=0.94.

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157

6.2.4 PRODUZIONE DI FRAMMENTI IN FUNZIONE DI Z

ED A Le particelle α rappresentano i frammenti prodotti in misura maggiore nel processo di

interazione degli ioni 12C con il bersaglio (non prendendo in considerazione gli ioni 12C

dovuti a scattering elastico, che si presentano soprattutto a piccoli angoli). Questo fatto

sperimentale è legato al ruolo fondamentale giocato da queste particelle nei processi di

clustering. Difatti, le particelle α sono nuclei estremamente stabili in virtù dell’energia di

legame per nucleone (di circa 7.1 MeV/u, la più elevata rispetto ad ogni altro nucleo leggero)

e dell’alto valore di energia relativa al primo stato eccitato, pari a circa 20.21 MeV.

La notevole energia di legame per nucleone delle particelle α è legata al principio di

Pauli in base al quale i nucleoni tendono ad occupare il più basso stato di energia disponibile.

Difatti, ogni nucleone in moto relativo occupa uno stato s e due nucleoni in questo stato

hanno spin opposti per cui, se a questo sistema si aggiungesse un nucleone esterno, questo

andrebbe ad occupare uno stato p, con conseguente formazione di un nucleo instabile.

Secondo questo schema, gli ioni Carbonio possono essere considerati come strutture a cluster

di particelle α e, dunque, il processo di break-up in tre di queste particelle è estremamente

probabile.

In Figura 6.2.9 è riportato il numero di particelle rivelate in corrispondenza di sei

diverse posizioni angolari, da 3.34 fino a 18.97 gradi, corretto al valore dell’angolo solido

ricoperto dai telescopi in modo da ottenere quantità confrontabili, in funzione del Particle

Identificator (PID), ossia del numero identificativo dell’isotopo considerato (§ 6.1.3). Da un

esame del grafico è possibile verificare che il numero di particelle α è almeno un ordine di

grandezza maggiore rispetto agli altri frammenti (non considerando gli ioni 12C).

Dal momento che si suppone di disporre di un fascio terapeutico di energia fissata,

come quello prodotto dal ciclotrone superconduttore, la modulazione in energia può essere

realizzata soltanto con l’inserimento di un sistema passivo, rappresentato da un energy

degrader, ossia da uno spessore di materiale opportunamente scelto e modellato in cui gli

ioni del fascio primario perdono una quantità di energia nota.

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158

Inevitabilmente, una frazione di particelle del fascio incidente, nell’attraversare lo

spessore, seppur sottile, del degrader, rimane coinvolta nel processo di frammentazione che,

per quanto detto riguardo al caso degli ioni 12C, comporta una forte contaminazione dovuta,

soprattutto, alla produzione di particelle α, a cui si accompagnerà una dose aggiuntiva ed

incontrollata al paziente. Si rende, così, assolutamente necessario un sistema di “pulizia” del

fascio dai frammenti indesiderati all’uscita del degrader, ottenuto di solito attraverso

l’impiego di una serie di elementi magnetici (dipoli, quadrupoli e sestupoli) che operano una

separazione spaziale in funzione delle proprietà fisiche dei frammenti stessi: massa, carica ed

impulso. In particolare, i dipoli magnetici, obbedendo alla Forza di Lorentz e per un valore

prefissato del campo magnetico B , deflettono gli ioni su traiettorie stabilite, a seconda della

velocità v e del rapporto AZ fra il numero atomico Z ed il numero di massa A. Difatti, se

Figura 6.2.9: Numero di particelle rivelate, per cinque diversi valori di θ (da 3.34 a 18.97 gradi), corretto in base alla diversa copertura in termini di angolo solido dei telescopi ed espresso in funzione del Particle Identificator (PID).

1

10

100

1000

10000

100000

1000000

10000000

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

PID (1-15)

Num

ero

di p

artic

elle

per

uni

tà d

i ang

olo

solid

o (1

/sr

)

3.34±0.36

3.71±0.36

8.62±1.43

11.38±1.43

15.17±1.43

18.97±1.43

PID legend :

1 = 1H

2 = 2H

3 = 3H

4 = 3He

5 = 4He

6 = 6He

7 = 6Li

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159

B è uniforme e perpendicolare alla direzione del moto, il percorso risultante sarà circolare di

raggio ρ oppure sarà caratterizzato in termini di rigidità magnetica Bρ, espressa da:

Z

A

e

vm

q

pB u==ρ , (6.11)

dove si è posto Zq = nell’ipotesi che gli ioni siano completamente ionizzati, ed essendo mu

l’unità di massa atomica ed e la carica dell’elettrone. Considerando che la velocità v dei vari

frammenti è prossima a quella degli ioni 12C incidenti e che mu ed e sono delle costanti,

l’impiego di un dipolo magnetico permette di effettuare una selezione in base al

rapporto AZ . L’operazione, però, diventa difficoltosa nel caso delle particelle α in quanto

esse presentano lo stesso valore del rapporto fra carica e massa degli ioni 12C, dato da

( ) 21=AZ , di modo che, nel calcolo della dose rilasciata al paziente, occorrerà tenere in

considerazione, in particolare, il contributo di questi frammenti (§ 6.2.5). Questa

problematica non riguarda le particelle prodotte nei processi distinti dalla frammentazione

poiché, in questo caso, i prodotti di reazione hanno velocità sensibilmente inferiore a quella

del fascio incidente, per cui la selezione di queste particelle dipenderà, oltre che dal rapporto

AZ , anche dalla velocità.

6.2.5 STIMA DEL CONTRIBUTO DI DOSE DELLE

PARTICELLE α La contaminazione del fascio primario dovuta alle particelle α prodotte nel processo di

frammentazione degli ioni 12C sul bersaglio di 197Au è assimilabile a quella determinata dalle

interazioni che interessano, in particolare, gli ultimi millimetri dello spessore di un eventuale

energy degrader per la modulazione in energia in quanto, in tal caso, i prodotti di reazione

avranno perso una piccolissima frazione della loro energia, emergendo dal bersaglio con

velocità molto prossima a quella del fascio primario uscente dal degrader. Dal momento che

è necessaria una stima del contributo indesiderato di queste particelle al rilascio di dose ad un

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160

eventuale paziente, in questa ultima parte dell’analisi dati viene descritta la procedura seguita

a questo scopo unitamente ai risultati finali.

Al fine di determinare una stima del contributo di dose dovuto alle particelle α, occorre

conoscere il numero di ioni 12C incidenti sul bersaglio ed il numero totale corrispondente di

particelle α prodotte che, ad una distanza di 80 cm dal bersaglio, attraversano una superficie

circolare di raggio 1 cm, che rappresenta la condizione più sfavorevole possibile poiché, in

genere, la presenza dei collimatori ne riduce notevolmente l’entità.

Nel calcolo del numero totale di ioni 12C è stata impiegata la formula della sezione

d’urto sperimentale, data da:

][][

.]..[266

2msr

cm

gxnCQ

uamANZ

sr

mbarn

d

d eff

∆Ω

∆=

Ω µσ

(6.12)

dove N è il numero di particelle rivelate, Q la carica totale del fascio incidente sul bersaglio,

Zeff la carica incidente efficace di ogni ione del fascio, A il numero di massa del bersaglio, ∆Ω

l’angolo solido e ∆x lo spessore del bersaglio. I valori di queste grandezze, eccetto l’incognita

rappresentata da Q, sono state valutate in base ai calcoli effettuati in precedenza.

Il numero di ioni 12C incidenti, dato dal rapporto tra Q ed il prodotto di Zeff per la

carica e dell’elettrone, è pari a 695986361, tenendo conto che questa rappresenta solo una

stima approssimativa. Il numero di particelle α è stato stimato estrapolando la curva di

distribuzione angolare di produzione per unità di angolo solido, di andamento esponenziale,

fino alla posizione angolare 5.0=ϑ gradi e moltiplicando il valore ottenuto per l’angolo

solido corrispondente al cono di apertura richiesta. Infine è stato calcolato il rapporto tra il

numero di ioni Carbonio ed il numero di particelle α: il valore trovato è tale che

6104/ −⋅≈CNNα .

Il gruppo di ricerca dei LNS, coinvolto nello sviluppo del codice di simulazione

Geant4, ha elaborato un programma per la stima della distribuzione di dose entro un

fantoccio di acqua dovuta sia ai 1010 ioni 12C diffusi elasticamente dal bersaglio, con energia

E = 703 ± 5 MeV, che al corrispondente numero di particelle α prodotte nell’interazione con

il bersaglio, di energia E = 235 ± 10 MeV. È importante osservare che tale simulazione è

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161

stata realizzata non considerando il processo di frammentazione dovuto all’interazione degli

ioni Carbonio con il fantoccio al fine di valutare soltanto il contributo di dose dei frammenti

prodotti nel bersaglio di Oro.

In Figura 6.2.10 sono mostrate le distribuzioni di dose con la profondità, a passi da 10

µm, riferiti al 12C, alle particelle α ed al rapporto fra queste distribuzioni.

Al fine di evidenziare l’andamento della distribuzione relativa alle particelle α, il

grafico di Figura 6.2.10 è presentato in scala semi-logaritmica, da cui si evince che il

contributo di dose in corrispondenza del picco di Bragg è circa 800 volte più piccolo rispetto

a quello dovuto agli ioni Carbonio. Per questo motivo, i frammenti prodotti in misura minore

rispetto alle particelle α possono dunque essere trascurati nel calcolo della dose totale. Si può

quindi concludere che l’eventuale impiego di un degrader di energia introduce, in realtà, un

apporto alla dose complessivamente rilasciata al paziente che può ritenersi assolutamente

irrilevante rispetto a quello causato dal processo di frammentazione entro il corpo del

1

10

100

1000

10000

100000

1000000

10000000

100000000

1000000000

10000000000

0 5 10 15 20 25 30 35

Profondità in acqua (mm)

Dos

e (A

.U.)

Distribuzione dose-profondità delle particelle α

Rapporto fra le distribuzioni dose-profondità di 12C e particelle α

Distribuzione dose-profondità degli ioni 12C

Figura 6.2.10: Distribuzioni di dose con la profondità di penetrazione in acqua per ioni 12C da 703 MeV(blu), particelle α da 235 MeV (rosa) e rapporto fra le due distribuzioni (giallo).

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162

paziente stesso che, invece, comporta un incremento di circa il 15% dell’energia totale

depositata oltre lo SOBP (§ 1.4).

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163

7. CONCLUSIONI

Questo lavoro di tesi è basato su un insieme di dati sperimentali acquisiti al fine di

valutare la contaminazione di un fascio di ioni 12C causata dal processo di frammentazione

che avviene entro un bersaglio sottile di 197Au, e realizzata nella prospettiva delle future

attività relative al progetto SCENT (Superconductive Cyclotron for Exotic Nuclei and

Therapy), specialmente dal punto di vista della progettazione di un nuovo Piano di

Trattamento in Adroterapia (TPS).

I risultati dell’analisi mostrano che la resa di produzione delle particelle α

nell’interazione tra gli ioni 12C incidenti su un bersaglio di materiale con alto valore di Z,

quale l’Oro, ideale ai fini della fabbricazione di un sistema di degrado di energia, è circa un

ordine di grandezza maggiore rispetto ad altri tipi di frammenti rivelati. In particolare, il

rapporto fra il numero di particelle α che emerge dal bersaglio, entro un cono di piccola

apertura angolare attorno alla direzione di incidenza, ed il numero di ioni 12C del fascio

primario è pari a circa 6104 −⋅ . Questo calcolo è stato effettuato secondo un metodo indiretto

poiché il numero di ioni Carbonio incidenti è un’informazione purtroppo non disponibile a

causa dei problemi tecnici che ne hanno impedito la valutazione e, sebbene la procedura sia

inficiata da una indeterminazione notevole, restituisce comunque l’ordine di grandezza del

rapporto )/( CNNα , dato prezioso per gli scopi previsti.

Per comprendere l’entità del contributo indesiderato di questi frammenti nel rilascio di

dose al paziente, il gruppo di ricerca dei LNS, che lavora per lo sviluppo del codice Geant4,

ha realizzato un programma di simulazione dei profili dose-profondità in un fantoccio di

acqua corrispondenti sia ai 1010 ioni 12C che emergono dal bersaglio con energia

MeVE 5703±= , che al numero corrispondente di particelle α con energia

MeVE 10235±= . Si osserva che l’acqua è da considerarsi un materiale tessuto-equivalente

dal punto di vista della densità, del rapporto AZ / e dell’energia di eccitazione media, tutte

grandezze coinvolte nel calcolo dello stopping power delle particelle che attraversano la

materia. È importante notare che i profili dose-profondità ottenuti prescindono dalla

produzione di frammenti entro il fantoccio, prendendo in considerazione soltanto il

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contributo alla dose dei frammenti prodotti entro il bersaglio di Oro. Il risultato della

simulazione mostra che il contributo di dose relativo alle particelle α alla profondità

corrispondente al massimo di energia depositata, ossia in corrispondenza del picco di Bragg,

è circa 800 volte più piccolo rispetto a quello determinato dagli ioni 12C.

Da queste considerazioni si può affermare che il danno aggiuntivo dovuto alle

particelle α che emergono dal bersaglio è assolutamente trascurabile rispetto a quello dovuto

ai frammenti prodotti entro il corpo del paziente, che invece comportano un incremento di

dose di circa il 15% alla dose totale oltre il SOBP (Spread-Out Bragg Peak).

Nell’ambito della progettazione di un TPS, ossia l’insieme degli strumenti necessari a

tradurre le prescrizioni relative al rilascio di dose al paziente in quelle informazioni

necessarie a definire il tipo, l’energia e l’intensità del fascio ed il sistema di distribuzione al

bersaglio, questa informazione è fondamentale soprattutto dal punto di vista delle proprietà

radiobiologiche del fascio clinico impiegato. Tali proprietà possono essere valutate in base a

diversi modelli teorici, fra i quali il più rappresentativo è il cosiddetto Local Effect Model

(LEM). In base a questo modello il nucleo cellulare è colpito da diverse particelle in modo

casuale. Intorno a ciascuna traccia la dose è distribuita su anelli concentrici in modo che

anelli adiacenti presentano valori di dose molto prossimi fra loro. Per regioni del nucleo

cellulare fortemente localizzate, la probabilità di induzione di effetti biologici è calcolata in

accordo con la curva di dose-effetto riferita ai raggi-X e pesata in base alle dimensioni del

sottovolume considerato. Infine le probabilità di induzione di eventi letali sono integrate

sull’intero volume cellulare.

Si può dunque concludere che volendo prevedere il danno biologico all’interno del

volume irradiato attraverso un modello di questo tipo si dovrà considerare, non solo quello

relativo al fascio di Carbonio, ma anche quello determinato dalle particelle α prodotte

all’interno del paziente.

Inoltre, la stima della sezione d’urto differenziale di produzione dei frammenti per sei

diverse posizioni angolari è utile in vista di un confronto con le future prese dati relative

all’interazione degli ioni 12C con altri materiali e con diversi valori di energia incidente dato

che, nell’attraversare il corpo del paziente (o lo spessore del degrader), il fascio primario

assume tutti i valori di energia compresi tra zero ed il valore massimo.

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Misure di questo tipo saranno necessarie anche al fine di compensare la mancanza di

dati relativi alla frammentazione dei fasci di Carbonio nel regime delle energie intermedie

per lo sviluppo di un piano di trattamento affidabile.

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RINGRAZIAMENTI

Eccolo qui, il momento che si insegue con tanta fatica e tanti sacrifici è arrivato e, a

conferma dell’esperienza più o meno di tutti, amici e colleghi, si arriva stanchi e spossati ma

soddisfatti. Certamente non è solo merito mio l’essere arrivata fin qui, ma tantissime persone,

ognuno a suo modo, hanno contribuito al raggiungimento della meta.

Le prime persone che mi vengono in mente sono coloro che mi hanno permesso di fare

questa esperienza ai Laboratori del Sud, il dottor Cuttone e la dottoressa Agodi, i capi, i punti

di riferimento in ogni situazione, dalla più normale a quella più estrema! Attorno a voi

lavorano ragazzi e ragazze speciali: mi riferisco a tutti i componenti del gruppo CATANA,

senza il vostro aiuto ed il vostro supporto non sarei qui a scrivere queste pagine. La lista è

lunga ma è doveroso ringraziare Francesco Romano per le consulenze di “informatica di

base”, Pablo Cirrone, una delle persone più ligie al suo dovere che abbia mai conosciuto e

che ha sempre stimolato la coesione tra tutti i ragazzi del gruppo e Ciccio Di Rosa per il suo

contributo essenziale nell’analisi dati (e per le amichevoli prese in giro). Tra tutti devo

ringraziare in modo particolare il dottor Lojacono, senza Piero non sarebbe stato possibile né

immaginabile portare a conclusione questa tesi, il tuo supporto professionale ed emotivo è

stato fondamentale e non lo dimenticherò (infatti mi sento abbastanza debitrice!).

Ma non è finita qui: la prerogativa di questa tesi, tanto sudata, è proprio il

coinvolgimento di persone appartenenti anche ad altri gruppi. Non posso non ringraziare

Elisa Rapisarda, soprattutto perché, oltre al supporto tecnico, ha avuto sempre un sorriso da

offrire, anche nei momenti più “drammatici”, Marzio De Napoli per la sua disponibilità e

professionalità e Francesca Giacoppo, dalla quale ho imparato veramente tantissime cose; ma

la persona dalla quale non smetterò forse mai di imparare è il professore Raciti, che stimo per

la sua dedizione e per la sua professionalità.

Devo anche ringraziare il dottor Calabretta, che considero un luminare del laboratorio e

che si è gentilmente offerto di fornirmi del materiale e di dedicare anche il suo tempo per

ogni genere di chiarimento.

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Di sicuro le mie giornate passate a lavorare all’analisi dati non sarebbero state le stesse

senza tutti i ragazzi con cui ho condiviso i momenti più divertenti: mi riferisco a tutti i

ragazzi della stanza tesisti, Sara La Rosa, Giuseppe Scalia, Ciccio De Luca, Daniela Campo,

Roberta Spartà, Dario Lattuada, Giacomo Randisi, Francesco Scardina ma soprattutto le mia

compagnetta di avventure, Alessandra (Blancato), che ha visto da vicino l’evolversi del mio

lavoro, con lei ho condiviso più di un anno di felicità, delusioni e tribolazioni e che ha avuto

sempre quella grinta per tirarmi su nei momenti difficili e di farmi ridere come poche persone

riescono a fare! Devo aggiungere alla mia lista di ringraziamenti tutti i ragazzi che lavorano

in laboratorio, fanno il dottorato o fanno ricerca, Rosalba, Giusy, David, Luciano, Nadia,

Manuela, Domenico, e tutte le persone che, come loro, si sono dimostrate veramente amiche

ed hanno contribuito umanamente durante tutto il lavoro di tesi.

Dulcis in fundo ringrazio la mia famiglia, i miei genitori e mia sorella, voi siete le

persone più importanti per me ed a voi dedico il mio lavoro.