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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO
Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano
Corso di Laurea in Medicina Veterinaria
Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione
Animale e la Sicurezza Alimentare (VESPA)
SPERIMENTAZIONE IN VITRO DELL’EFFETTO
ACARICIDA E ACAROREPELLENTE DI ALCUNE
PIANTE MEDICINALI IN USO PRESSO I CAMPI DI
RIFUGIATI SAHRAWI IN ALGERIA
Relatore: Chiar.mo Prof. Roberto VILLA
Correlatore: Dr. Alberto ZORLONI
Tesi di Laurea di:
Carmen LAVANGA
Matr. 554192
Anno Accademico 2011-2012
A Carmen
e ai suoi nonni
I
INDICE
1. Introduzione 1
1.1 Conoscenze indigene, etnoveterinaria e fitoterapia 1
1.2 Contesto socio-politico 3
1.3 Contesto ambientale-veterinario 5
1.4 Ectoparassiti di frequente riscontro 7
2. Scopo del lavoro 10
3. Materiali e metodi 11
3.1 Interviste 11
3.2 Euphorbiaceae 13
3.3 Asclepiadaceae 17
3.4 Lattice 19
3.5 Citrullus colocynthis 21
3.6 Hammada scoparia 23
3.7 Cistanche phelypaea 24
3.8 Raccolta delle piante 25
3.9 Estrazione 26
3.10 Raccolta e conservazione delle zecche 28
3.11 Test di repellenza 29
3.12 Test di tossicità 30
4. Risultati 32
4.1 Test di repellenza 32
II
4.1.1 Euphorbia officinarum ed Euphorbia balsamifera 32
4.1.2 Citrullus colocynthis 36
4.1.3 Pergularia tomentosa 39
4.2 Test di tossicità 48
4.2.1 Euphorbia officinarum ed Euphorbia balsamifera 48
4.2.2 Citrullus colocynthis 49
4.2.3 Pergularia tomentosa 53
5. Discussione 57
6. Bibliografia 59
1
1. INTRODUZIONE
1.1 CONOSCENZE INDIGENE, ETNOVETERINARIA E
FITOTERAPIA
Il patrimonio delle conoscenze indigene, fino a poco tempo fa di quasi esclusivo
interesse antropologico, negli ultimi decenni è stato preso sempre più in
considerazione anche nell’ambito della ricerca scientifica e dei progetti di
cooperazione internazionale. Le varie osservazioni succedutesi nel corso degli anni
’90 (Warren, 1991; Johnson, 1992; Langill, 1999) hanno messo in rilievo come tali
conoscenze rivestano un notevole valore pratico e siano in continua evoluzione per
consentire alle varie comunità un costante adattamento alle spesso difficili condizioni
ambientali. Pertanto, un opportuno approfondimento, comprendente esperimenti di
validazione eseguiti secondo i parametri di una corretta metodologia della ricerca,
può fornire elementi utili a un loro migliore utilizzo e a un’eventuale riproducibilità
in altri contesti.
Per la notevole importanza che il rapporto uomo-animale ha sempre avuto nelle
varie società rurali, le pratiche veterinarie tradizionali, sia zootecniche che
preventivo-terapeutiche, sono fra gli argomenti di maggior interesse nell’ambito
delle conoscenze indigene (McCorkle, 1995). Riunite sotto il termine di
“etnoveterinaria”, tali pratiche sono inizialmente state accolte con un certo
scetticismo da una parte della comunità scientifica internazionale. Tuttavia, secondo
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa l’80% della popolazione mondiale
residente nei Paesi in via di sviluppo si appoggia costantemente alle cure tradizionali
(Plotkin, 1992), e un’analoga percentuale è riscontrabile anche in campo veterinario
(McCorkle et al.,1996). A seguito dell’esecuzione di studi scientifici
metodologicamente corretti, l’importanza della ricerca etnoveterinaria è oggi
universalmente riconosciuta e la sua utilità è stata estesa anche ai Paesi
industrializzati (Danø and Bøgh, 1999).
Sia in medicina umana che veterinaria, le pratiche tradizionali si basano in larga
parte sull’uso di sostanze fitoterapiche, mentre i prodotti di origine animale e
2
minerale hanno un utilizzo proporzionalmente minore e spesso rivestono il ruolo di
estrattori, veicoli o eccipienti. Seppur molto meno efficaci rispetto ai farmaci
industriali, le preparazioni tradizionali hanno il vantaggio di poter essere preparate
sul posto, di non comportare consistenti esborsi in denaro, di presentare solitamente
effetti secondari di minor entità, di essere localmente ben conosciute e quindi
difficilmente assunte in maniera inappropriata, di non richiedere particolari
avvertenze riguardo al dosaggio e quindi di poter essere facilmente utilizzate anche
da chi non sa leggere e non dispone di utensili graduati. L’attività farmacologica di
un estratto vegetale è dovuta a un insieme di principi attivi e di coadiuvanti che
esplicano la loro azione in maniera composita. Pertanto, l’instaurazione di fenomeni
di resistenza risulta un’evenienza remota rispetto a quanto si osserva nel caso di
farmaci industriali basati sull’attività di singoli principi attivi. La loro rapida
metabolizzazione da parte dell’organismo, inoltre, minimizza i problemi legati ai
residui negli alimenti di origine animale (Eloff e McGaw, 2009). Non va infine
dimenticato che, soprattutto in contesti caratterizzati da uno scarso controllo da parte
degli organi istituzionali, il commercio del farmaco avviene per lo più attraverso
canali informali che non offrono alcuna garanzia di adeguato trasporto e
conservazione delle forniture farmaceutiche. Le cose sono poi aggravate dalla
presenza di organizzazioni illegali che contribuiscono alla diffusione di farmaci
scaduti, a volte contenenti una ridotta quantità di principio attivo, o addirittura falsi.
Un importante argomento a supporto della valorizzazione delle pratiche
etnoveterinarie è fornito dalla constatazione che la disgregazione sociale è una delle
cause principali di sottosviluppo. Con i notevoli cambiamenti osservati negli ultimi
anni a carico di parecchie società tradizionali, molte persone sono state private dei
punti di riferimento socio-culturali che avevano permesso loro di affrontare
contingenze avverse di vario tipo (periodi climatici sfavorevoli, epidemie, scontri
armati, ecc.). A causa dei confusi mutamenti ai quali sono state sottoposte, tali
società hanno perso le capacità tradizionali di un’autonoma risposta alle suddette
avversità, senza che venisse loro fornita un’effettiva possibilità di poter utilizzare
metodi e strumenti moderni. Pertanto, un numero crescente di individui si trova oggi
a incrementare la popolazione delle baraccopoli che gonfiano i centri urbani di varie
città africane, asiatiche o latinoamericane, o a cercare di emigrare illegalmente nei
3
Paesi industrializzati. Di fronte al fallimento di molti progetti di sviluppo,
all’aumentata incidenza di emergenze umanitarie e alla drastica riduzione dei fondi
erogati per la cooperazione internazionale, risulta oggi più realistico cercare di
salvaguardare il più possibile le capacità locali di far fronte autonomamente alle
evenienze avverse.
1.2 CONTESTO SOCIO-POLITICO
La ricerca si è svolta in parte nei cosiddetti “Territori liberati” del Sahara
Occidentale (ex Sahara Spagnolo), in parte nei campi profughi della popolazione
sahrawi allestiti nell’estremità occidentale dell’Algeria.
Nel 1975, subito dopo l’ottenimento
dell’indipendenza dalla Spagna, il
territorio del Sahara Occidentale è stato
suddiviso fra Marocco e Mauritania. Per
tutta risposta, la popolazione di etnia
sahrawi ivi residente ha dato vita a un
movimento di lotta armata portato avanti
dal pre-esistente Fronte Polisario,
rivendicante l’indipendenza del Paese e il
riconoscimento dell’autoproclamata
Repubblica Araba Sahrawi Democratica
(RASD). Con il ritiro della Mauritania, nel
1979, il Marocco è divenuto l’unico Stato a occupare il territorio sahrawi. Nel 1984,
a seguito del riconoscimento della RASD da parte dell’Organizzazione dell’Unità
Africana, il Marocco per protesta è uscito da quest’ultima e, nonostante il parere
contrario delle Nazioni Unite, ha continuato a occupare il Paese. A causa dei
conseguenti scontri armati fra il Fronte Polisario e l’esercito marocchino, il Sahara
Occidentale si è trovato diviso in due parti di grandezza disuguale. Un’ampia fascia
affacciata sull’Oceano Atlantico è occupata dal Marocco, che ha provveduto a
installarvi più di 300mila persone. Si tratta della parte più ricca del territorio,
4
caratterizzata dalla presenza di ingenti giacimenti di fosfati e da importanti risorse
ittiche. Una sottile area interna, invece, è costituita dai Territori liberati, presidiati
dalle milizie del Fronte Polisario che rivendicano l’indipendenza della RASD. Per
meglio separare le due zone, fra il 1982 e il 1987 il Marocco ha costruito un muro di
sabbia, variamente fortificato e protetto da campi minati e guardie armate, della
lunghezza di 2700 chilometri.
A partire dal 1990, le Nazioni Unite hanno cercato di organizzare un referendum che
consentisse alla popolazione locale di decidere fra l’indipendenza e l’annessione al
Marocco. Tuttavia, non si è mai riusciti a trovare un accordo sugli aventi diritto al
voto, a causa della fuga all’estero di molti sahrawi, dell’arrivo di un elevato numero
di marocchini trasferiti sul posto dalle autorità di Rabat, e dalla ferma opposizione di
queste ultime che non vogliono rinunciare allo sfruttamento delle importanti risorse
ittiche e minerarie della zona. Pur favorevole in linea di principio alle rivendicazioni
sahrawi, la comunità internazionale ha di fatto avallato l’attuale situazione. Infatti,
come ben ribadito anche in sede parlamentare italiana (Atto Camera 5/04003), risulta
politicamente inopportuno contrariare il Marocco per non rischiare di diminuire la
sua collaborazione nella lotta al terrorismo internazionale e nel controllo dei flussi
migratori verso l’Europa occidentale.
Pertanto, la posizione dei governi europei è quella di limitarsi a offrire supporto
umanitario alle ondate di profughi sahrawi che, a seguito dei combattimenti, si sono
rifugiati nei campi allestiti nell’ovest dell’Algeria, nei pressi della cittadina di
Tindouf. Si spera in tal modo che, con il passar del tempo, le nuove generazioni
sahrawi mettano da parte l’obiettivo dell’indipendenza e si accontentino
dell’autonomia regionale che il Marocco sembra disposto a concedere. Frattanto, le
150mila persone stipate in tali campi si sono ormai rassegnate a vivere di aiuti senza
poter offrire ai loro giovani altra scelta se non quella dell’emigrazione.
In un tale contesto, la salvaguardia di ogni risorsa autonoma assume una
fondamentale valenza sia socio-culturale che tecnico-pratica. Fra le numerose
Organizzazioni Non Governative (ONG) intervenute sul posto nel corso degli anni,
Africa 70, con sede a Monza, è stata quella che si è occupata elettivamente degli
interventi veterinari. Presente in loco dal 1999, ha iniziato a operare sulla base di una
missione di valutazione effettuata nel 1996 da alcuni membri dell Società Italiana
5
Veterinari tropicalisti (SIVtro). Nel corso del suo impegno decennale, Africa 70 ha
maturato un’approfondita conoscenza della situazione locale e di quale dovessero
essere le priorità veterinarie in una realtà così complessa. In particolare, ha svolto
alcune indagini sulle pratiche etnoveterinarie sahrawi (Volpato, 2003, 2004 e 2006).
Su queste premesse, grazie a un finanziamento del Comune di Milano, nel 2009 ha
dato avvio al progetto di sviluppo denominato Salvaguardia e valorizzazione della
medicina tradizionale sahrawi, nell’ambito del quale è stata realizzata la presente
ricerca.
1.3 CONTESTO AMBIENTALE-VETERINARIO
Fin dai secoli remoti, l’uomo ha portato con sé
i propri animali durante i grandi trasferimenti di
popolazione. Tale fenomeno ha ovviamente
riguardato anche i sahrawi, la cui società
tradizionale è strutturata attorno alle regole
ancestrali che regolano il nomadismo pastorale
in varie parti dell’Africa. Non vi è dunque da stupirsi se nei campi profughi in
Algeria sono allevati circa 30mila ovini, altrettanti caprini e quasi 1700 dromedari; vi
sono poi circa 150 asini utilizzati soprattutto per il trasporto dell’acqua, 220 cani e
670 capi di pollame (censimento effettuato nel 2007 a cura della Direzione
Veterinaria Nazionale della RASD). La presenza di questi animali è importante sia
come fonte di proteine nobili sia per il profondo valore sociale che il bestiame
rappresenta per una civiltà imperniata su regole e valori di tipo pastorale.
Naturalmente, in un’ambiente desertico
caratterizzato da temperature fino a 50 °C,
da una piovosità inferiore ai 50-100 mm
annui e da una conseguente mancanza di
copertura erbosa, le sparute forme vegetali
presenti non consentono di soddisfare alcuna
esigenza foraggera. Pertanto, gli animali
6
presenti nei campi vengono nutriti con gli scarti degli aiuti alimentari ricevuti per la
popolazione umana, la cui assenza di fibra spinge i ruminanti a ingerire stracci,
plastica e carta che si trovano sparsi un po’ ovunque.
Secondo i dati forniti dalla Direzione Veterinaria della RASD, le patologie di più
frequente riscontro negli animali allevati localmente sono causate dalle pessime
condizioni zootecniche, essendo infatti rappresentate per il 40% da ectoparassitosi
(favorite dal sovraffollamento e dalle cattive condizioni igieniche dei ricoveri
costruiti con materiali di recupero) e per il 32% da disturbi a carico dell’apparato
digerente, spesso esitanti in forme di clostridiosi (Broglia et al., 2005; Broglia e
Volpato, 2008).
Situazione un po’ migliore si presenta per i capi che, nelle due stagioni
relativamente piovose di settembre-ottobre e marzo-aprile, vengono spostati nei
Territori liberati e nel nord della Mauritania, dove si rinviene temporaneamente una
copertura vegetale discreta. Tuttavia, questi trasferimenti, unitamente all’arrivo nei
campi di un gran numero di ovini in occasione della festività dell’Aid El Adha
(celebrata, 70 giorni dopo la fine del Ramadan, con il consumo di carne ovina, a
ricordare la vicenda di Abramo e del figlio Isacco), non permettono di mantenere una
situazione epidemiologica stabile.
Oltre che attraverso la promozione di
migliori condizioni zootecniche
(obiettivo non certo agevole, trattandosi
di campi profughi), le patologie di
frequente riscontro sono combattute con
campagne vaccinali per limitare gli
episodi di clostridiosi, e, per quanto
riguarda le ectoparassitosi, l’utilizzo di
prodotti di sintesi fra cui soprattutto il Foxim (Sebacil®
), un estere fosforico che, a
parte le considerazioni sul costo, richiede di essere diluito in acqua alla
concentrazione opportuna e di essere applicato mediante l’uso di indumenti
protettivi; necessita inoltre di 18 giorni di sospensione prima della macellazione, e
non deve essere utilizzato negli animali in lattazione. Per evitare tali inconvenienti,
che riducono in maniera inopportuna la già limitata disponibilità di proteine animali,
7
e sottopongono persone e animali a rischi di intossicazione, Africa 70, in
collaborazione con la Direzione Veterinaria della RASD, ha deciso di valutare
l’impiego di piante con proprietà acaricide già utilizzate nella medicina tradizionale
sahrawi.
1.4 ECTOPARASSITI DI FREQUENTE RISCONTRO
I parassiti esterni di maggiore riscontro nei campi profughi sahrawi sono
rappresentati da Hyalomma dromedarii e Sarcoptes scabiei nei dromedari, e da
Melophagus ovinus negli ovi-caprini. Fra le forme parassitarie considerate
localmente meno importanti, vanno ricordate le miasi nasali provocate dalle larve di
Cephalopina titillator (Volpato, 2006). Mentre gli altri parassiti non presentano
particolari peculiarità in loco, H. dromedarii costituisce un notevole esempio di
evoluzione biologica per far fronte a condizioni climatiche estreme.
Le zecche del genere Hyalomma, infatti, sono fra le meglio adattate ai climi aridi e
semiaridi in Africa, Asia ed Europa (Hoogstraal, 1956). Delle oltre 30 specie
conosciute, almeno la metà è vettore di agenti patogeni per l’uomo e gli animali. La
capacità di resistere a periodi secchi di lunga durata si è sviluppata sia mediante la
selezione di determinate caratteristiche anatomiche sia attraverso modificazioni del
comportamento e del ciclo vitale. Queste zecche presentano infatti un corpo
relativamente grande, in grado di poter resistere meglio alla disidratazione, e
un’appendice rostrale piuttosto lunga, così da poter penetrare in profondità anche in
parti di cute spessa. Sembra inoltre che abbiano maggiori capacità di assorbire
l’umidità dell’aria rispetto alle altre zecche ixodidi (Lees, 1946 e 1947; Hafez et al.,
1970; Kahl e Knülle, 1988). Grazie a queste eccezionali capacità di adattamento, la
dinamica della loro popolazione non viene influenzata dalla piovosità, dalla
temperatura e dall’umidità relativa (Al-Khalifa et al., 2002). Riescono a resistere per
lungo tempo nel suolo sabbioso, in attesa dell’arrivo di un ospite adatto.
Analogamente ad alcune specie del genere Amblyomma, grazie ai lunghi arti si
spostano attivamente verso l’ospite quando questi viene a trovarsi a due-tre metri di
distanza. Oltre alle vibrazioni del terreno, sembrano essere attivati anche dall’ombra,
8
dall’odore e dall’anidride carbonica espirata dall’ospite (Barré et al., 1997). I
recettori chemio-olfattivi sono ubicati a livello di organo di Haller, sulla superficie
dorsale del tarso del primo paio di arti (Hess e Vlimant, 1986; Sonenshine et al.,
2002; Sonenshine, 2005).
H. dromedarii è diffuso nelle zone desertiche e semidesertiche dall’India all’Africa
boreale, ed è ritenuta la zecca ixodide meglio adattata alle regioni desertiche africane
(Pegram et al., 1981). Solitamente di colore marrone scuro, presenta lunghi arti con
anelli più chiari nella parte distale di ogni elemento tarsale (Hoogstral e Kaiser,
1958). Il maschio mostra quattro striature in leggero rilievo nella parte posteriore
dello scuto; si distingue dalle altre specie africane di Hyalomma per il fatto di avere
ampie placche subanali non allineate con quelle adanali, i peritremi incurvati e le
lunghe piastre stigmatiche che si prolungano dorsalmente. La femmina viene invece
differenziata per i margini del poro genitale a forma di V molto stretta (Walker et al.,
2003; Apanaskevich et al., 2008). Allo stadio adulto parassita principalmente il
dromedario, ma può incontrarsi anche su altri ruminanti, equini e cani. Sull’uomo,
invece, vengono rilevate con maggior frequenza le forme immature (Khalil et al.,
1981).
Il ciclo è solitamente a due o tre ospiti. Nel primo caso, il più frequente, l’ospite
dell’adulto è soprattutto il dromedario mentre gli stadi immaturi parassitano in
genere piccoli roditori, leporidi, istrici e uccelli, ma, soprattutto allo stadio ninfale,
possono ritrovarsi anche sugli stessi ospiti degli adulti. In aree particolarmente
secche, il ciclo può ridursi a un solo ospite (Berdyev, 1980). Le sedi preferite
dall’adulto sono il piatto delle coscie, le aree declivi, la mammella e la zona
perigenitale (Walker et al., 2003; Apanaskevich et al., 2008). Trattandosi di una
zecca relativamente grossa, che non di rado supera, nell’adulto digiuno, i 5 millimetri
di lunghezza (Apanaskevich et al., 2008), può causare dolori e zoppie (Hoogstraal,
1985), nonché diversi gradi di anemia e perdita di peso (Pegram e Osterwijk, 1990;
De Castro et al., 1997). Nelle soluzioni di continuo, provocate a livello cutaneo,
possono penetrare Dermatophilus congolensis (Al-Shammery e Fetoh, 2011),
responsabile della dermatofilosi bovina, ed essere deposti vari agenti di miasi
(Minjauw e Mcleod, 2003).
9
H. dromedarii può essere vettore di parassiti ematici, e la trasmissione trans-stadiale
di Theileria annulata è stata osservata (Bhattacharyulu et al., 1975; Um el Hassan et
al., 1983). Leibisch et al. (1989) lo considerano possibile vettore di theileriosi
bovina, così come Soulsby (1986) e Hamed et al. (2011) lo ritengono vettore di
Theileria camelensis. Babesia ovis e Theileria ovis sono state isolate dalle ghiandole
salivari (Mazyad e Khalaf, 2002), mentre Al-Khalifa et al. (2002) riportano
l’isolamento di tripanosomi e di Coxiella burnetii, agente della Febbre Q.
Analogamente, l’isolamento di varie specie di Theileria, Babesia e Anaplasma è
stato riportato da El Kady (1998). Può inoltre albergare Rickettsia prowazeki (Bird et
al., 1967), R. aeschlimannii e R. africae (Morita et al., 2004). In Africa settentrionale
è vettore di Babesia caballi e Theileria equi (ex Babesia equi), gli agenti della
piroplasmosi equina (Brandt, 2009). Awad et al. (1981) sono riusciti a realizzare la
trasmissione della peste equina tramite adulti di H. dromedarii portatori del virus,
osservando anche un passaggio trans-stadiale ma non trans-ovarico. Può infine
veicolare l’agente della febbre emorragica Crimean-Congo (EFSA, 2010), il Bhanja
virus (Hubálek, 2009) e altre arbovirosi umane e animali con sintomatologia analoga
(Hoogstraal, 1979; Hogstraal et al., 1981; Khalil et al., 1981). I nomadi sahrawi,
tuttavia, non considerano molto importanti le malattie veicolate da zecche (Volpato,
2006).
Hyalomma dromedarii - maschio Hyalomma dromedarii - femmina
10
2 SCOPO DEL LAVORO
Il recupero delle pratiche tradizionali del popolo sahrawi, attraverso prove
scientifiche atte a supportare la loro reale efficacia, consentirebbe di conservare
conoscenze antiche e preziose, offrendo nuovi punti di riferimento e fiducia in una
cultura messa a dura prova dalla condizione di rifugiati in cui si trovano a vivere.
La validazione scientifica derivante dalle prove di laboratorio porterebbe a vantaggi
economici, permetterebbe ai veterinari locali di preparare composti fitoterapici
efficaci, senza la necessità di dipendere dagli aiuti umanitari o dall’acquisto di
farmaci molto costosi dall’estero.
Un’approfondita conoscenza dell’attività farmacologica delle piante locali ne
consentirebbe un corretto impiego terapeutico, evitando gli effetti tossici derivanti da
un uso improprio di farmaci commerciali.
Scopo del nostro lavoro è stato pertanto quello di:
indagare sulle piante utilizzate dai pastori nomadi sahrawi per la cura del bestiame,
in particolare quelle contro gli ectoparassiti;
verificare le proprietà acaricide e acaro repellenti di alcune piante indicateci dai
pastori sahrawi, selezionando quelle più facilmente reperibili sul territorio;
raccogliere informazioni utili per future sperimentazioni in vitro e in vivo.
11
3 MATERIALI E METODI
Nella scelta dei materiali e metodi impiegati, si è deciso di optare per strumentazioni
e tecniche facilmente riproducibili in loco. La sperimentazione è infatti avvenuta nel
piccolo laboratorio della Direzione Veterinaria Nazionale (sita nel campo profughi di
Rabuni, nell’Algeria occidentale) in collaborazione con il personale locale. Oltre
all’obiettivo della valutazione dell’efficacia acaricida e acaro-repellente delle specie
vegetali utilizzate dai guaritori tradizionali sahrawi, lo scopo del lavoro è stato quello
di verificare se e in quale misura fosse possibile eseguire, al riguardo, una
sperimentazione scientificamente corretta in un contesto particolarmente disagiato
come quello in questione.
3.1 INTERVISTE
Per meglio apprendere i sistemi tradizionali
usati dai nomadi sahrawi nel controllo delle
ectoparassitosi, nel mese di aprile 2009 è stata
effettuata una missione investigativa nei
Territori liberati. Trattandosi di una zona
occupata dai militari della RASD, ogni
spostamento è avvenuto previa autorizzazione
delle autorità competenti e con l’accompagnamento dei militari stessi, esperti
conoscitori di quella zona desertica, degli spostamenti dei nomadi e dell’eventuale
presenza di mine o altri pericoli legati al conflitto. I pernottamenti sono stati
effettuati in piccole caserme militari, in punti d’appoggio siti nei pressi di riserve
idriche o nelle tende dei nomadi intervistati. Oltre che per le precarie condizioni di
alloggio, la missione si è rivelata particolarmente ardua per le difficili condizioni
climatiche, essendo pressoché sempre stati accompagnati da un forte vento. Gli
spostamenti, benché avvenuti in fuoristrada, sono risultati faticosi, sia per le asperità
del terreno che per le lunghe distanze; forature, problemi meccanici e difficoltà di
orientamento hanno fatto il resto.
12
In totale sono state intervistate 14 persone (10 uomini e 4 donne), ognuna di esse
esperta in terapie tradizionali veterinarie. Trattandosi di nomadi, i trasferimenti fra
l’una e l’altra hanno richiesto molto tempo. Per le interviste, avvenute in hassaniya
(la lingua locale, utilizzata anche in Mauritania e in parte dei Paesi confinanti), ci si è
avvalsi di un traduttore che parlava anche lo spagnolo. La metodologia scelta è stata
quella delle domande aperte, a partire però da una traccia di intervista, secondo la
modalità sviluppatasi a partire dalle esperienze di Rensis Likert (Converse e
Schuman, 1974; Converse, 1984; Tusini, 2006). In tal modo si è cercato di conciliare
due opposte esigenze: quella di raccogliere il più ampio ventaglio di informazioni
nell’unità di tempo, e quella di evitare che gli intervistati divagassero troppo.
A seguito delle interviste, si è appreso che le piante più utilizzate nel controllo delle
ectoparassitosi appartengono alle Euphorbiaceae (Euphorbia balsamifera, E.
officinalis ed E. calyptrata) e alle Asclepiadaceae (Pergularia tomentosa e
Calotropis procera), due famiglie che condividono un abbondante presenza di lattice
in quasi tutte le specie. Citrullus colocynthis (Cucurbitaceae), Hammada scoparia
(Chenopodiaceae) e Cistanche phelypaea (Orobanchaceae), specie prive di lattice,
sono invece ritenute efficaci dopo aver assunto una consistenza lattiginosa, in
particolar modo attraverso la decozione, e impiegate soprattutto per trattare la rogna.
L’osservazione che il succo di C. colocynthis dovesse venir riscaldato prima
dell’utilizzo nel trattamento della rogna del dromedario era del resto già presente
nell’Erbario Figurato di Giovanni Negri (1948). Inoltre, nel secondo libro biblico dei
Re, il colocinto ha la proprietà di rendere immangiabili le preparazioni cotte in
pentola (Scarpa, 2009).
Fra le specie utilizzate solo sporadicamente, vi sono Atriplex halimus, Cleome
amblyocarpa, Senecio anteuphorbium, Lycium intricatum e Launaea spp. A queste
va aggiunto Mesembryanthemum theurkauffii che, solitamente usato nei casi di
dermatomicosi, viene talvolta impiegato contro i pidocchi. In aggiunta a quelle
indicate da noi, Volpato (2006) segnala anche altre piante utilizzate dai sahrawi nella
terapia della rogna: Acacia tortilis, Anabasis articulata, Euphorbia granulata, Rhus
tripartita, Salsola tetraendra, Terfezia ovalispora e Zygophyllum gaetulum.
Risulta evidente che i nomadi sahrawi hanno imparato a utilizzare piante diverse
così da accrescere le probabilità di trovarne di adatte in un contesto ambientale arido.
13
In generale, per il controllo delle ectoparassitosi indicano come efficaci le piante
contenenti lattice, e talvolta considerano la quantità di quest’ultimo come
direttamente proporzionale all’effetto acaricida o insetticida. Vengono utilizzate
anche piante con lattice in quantità molto limitata o addirittura assente, ma in tali casi
esse vengono sottoposte ad aggiunta di oli o grassi animali o vegetali, oppure trattate
in modo da fare loro assumere una consistenza lattiginosa. A questo proposito, la
decozione è a volta preceduta da un abbrustolimento delle foglie. Considerato il forte
accento posto dai guaritori tradizionali sull’importanza del lattice nei preparati
acaricidi, si può ipotizzare che questi ultimi esplichino un’azione almeno in parte
meccanica.
Analogamente, i guaritori stessi attribuiscono eventuali effetti antimicotici alla
presenza di sostanze gelatinose naturalmente presenti nei vegetali raccolti, o
formatesi a seguito di decozione o infusione.
3.2 EUPHORBIACEAE
Le Euphorbiaceae sono una delle maggiori famiglie di piante fiorenti, annoverando
più di 8000 specie e oltre 300 generi. Fra questi, il genere Euphorbia è molto
cospicuo, comprendendo oltre 2000 specie, parecchie delle quali succulente
(Webster, 1994). Il nome deriva dal greco Euforbo, medico di re Giuba II della
Mauritania romana (sita nella parte settentrionale dell’attuale Marocco) (Plinio il
Vecchio, 77), con il significato di “ben nutrito”, e potrebbe derivare dall’aspetto
succulento di alcune piante. La variabilità morfologica delle euforbie è molto ampia,
con specie di apparenza erbacea, arbustiva o arborea. La maggior parte si ritrova
nelle zone tropicali e subtropicali di Africa e America.
A prescindere dagli aspetti alquanto diversi, sono per lo più accomunate dalla
presenza di lattice biancastro, caustico e irritante, che cola dalle lesioni della pianta e
coagula dopo alcuni minuti di esposizione all’aria. Il lattice consiste in un’emulsione
appiccicosa e opaca che essuda in seguito a un danno tissulare dei tessuti vegetali.
Può ritrovarsi in ogni parte aerea della pianta (ma in molti casi anche a livello
radicale) e, a differenza delle resine, non proviene da spazi intercellulari ma da
14
cellule specializzate, chiamate latticiferi (Mahlberg, 1993), che formano strutture
simil-vascolari e sono presenti in oltre 20mila specie fiorenti (Metcalf, 1967; Farrell
et al., 1991; Hunter, 1994), cioè nel 6% di quelle presenti nei climi temperati e nel
14% di quelle che crescono in ambiente tropicale (Lewinsohn, 1991).
Le piante del genere Euphorbia sono in genere molto resistenti alla siccità e alle
malattie, richiedono una cura minimale quando coltivate e si adattano facilmente a
vari tipi di suolo, compreso quelli a salinità relativamente elevata (Gogerty, 1977). In
coltivazione, si riproducono facilmente attraverso le parti potate, ma bisogna avere
l’accortezza di lasciare che il lattice secchi completamente sulla superficie di taglio,
prima di ripiantare la parte nel terreno (Calvin, 1980).
Il lattice di Euphorbia spp. contiene alcaloidi, terpenoidi, diversi metaboliti e
numerosi composti ad azione enzimatica (Webster, 1994; Langenheim, 2003).
L’effetto combinato di queste sostanze è ritenuto fornire un importante contributo
alla difesa della pianta nel respingere e uccidere organismi fitopatogeni, e nel
riparare le parti lesionate (Ko et al., 2003; Pintus et al., 2010; Medda et al., 2011). Il
lattice coagula rapidamente dopo esposizione all’aria (Agrawal e Konno, 2009).
Il lattice di Euphorbia spp. è ricco anche di triterpeni (Mazoir et al., 2008), alcuni dei
quali hanno mostrato proprietà citotossiche (Smith-Kielland et al., 1996),
antinfiammatorie (Fernandez-Arche et al., 2010), antiprotozoarie (Mazoir et al.,
2011) e molluschicide (Mata et al., 2011), queste ultime sostenute anche da diterpeni
(Singh et al., 2010).
La combinazione di esteri di- e triterpenici è variabile fra le specie, determinando i
conseguenti diversi livelli di tossicità. Venendo a contatto con le mucose animali, e
in una certa misura anche con la cute, il lattice di Euphorbia spp. causa fenomeni
infiammatori molto dolorosi (Freitas et al., 1981; Webster, 1986). Soprattutto nel
caso di certe specie, sono sufficienti quantità davvero minime a causare notevoli
complicanze flogistiche a occhi e gola, a volte anche solo a seguito di particelle
inalate durante operazioni di potatura in serre o altri ambienti chiusi. Comprendendo
anche varie frazioni insolubili, piccole parti di lattice coagulate su abiti o suppellettili
possono provocare severi fenomeni di irritazione anche a distanza di tempo. Per
rimuovere tali sostanze non è sufficiente l’acqua, ma è necessario impiegare
emulsificanti come sapone o latte.
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Il lattice di Euphorbia favorisce la crescita dei tumori. Può causare vomito e crampi
allo stomaco, arrivando fino alla perforazione gastrica o intestinale (Bigoniya et al.,
2010).
Il tipo di incidente relativo al lattice di Euphorbia spp. riportato con maggior
frequenza in letteratura consiste in un suo contatto accidentale, diretto o indiretto
(tramite mani o abiti non adeguatamente lavati), con gli occhi. Il quadro clinico è
generalmente quello di una cherato-uveite molto dolorosa, con conseguente
compromissione della capacità visiva, arrossamento ed edema della congiuntiva, e
rigonfiamento delle palpebre; tali sintomi regrediscono di solito completamente
nell’arco di 1-2 settimane (Eke et al., 2000; Basak et al., 2009). Al riguardo, viene
raccomandato un lavaggio con ringer lattato, seguito da un trattamento locale con
antibiotici e corticosteroidi (Hsueh et al., 2004; Merani et al., 2007; Lam et al.,
2009). Karimi et al. (2010) hanno riportato i benefici effetti astringenti e anti-
infiammatori dell’applicazione topica di un cataplasma di patate, come terapia di
supporto.
Nel meccanismo di difesa delle Euphorbiaceae attraverso il lattice, in combinazione
con fosfatasi e amino-ossidasi, sembrano avere particolare importanza alcuni enzimi
ad azione perossidasica in grado di proteggere la cellula vegetale nelle situazioni di
stress ossidativo con conseguente formazione di perossido d’idrogeno,
potenzialmente dannoso al DNA e alle proteine. Allo stesso tempo, l’azione
regolatrice delle perossidasi risulta fondamentale poiché il perossido d’idrogeno
modula la produzione di proteine vegetali implicate nella difesa da fitopatogeni, e
stimola la chiusura degli stomi in situazioni di siccità (Medda et al., 2003; Mura et
al., 2005; Pintus, 2008; Pintus et al., 2011).
Riguardo ai composti terpenici, il contributo all’azione tossica del lattice è dovuto in
gran parte ai diterpeni, soprattutto quelli con scheletro di tipo abietanico, tigliano e
ingenano (Shi et al., 2008). In particolare, l’effetto altamente irritante sembra dovuto
all’azione della resiniferatossina (Szallasi e Blumberg, 1989 e 1990; Appendino e
Szallasi, 1997), un diterpene capsaicina-analogo (attivo quindi sui recettori
vanilloidi, importanti modulatori dei meccanismi nocicettivi) (Yang et al., 2010)
isolato nel 1975 da E. resinifera (Hergenhahn et al., 1975). A differenza degli esteri
del forbolo e dell’ingenolo, anch’essi diterpeni contenuti nelle Euphorbiaceae
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(Opferkuch ed Hecker, 1982; Hergenhahn et al., 1984; Vogg et al., 1999), la
resiniferatossina non ha effetti favorenti la crescita dei tumori (Driedger e Blumberg,
1980).
E. officinarum ha un caratteristico aspetto
cactiforme, e nel Sahara occidentale si
trova spesso addossata a grossi blocchi di
pietra. I sahrawi la chiamano daghmus e,
preparata in diversi modi, la assumono per
via orale nella cura di un’ampia varietà di
affezioni: digestive, respiratorie ed
elmintiche (a seguito delle forti contrazioni intestinali che provoca). L’uso topico,
invece, è ritenuto utile per trattare i problemi cutanei in
generale (Volpato, 2008).
E. calyptrata ha invece un aspetto erbaceo e, nell’area
sahariana, cresce soprattutto in corrispondenza delle
zone declivi in cui, durante le sporadiche piogge, viene
a raccogliersi una certa quantità di acqua. Localmente
viene chiamata rammadah. I sahrawi la impiegano nei
casi di affezioni respiratorie, e le riconoscono anche
proprietà digestive e lassative; inoltre, la utilizzano
topicamente per alleviare i dolori articolari o reumatici (Volpato, 2008).
E. balsamifera, il cui nome locale è
fernan, si presenta come un arbusto dal
fusto legnoso e dalla fitta ramatura; ogni
ramo termina con una rosetta di foglie
oblunghe. Fra le Euphorbiaceae utilizzate
dai sahrawi, è forse quella più
strettamente associata ai trattamenti
contro i parassiti esterni. A tale proposito, ci è stata indicata da ben 10 delle 14
persone da noi intervistate.
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3.3 ASCLEPIADACEAE
Le Asclepiadaceae sono una grande famiglia comprendente circa 250 generi e 2000
specie botaniche (erbe, liane e cespugli, più raramente alberi veri e propri), presenti
soprattutto in ambiente tropicale e subtropicale, pressoché tutte produttrici di un
lattice biancastro (Wiart, 2006). Quest’ultima caratteristica rende ragione del nome
(milkweed) con cui vengono comunemente indicate alcune di tali piante in lingua
inglese, mentre il nome scientifico deriva da Asclepios, il dio greco della medicina
(Morhardt e Morhardt, 2004). Sulla base di studi genetici, alcuni autori suggeriscono
di classificarle come una sottofamiglia delle Apocynaceae (Sennblad e Bremer,
1996). Sono facilmente coltivate a partire dagli steli recisi (Bailey e Bailey, 1976).
Pergularia tomentosa, chiamata localmente
ghalqa, è un arbusto di circa un metro di
altezza, presente sia nei terreni sabbiosi che in
quelli pietrosi di tutto il Sahara (Volpato,
2008). Nei dintorni dei campi di rifugiati
sahrawi, si riscontra spesso in corrispondenza
dei punti di scarico e di accumulo di materiale
organico (Volpato, 2003). Il nome del genere
si riferisce alla facilità con cui i suoi rami
flessibili possono essere intrecciati per fabbricare pergolati, mentre quello della
specie indica la fine peluria che ne ricopre gli steli e le foglie.
Calotropis procera, che i sahrawi chiamano tursha, è un grosso arbusto che può
superare i tre metri di altezza, originario
dell’Africa e del Medio Oriente ma oggi
rinvenibile anche in America Latina e
nelle isole caraibiche (Rahman e
Wilcock, 1991). Il nome del genere
deriva dal greco, e significa “di
bell’aspetto”, mentre quello della specie
vuol dire semplicemente “alta”.
Il lattice di C. procera contiene proteasi
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ad attività coagulante (Shivaprasad et al., 2009 e 2011), tradizionalmente utilizzate
anche come caglio vegetale (Raheem et al., 2007).
C. procera e P. tomentosa hanno mostrato attività antifungina e molluschicida,
dovute alla presenza di cardenolidi (Larshini et al., 1997; Hussein et al., 1999;
Bekheet et al., 2011) con proprietà citotossiche (Sehgal et al., 2006; Piacente et al.,
2009; Al-Sarar et al., 2012). L’attività insetticida di entrambe le piante è stata
ampiamente documentata (Samira et al., 2004; Rashmi et al., 2011). In aggiunta,
hanno mostrato proprietà antibatteriche (Dangoggo et al., 2002; Nenaah e Ahmed,
2011) e anticancerose (Al-Said et al., 1989; Choedon et al., 2006, Hamed et al.,
2006). C. procera è stata indagata per i suoi effetti analgesici (Dewan et al., 2000),
antinfiammatori (Alencar et al., 2004) ed epatotossici (Padhy et al., 2007).
L’avvelenamento da tannini contenuti in P. tomentosa e utilizzati nei processi di
concia tradizionale delle pelli, è stato segnalato da Abiola et al. (2003) nei ruminanti
in Niger.
P. tomentosa, molto comune in tutto il deserto del Sahara, è una delle piante meglio
conosciute e utilizzate nella farmacopea tradizionale sahrawi. Il suo uso più noto è
quello che avviene nei casi di morso di serpente, applicando un composto di foglie
sulla ferita. Tra i nomadi sahrawi, infatti, è molto diffuso un aneddoto, che riferisce
della lotta tra un varano (Varanus griseus), del quale si conosce l’utilizzo della coda
come arma di difesa e offesa, e un serpente velenoso (Cerastes cerastes). Secondo
questo racconto, il varano si rifugerebbe sotto un cespuglio di P. tomentosa per
strofinare la coda, ferita durante il combattimento, contro i rami della pianta, così da
favorire l’emissione di lattice. L’azione terapeutica di quest’ultimo permetterebbe al
varano di tornare, dopo ogni morso, alla lotta contro il serpente. A volte, tuttavia, il
medesimo racconto fa riferimento anche ad altre piante contenenti lattice (Volpato,
2008).
I pastori strofinano le foglie sul pelo dei ruminanti per combattere la rogna, mentre
altri ritengono che integrare la dieta del dromedario con P. tomentosa favorirebbe la
guarigione da tale parassitosi. Alcuni pestano le foglie nel mortaio e le strofinano
sulla cute dell’animale infestato da pidocchi.
In medicina umana, questa pianta trova applicazione nei processi infiammatori delle
vie respiratorie profonde, come polmoniti, bronchiti, pleuriti, e nella tosse
19
persistente. Le foglie e gli steli vengono fatti essiccare per preparare decotti da
consumarsi giornalmente per sette giorni. Frizioni e cataplasmi di foglie di P.
tomentosa sono utilizzati contro le punture di insetti e per rinforzare la crescita dei
capelli. Decotti e impiastri trovano applicazione nei vari disturbi dermatologici,
come ascessi, foruncoli, ulcere, cisti, eczema, acari, tigna, rogna, orticaria e prurito.
P. tomentosa, macinata o in pasta, applicata nelle narici combatterebbe la cefalea,
così come il succo ottenuto dalle foglie o le gocce di lattice instillate nel sacco
congiuntivale. Le radici macerate avrebbero invece un’azione rigenerante e
stimolante nei casi di cachessia e astenia. Il lattice applicato sulla mammella
favorirebbe la produzione di latte.
I sahrawi forniscono ai dromedari piccole quantità di P. tomentosa e C. procera con
il duplice scopo di somministrare un complemento alimentare e, allo stesso tempo,
un prodotto in grado di tenere bassa la carica elmintica intestinale (Volpato, 2004).
Tuttavia, nei casi di abbondante somministrazione, la tossicità dei cardenolidi e degli
alcaloidi contenuti in queste piante può esitare in forme di intossicazione anche
mortali (Volpato, 2006). Degno di nota è il fatto che il dromedario accetta di
assumere queste piante solo se essiccate.
3.4 LATTICE
Essendo evidente l’effetto difensivo del lattice sugli artropodi erbivori, il suo
utilizzo nella lotta ad acari e insetti è molto diffuso nelle varie culture tradizionali ed
è stato ampiamente preso in esame dalla ricerca scientifica. La grande difformità di
risultati, variabili a seconda della specie
vegetale e dell’artropodo considerato, è dovuta
all’elevato numero e diversa concentrazione di
principi attivi nei lattici delle diverse piante
(Konno, 2011). Si possono dunque osservare
effetti per lo più di tipo tossico, oppure
deterrente, o ancora prevalentemente meccanico,
dovuti questi ultimi all’elevata appiccicosità del
20
lattice (Agrawal e Konno, 2009). Tale molteplicità di effetti è ben conosciuta nelle
culture tradizionali e sfruttata a fini pratici. Ad esempio, i pigmei congolesi del
gruppo Akoa utilizzano il lattice di Euphorbia spp. con il duplice intento di
aumentare la tossicità delle preparazioni velenose e di farle meglio aderire alla punta
delle frecce utilizzate per la caccia (Jones, 2007).
L’appiccicosità del lattice è dovuta alla presenza di gomma naturale (cis-1,4-
polyisoprene), responsabile anche del colore biancastro. Coagulando rapidamente a
contatto con l’aria, le particelle di gomma risultano molto efficaci nel riparare le
ferite vegetali (Bauer e Speck, 2011) e nell’aderire al corpo degli invertebrati
(Agrawal e Konno, 2009). A seguito di tale adesione, il lattice blocca i movimenti sia
locomotori che buccali degli artropodi, impedendo loro
di nutrirsi della pianta stessa. Pertanto, alcuni insetti
erbivori hanno selezionato una modalità di interruzione
dei dotti latticiferi con conseguente riduzione della
pressione al loro interno e quindi della quantità di
lattice che affluisce, in modo da potersi alimentare con
le parti vegetali a valle della soluzione di continuo
(Dussourd e Eisner, 1987). La coagulazione del lattice è
un processo mediato dalla presenza in esso di lecitine e
altre proteine ad azione legante sui carboidrati, solitamente tossiche per gli insetti
(Van Damme et al., 1998; Fouquaert et al., 2008).
Oltre che attraverso il meccanismo di adesione, il lattice interviene danneggiando la
cuticola e vari tessuti degli insetti a seguito dell’azione di enzimi ad attività
proteolitica e antiossidativa (Van der Hoorn e Jones, 2004; Domsalla e Melzig, 2008;
Agrawal e Konno, 2009; De Freitas et al., 2010; Upadhyay, 2011). L’azione
insetticida di tali enzimi è stata ben documentata per diversi tipi di lattice, fra cui
quello di C. procera (Freitas et al., 2007; Ramos et al., 2007).
Nelle Euphorbiacee sono state segnalate polifenol ossidasi
(Wititsuwannakul et al., 2002), fosfatasi e chitinasi (Lynn e
Clevette-Radford, 1987).
I sahrawi indicano con il termine Umm Lbena (Madre del
Latte) molte piante contenenti lattice, fra cui le
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Euphorbiaceae, le Asclepiadaceae e le Asteraceae del genere Launaea. Tuttavia,
nella lotta contro le zecche, non si affidano solo alle proprietà meccaniche del lattice:
Volpato (2006) segnala anche la pratica di fumigazioni trisettimanali eseguite con
acqua salata nella quale sono state bollite E. balsamifera e P. tomentosa.
3.5 CITRULLUS COLOCYNTHIS
Citrullus colocynthis è una cucurbitacea
che cresce nei suoli aridi e semi-aridi dal
sub-continente indiano all’Africa
settentrionale (IUCN, 2005). È
caratterizzato da steli striscianti e grossi
frutti, duri e amari, responsabili sia del
nome del genere (per la similitudine con
grossi limoni) sia del nome comune in
lingua inglese: bitter apple. Il nome
della specie, invece, deriva dal latino
colo (che qui può essere inteso nei suoi molteplici significati di abitare, coltivare e
venerare) e Cynthus (il monte dell’isola di Delo su cui sarebbe nato Apollo, che per
tale motivo era chiamato anche Cynthius). Interessante anche il nome dato alla pianta
dai sahrawi: hadgit lehmar, cioè “melone dell’asino”, a indicare la specie animale
che non disdegna cibarsene. Hendrickx et al. (2004) segnalano d’altronde che, in
Egitto, solo gli asini assumono tale frutto, ignorato invece dagli ovi-caprini.
Precisano inoltre che, in forma immatura, può essere conservato per un paio di mesi
senza perdere del tutto la propria umidità. Questa osservazione conferma la difficoltà
da noi incontrata nei relativi processi di essiccazione.
La pianta è facilmente coltivabile a partire dai semi, e il terreno non richiede
particolari attenzioni. Contiene un’apprezzabile quantità di alcaloidi, saponine,
flavonoidi e componenti fenolici, e possiede anche un alto contenuto minerale e
vitaminico, dovuto soprattutto alla presenza di riboflavina, tiamina e acido ascorbico
(Sultan et al., 2010).
22
In medicina tradizionale, viene molto usata come lassativo irritante (IUCM, 2005).
C. colocynthis ha destato un largo interesse per i suoi effetti ipoglicemizzanti
(Agarwal et al., 2012; Patel et al., 2012; Rekha e Naidu, 2012), dovuti a componenti
saponosidici (Houcine et al., 2011). Inoltre, ha mostrato proprietà antitumorali
(Kumar et al., 2011; Ayyad et al., 2012), antimicrobiche (Marzouk et al., 2010a;
Najafi et al., 2010; Sharma et al., 2010; Marzouk et al., 2011b), antifungine
(Marzouk et al., 2010a), antinfiammatorie e analgesiche (Marzouk et al., 2010b;
Marzouk et al., 2011a).
La bollitura del colocinto, fino a ottenere un composto denso da utilizzare per
combattere le pediculosi animali, viene effettuata anche in alcune zone aride del
Pakistan (Arshad et al., 2002).
L’effetto acaricida di preparazioni simili è segnalato in varie parti dell’Africa
settentrionale (Curasson, 1947; Naegelé, 1950; Osborn, 1968; Bernus, 1969; Boulos,
1983; Agab, 1998; Hammiche e Maiza, 2006). Proprietà insetticide del colocinto
sono state riportate da Rahuman (2011).
I sahrawi ne utilizzano i semi bolliti, essiccati e poi pelati, per produrre una farina da
consumarsi nei periodi di carenza alimentare.
Inoltre, per trattare le infezioni genito-urinarie
maschili e i parassiti intestinali, ne assumono
anche il frutto, dopo averlo bollito e reso meno
amaro mescolandolo con farina di frumento
(Volpato, 2008). Degno di nota il fatto che
analogamente, nella Bibbia, il profeta Eliseo
rende commestibile una minestra contenente colocinti, aggiungendovi della farina
(Scarpa, 2009). Il succo dei frutti viene bollito dai sahrawi per effettuare delle
inalazioni utili al trattamento delle forme respiratorie (Volpato, 2008).
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3.6 HAMMADA SCOPARIA
Hammada scoparia è una chenopodiacea
arbustiva mediterranea, diffusa anche nel
Medio-Oriente e molto comune in tutta l’area
sahariana nord-occidentale (Ben Salah et al.,
2002; Volpato, 2008). Presenta rami
succulenti con foglie atrofizzate e fuse fra
loro sugli steli, mentre i fiori sono privi di
petali e si addensano a formare piccole estremità appuntite (IUCN, 2005). Il nome
del genere deriva dal termine arabo con cui viene indicato il deserto pietroso, mentre
il nome della specie indica la facilità con cui si possono fabbricare ramazze a partire
dai suoi rami essiccati. La pianta ha dimostrato avere proprietà antiossidanti ed
epatoprotettive (Bourogaa et al., 2012), nonché contenere alcaloidi ad azione
molluschicida (Mezghani et al., 2009), antimicrobica, antiplasmodica e antivirale
(El-Shazly e Wink, 2003). Possiede anche flavonoidi ad azione antitumorale (Ben
Salah et al., 2002; Bourogaa et al., 2011). Inoltre, il suo estratto acquoso ha mostrato
proprietà larvicide (Sathiyamoorthy et al., 1997). Sintomi nervosi con tremori agli
arti, accompagnati da debolezza, sono stati segnalati nei casi di avvelenamento
animale (IUCN, 2005).
In tutto il Nordafrica viene chiamata remth, e
i sahrawi la utilizzano sottoforma di infuso per
alleviare i dolori reumatici e articolari;
triturata e mescolata con acqua fredda, la
tengono in bocca per qualche minuto per
diminuire i sintomi di stomatite o i problemi
dentali; eseguono anche fumigazioni nei casi
di affezioni respiratorie, e applicazioni topiche contro i morsi di serpente o le punture
di ragno (Volpato, 2006 e 2008). Nei casi di rogna dei dromedari, la fanno bollire
fino a farle assumere una consistenza maggiore, poi la applicano tramite spugnaggi
da sola o in miscela con altre piante (Volpato, 2006). Il suo utilizzo per trattare la
rogna del dromedario è stato riportato anche in Arabia Saudita (Abbas et al., 2002).
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Il fatto che, come segnala Volpato (2006), viene utilizzata dai sahrawi anche per
trattare diverse altre forme cutanee, può far supporre un suo effetto almeno in parte
sintomatico.
3.7 CISTANCHE PHELYPAEA
Cistanche phelypaea, appartenente
alla famiglia delle Orobanchaceae,
è una pianta perenne, eretta, priva
di rami, che raramente raggiunge il
metro di altezza. Lo stelo è molto
spesso, fino a 5 cm, mentre le
foglie lanceolate hanno dimensioni
alquanto ridotte. Molto frequente
nel Sahara algerino, può trovarsi
anche in altre zone del Nord Africa e di tutto il bacino Mediterraneo, compreso
dunque i Paesi dell’Europa meridionale e del Vicino Oriente. È famosa in virtù dei
suoi vistosissimi fiori gialli che formano una densa spiga lungo quasi tutta l’altezza
della pianta, e sbocciano subito dopo le piogge. Questa caratteristica è alla base dei
molti racconti sul “deserto fiorito” che si possono leggere da più parti, e spesso si
osserva in primavera. Cresce bene in regioni con climi molto aridi, con precipitazioni
annuali al di sotto dei 100 mm, e sopporta anche una certa salinità del suolo. Si tratta
di una pianta parassita obbligata: mancando di clorofilla ed essendo priva di radici,
per le esigenze di acqua e principi nutritivi si attacca a quelle di altre piante (Tamarix
gallica, Calligonum comosum, Pulicaria spp., e altre ) tramite piccoli tuberi (IUCN,
2005). Può essere coltivata in serra, fornendole altre piante a cui connettersi (Farah e
Al-Subaie, 2006).
Il nome con cui viene chiamata dai sahrawi, dhenoun, è comune a tutto il mondo
arabo, seppur con qualche lieve differenza di pronuncia da una zona all’altra. La
parte bassa dello stelo viene raccolta subito dopo le piogge, finemente triturata e
assunta per os come terapia di varie affezioni intestinali esitanti in diarrea. È ritenuta
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avere anche effetti diuretici e afrodisiaci. Viene poi applicata localmente per trattare
ferite, ascessi e contusioni. Può inoltre venire aggiunta in varie preparazioni di pani
tradizionali diffusi in molte parti del Sahara (IUCN, 2005).
La pianta contiene composti fenilici e glicosidici (Lahloub et al., 1993), lipidi
bioattivi e acidi grassi (Ramadan et al., 2011).
3.8 RACCOLTA DELLE PIANTE
Nella parte settentrionale dei Territori liberati, vicino
alle aree in cui si trovavano le persone intervistate,
sono stati raccolti il fusto cactiforme e il lattice di E.
officinarum, nonché le foglie e il lattice (in quantità
molto modesta, ottenuto mediante incisioni del fusto
legnoso) di E. balsamifera. Attorno ai campi profughi
in Algeria, dove crescono in relativa abbondanza, sono invece stati raccolti le foglie
di P. tomentosa e i frutti di C. colocynthis. La scelta delle parti vegetali è stata
compiuta sulla base di quanto tradizionalmente utilizzato.
L’identificazione delle specie vegetali è stata effettuata grazie ai precedenti studi
organizzati da Africa 70 nell’ambito del progetto “Sanità Animale nelle Tendopoli
Sahrawi” (Volpato, 2006 e 2008).
La raccolta e ogni successiva manipolazione sono state eseguite indossando guanti in
lattice, così da evitare contaminazioni dovute a funghi o batteri presenti sulla pelle.
Inoltre, per prevenire eventuali sviluppi fungini, il materiale vegetale è stato
trasportato in contenitori di cartone e steso a seccare su fogli di carta in luogo
ventilato, al riparo dal sole.
Essiccazione delle piante Essiccazione di C.colocynthis
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3.9 ESTRAZIONE
Dopo l’essiccamento, il materiale vegetale è stato finemente macinato e sottoposto a
estrazione con esano, acetone, acqua ed etanolo. Quest’ultimo è stato usato per la sua
relativa facilità di reperimento sul posto. L’acetone è stato scelto per il suo largo
spettro di estrazione, comprendente sia componenti idrofile che lipofile, la possibilità
di essere miscelato con acqua, la sua rapida volatilità e la sua bassa tossicità (Eloff,
1998). L’esano, a causa della tossicità intrinseca, è stato escluso dalle prove di
tossicità ma è stato impiegato negli esami di repellenza per la sua capacità di estrarre
i componenti altamente volatili non polari, frequentemente responsabili dei fenomeni
di repellenza (Zorloni, 2007). L’utilizzo di questi due ultimi estrattori nei campi
profughi sahrawi è tuttavia da considerarsi esclusivamente legato a un’attività di
ricerca scientifica, in quanto essi devono essere importati dall’estero a costi non
accessibili ai guaritori tradizionali locali. Inoltre, deve essere attentamente valutato il
rischio dell’impiego di acetone, sotto forma di perossido, nella fabbricazione di
miscele esplosive, con conseguente necessità di precauzioni straordinarie in un
contesto passibile di inflitrazione da parte di gruppi terroristici *.
Il materiale vegetale è stato diluito al 10% nell’estrattore scelto
(20mg in 200 ml di solvente), poi agitato per 20 minuti a mano.
Dopo aver eliminato il supernatante tramite passaggio attraverso
carta filtro, il filtrato è stato essiccato a temperatura ambiente.
Dopo pesatura con bilancia di precisione, l’estratto è stato
ricostituito nello stesso solvente usato per l’estrazione, alla
diluizione richiesta per le prove di laboratorio. La concentrazione
degli estratti non è stata mai superiore al 20%, poiché oltre tale
valore il materiale si presentava troppo denso per potersi
distribuire in modo uniforme sul corpo della zecca o sulle carte filtro delle bacchette
di vetro.
* Nell’edificio di Rabuni in cui, nel 2009, abbiamo alloggiato durante la fase di esecuzione degli
esami di laboratorio, il 23 ottobre 2011 è stata rapita la volontaria italiana Rossella Urru, rimasta poi
nelle mani dei sequestratori per quasi 9 mesi.
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Filtrazione
Estratto ottenuto dopo filtrazione Ricostituzione dell’estratto
Estratto ricostituito Estratto ricostituito
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3.10 RACCOLTA E CONSERVAZIONE DELLE ZECCHE
Le zecche utilizzate per le prove sperimentali sono
state raccolte dalle pelli dei dromedari lasciate sul
terreno dopo lo scuoiamento degli animali
macellati. Le zecche rimaste invece per un certo
tempo negli anfratti del suolo sabbioso si sono
mostrate molto più deboli, rendendo impraticabile
un confronto delle relative prove di laboratorio con quelle effettuate impiegando
zecche più vitali. La disponibilità di queste ultime, dunque, è stata molto soggetta al
ritmo di arrivo dei dromedari destinati alla macellazione. Pertanto, non sempre se ne
è potuto disporre della quantità desiderata. In tali casi, si è preferito eseguire gli
esami con un numero minore di zecche, rispetto a quanto auspicato, preferendo
ridurre il grado di significatività del campione rispetto al rischio di inficiarne del
tutto l’attendibilità. Quando il numero delle zecche lo ha consentito, il test è stato
ripetuto 5 volte per ogni estratto, coinvolgendo quindi un totale di 50 zecche.
In tutti i casi, si sono raccolti esemplari adulti e digiuni, di entrambi i sessi, di H.
dromedarii.
Se non subito impiegate, le zecche sono state
mantenute in contenitori, provvisti di tappo
perforato per consentire un normale ricambio di
aria, posti in una cassa cubica di vetro (realizzata
localmente da un artigiano algerino), delle
dimensioni di 30 cm di lato. Sul fondo della cassa,
al di sotto del ripiano sollevato su cui si trovavano
i contenitori con le zecche, è stata versata una
soluzione salina satura. Tale precauzione è stata presa per conservare le zecche in un
ambiente a elevata umidità (80 ± 10%). Particolare attenzione è stata prestata alla
manipolazione delle zecche, in modo da evitare danni all’apparato locomotore che
potessero compromettere una corretta valutazione dei risultati.
Considerato il fine pratico del presente lavoro, consistente nel cercare di valutare le
possibilità di utilizzo di acaricidi naturali da parte dei rifugiati sahrawi, gli esami di
29
laboratorio si sono concentrati soprattutto sulle foglie di Pergularia tomentosa e sui
frutti di Citrullus colocynthis, entrambi facilmente rinvenibili nei dintorni dei campi
profughi in Algeria.
3.11 TEST DI REPELLENZA
La prova di laboratorio usata per evidenziare eventuali fenomeni di repellenza da
parte degli estratti ottenuti dalle piante raccolte, è stata tratta dai lavori di Nchu (2004
e 2005) e Zorloni (2007), ed è stata scelta in quanto non richiede apparecchiature
costose ed è facilmente realizzabile in condizioni
disagiate. Si basa sulla naturale propensione di molti
generi di ixodidi ad arrampicarsi sugli steli di erba
nell’attesa del passaggio di un ospite adatto,
tendenza che viene mantenuta anche quando, in
laboratorio, si forniscono loro delle bacchette di
vetro (Browning, 1976; Mwangi et al., 1995;
Ndungu et al., 1995; Lwande et al., 1999). Tale
tendenza non si osserva in ugual modo in tutti i
generi, ed è molto poco rilevabile nelle zecche del
genere Amblyomma (Nchu, 2004).
Nel test da noi impiegato, due bacchette di vetro del diametro di 6 mm e della
lunghezza di 20 cm sono state inserite vicino alle due opposte estremità di un
supporto quadrangolare di polistirolo, delle dimensioni di 20 x 5 x 3 cm. Tale
supporto è stato inserito al centro di una bacinella rettangolare, delle dimensioni di
30 x 20 x 6 cm, per mezzo di una striscia di nastro biadesivo. Le due estremità delle
bacchette sono state ricoperte di carta filtro per la lunghezza di 4 cm, ed impregnate
uniformemente con un ml di estratto da testare (nel caso di una bacchetta) e con un
ml del semplice estrattore (nel caso dell’altra). Nella bacinella è stata versata acqua
fino a un livello di poco inferiore rispetto all’altezza del supporto, al centro del quale
sono state poste dieci zecche.
30
Il test si basa sul fatto che, non potendo allontanarsi per la presenza dell’acqua, le
zecche si arrampicano per lo più sulle bacchette di vetro, fino a raccogliersi sulle
estremità superiori. Nel caso di estratti repellenti, la loro scelta si orienta in larga
parte sulle bacchette con presenza del solo estrattore, le quali fungono quindi da
controllo per essere certi che il solvente stesso non abbia proprietà repellenti (in tal
caso, le zecche rimarrebbero sulla piattaforma). Se gli estratti non sono repellenti, le
zecche salgono indifferentemente sulle due bacchette. Se la salita avviene invece
soprattutto sulla bacchetta con l’estratto, si può ipotizzare un effetto di attrazione.
La posizione delle zecche è stata registrata dopo
30’ e 60’. Dopo tale tempo, infatti, si osservano
solo pochi spostamenti (Zorloni, 2007). Gli
esami risultano tanto più significativi quanto più
è elevato il numero delle zecche che sale sulle
bacchette di vetro. Pertanto, nei casi in cui le
zecche si sono mostrate poco vitali, e solo poche di esse sono salite sulle bacchette di
vetro, i risultati sono da considerarsi a significatività molto bassa o nulla.
3.12 TEST DI TOSSICITA’
Il test di tossicità è stato eseguito immergendo
dieci zecche nei lattici o negli estratti da testare, o
versando su di loro diverse quantità di questi. La
tossicità è stata valutata dopo 24 e 48 ore, durante
le quali le zecche sono state conservate nei
contenitori posti nella cassa di vetro. Il grado di
tossicità è stato valutato osservando i movimenti
delle zecche trattate: quelle che si muovevano in modo non alterato sono state
considerate normali, quelle che presentavano movimenti sensibilmente rallentati
sono state considerate deboli, quelle che presentavano una quasi totale assenza o
un’incoordinazione dei movimenti, tali da non riuscire a compiere un percorso
31
lineare, sono state considerate molto deboli, quelle che non presentavano alcun
movimento dopo essere state scaldate tra i palmi delle mani ed essere state sottoposte
per 30” a stimolazioni dell’organo di Haller a base di CO2 (alito), sono state
considerate morte.
Per ogni estratto utilizzato, è stata verificata anche la tossicità dell’estrattore
versando un’analoga quantità di questo sulle zecche. I test di immersione non sono
stati utilizzati con gli estratti di acetone a causa degli effetti tossici di tale solvente
quando impiegato in simili prove (Chagas et al., 2003; Freitas and Fernandes, 2005;
Gonçalves et al., 2007), mentre non risulta tossico a seguito di contatto (Nchu et al.,
2005) o di applicazioni topiche di piccole quantità (Williams, 1993; Porter et al.,
1995; Zorloni, 2007). Analogamente, il contatto con etanolo non risulta tossico sulle
zecche ixodidi (Nchu et al., 2005; Resende et al., 2012).
Nei nostri test di controllo in cui l’estrattore è stato utilizzato puro, una tossicità si è
manifestata, sia nel caso dell’acetone che dell’etanolo, nel 10% delle zecche trattate
con dosi uguali o superiori a 6 μl, quantità che
comportano un’immersione completa della zecca
nel liquido. A partire da tale dosaggio, quindi, i
risultati ottenuti con questi due estrattori
potrebbero ascriversi ad un’azione combinata
della loro tossicità con quella dovuta ai
componenti vegetali.
32
4 RISULTATI
4.1 TEST DI REPELLENZA
I risultati degli esami di repellenza sono stati espressi mediante un Indice di
Repellenza (IR), calcolato secondo la formula:
[(NC – NT)/(NC + NT)] x 100
dove NC si riferisce al numero delle zecche registrate sulla bacchetta di controllo e NT
al numero di zecche registrate su quella con l’estratto da testare (Pascual-Villalobos e
Robledo, 1998; Lwande et al., 1999).
4.1.1 Euphorbia Officinarum ed Euphorbia balsamifera
Euphorbia officinarum – Esano 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 5 2 3
60’ 4 3 3
2 30’ 2 5 3
60’ 2 5 3
3 30’ 6 1 3
60’ 4 3 3
4 30’ 7 3 0
60’ 4 5 1
5 30’ 4 5 1
60’ 4 5 1
TOTALE 30’ 24 16 10
60’ 18 21 11
Indice di Repellenza Dopo 30’ -23,08
Dopo 60’ -31,25
33
Euphorbia balsamifera – Esano 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 6 1 3
60’ 5 2 3
2 30’ 4 2 4
60’ 4 2 4
3 30’ 7 2 1
60’ 7 2 1
4 30’ 6 3 1
60’ 5 5 0
5 30’ 6 4 0
60’ 6 2 2
TOTALE 30’ 29 12 9
60’ 27 13 10
Indice di Repellenza Dopo 30’ -14,28
Dopo 60’ -13,04
Euphorbia officinarum – Acetone 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 6 2 2
60’ 4 4 2
2 30’ 7 3 0
60’ 7 3 0
3 30’ 5 0 5
60’ 3 0 7
4 30’ 6 2 2
60’ 4 3 3
5 30’ 9 0 1
60’ 6 2 2
TOTALE 30’ 33 7 10
60’ 24 12 14
Indice di Repellenza Dopo 30’ 17,65
Dopo 60’ 7,69
34
Euphorbia balsamifera – Acetone 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 8 0 2
60’ 8 0 2
2 30’ 10 0 0
60’ 10 0 0
3 30’ 10 0 0
60’ 10 0 0
4 30’ 8 0 2
60’ 8 0 2
5 30’ 7 0 3
60’ 7 0 3
TOTALE 30’ 43 0 7
60’ 43 0 7
Indice di Repellenza Dopo 30’ 100 (non significativo)
Dopo 60’ 100 (non significativo)
Euphorbia officinarum – Acqua distillata 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 6 2 2
60’ 6 2 2
2 30’ 3 4 3
60’ 3 4 3
3 30’ 4 3 3
60’ 2 3 5
4 30’ 7 2 1
60’ 6 3 1
5 30’ 6 1 3
60’ 6 1 3
TOTALE 30’ 26 12 12
60’ 23 13 14
Indice di Repellenza Dopo 30’ 0
Dopo 60’ 3,70
35
Euphorbia balsamifera – Acqua distillata 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 7 3 0
60’ 7 3 0
2 30’ 7 1 2
60’ 7 1 2
3 30’ 8 1 1
60’ 8 1 1
4 30’ 8 0 2
60’ 7 0 3
5 30’ 8 0 2
60’ 7 0 3
TOTALE 30’ 38 5 7
60’ 36 5 9
Indice di Repellenza Dopo 30’ 16,67 (non significativo)
Dopo 60’ 28,57 (non significativo)
E. officinarum ed E. balsamifera sembrano possedere alcuni componenti,
probabilmente volatili, debolmente attrattivi nei confronti delle zecche. Questi,
tuttavia, non sembrano essere presenti negli estratti acquosi o a base di acetone.
36
4.1.2. Citrullus colocynthis
Citrullus colocynthis – Esano 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 1 3 6
60’ 0 4 6
2 30’ 3 3 4
60’ 2 3 5
3 30’ 3 3 4
60’ 3 3 4
4 30’ 1 2 7
60’ 1 1 8
5 30’ 7 1 2
60’ 5 2 3
TOTALE 30’ 15 12 23
60’ 11 13 26
Indice di Repellenza Dopo 30’ 31,43
Dopo 60’ 33,33
Citrullus colocynthis - Acetone 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 7 1 2
60’ 5 3 2
2 30’ 5 3 2
60’ 3 4 3
3 30’ 4 4 2
60’ 3 4 3
4 30’ 2 3 5
60’ 2 3 5
5 30’ 2 7 1
60’ 6 3 1
TOTALE 30’ 20 18 12
60’ 19 17 14
Indice di Repellenza Dopo 30’ -20,00
Dopo 60’ -9,68
37
Citrullus colocynthis – Etanolo 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 7 2 1
60’ 5 3 2
2 30’ 8 2 0
60’ 5 4 1
3 30’ 5 5 0
60’ 4 6 0
4 30’ 7 1 2
60’ 7 1 2
5 30’ 9 0 1
60’ 7 2 1
TOTALE 30’ 36 10 4
60’ 28 16 6
Indice di Repellenza Dopo 30’ -37,50
Dopo 60’ -45,45
Citrullus colocynthis – Acqua distillata 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 2 4 4
60’ 2 4 4
2 30’ 6 1 3
60’ 5 2 3
3 30’ 6 1 3
60’ 4 3 3
4 30’ 6 3 1
60’ 4 5 1
5 30’ 2 5 3
60’ 2 5 3
TOTALE 30’ 22 14 14
60’ 17 19 14
Indice di Repellenza Dopo 30’ 0
Dopo 60’ -15,15
38
Citrullus colocynthis – Liquido del Decotto tradizionale
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 6 1 3
60’ 5 1 4
2 30’ 3 1 6
60’ 2 2 6
3 30’ 6 1 3
60’ 4 2 4
4 30’ 7 0 3
60’ 4 1 5
5 30’ 5 0 5
60’ 3 2 5
TOTALE 30’ 27 3 20
60’ 18 8 24
Indice di Repellenza Dopo 30’ 73,91
Dopo 60’ 50,00
Citrullus colocynthis – Estratto di decotto al 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 5 1 4
60’ 3 3 4
2 30’ 7 2 1
60’ 5 3 2
3 30’ 4 4 2
60’ 4 4 2
4 30’ 8 2 0
60’ 7 3 0
5 30’ 9 0 1
60’ 5 2 3
TOTALE 30’ 33 9 8
60’ 24 15 11
Indice di Repellenza Dopo 30’ -5,88
Dopo 60’ -15,38
39
Il frutto di C. colocynthis sembra contenere alcuni componenti debolmente repellenti
nei confronti delle zecche, estraibili tuttavia solo con esano. Per il resto, sembra che
siano i componenti debolmente attrattivi a prevalere. La relativa repellenza del
liquido ottenuto tramite filtrazione del decotto, sembra essere dovuta alla gelatinosità
dello stesso. Infatti, una volta ricostituito un estratto acquoso dello stesso, tale
repellenza si inverte.
4.1.3.Pergularia tomentosa
Pergularia tomentosa – Esano 10% (Test 1)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 3 6 1
60’ 1 8 1
2 30’ 3 4 3
60’ 4 4 2
3 30’ 3 4 3
60’ 1 5 4
4 30’ 3 1 6
60’ 2 1 7
5 30’ 4 3 3
60’ 4 3 3
TOTALE 30’ 16 18 16
60’ 12 21 17
Indice di Repellenza Dopo 30’ -5,88
Dopo 60’ -10,53
40
Pergularia tomentosa – Esano 10% (Test 2)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 7 1 2
60’ 7 1 2
2 30’ 6 4 0
60’ 4 5 1
3 30’ 7 1 2
60’ 7 1 2
4 30’ 7 1 2
60’ 5 4 1
5 30’ 5 3 2
60’ 6 1 3
TOTALE 30’ 32 10 8
60’ 29 12 9
Indice di Repellenza Dopo 30’ -11,11
Dopo 60’ -14,28
Pergularia tomentosa – Acetone 10% (Test 1)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 6 2 2
60’ 6 2 2
2 30’ 9 1 0
60’ 9 1 0
3 30’ 8 0 2
60’ 9 0 1
4 30’ 8 1 1
60’ 8 1 1
5 30’ 7 2 1
60’ 6 2 2
TOTALE 30’ 38 6 6
60’ 38 6 6
Indice di Repellenza Dopo 30’ 0 (non significativo)
Dopo 60’ 0 (non significativo)
41
Pergularia tomentosa – Acetone 10% (Test 2)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 4 5 1
60’ 1 5 4
2 30’ 7 1 2
60’ 2 6 2
3 30’ 6 0 4
60’ 5 3 2
4 30’ 4 4 2
60’ 2 3 5
5 30’ 6 0 4
60’ 4 4 2
TOTALE 30’ 27 10 13
60’ 14 21 15
Indice di Repellenza Dopo 30’ 13,04
Dopo 60’ -16,67
Pergularia tomentosa – Etanolo 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 2 3 5
60’ 2 3 5
2 30’ 7 0 3
60’ 5 1 4
3 30’ 4 3 3
60’ 4 4 2
4 30’ 3 3 4
60’ 3 3 4
5 30’ 3 5 2
60’ 0 5 5
TOTALE 30’ 19 14 17
60’ 14 16 20
Indice di Repellenza Dopo 30’ 9,68
Dopo 60’ 11,11
42
Pergularia tomentosa – Acqua distillata 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 4 4 2
60’ 2 4 4
2 30’ 2 7 1
60’ 2 7 1
3 30’ 6 0 4
60’ 2 1 7
4 30’ 1 3 6
60’ 1 2 7
5 30’ 4 3 3
60’ 2 3 5
TOTALE 30’ 17 17 16
60’ 9 17 24
Indice di Repellenza Dopo 30’ -3,03
Dopo 60’ 17,07
Pergularia tomentosa – Acqua di rubinetto 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 2 2 6
60’ 2 2 6
2 30’ 6 1 3
60’ 6 1 3
3 30’ 6 1 3
60’ 6 1 3
4 30’ 4 2 4
60’ 4 2 4
5 30’ 8 1 1
60’ 8 1 1
TOTALE 30’ 26 7 17
60’ 26 7 17
Indice di Repellenza Dopo 30’ 41,67
Dopo 60’ 41,67
43
Pergularia tomentosa – Foglie intere in acqua di rubinetto al 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 4 2 4
60’ 5 0 5
2 30’ 7 2 1
60’ 5 3 2
3 30’ 2 0 8
60’ 1 0 9
4 30’ 6 3 1
60’ 6 1 3
5 30’ 6 1 3
60’ 6 3 1
TOTALE 30’ 25 8 17
60’ 23 7 20
Indice di Repellenza Dopo 30’ 36,00
Dopo 60’ 48,15
Pergularia tomentosa – Decotto di foglie macinate al 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 4 1 5
60’ 4 1 5
2 30’ 6 3 1
60’ 5 4 1
3 30’ 8 2 0
60’ 8 2 0
4 30’ 6 3 1
60’ 4 6 0
5 30’ 8 2 0
60’ 8 2 0
TOTALE 30’ 32 11 7
60’ 29 15 6
Indice di Repellenza Dopo 30’ -22,22
Dopo 60’ -42,86
44
Pergularia tomentosa – Decotto di foglie intere al 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 9 0 1
60’ 8 2 0
2 30’ 3 4 3
60’ 3 4 3
3 30’ 8 1 1
60’ 4 4 2
4 30’ 9 0 1
60’ 9 0 1
5 30’ 6 3 1
60’ 5 4 1
TOTALE 30’ 35 8 7
60’ 29 14 7
Indice di Repellenza Dopo 30’ -6,67
Dopo 60’ -33,33
Pergularia tomentosa – Sedimento di decotto al 10% (Test 1)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 4 5 1
60’ 4 5 1
2 30’ 2 3 5
60’ 1 4 5
3 30’ 5 0 5
60’ 5 0 5
4 30’ 5 2 3
60’ 4 2 4
5 30’ 5 1 4
60’ 5 1 4
TOTALE 30’ 21 11 18
60’ 19 12 19
Indice di Repellenza Dopo 30’ 24,14
Dopo 60’ 22,58
45
Pergularia tomentosa - Sedimento di decotto al 10% (Test 2)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 6 2 2
60’ 5 3 2
2 30’ 5 3 2
60’ 5 3 2
3 30’ 7 1 2
60’ 3 4 3
4 30’ 4 1 5
60’ 4 1 5
5 30’ 6 1 3
60’ 7 0 3
TOTALE 30’ 28 8 14
60’ 24 11 15
Indice di Repellenza Dopo 30’ 27,27
Dopo 60’ 15,38
Pergularia tomentosa - Sedimento di infuso al 10% (Test 1)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 9 0 1
60’ 8 1 1
2 30’ 8 1 1
60’ 7 2 1
3 30’ 7 0 3
60’ 5 1 4
4 30’ 6 1 3
60’ 4 0 6
5 30’ 5 2 3
60’ 5 2 3
TOTALE 30’ 35 4 11
60’ 29 6 15
Indice di Repellenza Dopo 30’ 46,67
Dopo 60’ 42,86
46
Pergularia tomentosa - Sedimento di infuso al 10% (Test 2)
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 5 3 2
60’ 4 3 3
2 30’ 8 1 1
60’ 8 1 1
3 30’ 5 2 3
60’ 5 2 3
4 30’ 9 1 0
60’ 8 2 0
5 30’ 8 1 1
60’ 8 1 1
TOTALE 30’ 35 8 7
60’ 33 9 8
Indice di Repellenza Dopo 30’ -6,67 (poco significativo)
Dopo 60’ -5,88 (poco significativo)
Pergularia tomentosa – Infuso di foglie intere al 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 9 0 1
60’ 6 1 3
2 30’ 2 4 4
60’ 1 5 4
3 30’ 5 3 2
60’ 4 4 2
4 30’ 3 5 2
60’ 3 5 2
5 30’ 6 2 2
60’ 6 2 2
TOTALE 30’ 25 14 11
60’ 20 17 13
Indice di Repellenza Dopo 30’ -12,00
Dopo 60’ -13,33
47
Pergularia tomentosa – Infuso di foglie macinate al 10%
Gruppo Tempo Base Test Controllo
1 30’ 4 3 3
60’ 4 3 3
2 30’ 8 0 2
60’ 7 0 3
3 30’ 5 0 5
60’ 5 0 5
4 30’ 8 2 0
60’ 5 3 2
5 30’ 5 3 2
60’ 8 2 0
TOTALE 30’ 30 8 12
60’ 29 8 13
Indice di Repellenza Dopo 30’ 20,00
Dopo 60’ 23,81
Il fatto che l’assai debole attrattività degli estratti con esano e acetone si inverta e si
trasformi in un’assai debole repellenza nel caso dei praparati a base di etanolo e
acqua distillata, può essere dovuta a un’assenza di effetti attrattivi o repellenti di
rilievo da parte di P. tomentosa. La relativa repellenza mostrata dai due estratti a
base di acqua del rubinetto, ma confermata solo in minima parte dall’estratto a base
di acqua distillata, potrebbe essere dovuta alla presenza di composti ad azione
potabilizzante nell’acqua distribuita nei campi profughi sahrawi (proveniente dalla
città algerina di Tindouf, sita a circa 25 km di distanza). La relativa attrattività
osservata nel caso dei due decotti, che sembra ridursi notevolmente o invertirsi nel
caso degli infusi e del sedimento di decotto ricostituito, potrebbe essere dovuta a
composti che si liberano solo attraverso decozione. Tuttavia, il relativamente basso
numero di zecche salite sulle bacchette non permette di trarre conclusioni sicure.
48
4.2 Test di tossicità
4.2.1 E.officinarum ed E.balsamifera
- Lattice intero.
Dieci zecche sono state completamente immerse nel lattice di E. officinarum e dieci
in quello di E. balsamifera. Dopo 24 ore, entrambi i gruppi si presentavano avvolti in
un coagulo semi-solido di lattice e non mostravano alcun movimento. Mediante un
delicato lavoro, ogni zecca è stata ripulita del lattice che la ricopriva. Delle 20 zecche
utilizzate, 19 hanno ripreso a muoversi normalmente e solo una (tra quelle immerse
nel lattice di E. balsamifera), mostrava un certo rallentamento dei movimenti, per cui
è stata classificata come debole.
Estratto di E. officinarum in acqua distillata
Risultati dopo 24 ore:
Quantità e
Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl al 10% 30 28 1 0 1 1 3,3
6 μl al 10% 30 27 1 0 2 2 6,6
8 μl al 10% 30 27 1 1 1 2 6,6
10 μl al 10% 30 28 0 0 2 2 6,6
Immersione 10 5 1 1 3 4 40
Estratto di E. officinarum in acetone
Risultati dopo 24 ore:
Quantità e
Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl al 10% 50 35 1 0 14 14 28
4 μl al 5% 50 40 1 0 9 9 18
4 μl al 2,5% 25 17 1 1 6 7 28
4 μl all’1,25% 25 22 0 0 3 3 12
49
Risultati dopo 48 ore:
Quantità e
Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl al 10% 50 23 3 2 22 24 48
4 μl al 5% 50 35 0 2 13 15 30
4 μl al 2,5% 25 18 1 2 4 6 24
4 μl all’1,25% 25 20 1 1 3 4 16
L’azione tossica sulle zecche dei componenti bioattivi presenti in E. officinarum,
sembra richiedere un certo tempo prima di potersi osservare con una certa intensità.
Questi, tuttavia, vengono estratti in misura minima dall’acqua. Alla luce dell’esame
in immersione nel lattice intero, si può ipotizzare che la mortalità del 40% registrata
nel caso dell’estratto acquoso, si sarebbe verosimilmente dimostrata in larga parte
apparente se si fosse provveduto, come nel caso dell’utilizzo del lattice, a
un’accurata liberazione delle zecche dal materiale colloso in cui risultavano
inglobate. Pertanto, si può ipotizzare che, nel caso di lattice applicato topicamente tal
quale, l’azione dei componenti bioattivi di E. officinarum e di E. balsamifera risulti
minoritaria rispetto all’azione meccanica.
4.2.2 C.colocynthis
- Decotto di C. colocynthis, preparato secondo le istruzioni dei nomadi sahrawi (1 kg
di frutti tagliati a fette della grossezza di una noce e bolliti per 60’ in 3 litri d’acqua),
poi filtrato ed eliminato il surnatante.
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 30 29 0 0 1 1 3%
6 μl 30 29 0 1 0 1 3%
8 μl 30 30 0 0 0 0 0
10 μl 30 22 0 5 3 8 26,6%
50
Risultati dopo 48 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 30 29 0 0 1 1 3%
6 μl 30 27 0 2 1 3 10%
8 μl 30 28 0 1 1 2 6,6%
10 μl 30 25 0 1 4 5 16,6%
Appare chiaro che il decotto tradizionale di C. colocynthis è fortemente dose
dipendente, e presenta una certa efficacia solo se la zecca ne risulta pressoché
immersa, e solo dopo un certo tempo. Tuttavia, visto che alcune zecche, le quali
avevano mostrato una forte debolezza dopo 24 ore, si sono riprese durante il secondo
giorno, va tenuta in conto la possibilità di un’azione in larga parte meccanica che
viene a cessare nei casi in cui le zecche riescano a liberarsi, attraverso il movimento,
del preparato.
Per cercare di diminuire l’affetto meccanico dovuto alla sostanza gelatinosa che si
forma con la cottura dei frutti, concentrando maggiormente nel contempo gli
eventuali componenti bioattivi presenti, sono state eseguite le seguenti prove:
Estratto di decotto di C. colocynthis al 10% in acqua del rubinetto
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 40 36 0 1 3 4 10%
6 μl 40 27 5 2 6 8 20%
8 μl 40 33 1 2 4 6 15%
10 μl 40 34 0 4 2 6 15%
51
Estratto di decotto di C. colocynthis al 10% in acqua distillata
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 40 31 2 3 4 7 17,5%
6 μl 40 31 4 3 2 5 12,5%
8 μl 40 33 1 3 3 6 15%
10 μl 40 36 2 1 1 2 5%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 40 30 0 3 7 10 25%
6 μl 40 30 0 2 8 10 25%
8 μl 40 33 2 0 5 5 12,5%
10 μl 40 33 2 1 4 5 12,5%
Rispetto al preparato tradizionale, alle dosi più basse si è evidenziato un effetto
tossico leggermente maggiore, probabilmente dovuto alla maggior concentrazione di
sostanze bioattive, ma alle dosi più alte si è invece osservato una diminuzione
dell’effetto tossico, probabilmente dovuta a una perdita dell’effetto meccanico. Il
rilievo, apparentemente paradossale, di una minor tossicità dell’estratto acquoso alle
dosi maggiori rispetto alle minori, potrebbe essere dovuto al fatto che una maggior
presenza di liquido, in cui viene avvolta la zecca, comporta una minor coagulazione
dello stesso in tempi brevi e quindi un minor effetto meccanico. Non si sono
osservate differenze significative fra l’utilizzo dell’acqua del rubinetto e quello
dell’acqua distillata.
Per cercare di escludere pressoché del tutto l’effetto meccanico, massimizzando nel
contempo la quantità di componenti bioattivi di C. colocynthis, è stata eseguita la
seguente prova.
52
Estratto di C. colocynthis al 20% in acetone
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
2 μl 50 39 0 0 11 11 22%
4 μl 50 32 0 1 17 18 36%
6 μl 50 12 0 1 37 38 76%
8 μl 40 11 0 0 29 29 72,5%
10 μl 10 1 0 0 9 9 90%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
2 μl 50 39 0 0 11 11 22%
4 μl 50 32 0 0 18 18 36%
6 μl 50 10 1 1 38 39 78%
8 μl 40 10 0 0 30 30 75%
10 μl 10 1 0 0 0 9 90%
Tale esame ha confermato la dipendenza dalla dose, ma non è stata rilevata una
particolare differenza fra il primo e il secondo giorno. Analogamente a quanto
osservato per le Euphorbiacee, si potrebbe dedurre che, conformemente a quanto
riportato in bibliografia, il C. colocynthis presenta sostanze bioattive ad azione
tossica sugli artropodi. Tuttavia, per quanto riguarda il preparato tradizionale in uso
presso i nomadi sahrawi, l’estrazione di tali componenti in acqua è piuttosto ridotta,
mentre risulta prevalente l’azione meccanica dovuta alla formazione di un composto
colloso.
53
4.2.3 P.tomentosa
Estratto di decotto di P. tomentosa al 10% in acqua distillata
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 50 25 3 5 17 22 44%
6 μl 50 26 1 2 21 23 46%
8 μl 50 15 1 5 29 34 68%
10 μl 50 9 2 3 36 39 78%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 50 16 2 3 29 32 64%
6 μl 50 11 1 8 30 38 76%
8 μl 50 1 0 1 48 49 98%
10 μl 50 2 0 3 45 48 96%
Infuso in acqua fredda di P. tomentosa al 10%
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 40 29 3 3 5 8 20%
6 μl 40 15 2 7 16 23 57,5%
8 μl 40 18 0 2 20 22 55%
10 μl 40 14 2 0 24 24 60%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl 40 18 3 8 11 19 47,5%
6 μl 40 7 4 3 26 29 72,5%
8 μl 40 3 1 0 36 36 90%
10 μl 40 1 2 0 37 37 92,5%
54
Il fatto che l’elevata tossicità per le zecche mostrata dal decotto di foglie di P.
tomentosa sia in parte confermata anche dall’infuso a freddo, potrebbe essere dovuto
alla presenza di componenti bioattivi estraibili anche in acqua, la cui azione verrebbe
a sommarsi all’azione meccanica.
Estratto di P. tomentosa in acetone
Risultati dopo 24 ore:
Quantità e
Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl al 20% 50 18 2 2 28 30 60%
4 μl al 10% 50 31 0 10 9 19 38%
4 μl al 5% 50 42 3 0 5 5 10%
4 μl al 2,5% 25 23 0 0 2 2 8%
4 μl all’1,25% 25 24 0 0 1 1 4%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità e
Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M
4 μl al 20% 50 5 0 2 43 45 90%
4 μl al 10% 50 23 0 3 24 27 54%
4 μl al 5% 50 38 0 2 10 12 24%
4 μl al 2,5% 25 23 0 0 2 2 8%
4 μl all’1,25% 25 22 0 0 3 3 12%
La dose di 4 μl è stata scelta perché consente di ricoprire completamente il corpo
delle zecche adulte di H. dromedarii di maggiori dimensioni. Nel caso degli
esemplari adulti che presentano dimensioni un po’ minori (perché il tempo di
nutrizione della ninfa è stato relativamente ridotto), tuttavia, si può verificare un
effetto immersione, con conseguente tossicità dell’estrattore. Questi dati sembrano
confermare la presenza di componenti bioattivi tossici nelle foglie di P. tomentosa,
mostrando inoltre una certa influenza del fattore tempo sull’effetto acaricida.
A questo punto, per cercare di determinare una quantità approssimativa media in
grado di estrinsecare tossività nei confronti della zecca, si è utilizzato l’estratto alla
55
concentrazione più efficace (20%), a dosi maggiori e minori di quella sopra
impiegata (4 μl). Nelle due tabelle di seguito, viene comunque riportato il dato della
prova con 4 μl, già mostrato nelle due tabelle precedenti.
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
2 μl 50 28 4 6 12 18 36%
4 μl 50 18 2 2 28 30 60%
6 μl 50 3 1 0 46 46 92%
8 μl 50 2 1 1 46 47 94%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità e
Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M
2 μl 50 13 1 6 30 36 72
4 μl 50 5 0 2 43 45 90
6 μl 50 0 0 0 50 50 100
8 μl 50 1 0 0 49 49 98
Sembra dunque che l’estratto in acetone di P. tomentosa al 20% sia in grado di
causare marcata tossicità nel 90% degli adulti di H. dromedarii in 24 ore se in
quantità di almeno 6 μl per zecca e in 48 ore se in quantità di almeno 4 μl per zecca.
56
Estratto di P. tomentosa al 10% in etanolo
Questo esame è stato eseguito per valutare l’utilizzo di un estrattore relativamente
facile da reperire nei campi sahrawi.
Risultati dopo 24 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
2 μl 50 39 0 7 4 11 22%
4 μl 50 23 0 12 15 27 54%
6 μl 50 20 2 5 23 28 56%
8 μl 50 18 3 6 23 29 58%
10 μl 50 15 0 3 32 35 70%
Risultati dopo 48 ore:
Quantità T N D MD M MD+M %MD+M
2 μl 50 23 2 6 19 25 50%
4 μl 50 1 1 4 44 48 96%
6 μl 50 7 0 6 37 43 86%
8 μl 50 0 0 1 49 50 100%
10 μl 50 0 0 2 48 50 100%
Si evince dunque che i componenti bioattivi di P. tomentosa ad attività tossica sulle
zecche sono estraibili anche con etanolo. La diversa partita di zecche utilizzata non
consente tuttavia un corretto raffronto con i valori ottenuti impiegando gli estratti in
acetone. Inoltre, gli elevati gradi di tossicità rilevati dopo 48 ore potrebbero essere
dovuti, oltre che a una debolezza delle zecche utilizzate, all’effetto aggiuntivo della
tossicità intrinseca dell’etanolo.
57
5 DISCUSSIONE
Le interviste effettuate nei cosiddetti “Territori liberati” hanno messo in risalto la
notevole importanza attribuita dai guaritori tradizionali sahrawi alla conservazione
del patrimonio indigeno di conoscenze etnoveterinarie. Per un popolo nomade
pastorale, le conoscenze etnoveterinarie rappresentano un’importante risorsa
finalizzata alla sopravvivenza e quindi uno dei principali pilastri socio-culturali
attorno ai quali si struttura la vita quotidiana.
Tuttavia, tale visione si riscontra solo scarsamente fra le persone cresciute nei campi
di rifugiati. Pertanto, i giovani formati presso la scuola veterinaria finanziata da
Africa 70 dimostrano una comprensibile tendenza a orientarsi verso i mezzi di cura e
prevenzione utilizzati nelle società europee.
Trattandosi di un lavoro realizzato nell’ambito di un progetto di sviluppo, la
presente ricerca ha inteso verificare le effettive possibilità di sperimentazione nelle
condizioni specifiche dei campi profughi sahrawi. L’appoggio offerto dalla locale
Direzione Veterinaria Nazionale ha consentito che gli esami venissero effettuati
presso le strutture di sua pertinenza, con l’ausilio di un laboratorista locale. Tuttavia,
la disponibilità limitata di dromedari non ha consentito un regolare rifornimento di
zecche e non ha permesso di effettuare esami in vivo in forma significativa.
Le condizioni logistiche alquanto precarie, contrassegnate da frequenti interruzioni
nell’erogazione dell’acqua e della corrente elettrica, hanno reso difficile la regolare
esecuzione delle prove di laboratorio. Inoltre, l’irregolarità nella disponibilità di
zecche ha comportato una bassa possibilità di raffronto quantitativo fra i diversi
esami di laboratorio eseguiti a una certa distanza di tempo l’uno dall’altro. Pertanto, i
valori ottenuti dovrebbero essere valutati solo dal punto di vista qualitativo, a
differenza di quanto è invece possibile fare nei casi in cui le zecche vengono allevate
su animali di laboratorio (Bailey, 1960; Konnai et al., 2008).
Per quanto riguarda le prove di repellenza, la percentuale di zecche salite sulle
bacchette è risultata molto più bassa rispetto a quanto osservato in analoghi lavori
(Nchu, 2004; Zorloni, 2007). Si può dunque ipotizzare che H. dromedarii,
analogamente a quanto osservato per il genere Amblyomma (Nchu, 2004), sia poco
adatto a essere impiegato nei test di repellenza che prevedono la salita su bacchette di
58
vetro, a causa delle sue grandi dimensioni e della sua strategia di spostamento attivo
verso l’ospite, che non utilizza la salita su steli d’erba. Nondimeno, Hyalomma
marginatus rufipes, un’altra zecca dello stesso genere e di dimensioni analoghe, è
stato largamente utilizzato in test simili (Mkolo e Magano, 2007; Magano et al.,
2011 a e b).
Le opportunità e i limiti dei vari tipi di test di repellenza utilizzati nei confronti delle
zecche sono peraltro stati evidenziati da Dautel (2004) e da Bissinger e Roe (2010).
La necessità di migliorare i termini di riferimento e le metodologie utilizzate per
determinare i diversi gradi di repellenza in tali test, è stata recentemente sollevata da
Halos et al. (2012).
In ogni caso, nessuno dei preparati da noi testati ha evidenziato rilevanti proprietà di
acaro-repellenza o di acaro-attrazione, se non in test di bassa significatività a causa
del numero molto ridotto di zecche salite sulle bacchette di vetro.
Per quanto riguarda gli esami di tossicità, i risultati da noi ottenuti suggeriscono
l’importanza di poter differenziare gli effetti meccanici da quelli farmacologici dei
preparati. Anche se tale esigenza viene trascurata nella pratica tradizionale, risulta
tuttavia prioritaria per intraprendere un miglioramento e una standardizzazione delle
procedure di produzione, conservazione e utilizzo dei composti etnoveterinari.
Considerata l’elevata presenza di P. tomentosa nelle aree circostante i campi
profughi sahrawi e la possibilità di estrarne componenti tossici anche con acqua,
ulteriori ricerche dovrebbero concentrarsi in particolare su tale pianta, specialmente
riguardo a un suo uso contro i pidocchi che, nei campi profughi sahrawi,
costituiscono un grande problema per la loro azione anemizzante sul bestiame ovi-
caprino, alimentato inadeguatamente e allevato in spazi angusti. A tale proposito, si
ritiene interessante proporre l’esecuzione di una sperimentazione in vivo, da
effettuarsi a cura del personale veterinario locale formato nella scuola veterinaria
realizzata da Africa 70.
59
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