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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
DIPARTIMENTO D.E.M.S.
DOTTORATO DI EUROPEO IN FONDAMENTI DEL DIRITTO EUROPEO E METODOLOGIA
COMPARATISTICA
XXIII CICLO
LA RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI “DA REATO” PER I DELITTI DI CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
ALLA LUCE DELLA RIFORMA OPERATA DAL NUOVO PACCHETTO SICUREZZA, L.94/2009
Il Coordinatore Chi.mo prof. G. Di Chiara
Tutors
Chi.mo Prof. G. Fiandaca
Chi.mo Prof. C. Visconti
Tesi di Dottorato del Dott. Angelo Pizzo
INDICE
INDICE Pag. 1
INTRODUZIONE Pag. 4
CAPITOLO I
L’introduzione di una responsabilità degli enti da reato nell’ordinamento giuridico italiano.
1.1 Il problema della configurabilità di una
responsabilità diretta delle persone giuridiche: il principio “societas delinquere non potest”.
Pag. 7
1.2 Industrializzazione e criminalità
d’impresa: l’inevitabile incriminazione delle illecite condotte connesse all’attività d’impresa in ottica generalpreventiva e l’esperienza americana, con l’introduzione della legge “Federal Sentencing Guidelinies”.
Pag. 10
1.3 L’introduzione di una responsabilità
diretta degli enti collettivi da reato nel sistema normativo italiano: D.lgs. 231/2001.
Pag. 15
1.3.1 Natura giuridica della responsabilità degli enti ex D.lgs. 231/2001.
Pag. 18 11233
1.3.2 Il campo di azione soggettivo ed
oggettivo del D.lgs. 231/2001: crescente ampliamento della portata applicativa oggettiva fino alla recente riforma operata con la l. 94/09, c.d. nuovo pacchetto sicurezza.
Pag. 27
CAPITOLO II
La responsabilità amministrativa “da reato” degli enti ex D.lgs. 231/2001: profili sostanziali e struttura dell’illecito.
2.1 Struttura dell’illecito fondante una
responsabilità amministrativa “da reato”.
Pag. 33
2.2 I criteri oggettivi di imputazione della
responsabilità all’ente: a) reato commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente” da b) qualificati soggetti attivi realizzanti la condotta delittuosa.
Pag. 36
2.3 Il criterio soggettivo di imputazione
della responsabilità all’ente: a)colpa d’organizzazione e b) politica criminale dell’ente.
Pag. 42
CAPITOLO III Sistema sanzionatorio e cautelare
previsto dal D.lgs. 231/2001. Novità
legislative apportate dal nuovo
Pacchetto Sicurezza, l. 94/09.
3.1 Natura e struttura del sistema
sanzionatorio previsto dal D.lgs. 231 del 2001.
Pag. 46
3.2 Natura e struttura del sistema cautelare
previsto dal D.lgs. 231 del 2001. Pag. 51
3.3 La “uniformazione” tra “confisca
sanzione”, ex D.lgs. 231 del 2001, e confisca misura di prevenzione ex legge 646 del 82, a seguito della modifica, attuata dalla l. 94 del 2009 (c.d. “pacchetto sicurezza bis”), del presupposto applicativo delle misure di prevenzione patrimoniali: dalla “pericolosità sociale” alla “pericolosità reale” del patrimonio, profitto parziale o integrale dell'illecito criminale.
Pag. 56
CONCLUSIONI ……………...…............ Pag. 148
BIBLIOGRAFIA …………...….....…..... Pag. 153
oo0§O§0oo
Il presente lavoro è il risultato di un’attività di ricerca finanziata dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone di Palermo, essendo
risultato vincitore del concorso per giovani laureati in giurisprudenza presso le università siciliane, indetto dalla Fondazione Giovanni e
Francesca Falcone nell’anno 2009-2010.
6
Introduzione
Con il presente lavoro si intende operare una ricognizione della
disciplina generale della responsabilità degli enti “da reato” ex D.lgs.
231 del 2001, ed, in particolare, delle nuove misure in materia di
contrasto alla c.d. criminalità d'impresa introdotte nello stesso testo di
legge dal “pacchetto sicurezza bis” (successivo al pacchetto di sicurezza
del 2008, l. 92), ovvero dalla l. 94 del 2009.
Il primo capitolo, infatti, articola una disamina generale sulla
problematica avente ad oggetto la possibilità di configurare in termini
penalistici una responsabilità delle persone giuridiche, e si sofferma, in
particolare, sull'analisi della plausibilità, accolta in dottrina e nelle
legislazioni contemporanee negli ultimi due decenni, di una
responsabilità determinata in conseguenza di un illecito penale
commesso “anche” (nell'interesse e a vantaggio ex D.lgs. 231 del 2001)
per le persone giuridiche, in deroga al principio “societas delinquere
non potest”.
7
Nello stesso capitolo, dopo avere analizzato le ragioni che hanno portato
in Italia alla necessità dell'introduzione di una disciplina specifica sulla
responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse o
vantaggio, ci si soffermerà sulla annosa e dibattuta questione della reale
natura della responsabilità introdotta dal D.lgs. 231 del 2001 a carico
degli enti giuridici e sulla rassegna del c.d. ambito oggettivo e
soggettivo di applicazione dello stesso testo di legge.
Si farà particolarmente riferimento al c.d. fenomeno di espansione
dell'ambito originario oggettivo di applicazione della normativa,
introdotto su impulso delle Istituzioni europee (Raccomandazione
20.10.1998 del Consiglio d’Europa) per far fronte al fenomeno della
corruzione e concussione dei dipendenti delle amministrazioni
comunitarie, che ha ampliato a dismisura la tipologia dei c.d. “reati
presupposto”, fino ad includervi, recentissimamente, i reati di
associazione a delinquere di stampo mafioso e i reati connessi al crimine
organizzato.
Nel secondo e terzo capitolo si passerà in rassegna la disciplina di cui al
D.lgs. 231 del 2001 e rispettivamente, nel secondo capitolo, la struttura
dell'illecito fondante una responsabilità “da reato degli enti” (con i
rispettivi criteri oggettivi e soggettivi di riferibilità del fatto illecito
8
all'ente), nonché, nel terzo capitolo, la disciplina sanzionatoria e
cautelare prevista nella sezione seconda del D.lgs. 231/2001.
Sarà interessante verificare come, a livello normativo, sia stata effettuata
una sorta di “uniformazione” tra “confisca-sanzione”, ex D.lgs. 231 del
2001, e confisca-misura di prevenzione ex legge 646 del 82, a seguito
della modifica, attuata dalla l. 94 del 2009 (c.d. “pacchetto sicurezza
bis”), del presupposto applicativo delle misure di prevenzione
patrimoniali: si è assistito, infatti, ad una modifica della “pericolosità
sociale” in “pericolosità reale” del patrimonio, profitto parziale o
integrale dell'illecito criminale.
Nell'ultimo capitolo, infine, dopo avere effettuato una ricostruzione
storica del fenomeno mafioso e della c.d. “industrializzazione” delle
mafie, frutto di una peculiare capacità della stessa di adeguarsi ai mutati
contesti socio-economici del tempo, e delle rispettive attività di
riciclaggio dei capitali di illecita provenienza (proventi dei reati c.d. fine
delle associazioni mafiose) si analizzerà la novella operata dal pacchetto
sicurezza bis, l 94 del 2009, che introdurrà nel testo del D.lgs. 231/01
l'art. 24 ter.
Detta disposizione, rubricata “Delitti di criminalità organizzata”, in
particolare, nel chiaro intento di perseguire tutte le manifestazioni
criminali concretizzatesi con l'ausilio o tramite l'esercizio dell'attività di
9
un ente, stabilisce che «si applica la sanzione pecuniaria da
quattrocento a mille quote» a quell'ente che si caratterizza per «la
commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 416, sesto comma,
416 bis, 416 ter e 630 del codice penale, per i delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis ovvero al
fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso
articolo, nonché per i delitti previsti dall'art. 74 del testo unico di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 9 Ottobre 1990, n.309».
10
CAPITOLO I
L’introduzione di una responsabilità degli enti da reato
nell’ordinamento giuridico italiano.
1. Il problema della configurabilità di una responsabilità diretta
delle persone giuridiche: il principio “societas delinquere non
potest”.
Il tema della responsabilità penale delle persone giuridiche nell’ultimo
secolo è sempre stato fortemente influenzato, sia in dottrina che in
giurisprudenza, dall’idea che l’ente, a differenza della persona fisica,
non potesse commettere reati: societas delinquere non potest.
Il principio espresso dal sopramenzionato brocardo, per il quale soltanto
la persona fisica e non quella giuridica può commettere reati, ha
costituito, fin dal settecento, un pilastro del pensiero giuridico
dell’Europa continentale, nell’erronea credenza che lo stesso fosse un
residuo della cultura giuridica remota; in realtà, la disciplina giuridica
sottesa alla nota espressione ha di veramente antico soltanto la lingua
utilizzata, perché prima del settecento vigeva l’opposta scelta politico-
11
criminale ancorata al principio universitas delinquere et puniri
potest1.
1
NOTE
Cfr. G. MARINUCCI, La responsabilità penale delle persone giuridiche–uno schizzo storico dogmatico, lavoro destinato agli Scritti in onore di Enrique Gimbernat Ordeig, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2007, p.1, dove afferma, con riferimento al principio societas delinquere non potest, che «la sua formulazione non può farsi risalire oltre il diciottesimo secolo o la prima metà del diciannovesimo, avendo dominato nei sette secoli precedenti l’opposta idea universitas delinquere et puniri potest», e nel quale chiarisce, p.447, che sia stato a causa di svariati fenomeni patologici, nell’Europa del XII e XIII secolo, che inizia la lunga storia della responsabilità degli enti per reati; cfr. PASCULLI, La responsabilità «da reato» degli enti collettivi nell’ordinamento italiano. Profili applicativi, Bari, 2005, p.25, secondo cui furono i giusnaturalisti nel settecento a consentire la distinzione dei rapporti «facenti capo al singolo come individuo e i rapporti facenti capo all’individuo come singolo»; cfr. MARINUCCI-DOLCINI, La responsabilità penale delle persone giuridiche. Uno schizzo storico–dogmatico, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2007, pp. 445 e ss, il quale nell’affermare, sulla scia di Würthemberger, che l’analisi di qualsiasi questione di dommatica penalistica contemporanea, come quella relativa alla responsabilità penale delle persone giuridiche, non può prescindere da una contestualizzazione storica, sostiene che, nel contesto di una disamina storica del rapporto tra responsabilità penale ed enti giuridici, è acclarato che nel diritto medievale non vigesse il principio del societas delinquere non potest, bensì quello del delinquere ut universi poiché, (si veda pag. 3), «volgendo lo sguardo al passato, è acclarato che la lunga storia del delinquere ut universi inizia nell’Europa continentale al più tardi nei secoli XII e XIII sotto la spinta di svariati fenomeni patologici, studiati in Italia dalle scuole civilistiche e canonistiche che, individuati e repressi nella Costituzione Siciliana Federiciana, sono noti anche in molte città del nord Europa, in Spagna ed in Germania»; nello stesso senso Cfr. G. CHIODI, “delinquere ut universi”, Scienza giuridica e responsabilità penale delle universitates tra XII e XIII secolo, in Studi di storia del diritto, III, 2001, p.91 e ss.
12
Il motivo per cui dal settecento in poi si andò imponendo il principio del
societas delinquere non potest va ravvisato, non solo nel sistema
italiano ma a livello di legislazione continentale, nella graduale
affermazione dei moderni e liberali sistemi giuridici, e nello specifico
penalistici, ancorati al principio della responsabilità penale personale per
fatto proprio2, e nella funzione rieducativa della pena, ontologicamente
inconciliabile con una responsabilità penale di un ente impersonale3.
Il riconoscimento legislativo e normativo della impossibilità giuridica di
addebitare un reato ad una persona giuridica, tra l’altro, venne
consacrato, prima ancora che nell’art. 27 della Costituzione
Repubblicana del '48, nel Codice Penale Rocco del 1930 il quale
prevedeva all’art. 197 (rubricato “obbligazione civile delle persone
giuridiche per il pagamento delle ammende”) soltanto una responsabilità
sussidiaria e pecuniaria delle persone giuridiche per le ipotesi di
contravvenzioni realizzate da chi «abbia la rappresentanza o
l’amministrazione dell’ente, o ne sia in rapporto di dipendenza, e si
tratti di contravvenzioni che costituiscano violazioni degli obblighi
inerenti alla qualità rivestita dal colpevole»4.
2 Cfr. art. 27 ,comma 1 Cost., alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale nr. 364 e 1085 del 1988. 3 Cfr. art. 27 ,comma 3 Cost., alla luce delle sentenze della Corte
Costituzionale nr. 364 e 1085 del 1988. 4 Cfr. vecchio art. 197 del Codice Penale Rocco.
13
La natura personale della responsabilità, infatti, postula la capacità del
reo di porre in essere un preciso processo valutativo in ordine alla
realizzazione della condotta criminosa, contrassegnato dalla
consapevolezza dell’antigiuridicità della stessa.
Pertanto, l’ente diverso dalla persona fisica non avrebbe la capacità di
autodeterminazione necessaria per dar vita ed adottare una volontà
criminosa segnata dai requisiti essenziali del dolo o, almeno, della colpa.
Oltre a ciò, si tenga presente l’interpretazione a contrariis dell’art. 197
c.p. che, disponendo un’obbligazione solidale di garanzia in capo
all’ente per i reati posti in essere da chi ne abbia la rappresentanza
legale, indica l’impossibilità di configurare la persona giuridica come
soggetto attivo delle norme penali.
In Italia, invero, fino all’inizio degli anni ’90, nonostante si fosse
gradualmente ed in maniera sempre più incisiva affermata la necessità di
una riforma in materia di diritto penale dell’economia, a seguito di vari
fenomeni di criminalità connessa all’attività di enti giuridici (in
particolare di imprese), il citato principio era rimasto sostanzialmente
immutato nei contenuti e nelle conseguenze giuridiche, sebbene alcuni
14
frammentari interventi legislativi, in settori determinati ed isolati,
fossero indirizzati a perseguire l’attività illecita degli enti5.
Comprova di tale situazione normativa, caratterizzante non solo il
sistema penale italiano ma quello dell’ Europa continentale (non anche
dei sistemi di commow law dove da tempo esisteva la categoria dei c.d.
corporate crime), si può chiaramente cogliere nella incontrastata
posizione della dommatica penalistica del vecchio continente della fine
dello scorso secolo, sintetizzata nell’affermazione di un noto penalista
tedesco6 secondo il quale «il diritto penale tedesco e quello degli altri
Stati non conosce, a differenza dei paesi anglosassoni, la punibilità
delle persone giuridiche; solo l’uomo è considerato capace, non la
corporazione».
5 Cfr. la legge a tutela della concorrenza e del mercato del 10.10.90 nr. 287, la quale attribuiva all’autorità garante per la concorrenza la possibilità di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie; la legge sulla intermediazione mobiliare e sui mercati mobiliari, dello 02.01.1991 nr. 01; la legge sull’insider trading del 17.05.1991 nr.157. 6 Cfr. H.H.HIRSCH, Die Frage des Sraffahigkeit von Personenverbanden, 1993, in Strafrechtlinche, 199, p.597.
15
1.2 Industrializzazione e criminalità d’impresa: l’inevitabile
incriminazione delle illecite condotte connesse all’attività
d’impresa in ottica generalpreventiva e l’esperienza
americana, con l’introduzione della legge “Federal
Sentencing Guidelinies”.
Con l’affermazione della rivoluzione industriale e della
tecnologizzazione della vita di relazione, completatasi nel corso del
ventesimo secolo, si evidenziano, parallelamente e conseguenzialmente,
vicende e fatti illeciti, connessi all’attività di impresa, divenuti
puntualmente oggetto di analisi e di studio della scienza penalistica che
li ha convogliati nella onnicomprensiva definizione di criminalità
d’impresa.
Nell’ambito di tale definizione, invero, la dommatica penalistica faceva
confluire diverse condotte criminali, sia dolose (p.e. fenomeni di
riciclaggio tramite l’attività dell’impresa o di sciacallaggio finanziario
tramite i reati societari etc.) che colpose (p.e. reati ambientali o in
16
materia di violazioni di norme antinfortunistiche) di diverso impatto
sociale che difficilmente andavano incontro ad una condanna penale a
causa del quadro normativo del tempo, pressoché uniforme nel non
riconoscere una responsabilità diretta degli enti (soprattutto nei Paesi di
civil law, come anche in Italia, fortemente ancorati al principio societas
delinquere non potest).
Gli inconvenienti che, invero, derivavano dalla scelta di non penalizzare
direttamente le persone giuridiche, e quindi anche le imprese, per i reati
realizzati nell’ambito delle rispettive attività erano diversi e di difficile
percezione da parte dei legislatori del tempo.
Tra essi, a titolo esemplificativo, si può rammentare la difficoltà di
individuare gli artefici reali degli illeciti commessi a vantaggio
dell’impresa (specialmente nei casi in cui fosse stato difficile distinguere
i committenti dagli esecutori), come pure la facile sostituibilità degli
esecutori materiali degli illeciti con nuovi dipendenti e la contestuale
riaffermazione della medesima struttura organizzativa dell’ente che
aveva agito illecitamente, od anche la difficoltà di differenziare singoli
illeciti da una vera e propria politica criminale tout court dell’ente.
Negli Stati Uniti d’America, però, la necessità di fare fronte alla
esponenziale crescita della criminalità d’impresa, maggiormente
avvertita a causa della sua notoria condizione di paese più
17
tecnologizzato del mondo, determinerà nella dommatica penalistica la
necessità di portare avanti determinai studi7 finalizzati a verificare la
possibilità di introdurre, senza violare i principi primi di ogni sistema
penale, una responsabilità penale diretta delle persone giuridiche,
finalizzata a perseguire i reati d’impresa ad esse riconducibili.
I casi eclatanti di palese responsabilità societaria, infatti, come quello
della bancarotta che ha travolto la società americana Enron, hanno fatto
maturare l’esigenza a livello dottrinario di sostenere l’ipotesi della
responsabilità penale dell’impresa che, evidentemente, delinquere
potest.
Si diffonderà, al riguardo, l’idea che le responsabilità per disastri
ambientali, per condizioni di insicurezza nel lavoro, per truffe e pratiche
economiche disoneste non possono essere ricondotte solo alle persone
fisiche dei dirigenti delle grandi imprese operanti nel mercato, ma
devono investire direttamente l’ente giuridico responsabile.
In tal modo prolifereranno in dottrina studi che, gradualmente,
condurranno all’affermazione di un ragionamento, intriso di valutazioni
sociologiche-economiche e criminologiche, decisamente fondamentale
7 Cfr. i lavori di COEFEE JR., in”No soul to damn: no body to kick: an
unscandalized into the problem of corporate punishment”, in Michigan Law Review, 1981, p.386 e segg., e di SUTHERLAND E.H., in “Il crimine dei colletti bianchi. La versione integrale”, Milano, 1987 (trad. it. di White collar crime. The uncut version, Yale, 1983).
18
nella futura scelta di imputare direttamente alle persone giuridiche-
imprese i reati realizzati per e nell’ambito dell’attività industriale,
nonché l’idea che «un’attività di impresa sottoposta ad impegni sempre
più onerosi ed obiettivi ambiziosi, porterebbe la dirigenza a sentirsi
protetta e tutelata dalla struttura societaria, giungendo a sentirsi
giustificata ad utilizzare qualunque mezzo - anche illecito – pur di
raggiungere il massimo profitto»8.
L’importanza di tale assunto, infatti, condurrà alla necessaria
constatazione che il principio societas delinquere non potest, e le
conseguenze ad esso ricollegate, in ottica di scelta di politica criminale,
dovessero essere oggetto di un graduale e ponderato processo di
rivisitazione al fine di evitare la sussistenza di vuoti di tutela del sistema
sanzionatorio penale, in ottica generalpreventiva, e scongiurare il
pericolo che gli imprenditori «nel perseguimento degli obiettivi
d’impresa, vadano a violare le norme relative alla tutela dell’ambiente,
della salute dei lavoratori, della qualità dei prodotti, della fiscalità,
della tutela del mercato e della corruzione pubblica, con un correlativo
carico sanzionatorio, ritenuto dai più, insufficiente ed inefficace»9.
8 Cfr. NELKEN,”White-collar crime”, in MAGUIRE,MORGAN, EINER (a cura di The Oxford bandbook of criminology), Oxford,1994, p.335.. 9 Cfr. RICCARDO SALAMONE, “Il principio societas delinquere non
potest. La natura della responsabilità prevista dal D.lgs. 231/01” in AA.VV. Trattato di diritto penale dell’impresa, CEDAM 2009, il quale chiarisce che i meriti di avere importato, con ampi riferimenti, gli studi della scuola
19
Il superamento dell’idea della irresponsabilità penale degli enti, sotteso
al principio societas delinquere non potest, si attuò, infatti,
gradualmente nella politica criminale americana.
E così intorno alla metà del ventesimo secolo furono introdotte le c.d.
fines, ovvero sanzioni pecuniarie applicate direttamente all’impresa che
aveva tratto un vantaggio dall’illecita condotta dei propri dipendenti;
l’applicazione concreta da parte dei giudici statunitensi di detto
strumento fu, comunque, ridotta per il rischio di fare ricadere sugli
azionisti delle imprese, in palese violazione del principio della
responsabilità penale personale, le conseguenze sanzionatorie di una
condotta altrui, ovvero dei dipendenti o rappresentanti dell’impresa.
Per la suddetta ragione il sistema americano introdusse, a metà degli
anni ottanta, i c.d. alternative fines, ovvero sanzioni economiche così
esose da eccedere la reale possibilità di un pagamento del singolo
individuo, dipendente o comunque rappresentante dell’ente, e destinate a
costringere l’impresa a pagare direttamente le sanzioni, in alternativa
alle sanzioni penali irrogate alla singola persona fisica che avesse agito
nell’interesse dell’ente; detta scelta venne, però, criticata fortemente
dalla dommatica penalista americana la quale riteneva che il c.d.
nord americana vanno riconosciuti in particolare modo a STELLA. Si veda Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di giudo, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 1998, p.459 .
20
overspill, ovvero la parte di sanzione irrogata in eccedenza e
direttamente applicabile agli enti, andasse a danneggiare gli azionisti e i
creditori della società stessa10
.
Il successivo passaggio, propugnato dalla scienza penalistica americana,
ma non tradotto in legge, a differenza del sistema degli alternative fines,
fu l’introduzione dell’equity fine, ovvero un sistema sanzionatorio che
avrebbe consentito di equilibrare e commisurare proporzionalmente ed
equamente la sanzione pecuniaria alla dimensione dell’impresa.
Sarà, però, soltanto negli anni novanta che il legislatore americano,
fortemente influenzato dagli studi giuridico-economici sopramenzionati,
introdurrà, tramite la legge Federal Sentencing Guidelinies, un sistema
di imputazione “diretta” dei fatti penalmente rilevanti alle imprese,
tramite: a) la valorizzazione della precedente esperienza legislativa volta
a deliberare un sistema sanzionatorio specificamente indirizzato agli enti
giuridici responsabili per i reati d’impresa ma, soprattutto, tramite b)
l’introduzione dell’obbligo legale per le imprese di dotarsi di sistemi
interni di controllo, c.d. corporations, finalizzati alla prevenzione della
commissione di reati da parte dei singoli enti ed utilizzati, tra l’altro,
10
Cfr. R. SALOMONE, op. cit, p.13, il quale richiamando l’opera di COFFE JR, in “No soul to damn: nobody to kick”, afferma che «le categorie di soggetti danneggiati dalle eccessive onerosità delle fines siano, in differente misura e per i più vari motivi, gli azionisti incolpevoli i creditori e i dipendenti della società».
21
come parametri di valutazione, di tipo normativo, della condotta
dell’ente, nell’ambito dei singoli giudizi resi in concreto dagli organi
giudicanti, nell’ accertamento della colpa dello stesso ente.
Tale novità, nell’ottica del legislatore americano, avrebbe consentito,
senza scalfire le esigenze di garanzia sottese al principio della
responsabilità personale penale e valorizzando le istanze sociali di
un’opportuna repressione degli illeciti d’impresa, di «stimolare le stesse
società a dotarsi di Compliances Programs che siano realmente efficaci
ed in grado di resistere al controllo del giudice, in modo da poter godere
dei notevoli vantaggi previsti dalla legge» perché «in forza di tale
disciplina, il giudice si atterrà ad una “griglia” nell’applicazione delle
sanzioni ed il suo potere discrezionale sarà fortemente limitato»11
.
11
Cfr. R. SALOMONE, op. cit, p.15.
22
1.3. L’introduzione di una responsabilità diretta degli enti
collettivi da reato nel sistema normativo italiano: D.lgs.
231/2001.
L’introduzione nel sistema giuridico italiano di un’autonoma
responsabilità penale degli enti collettivi, diversa da quella
eventualmente ascrivibile alle persone fisiche operanti nell’interesse
della persona giuridica, si ha con il D.lgs. 231 dell’8 giugno del 2001
che dà attuazione all’art. 14 della legge delega n. 300 del 29 settembre
2000.
Il decreto in questione ha, infatti, introdotto nell’ordinamento giuridico
italiano, in netta discontinuità con il sistema normativo precedente,
un’ipotesi di responsabilità diretta degli enti da reato (sulla natura della
quale si veda infra Cap. I, par. 1.3.1), ovvero la possibilità di imputare
direttamente alle persone giuridiche una responsabilità di tipo penale
(quanto meno sotto il profilo sanzionatorio, si veda al riguardo il sistema
sanzionatorio introdotto nella sezione II dello stesso decreto) per fatti
costituenti reato (e tassativamente previsti negli artt. 24, 25 e 25 bis
dello stesso decreto) e realizzati nell’interesse ed a vantaggio dell’ente
23
(sull’analisi della struttura dell’illecito e degli elementi costituivi dello
stesso si veda infra Cap II).
Di fronte alle nuove caratteristiche del mercato mondiale e con
l’avvento di un capitalismo maturo, segnato dalla globalizzazione e da
forme sofisticate di criminalità economica, si sono prodotte misure
normative emanate sia a livello internazionale che europeo, le quali
hanno trovato spazio nei diversi ordinamenti che hanno introdotto la
diretta responsabilità da reato delle persone giuridiche.
Non sorgono particolari difficoltà, infatti, nel riconoscere che i punti
problematici del sistema capitalistico hanno reso necessario che anche i
paesi di civil law avvertano come indispensabile la punizione delle
imprese.
Ed invero il legislatore italiano, precedentemente al D.lgs. 231/2001,
aveva modificato, nell’ambito della più ampia riforma di
depenalizzazione di diversi illeciti contravvenzionali in illeciti
amministrativi12
, l’art. 197 del codice penale del 1930 (rubricato
“obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle
multe e delle ammende), mutando soltanto la portata applicativa della
norma (estesa altresì ai delitti e non più soltanto alle contravvenzioni), e
12
Cfr. legge n. 689 del 1981.
24
confermando, però, sostanzialmente la natura sussidiaria della
responsabilità ivi prevista per i reati commessi nell’interesse delle
persone giuridiche.
Soltanto agli inizi degli anni novanta il legislatore cercherà di scalfire
con alcuni provvedimenti legislativi la condizione di sostanziale
immunità delle persone giuridiche per fatti illeciti commessi a loro
vantaggio, approntando, però, una disciplina lacunosa e spesso incerta,
configurante una responsabilità soltanto di tipo amministrativo degli enti
per i fatti illeciti agli stessi direttamente riconducibili.
Il legislatore italiano, infatti, pensò di introdurre, in alcuni settori
dell’attività economica del Paese, leggi di riforma13
, caratterizzate dalla
possibilità di comminare direttamente sanzioni pecuniarie e interdittive
agli enti, senza però risolvere a monte il problema della configurabilità
di una responsabilità penale degli enti da reato.
In tal modo, però, la scelta apparentemente più semplice, di confinare
sul piano extrapenale la responsabilità in questione, senza affrontare la
reale natura della stessa, ha condotto alla necessità di risolvere questioni
giuridiche connesse alla corretta applicazione del decreto in questione.
13 Cfr., in particolare, la legge n.223 del 06.08.1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato;la legge n. 287 del 10.10.1990 sulla tutela della concorrenza e del mercato; la legge n.1 dello 02.01.1991 sulla attività di intermediazione mobiliare e sulla organizzazione dei mercati immobiliari.
25
Ed infatti, detta scelta legislativa determinerà, anche dopo
l’approvazione del D.lgs. 231/01, la necessità in dottrina di disquisire
sulla reale natura giuridica degli enti per i fatti costituenti reato
commessi nel loro interesse (si veda al riguardo infra Cap I par. 1.3.2.)
E’ da dire, al riguardo, che a parere dello scrivente la scelta del
legislatore degli anni novanta di sanzionare in maniera residuale
l’attività illecita degli enti in ambiti cruciali dell’economia del paese e
soltanto sul piano extrapenale14
(si pensi soprattutto al settore delle
intermediazione mobiliare e delle organizzazioni dei mercati mobiliari
storicamente sede di riciclo di fondi di illecita provenienza e luogo
privilegiato di scambi concussivi), va analizzata e considerata come una
sorta di risposta autoimmunitaria della classe politica, spesso anche
imprenditoriale, vessata in quegli anni dalle inchieste giudiziarie
riconducibili al notorio fenomeno etichettato come ”tangentopoli”.
All’inizio del nuovo secolo la scelta del legislatore italiano di sanzionare
penalmente e direttamente la responsabilità degli enti e delle imprese
con l’introduzione del D.lgs. 231/01 non discende solo dall’urgente
necessità di affrontare adeguatamente la c.d. criminalità delle imprese a
14 Cfr. R. SALOMONE, op. cit., pag 27 in cui afferma che «non vengono neanche ritenute sufficienti le mere sanzioni di carattere pecuniario, che in alcuni casi rischierebbero solamente di essere considerate a priori, da alcune società particolarmente inclini all’illegalità quali semplici costi d’impresa (da inserire preventivamente al bilancio e facilmente occultabili tramite il trasferimento da un’altra voce del medesimo)».
26
livello nazionale ma anche dalla necessità di dare esecuzione agli
obblighi che gli Stati membri dell’ONU e dell’Unione Europea hanno
assunto, impegnandosi a introdurre nei rispettivi ordinamenti, una
responsabilità diretta delle persone giuridiche per specifici reati15
.
Lo stesso D.lgs. 231/01, infatti, rappresenta l’atto normativo di
attuazione della legge delega n. 300 del 29.09.2000 emanata dal
Governo Italiano pro tempore in esecuzione di alcune Convenzioni
internazionali16
in materia di tutela delle finanze comunitarie e di lotta
alla corruzione dei pubblici ufficiali e dei funzionari dell’UE.
Gli articoli 24 e 25 dello stesso decreto, nella originaria versione del
2001, infatti, hanno introdotto nell’ordinamento giuridico italiano una
serie di delitti contro la Pubblica Amministrazione e le Comunità
Europee direttamente ascrivibili alla responsabilità giuridica delle
persone giuridiche secondo il meccanismo di imputazione previsto dallo
stesso decreto (ovvero come sarà meglio trattato successivamente,
allorquando sarà ravvisata una colpa d’organizzazione dell’impresa o un
dolo d’impresa, meglio definito politica criminale dell’impresa).
15
Cfr. Raccomandazione 20.10.1998 del Consiglio d’Europa. 16
Cfr. Convenzione di Bruxelles del 26.05.1997 sulla lotta contro la corruzione dei funzionari della Comunità Europea o degli stati membri dell’U.E.; Convenzione OCSE del 17.12.1967 sulla corruzione di pubblici ufficiali stranieri in operazioni economiche internazionali.
27
Successive Convenzioni internazionali17
e crescenti esigenze di
contrasto all’attività della criminalità organizzata, realizzata tramite le
imprese e gli enti economici, porteranno il legislatore ad ampliare
l’ambito applicativo del decreto in questione, con l’introduzione dell’art.
25 bis/ter e successivi, di una serie di delitti per i quali è possibile
configurare una responsabilità da reato degli enti (vedi infra par. 1.3.2
sull’ambito di applicazione del D.lgs. 231/01).
17
Cfr. Convenzione di New York del 9 dicembre 1999 finalizzata a perseguire i delitti con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico; Dichiarazione e piattaforma di azione del 15 settembre 1995, assunta nella quarta Conferenza ONU sulle donne e perseguire le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili; Decisione quadro del 19 luglio 2002. (2002/629/GAI) del Consiglio dell’Unione Europea sulla tratta degli esseri umani; art. 10 della l.16 marzo 2006 n.146, che prevede la ratifica e l’esecuzione della convenzione e dei protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale adottati dall’assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001.
28
1.3 Natura giuridica della responsabilità degli enti ex D.lgs.
231/2001.
La questione sulla reale natura giuridica della responsabilità degli enti
introdotta dal D.lgs. 231/01 ha costituito uno dei temi più dibattuti nella
dottrina penalistica italiana, fortemente restia ad accettare uno
scardinamento delle garanzie giuridiche sottese al principio societas
delinquere non potest ed al correlativo principio, presidio di rango
costituzionale, della responsabilità penale personale ex art. 27 Cost.
L’intento delle varie disquisizioni dottrinarie, in particolare, è da sempre
stato quello di verificare se vi fosse nella Costituzione (e nell’intenzione
originaria del Costituente) un vincolo per i futuri legislatori, (ancorato al
principio della responsabilità penale personale ex art. 27 comma 1 della
Carta Costituzionale) a non potere incriminare sotto il profilo penale le
persone giuridiche.
La risoluzione di detto quesito di fondo, per la dommatica penalistica
italiana, avrebbe dovuto consentire di stabilire se, in aderenza alle
istanze sociali di repressione di fenomeni illeciti connessi alle imprese
ed in genere alle attività degli enti, sia possibile o meno, applicare, in
29
un’ottica generalpreventiva, la normativa penale anche alle persone
giuridiche grazie all’utilizzazione dello strumento dell’interpretazione
estensiva e dell’intenzione conforme a Costituzione.
Il dibattito dottrinario sulla reale portata dell’apparente incapacità di un
ente perché possa “personalmente” rispondere in sede penale, già prima
dell’approvazione del D.lgs. 231 nel 2001, si caratterizzava per la
presenza, nel campo del diritto dell’economia e del diritto commerciale,
di una suggestiva, e quanto mai previgente ipotesi (tale perché ancora
fortemente avversata dal “dogma” del societas delinquere non potest)
secondo cui le società possano essere “autrici” di reato, per il tramite
delle persone dei suoi organi sociali che assumono diritti e obblighi, in
virtù della teoria dell’incorporazione organicistica sottesa al principio
della rappresentanza18
.
E’ da dire, però, che il tema in questione ha trovato una forte attenzione
nel dibattito dottrinario e nella prassi applicativa giurisprudenziale
soltanto successivamente all’approvazione del D.lgs. 231/01, che
nominalmente ha introdotto, all’art. 1 dello stesso testo normativo19
, una
18
Già nel 1959 SANTORO-PASSARELLI, in “Dottrine generali del diritto civile”, p.45, affermava che «se l’attività dell’organo è attività della persona giuridica e non soltanto efficace per la stessa, si comprende come sia possibile anche una capacità penale della stessa, però tuttora esclusa». 19
L’art. 1 del D.lgs. 231 del 2001 stabilisce, infatti, che «Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato».
30
responsabilità amministrativa degli enti per i reati agli stessi
riconducibili.
Ciò perché sebbene il decreto legislativo in esame abbia nominalmente
introdotto una responsabilità di tipo amministrativo degli enti da reato,
c’è chi ha dubitato della reale natura amministrativa della stessa
responsabilità parlando, al riguardo, di un fenomeno definibile “frode
delle etichette”20
.
In tal senso si possono spiegare ed analizzare quelle sentenze della
Suprema Corte di Cassazione che spesso evidenziavano, e continuano a
farlo21
, l’apparente natura amministrativa della responsabilità da reato
degli enti, così come configurata nel D.lgs. 231 del 2001.
Nello specifico della disputa, va segnalato che in dottrina si sono
contrapposte tre diverse teorie finalizzate a dimostrare la reale natura
della responsabilità degli enti da reato ex D.lgs. 231/01: a) una incline a
convalidare e confermare la natura della responsabilità, così come
20 Cfr. DE FELICE, “La responsabilità “da reato” degli enti collettivi. Parte I, Principi generali e criteri di imputazione del D.lgs. 231 del 2001”, Bari 2001, p.66. LICCI, in “Modelli nel diritto penale. Filogenesi del linguaggio penalistico”, Torino, 2006, p.79, il quale prende a spunto l’introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità giuridica degli enti da reato per chiarire come spesso ci sia una “crisi del nominalismo”. 21
Cfr. C.Cass. II pen., 20/10/2005, n.3615 che afferma «la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale; forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale, di rango costituzionale (art. 27 Cost.); interpretabili in accezione riduttiva, come divieto di responsabilità per fatto altrui,o in una più variegata, come divieto di responsabilità per fatto incolpevole».
31
definita nello stesso testo di legge, ovvero a confermare la natura di
responsabilità amministrativa22
; b) un’altra che afferma trattarsi di una
vera e propria responsabilità penale tout court, mascherata da
responsabilità amministrativa23
; e c) un’altra che afferma trattarsi di un
tertium genus rispetto alla responsabilità penale e rispetto a quella
amministrativa24
.
Il prevalente orientamento dottrinario e giurisprudenziale, invero, si è
sempre caratterizzato per una posizione, fortemente garantista e
22 Cfr. RICCARDO SALOMONE, op. cit., p.36 in cui afferma che l’introduzione di una responsabilità amministrativa degli enti da reato con il D.lgs. 231/01 è il frutto «di una precisa scelta di un avveduto legislatore che, ben conscio di seri problemi che si sarebbero dovuti affrontare nell’abbattere tout court il tradizionale principio societas delinquere non potest – con tutte le conseguenze giuridico e politico-criminali che ne derivavano – ha prudentemente agito utilizzando un basso profilo, operando una scelta di campo di minore impatto sull’opinione pubblica e sull’estensione della responsabilità penale»; cfr. LICCI, in “Modelli nel diritto penale.Filogenesi del linguaggio penalistico”, Torino, 2006, p.79, il quale prende a spunto l’introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità giuridica degli enti da reato per chiarire come spesso ci sia una “crisi del nominalismo”; cfr. DI AMATO, “Diritto penale dell’impresa”, Milano, 2006, p. 131; FLORA, “L’Attualità del principio societas delinquere non potest”, in Rivista trimestrale di Diritto Penale dell’economia, 1995, p.19. 23
Cfr. CONTI, “Il diritto penale d’impresa”, in “Trattato di diritto commerciale e pubblico dell’economia”, XXV, Padova, p.867; MARINUCCI-DOLCINI, “, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2007, pp.445 e s; AMARELLI, “Profili pratici della questione sulla natura giuridica della responsabilità degli enti”, in “Rivista Italiana di diritto e Procedura Penale”, p.170 e ss. 24 Cfr. DE VERO, “Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato”, in “Rivista Italiana di diritto e Procedura Penale”, 2001, p.1167 , il quale parla di tertium genus di responsabilità riconducibile a quello che lo stesso autore definisce “terzo binario del diritto penale criminale”(da affiancare ai due tradizionali binari connessi a pene e misure di sicurezza);cfr. SCAROINA, “Societas delinquere non potest. Il Gruppo di imprese”, Milano, 2006; cfr. DE VERO, “, Milano, 2008; cfr. PELISSERO in ANTOLISEI, “Manuale di diritto penale. Leggi complementari”, Vol. I, p.933 e ss.; cfr. ZANOTTI, “Il nuovo diritto penale dell’economia”, Milano, 2008, p.47.
32
tradizionalista, che dell’argomento in oggetto ha preferito cogliere,
almeno sotto il profilo retributivo-punitivo, l’accezione più letterale del
principio di cui all’art. 27 della Costituzione, affermando e confermando
ripetutamente nel tempo la correttezza della scelta legislativa (ovvero la
scelta di non configurare una responsabilità di tipo penale), precedente
all’adozione del D.lgs. 231 del 2001, ancorata al societas delinquere non
potest.
Al riguardo è emblematica l’affermazione di un noto studioso il quale
chiarisce25
il sopramenzionato assunto affermando che: «io credo
(perché così mi hanno insegnato) che il diritto penale sia soprattutto il
sistema posto a tutela dei valori che deve essere esso stesso valore,
espressione di civiltà giuridica, ed è tale in quanto ne è al centro la
persona umana in carne ed ossa».
Tale orientamento dottrinale, in particolare, sostiene che l’intero
articolato legislativo, apprestato nel 2001 con il D.lgs. 231/01, abbia
introdotto una responsabilità amministrativa degli enti per tutti i reati
realizzati nell’interesse e a vantaggio dell’ente da soggetti qualificati,
ovvero dipendenti o soggetti in posizione apicale nella struttura
organizzativa dello stesso ente.
25 Cfr. FLORA, “L’Attualità del principio societas delinquere non potest”, in “Rivista trimestrale di Diritto Penale dell’economia”, 1995, p.19.
33
A sostegno della natura amministrativa della responsabilità, delineata
dal D.lgs. 231/01, la dottrina menzionata fa notare come determinate
disposizioni dello stesso testo di legge comprovino la scelta del
legislatore del 2001 di attribuire agli enti una responsabilità non di tipo
penale, ma di tipo amministrativo.
Si fa riferimento, in particolare, all’art. 1 dello stesso decreto, che
configura nominalmente una responsabilità dell’ente di tipo
amministrativo; ancora alla disciplina di cui agli artt. 29 e 30 dello
stesso testo normativo che configura, in ipotesi di fusione o scissione di
società nell’ambito dei rapporti commerciali tra imprese, una traslazione
di responsabilità dall’ente originario all’ente risultante a seguito della
fusione o della scissione.
Tale normativa si porrebbe in palese contrasto con i principi
costituzionali in materia penale (ed in particolare con il principio della
personalità della responsabilità penale sia nell’accezione ristretta,
ovvero del divieto di responsabilità per fatto altrui ante sentt. n. 364/88 e
1085/88 della Corte Cost., sia nell’accezione ampia, successiva alle
suddette sentenze, del divieto di configurazione di una responsabilità
penale per un fatto personale non colpevole); ovvero alla disciplina di
cui all’art. 6 comma 1 dello stesso decreto che configura un' alquanto
discutibile inversione dell’onere della prova c.d. liberatoria, nell’ipotesi
34
in cui si volesse configurare come penale la responsabilità di cui al D.lgs
231/200126
, allorquando sia stato un soggetto in posizione apicale,
nell’organigramma dell’ente, a porre in essere una condotta illecita a
vantaggio o nell’interesse dell’ente.
Ma è nell’art. 8 dello stesso testo di legge che detto orientamento
individua uno dei motivi fondamentali per sostenere la natura
amministrativa della responsabilità degli enti ex D.lgs. 231/01; lo stesso
articolo, infatti, delineando una responsabilità autonoma dell’ente,
rispetto a quella della persona fisica che ha materialmente realizzato
l’illecito nell’interesse dell’ente, comprova che «il dettato legislativo
voglia chiaramente tenere distinto il fatto del reo, dalla questione
relativa all’accertamento della sua concreta responsabilità».
Così il reato andrà considerato «solamente un’occasione, uno spunto,
per proseguire l’accertamento dell’ente, in un procedimento quale è
26 Cfr. art. 6 comma 1 D.lgs. 231 del 2001 che stabilisce: «Se il reato è stato commesso da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua autonoma unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso, l’ente non risponde se prova che: a) l’organo dirigente ha adottato ed efficientemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di controllo di cui alla lettera b).
35
quello penale, con le forme e le garanzie per esso prevedute, ma ormai
totalmente sganciato dall’effettivo approfondimento della responsabilità
penale individuale; e ciò è tanto vero che l’accertamento prosegue
nonostante il reato sia estinto per tutte le cause previste dalla norma
(prescrizione, morte del reo, incapacità di intendere e di volere e tutte le
cause analoghe risultanti– per esclusione– dal combinato disposto
dell’art. 8 l.cit con le norme del Codice Penale relative all’estinzione
del reato ed all’imputabilità)»27
.
Un secondo orientamento della dottrina sostiene, al contrario, che la
responsabilità di cui al D.lgs. 231/01 è penale tout court, sebbene
mascherata dalla veste giuridica di responsabilità amministrativa.
Al riguardo è stato autorevolmente sostenuto che la nuova disciplina
delineata dal D.lgs. 231/01 ha determinato «un mascheramento di
quella responsabilità penale della persona giuridica di cui si predica da
anni la necessità e/o opportunità di una valorizzazione anche nel
sistema penale italiano»28
.
A sostegno di detta convinzione e della reale natura di responsabilità
penale prevista dal D.lgs. 231/01, invero, vi sarebbe la costatazione che
competente a giudicare per la stessa normativa non sarebbe un giudice
27 Cfr. R SALOMONE, op. cit., pagg. 37-38. 28 Cfr. MUSCO, “Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive”, in “Diritto e Giustizia”, 2001, 23, p. 8.
36
amministrativo ma penale, e che, comunque, è lo stesso D.lgs. 231/01 a
prevedere nella parte iniziale una serie di garanzie (quali legalità,
irretroattività della legge penale di sfavore, retroattività della legge
penale di favore) caratterizzanti un vero e proprio sistema penale.
Un ulteriore e decisivo argomento a favore della natura penale della
responsabilità di cui al D.lgs. 231/01 è la natura del sistema
sanzionatorio, proveniente dall’area del diritto penale, ivi configurato
(nella sezione II del D.lgs. 231/01) per far fronte alla responsabilità
prevista per gli enti da reato; le sanzioni, infatti, sono prettamente
penali, principali ed accessorie, ovvero sanzioni di tipo interdittive,
pecuniarie nonché la pubblicazione della sentenza di condanna e la
confisca (anche per equivalente ex art. 19 comma 2 D.lgs. 231/01) del
prezzo e del profitto del reato.
I sostenitori del terzo orientamento, oggi maggioritario in dottrina,
affermano che la responsabilità delineata dal D.lgs. 231/01 degli enti da
reato configuri un tertium genus rispetto alla responsabilità penale e
rispetto a quella amministrativa.
Detto orientamento sostiene, infatti, che la responsabilità configurata dal
D.lgs. 231/01 per gli enti non determini «nessuna responsabilità penale
per i soggetti collettivi e, al contempo, diverge dall’istituto delineato con
la legge 689/1981 (legge di depenalizzazione di molti illeciti
37
contravvenzionali in amministrativi), sia perché deroga al principio della
personalità della sanzioni amministrative pecuniarie, sia in quanto
attribuisce al giudice penale l’accertamento dell’illecito amministrativo
e l’irrogazione di eventuali sanzioni.
Si ritiene che il sistema di responsabilità dell’impresa delineato dal
D.lgs. 231/01 sia espressione di una generale tendenza comunitaria ed
internazionale ad assimilare progressivamente i due modelli punitivi
tradizionali (quello penale e quello amministrativo), onde pervenire ad
un unico sistema unitario di cui si avverte la necessità soprattutto per
fornire un’adeguata risposta punitiva ai fenomeni di criminalità
economica. Tali esigenze, sottese alle Convenzioni internazionali
ratificate con la l. 300 del 2000 (legge delega del D.lgs. 231/01), hanno
portato alla individuazione di una responsabilità autonoma e diretta del
soggetto collettivo, avente natura extrapenale »29
.
Nell’ambito di tale dibattito, invero, bisogna fare menzione della
riflessione di un autorevole studioso30
, sempre più avallata dalla
29 Trib. Salerno, 28.03.2003, in Cassazione Penale, 2004, 266; sulla differente ratio di politica criminale che ha condotto alla depenalizzazione di molti illeciti contravvenzionali in illeciti amministrativi, tramite la l. 689/81 ed la ratio del D.lgs. 231/01 e sulla necessità di utilizzare una nuova metodologia, mai applicata in precedenza, di trattazione della materia della responsabilità degli enti da reato.(cfr. FIANDACA-MUSCO, “Diritto penale. Parte Generale”, Bologna, 2006, p.832.). 30 Cfr. PULITANO’, “La responsabilità da reato degli enti: i criteri di imputazione”, in “Rivista Italiana di Diritto e Procedura Italiana”, 2002, p.148.
38
dommatica penalistica italiana, il quale considera “questione
accademica” la classificazione della responsabilità in esame e sostiene
che, sebbene la scelta nominalistica di attribuire la natura amministrativa
alla responsabilità introdotta con il D.lgs. 231/01 configuri una palese
“frode delle etichette” del legislatore del 2001, sia più opportuno
definire la stessa responsabilità in termini più generici e meno
schematici, ossia responsabilità degli enti da reato.
E’ ragionevole sostenere, pertanto, che l’intento di delineare una forma
di responsabilità dell’ente che risulti compatibile con le istanze dottrinali
e i principi normativi ha indirizzato il legislatore delegato a costruire una
responsabilità amministrativa “ibrida”.
Tale scelta che induce gli estensori della normativa a dichiarare nella
Relazione di aver dato vita ad un tertiun genus nella responsabilità
diretta, ha spinto parte della dottrina a sostenere che va ridimensionata la
portata innovativa della disciplina contenuta nel D.lgs. 231/01,
assumendo che una effettiva responsabilità penale dell’ente si avrebbe
solo nel caso in cui un singolo reato fosse addebitabile
all’organizzazione in via autonoma, senza il passaggio per
l’identificazione della persona fisica agente31.
31 Cfr.CARACCIOLI, “Una sfida diabolica per i magistrati”, in “Il sole 24 ore”, 3 maggio 2001, p.19.
39
Altri indirizzi dottrinari, coerentemente con le enunciazioni della
Relazione governativa al decreto, hanno sottolineato la peculiarità del
modello elaborato, ponendo in luce come gli interessi societari e le
responsabilità correlate, interessino istituti sia di carattere
amministrativo che commerciale e penale.
Pertanto ritengono doverosa la scelta legislativa per una responsabilità
amministrativa assistita dalle garanzie, anche processuali, del diritto
penale32.
Tale modello di responsabilità rappresenta un sistema intermedio tra
diritto amministrativo e diritto penale; se la tipologia delle sanzioni
comminabili di natura certamente afflittiva, e l’apparato processuale
l’accomunano al sistema penale, a questo, comunque non risulta del
tutto ascrivibile “mancando del necessario aspetto simbolico”33
.
Numerose altre ipotesi di identificazione del “nomen” della
responsabilità prevista sono state avanzate, ma nessuna è risultata
sufficientemente plausibile ai fini della determinazione dell’ambito
giuridico di appartenenza.
32
Cfr. RODORF R.,”Prime riflessioni sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio”, in “AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti”, IPSOA, Milano, 2002. 33
Cfr PALIERO-PULITANO’,”Imprese, una responsabilità su misura”,in “Il sole 24 Ore”,12 luglio 2001, p.20.
40
E tuttavia è ragionevole sostenere che la particolare disciplina in esame
costituisca parte di quel diritto amministrativo a carattere afflittivo tanto
simile, per connotati e funzioni, ad un diritto penale propriamente
inteso.
41
1.3.2 Il campo di azione soggettivo ed oggettivo del D.lgs.
231/2001: crescente ampliamento della portata applicativa
oggettiva fino alla recente riforma operata con la l.
94/2009, c.d. nuovo pacchetto sicurezza.
Affinché si delinei una responsabilità degli enti da reato è necessario che
il reato realizzato a vantaggio o nell’interesse dell’ente (ex art. 5 comma
1 dello stesso testo di legge) rientri nell’ambito dei reati tassativamente
previsti agli artt. 24-25-25bis-ter e successivi del D.lgs 231/01 (c.d.
ambito applicativo oggettivo della disciplina) e venga realizzato
nell’interesse ed a vantaggio di un ente giuridico dotato di specifiche
qualità descritte in modo chiaro all’art. 1 (c.d. ambito soggettivo di
applicazione .della disciplina).
In concreto, perché emerga la responsabilità da reato di un ente occorre
che questo sia uno degli enti dotati di personalità giuridica ex art. 1
comma 2 del testo normativo34
in esame (ma anche società o
34 Cfr art. 1 comma 3 che al riguardo precisa che, comunque, la disciplina del D.lgs. 231/01 «non si applica allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici, agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale».Per quanto riguarda gli enti stranieri è stato ritenuto che non vi sia difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana quando sia stato commesso, appunto a vantaggio o nell’interesse dell’ente straniero, un reato sul territorio italiano da parte di soggetti
42
associazioni prive di personalità giuridica) e che abbia commesso un
reato presupposto, ossia riconducibile a quelli che la legge prevede in
modo tassativo.
Ciò premesso, è da dire che sebbene l’ambito soggettivo di applicazione
della normativa in esame, ovvero la tipologia dei soggetti destinatari
della stessa normativa, sia rimasto immutato fin dalla originaria
approvazione del D.lgs. 231 nel 2001, si è assistito, al contrario, ad un
fenomeno di ampliamento esponenziale della portata applicativa
oggettiva della stessa normativa a seguito dell’aumento delle fattispecie
incriminatrici introdotte nella categoria dei reati presupposto previsti
dagli art. 24 e successivi del D.lgs. 231/2001. Detto ampliamento, in
ultimo, ha trovato un punto di arrivo decisivo con la recente riforma
operata con la l. 94/09 (c.d. nuovo pacchetto sicurezza35
) che ha
introdotto all’art. 24 ter il reato di criminalità organizzata36
.
“apicali” ovvero sottoposti alla altrui direzione o vigilanza; al riguardo cfr. TRIBUNALE DI MILANO; ordinanza, 27-04-2004 in Foro Italiano, anno 2004, parte II, col. 434 secondo cui “La disciplina del D.lgs. 8 giugno 2001 n.231 si applica alle persone giuridiche straniere che operano in Italia, indipendentemente dall’esistenza o meno, nel paese di appartenenza dell’ente, di norme che regolino in modo analogo la medesima materia (nella specie, il giudice ha escluso che l’assenza nella legge tedesca di una norma sui modelli organizzativi aziendali per la prevenzione dei reati esoneri la persona giuridica di quel paese operante in Italia dall’onere di dotarsi di un modello per andare esente da responsabilità amministrativa)”. 35
Cfr. “nuovo pacchetto sicurezza” con riferimento al precedente e non del tutto remoto pacchetto scurezza del 2008, l.92/08,che ha, altresì, inciso
43
Inizialmente nel 2001 il campo di applicazione della normativa
contenuta nel decreto in esame, infatti, indicava quali reati-presupposto
per l’incriminazione diretta di un ente giuridico, quelli previsti in
maniera tassativa e in numero ridotto dagli articoli 24 e 25 dello stesso
decreto, ossia i più noti delitti dolosi commessi ai danni della Pubblica
amministrazione o delle Comunità Europee37
, quali: malversazione a
danno dello Stato o di altro ente pubblico o delle Comunità Europee
(art.316 bis c.p.), indebita percezione di erogazioni pubbliche o
comunitarie (art. 316ter c.p.), corruzione (art. 318 c.p.),concussione (art.
317 c.p.).
sulla disciplina normativa del D.lgs 231/01 determinando un sostanziale aumento della portata applicativa dello stesso; in tal senso Cfr. A. M. MAUGERI, “Dall’actio in rem alla responsabilità da reato delle persone giuridiche: un’unica strategia politico criminale contro l’infiltrazione criminale in economia”,in “AA.VV., Scenari di mafia”, Giappichelli, TO, 2010. 36 Cfr. art. 24 ter comma 1 che stabilisce che «In relazione alla commissione di taluno dei delitti di cui agli art. 416, comma 6, 416 bis, 416 ter, e 630 del codice penale, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal presente art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti dall’art.74 di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 Ottobre 1990, n. 309, si applica la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote»; si vedano anche i commi successivi ed in particolare art. 24 ter comma 4 che chiarisce in maniera perentoria che «se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzata allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nei commi 1 e 2, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dell’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16, comma 3». 37
Cfr. Convenzione di Bruxelles del 26.05.1997 sulla lotta contro la corruzione dei funzionari della Comunità Europea o degli stati membri dell’U.E.; Convenzione OCSE del 17.12.1967 sulla corruzione di pubblici ufficiali stranieri in operazioni economiche internazionali.
44
Successivamente, per effetto di Convenzioni internazionali, sottoscritte
anche dal nostro Paese nell’ambito della lotta a fenomeni di criminalità
organizzata, posti in essere anche con la partecipazione, a vario titolo, di
enti economici, il legislatore ha ampliato la portata applicativa del D.lgs.
231/2001, incrementando l’elenco dei reati addebitabili agli enti.
Lo strumento tecnico-giuridico utilizzato per realizzare l’ampliamento
della portata oggettiva della normativa di cui al D.lgs. 231/2001 è stato
quello della novellazione dell’originario testo dello stesso decreto con
l’introduzione nello stesso di una serie di nuove disposizioni normative
contenenti nuove fattispecie incriminatrici rispetto a quelle
originariamente contenute negli artt. 24 e 25 del decreto stesso.
Con l’introduzione dell’art. 25 bis, in particolare, sono stati introdotti
come reati presupposto i delitti di falsità in monete, in carte di pubblico
credito e valori di bollo, ed in tal modo anche il nostro Paese, in vista
della introduzione dell’Euro, approntava un’adeguata tutela
dell’imminente moneta unica dell’Unione, come richiesto da questa con
la Decisione quadro 29 maggio 2000 (2000/383/GAI) del Consiglio
dell’Unione Europea.
Con l’introduzione dell’art. 25 quater, in attuazione della Convenzione
di New York del 9 dicembre 1999, sono state introdotte fattispecie
incriminatrici finalizzate a perseguire i delitti con finalità di terrorismo e
45
di eversione dell’ordine democratico; con l’art. 25 quater comma 1,
finalizzato a dare attuazione alla Dichiarazione e piattaforma di azione
del 15 settembre 1995 assunta nella quarta Conferenza ONU, sono state
introdotte fattispecie incriminatrici a tutela delle donne e finalizzate a
perseguire le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili; con
l’introduzione dell’art. 25 quinquies, in attuazione della Decisione
quadro del 19 luglio 2002 (2002/629/GAI) del Consiglio dell’Unione
Europea sulla tratta degli esseri umani, sono state introdotte fattispecie
incriminatrici volte a reprimere il fenomeno della tratta di esseri umani;
con l’art. 10 della l.16 marzo 2006 n.146 (di ratifica ed esecuzione della
Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine
organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea Generale il 15
novembre 2000 ed il 31 maggio 2001) è stato per la prima volta definito
il reato transnazionale38
ed è stata configurata una responsabilità
dell’ente per una serie di reati, per lo più di tipo associativo, e altre
forme delittuose di criminalità organizzata (che comprendono
associazione per delinquere, associazione di tipo mafioso, associazione
38 Cfr. art. 3 della legge 146 del 2006 «Ai fini della presente legge si considera reato transnazionale il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni , qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché sia commesso in più di uno Stato, ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato, ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro».
46
per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi e lavorati esteri,
associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e riciclaggio, traffico
di migranti, intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni
mendaci all’autorità giudiziaria, favoreggiamento personale).
Va sottolineato, inoltre che il legislatore, successivamente
all’introduzione dell’originaria disciplina del D.lgs. 231 nel 2001, ha
previsto, altresì, una qualche forma di responsabilità degli enti in
materia di criminalità delle imprese nella gestione societaria e
finanziaria, con l’inserimento dell’art. 25 ter in materia di reati societari
(previsti dagli artt. 2621 e ss. c.c.) e con l’art.25 sexies, per i reati di
abuso di mercato.
Va ricordata, in ultimo e per completezza, la legge 48/2008 (Ratifica ed
esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità
informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, e norme di
adeguamento dell’ordinamento interno) la quale, per effetto dell’art. 12,
introduce la materia della criminalità informatica nel novero delle
fattispecie incriminatrici rilevanti (c.d. reati presupposto) al fine di
configurare una responsabilità da reato degli enti.
Vengono, nello specifico, sanzionati: la falsità in documenti informatici,
l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, la detenzione e
diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici,
47
la diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici
diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o
telematico, l’intercettazione, impedimento o interruzione illecita di
comunicazioni informatiche o telematiche, l’installazione di
apparecchiature atte a intercettare e impedire o interrompere
comunicazioni informatiche o telematiche, il danneggiamento di
informazioni, dati e programmi informatici, il danneggiamento di
informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da
altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità, il danneggiamento di
sistemi informatici o telematici di pubblica utilità, la frode informatica
del soggetto che presta servizi di certificazione di firma elettronica.
Sono degni di nota, altresì, le ipotesi di responsabilità da reato degli enti,
già contemplate nella legge delega 300 del 2000 ma non confluite nel
D.lgs. 231 del 2001, per i delitti colposi contro la persona da infortuni
sul lavoro e contro la pubblica incolumità, nonché i reati ambientali:
solo con la legge 3 agosto 2007 n.123 (che prevede Misure in tema di
tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il
riassetto e la riforma della normativa in materia) il legislatore, infatti ha
introdotto, nel D.lgs. 231/01 l’art 25 septies, fra i reati presupposto di
responsabilità dell’ente anche i reati di Omicidio colposo e lesioni
48
colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme
antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro.
Come è facile prevedere (e in dottrina Marinucci-Dolcini39
sono stati gli
antesignani di tale ipotesi) il numero dei reati c.d. presupposto è
destinato a crescere sulla spinta degli obblighi internazionali che il
nostro Paese sottoscriverà in maniera sempre più frequente al fine di far
fronte al sempre più crescente fenomeno della criminalità transnazionale
(sempre più dilagante nel contesto dei rapporti economici internazionali
dove è facile per le organizzazioni malavitose tentare di servirsi della
sostanziale condizione di immunità derivante dalla scelta politico
criminale di molti Stati, ancora influenzata dal principio societas
delinquere non potest, di non incriminare gli enti, ma soltanto le persone
fisiche che abbiano realizzato reati a favore o vantaggio degli stessi).
E’ da dire che, sul piano del diritto interno, la scelta di introdurre nel
corpo del D.lgs. 231 del 2001, con il recente pacchetto sicurezza, il reato
di criminalità organizzata, va sicuramente analizzata alla luce del
sopramenzionato assunto dottrinario poiché «l’introduzione della
responsabilità degli enti per tale tipologia di reati è stata prevista dal
Piano di Azione contro la criminalità organizzata adottato dal Consiglio
39 MARINUCCI-DOLCINI, “Manuale di diritto penale. Parte Generale”,
II° ed., 2006, p. 127 e ss.
49
il 28 Aprile 1997, la cui raccomandazione n.18 prevede l’introduzione
della responsabilità delle persone giuridiche qualora le stesse siano
coinvolte nell’attività della criminalità organizzata»40
. (sull’ analisi delle
novità di detta novella legislativa, ed in particolare sul delicato rapporto
tra la disciplina di cui al D.lgs. 231/2001 - nata per far fronte alla
criminalità d’impresa e non alla criminalità organizzata tout court – e
l’utilizzo della stessa per far fronte alla criminalità organizzata ed in
particolare al grave fenomeno dell’infiltrazione criminale nell’economia,
si veda infra Cap. IV).
40
ANNA MARIA MAUGERI, op. cit p.274; nello stesso senso si veda la Convenzione delle Nazioni Unite di Palermo del 2000 contro il crimine organizzato transnazionale, nella quale si stabilisce che deve essere perseguita dalle leggi nazionali la persona giuridica che partecipa alla consumazione di gravi reati di criminalità organizzata o di reati previsti nella Convenzione (la responsabilità in questione può esser civile, penale o amministrativa); nello stesso senso la Decisione quadro 2008/841/GAI relativa alla lotta contro la criminalità organizzata impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili dei reati relativi alla partecipazione ad un’organizzazione criminale (art.5).
50
CAPITOLO II
La responsabilità amministrativa “da reato “degli enti ex
D.lgs 231/2001: profili sostanziali e struttura dell’illecito.
2.1 Struttura dell’illecito fondante una responsabilità
amministrativa “da reato”.
La commissione di un reato, tra quelli decritti in maniera tassativa negli
artt. 24 e ss. del D.lgs. 231 del 2001, definito “reato presupposto”, da
parte di uno dei soggetti appartenenti all’organigramma dell’ente e
“qualificati” all’art. 5 (c.d. ambito oggettivo di applicazione della
normativa, vedi supra Cap. I, Par. 1.3.2), non è di per sé sufficiente ad
integrare una responsabilità “da reato” di un ente, rientrante tra quelli
espressamente previsti in maniera tassativa all’art. 1 del medesimo
decreto (c.d. ambito soggettivo di applicazione della normativa, vedi
supra Cap. I, Par. 1.3.2).
51
E ciò, in particolare, perché dal punto di vista strutturale, la fattispecie
dell’illecito amministrativo “da reato” ascrivibile agli enti, si connota
come tipica fattispecie a struttura complessa41
, necessitante, ai fini della
riferibilità oggettiva all’ente del fatto delittuoso, commesso dalla
persona fisica, dell’integrazione di ulteriori elementi costitutivi di
fattispecie, ovvero a) la realizzazione del medesimo reato nell’interesse
o a vantaggio dell’ente ex art. 5, c. 1, del D.lgs. 231/2001 e b) la
necessaria realizzazione del reato “presupposto” da parte di soggetti
qualificati (entrambi costituenti il c.d. criterio oggettivo di
imputazione del fatto all’ente), ed, ai fini della riferibilità soggettiva,
della sussistenza di una peculiare colpevolezza dell’ente, ovvero la colpa
di organizzazione o dolo d’impresa (c.d. criteri soggettivi di
imputazione dell’illecito all’ente).
La scelta del legislatore di configurare, come reato a fattispecie
complessa, l’illecito fondante una responsabilità amministrativa “da
reato” degli enti ex D.lgs. 231/01, verosimilmente, è stata dettata
dall’intento di «soddisfare una duplice esigenza: sanzionare
efficacemente l’ente promuovendo al suo interno una cultura della
legalità; concepire un sistema che fosse in grado di esprimere
41
Cfr. N. D’ANGELO, “Responsabilità penale di enti e persone giuridiche”, Rimini, 2008, p.87.
52
l’adesione dell’ente collettivo all’illecito sul piano empirico e
soggettivo»42
.
Il legislatore del 2001, infatti, ha stabilito all’art. 843
dello D.lgs. 231,
l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto alla responsabilità
dell’autore materiale del “reato presupposto”: conseguenza di tale scelta
è che il cumulo delle due responsabilità potrebbe essere solo eventuale
(è eventuale, infatti, e «deve escludersi la responsabilità dell’ente, pur
qualora questo riceva comunque un vantaggio dalla condotta illecita
posta in essere dalla persona fisica, laddove risulti che il reo ha agito
nell’interesse esclusivo proprio o di terzi» ex art 5, comma 2, del
decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231).
Anche la giurisprudenza di legittimità44
, nell’esercizio della funzione di
nomofilachia che le è propria, con riferimento alla struttura dell’illecito
fondante una responsabilità amministrativa da reato dell’ente, ha chiarito
che «la responsabilità dell’ente ha una sua autonomia, tanto che sussiste
anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è
imputabile, è imprescindibile il suo collegamento all’oggettiva
42
Cfr. A. FIORELLA, “Responsabilità da reato degli enti collettivi”, in “Dizionario di Diritto Pubblico”, a cura di S. CASSESE, Milano, 2006, p.5102. . 43
Cfr. Le ipotesi in cui si configura la responsabilità dell’ente in modo autonomo rispetto a quella dell’autore del reato presupposto sono: quando l’autore del reato non è stato identificato (art. 8 lett. a, pt. I), quando l’autore del reato non è imputabile (art. 8 lett. a, pt. II) quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia (art. 8 lett. b). 44 Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 27.03.08, n.26654.
53
realizzazione del reato, integro in tutti gli elementi strutturali che ne
fondano lo specifico disvalore».
Ciò premesso si procederà, nel proseguo della trattazione, ad un’analisi
dei tratti salienti della struttura dell’illecito fondante una responsabilità
“da reato” degli enti, ed in particolare all’analisi a) del criterio di
imputazione oggettivo del fatto illecito, realizzato da una persona fisica,
all’ente e b) del criterio di imputazione soggettivo dello stesso fatto
illecito all’ente.
54
2.2 I criteri oggettivi di imputazione della responsabilità all’ente:
a) reato commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente” da
b) “qualificati soggetti attivi” realizzanti la condotta
delittuosa.
Un reato, tra quelli tassativamente previsti ed elencati dalla legge (negli
artt. 24 e ss. D.lgs. 231/01) può essere direttamente imputato all’ente
allorquando, come espressamente statuito dall’articolo 5 comma 1 del
D.lgs. 231/01, è commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente
medesimo (solo se l’autore del reato ha agito nell’interesse esclusivo,
proprio o di terzi, la responsabilità dell’ente è esclusa ex art. 5, comma
2, 45
) ed è commesso da qualificati soggetti (ovvero quelli descritti
all’art. 1 del D.lgs. 231 del 2001).
In sintesi, affinché si possa addebitare direttamente il fatto illecito
all’ente, è necessario, dal punto di vista oggettivo della condotta, che la
45
Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 2 ottobre 2006, n. 32627, in “Guida al Diritto”, nr. 42 del 04/11/2006, pag. 69, secondo cui «in materia di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, deve escludersi la responsabilità dell’ente, pur qualora questo riceva comunque un vantaggio dalla condotta illecita posta in essere dalla persona fisica, laddove risulti che il reo ha agito «nell’interesse esclusivo proprio o di terzi» (articolo 5, comma 2, del Decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231): in tale evenienza, infatti, si tratterebbe di un vantaggio fortuito, come tale non attribuibile alla volontà dell’ente».
55
persona fisica, dipendente o soggetto apicale nella struttura
organizzativa dello stesso ente collettivo, realizzi materialmente la
condotta illecita nella consapevolezza di determinare un vantaggio o un
interesse per l’ente stesso.
L’interesse o vantaggio per l’ente, connesso alla condotta illecita della
persona fisica che realizza il reato presupposto, e la titolarità di una
particolare qualifica soggettiva, di dipendente o quadro dell’ente
medesimo, sono, in particolare, i c.d. criteri oggettivi di imputazione
diretta del fatto illecito all’ente.
In dottrina46
, limitatamente al primo criterio oggettivo di imputazione
diretta del fatto illecito all’ente, è stato chiarito che l’ interesse dell’ente
e il vantaggio per l’ente, pur se apparentemente sinonimici, individuano
in realtà due accezioni nell’ambito delle quali si fanno ricondurre
diverse ipotesi fattuali.
In tal senso è stato osservato47
che «il rapporto qualificato tra autore del
fatto ed ente non è sufficiente a fondare la responsabilità della societas,
essendo necessario l’interesse o il vantaggio dell’ente, nonché la
46 Cfr. N. SELVAGGI, “L’interesse dell’ente collettivo quale criterio di iscrizione della responsabilità da reato”, Napoli, 2006; A. ASTROLOGO, “Brevi note sull’interesse ed il vantaggio nel D.lgs. 231 del 2001”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, 2006, I, p.187. 47
Cfr. N. PISANO, “Struttura dell’illecito e criteri di imputazione”, in A.A. V.V., “Trattato di diritto penale dell’impresa”, CEDAM 2009, pagg. 95-96.
56
mancata previsione ed attuazione dei modelli organizzativi e di altri
requisiti previsti dagli artt. 6 e 7, alternativamente applicabili ai casi in
cui l’illecito penale sia commesso da un soggetto apicale, ovvero da
sottoposti all’altrui direzione o vigilanza».
L’interesse, infatti, sebbene abbia natura oggettiva (in quanto
caratterizza la condotta materiale della persona fisica che agisce per
l’ente), afferisce alla sfera volitiva del singolo autore della condotta; si
realizza l’ interesse per l’ente, in particolare, in tutti quei casi in cui la
persona fisica che agisce per un proprio interesse, sia altresì consapevole
di perseguire un interesse dell’organizzazione di cui è parte, sebbene
indirettamente.
La sussistenza di un interesse per l’ente nella condotta illecita di una
persona fisica, inoltre, potrà essere accertata, in sede processuale, sulla
base di un giudizio prognostico ovvero ex ante (ponendosi nell’ottica del
soggetto agente nel momento in cui si accinge alla commissione del
reato c.d. “presupposto”).
Anche il requisito del vantaggio per l’ente, che connota il risultato della
condotta illecita realizzata della persona fisica agente per l’ente
medesimo, presenta i caratteri dell’oggettività (poiché anch’esso
caratterizza la condotta materiale della persona fisica che agisce per
l’ente): il soggetto, infatti, che agisce nel proprio personale interesse,
57
determinando indirettamente un vantaggio per la persona giuridica,
realizza, anche in tale ipotesi, una condizione oggettiva di riferibilità
diretta del fatto illecito all’ente.
In tal caso, però, afferendo il vantaggio al risultato della condotta
illecita, e non al fine (come nel caso della condotta realizzata
nell’interesse dell’ente), lo stesso deve essere accertato
processualmente, sulla base di un giudizio postumo, ovvero ex post.
L’interesse ed il vantaggio, quindi, pur avendo entrambi natura
oggettiva, sono tra loro concettualmente indipendenti, dovendosi
verificare l’uno, attraverso una valutazione ex ante, l’altro ex post.
A questo proposito va ricordato che la giurisprudenza della Suprema
Corte di Cassazione48
ha osservato che «in tema di responsabilità da
reato delle persone giuridiche e delle società, l’espressione normativa,
con cui se ne individua il presupposto nella commissione dei reati «nel
suo interesse o a suo vantaggio», non contiene un’endiadi, perché i
termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi
distinguere un interesse «a monte» per effetto di un indebito
arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza
dell’illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la
48 Cfr Cass. Pen., Sez. II, 20 Dicembre 2005, D’Azzo.
58
commissione del reato, seppure non prospettato «ex ante», sicché
l’interesse, ed il vantaggio sono in concorso reale».
E’ stato, comunque, sostenuto in dottrina49
che, nell’accertamento dei
suddetti elementi qualificanti la condotta illecita della persona fisica, in
sede di prassi applicativa giudiziaria del D.lgs. 231/01 non si deve
valorizzare oltremodo l’interesse personale dell’’artefice materiale del
reato, pena l’ erronea “soggettivizzazione” del requisito dell’ interesse
per l’ente, «perdendosi così la sua specifica funzione di raccordo
funzionale– oggettivo fra reato commesso e operato dell’ente».
Limitatamente al secondo criterio oggettivo di imputazione diretta del
fatto illecito all’ente, ovvero la realizzazione del reato c.d.
“presupposto” da parte di uno dei soggetti “qualificati” (da questo punto
di vista i delitti fondanti una responsabilità amministrativa “da reato”
degli enti sono veri e propri delitti propri), l’articolo 5, comma 1, del
D.lgs. in esame individua due categorie di soggetti, che sono tipicizzati
dalla stessa disposizione, sulla base di un criterio di tipo “funzionale-
49
Cfr. F. GIUNTA, “La punizione degli enti collettivi: una novità attesa”, in “Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità”, di C. PECORELLA, AA.VV., “La responsabilità amministrativa degli enti”, Milano, 2002.
59
oggettivo”50
, comprovato dalla scelta legislativa di parificare i soggetti
in posizione apicale di fatto a quelli in posizione apicale di diritto.
Nella prima categoria, infatti, rientrano i c.d. vertici dell’ente, ossia
coloro che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o
direzione o esercitano anche di fatto la funzione di gestione o controllore
dello stesso (c.d. soggetti in posizione apicale); nella seconda, invece,
rientrano le persone sottoposte alla direzione o vigilanza di un soggetto
che occupa una posizione apicale (c.d. sottoposti).
Nell’elencare i soggetti la cui condotta delittuosa è in grado di
configurare una responsabilità “da reato” degli enti, il legislatore si è
servito della nota teoria dell’immedesimazione organica, caposaldo del
diritto commerciale, in virtù della quale se è possibile attribuire al
soggetto collettivo l’agire lecito dei propri dirigenti, amministratori e
finanche dei semplici dipendenti (considerati organi dell’ente collettivo),
allora sarà possibile, anzi dovuto, sotto il profilo della coerenza
dell’ordinamento giuridico51
, attribuire allo stesso i reati commessi dai
suddetti organi nell’adempimento delle attività “a vantaggio e
nell’interesse degli enti” medesimi.
50
Cfr. O. DI GIOVANE, "Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo”, in AA. VV., “Reati e responsabilità”, a cura di LATTANZI, Milano, 2005. 51
Cfr. PULITANO’, “Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche”, in “Enc. Dir, Milano”, agg. 2000, p. 956.
60
E’ stato sostenuto52
, tra l’altro, che, se non fosse stata accolta la
riferibilità diretta all’ente delle conseguenze giuridiche “da reato”
servendosi della teoria dell’immedesimazione organica, si sarebbe
creato un controsenso normativo fonte di un ingiustificato privilegio per
gli enti che, da un lato, sarebbero stati riconosciuti come i protagonisti
del sistema giuridico ed economico e, dall’altro, avrebbero goduto di
una irragionevole zona di immunità dal diritto penale.
E' stato affermato53
, altresì, che l’esistenza di un collegamento rilevante
tra individuo e persona giuridica, garantito dalla appartenenza organica
della persona fisica nell’organigramma dell’ente stesso, consente di
individuare l’organizzazione (e la relativa struttura organizzativa) come
protagonista di tutte le vicende e i rischi connessi all’attività dello stesso
ente.
52
Cfr. PULITANO’, ”Responsabilità amministrativa”, cit., p. 956. ALESSANDRI, “Note penalistiche sulla nuova responsabilità penale delle persone giuridiche”, in “Riv. Trim. dir. Pen”.,2002, p. 43; BRICOLA, “Il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del fenomeno societario”, in “Riv. It. Dir. Proc. Pen”., 1970, p. 956 ss. Contra, GROSSO, voce “Responsabilità penale”, op. cit., p.712, secondo il quale l’attribuzione diretta dell’illecito alla persona giuridica esenterebbe la persona fisica dalla punibilità per ciò che ha materialmente commesso, PADOVANI, “Il nome dei principi e il principio dei nomi. La responsabilità “amministrativa”delle persone giuridiche”, in “La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia punitiva”, a cura di De Francesco, Torino, 2001, p.17 s. secondo il quale le conseguenze penali di un illecito commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente non possono che investire la persona fisica autrice della violazione. 53
Cfr. A. NISCO, “Responsabilità amministrativa degli enti: riflessioni sui criteri ascrittivi “soggettivi” e sul nuovo assetto delle posizioni di garanzia della società”, in “Riv.Trim .Dir. Pen. Ec”., 2004, p. 293; G. DE VERO, “La responsabilità diretta ex crimine degli enti collettivi: modelli sanzionatori e modelli strutturali”, in “Leg. Pen.”, 2003, p. 363.
61
La teoria dell’immedesimazione organica ha consentito, quindi, di
superare le originarie resistenze, connesse ai principi della responsabilità
penale personale ex art. 27 Cost. e del societas delinquere non potest,
all’introduzione di una responsabilità “da reato” degli enti «giacché -
come icasticamente si esprime la relazione allo schema definitivo del
Decreto Legislativo 231del 2001 - “se gli effetti civili degli atti compiuti
dall’organo si imputano direttamente alla società, non si vede perché
altrettanto non possa accadere per le conseguenze del reato, siano esse
penali o – come nel caso del D.lgs. – amministrative”»54
.
E’ da dire, comunque, che, anche senza fare ricorso alla teoria
dell’immedesimazione organica è possibile affermare, servendosi dei
moderni studi in tema di organizzazione aziendale, che la diretta
responsabilità dell’ente “da reato” nasce dalla costatazione che l’azienda
è un organismo vitale le cui decisioni costituiscono il frutto della
volontà dell’ente o non già dei singoli autori55
.
54
Cfr. C. SANTORIELLO, “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, 2007, I, p. 10. 55
Cfr. BASTIA, “Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa delle aziende”, in “Societas puniri potest.La responsabilità da reato degli enti collettivi”, in “Atti del Convegno di Firenze (15-16 Marzo 2002)”, a cura diPALAZZO, Padova, 2003, p. 35.
62
3. I criteri soggettivi di imputazione della responsabilità all’ente:
a) colpa d’organizzazione, e b) politica criminale d’impresa.
Affinché un fatto illecito si possa addebitare direttamente all’ente, dal
punto di vista soggettivo, non è sufficiente che la persona fisica,
dipendente o soggetto apicale nella struttura organizzativa dello stesso
ente collettivo, realizzi materialmente la condotta illecita nella
consapevolezza di determinare un vantaggio o un interesse per l’ente
stesso, ma «occorre pur sempre uno specifico legame fra il reato
commesso ed il comportamento (rectius, il difetto gestionale)
dell’ente»56
.
E’ necessario, quindi, accertare la riferibilità soggettiva del fatto illecito
(materialmente realizzato dalla persona fisica, dipendente o quadro
dell’ente) all’ente, ovvero, in ossequio al principio personalistico della
responsabilità penale, un atteggiamento colpevole dell’ente57
.
56
Cfr. O DI GIOVANE, op. cit. ,p.79. 57
Sulla possibilità di configurare una colpa in capo ad una persona giuridica, cfr. C. PALIERO– C. PIERGALLINI, “La colpa di organizzazione”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, 2006, 3, p.167.; cfr. F. VIGNOLI, “La responsabilità “da reato”dell’ente collettivo fra rischio d’impresa e colpevolezza”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, 2006, 6, p.103.
63
Il criterio base di imputazione soggettiva all’ente della responsabilità
per i reati commessi, tanto da soggetti in posizione apicale quanto da
soggetti sottoposti ai primi, è la rimproverabilità all’ente, di una colpa
di organizzazione.
Questa, in particolare, deve essere intesa quale mancata adozione o
inefficace attuazione di un modello di organizzazione (c.d. compliance
programms58
) e di gestione idoneo a prevenire reati, ovvero nel mancato
affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza
dei compliance programms a un organismo dell’ente dotato di
autonomi poteri di iniziativa e di controllo.
58
Per quanto riguarda il contenuto, i modelli di organizzazione debbono, conformemente a quanto stabilito dal legislatore agli articoli 6, comma 2, e 7, comma 4, del decreto in esame, rispondere alle seguenti esigenze: individuare le attività dell’ente nell’ambito delle quali possono essere commessi reati; prevedere protocolli idonei a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire; individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee a impedire la commissione dei reati; prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo di vigilanza in merito all’osservanza dei modelli o garantire una verifica periodica (con la possibilità di eventuali modifiche del modello) quando siano accertate significative violazioni delle prescrizioni contenute nel modello; introdurre sanzioni disciplinari per il mancato rispetto delle direttive indicate nei modelli. L’adozione dei modelli di organizzazione, inoltre, assume finalità ultronee ai sensi della disciplina del D.lgs. 231 del 2001: la loro efficace adozione funziona da criterio di esclusione della responsabilità dell’ente ex artt. 6 e 7; funge da criterio di riduzione della pena e consente, in presenza di altre condizioni normative, la non applicazione delle sanzioni interdittive ex art. 12; consente la sospensione della misura cautelare interdittiva emessa nei confronti dell’ente ex art. 49. Per quanto riguarda la natura giuridica dei modelli di organizzazione è da ritenere, conformemente a quanto sottolinea la relazione governativa, che questi possano essere ricondotti alla categoria delle c.d. scusanti e cioè delle cause di esclusione della colpevolezza.
64
Tra i modelli di organizzazione, acquistano particolare rilevanza i codici
di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e
comunicati al Ministero della Giustizia ex art. 6 comma 3 dello stesso
D.lgs. 231/01; ciò perché uno schema organizzativo conforme ai codici
di comportamento predetti, avallati dal ministero della Giustizia,
dovrebbe assumere, agli occhi di un giudice che ne debba valutare
processualmente l’idoneità a prevenire reati, un valore decisivo ai fini
della dichiarazione di irresponsabilità dell’ente.
L’art. 6 del decreto in esame prevede il nucleo essenziale della
disciplina normativa sull’elemento soggettivo degli illeciti “da reato”;
ed, infatti, lo stesso prevede un regime differenziato in materia di prova
della colpa di organizzazione in quanto, sulla base della distinzione fra
le ipotesi in cui il reato sia commesso da soggetti in posizione apicale e
le ipotesi in cui il reato sia commesso da soggetti sottoposti alla
direzione o vigilanza dei primi, stabilisce che se il reato è commesso da
un quadro o soggetto apicale nella struttura organizzativa dell’ente
l’onere di provare l’irresponsabilità dell’ente grava sullo stesso59
, mentre
nel caso in cui è commesso da un dipendente sarà la pubblica accusa a
dovere dimostrare la colpa di organizzazione.
59 Cfr. art. 6, rubricato “Soggetti in posizione apicale e modelli di organizzazione dell'ente” che stabilisce che nel caso di reati commessi da soggetti in posizione apicale l’onere di provare la mancanza di una colpa di organizzazione grava sull’ente che deve provare, tra l’altro e soprattutto l’elusione fraudolenta dei modelli preventivi.
65
L’ente, infatti, nel primo caso non risponde dell’illecito “da reato”se
riesce a dimostrare l’efficace adozione e attuazione di modelli di
organizzazione idonei a prevenire reati della specie di quello
verificatosi, ovvero l’affidamento a un organismo interno all’ente di
compiti di vigilanza sull’osservanza dei suddetti modelli nonché di
autonomi poteri di iniziativa e di controllo, ovvero la realizzazione del
reato da parte di soggetti che hanno fraudolentemente eluso i modelli di
organizzazione e di gestione, od anche l’omessa e insufficiente vigilanza
da parte dell’organismo di vigilanza e di controllo regolarmente
costituito, mentre, nel secondo caso sarà responsabile ai sensi della
disciplina di cui al D.lgs. 231/01 se l’accusa dimostra che il reato è stata
reso possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
La colpa di organizzazione è il criterio minimo sul quale si fonda la
responsabilità “da reato” dell’ente, nel senso che è sufficiente la colpa
d’organizzazione a fondare una responsabilità “da reato” di un ente, in
quanto il reato commesso dalla persona fisica (sempre o dipendente o
quadro che agisce a vantaggio o nell’interesse dell’ente), può essere,
altresì, espressione di una politica criminale d’impresa (ovvero di una
politica societaria finalizzata alla realizzazione di reati): in tal caso la
responsabilità troverà il suo fondamento in una sorta di dolo dell’ente.
66
Lo stesso D.lgs. 231/01, al riguardo, prevede espressamente questa
forma di responsabilità per ipotesi tassative di illeciti, come per i delitti
con finalità di terrorismo o di eversione ex art. 25 quater comma 3,
ovvero per il delitto di pratiche di mutilazione di organi genitali
femminili ex. art. 25 comma quater, ovvero per le ipotesi delittuose di
associazione per delinquere con carattere transnazionale, indicate
nell’articolo 10, c.2, l. 16 marzo 2006, n. 146 ed oggi, a seguito del novo
pacchetto sicurezza60
l. 94/09, anche per il delitto di criminalità
organizzata nazionale ex. art.24 ter (si veda infra Cap. IV°).
In tutti i casi in cui la legge, ai fini dell’integrazione di una
responsabilità “da reato” di un ente richiede quale elemento soggettivo
la sussistenza di una politica criminale d’impresa, la sanzione
comminata è l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività, ai sensi
dell’articolo 16, comma 3, del D.lgs. n.231 del 2001, ovvero lo
scioglimento dell’ente.
L’articolo 16, comma 3, inoltre, nel prevedere parimenti «l’interdizione
definitiva dall’esercizio dell’attività» anche quando «l’ente o una sua
unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o
prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati», detta una
60 L’art. 2, comma 29, della l. 94/09 ha introdotto, infatti, la responsabilità “da reato” degli enti per delitti di criminalità organizzata, inserendo l’art. 24 ter nel D.lgs. 8 giugno 2001, n.231.
67
regola di chiusura, ovvero stabilisce che per tutte le ipotesi in cui l’ente
svolga intenzionalmente un’attività illecita, frutto di una politica
d’impresa illecita ben definita, lo stesso sarà sanzionato con la forzosa
dissoluzione ex lege, a prescindere dalla circostanza che il reato
realizzato nell’interesse o a vantaggio dell’ente non sia sanzionato con
detta misura.
68
CAPITOLO III
Sistema sanzionatorio e cautelare previsto dal D.lgs.
231/2001. Novità legislative apportate dal nuovo Pacchetto
Sicurezza, l. 94/09.
3.1 Natura e struttura del sistema sanzionatorio previsto dal
D.lgs. 231 del 2001.
La sezione II° del decreto del D.lgs. 231 del 2001 (dall'art. 9 all'art. 23)
prevede una dettagliata descrizione delle sanzioni volte a reprimere la
responsabilità “da reato” degli enti.
La reazione del nostro ordinamento giuridico alla violazione dei
precetti61
imposti agli enti collettivi dalla normativa di cui al D.lgs. 231
del 2001 è garantita dalla presenza, nello stesso testo di legge, di un
61
Sulla funzione retributiva e preventiva, sia di tipo speciale che generale, della sanzione amministrativa cfr. A. TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, p.15 e ss.; P. CERBO, Le sanzioni amministrativa, in Trattato di diritto amministrativo, Milano, 1999, p.580; F. ANTOLISEI, in L’offesa e il danno da reato, Milano, 1930, in Sulla scuola del diritto italiano, a cura di F. MERCADANTE, Milano, 2001, p.32.
69
sistema sanzionatorio definito, dallo stesso legislatore del 2001,
“amministrativo”62
.
La struttura di detto sistema è plurigenetica63
, poiché prevede sanzioni
provenienti da sistemi diversi (dal sistema penale e dal sistema
amministrativo), la cui irrogazione è pur sempre subordinata al rispetto
del principio di legalità64
, caratterizzante sia il sistema penale che
amministrativo65
, e dei relativi corollari (tassatività, riserva di legge,
irretroattività, ultrattività della legge più favorevole e retroattività della
legge di favore).
E’ da dire che, sebbene il legislatore abbia nominalmente etichettato le
sanzioni in esame in termini di sanzioni amministrative, vi è un filone
62
In tal senso la rubrica dell’art. 9 del D.lgs. 231/2001 definisce le sanzioni ivi previste, come “sanzioni amministrative”. 63
L’espressione è stata coniata da C. DE MAGLIE, “L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società”, Milano, 2002, p.35, per chiarire che le misure sanzionatorie ivi previste formano un sistema sanzionatorio misto, avente tre finalità: prevenire, punire e risarcire. 64
L’art. 2 del D.lgs. 231 del 2001, infatti, stabilisce che «l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto», mentre l’art. 3 dello stesso decreto prevede che: «comma 1: l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’ente, e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti giuridici; comma 2: se la legge del tempo in cui è stato commesso l’illecito e le successive sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile; comma 3: le disposizioni dei commi 1 e 2 non si applicano se si tratta di leggi eccezionali o temporanee». 65
Sulla differente valenza del principio di legalità nel sistema penale ed in quello amministrativo, cfr. P. CERBO, “Le sanzioni amministrative”, op. cit., p.593 e ss.
70
dottrinario66
che propende per qualificarle come “penali”, sostenendo
che diverse ragioni giuridiche comproverebbero detta conclusione; ed in
particolare, tale parte della dommatica sostiene che la natura penale tout
court di dette sanzioni sarebbe comprovata dalla sussistenza di una
competenza del PM ad effettuare la contestazione dell’illecito, fondante
una responsabilità “da reato” ex D.lgs. 231/01, ovvero dalla circostanza
che dette sanzioni vengano irrogate nel corso di un processo penale
(concretizzando un simultaneus processus con il processo nel quale
verrà accertata la responsabilità personale dell'autore che ha posto in
essere il reato presupposto), ovvero dalla circostanza che il
procedimento per l’irrogazione delle stesse sia quasi integralmente
sottoposto alle regole processuali penali.
A favore della natura amministrativa del sistema sanzionatorio delineato
nella sezione seconda del D.lgs. 231 del 2001, al contrario, altra parte
della dottrina67
sostiene l’assoluta incompatibilità di una responsabilità
penale tout court delle persone giuridiche, in ossequio al principio
personalistico della responsabilità penale personale ex art. 27 Cost.,
66
Cfr. E. MUSCO, “Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive”, op. cit, p.8; F.C.PALAZZO, “Associazioni illecite e illeciti di associazione”, in “Riv. It. Dir. proc. Pen”, 1976, p.441; E. DOLCINI, “Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio”, in “Riv. It. Dir. proc. Pen”, 1999, p.23 e ss. 67
Cfr. M. GUERNELLI, “La responsabilità delle persone giuridiche nel diritto penale-amministrativo dopo il D.lgs. 231 del 2001”, in “Studium iuris”, 2002, p.290; P. CERBO, “Le sanzioni amministrative”, op. cit., p. 593 e ss.; A. TRAVI, “La sanzione amministrativa. Profili sistematici”, op. cit., p.15 e ss.
71
tenuto conto, altresì, che la competenza del Pubblico Ministero non
riguarda soltanto il potere di effettuare la contestazione, tipica
espressione dell’esercizio dell’azione penale, bensì anche il potere di
disporre l’archiviazione ove ne sussistano le condizioni, potere che nel
sistema penale è esclusivo appannaggio dell’organo giudicante (GIP);
od anche in considerazione che l’irrogazione della sanzione nei
confronti dell’ente, nell’ambito del processo penale, è dovuta non alla
natura della stessa, bensì alla operatività del principio dell’unicità del
processo, per il quale la responsabilità degli enti “da reato”sarà fatta
valere nella stessa sede in cui verrà accertata la sussistenza del reato
presupposto.
Secondo altri, in aderenza alla soluzione della querelle avente ad oggetto
la natura della responsabilità “da reato” degli enti (si veda Cap. I. par
3), la qualificazione delle sanzioni previste dal D.lgs. 231/01 ha una
rilevanza pratica secondaria, essendo organica e completa la sezione
seconda del D.lgs. 231 del 2001, ed in quanto tale non necessitante di
riferimenti ad altri ambiti o settori normativi68
.
Tale impostazione, tra l’altro, trova un’autorevole conferma in quella
parte della dottrina69
che sostiene la natura di tertium genus della
68
Cfr. PULITANO’, in “Riv. It. Dir. Proc. Pen”, 2002, p.417. 69
Cfr. DE VERO, “Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato”, in “Rivista Italiana di diritto e Procedura
72
responsabilità introdotta dal D.lgs. n.231 del 2001, ovvero una
responsabilità che si basa su un sistema giuridico, anche sanzionatorio,
che cercherà di far convivere «i tratti essenziali del diritto penale, e di
quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni
dell’efficacia preventiva, con quelle, ancora più ineludibili, della
massima garanzia»70
.
L’apparato sanzionatorio (art.9) prevede, infatti, quale sanzione
fondamentale quella pecuniaria, che si applica attraverso un sistema per
quote71
, alla quale si aggiunge una serie di sanzioni interdittive72
,
collocate su una scala di afflittività crescente (interdizione dall’esercizio
Penale”, 2001, p.1167 , il quale parla di tertium genus di responsabilità riconducibile a quello che lo stesso autore definisce “terzo binario del diritto penale criminale”(da affiancare ai due tradizionali binari connessi a pene e misure di sicurezza); SCAROINA, “Societas delinquere non potest. Il Gruppo di imprese”, Milano, 2006; DE VERO, “La responsabilità penale delle persone giuridiche”, Milano, 2008; PELISSERO in ANTOLISEI, “Manuale di diritto penale. Leggi complementari”, Vol. I, p.933 e ss.; ZANOTTI, “Il nuovo diritto penale dell’economia”, Milano, 2008, p.47. 70
Si veda il par. 1.1 della Relazione ministeriale al testo del D.lgs. 231 del 2001. 71
La sanzione pecuniaria, ex artt. 10 e 11 D.lgs. 231/01, è commisurata secondo lo schema delle quote il cui numero, in concreto, viene determinato dal giudice tenuto conto della gravità del reato presupposto, del grado di responsabilità dell’ente, dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze dell’illecito e per prevenirne la reiterazione. 72
Le sanzioni interdittive sono di vario tipo (interdizione dall’esercizio della attività; sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o revoca di quelli concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi) e si dividono in due categorie: temporanee e definitive (interdizione definitiva dall’esercizio della attività ovvero divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione o nel divieto di pubblicizzare beni o servizi). La scelta del tipo di sanzione da applicare (art. 14) è operata dal giudice sulla base degli stessi criteri (gravità del reato presupposto, grado di responsabilità dell’ente ecc.) più sopra indicati ai fini della determinazione del numero delle quote in relazione alla pena pecuniaria.
73
dell’attività, sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze e
concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; divieto di
contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere la
prestazione di un pubblico servizio; esclusione da agevolazioni,
finanziamenti, contributi o sussidi funzionali alla commissione
dell’illecito; divieto di pubblicizzare beni o servizi), nonché la
confisca73
, configurata alla stregua di una sanzione principale.
La finalità dell’intero sistema sanzionatorio74
(ma in realtà dell’intera
disciplina introdotta dal D.lgs. n.231 del 2001) in esame , per come si
evince dalla Relazione Ministeriale sopramenzionata, è precipuamente
preventiva sebbene, nell’ordinamento giuridico vigente, la pena tout
court non abbia un carattere rigidamente unitario e rappresenti «un
73
La confisca del prezzo o del profitto del reato, ex art. 19 D.lgs. 231 del 2001, è disposta sempre con la sentenza di condanna, salvi i diritti dei terzi in buona fede. Quando non è possibile aggredire il profitto o il prezzo, la confisca avrà per oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore pari al prezzo o al profitto del reato (c.d. confisca per equivalente). 74
Si noti, infatti, che l'intera disciplina di cui al D.lgs. 231 del 2001 ed, in particolare, l'impianto sanzionatorio ivi previsto tende a “recuperare” un ente la cui attività illecita non sia espressione di un utilizzo “criminale” dell'ente (ovvero di un utilizzo strumentale dell'ente finalizzato ad attuare una politica criminale tout court in conseguenza dei benefici connessi all'irresponsabilità penale della persona giuridica), bensì sia l'espressione di un'attività “viziata” dalla commissione di taluni illeciti; al riguardo sulla differenza tra presupposti applicativi delle misure di prevenzione, ex legge 646 del 1982, ad enti criminali e applicazione delle misure sanzionatorie e cautelari di cui alla disciplina del D.lgs. 231/01 ad enti non criminali, ma dediti ad attività illecite, differenza dovuta alla diversa invasività delle misure sanzionatorie previste nelle due diverse normative, si veda CAP. III, ed in particolare le relazioni del Seminario di studi di giorni 19-20 Novembre 2010 tenuto presso la Corte d'Appello di Palermo dal titolo “Strumenti di prevenzione della criminalità d’impresa e della criminalità mafiosa”- Dalla responsabilità degli enti ai protocolli di legalità”.
74
mixtum compositum, nel quale l’idea dell’emenda del reo ha una
influenza considerevole accanto al concetto centrale del corrispettivo»75
.
75
Cfr. F. ANTOLISEI, “Manuale di Diritto Penale, Parte generale”, Milano, 2003, p.699; G. FIANDACA-E. MUSCO, “Diritto Penale, Parte Generale”,Bologna, 2007, p.714. Le teorie sulla funzione della pena si caratterizzano in tre categorie: la teoria retributiva, quella che attribuisce alla sanzione una funzione di intimidazione, e quella che coglie nelle sanzioni una finalità di emenda. Per le teorie sulla funzione retributiva della pena, in ossequio alla celebre definizione di GROZIO, malum passionis quod infligitur ob malum actionis, il reo che ha violato un comando dell’ordine giuridico merita un castigo e deve essere punito, nello stesso senso cfr. F. BRICOLA, “Teoria generale del reato”, in “Nuovissimo Digesto Italiano”,Torino, 1974, p.82 e ss. Le teorie sulla funzione di intimidazione della pena affermano che l’efficacia intimidatoria che inerisce la pena determina una funzione generalpreventiva, cfr. F. STELLA, “Il problema della prevenzione in Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati”, Milano, 1982, p 67 e ss., ovvero specialpreventiva, cfr K. GROLMAN, “Grundsatre der Criminal rechtowissenschaft”, 1798. Le teorie dell’emenda, invece, assegnano alla pena la funzione di procurare il ravvedimento del reo nell’ambito di un percorso rieducativo ex art. 27 comma 3 Cost., cfr. M. ROMANO, “Prevenzione e prospettive di riforma”, in “Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati”, Milano, 1980, p.164 e ss.
75
3.2. Natura e struttura del sistema cautelare previsto dal D.lgs.
n.231 del 2001.
La finalità precipuamente preventiva dell' apparato sanzionatorio
configurato dal D.lgs. 231 del 2001 (previsto nella sezione II dello
stesso decreto dall’art. 9 all’art.) è speculare alla finalità cui tende il
sistema cautelare ivi previsto (previsto nella sezione IV dello stesso
decreto, dall’art. 45 al 54), in quanto il sistema delle misure cautelari
configurate dallo stesso testo di legge coincide geneticamente con le
sanzioni irrogabili in via definitiva.
L’art. 45 dello stesso testo di legge prevede, infatti, l’applicazione, quale
misura cautelare, di una delle sanzioni interdittive previste dall’art. 9
(interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca delle
autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell’illecito; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione,
salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; esclusione
da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca
di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni e servizi)
allorquando ricorrano i presupposti tipici per l’irrogazione di una misura
76
cautelare, ovvero il fumus boni iuris (testualmente definito nella stessa
disposizione come «gravi indizi per ritenere la sussistenza della
responsabilità dell’ente per un illecito amministrativo dipendente da
reato») ed il periculum in mora (definito nello stesso art. 45 in termini di
«specifici e fondati elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che
vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si
procede»).
Questo singolare parallelismo76
-oggetto di grande critica in dottrina
-rappresenta una prova della sopramenzionata finalità preventiva cui
tende, in definitiva, sia il sistema sanzionatorio che cautelare del D.lgs.
231/01 (si fa, in particolare, riferimento al carattere specialpreventivo),
poichè il recupero dell’ente alla legalità, viene legalmente imposto al
soggetto collettivo non solo attraverso il processo, in ossequio all’art. 27
comma 3 Cost., ma anche per il tramite delle misure cautelari, private
della loro naturale connotazione di misure strumentali rispetto alla
sanzione definitiva e finalizzate, in tale sistema, ad una logica
eminentemente preventiva77
.
76
L’unica sanzione esclusa da un’applicazione in sede cautelare è, naturalmente, la pubblicazione della sentenza di condanna. 77
In tal senso le stesse misure divengono strumenti atti a scongiurare il pericolo di recidiva, da un lato, alla stregua delle misure di sicurezza e, dall’altro, appaiono svolgere la funzione di surrogati della pena. Al riguardo cfr. FIDELBO, “Le misure cautelari”, cit. p .456 il quale individua nelle misure cautelari interdittive contemplate dal D.lgs.
77
Il precipitato applicativo di detto sistema si coglie nel carattere
monofunzionale delle cautele interdittive: della ripartizione accolta
dall’art. 274 c.p.p., «unica esigenza che trova spazio nel sistema del
decreto è quella relativa alla pericolosità dell’ente»78
.
Detta scelta, in realtà, non si poneva come obbligata per il legislatore del
2001 poiché, se il pericolo di fuga presuppone un sostrato
antropomorfico, che lo rende ontologicamente inadattabile rispetto alle
persone giuridiche, diverse perplessità suscita, al contrario, la mancata
inclusione tra le esigenze cautelari del pericolo di inquinamento
probatorio.
Ma la conferma delle peculiarità del sistema cautelare destinato agli
enti- che lo eleva a indice lampante di una precipua finalità
specialpreventiva della disciplina in esame– scaturisce dalle numerose
occasioni fornite, dallo stesso dettato legislativo, all’ente imputato per
potersi scolpare, già in sede cautelare, completamente, oppure per
attenuare la propria posizione nel processo.
Denotativa di tale scelta di politica criminale è la previsione di
un’udienza camerale appositamente dedicata alla decisione sulle cautele.
231/2001 una “trasfigurazione che, almeno per i contenuti, le avvicina più alla categoria delle misure di sicurezza”. 78 Così FIDELBO, op. cit. p.456.
78
3.3 La “uniformazione” tra “confisca sanzione”, ex D.lgs. 231
del 2001, e confisca misura di prevenzione ex legge 646 del
82, a seguito della modifica, attuata dalla l. 94 del 2009 (c.d.
“pacchezzo sicurezza bis”), del presupposto appliacativo
delle misure di prevenzione patrimoniali: dalla “pericolosità
sociale” alla “pericolosità reale” del patrimonio, profitto
parziale o integrale dell'illecito criminale.
Le misure di prevenzione, quali tipici strumenti sanzionatori di natura
amministrativa, presuppongono il previo accertamento79
, tramite
l'applicazione di una misura personale, della pericolosità sociale dell'
indiziato cui sono destinate.
E' notoria la distinzione tra misure di prevenzione personale e
patrimoniali, in quanto, le prime (diffida del questore, rimpatrio con
foglio di via obbligatorio, sorveglianza speciale di pubblica sicurezza,
quest'ultima con o senza divieto di soggiorno) già previste nell'originario
79
Si differenziano, però, dalle misure di sicurezza perchè quest'ultime sono comminate ai soggetti pericolosi che abbiano già commesso un reato; sulla finalità delle stesse misure di prevenzione cfr. FIANDACA-E. MUSCO, “Diritto Penale, Parte Generale”,Bologna, 2007, p. 867 secondo i quali “a discapito della loro denominazione basata sul concetto di prevenzione, le misure in esame non siano mai riuscite a sortire un effetto preventivo/rieducativo, ma siano state, di fatto, al contrario, utilizzate come strumento di controllo sociale di tipo sostanzialmente repressivo”.
79
impianto del sistema delineato dalla legge n.1423 del 1956, sono state
introdotte nel nostro sistema giuridico per far fronte a tutte le ipotesi di
pericolosità sociale di un soggetto ravvisata ante o praeter delictum, le
seconde, invece, introdotte con la legge n. 646 (c.d. legge “Rognoni -La
Torre”) nel 1982 a seguito di un iter normativo complesso (legge
antimafia n° 575 del 1965, legge “Reale” n. 152 del 1975), sono state
configurate quale risposta punitiva dello Stato al fenomeno dell'illecito
accumulo di beni e capitali da parte delle associazioni mafiose
conseguito in ragione dell'illecita attività criminosa, divenuta
“paraindustriale” negli anni del massimo sviluppo economico del nostro
Paese (c.d. “industrializzazione dell'attività mafiosa”).
Dette misure, ovvero il sequestro e la confisca, infatti, consentono
all'autorità giurisdizionale il provvisorio e cautelare sequestro dei beni di
sospetta provenienza ovvero l'ablazione dei patrimoni, prima ancora che
venga emesso un giudizio sul merito della responsabilità penale per il
reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, a seguito di un
giudizio di pericolosità sociale del prevenuto, caratterizzato, con
particolare riferimento alle misure di prevenzione patrimoniale,
dall'accertamento della sussistenza in capo al prevenuto di un sospettoso
ed ingiustificato patrimonio.
80
Presupposto del sequestro, quale misura di prevenzione di natura
cautelare e provvisoria, è, invero, un un quadro indiziario caratterizzato
da «sufficienti indizi, come la notevole sperequazione tra il tenore di
vita e l'entità dei redditi appartenenti o dichiarati», ex art. 2 ter comma 2
l. 575/6580
, mentre presupposto della confisca, misura di prevenzione
tipicamente ablatoria, è la mancata dimostrazione, da parte
dell'indiziato, della legittima provenienza dei beni, con evidente
inversione dell'onere probatorio in capo al soggetto indiziato81
.
L'utilità di dette misure è stata comprovata, invero, nella prassi
giudiziaria degli ultimi anni in cui l'efficace applicazione di detto istituto
ha consentito alla magistratura di scardinare, o comunque di tentare di
scardinare quello che autorevolmente82
è stato definito “il vero tallone
di Achille” delle mafie ovvero “le tracce documentali lasciate dalla
grande circolazione di denaro connessa allo svolgimento di attività
criminose connesse all'arricchimento illecito”.
80
Così come modificato dall'art. 3, l. 256/93. 81
Cfr. FIANDACA, Prime ipotesi applicative della confisca dei patrimoni mafiosi, in Foro it., 1983, 296; MAUGERI, La sanzione patrimoniale fra garanzia ed Antimafia, in Riv. trim. dir. pen. Economia, 1996, 817; MANGIONE, Le misure di prevenzione patrimoniali tra dommatica e politica criminale, Padova, 2001, 144 ss, 386 e ss.; GAROFALI, Costituzione economica, trasformazione in atto del modello economico e tendenze evolutive del sistema prevenzionistico patrimoniale, in Giur. Cost., 1996, 3889. 82
FIANDACA-E. MUSCO, Diritto Penale, Parte Generale,Bologna, 2007, p.865.
81
Ed infatti la giurisprudenza ha sempre riconosciuto nella confisca
disciplinata dal codice penale (art. 240 c.p.) un'effettiva misura di
sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità derivante dalla
disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato ovvero
delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la
commissione di ulteriori reati, anche se i corrispondenti effetti ablativi si
risolvono sostanzialmente in una sanzione pecuniaria83
.
La legge 94 del 2009 (c.d. “pacchetto sicurezza bis”) ha, però,
modificato profondamente il regime generale di irrogabilità delle misure
di prevenzione patrimoniale, sganciandole, in sintesi, dal preventivo e
necessario giudizio di accertamento di pericolosità sociale e
correlandolo all'accertamento di una sorta di “pericolosità reale”,
connessa alla ingiustificata titolarità o disponibilità di capitali e beni da
parte di soggetti indiziati di appartenere o agevolare associazioni
criminali84
.
Detta innovativa riforma, invero, è stata preceduta dalla riforma
anteriormente operata dal precedente pacchetto sicurezza, decreto n.92
83 Cfr. Cass. S.U. 22/1/1983, Costa 84
Cfr. ANNA MARIA MAUGERI, op. cit., pag. 254, in cui afferma che «il cammino verso la separazione delle misure di prevenzione patrimoniali dalle personali, iniziato dalla giurisprudenza che consentiva l'applicabilità della confisca anche in caso di morte del preposto e con l'introduzione delle misure di cui agli artt. 3 quarter e 3 quinquies nella l. 575 del 65, viene ulteriormente percorso dal legislatore, forse non fino in fondo, con le riforme del procedimento di prevenzione patrimoniale introdotte dal decreto 92 del 2008 e dal decreto 94 del 2009».
82
del 2008, con il quale nel testo della l. 575 del 1965 è stato introdotto un
nuovo comma, art. 2 bis comma 6 bis, in cui espressamente veniva
stabilito che “le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono
essere richieste ed applicate disgiuntamente”; la reale portata innovativa
di detta disposizione, invero, risultava vanificata dalla circostanza che
l'effettiva scissione di pregiudizialità tra misura personale e patrimoniale
si scontrava con il dettato normativo previgente secondo il quale la
procedura per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale,
ex art. 2 ter, continuava ad essere subordinato alla sussistenza di un
procedimento di irrogazione della misura personale nel quale si poteva
chiedere l'applicazione della misura patrimoniale, “entro la cessazione
della misura personale” stessa.
Il recente pacchetto sicurezza, invece, ha superato i menzionati ostacoli
(prodotti, in sostanza, da uno scorretto coordinamento tra la precedente
normativa in materia di prevenzione e le novità apportate dallo stesso
pacchetto sicurezza del 2008) alla totale rescissione della pregiudizialità
tra dette tipologie di misure di prevenzione, personali e patrimoniali,
stabilendo chiaramente che non solo le misure patrimoniali possono
essere applicate disgiuntamente da quelle personali, ma che le misure di
prevenzione patrimoniali possono essere applicate «indipendentemente
dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione
83
al momento della richiesta», ex comma 6 dell'art. 6 bis della l. 575 del
65.
Se le misure di prevenzione patrimoniale in genere, e la confisca ex lege
646 del'82 in particolare, si prefiggono l'obiettivo di combattere il
fenomeno dell'illecito accumulo di ricchezze da parte delle
organizzzioni mafiose, le misure previste nel D.lgs. 231 del 2001, ed in
particolare la confisca del profitto del reato ex ar. 19, consentono di
prevenire il fenomeno dell'illecito reinvestimento di capitali nel circuito
dell'economia da parte delle associazioni criminali.
Per tale ragione, dunque, la confisca prevista dal D.lgs. n.231 del 2001
(così come modificata dal decreto 92 del 2008 e 94 del 2009),
contrariamente allo strumento previsto nella legge 686 del 82, assurge a
misura sanzionatoria o cautelare (si veda par. 3.3.): l'art. 9 comma 1
let. c) dello stesso decreto, alla luce di un'interpretazione sistematica con
l’art. 19 comma 1 dello stesso testo di legge, dispone, infatti, che «nei
confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la
confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che
può essere restituita al danneggiato...»; il secondo comma della stessa
disposizione, inoltre, autorizza la confisca anche nella forma per
equivalente (replicando lo schema normativo di disposizioni già presenti
nel codice penale o in leggi penali speciali), manifestando la chiara
84
configurazione della confisca come sanzione principale, obbligatoria e
autonoma rispetto alle altre pure previste nel decreto in esame.
Altre ipotesi specifiche di confisca previste nel testo del D.lgs. 231 del
2001 sono quelle previste dall'art. 15 comma 4 secondo il quale, in caso
di commissariamento dell’ente, «il profitto derivante dalla prosecuzione
dell’attività» debba essere confiscato, ovvero l'ipotesi di cui all'art. 6
comma 5 che sanziona con la confisca del profitto del reato, il reato
commesso da persone che rivestono funzioni apicali.
L’art. 6 comma 5° dello stesso decreto legislativo, invero, prevede la
confisca del profitto del reato, commesso da persone che rivestono
funzioni apicali, anche nell’ipotesi singolare in cui l’ente dovesse
andare esente da responsabilità, per avere validamente adottato e
attuato i modelli organizzativi (compliance programs) previsti e
disciplinati dalla stessa norma.
In questa ipotesi, essendo difficile cogliere la natura sanzionatoria
della misura ablativa (che si differenzia strutturalmente da quella di cui
all’art. 19, proprio perché difetta una responsabilità dell’ente) una parte
della dottrina ha ritenuto di ravvisare una finalità squisitamente
preventiva, assimilabile del tutto alla confisca misura di prevenzione e
collegata alla pericolosità del profitto di provenienza criminale.
85
La circostanza che il recente pacchetto sicurezza abbia spersonalizzato
il presupposto applicativo delle misure di prevenzione patrimoniale,
ovvero la previa applicazione di una misura personale ad un soggetto
indiziato di appartenere ad un’ associazione criminale e di avere un
patrimonio di ingiustificato valore e sproporzione rispetto alle proprie
capacità reddituali, e al contempo la sussistenza nel D.lgs. 231 del 2001
di una ipotesi di “confisca di prevenzione” patrimoniale dell'ente
sganciata da un previo giudizio di responsabilità dell'ente, ovvero la
sopramenzionata ipotesi di cui al quinto comma dell'art. 6, ha indotto a
ritenere85
, de iure condito, la possibilità di applicare le misure di
prevenzione patrimoniale anche agli enti.
Detta soluzione, invero specificatamente prevista nel Progetto Fiandaca
e nel disegno di delega “Misure di Prevenzione alla criminalità
organizzata” (A.C.3242) del 2007, consentirebbe di ovviare ad una
serie di problematiche concrete nell'azione di contrasto ai patrimoni
delle associazioni criminali, tra le quali, in particolare, alla difficile
indagine sulla effettiva disponibilità di un'attività e di un patrimonio in
capo all'indiziato, reale titolare e gestore degli stessi, ovvero in capo ad
un “indiziato prestanome” o soggetto interposto “nell'interposizione
fittizia di persone”, fisiche e giuridiche, nell'ambito del noto fenomeno
nell'economia criminale.
85
ANNA MARIA MAUGERI, op. cit. pag. 276.
86
CAPITOLO IV
La responsabilità degli enti “da reato” per i crimini di
criminalità organizzata. Novità legislative apportate dal
nuovo Pacchetto Sicurezza, l. 94/09.
4.1 Necessità “de iure condendo” di una normativa volta
alla lotta contro l'infiltrazione delle associazioni criminali
nell'economia.
Presupposto necessario per comprendere a fondo la necessità di un
intervento legislativo esplicito mirante alla repressione penale delle
moderne modalità di estrinsecazione delle attività criminali di impresa è
un breve excursus della trasformazione morfologica del fenomeno
mafioso dal secondo dopoguerra ad oggi.
Infatti, bisogna risalire al clima socio-economico alquanto agitato
dell'immediato secondo dopoguerra per cogliere la veloce
trasformazione del concetto di mafia da fenomeno pseudo-folcloristico,
che nelle zone di campagna e nei territori di paese assurgeva a funzione
87
di supplenza di uno Stato sentito lontano dalla diffidenza popolare, alla
progressiva inurbazione del fenomeno medesimo alla ricerca di laute
prospettive di guadagno nel grande affare della ricostruzione postbellica.
In detto mutamento del fenomeno vanno colte quelle originali capacità
della mafia di adattarsi al mutato e mutante contesto socio-economico e
politico nel quale essa riuscirà, nei decenni successivi, ad intrattenere
rapporti di contiguità con la politica ed il mondo imprenditoriale,
laddove si profilino inusitate possibilità di guadagno e di facile
arricchimento.
Ciò spiega perché la mafia inizi a radicarsi nelle città da ricostruire, e
nel mondo degli appalti e dell'imprenditoria impegnata nelle
ricostruzione delle infrastrutture, e laddove il veloce flusso dei
finanziamenti strutturali apre prospettive di grossi guadagni a spese, di
solito, della collettività.
Dopo gli anni sessanta, mutate anche le condizioni socio-economiche
della società immersa nel boom economico, la mafia troverà negli spazi
dei “nuovi consumi” aperti dall'allentarsi dell'etica e della morale in
genere, la possibilità di conseguire ulteriori e più massicci utili,
introducendo e sviluppando il mercato della droga, il controllo della vita
notturna in tutte le sue sfaccettature e, sulla scorta dei grandi
avvenimenti geopolitici che hanno ridisegnato la carta geografica
88
dell'Europa e del medio-oriente, operando sempre più massicciamente
nel mercato delle armi e dei perversi scambi tra droga, armi e
riciclaggio.
Ulteriore tappa verso l'attuale contiguità tra fenomeno mafioso e attività
imprenditoriali è costituito dal mimetico ingresso nelle attività lecite
delle imprese di gruppi mafiosi, sino alla più grave e distorsiva ipotesi,
per l'economia, della creazione di imprese mafiose tout court, operanti
in maniera sleale e con i metodi intimidatori nel libero mercato.
Detto percorso di evoluzione delle mafie, alquanto sommariamente
esposto per necessità di coerenza sistematica del presente lavoro,
dimostra ad abundantiam la luciferina capacità delle associazioni
criminali di insinuarsi e proliferare negli spazi vuoti lasciati dalla
indolenza politica e dalla intempestività dell'intervento legislativo, con
l'evidente finalità di modificare, in maniera più coerente con
l'evoluzione del mercato, la scelta dei c.d. “reato scopo” caratterizzanti
l'indeterminatezza del programma criminale proprio delle stesse
associazioni mafiose, che rappresenta, in sostanza, l'oggetto del c.d. dolo
di appartenenza alle medesime associazioni.
In altre parole detta capacità di adeguamento al mutare dei tempi
consente, ed ha consentito, alle Mafie di mutare la scelta dei singoli
reati, c.d. reati scopo, caratterizzanti l'indeterminato e indeterminabile
89
programma criminoso della stessa associazione, alla luce delle maggiori
possibilità di lucro offerte dalle condizioni economiche contingenti.
Ed è, infatti, alla luce di detta capacità che possiamo collocare in
un'ottica di verosimiglianza il c.d. “processo di tecnicizzazione ed
industrializzazione del fenomeno mafioso”, agevolato, sicuramente, da
uno Stato che non è riuscito ad adeguare il suo apparato penale
repressivo, in tempo reale con la sofisticata capacità di metamorfosi
delle mafie, ma soprattutto determinato dalla crescente
industrializzazione del mercato nel quale la Mafia si è voluta imporre.
Comprova di tale incapacità dello Stato, e del legislatore in particolare,
di far fronte, a livello normativo, alle mutate forme di attività illegali
della mafia nel territorio è data dallo scarto temporale tra la ormai
decennale collusione e commistione della mafia con le attività industriali
ed il recentissimo intervento legislativo operato con il nuovo pacchetto
sicurezza, l. 94 del 2009, con il quale, nell'intento di perseguire l'attività
criminale d'impresa, è stato introdotto il reato di cui all'art. 416 del c.p.,
nell'alveo della categoria dei reati per i quali può essere configurata la
responsabilità degli enti ex D.lgs. 231 del 2001.
90
4.2 La nuova fattispecie incriminatrice, ovvero l'art. 24 ter del
D.lgs. 231 del 2001, di “responsabilità degli enti per i delitti
collegati al crimine organizzato”.
L'art. 29 comma 2 della l. 94 del 2009 (nuovo pacchetto sicurezza
ovvero pacchetto sicurezza bis, in relazione al pacchetto sicurezza del
2008, l. 92) ha introdotto, nel testo del D.lgs. 231/01 l'art.24 ter,
nell'alveo dei c.d. “reati presupposto” tassativamente previsti nel D.lgs.
231 del 2001 quali imprescindibili presupposti per la configurazione di
una responsabilità da reato degli enti, i delitti afferenti al crimine
organizzato.
Detta disposizione rubricata “Delitti di criminalità organizzata”, in
particolare, nel chiaro intento di perseguire tutte le manifestazioni
criminali concretizzatesi con l'ausilio o tramite l'esercizio dell'attività di
un ente, stabilisce che «si applica la sanzione pecuniaria da quattrocento
a mille quote» a quell'ente che si caratterizza per «la commissione di
taluno dei delitti di cui agli articoli 416, sesto comma, 416 bis, 416 ter e
630 del codice penale, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni
previste dal predetto art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività
91
delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti
dall'art. 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 9 Ottobre 1990, n.309».
Detta novella, in maniera del tutto tardiva86
, è nata dall'esigenza
concreta di far fronte a ipotesi in cui l'attività illecità delle imprese fosse
frutto di un intervento determinante delle associazioni mafiose o
addirittura di un'attività imprenditoriale realizzata da un'impresa mafiosa
tout court: si fa riferimento all'ipotesi di soggetti giuridici operanti sul
mercato con apparente regolarità ma alle direttive dei poteri mafiosi
(l’ipotesi di impresa mafiosa in cui è difficile tracciare un discrimen tra
un’attività imprenditoriale assoggettata al metodo e al potere mafioso o
un’attività imprenditoriale che si serve del metodo mafioso per
affermarsi sul mercato), ovvero all'ipotesi di grandi società di
86
Ed infatti già nel Piano di Azione contro la criminalità organizzata del 28 aprile 1977 il Consiglio Europeo prevedeva, alla raccomandazione n.18, l’introduzione, nelle normative nazionali degli Stati aderenti, di una responsabilità penale delle persone giuridiche che siano coinvolte nell’attività della criminalità organizzata con misure effettive, proporzionate e dissuasive, imponendo sanzioni materiali ed economiche nei confronti di tali soggetti. Dello stesso tenore è stata la pronuncia della
Convenzione dell’ONU, firmata a Palermo nel 2000, contro il crimine organizzato transnazionale posto in essere dalle persone giuridiche che partecipano ad una organizzazione criminale, al riciclaggio, alla corruzione di pubblici funzionari, ad attività tendenti a vanificare l’amministrazione della giustizia, con misure atte a sanzionarne la eventuale responsabilità, sia civile che penale o amministrativa, così come l’art. 5 della Decisione quadro 2008/84/GAI sulla lotta contro la criminalità organizzata, per il quale gli Stati membri sono obbligati ad adottare le misure opportune perché anche le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili di reati derivanti dalla partecipazione ad un’organizzazione criminale, commessi a loro vantaggio da qualunque persona agisca a titolo individuale o in quanto membro di un organo della medesima persona giuridica, che abbia un ruolo preminente all’interno della medesima persona giuridica.
92
distribuzione commerciale che, mediante metodo mafioso o il
killeraggio della concorrenza, annettono metodicamente ulteriori quote
di mercato, monopolizzando di fatto settori strategici del commercio in
territori particolarmente appetibili per potenzialità economiche, od
anche all'ulteriore ipotesi di società fittizie che fungono da strumento di
riciclaggio di attività illecite.
Si pensi, ad esempio, alla formazione di una falsa società di persone che
fatturi consistenti somme per erogazioni di servizi fittizi resi a società
inesistenti; si pensi, ancora, ad un’impresa che crei l’apparenza di
un’attività lecita, dissimulando in realtà attività illecite quali
contrabbando, traffico di droga etc.; ovvero ad una società creata ad hoc
per commettere reati la cui realizzazione necessita di una persona
giuridica, considerata la specifica natura dell’illecito (ad esempio società
finanziaria creata al fine di frodare i propri clienti); si pensi, infine, ad
una società che attivi canali commerciali con società multinazionali che,
nelle transazioni correnti, movimentino scientemente beni diversi da
quelli dichiarati o richiesti.
Tutte queste ipotesi, accertate nella prassi giudiziaria come normali
metodologie di infiltrazione criminale nell'economia, oggi potranno
essere perseguite alla luce di detta nuova fattispecie che, sebbene sia
stata introdotta «come strumento contro la criminalità d'impresa e non
93
contro la criminalità organizzata»87
rappresenta pur sempre un serio e
concreto intervento, nella politica legislativa vigente, di far fronte alle
illecite attività di accumulo e riciclaggio poste in essere, nel settore
dell'attività di impresa e dell'economia in genere, dalle associazioni
criminali.
Ed infatti gli enti che non si saranno dotati di idonei sistemi di
“compliance programms” (c.d. modelli organizzativi) volti a prevenire o
evitare la collaborazione o i rapporti illeciti tra gli stessi e le
organizzazioni criminali verranno sanzionati ai sensi del Titolo II del
D.lgs. 231 del 2001, ovvero con sanzioni pecuniarie, interdittive e con la
confisca del profitto del reato ex art. 19 dello stesso decreto, anche nella
forma della confisca per equivalente ex art. 19 comma 2.
La confisca del profitto del reato, in particolare, sembra la più
appropriata a far fronte alle frequenti operazioni di “ripulitura” dei
capitali illecitamente acquisiti dalle associazioni criminali (ovvero alla
prassi dell'investimento in attività industriali degli stessi capitali da parte
delle associazioni criminali, capitali che da illeciti divengono leciti a
seguito della commercializzazione dei prodotti finali oggetto dell'attività
d'impresa) perché consente di confiscare tutto il patrimonio dell'ente
derivante dallo svolgimento della propria attività in tutti i casi in cui sia
87
Cfr. ANNA MARIA MAUGERI, op. cit. pag. 276.
94
stato dimostrato, anche in sede cautelare, la responsabilità dell'ente per
partecipazione o collaborazione ad associazioni di tipo mafioso ex art.
23 ter D.lgs. 231/2001.
Come è stato autorevolmente88
osservato in dottrina «si finirà per
presumere che è profitto del crimine tutto ciò che è stato conseguito
dall'ente in connessione temporale alla sua partecipazione criminale e, in
questa ipotesi, inoltre, sarà possibile applicare la sanzione interdittiva
della chiusura dell'attività (art. 24 ter, c.4 e 16,c.3 D.lgs. 231/01)».
Secondo la stessa dottrina, inoltre, analogamente alla prassi
giurisprudenziale in materia di confisca e misure di prevenzione, verrà
applicata nella prassi giurisprudenziale la confisca del prodotto del
crimine anche quando fosse dimostrato che oggetto di confisca sia un
patrimonio di origine lecita ma divenuto “illecito” a causa dell'utilizzo
del metodo mafioso di cui all'art. 416 bis, perché in detta situazione si
determinerebbe una “contaminazione irregolare dei meccanismi di
accumulazione della ricchezza prodotta”89
.
Ed invero i rischi connessi con tale opzione interpretativa della novella
disciplina, sebbene sia condivisibile l'intento di una maggiore celerità
88
Cfr. ANNA MARIA MAUGERI, op. cit.277. 89
Espressione utilizzata da SCARPINATO, “Le indagini Patrimoniali”, in “Le misure di prevenzione patrimoniale dopo l'approvazione del pacchetto sicurezza”, p.245.
95
nell'accertamento e nell'ablazione dell'illecito prodotto dei crimini,
sembrano collidere con quella giurisprudenza90
maggiormente garantista
della inviolabilità del diritto di proprietà, come diritto assoluto, e che in
maniera espressa limita la confisca, (quale strumento riduttivo della vis
espansiva del diritto di proprietà), all'illecito arricchimento patrimoniale
susseguente alla commissione dei crimini.
90
Si fa riferimento a quella giurisprudenza che distingue tra «beni acquisiti prima e beni acquisiti dopo, atteso che l'accertata esistenza della natura mafiosa di un'impresa, non può “coprire” anche condotte lecite preesistenti all'ingresso di soci e/o capitali mafiosi nella compagine sociale», cfr. Cass. 23 marzo 2007, n. 188222.
96
4.3 L'ingresso nell'ordinamento (nel Codice degli Appalti ex
D.lgs 163 del 2006) dell'obbligo di denuncia della richiesta
estorsiva operata dal “Pacchetto Sicurezza bis”, l. 94 del
2009.
La legge n.94 del 2009, nel prevedere in capo agli imprenditori, siano
persone fisiche o giuridiche, l'obbligo di denunciare eventuali richieste
estorsive, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico uno strumento
particolarmente efficace ai fini della lotta contro l'infiltrazione criminale
nell'economia legale.
All'art. 2, n.19 della predetta legge, infatti, è stata prevista la modifica
dell'art.38 del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture (di cui al D.lgs. 12 aprile 2006, n.163), ed in particolare è stato
previsto che a determinati soggetti è fatto divieto di partecipare a
procedure miranti all'affidamento di concessioni e di appalti di lavori,
forniture e servizi pubblici, e che agli stessi non possono essere affidati
subappalti o incarichi di natura contrattuale91.
91 Nel merito di tale disposizione, vedi CORVI, “Nuove risposte al crimine organizzato tra diritto penale e sanzioni amministrative”, in MAZZA-VIGANO', Il “pacchetto sicurezza”.
97
In virtù dell'art.1, comma. m-ter della predetta legge, vengono esclusi
dall'elenco degli assegnatari di concessioni e di lavori pubblici coloro
che sono stati vittime di concussione e di estorsione aggravata che, però,
hanno omesso di denunciare tali circostanze all'autorità giudiziaria.
Si configura, cioè, in capo agli imprenditori, siano essi persone fisiche o
giuridiche , un obbligo a denunciare le richieste estorsive ricevute.
In particolare, coloro che sono stati segnalati nel sito dell'Osservatorio
nei tre anni precedenti la pubblicazione del bando per non aver
denunciato la richiesta estorsiva o la concussione non potranno essere
assegnatari di appalti pubblici, anche se la omessa denuncia non è stata
provata in giudizio, essendo sufficiente che tale circostanza emerga da
un semplice rinvio a giudizio dell'imputato.
Detta novità, il cui fondamento trae spunto nell'auspicata e necessaria
collaborazione tra Stato e classe imprenditoriale nella lotta alla
criminalità organizzata, è stata fortemente avversata fin dalle prime
riflessioni dottrinarie in proposito92
, perché in maniera subdola
trasforma la mancata collaborazione con lo Stato, unico soggetto titolare
dell'obbligo di perseguire istituzionalmente i reati e le manifestazioni
criminali espressione di pericolo per l'Ordine Pubblico, ovvero la
92
MAUGERI, op. cit., p.283.
98
mancata denuncia di richieste estorsive e concussive, in penalizzazione,
sebbene di natura meramente limitativa di mere chances lavorative (una
sorta di sanzione amministrativa punitiva, limitatrice di iniziativa di
libertà economica), per la vittima stessa del reato.
In tal senso c'è chi evidenzia in dottrina93
la paradossale situazione in cui
verrebbe a trovarsi un imprenditore il quale, non avendo il coraggio e la
“forza civica” di denunciare i propri estorsori, subirebbe doppiamente il
peso dell'offesa del reato poiché, oltre a dovere patire il danno
conseguenza del reato, sarebbe ulteriormente penalizzato dallo Stato
che, previa iscrizione dello stesso sfortunato imprenditore presso
l'Osservatorio dei casi di omessa denunzia, lo escluderebbe tout court
dalla possibilità di aggiudicarsi ogni pubblico appalto.
Detta incongruenza, invero, appare maggiormente stridente solo se ci si
soffermi a costatare a) come l'effetto preclusivo collegato all'iscrizione
nel registro dell'Osservatorio è rimesso alla mera iscrizione, tramite un
provvedimento amministrativo, nella suddetta lista (mancano, quindi, le
garanzie giurisdizionali di accertamento dei fatti), ma ancor di più b)
alla mancata inclusione, ai sensi dell'art. 1 bis della l. 94 del 2009, nel
novero degli imprenditori destinatari di detta misura dei soggetti titolari
di aziende o società sottoposte a sequestro o confisca di prevenzione ex
93
Maugeri, op. cit., p.284.
99
legge n.575 del 1965 o a titolo di misura di sicurezza ex art. 12 sexies,
ed affidate ad un custode o amministratore giudiziario: detti soggetti,
sebbene sottoposti a misura di prevenzione perché sospettati di avere
patrimoni sproporzionati e di origine illecita, potranno
ingiustificatamente e ingiustamente partecipare all'aggiudicazione di
appalti pubblici, tramite il proprio amministratore o custode, a differenza
di poveri imprenditori vessati dalla malavita e dalle richieste estorsive
che non hanno avuto il coraggio di denunciare.
Ciò nonostante detto strumento, sebbene con i dubbi appena evidenziati,
a parere dello scrivente rappresenta, unitamente all'introduzione della
nuova fattispecie di responsabilità da reato degli enti per i delitti di
criminalità organizzata ex art. 24 ter D.lgs 231/01, un nuovo ed efficace
strumento nell'ambito dell'armamentario offerto dal nostro legislatore
per combattere il fenomeno dell'infiltrazione mafiosa nell'economia
legale.
E' del tutto evidente che il legislatore attuale, nella duplice opzione di
politica legislativa, tra introdurre nuove e singole misure incidenti nel
contrasto alle “mafie”, e procedere alla codificazione delle presenti
discipline con l'aggiunta di nuovi strumenti di contrasto, abbia optato
per un intervento mirato a combattere in maniera settoriale e specifica
l'attuale ed evidente fenomeno del reimpiego dei capitali accumulati
100
illecitamente dalle associazioni mafiose, piuttosto che dare attuazione e
concretizzazione a quelle ipotesi, autorevolmente formulate da
qualificate Commissioni parlamentari94
, di sistematizzazione e
codificazione di tutta la pregressa ed ulteriore normativa in materia di
contrasto alle mafie in un Testo Unico (sulla esigenza, de iure condendo,
di una tale attività di codificazione, infra le Conclusioni).
94
Si fa riferimento al Progetto Fiandaca per la ricognizione e il riordino della normativa di contrasto della criminalità organizzata, elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Fiandaca e presentata nel Marzo del 2001 al Ministro della Giustizia in versione non definitiva.
101
CONCLUSIONI
A conclusione di questa breve disamina sulla ampia e complessa materia
della responsabilità “da reato” degli enti (non a caso c'è chi ritiene in
dottrina che l'introduzione del D.lgs. 231 del 2001 abbia determinato la
nascita di un ramo a sé del diritto penale), preme soffermarsi,
coerentemente con l'oggetto e le finalità d'analisi del presente elaborato,
nella rassegna di alcune considerazioni critiche circa la tematica dei
“rapporti patologici” tra associazioni mafiose e imprese.
In particolare preme mettere in rilievo la necessità di un intervento
legislativo ad ampio raggio volto a disciplinare coerentemente e
sistematicamente la preesistente e variegata normativa antimafia di
contrasto e aggressione ai patrimoni malavitosi formatisi nel corso degli
anni95
con i proventi dei reati c.d. scopo delle associazioni (reati che
costituiscono l'indeterminato programma criminoso cui tende
l'associazione mafiosa medesima).
95
E' notoria la circostanza, suffragata dai dati che vanno sempre più emergendo dall'attuale cronaca giudiziaria, che detti patrimoni vengono sempre più temerariamente reinvestiti ed immessi dalle associazioni mafiose nel circuito dell'economia legale, soprattutto del Nord Italia, per “ripulirli” ed implementarli ulteriormente.
102
A fronte di una disciplina legislativa frammentaria, formatasi nel corso
del secondo dopoguerra fino ad oggi e finalizzata al contrasto dei
patrimoni illecitamente acquisiti dalle consorterie mafiose, infatti, già da
tempo si è avvertita in dottrina una forte esigenza di sistematizzazione
dei pregressi interventi normativi, determinata dalla disorganicità dei
singoli interventi succedutisi negli anni, a titolo di risposta
stigmatizzante dello Stato ai progressivi attacchi malavitosi alla libera
economia.
Al riguardo si veda l'autorevole intervento di Moccia96
, il quale, prima
ancora che il pacchetto sicurezza del 2009 implementasse gli strumenti
sanzionatori di aggressione ai patrimoni illeciti delle associazioni
mafiose, consentendo l'irrogabilità delle sanzioni previste nel D.lgs.
n.231 del 2001 ai patrimoni di enti quantomeno collusi con le
associazioni mafiose (ampliando gli strumenti sanzionatori in astratto
utilizzabili dagli organi giurisdizionali per combattere i patrimoni illeciti
delle associazioni mafiose), già nel lontano 2000, in sede di
considerazioni generali sul sistema sanzionatorio di un progetto
preliminare di un nuovo codice penale, formulava l'auspicio che lo
96
MOCCIA, “Considerazioni sul sistema sanzionatorio”, nel “Progetto preliminare di un nuovo codice penale”, in Crit. Dir., 2000, pag.295 in cui afferma testualmente «la popolarità delle garanzie resterà sempre bassa, se la cultura giuridica continuerà ad essere, in fondo, logica riduttiva dei mezzi e non scienza, assiologicamente orientata, dei fini».
103
stesso sistema raggiungesse una razionalizzazione capace di coniugare
funzionalità e garantismo.
E, tuttavia, nel 2001, ben al di là della dimensione meramente teorica e
dottrinaria dell'esigenza di razionalizzazione e sistematizzazione della
normativa antimafia, è emerso un concreto tentativo di ricognizione e di
riordino della normativa di contrasto alla criminalità organizzata in un
Testo Unico frutto del lavoro di un'autorevole Commissione ministeriale
presieduta da uno dei massimi esponenti della dottrina penalistica
italiana, ovvero dal prof. G. Fiandaca97
.
L'intento di una codificazione della normativa di contrasto alla
criminalità organizzata e di un riordino sistematico della stessa si è
nuovamente riproposto nel 2007 allorquando fu presentato in
Parlamento un disegno di legge (A.C. 324298
), costituente lo schema di
un disegno di legge delega al Governo, avente ad oggetto le “Misure di
contrasto alla criminalità organizzata. Delega al governo per
l'emanazione di un testo unico delle disposizioni in materia di misure di
prevenzione. Disposizioni in materia di ordinamento giudiziario e
patrocinio a spese dello Stato”.
97
Progetto che prenderà la denominazione di “Progetto Fiandaca” e che verrà presentato, nella versione non definitiva, al Ministero di Giustizia nel mese di Marzo 2001. 98 Detto D.D.L. è stato presentato dal Governo il 13 novembre 2007 e assegnato alla II Commissione permanente (Giustizia) in sede referente il 20 dicembre 2007.
104
Contrariamente alle osservazioni ed ai moniti dottrinari e all'intento dei
sopramenzionati progetti normativi, l'attuale legislatore, però, anziché
razionalizzare in un Testo Unico la preesistente normativa e le nuove
misure dallo stesso introdotte per contrastare la criminalità organizzata,
ha preferito immettere nel sistema normativo nuove norme (con la l. 92
del 2008 e con la l 94 del 2009, ovvero con il pacchetto di sicurezza e
pacchetto di sicurezza bis), sicuramente meritorie e tendenti alla
repressione dei fenomeni mafiosi, ma non in grado di rispondere
esaustivamente all'esigenza di un sistema normativo unitario di
repressione della criminalità organizzata.
Detti interventi normativi sebbene per molti operatori del diritto abbiano
determinato un'ulteriore “occasione fallita”, per lo Stato, di
sistematizzazione della disorganica e complessa normativa antimafia, a
parere di altri autorevoli studiosi hanno avuto, invero, l'indubbio merito
di introdurre diversificate novità veramente decisive nella strategia di
contrasto alla criminalità organizzata: la scissione delle misure di
prevenzione patrimoniali dalle misure di prevenzione personali con la
disarticolazione del nesso di pregiudizialità della necessaria previa
applicazione delle misure personali al fine dell'applicazione delle misure
reali (si è accolta, nei nuovi interventi normativi, l'idea, già espressa nel
Progetto Fiandaca e nel disegno di legge A.C. 3242 del 2007, della
105
“pericolosità in sé dei patrimoni di origine illecita” idonea da sola a
fondare un giudizio sull'irrogabilità di una misura di prevenzione
patrimoniale); l'estensione del sistema sanzionatorio di cui al D.lgs.
n.231 del 2001 (soprattutto la confisca del profitto del reato ex art. 19)
anche alle ipotesi di “criminalità organizzata” ex nuovo art. 24 ter dello
stesso testo di legge; l'obbligo di denuncia delle richieste estorsive,
introdotto nel Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture (di cui al D.lgs. 12 aprile 2006, n.163), secondo il quale è fatto
divieto a determinati imprenditori, ovvero a chi è stato vittima di
concussione e di estorsione aggravata che ha omesso di denunciare tali
circostanze all'autorità giudiziaria, di partecipare a procedure miranti
all'affidamento di concessioni e di appalti di lavori, forniture e servizi
pubblici.
Ritengo, invero, che l'importanza di detti interventi normativi sia
notevole nella strategia di lotta alle associazioni mafiose perché sebbene
manchi ancora formalmente un Testo Unico in materia di antimafia,
tanto auspicato, e sebbene sia fortemente avvertita la necessità di una
sua introduzione, è possibile, comunque, considerare sussistente una
linea immaginaria che collega, in una sorta di “connessione sostanziale”,
l'intera disciplina delle misure di prevenzione patrimoniali con il sistema
sanzionatorio di cui al D.lgs. 231 del 2001.
106
Ed infatti le misure di prevenzione patrimoniale e tutte le altre misure
antimafia, tra le quali in particolare la confisca ex D.lgs. 231 del 2001,
rappresentano sostanzialmente «diversi strumenti di un più ampio
armamentario”99
utilizzabile dagli organi giudiziari, in un'ottica di
ricorso a strumenti a potenzialità ed efficacia crescente, nel contrasto
alla criminalità d'impresa e al fenomeno definito “processo di
finanziarizzazione»100
della struttura mafiosa.
Le misure di prevenzione patrimoniali, in particolare, sono state
introdotte per “stroncare” le imprese “malate di mafia tout court”,
ovvero per far fronte al fenomeno “dell'illecito accumulo di ricchezze”
da parte delle mafie nei contesti dove operano istituzionalmente
commettendo i reati caratterizzanti il proposito criminale
dell'associazione stessa (ovvero nei territori del Sud Italia), mentre le
misure sanzionatorie di cui al D.lgs. 231 del 2001, oggi applicabili per
effetto del nuovo “pacchetto sicurezza” L. 94/2009 anche alle ipotesi di
“criminalità organizzata” ex art. 24 ter dello stesso testo, sono state
introdotte dall'attuale legislatore per far fronte al fenomeno,
99
Espressione utilizzata dal Ch.mo prof. Fiandaca nella relazione introduttiva di giorno 19 Novembre, per designare una serie di strumenti aventi una crescente potenzialità repressiva dei fenomeni criminali dell'impresa. 100
Cfr. DE LISI, “L'accumulo primario di ricchezza”, in “Evoluzione mafiosa e tecnologie mafiose”, Milano 1995, 190-191; MAUGERI, op. cit., p. 244.
107
particolarmente caratterizzante il contesto economico del nord Italia101
,
del reimpiego dei capitali illecitamente accumulati dalla associazioni
mafiose in società od enti, definiti autorevolmente, “macchiati” o
“inquinati”102
di mafia.
101 Non è un caso che i redattori del D.lgs. 231 del 2001 siano illustri professori di diritto penale dell'economia di Atenei del nord Italia, tra i quali spicca la figura del Ch.mo prof. Alberto Alessandri dell'Università “Bocconi” di Milano. 102
MAUGERI, op. cit., p.245.
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