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Università degli Studi “G. d‟Annunzio” CHIETI-PESCARA FACOLTÀ DI PSICOLOGIA Corso di Laurea Specialistica in Psicologia Dipartimento di Scienze Psicologiche, Umanistiche e del Territorio IL GRUPPO COME STRUMENTO DI INTERVENTO Una visione integrata tra neurobiologia e terapia Candidato: Giorgio Conti Matricola 3089670 Relatore: Chiar.mo Prof. Mario Fulcheri Correlatore: Chiar.ma Prof.ssa Angela D‟Addario A. A. 2013/2014

Università degli Studi “G. d‟Annunzio” · 1.2 La psicoterapia 10 1.3 Il gruppo 11 1.4 Approcci alla psicoterapia di gruppo 12 1.5 Obiettivi della terapia 14 1.6 Efficacia della

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Università degli Studi “G. d‟Annunzio”

CHIETI-PESCARA

FACOLTÀ DI PSICOLOGIA

Corso di Laurea Specialistica in Psicologia

Dipartimento di Scienze Psicologiche, Umanistiche e del Territorio

IL GRUPPO COME STRUMENTO

DI INTERVENTO

Una visione integrata

tra neurobiologia e terapia

Candidato:

Giorgio Conti

Matricola 3089670

Relatore:

Chiar.mo Prof.

Mario Fulcheri

Correlatore:

Chiar.ma Prof.ssa

Angela D‟Addario

A. A. 2013/2014

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“L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile, prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione”

(Oscar Wilde)

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INDICE

I

IL GRUPPO COME STRUMENTO DI INTERVENTO

UNA VISIONE INTEGRATA

TRA NEUROBIOLOGIA E TERAPIA

ABSTRACT III

INTRODUZIONE 1

Capitolo I

LA PSICOTERPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

Introduzione 7

1. Gruppo e terapia di gruppo 8

1.1 Il gruppo come campo semantico 8

1.2 La psicoterapia 10

1.3 Il gruppo 11

1.4 Approcci alla psicoterapia di gruppo 12

1.5 Obiettivi della terapia 14

1.6 Efficacia della terapia di gruppo 16

2. Evoluzione della psicoterapia di gruppo 17

2.1 Gli albori del setting gruppale 18

2.2 Dai precursori dell‟intervento di gruppo alla prima espansione 21

2.3 Il contributo di Lewin, Bion e Foulkes 21

2.4 La fase di innovazione 28

2.5 Esempi di intervento in setting gruppale 30

2.6 Evoluzione dei paradigmi e cambiamenti sociali e gruppi 36

Capitolo II

FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

Introduzione 41

3. La ricerca sul processo e i fattori terapeutici 41

3.1 Meccanismi di cambiamento: i fattori terapeutici di gruppo 43

3.2 Coesione 45

3.3 Apprendimento interpersonale 46

3.4 Fattori terapeutici secondari: informazione e infusione di speranza 48

3.5 Universalità e riepilogo correttivo del gruppo primario familiare 49

3.6 Altri fattori terapeutici secondari 49

3.7 Verso un approccio client-based 50

4. Fasi evolutive del gruppo 52

4.1 Dinamica di gruppo e fasi evolutive di gruppo 52

4.2 Difese, episodi e fenomeni di gruppo 53

4.3 Compiti di sviluppo secondo Yalom 56

4.4 Stadi secondo Rogers 61

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INDICE

II

Capitolo III

CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

Introduzione 66

5. Criteri di applicazione del setting gruppale 66

5.1 Definizione di setting e ricerca scientifica 66

5.2 Scelta delle modalità di trattamento 69

5.3 Contratto e altri aspetti procedurali 70

5.4 Atteggiamento terapeutico e autenticità 73

5.5 Il paziente e la terapia 77

6. Classificazione dei setting gruppali 79

6.1 Classificazioni formali 79

6.2 Dimensioni 79

6.3 Il continuum verbale-non verbale 82

6.4 Verso il processo: attività e scopi 83

6.5 Il continuum terapia-addestramento 85

6.6 Altre variabili nel lavoro con i gruppi 86

Capitolo IV

BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

Introduzione 89

7. Neurobiologia e processi terapeutici 90

7.1 Neuroplasticità 90

7.2 Memoria 92

7.3 Eventi traumatici 94

7.4 Sistema Nervoso Centrale e Periferico 95

7.5 Integrazione 96

8. Neuroscienze: il „cervello sociale‟ 98

8.1 I neuroni specchio 99

8.2 Sistema limbico 101

8.3 Mirror system e mappa spaziale peripersonale 102

8.4 Risonanza e imitazione interna 103

8.5 Linguaggio ed empatia 105

9. Funzionamento del gruppo come insieme 107

9.1 Gruppo come spazio sicuro 108

9.2 Gruppo come „cervello sociale‟ 109

9.3 Il gruppo come scambio 110

9.4 Ruolo dell‟informazione 111

9.5 Una visione integrata sul gruppo 112

CONCLUSIONI 117

RINGRAZIAMENTI 122

BIBLIOGRAFIA 123

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ABSTRACT

III

ABSTRACT

In questa trattazione si propone un’integrazione delle teorie e della tecnica alla base

dell’intervento gruppale prendendo in considerazione, in prospettiva bio-psico-sociale,

alcune delle più importanti ricerche dell’ultimo decennio nel campo della

neurobiologia interpersonale (Siegel, 2013).

Dopo una introduzione definitoria alla terapia di gruppo che comprende la

comparazione dell’efficacia tra i due setting, individuale e di gruppo, e una

contestualizzazione storica, vengono illustrati alcuni paradigmi che hanno esercitato

influenza sulle concettualizzazioni sul gruppo, come la teoria del campo (Lewin, 1951),

la matrice di gruppo (Foulkes, 1948), gli assunti di base (Bion, 1959). Una esposizione

in chiave applicativa illustra i meccanismi di cambiamento attivi nel gruppo, i fattori

terapeutici (Yalom, 1970), e una visione stadiale proposta da Rogers (1970).

Il contributo delle neuroscienze viene introdotto da argomenti trasversali, come la

neuroplasticità, le memorie, il funzionamento del sistema nervoso periferico e una

definizione generale di trauma, che trovano riscontro e applicazione nella pratica

clinica. Più in dettaglio si parlerà dei neuroni specchio (Iacoboni, 2008) come di

componenti essenziali del ‘social brain’ (Cozolino, 2006), capaci di stabilire profondi e

reciproci collegamenti tra il cervello e l’ambiente sociale, tra sé e altro come entità co-

costruite; e della risonanza (Siegel, 2013), come processo interpersonale attraverso cui

gli individui riflettono e apprendono reciprocamente. Da queste premesse sarà

possibile parlare di ‘gruppo come insieme’ e delle sue funzioni regolatrici.

A partire dai lavori di Schermer (2010) e Gantt e Badenoch (2013) e da un vertice di

mente come processo creato all’interno di meccanismi neurofisiologici ed esperienze

relazionali, viene proposta una contestualizzazione delle prospettive teoriche di Lewin e

Foulkes e una chiara e incoraggiante lettura della tecnica a supporto della terapia di

gruppo.

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INTRODUZIONE

1

INTRODUZIONE

Considerazioni iniziali. Quali meccanismi intervengono all‟interno di un gruppo

terapeutico? Che tipo di processi permettono all‟individuo la traslazione da una

prospettiva personale ad una interpersonale e gruppale? È presente nell‟uomo una

dimensione sociale intrinseca? E, se esistesse, in che modo potrebbe influire sulla

persona e sul processo terapeutico? Attraverso le parole di Freud (1921) contenute in

„Psicologia delle masse e analisi dell‟Io‟, in cui afferma che la psicologia individuale è

al tempo stesso fin dall‟inizio psicologia sociale, è possibile supporre che domande

simili abbiano accompagnato le scienze psicologiche fin dal loro primo sviluppo. Per

consentire una riflessione scientifica su questi argomenti sono stati definiti settori

disciplinari dedicati all‟essere in gruppo, come ad esempio la psicologia sociale o la

psicologia dei gruppi. In modo analogo, all‟interno di specifici paradigmi, come ad

esempio quello psicoanalitico, si sono venute a creare delle specializzazioni, come

possono essere l‟analisi di gruppo (Bion, 1961) e la gruppoanalisi (Foulkes, 1948). La

stessa psicoterapia, che nasce all‟interno del più classico setting duale, ben presto si

apre a modelli e tecniche che permettono un trattamento in setting di gruppo. Tuttavia la

storia della psicologia riporta anche casi di prassi che, per motivi contingenti, si

rivolgono al gruppo mancando di una specifica teorizzazione a monte. Queste

esperienze, come possono essere quella di Pratt e di Bion, si riveleranno poi di estremo

interesse, tanto per i loro risvolti metodologici che teorici. Nel panorama clinico

l‟argomento dell‟intervento sul gruppo, svolto per volontà o per necessità, come

modalità elettiva o come forma di terapia fruibile su più ampia scala, si è avvicendato

spesso alla prospettiva di intervento sul singolo individuo. In alcuni momenti storici,

come durante le guerre o nel corso della rivoluzione socioculturale degli anni ‟60, il

setting gruppale sembra aver trovato una grande diffusione assumendo popolarità e

riscuotendo interesse. In realtà nella storia del pensiero psicologico il setting gruppale è

andato incontro anche a critiche sia da parte del mondo accademico, è il caso di Burrow

che subisce un‟emarginazione per essersi occupato del lavoro con i gruppi (Di Maria e

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INTRODUZIONE

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Lo Verso, 1995), sia da parte dell‟opinione pubblica, considerando la terapia di gruppo

una soluzione di ripiego: meno efficace e più economica rispetto alla terapia individuale

(Yalom, 1970). Per certi aspetti il passaggio dalla relazione terapeutica „a due‟ – la

coppia terapeuta-paziente – alle relazioni plurali – caratteristiche del piccolo gruppo –

ha rappresentato uno degli eventi più rivoluzionari nella storia della psicologia (Di

Maria e Lo Verso, 1995). In questo passaggio una tradizione fondata su una lettura

individualistica dei rapporti interumani, visti sostanzialmente come relazioni tra mondi

autoreferenziali, viene messa in discussione avviando una „rivoluzione copernicana‟

(ibidem). Seguendo una traiettoria di pensiero induttiva, procedendo quindi dal

particolare al generale, è possibile considerare che indizi di questa transizione verso una

concezione essenzialmente relazionale e interazionista dell‟uomo, che ha trovato

precoce espressione nell‟istituzione del setting gruppale, possano essere rintracciati nel

pensiero di autori come Vygotskij e Bowlby, che hanno influito sui paradigmi della

psicologia dello sviluppo e sulle stesse teorie evolutive. In questa progressiva apertura

alla realtà intersoggettiva, se oggi si è potuta affermare la neurobiologia interpersonale –

argomento portante della presente trattazione – e si può parlare di una „mente

relazionale‟ (Siegel, 1999; 2013) è forse anche grazie al ruolo svolto da questi

precursori, attivi interpreti o forse inconsapevoli attori di un importante e più grande

cambiamento.

Accanto a una nuova attenzione per l‟intersoggettività lo sviluppo tecnologico odierno,

con tecniche di indagine strumentale e tecnologie di neuroimmagine, come la

tomografia ad emissione di positroni (PET) (Positron Emission Tomography) e la

risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Functional Magnetic Resonance Imaging),

consente di focalizzare l‟interesse dei ricercatori sugli aspetti neurocognitivi e

neurobiologici del funzionamento cerebrale. Tecnologie e studiosi portano la scena

moderna a poter beneficiare di informazioni che nei decenni precedenti sarebbe stato

impossibile ottenere. Grazie a queste informazioni sono disponibili pubblicazioni dove,

ad esempio, si cerca di assimilare una visione topica dell‟apparato psichico con

argomenti di pertinenza sia neuropsicologica che clinica, come il trauma (cfr. Schore,

2010) e la memoria (cfr. Schore, 2011). La moderna attenzione all‟integrazione, unita

ad una sempre maggiore sensibilità della ricerca neuroscientifica verso la dimensione

relazionale-interpersonale, sembra aver interessato soltanto di recente e in modo

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INTRODUZIONE

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sporadico la psicoterapia di gruppo cercando di dare riscontro ai modelli interpretativi e

alla teoria della tecnica. In questo senso l‟augurio del redattore è che il presente lavoro

possa diventare presto superato dalla presenza di nuove informazioni sui meccanismi

neuropsicologici presenti nella terapia di gruppo.

Argomento. Questa tesi affronta il tema dell‟integrazione della terapia di gruppo, negli

aspetti legati alla teoria e alla prassi, con i contributi che vengono dalle neuroscienze.

Prendendo in esame differenti settori scientifici e modelli teorici, nonché abbracciando

una visione bio-psico-sociale, adotta una prospettiva interdisciplinare. Il lavoro

compilativo si avvale di una rassegna dei principali argomenti offerti dalla

neurobiologia interpersonale su temi collegati all‟intervento psicoterapeutico e, in

particolare, su alcuni assunti sull‟intervento in setting gruppale. A tal riguardo cerca di

riportare l‟attuale stato dell‟arte integrando le opere di differenti autori.

Obiettivi. Obiettivo del presente lavoro è illustrare le basi concettuali da cui ricercatori

hanno affrontato una lettura delle teorie e della prassi sulla terapia di gruppo e, insieme,

illustrare i meccanismi neurobiologici implicati nella gruppalità. Nel perseguire queste

finalità si fa particolare riferimento al modello della neurobiologia interpersonale.

Seguendo un itinerario ideale che parte da una ricerca storiografica, attraversa i

meccanismi di cambiamento di gruppo e una breve rassegna sulle variabili presenti nel

setting gruppale, approdando infine nelle indicazioni sulla tecnica fornite nell‟ultimo

capitolo, in seconda istanza il lettore potrà sviluppare un pensiero personale

sull‟evoluzione del setting gruppale, dai primordi ai nostri giorni, e una visione del

gruppo come strumento di intervento ricca di implicazioni di ordine pratico ed

epistemologico. Tuttavia tale riflessione, che pure anima il presente lavoro, non viene

posta come centrale, tantomeno vuole giungere a delle particolari conclusioni. Più in

generale lo scopo della tesi è guadagnare un vertice di osservazione sul gruppo che

possa essere il più possibile integrato, „laico‟ e moderno, superando le inevitabili

distanze presenti tra paradigmi empirico-esplicativi, più affini alla ricerca, e teorico-

applicativi, più vicini alla clinica. In questo modo, probabilmente in linea con le

intenzioni degli autori presi in esame, si intende promuovere la validità e sostenere le

peculiarità dell‟intervento in setting gruppale e, in particolar modo, della psicoterapia di

gruppo.

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INTRODUZIONE

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Letteratura. Il termine „integrazione‟ ritorna anche rispetto alla letteratura presa in

esame, letteratura in cui vari autori come Iacoboni (2008), da un vertice

neuroscientifico, e Siegel (1999; 2006; 2007; 2013), Schore (2003; 2010), Porges

(2007), da una prospettiva neurobiologica, hanno contribuito alla conoscenza e alla

divulgazione di argomenti trasversali cari alla psicoterapia, argomenti raccolti e

applicati alla terapia di gruppo essenzialmente da Schermer (2010) e Badenoch e Cox

(2010), nonché nel più recente lavoro „The Interpersonal Neurobiology of Group

Psychotherapy and group Process‟ di Gantt e Badenoch (2013), che riunisce in un‟unica

pubblicazione i principali articoli presenti sull‟argomento. Allo stesso tempo sono state

consultate e citate opere che rappresentano delle pietre miliari nella storia della

psicoterapia di gruppo, come quelle di Lewin (1947; 1948; 1951), Foulkes (1945; 1948;

1964), Bion (1961), Berne (1966), Rogers (1970), Yalom (1970). In considerazione

dell‟obiettivo centrale di questa tesi la letteratura più attuale presentata non sembra

sufficiente a sollecitare dibattiti o particolari divergenze: assunti, terminologia e

argomenti all‟interno dell‟approccio neurobiologico sembrano piuttosto trovare una

sostanziale convergenza. Volendo leggere nel presente lavoro una riflessione più ampia

sull‟evoluzione del setting gruppale, le opere e gli autori classici incarnano invece un

vivo confronto tra differenti approcci al gruppo, confronto che si può rinvenire tanto in

seno alla terminologia quanto nelle differenti concettualizzazioni e orientamenti alla

pratica. In particolare Rogers e Yalom, attraverso gli argomenti con cui si confrontano,

sollevano importanti questioni di carattere epistemologico riassunte nelle domande

„come si contestualizza il cambiamento personale all‟interno della dinamica del

gruppo?‟, quindi „cosa conferisce al gruppo lo status di strumento terapeutico?‟, e

inaugurano un possibile dibattito che, ad oggi, resta probabilmente aperto e che, forse,

una contestualizzazione neurobiologica potrà riuscire a moderare.

Metodo. Questo lavoro procede mettendo a confronto opere e articoli di vari autori in

chiave sia storiografica che descrittiva, segue quindi una elaborazione di tipo teorico

assimilabile al „review article‟. L‟argomentazione nel complesso mira a illustrare la

possibilità di intervento attraverso il gruppo come modalità che gode di una propria

autonomia teorica, epistemologica, pratica, facendone uno strumento applicativo

scientifico, versatile, efficace, sostenibile.

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INTRODUZIONE

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Struttura. La tesi si sviluppa in quattro capitoli. Nel primo si cercano di fornire i

riferimenti necessari per definire in modo generale il campo di indagine. Per rispondere

alla domanda „cos‟è la terapia di gruppo‟ si affronta un‟introduzione semantica, una

definizione di psicoterapia e di gruppo, definendone alcune caratteristiche. Vengono

illustrati alcuni modi in cui il gruppo può essere utilizzato – come raggruppamento di

singoli individui, come entità in cui individuo e gruppo coesistono alla pari, come

insieme in cui la dimensione collettiva prevale sulla componente individuale –, modi

che ne definiscono implicitamente i risultati attesi (Yalom, 1970), ovvero un certo grado

di cambiamento personale. Tale cambiamento può far leva su differenti meccanismi.

Parlando di risultati si introduce il concetto di efficacia e la presenza di fattori

trasversali che interessano variabili relazionali piuttosto che specifiche tecniche. Una

contestualizzazione storica permette di dare spessore alle definizioni precedentemente

fornite, prospetta inoltre uno scenario dinamico di crescente complessità necessario alla

trattazione successiva.

Il secondo capitolo ruota intorno gli aspetti processuali del gruppo, prendendo in esame

i meccanismi che sollecitano un cambiamento nei singoli membri e, alimentando un

confronto tra diversi autori e prospettive, i meccanismi che definiscono lo sviluppo e la

vita del gruppo come organismo complessivo.

Il terzo capitolo sembra tornare a un approccio definitorio illustrando le condizioni che

permettono di operare attraverso l‟impiego del gruppo; in realtà qui si passa da una

prospettiva processuale a una procedurale. Ogni setting necessita di punti fermi che

devono necessariamente essere definiti a monte e resi operativi nella pratica: in questo il

più generico setting gruppale è simile ad ogni altro possibile e più specifico setting

terapeutico. Qui si parla anche dell‟atteggiamento terapeutico come precoce

disposizione del conduttore intorno a cui può strutturarsi e può concretamente prendere

forma il gruppo. Degli esempi di classificazione del lavoro con il gruppo esprimono la

centralità del ruolo del conduttore e degli obiettivi che si pone attraverso l‟intervento.

Nel quarto capitolo, dopo una sufficiente introduzione rappresentata dai capitoli

precedenti, è possibile affrontare l‟argomento della terapia, che in ottica neurobiologica

è terapia del singolo inserito in un ambiente interpersonale realizzato e regolato ad hoc.

Da una prospettiva neurobiologica si illustra il concetto di trauma e non integrazione

come equivalenti del concetto di „disturbo‟ e quello di neuroplasticità e integrazione

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come equivalenti di „cura‟. Una illustrazione dei processi che intervengono tra trauma e

neuroplasticità, tra disregolazione e integrazione, permette di delineare le qualità

auspicabili dell‟ambiente sociale in cui si svolge la terapia, luogo interpersonale

mediato da un corpo dotato di un‟esperienza – memorie – e di una fisiologia – sistema

nervoso periferico . Da un vertice neuropsicologico è possibile analizzare i processi che

collegano gli individui rendendo possibile di influenzarsi reciprocamente e gli effetti

che questa influenza può sortire – integrazione. È a questo punto che il gruppo

terapeutico può diventare una dimensione sovraordinata capace di contenere

normalizzare e rispondere ai comportamenti e agli stati non integrati dell‟individuo.

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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Capitolo I

LA PSICOTERPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

Introduzione

«Negli ultimi anni sono diventato sempre più consapevole del fatto che in questo

campo [la ricerca e la clinica nella psicoterapia di gruppo] vi è urgente bisogno di

un duplice fondamento umanistico-scientifico se si vogliono affrontare

efficacemente le crescenti tensioni umane create da una tecnologia scientifica

orientata verso le macchine». (Yalom, 1970; 12)

Questo pensiero di Yalom (1970) che compare nella prefazione di „Teoria e pratica

della psicoterapia di gruppo‟ risale al 1969 e appare ancora oggi avanguardista e, al

contempo, attuale. Da allora molti e differenti sono stati gli sforzi e le innovazioni nel

campo della psicologia, in direzione di una maggiore scientificità, del raggiungimento

di una maggiore efficacia clinica e di un più solido statuto epistemologico, del

perseguimento di un pieno valore e riconoscimento sociale degli interventi. Tuttavia ciò

a cui si è assistito negli ultimi 40 anni è stato un proliferare di modelli, metodi,

discipline. Tale proliferazione e parcellizzazione del sapere ha portato allo sviluppo di

settori che sono andati affermandosi, come le scienze cognitive, le neuroscienze, ma

anche la psicometria e le tecniche di analisi dei dati, i cui notevoli progressi – è

indubbio – hanno creato un effetto a cascata restituendo nuovo vigore anche alle

teorizzazioni precedenti, potendo offrire una visione dell‟uomo più ricca e, lungi

dall‟essere esaustiva, più completa. Ciò che ad oggi sembra mancare – o forse ciò che

sta accadendo proprio in questo momento storico dello sviluppo scientifico – è la sintesi

all‟interno di nuove categorie: un processo di semplificazione e di integrazione,

conseguente ad una fase di sviluppo e di crescente complessità. Tale osservazione che

legittima la storia recente e attuale della psicologia può assumere un pieno valore nella

consapevolezza che sviluppare più metodi non sempre coincide con l‟evoluzione del

metodo.

Da questa considerazione, che vuole essere una soggettiva e possibile

constatazione, nonché, a conclusione di un percorso formativo, dal desiderio di tentare

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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di riportare lo stato dell‟arte nelle scienze psicologiche rispetto un argomento di

personale interesse, nasce e sviluppa la presente trattazione sul valore del gruppo come

strumento di intervento.

Aspetto importante e imprescindibile è il metodo che viene applicato alla ricerca

scientifica in psicologia. Citando ancora Yalom (1970) si vuole mettere in evidenza che

il metodo e la riflessione teorica non costituiscono un momento distinto e separato

dall‟intervento psicologico: metodo e intervento sono piuttosto aspetti contingenti ove

l‟uno definisce mutualmente l‟altro. Inoltre Yalom ribadendo l‟importanza di prove

documentali a supporto delle ipotesi, ammonisce dal rischio di adottare una posizione

squisitamente centrata sul dato numerico restituendo alla ricerca una dimensione

complessa, capace di abbinare all‟apertura concettuale e all‟integrazione disciplinare dei

criteri di efficacia. Ma l‟aspetto trasversale che permea le parole di Yalom è la centralità

che assumono le figure del paziente, del gruppo e del terapeuta, che nel loro incontro

fondano e portano in divenire l‟unico momento terapeutico realmente possibile – forse

l‟unico „vero‟ in quanto condiviso.

«In assenza del perfezionamento metodologico […] di fronte a pazienti sofferenti

evidentemente i terapeuti non sono riusciti ad aspettare l‟evoluzione della scienza.

Sono stati elaborati dei complessi sistemi di terapia che cambieranno lentamente e

solo davanti a prove veramente inconfutabili. Al di là di questo vi è ancora un‟altra

considerazione: a differenza delle scienze fisiche molti aspetti della psicoterapia

sfuggono alla quantificazione. La psicoterapia è arte e scienza nello stesso tempo.

Le scoperte della ricerca guideranno in ultima analisi i principali movimenti della

terapia, ma l‟incontro umano sarà sempre un‟esperienza profondamente personale,

non misurabile». (Yalom, 1970; 13)

1. Gruppo e terapia di gruppo

1.1 Il gruppo come campo semantico

L‟origine del termine gruppo viene fatta risalire al ceppo delle lingue

germaniche, in particolare al gotico kruppa, espressione che sottende il significato di

nodo, matassa arrotondata (Roccioletti, 2002; Giusti e Nardini, 2004), si riferisce ad un

insieme di unità. Più tardivo è l‟antico provenzale grop (Perrini, 2002), da cui derivano i

termini groupe e croupe, nei significati di crocchio, accerchiamento di persone, e di

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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groppa. Queste parole rimandano chiaramente all‟immagine di una linea tondeggiante,

ad un cerchio. Nell‟italiano arcaico il termine è sovrapponibile a groppo1, nel

significato di nodo, grumo; più raramente rimanda al significato di sacchetto di monete

o rotolo di banconote, passando da concetti di blocco, ostruzione in forma tangibile, a

quelli di matassa, spola, cilindro. È nel XVIII secolo che il termine compare nel

vocabolario nell‟accezione in cui viene oggi utilizzato. Il termine e il concetto di gruppo

sono quindi relativamente recenti, in particolare nella lingua italiana, nella quale assume

dei significati più articolati.

La più classica letteratura psicologica inerente la riflessione linguistica sul

gruppo parte dal francese e parla delle figure di „nodo‟ e „tondo‟ (Anzieu e Martin,

1968). Nodo come avvolgimento variamente intrecciato di uno o più elementi flessibili,

fatto per stringere, legare, fermare; come punto d‟incontro di più linee di collegamento;

punto cruciale, determinante di una situazione. Tondo come a forma di cerchio, di sfera,

o che si avvicina più o meno a essa; rotondo; o riferito a membra o tratti anatomici, di

forme piene, ben tornite; come numero o cifra intera, senza decimali. Analogamente,

dalla presente trattazione, nell‟etimo italiano del termine si evincono due direttrici

semantiche distinte, forse complementari: una rimanda ad una convergenza verso un

vincolo e una condizione, uno stato di confine e una barriera – grumo come coagulo,

transizione da uno stato fluido ad uno solido; nodo come interruzione di una soluzione

di continuità lineare –, un‟altra porta nella direzione di un collegamento, un legame, una

omogeneità, una condizione di regolarità – sacchetto come involucro e contenitore;

rotolo come rocchetto, insieme di spire, filo arrotolato .

Una forma ricorrente e capace di sintetizzare alcune di queste descrizioni, in

particolare i significati della lingua italiana, è il cerchio, area delimitata da una

circonferenza. In geometria una circonferenza è il «luogo dei punti equidistanti da un

punto fisso, detto centro. […] Le circonferenze sono curve chiuse che dividono il piano

in una superficie interna ed una esterna infinita»2. Proprietà della circonferenza è che

tutte le circonferenze sono simili – può variare solo la lunghezza del raggio –,

scegliendo due punti a piacere sulla circonferenza il segmento che li unisce è interno

alla circonferenza, il cerchio è la figura geometrica con il minor rapporto

area/perimetro. Si rinvengono alcuni elementi caratterizzanti il cerchio e alcune

1 Fonte: http://www.treccani.it/vocabolario/gruppo/, consultata il 26/10/2014.

2 Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Circonferenza, consultata il 26/10/2014.

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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significative analogie con il gruppo, rispettivamente: l‟equipotenzialità dei punti della

circonferenza rispetto il centro garantisce una condizione di uguaglianza, il fatto che

tutti i punti di una circonferenza possono „guardarsi‟ tra loro favorisce una situazione di

reciproco controllo e condivisione, avere la massima stabilità interna offrendo il minor

contatto con l‟esterno garantisce il miglior requisito di protezione. Questi aspetti

preliminari possono illustrare in modo semplice e intuitivo la realtà del gruppo.

1.2 La psicoterapia

La psicoterapia è una relazione basata su modelli teorici scientificamente

riconosciuti (Formica, 2012) il cui obiettivo, contrattualmente definito, è modificare in

senso adattivo dei comportamenti. Ne sono state sviluppate differenti forme e

rappresenta il più comune degli interventi in psicologia. Come sostiene Bowlby (1988),

la psicoterapia deve servire al paziente come „base sicura‟ per esplorare i diversi aspetti

della propria vita. Più tecnicamente con il termine psicoterapia si intende l‟insieme dei

processi utilizzati nel trattamento di un paziente (Compas e Gotlib, 2002). Gli obiettivi

che persegue sono spesso distinti dai processi o dai meccanismi usati per realizzare un

cambiamento. Molti interventi sono progettati per modificare un livello del

funzionamento umano come strategia per svilupparne un secondo. La ricerca sui

processi responsabili dell‟efficacia terapeutica supporta un modello di determinazione

reciproca (Bandura, 1986; 1997): vari ambiti del funzionamento umano – cognizione,

emozione, comportamento, biologia – e l‟ambiente, si influenzano a vicenda ed un

cambiamento in uno di questi si riflette sugli altri (Lazarus, 1991). L‟intervento avvia

una serie di complessi processi in cui pensieri, comportamenti, emozioni e biologia,

come del resto l‟ambiente, si influenzano in un‟attivazione reciproca (Compas e Gotlib,

2002). Una delle principali difficoltà in cui ci si imbatte parlando di psicoterapia è il

dover rispettare contemporaneamente la complessità clinica e il rigore metodologico (Di

Blasio e Lo Verso, 2012), nel momento progettuale, operativo e valutativo.

La psicoterapia è un processo in cui un terapeuta si prende cura della mente del

paziente. Secondo un‟ottica neurobiologica la mente emerge da un‟integrazione tra

interpersonale e neurale (Siegel, 2013): è in questo campo che, facilitando lo sviluppo di

stati di risonanza e di attivazione cooperativa, si svolge la relazione terapeutica e può

avere luogo il lavoro integrativo di stati del Sé diversi.

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1.3 Il gruppo

Il gruppo è una struttura che nasce e si definisce nel mondo sociale, in cui appare

assolvere delle specifiche funzioni. Il risultato dell‟attività del gruppo permette

all‟individuo benefici e garanzie di cui diversamente non potrebbe disporre. In

psicologia sociale, disciplina votata al loro studio, i gruppi sono contraddistinti dai

seguenti aspetti:

1. coesione: un gruppo è coeso quanto più i componenti si identificano nelle sue

caratteristiche e nei suoi ideali distintivi (Brown, 2000). La coesione scaturisce

dall‟attrazione „sociale‟ nei confronti degli altri membri in quanto tali (Hogg,

1992). Non è necessario che due membri si conoscano o nutrano stima reciproca

affinché possa manifestarsi coesione. La riflessione sulla coesione porta ad

osservare il gruppo da una prospettiva funzionalista: l‟attaccamento al gruppo

dipende dalla sua capacità di saturare bisogni profondi di identificazione, di

affiliazione (Brown, 2000) o, per dirla con le parole della psicologia umanistica,

di sicurezza, appartenenza e di stima (Maslow, 1954);

2. interdipendenza: le esperienze, le azioni e i risultati di un individuo sono legati

alle esperienze, alle azioni e ai risultati degli altri individui presenti nel gruppo: i

membri sono in qualche modo interdipendenti (Brown, 2000). Secondo Lewin

(1948) i membri possono sentirsi connessi tra loro per due motivi:

interdipendenza del destino: i gruppi nascono in senso psicologico

perché degli individui si rendono conto che il loro destino dipende, o è

in qualche modo legato, al destino dell‟insieme cui fanno parte. Quando

le persone iniziano a percepire di „essere sulla stessa barca‟ riescono a

considerarsi come un gruppo anche in mancanza di ogni altro requisito;

interdipendenza del compito: molti gruppi si fondano sulla presenza di

un obiettivo comune che esemplifica gli scopi dei membri. Nel compito

i risultati di ognuno assumono implicazioni, positive o negative, per gli

esiti del lavoro di gruppo, quindi per i compagni. In caso di

interdipendenza negativa si genera competizione: il successo di un

individuo rappresenta l‟insuccesso per un altro. Nell‟interdipendenza

positiva il compito è posto in modo da motivare alla cooperazione. In

presenza di maggiore cooperazione avvengono più scambi comunicativi

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– aumenta il grado di coesione –, si ottiene una migliore prestazione

(Deutsch, 1949) rispetto una condizione neutra o di interdipendenza

negativa;

3. norme: le norme rappresentano una scala di valori (Sherif e Sherif, 1969) che

organizza gli atteggiamenti e comportamenti all‟intero del gruppo. A differenti

livelli di esplicitazione e di dettaglio le norme indicano il modo in cui dei

membri possono comportarsi, rappresentando la base delle aspettative sul

comportamento reciproco (Brown, 2000). Come le norme sono in grado di

regolare il comportamento dei membri, viceversa, le persone scelgono di

appartenere ad un gruppo anche perché questo garantisce alcuni requisiti minimi

di sicurezza nei rapporti interpersonali, soddisfacendo dei bisogni personali

(Maslow, 1954). Per l‟individuo norme e valori fungono da strutture di

riferimento attraverso cui interpretare il mondo, portando ordine e prevedibilità

nelle relazioni sociali (Brown, 2000).

In abito psicologico il gruppo assume tipicamente una dimensione massima di

15-20 membri prendendo il nome di „piccolo gruppo‟.

1.4 Approcci alla psicoterapia di gruppo

Nell‟intervento psicologico con setting di gruppo si possono delineare due

principali filoni storici:

uno derivato dai metodi della psicologia sociale che risente di vari influssi, da

Moreno, a Lewin e a Yalom, che abbraccia un‟ampia possibilità di applicazioni

tra cui è inclusa la psicoterapia. Nel presente lavoro verrà sviluppato soprattutto

questo indirizzo;

uno di matrice analitica applicato in ambito medico, storicamente più radicato

che, pur essendosi declinato in varie forme, si rivolge essenzialmente alla

psicoterapia e viene illustrato a seguire per poi essere ripreso nel contributo di

alcuni singoli autori.

In ambito analitico il corrispettivo della generica espressione „psicoterapia di

gruppo‟ fa riferimento a una precisa tradizione, definita „psicoterapia analitica di

gruppo‟ o gruppoanalisi. Intorno agli anni ‟30 del XX secolo diversi psicoanalisti

iniziano a utilizzare il gruppo nel trattamento di pazienti psichiatrici venendo a

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delineare tre principali orientamenti: l‟analisi in gruppo, l‟analisi di gruppo e l‟analisi

mediante il gruppo. Prenderli in esame permette di evidenziare differenti possibilità di

agire nel contesto gruppale (Profita e Venza, 1995):

analisi in gruppo: si pone in continuità teorica e tecnica con la psicoanalisi

negando specificità psicologica al gruppo, che diventa luogo altro in cui

praticare la psicanalisi su singoli individui. Il gruppo, riproposizione del nucleo

familiare, permette la maggior visibilità di atteggiamenti transferali detti

„transfert multilaterali‟ (ibidem). La maggior sistematizzazione teorico-

metodologica avviene ad opera di Wolf che introduce concetti come teorici l‟„Io

collettivo‟ e metodologici come la „seduta alternata‟ (Wolf, 1949);

analisi di gruppo: è Burrow, figura isolata nella storia della psicoterapia di

gruppo, che nel 1925 conia l‟espressione (Profita e Venza, 1995). La prassi

viene viluppata da Bion a partire dagli assunti della „teoria delle relazioni

oggettuali‟, ovvero la scuola britannica fondata sulle elaborazioni della Klein

(Gabbard, 1995). Il gruppo, che assume una specifica dimensione psicologica,

viene concepito come oggetto di analisi mentre l‟atteggiamento del terapeuta

resta psicoanalitico. In seno a questa tendneza originano la teoria sociale del

conflitto nevrotico (Burrow, 1949) e il conflitto focale di gruppo (Whitaker e

Lieberman, 1965). A questa modalità viene riconosciuto un valore didattico-

formativo oltre che terapeutico;

analisi mediante il gruppo: detta anche gruppoanalisi, si discosta dalla

psicoanalisi sul piano teorico e tecnico guadagnando una prospettiva sistemica e

integrando i principi della psicologia della Gestalt (Profita e Venza, 1995).

Sviluppata da Foulkes, la concezione gruppale viene inserita nella teoria e nello

sviluppo della sintomatologia come luogo di immagini collettive e proiezioni

archetipiche. Il gruppo-matrice (Foulkes, 1964), insieme di reti di relazioni su

più livelli appartenenti ad ogni individuo, viene visto come insieme attivo nel

„qui ed ora‟. Lo scompenso nevrotico viene considerato il punto di rottura di una

serie di processi relazionali in cui sono coinvolte persone del presente e del

passato (ibidem). L‟attività terapeutica è marginale e interessa l‟analisi della

matrice di uno specifico gruppo.

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Ulteriori sviluppi dell‟approccio analitico rappresentano modelli che pur

conservando un buon grado di autonomia teorica e metodologica, e a volte

discostandosi notevolmente da un ideale analitico, sono stati considerati come metodi

isolati o di secondario interesse, non sempre inerenti il campo delle psicoterapia. Alcuni

di questi sviluppi sono (Profita e Venza, 1995) lo psicodramma di Moreno, la

psicoterapia della Gestalt, la terapia familiare psiconalitico-gruppale di scuola francese,

i cui esponenti sono stati degli psicoanalisti.

Per quanto concerne gli approcci di matrice non analitica alla psicoterapia di

gruppo avremo modo di trovarli nella seguente trattazione. Il panorama di approcci e

tipologie di applicazioni ricco ed eterogeneo rende difficoltosa una categorizzazione

univoca dei principali orientamenti. Cercheremo tuttavia di considerare alcuni parametri

all‟interno dei quali contestualizzare differenti modalità di lavoro psicologico in setting

gruppale.

1.5 Obiettivi della terapia

Teorie e metodi vengono utilizzati per poter circostanziare alcuni aspetti

dell‟intervento, quindi per poterlo guidare e, successivamente, valutare. Questo

processo risponde ad un criterio di scientificità necessario in psicologia tanto più in

psicoterapia. Ogni paradigma psicologico assume una particolare visione funzionale

dell‟oggetto di indagine, ovvero una teoria, che nel momento operativo corrisponde ad

un insieme di prassi, che rappresentano la tecnica. Un primo punto di incontro tra la

teoria e la tecnica può essere rappresentato dagli obiettivi che si prefigge un dato

paradigma, quindi che guidano la terapia.

Gli obiettivi, a differente livello di dettaglio, vengono definiti a monte o nelle

fasi precoci dell‟intervento. Vanno a definire un focus terapeutico in base al quale viene

instaurata una specifica relazione: questa relazione rappresenta un trattamento

pianificato sulla richiesta del paziente (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004). Gli obiettivi

hanno quindi una doppia implicazione: 1. contrattuale ed esplicita, nel definire un

accordo condiviso e avviare un rapporto lavorativo su domanda del paziente; 2.

operativa e implicita, nel definire strategie e metodi di intervento (ibidem), ovvero

processo e tecnica che il paziente vede applicati. Questi due momenti convergono nella

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relazione terapeutica che si ingaggia con la singola persona e con il gruppo come

insieme.

Gli obiettivi di un percorso terapeutico ne prefigurano il miglior risultato atteso:

costituiscono il traguardo cui paziente e terapeuta stanno mirando, per cui è importante

che siano condivisi e chiaramente definiti (Berne, 1966). Esempi possono essere:

riduzione di comportamenti disfunzionali, socializzazione più soddisfacente, maggior

controllo delle emozioni o del comportamento, il superamento di modi di relazionarsi

stereotipati: termini come condivisione, maturità, integrazione, crescita… potrebbero

essere meglio definiti (ibidem). Secondo alcuni autori è importante che un obiettivo sia

circostanziato, specifico e realistico essendo il centro del contratto terapeutico (Giusti,

Montanari, Iannazzo, 2004). Obiettivo generale e precoce del terapeuta deve essere

mettere l‟altro in condizione di imparare a crearsi delle situazioni per soddisfare i suoi

bisogni (ibidem).

Considerando il lavoro di gruppo dalla prospettiva del processo, ovvero dei

meccanismi secondo i quali avviene il cambiamento nei membri, anche detti „fattori

terapeutici di gruppo‟ il panorama delle tipologie di intervento si riduce ad un numero

limitato di finalità, quindi di obiettivi (Yalom, 1970). Da questo assunto lavori di

gruppo che possono sembrare esteriormente molto diversi possono far riferimento a

meccanismi di cambiamento identici, per cui gruppi con obiettivi simili plausibilmente

fanno leva su analoghi fattori curativi. Le finalità di una terapia gruppale centrata sul

ruolo del leader e sul tipo di composizione del gruppo possono andare dall‟appoggio, al

sostegno e l‟ispirazione nel superare comportamenti disadattavi, alla reintegrazione di

vecchie o la costruzione di nuove difese, fino alla restrutturazione caratteriologica

(ibidem). In questo ultimo caso obiettivi del lavoro di gruppo, a prescindere dal modello

adottato dal terapeuta, possono essere creare coesione e stimolare l‟apprendimento

interpersonale, aspetto cruciale tale da poter definire la terapia di gruppo come “terapia

d‟interazione di gruppo” (ibidem).

Una volta definiti, gli obiettivi vanno mantenuti e perseguiti: digressioni limitate

sono ammesse pur di sapere a che punto del processo ci si trova e, quando è conclusa

una fase, come passare alla successiva (Berne, 1966). In base alla durata del percorso

può essere utile differenziare obiettivi a medio e a lungo termine (Giusti, Montanari,

Iannazzo, 2004).

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1.6 Efficacia della terapia di gruppo

Dall‟introduzione delle comunità terapeutiche negli anni ‟40, i trattamenti di

gruppo sono diventati parte integrante dei sistemi di cura nella pratica clinica (Main,

1946; Baker et al., 1953; Bion, 1961) fino ad essere considerati, alla stregua del setting

individuale, un possibile strumento di intervento (Brenner, 1994; Granholm et al.,

2012). Dalle ricerche che mirano a valutare l‟esito terapeutico, ovvero l‟efficacia

(Dazzi, 2006), non sono emerse differenze tra la psicoterapia individuale e la terapia di

gruppo (Fuhriman e Burlingame, 1994). La terapia di gruppo, pur essendo molto diversa

da quella individuale, ha dimostrato di essere altrettanto efficace (Burlingame,

Mackenzie, Strauss, 2004). In entrambe l‟obiettivo è la trasformazione del mondo

interno del paziente, tuttavia la processualità del lavoro terapeutico discosta

notevolmente tra i due metodi: nel gruppo i pazienti sperimentano nuove modalità

relazionali e lavorano maggiormente sulle relazioni interpersonali; nella terapia

individuale l‟elaborazione è più centrata sul mondo intrapsichico del paziente. Pur

essendo entrambi efficaci è possibile considerare che la terapia di gruppo, in quanto

dispositivo in grado di attivare più velocemente processi trasformativi, possa rivelarsi

più adatta per alcune tipologie di pazienti e maggiormente efficiente in merito al

rapporto costi/benefici (Di Blasi e Lo Verso, 2012).

Nel tempo si è affermata l‟idea che esperienze di gruppo possono rappresentare

all‟interno dei vari approcci metodologici un agente di cambiamento importante e

valido (Brenner, 1994; Granholm et al., 2012). Partecipare a sessioni cliniche in cui è

possibile trovare relazioni terapeutiche multiple produce fattori terapeutici specifici

rispetto al contesto duale e caratterizzanti la situazione di gruppo (AGPA, 2007). Ad

esempio è possibile trovare l‟apprendimento vicario e interpersonale, lo scambio di

ruolo, l‟altruismo, l‟universalità: dinamiche estranee alla terapia individuale. Questa

ricchezza di fenomeni interpersonali trova riscontro negli studi: pazienti riferiscono di

aver trovato nella terapia di gruppo rapporti profondi, un ambiente sociale nutriente ed

altri aspetti peculiari non riscontrati nei trattamenti individuali (Holmes e Kivlighan,

2000).

Sebbene molte ricerche sull‟efficacia convergano sulla conclusione che il

modello teorico sia secondario al successo terapeutico (Lambert e Ogles, 2004) – il

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cosiddetto „paradosso dell‟equivalenza‟3 (Stiles, Shapiro, Elliot, 1986) –, sembra che

l‟„aspetto esteriore‟ di una terapia, ovvero lo specifico paradigma e le relative tecniche,

quando integrato con cura nella persona del terapeuta – aspetto definito allegiance del

terapeuta, cioè la sua fedeltà o osservanza per un orientamento (Messer e Wampold,

2002) –, nelle fasi precoci del percorso sortisca un effetto positivo alimentando nel

partecipante fiducia, aspettative positive, valore e aderenza al lavoro di gruppo (Yalom,

1970).

2. Evoluzione della psicoterapia di gruppo

Gregory Zilboorg (1941) nella sua opera „storia della psichiatria‟ parla di come

ogni cosa prima di diventare componente del passato faccia parte del nostro presente.

Porta un esempio in cui, sorpassato un momento di diffidenza, si passa ad accettare o

perfino ammirare qualcosa di nuovo. Esaurita la fase di „novità‟ si inizia a considerare

come lentamente emergano aspetti buffi, strani, addirittura ridicoli legati a ciò che era

apparso nuovo e al passo con i tempi. Ma è solo dopo una fase di transizione che si può

tornare a considerare il passato come qualcosa di possibile e lecito. Scevri da moti di

difesa verso quanto rappresenta un‟antichità, la si può valutare in modo positivo, con

simpatia e forse letizia. Non è più necessario dover prenderne le distanze ma diventa

possibile conservare un elemento capace di farci rivivere un‟esperienza del nostro

passato, che va a collocarsi in quella che collettivamente designiamo con il nome di

storia. Storia non come sterile “catalogo di eventi” o “dati cronologici” a giustificare, a

“esaltare” il presente, piuttosto storia come processo per arrivare a conoscere, a capire,

questo presente. Così la storia assume il valore di un “sincero ripensamento critico”

assolvendo alla necessità e all‟ambizione di “continuare a migliorare” in direzione del

futuro. La storia della psicoterapia di gruppo inizia nel momento in cui allo stare in

gruppo viene annessa una precisa finalità terapeutica (Di Maria e Lo Verso, 1995).

3 Paradosso dell‟equivalenza: risultato sugli studi comparativi riguardo l‟efficacia delle psicoterapie

secondo il quale la psicoterapia produce i medesimi effetti, indipendentemente dai modelli teorico-clinici

e dalle tecniche usate.

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2.1 Gli albori del setting gruppale

La nascita della psicologia scientifica viene fatta risalire alla seconda metà del

XIX secolo con i contributi di Donders sulla psicofisiologia e i tempi di reazione, di

Fechner sulla percettologia e il rapporto tra stimoli fisici e variazioni nella percezione

(Morabito, 2007). Nel 1879 Wundt fonda il primo laboratorio di psicofisica a Lipsia e

nel 1885 Ebbinghaus pubblica un trattato in cui descrive alcune leggi che

rappresenteranno una pietra miliare nella psicologia della memoria (ibidem). Tuttavia è

ragionevole ipotizzare che la storia delle applicazioni psicologiche del gruppo, ma delle

esperienze in gruppo che hanno rappresentato dei precedenti per lo sviluppo della teoria

e della tecnica, abbiano avuto inizio molto prima. Per giungere al gruppo psicologico si

rende necessario un itinerario che attraversa la psicopatologia, la psichiatria, la

medicina, il pensiero dell‟uomo e la cultura, il progresso tecnico e scientifico.

Fin da tempi antichi la psicopatologia viene collocata su una linea di confine tra

il mondo naturale e spirituale. Già Platone nell‟„Apologia di Socrate‟ risalente circa al

390 a.c. parla di due tipi di pazzia, una indicata come condizione abnorme e terrena, una

considerata dono degli dei (Zilboorg, 1941). Questa posizione, che rappresenta una

perdita rispetto il precedente pensiero ippocratico basato su una visione dell‟uomo della

società e del mondo critica, ispirata, laica, prevarrà fino agli inizi del XIX secolo

(ibidem). Lo stesso setting di gruppo sembra collegato alle tecniche di guarigione

primitiva come l‟incubazione nell‟antica Grecia, ai riti collettivi ispirati al culto delle

divinità o guidati dallo sciamano (Roccioletti, 2002).

L‟uomo primitivo riunito in clan, comunità o pòlis affronta l‟ignoto, la crisi,

malattia e sofferenza, la morte fisica e la rinascita simbolica con il rito che, attraverso la

partecipazione collettiva, diviene patrimonio condiviso (ibidem). L‟aspetto cerimoniale

non costituisce un momento secondario al processo di transizione ma è esso stesso

principale agente simbolico e terapeutico (Lapassade, 2008). Lo sciamano, così come

l‟officiante, spesso deve sottoporsi ad una malattia di iniziazione (Roccioletti, 2002) per

poter assolvere al suo ruolo.

Nel V secolo avanti cristo in Grecia esistono delle feste dionisiache che hanno

luogo ogni due anni e si svolgono in una contagiosa danza notturna iniziata dalla

Menadi, o Baccanti, sulla montagna, che trova il suo acme nell‟estasi collettiva

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(ibidem). Dionisio, il dio che era causa della pazzia e capace di liberare dal essa,

attraverso queste celebrazioni aveva il potere di infondere la follia e di guarirla (ibidem).

Differente è il discorso per gli asclepiei, templi dedicati al dio della medicina

Esculapio, in cui i malati si recano per trovare ristoro dai loro tormenti. In questi luoghi

diffusi tra il V e IV secolo avanti cristo, in apposite celle e dopo un periodo di

purificazione, si trascorrono alcune notti in attesa del „sonno incubatorio‟, ovvero di

fare un sogno rivelatore. I sacerdoti allora interpretano il racconto cercando di definire

una diagnosi e una cura. Anche questo tipo di pratica avviene in una dimensione

pubblica (Roccioletti, 2002) e in un tipo di contesto che oggi potremmo definire

residenziale: una primordiale comunità terapeutica.

Fenomeni collettivi legati alla trance che ci arrivano da varie fonti attraverso il

tempo nascono spesso all‟interno di minoranze oppresse rappresentando una forma di

terapia collettiva, e di emancipazione sociale, permettendo di uscire dagli schemi sociali

precostituiti (Lapassade, 2008). Lo stesso principio sembra percorrere tutto il medioevo

con la stregoneria – espressione di rivolta nei confronti dell‟oppressione religiosa e

della repressione della fisicità – i fenomeni mistici, i rituali di esorcismo-guarigione

come il tarantismo, per giungere fino ai giorni nostri con le sottoculture giovanili

(ibidem). Tali forme di espressione „agita‟ (Roccioletti, 2002) assumono da una

prospettiva psicologica forse una valenza catartica piuttosto che integrativa, oltre che

una più diretta valenza sociale. Il gruppo in questo senso, anche se spesso non guidato

né strutturato, sembra assumere le fattezze di un corpo collettivo capace di autoregolarsi

trovando il modo di rappresentare e simbolizzare, al suo interno come verso l‟esterno, le

dinamiche che lo investono. Tuttavia oltre queste considerazioni generali i lunghi secoli

del medioevo non sembrano riportare casi rilevanti di trattamenti in gruppo che non si

riferiscano all‟inquisizione o a sanatori, ma più spesso prigioni, in cui coloro che

appaiono diversi vengono lasciati al loro destino (Zilboorg, 1941). È solo con l‟avvento

dell‟illuminismo, quindi intorno al 1700, che un ritrovato interesse per la natura umana

e la ragione stimola un approccio maggiormente critico e scientifico.

Verso la fine del XVIII secolo in una Francia alle soglie di un importante

riassetto sociale viene ad affermarsi forse il primo trattamento di gruppo documentato

dell‟età moderna. Nel 1779 Mesmer elabora la „teoria del fluido‟ che vede gli esseri

viventi percorsi da una forza cosmica e di natura magnetica che circola liberamente nei

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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corpi delle persone. Blocchi a questa libera circolazione rappresenterebbero la causa dei

disturbi psicologici (ibidem). Una delle possibilità di intervento è il „magnetismo

collettivo‟ che consiste nel riunirsi intorno ad una vasca al suono di una piccola

orchestra. Il Mesmer passando tra i pazienti scatena crisi al solo tocco di una bacchetta.

L‟esito naturale delle crisi avviene in un‟apposita stanza imbottita (Roccioletti, 2002).

Tale pratica che riscuote grande seguito provoca sdegno negli ambiti accademici: lo

stesso Mesmer non sa darsi una spiegazione di quanto accade né ritiene la pratica

capace di una intrinseca valenza curativa. Anche al „setting‟, in realtà molto curato, non

attribuisce alcun valore intrinseco. Tuttavia l‟aspetto più importante che viene ad

emergere – che anche lo stesso Mesmer nota, attribuendogli però una connotazione

squisitamente fisica – è il primato del rapporto tra magnetizzatore e magnetizzato

(ibidem). Secondo Mesmer è una facoltà che nel 1799 chiama „istinto‟ a permettere di

entrare in risonanza con il paziente.

Negli stessi anni carichi di fermento viene a svilupparsi un‟altra tipologia di

trattamento collettivo ad opera del marchese Poységur. Egli nel 1784 ha scoperto il

„sonnambulismo artificiale‟, capace di ridurre i pazienti in uno stato di docilità

lasciando intatto l‟uso della parola (Zilboorg, 1941). Al risveglio i pazienti non possono

ricordare nulla di quanto è accaduto. Il trattamento collettivo avviene in una piazza di

un piccolo paese rurale. Intorno un grande olmo i pazienti vengono legati alla pianta e

fatti disporre in cerchio, in modo da potersi toccarsi per i pollici (ibidem). Rispetto le

teorie di Mesmer questa pratica rappresenta un‟evoluzione in quanto permette delle

interpretazioni nuove del funzionamento umano, svincolate dalle classiche letture in

termini spiritualistici o somatici: mezzo e focus del processo passa dal corpo e dal

contatto fisico alla parola e al linguaggio (Roccioletti, 2002). Inoltre nella sua pratica

Poységur prende distanza dai pazienti stabilendo come tramite della cura un luogo e un

albero (ibidem) come primaria istituzione di un setting.

Il sonnambulismo artificiale acquisisce il metodo proprio dell‟ipnosi ad opera di

Liebeault che nel 1864 a Nancy istituisce delle sedute pubbliche di terapia in cui al

mattino riunisce all‟interno di una stanza da 25 a 40 pazienti. Quando i pazienti sono

ipnotizzati li assicura che tutti i loro sintomi sono scomparsi (Ellenberger, 1976). Sul

piano epistemologico Liebeault nella sua pratica di medico sembra differenziare

definitivamente la componente psicologica da quella somatica asserendo che è pronto a

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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trattare gratuitamente attraverso l‟ipnosi pubblica piuttosto che a pagamento con la

medicina tradizionale (Roccioletti, 2002). Il valore attribuito alla terapia di gruppo

sembra quindi scaturire da una sensibilità sociale – quasi nell‟ottica di un moderno

servizio territoriale di terzo settore . Storicamente infatti al contrario della malattia

organica, considerata un fatto personale e privato, la malattia della mente per il suo

rivolgersi all‟esterno dell‟individuo investe una dimensione pubblica e sociale (ibidem),

nell‟esordio come nel trattamento.

Le esperienze di Mesmer e Poységur dominano la scena per un secolo fino ad

arrivare a Charcot, che nel 1878 intraprende degli studi sull‟ipnotismo alla Salpetrière,

quindi a Freud, che lo raggiunge a Parigi nel 1885 (ibidem). È possibile supporre che i

primi setting di gruppo moderni abbiano assunto un ruolo nell‟agevolare le crisi

catartiche, quindi un valore nell‟economia del trattamento, tuttavia questi aspetti non

vengono considerati e, anche quando Freud getta le basi di una psicologia come scienza

del funzionamento della mente umana, non riconosce particolare importanza alla

possibilità di una terapia di gruppo. Sembra piuttosto attribuire un senso e una funzione

negative al gruppo, come luogo in cui l‟inconscio e il suo potenziale disregolativo sono

particolarmente facilitati ad emerge e allo stesso tempo difficili da gestire e contenere

(Freud, 1921).

A discapito di questi presupposti e in controtendenza rispetto la cultura

dominante del periodo, nei primi anni del XX secolo si può assistere alla nascita dei

primi veri setting gruppali intesi nell‟odierna accezione psicologica. Si tratta di attività

perlopiù isolate ad opera di precursori con formazione psichiatrica, precedenti

comunque capaci di stimolare l‟interesse e la ricerca per quello che rappresenta un

settore scientifico nascente e una nuova frontiera dell‟intervento psicologico.

2.2 Dai precursori dell‟intervento di gruppo alla prima espansione

Il primo utilizzo del setting gruppale risale al 1905, avviene in campo medico ad

opera di un internista della East Coast americana, Joseph H. Pratt. Egli utilizza il gruppo

per finalità informative con dei pazienti tubercolotici adottando delle modalità di tipo

essenzialmente educativo (Pratt, 1907). Notando il rapporto tra benessere psicologico e

decorso della sintomatologia inizia a curare la persona piuttosto che la malattia (Yalom,

1970). Applicando gli stessi principi ad altre tipologie di pazienti con problemi di

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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pertinenza medica sviluppa l‟approccio e, intorno agli anni ‟30, arriva ad utilizzarlo con

pazienti psichiatrici perseguendo delle finalità meramente psicoterapeutiche. Il suo

interesse per i gruppi lo porta ad affrontare in modo sempre più diretto gli aspetti

emotivi dei partecipanti e l‟effetto delle emozioni sulla sintomatologia (Pratt, 1945).

In Europa negli stessi anni è lo psichiatra Jacob L. Moreno a fare da pioniere

nell‟applicazione del setting gruppale e dei principi della psicologia umanistica. Già dal

1905 a Vienna inizia a sperimentare tecniche teatrali e organizzando inoltre quello che

può essere considerato il primo gruppo di auto-mutuo-aiuto4 (Moreno, 2011). Durante la

Prima Guerra Mondiale ha modo di avviare la sua carriera di medico in un campo di

rifugiati, nel 1921 fonda il „teatro della spontaneità‟ e nel 1930 crea lo psicodramma

(ibidem), tecnica espressiva e rielaborativa di gruppo che porta all‟interno delle cliniche

psichiatriche. In contrasto con Freud, che ha modo di incontrare, dedica il suo interesse

alla musica, al teatro, ma alla ricerca sulle interazioni sociali nei gruppi e alla psicologia

di gruppo.

In un‟attività analoga a quella di Pratt, Lazell lavora in una clinica di Washinton

D.C. con dei veterani della Prima Guerra con disturbi mentali. Chiama questa pratica

„group analysis‟ (Lazell, 1921) che, a dispetto del nome, non ha implicazioni con la più

tardiva gruppoanalisi. Il 1921 rappresenta quindi un anno importante per il

riconoscimento sociale dato alle esperienze in gruppo in quanto vede avvicendarsi vari

eventi: la „group analysis‟ in America, in Europa gruppi di consultazione ad opera di

Adler e Dreikurs, l‟affermazione del „teatro della spontaneità‟ di Moreno, la

pubblicazione di „Psicologia delle masse e analisi dell‟Io‟ di Freud (1921).

Successivamente il panorama dell‟utilizzo di programmi di gruppo si infittisce e

diventa più difficile rintracciare singoli contributi ma vengono a delinearsi nuovi settori

applicativi. Negli anni ‟30 in Europa Adler, sostenendo la causa sociale dei problemi

dell‟uomo e nell‟intenzione di offrire i benefici di un supporto psicoterapeutico ad una

popolazione più ampia, impiega metodi di gruppo (Rosenbaum e Berger, 1963). Pochi

anni dopo, tornando in America, Marsh utilizza gruppi per una gamma di problemi

clinici, sia di pertinenza psicologica che medica. Applica una varietà di tecniche:

didattica, homeworks, esercizi che promuovono l‟interazione, come discutere di

argomenti personali comuni ai partecipanti, role playing, come prendersi cura l‟un

4 Fonte: A Historical Chronology of Group Psychotherapy and Psychodrama, di Adam Blatner, M.D.,

aggiornato al 23/07/2007; http://www.blatner.com/adam/pdntbk/hxgrprx.htm, consultato il 20/10/2014.

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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l‟altro (Marsh, 1935). Nel campo della psicologia evolutiva è Slavson (1940) ad

esercitare considerevole influenza nel panorama accademico e clinico lavorando con

gruppi di bambini ed adolescenti con disturbi del comportamento. È Moreno il primo a

parlare di „psicoterapia di gruppo‟ in una conferenza della American Psychiatric

Association nel 1933 (Moreno, 2011).

In psicoanalisi il primo ad applicare tecniche analitiche in gruppo tra gli anni ‟20

e ‟30 è Burrow (1949), più tardi Wolf (1949). Nasce inoltre in questo periodo la

psicologia sociale dei gruppi con le prime ricerche sulle dinamiche che regolano la vita

del gruppo ad opera di Lewin (1947) e sulla funzione delle norme, indagate da Sherif

(1936). Negli anni ‟40 il nascente interesse per il gruppo già diffuso in vari ambiti

scientifici assume un proprio statuto epistemologico e una piena autonomia accademica

e operativa.

I contributi teorici, i motivi di ricerca e gli utilizzi sperimentali subiscono un

grande impulso durante e dopo la II Guerra Mondiale, quando la necessità di un

confronto con un gran numero di persone accomunate da una mansione o una

condizione rende necessario l‟uso di sistemi di gestione e terapeutici efficaci ed

economici (Yalom, 1970). Ad esempio sia Berne (1966) che Bion (1961) avviano la

loro esperienza con i gruppi in cliniche militari. Intorno agli anni ‟50 la diffusione di

riviste specializzate e associazioni per la ricerca fornisce una condizione ideale per la

diffusione e la proliferazione scientifica.

2.3 Il contributo di Lewin, Bion e Foulkes

Il contributo di alcuni degli autori che più hanno influenzato il pensiero e il

lavoro con i gruppi sono sintetizzati a seguire seguendo un ordine cronologico.

Lewin. Il lavoro di Lewin, animato da interessi sociali e da un atteggiamento

pragmatista, consiste nell‟estendere i principi della teoria della Gestalt dai processi

congitivi alla motivazione, alla personalità, ai processi nei gruppi (Profita e Venza,

1995). La convinzione che la psicologia del tempo fosse rallentata da un‟epistemologia

sostanzalimente aristotelica lo porta a studiare gli eventi psicologici nelle relazioni con

il contesto, piuttosto che nelle loro caratteristiche intrinseche, superando un approccio

classificatorio (ibidem) e a vantaggio di una visione funzionale. In una prospettiva

complessa che mal si presta a un principio di causalità lineare, oggetto d‟indagine è la

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totalita degli eventi, compresenti e in interdipendenza dinamica. Da qui si iniziano a

delineare alcuni temi che caratterizzano il pensiero di Lewin (ibidem):

totalità, o „field theory‟: il costrutto di campo come sistema, attribuendo una

specificità alla dimensione sociale, permette di oservare lo spazio relazionale

nella sua globalità come insieme dotato di una struttura, di particolari

collegamenti interni, in cui si verificano specifici movimenti. Il

comportamento sarà quindi influenzato, attraverso la presenza di forze

intermedie, dalle persone così come dal contesto. Alla luce di tali

considerazioni diventa possibile fondare una ricerca sui sistemi di relazioni

che caratterizzano il gruppo, quindi di strutturarne un modello interpretativo

capace di superare una visione riduzionistica e categoriale. Questa

concezione sarà dominante nello sviluppo della psicologia sociale;

„hic et nunch‟, o principio della contemporaneità: le caratteristiche di un

evento dipendono dalla configurazione dei rapporti in quel campo, in quel

momento. Questo assunto risulta centrale nella metodologia del training-

group;

action-research: una visione dinamica e onnicomprensiva, capace di

integrare l‟oggetto di indagine con l‟ambiente, permette di superare lo studio

della dinamica di gruppo avviando un‟analisi del cambiamento sociale in cui

la ricerca diventa al contempo strumento di trasformazione, quindi di

intervento. Sono proprio il cambiamento e l‟apprendimento obiettivi da

perseguire nei T-group.

Il gruppo lewininano rappresenta un laboratorio sociale che attraverso la

sperimentazione dei rapporti interpersonali integra finalità di osservazione interattiva e

consapevolezza esperienziale trovando la sua naturale trasposizione nello sviluppo

organizzativo (Ruvolo, Di Blasi, Neri, 1995).

Bion. Bion riconosce una specifica dimensione psichica al gruppo e lo

concepisce come oggetto dell‟analisi: l‟atteggiamento del terapeuta resta psicoanalitico

e il gruppo è trattato come fosse un individuo (Di Maria e Lo Verso, 1995). Ampliando

l‟idea freudiana che «la psicologia individuale è al tempo stesso fin dall‟inizio

psicologia sociale» (Freud, 1921; p.), per Bion (1961) ci sono delle caratteristiche

dell‟individuo di cui non si può comprendere il significato se non ci si rende conto che

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fanno parte del suo patrimonio di „animale sociale‟ e la cui attività non può essere

rilevata se non si cerca di osservarla nel terreno del gruppo: la gruppalità dell‟individuo

è intrinseca al suo psichismo e prescinde dalla reale presenza del gruppo (Profita e

Venza, 1995).

Nei suoi lavori presso la Tavistock Clinic con piccoli gruppi di psicoterapia,

Bion sviluppa, avvalendosi degli strumenti concettuali della psicoanalisi kleiniana, una

teoria secondo la quale l‟individuo, nel partecipare ad un gruppo, regredisce ad un

livello molto primitivo di funzionamento mentale, che comporta la perdita parziale della

propria individualità e la tendenza spontanea ed inconscia (valenza) a combinarsi con

gli altri partecipanti condividendo lo stato emotivo prevalente (assunto di base) (Profita

e Venza, 1995). La vita mentale di un gruppo, infatti, include situazioni emotive molto

potenti e primitive, che non necessariamente favoriscono il raggiungimento degli

obiettivi stabiliti, ma che testimoniano l‟esistenza di un sistema protomentale fatto di

stati emotivi profondi, e di assunti di base comuni al gruppo nel suo insieme. Una parte

della vita mentale del gruppo resta comunque ancorata alla realtà, al processo

secondario ed agli obiettivi coscienti per cui il gruppo si riunisce: Bion (1961) definisce

questo aspetto gruppo di lavoro. Le due mentalità di gruppo, assunto di base e gruppo di

lavoro, rappresentano due modalità di pensiero coesistenti e contrapposte come lo

possono essere emozioni ed intelletto (Profita e Venza, 1995), non vanno cioè intese

come fasi o momenti di una sequenza. Piuttosto esse costituiscono un conflitto

irriducibile tanto per il gruppo nel suo insieme, quanto per l‟individuo che, se partecipa

al gruppo di lavoro, si sente deprivato di calore e forza; se aderisce al gruppo in assunto

di base, avverte di venire messo nell‟impossibilità di perseguire i propri fini come

individuo che pensa e riflette (Neri, 1995).

Il gruppo per Bion (1961; 108) è un «insieme di persone che si trovano tutte allo

stesso grado di regressione» per effetto delle restrizioni derivanti dal contatto con la

dimensione affettiva gruppale (Profita e Venza, 1995) che sollecita nell‟individuo delle

reazioni di difesa. Gli assunti di base sono (Bion, 1961):

dipendenza, quando il gruppo si orienta emotivamente a cercare una figura di

leader idealizzato da cui dipendere integralmente per tutte le decisioni

necessarie, per il soddisfacimento dei propri bisogni emotivi, quindi di un

capo da cui essere „nutrito‟;

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attacco-fuga, quando il gruppo è orientato a individuare un nemico esterno e

a cercare un leader capace di mobilitare le forze del gruppo per attaccare o

per evitare il nemico;

accoppiamento, quando il gruppo si dispone in attesa della „venuta di un

messia‟, ovvero di un evento risolutore, di un‟idea nuova o di un oggetto

idealizzato che giunga a salvare il gruppo. Tale evento in realtà non dovrà

mai realizzari pena la scomparsa della speranza e dell‟attesa.

Secondo una prospettiva evoluzionista questi assunti sarebbero collegati a

imperativi biologici presenti nei gruppi umani, rispettivamente (Schermer, 1992):

allevamento ed educazione della prole, protezione da paricoli interni ed esterni,

riproduzione della specie.

Gli assunti di base afferirebbero ad un sistema protomentale, «in cui il fisico e lo

psicologico o mentale si trovano in uno stato indifferenziato [...]. È da questa matrice

che hanno origine gli stati emotivi propri di un assunto di base che rafforzano,

pervadono e, in alcune occasioni, dominano la vita mentale del gruppo» (Bion, 1961;

109).

È proprio l‟applicazione del metodo analitico ad un gruppo piuttosto che ad un

individuo che fa dubitare Bion della validità del suo operato. Viene così portato ad

interromperlo e a rivedere il suo lavoro sui gruppi condotto in senso individualistico-

kleinniano (Di Maria e Lo Verso, 1995).

Foulkes. Psichiatra e psicoanalista inglese di adozione, padre della

gruppoanalisi, Foulkes riporta nelle sue esperienze con il gruppo la concezione

matriciale delle reti neurologiche di Goldstein, la teoria della Gestalt e le influenze degli

scritti di Burrow, distinguendo sia su un piano teorico che tecnico l‟analisi mediante il

gruppo, o psicoterapia analitica di gruppo, dalla psicoanalisi (ibidem). La considera una

forma di psicoterapia praticata dal gruppo nei confronti del gruppo, incluso il suo

conduttore (Foulkes, 1964).

Principi su cui basa il metodo riguardano (Profita e Venza, 1995):

il leader: rappresenta la variabile più importante e deve utilizzare la propria

abilità nei migliori interessi del gruppo, deve seguirlo e guidarlo verso la sua

meta legittima, aiutarlo a far fronte aglie elementi distruttivi e autodistruttivi

rendendoli non necessari. Per svolgere bene la sua funzione è necessario che

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riconosca e rispetti i confini dinamici della situazione, che sappia e accetti

ciò che può o meno fare e dire. Principali compiti del conduttore sono

(Foulkes, 1948): 1. svezzare il gruppo dall‟essere guidato; 2. astenersi dagli

argomenti preordinati, dai programmi o dalla discussione sistematica; 3.

rimanere, come persona, distaccato sullo sfondo;

la situazione totale: concetto si set/setting che denuncia l‟orientamento

olistico dell‟autore, comprende tutte le circostanze oggettive della realtà e le

regole, esplicite o implicite, considerata come schema di riferimento per le

operazioni e la comprensione degli eventi osservabili, sottende il concetto

che nella pratica è essenziale che le relazioni nascoste vengano portate alla

luce;

il setting: le persone coinvolte vanno riunite regolarmente per una

discussione franca e un interscambio di punti di vista, integrando ciò con

discussioni libere in gruppi più piccoli; obiettivo è la massima

consapevolezza e comunicazione reciproche.

Foulkes divide i gruppi in „operativi‟ o vitali: in cui insorgono realmente

conflitti, in cui si instaurano processi terapeutici e che possono essere oggi definiti di

intervento psicosociale; gruppi formati a fini speciali: composti da individui non

collegati, in cui si instaurano processi di apprendimento (Profita e Venza, 1995).

Per l‟autore l‟individuo singolo non può rendere conto di nessuna condizione

psicopatologica ma lo considera come anello di una lunga catena, punto nodale di una

rete di interazione, vera sede questa dei processi che portano tanto alla malattia che alla

guarigione (Foulkes, 1964). Psicopatologia, identità psichica ed esistenza umana hanno

luogo e acquistano senso solo in riferimento a reti dinamicamente interattive di

relazioni, a processi transpersonali; tali processi hanno una dimensione attuale, o

orizzontale, sfondo in cui ha luogo l‟interazione fra chi condivide una rete e dei

significati; una dimensione transgenerazionale, o verticale, una sorta di eredità culturale

che sostanzia le quote affettive inconsce (Profita e Venza, 1995). La mente stessa

sarebbe una struttura matriciale, detta matrice personale, la rete di comunicazione

inconscia che ha luogo nei gruppi e da senso condivisibile ai fenomeni e agli eventi

osservabili è detta matrice dinamica (ibidem). Secondo questa idea tutti i membri,

terapeuta compreso, parteciperebbero a un movimento terapeutico.

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Negli sviluppi teorici di questi tre autori eterogenei per interessi ed esperienze

denominatore comune sembrano: 1. l‟imprescindibilità nella dimensione individuale di

una componente sovraordinata che emerge chiaramente nelle situazioni di gruppo; 2.

una concettualizzazione del gruppo come insieme che diventa vertice strutturante: sono

i concetti di campo come sistema dinamico, di valenza come tendenza auto-

organizzatrice, di matrice come rete interattiva di relazione.

2.4 La fase di innovazione

Nel tempo vengono a crearsi dei punti di particolare interesse per la ricerca sui

gruppi, esempi antipodici sono la Tavistock Clinic di Londra e l‟Esalen Institute in

California. In luoghi come questi vengono proposti degli utilizzi sperimentali del

gruppo che al contempo permettono di esprimere le conoscenze già note e di

svilupparne di nuove. Il consolidamento scientifico viene a sovrapporsi con la fase di

rinnovamento sociale del dopoguerra creando un ambiente che risulta particolarmente

favorevole allo sviluppo dei setting gruppali. È in questo periodo che, coadiuvata dal

pensiero di Maslow che parla di gerarchia dei bisogni, di autorealizzazione come piena

autenticità e accettazione di sé, di creatività come rapporto aperto con la realtà e

l‟esperienza (Maslow, 1954), si sviluppa la psicologia umanistica. Questa si basa sui

principi di centralità della persona e del significato soggettivo dell‟esperienza (Guistie

Rosa, 2006), su una visione dell‟uomo come agente attivo e responsabile del proprio

sviluppo, dotato di risorse e di un potenziale da valorizzare (Rogers, 1951). A differenza

dei primi setting applicati nella clinica, eminentemente duali, in questo momento storico

i maggiori rappresentati delle nuove tendenze fanno ampio ricorso al setting di gruppo,

anche sperimentandone differenti forme. Il gruppo come peculiare organismo sembra

diventare il catalizzatore di un ritrovato interesse sociale, psicologico e culturale.

La nuova concezione positiva nella pratica si sostanzia anche nel linguaggio

chiamando il paziente „cliente‟ e il terapeuta „facilitatore‟ o „agevolatore‟. È Carl

Rogers (1959) che conferendo rilievo al cliente piuttosto che sul modello teorico parla

di „terapia centrata sul cliente‟ e „gruppi di incontro‟. Definisce inoltre l‟importanza

clinica di un rapporto empatico basato sulle caratteristiche del terapeuta (Rogers, 1957):

congruenza, come superamento dell‟adesione ad un ruolo ideale; genuinità, come

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prerequisito per un clima di reciproco riconoscimento umano e di fiducia; accettazione

incondizionata, come rinuncia a voler indurre un cambiamento esprimendo giudizi,

accettazione che trova espressione in un atteggiamento non direttivo; empatia, come

comprensione interiore che si manifesta in un incontro tra individui distinti e separati. In

questo modo al cliente vengono riconosciute volontà, capacità di scelta, intenzionalità:

condizioni capaci di realizzare un autentico „incontro terapeutico‟ (May et al., 1958).

Particolarmente attivo nell‟Esalen Institute è Franz Perls, psicoanalista che fonda la

terapia della Gestalt: un modello basato sul contatto organismico con i bisogni e sul

ripristino, attraverso l‟esperienza nel „qui ed ora‟, del processo ciclico attraverso cui è

possibile soddisfare un bisogno, fisiologico o psicologico (Perls, 1969). Lo stesso luogo

vede molto attivo Will Schutz che combina con il processo tipico dei gruppi di incontro

di Rogers una varietà di metodi come lo psicodramma di Moreno, l‟analisi

bioenergetica, la consapevolezza corporea, tecniche immaginative e le tecniche

cosiddette „attive‟ (Schutz, 1973).

A livello metodologico nei primi anni ‟60 si assiste alla comparsa oltre che dei

gruppi di incontro (Rogers, 1970), di gruppi „maratona‟ (marathon group), ovvero stage

intensivi che vedono un gruppo riunito ininterrottamente per diverse ore o giorni,

utilizzati principalmente per finalità di crescita personale (Rogers, 1970; Yalom, 1970);

gruppi di sensibilizzazione e consapevolezza (sensitivity training), anche detti gruppi di

addestramento o „laboratori di Bethel‟, un‟estensione dei più classici T-group di Lewin,

organizzati e supportati istituzionalmente all‟interno di un progetto denominato

National Training Laboratories, organizzati in una fase condotta come un gruppo di

incontro, una seconda di retroazione tra conduttore e osservatori in cui possono essere

presenti e intervenire anche i membri (ibidem); gruppi „Synanon game‟, una delle prime

forme di comunità terapeutiche strutturate per il trattamento dell‟abuso da sostanze in

cui sono previste riunioni in gruppo denominate „game‟ (Rogers, 1970); gruppi Gestalt,

gruppi terapeutici non strutturati in cui l‟attività verbale viene integrata con l‟esperienza

corporea (ibidem). I gruppi di auto mutuo aiuto, che hanno visto i loro antecedenti nella

pratica di Adler già negli anni ‟20, l‟istituzione della Alcoholics Anonymous e i gruppi

dei dodici passi (Twelve-Step) nel 1937, registrano una notevole diffusione

abbracciando una varietà di forme che includono nuove dipendenze, come dal sesso, dal

gioco o dal cibo, particolari condizioni mediche, come ad esempio pazienti affetti da

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cancro o poliomelite; in altri casi assumono rilevanza sociale come nei gruppi di

genitori con figli oggetto di discriminazione, come disabili o gay/lesbiche (Rosenbaum

e Berger, 1963). Altra innovazione sono le prime forme di terapia familiare e, forse

meno metodologicamente rilevanti ma di grande diffusione, i gruppi espressivi e di arte

terapia, anche detti seminari di creatività (Rogers, 1970).

A dispetto delle profonde innovazioni che caratterizzano gli anni ‟60 i decenni

successivi non registrano un progressivo avanzamento del lavoro con i gruppi, piuttosto

vedono uno stagnamento delle prassi e, probabilmente, lo spostamento dell‟interesse

scientifico su altri settori di ricerca e applicativi. Il ricorso al setting gruppale dopo aver

incontrato l‟interesse di istituzioni ed enti privati dedicati alla ricerca sembra spostarsi

lentamente verso la pratica nella libera professione. I centri che erano stati il fulcro della

diffusione e dell‟innovazione continuano la loro attività di centri specializzati.

2.5 Esempi di intervento in setting gruppale

Per illustrare le possibilità di impiego e le caratteristiche dell‟intervento in

setting gruppale vengono presentati degli esempi di modelli che hanno contribuito alla

diffusione del lavoro clinico e formativo. In questa breve rassegna, suddivisa in modelli

di matrice psicoanalitica e non psicoanalitica, per ognuno vengono forniti i tratti storici

e teorici essenziali.

Gli orientamenti di matrice psicoanalitica che seguono, la gruppoanalisi, i gruppi

operativi, i gruppi Balint e i gruppi interattivi, sono accomunati da formulazioni

teoriche in cui è presente una concezione gruappale dell‟individuo, superando una

posizione individualistica squisitamente psicoanalitica (Profita e Venza, 1995), ma

condividono teorie e tecniche di intervento ispirate alle elaborazioni psicoanalitiche.

Gruppoanalisi. Come già detto questo modello si sviluppa a partire dal lavoro

di Foulkes intorno gli anni ‟40. Il gruppo viene concepito come il luogo di

comunicazioni inconsce in cui i fenomeni emergenti costituiscono „figure‟ che

prendono forma sul „campo-sfondo‟ del gruppo (Foulkes e Anthony, 1959). Ciascun

partecipante, conduttore incluso, prende parte a un movimento complessivo (matrice

dinamica) fatto di comunicazioni, interpretazioni o fraintendimenti che, a seconda della

propria risonanza particolare verso un altro partecipante o la „situazione totale‟,

assumono una forma significativa (ibidem). La „situazione gruppoanalitica‟ prevede che

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un gruppo di persone, in genere otto, si incontrino periodicamente alla presenza di un

conduttore al fine di produrre ed analizzare i prorpi sintomi e modi di interagire al fine

di giungere ad una risoluzione dei conflitti verso forme di esistenza più adeguate

soddisfacenti (Profita e Venza, 1995). Condizioni prestabilite sono: nemero di

partecipanti, durata e frequenza delle sedute, luogo di svolgimento; principi di condotta

richiesti sono regolarità e puntualità nella frequenza, astinenza come astensione dal

contatto fisico e da rapporti privati (ibidem). Attraverso una partecipazione collettiva

compito del conduttore è di mettere a disposizione come persona la propria conoscenza,

esperienza e istruzione per consentire e rendere visibile l‟espressione dell‟interazione

intrapsichica, in modo che i membri possano diventare consapevoli delle dinamiche in

atto mediante similarità o contrasto (Foulkes e Anthony, 1959). Quindi il conduttore

interviene nei momenti di necessità per rimuovere gli ostacoli o attirare l‟attenzione

verso una „discussione liberamente fluttuante‟, equivalente della libera associazione con

valore interpretativo, in cui sviluppare una „cultura interpretativa‟ alla quale i pazienti

partecipano consciamente (Profita e Venza, 1995). Attraverso l‟analisi del transfert in

azione è il gruppo il focus e il fattore terapeutico principale (ibidem).

Lo sviluppo del modello si è esteso nei paesi dell‟Europa, dell‟America del Sud

e del Nord, l‟Australia e il Giappone (ibidem), trovando applicazione anche in setting

diversi come gruppi mediani e allargati (De Maré, 1990) e settori come quello

organizzativo, in particolare le istituzioni sanitarie, e la terapia familiare (Profita e

Venza, 1995).

Gruppi operativi. Si sviluppano a partire dagli anni ‟50 ad opera di Pichon-

Rivière proponendo un‟integrazione della psicologia lewiniana e gestaltista con la

psicoanalisi da orientamento kleiniano. Al lavoro di gruppo partecipano un conduttore,

un osservatore e circa nove partecipanti e la finalità è di mobilitare, elaborare e

rimuovere le strutture stereotipate di pensiero che originano dall‟ansia determinata dal

nuovo legame e dall‟insicurezza che ne deriva (ibidem). Secondo questo modello nel

gruppo nascente si crea una diffusa insicurezza e instabilità: l‟ansia intesa come

incapacità di sopportare ed elaborare una quantità di sofferenza, che si manifesta nella

dinamica tra singolo e gruppo in una serie di alterazioni che tendono a scaricarsi sul

singolo, conduce il gruppo nel suo insieme ad assumere un modello di pensiero e di

azione a carattere difensivo (Pichon-Rivière, 1977). Nel gruppo operativo la

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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comunicazione, l‟apprendimento e la risoluzione dei compiti coincidono con la terapia

creando un nuovo sistema di riferimento (ibidem). Obiettivo di questo gruppo centrato

sul compito è la trasformazione del gruppo stereotipato in un gruppo di lavoro centrato

sul chiarimento, trasformazione che attraversa quattro fasi processuali e che permettono

l‟assunzione di ruoli funzionali (Profita e Venza, 1995).

Gruppi Balint. Nati negli anni ‟50 dalle esperienze di Balint, psicoanalista

ungherese, alla Tavistok Clinic si rivolgono essenzialmente a medici ed operatori

sanitari e rappresentano una prima modalità di diffondere una formazione psicologica al

di fuori delle società psicoanalitiche (Agresta, 2007). Basati sulla discussione di singoli

casi presentati da un relatore sotto l‟osservazione di uno psicoteraputa, si prefiggono il

superamento di problemi emozionali e relazionali incontrati nella prassi ambulatoriale

dei medici. Questi gruppi insistono su un addestramento alle competenze relazionali che

prende in esame gli aspetti emotivi e non verbali della comunicazione nella

consultazione medica (ibidem). Obiettivo del lavoro in una visione globale della

persona è usare se stessi per capire l‟altro (ibidem) in modo che la comprensione che si

realizza nel gruppo Balint tra i partecipanti e il relatore possa trasferirsi al di fuori dal

setting di gruppo tra il medico e il paziente permettendo di trovare risposte adeguate.

Pur assomigliando nell‟impostazione ad un lavoro di supervisione e pur facendo leva su

dinamiche controtransferali i gruppi Balint possono essere considerati gruppi di

formazione.

Gruppi interattivi. Di istituzione più recente questi gruppi pungono l‟accento

sugli aspetti comunicativi tra i partecipanti, dando importanza alla funzione che ricopre

l‟individuo e alle comunicazioni che mobilita. Assunto è che gli invidiui tendono a

ignorare la funzione comunicativa del proprio comportamento affermandone quella

esecutiva, per questo il gruppo interattivo valorizza tutto ciò che accade nel gruppo

sotto forma di atti, gesti, parole, ponendo quendi particolare attenzione nel presente.

Questo ne fa degli strumenti con valenza sia psicoterapeutica, sia formativa che

didattica (Profita e Venza, 1995).

Vengono illustrati anche degli orientamenti di matrice non psicoanalitica: lo

psicodramma, i T-group, i gruppi gestalt e i gruppi di incontro.

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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Psicodramma. Fondato da Moreno, psichiatra e sociologo che sostiene la

valenza terapeutica della libera espressività, il modello evolve nei primi decenni del

secolo scorso dalle esperienze viennesi con il Teatro della spontaneità (ibidem) e

rappresenta una delle prime forme di intervento in setting gruppale (Montesarchio e

Margherita, 1995). Alla base vi è un concetto di sofferenza psichica come effetto della

coartazione culturale della spontaneità e della creatività, che possono invece esprimersi

attraverso la catarsi, cioè inscenando e agendo le costrizioni e i condizionamenti che

impediscono di rapportarsi pienamente con se stessi e di vivere relazioni autentiche,

quindi liberando le energie represse (Profita e Venza, 1995). Il ruolo del gruppo è

centrale come spazio psichico di condivisione, interazione ed elaborazione dei ruoli –

sociali, professionali, familiari – che nel loro coesiste all‟interno dell‟individuo possono

creare conflittualità interiore (Montesarchio e Margherita, 1995). Il gruppo diventa

inoltre un luogo in cui è possibile una sperimentazione senza rischi. Attraverso la

manifestazione drammatizzata di bisogni e sentimenti, diventa possibile riconoscere

punti critici del modo di rapportarsi alle costruzioni sociali consentendo la

mobilitazione di energie affettive e aprendo la strada ad un cambiamento (Profita e

Venza, 1995). Le sessioni non hanno un tema prestabilito, che emerge

progressivamente, i partecipanti possono assumere reversibilmente il ruolo di spettatore

e attore, il lavoro è organizzato in fasi e il terapeuta, detto direttore, assume la funzione

di regista (Montesarchio e Margherita, 1995). Le fasi del lavoro sono (ibidem):

preparazione: in cui il gruppo si focalizza su un tema comune e sceglie un

protagonista/soggetto, ovvero la persona che inscena il tema. Il direttore

potendo contare sulla collaborazione di altri membri, detti io-ausiliari,

coadiuva un riscaldamento affinché, prima di andare sul palcoscenico, tutte

le parti entrino nella situazione da rappresentare;

azione: il protagonista è libero di esprimersi spontaneamente facendo come

se illusione e realtà fossero la medesima cosa; il direttore può intervenire

nella rappresentazione tramite gli io-ausiliari al fine di favorire l‟emergere di

emozioni e provocare la catarsi: attraverso la rottura delle resistenze è per

Moreno la riuscita e la fine della terapia;

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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condivisione: il rientro nel gruppo, in cui tutti posono esprimersi e in cui il

protagonista può beneficiare delle esperienze e delle opinioni altrui,

rappresenta la catarsi di gruppo.

Pur essendo una tecnica centrata sull‟individuo lo psicodramma attraverso l‟eco

del gruppo, che funge da cassa di risonanza solo nella fase finale, aggiunge e restituisce

una dimensione collettiva all‟esperienza individuale (ibidem).

Questo modello attribuisce un ruolo ugualmente importante all‟azione, alla

rappresentazione tramite la messa in atto, come alla parola, veicolo privilegiato di

confronto, riflessione e consapevolezza, e ha quindi finalità sia espressive che

trasformative (Profita e Venza, 1995). Moreno sostenendo che l‟attore rappresentando il

dramma se ne libera non lascia una vera teoria sullo psicodramma, piuttosto lascia una

tecnica che viene ripresa da altri autori di scuola francese, come Anzieu, che ne sviluppa

una versione chiamata psicodramma analitico, in cui il terapeuta può interagire più

attivamente sulla rappresentazione (Montesarchio e Margherita, 1995).

T-group. La loro applicazione è centrata su finalità di apprendimento e

cambiamento personale, il metodo è portato a battesimo dagli allievi di Lewin negli

anni ‟40, dopo la constatazione che i partecipanti ai corsi di dinamica di gruppo

riportavano un sensibile incremento delle consapevolezze sulle personali modalità di

interagire (Profita e Venza, 1995). Il training-group è un piccolo gruppo composto da

persone che non si conoscono che, per alcuni giorni, si riunisce in più sessioni da un‟ora

e mezza cadauna, possibilmente in una località che permetta una distanza dalle abitudini

quotidiane, sotto la guida di un esperto di dinamica di gruppo: si tratta di un gruppo

autocentrato il cui compito è osservare se stesso nel presente (ibidem). Il conduttore, che

non partecipa alle interazioni, ha il compito di mantenere l‟attenzione del gruppo sulle

interazioni nel „qui ed ora‟, di favorire un clima cooperativo capace di valorizzare

differenze e risorse, di proporre al gruppo una lettura dei processi emergenti (ibidem).

Possono essere presenti anche degli osservatori il cui ruolo è dare un feedback al

conduttore in privato o in una sessione allargata alla presenza del gruppo; la presenza di

osservatori è anche in base agli specifici obiettivi che si pone l‟esperienza, che può

essere centrata ad esempio sulla comunicazione, le relazioni interpersonali, la

leadership, la dinamica di gruppo, i climi organizzativi: in questi ultimi casi il t-group si

può svolgere con sessioni congiunte di più gruppi richiedendo la presenza di uno staff

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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più ampio (Ruvolo, Di Blasi, Neri, 1995). Concettualizzati come laboratori in vivo sulla

fenomenologia dei rapporti interpersonali la loro evoluzione li vuole come strumenti del

cambiamento sociale vedono all‟individuo come ultimo e unico veicolo di trasferimento

degli apprendimenti nel contesto quotidiano, quindi come „agente di cambiamento‟

(ibidem). I t-group trovano ampia applicazione in ambito organizzativo.

Gruppi Gestalt. Il modello trova pieno sviluppo negli anni ‟60 ad opera di

Perls, psicoanalista, che nelle sue teorizzazioni attribuisce scarsa rilevanza al concetto di

inconscio propronendo al suo posto il concetto di „forma‟ (Profita e Venza, 1995). Il

paziente in terapia può teatralizzare i suoi conflitti personali e renderli visibili attraverso

l‟aiuto del terapeuta e all‟interno del gruppo, in modo da promuovere un flusso di

consapevolezza all‟interno di una dinamica conscio-inconscio, che nel modello diventa

un‟articolazione dialettica figura-sfondo. Analogamente più che analizzare sentimenti e

contenuti diventa utile attualizzarli e renderli vividi – anche impersonificandoli,

proiettandoli intenzionalmente su un „oggetto‟ esterno, come ad esempio una sedia

vuota –, agevolando cioè un rapporto di immediatezza (ibidem). L‟attività viene

condotta su ogni singolo paziente che diventa figura sullo sfondo del gruppo; ciò non

toglie la possibilità di coinvolgerlo in vario modo nel lavoro del singolo come strumento

di confronto o di amplificazione (ibidem). La terapia è incentrata sul „come‟ e „ora‟,

sull‟espressione in prima persona, sulla consapevolezza corporea, sull‟entrare e restare

in contatto con i vissuti, sul ricorso a tecniche ed esercizi per sollecitare l‟esperienza nel

„qui ed ora‟. In questo modello che adotta un approccio piuttosto direttivo manca quindi

una concettualizzazione che attribuisce al gruppo un valore psicologico, diventa

piuttosto un contesto con cui è possibile interagire.

Gruppi di incontro. Il modello fa riferimento ad una base filosofica

fenomenologico-esistenziale che a cavallo degli anni ‟60 e ‟70 assume fisionomia di un

movimento sociale (ibidem) centrato sui valori dell‟autenticità, dell‟incontro umano e

della responsabilità persoanle. Nel setting gruppale il conduttore ha il compito di creare

e mantenere un contesto relazionale positivo e di reciproca accettazione, in cui ognuno

possa sentirsi progressivamente libero di esprimersi e sperimentare modalità relazionali

(ibidem). Il gruppo di incontro è un‟esperienza tipicamente intensiva che assume le

caratteristiche di un ambiente sociale che accetta e promuove, finendo per diventare una

dimensione intemamente terapeutica capace di contribuire al processo di crescita

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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personale: l‟incontro è uno spazio relazionale in cui sviluppare le possibilità di

autorealizzazione (ibidem). L‟agevolatore si pone in termini non valutativi rispetto alla

persona adottando un metodo non direttivo, nella relazione con il paziente piuttosto che

come terapeuta è quindi presente come persona: il corrispettivo diatico del gruppo di

incontro viene definito infatti „terapia centrata sul cliente‟ (ibidem). Particolarità di

questo metodo centrato sulla valorizzazione delle potenzialità individuali sembra essere

creare le condizioni interpersonali affinché la persona possa agire spontaneamente in

direzione della propria realizzazione. Dopo un perido di grande diffusione i gruppi di

incontro sono stati soggetti a critiche metodologiche – il ruolo e la formazione

dell‟agevolatore – ed epistemologiche – gli assunti teorici, le finalità operative, i settori

di applicazione – non essendo chiaramente definibile la loro finalità, che potrebbe

essere ugualmente terapeutica, di crescita personale o di formazione (ibidem).

Principale differenza che sembra emergere da un confronto tra i gruppi di

matrice psicoanalitica e non psicoanalitica potrebbe essere che i primi – a eccezione dei

gruppi Balint – vedono alla dimensione gruppale con una funzione catalizzatrice,

sollecitando nell‟individuo delle reazioni, i secondi sembrano enfatizzare una funzione

facilitatrice, che agevola nell‟individuo delle consapevolezze delle possibilità di azione.

Punto comune sembrerebbe la mancanza di una chiara distinzione tra una valenza

terapeutica e pedagogico-formativa.

2.6 Evoluzione dei paradigmi e cambiamenti sociali

Abbiamo visto come da un ricorso „naturale‟ al gruppo, intriso di superstizione e

perplessità durata fino ai primi decenni del XX secolo, si è giunti ad un approccio più

laico e scientifico. I primi interventi di gruppo hanno una finalità meramente applicativa

– si vedano Pratt e Lazell – e figure centrali sono medici, psichiatri e psicoanalisti.

In una fase di prima espansione il gruppo ha iniziato a ruotare intorno a degli

psicologi che, con le loro ricerche, hanno conferito unitarietà e metodo ad una disciplina

ancora giovane. L‟interesse per i gruppi assume un carattere psico-sociale – prima con

Moreno, poi con Lewin – e un approccio piuttosto sperimentale. Intorno gli anni ‟60

queste voci sembrano iniziare a raggiungere, a prescindere dalle inevitabili differenze

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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nel linguaggio scientifico, un certo grado di accordo, allo stesso tempo i settori

applicativi e le tipologie di setting si moltiplicano.

Oggi le neuroscienze, come in una nuova età dei lumi, hanno riportato al centro

l‟uomo, permettendo di rileggere il passato e di comprendere quale fosse il senso di

quella primordiale „natura‟ che ha spinto l‟uomo a riunirsi in cerchio per parlare, per

raccontare di sé e della sua storia, e così creare nuove possibilità di senso nel suo

presente.

A livello metodologico è possibile condurre un‟analisi storica differente ma

parallela a quella già tracciata, prendendo a riferimento alcuni parametri come, ad

esempio, il setting, il significato attribuito al gruppo.

Come abbiamo potuto vedere le prime applicazioni documentate dei setting

gruppali, risalenti al 1800, ne fanno un utilizzo ingenuo, in pressoché totale assenza di

una teorizzazione capace di prefigurare i processi di cambiamento implicati e gli esiti

dell‟applicazione.

Nei primi anni del XX secolo la nascente psicologia si contraddistingue per

l‟emersione di un modello forte, centrato forse più sullo sviluppo di una teoria del

funzionamento umano che sull‟efficacia della prassi. La nascita della „psicologia del

profondo‟, la psicoanalisi, rappresenta allo stesso tempo un limite e, sul lungo termine,

un incentivo, allo sviluppo della terapia in setting gruppale. L‟applicazione di questa

nuova disciplina sembra tradursi operativamente nel ricorso ad un setting piuttosto

rigido e una relazione terapeutica asimmetrica.

Tuttavia in questo contesto spiccano alcune figure che assumono un ruolo

avanguardista nella considerazione della terapia di gruppo, come spiccano all‟interno

della prima generazione di analisti.

Nel periodo a cavallo delle due Guerre continuano ad emergere importanti

applicazioni di interventi in gruppo che non sempre si pongono in continuità con le

precedenti esperienze e sembrano restare dei contributi isolati. L‟interesse sui gruppi

sembra di tipo piuttosto sociale, vedendoli come edizioni su piccola scala di più ampi

gruppi sociali. La visione del gruppo assume una forma pragmatica e ruota intorno gli

aspetti normativi e legati al compito. L‟interesse arriva ad includere il versante

organizzativo.

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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In questo panorama se la Prima Guerra fornisce materiale umano per avviare

delle prime forme di lavoro in gruppo, la Seconda Guerra influisce in modo più

importante e diretto con l‟esigenza di trattare ampie popolazioni in modo efficace e in

tempi contenuti. Negli anni successivi l‟applicazione e lo studio dei gruppi subisce

un‟impennata portando questa modalità di intervento all‟attenzione del panorama

culturale, oltre che accademico. Al modello analitico inizia ad affiancarsi l‟approccio

comportamentale. In ambito clinico in questo periodo di espansione si verificano

applicazioni in vari campi e si affermano importanti teorizzazioni sulla gruppalità. Nella

prassi diventano importanti i risultati e le evidenze.

Il periodo successivo va dall‟immediato dopoguerra alla fine degli anni ‟60. Il

panorama applicativo è abbastanza ampio e quello disciplinare sufficientemente

eterogeneo da permettere le prime strutturazioni transteoriche degli sviluppi già

realizzati e, allo stesso tempo, di tentare delle forme di innovazione. Al modello

analitico e comportamentale viene ad accompagnarsi la „terza forza‟, ovvero il modello

umanistico-esistenziale. Questo cerca di affermare la responsabilità del terapeuta

superando un‟applicazione rigida del modello nel setting e nell‟atteggiamento

terapeutico, oltrepassando una visione frammentaria e riduzionistica dell‟uomo, figlia

del comportamentismo, in una visone della clinica centrata sull‟incontro umano. In

questo incontro terapeutico il clinico, assumendo piena responsabilità del suo essere,

può sollevare il paziente dalle forzature dovute alla teoria e al metodo consentendogli

una maggior libertà di sperimentare il proprio modo di essere. Ciò si traduce anche in

una gestione più sostenibile delle regole di setting che possono essere concepite come

esito di un processo negoziale senza perdere il loro valore di garanti del processo

terapeutico. L‟interesse sociale per i gruppi assume una connotazione culturale, nella

prospettiva degli utenti, e scientifica, da parte degli operatori, che applicano i principi

della ricerca-intervento di Lewin in chiave sociometrica utilizzando il gruppo come un

laboratorio in vivo. Tale interesse, soprattutto in America, coinvolge e si riflette anche

sul settore formativo e organizzativo.

Compaiono nuove e specifiche forme di psicoterapia di gruppo insieme ai primi

manuali e vademecum dedicati all‟intervento di gruppo in cui sono sintetizzati le recenti

acquisizaioni scientifiche. In un orizzonte eterogeneo si affermano modelli di intervento

con bassa strutturazione e un setting essenziale, capace di riportare al centro del

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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processo la relazione terapeutica – esempio sono i gruppi di incontro ovvero la „terapia

centrata sul clinete‟ di Rogers . Profondi cambiamenti culturali da un lato incentivano

l‟interesse, lo sviluppo e le possibilità di ricerca, allo stesso tempo lasciano sorgere una

varietà di attività in gruppo di estrazione non psicologica che rendono più ampio e meno

chiaro il confine tra approcci scientifici e non scientifici.

Già negli anni ‟90 del secolo scorso negli Stati Uniti la crescente mobilità della

società e lo sviluppo di grandi agglomerati urbani hanno comportato un dissolvimento

delle normali reti di rapporti umani in direzione di un crescente senso di isolamento,

solitudine e una relativa mancanza di comunicazione: in questo scenario è andato

crescendo l‟interesse nei confronti della terapia di gruppo (Rosenbaum, 1990). Occorre

tuttavia precisare che il normale desiderio delle persone di stare insieme per

confrontarsi in attività socializzanti e un gruppo di natura psicologica, caratterizzato

dalla volontà individuale di modificare il comportamento, sono situazioni differenti che

il terapeuta deve tenere in considerazione e di cui deve informare il potenziale

partecipante al fine di evitare vissuti di rifiuto, delusione, rassegnazione, che non

giovano alla motivazione per una proficua applicazione (ibidem).

D‟altronde effetto facilitante per la partecipazione a tale tipologia di attività

scaturito dall‟urbanizzazione si è rivelato l‟anonimato: è nei piccoli centri e nelle aree

rurali che viene riscontrata una maggiore resistenza verso i setting per lavori psicologici

in gruppo (ibidem). Allo stesso tempo:

«Nell‟opulenta società americana moderna la scala delle necessità si è spostata dai

bisogni della sopravvivenza a quelli emotivi. L‟uomo moderno, che nuota

nell‟abbondanza, rivolge ora la sua attenzione al problema „Con chi posso parlare

dei miei problemi personali?‟ […] l‟affiatamento che si sviluppa in un gruppo si

può considerare una forza contraria in una cultura “che sembra decisa a

disumanizzare l‟individuo e a disumanizzare i nostri rapporti umani5”». (Yalom,

1970; 70)

È questo lo scenario presentato da Rogers già nel 1967 che vede l‟uomo

progressivamente privato della normale possibilità di relazionarsi pienamente con se

5 Rogers, C., (1967), The process of the basic encounter group, California, manoscritto non pubblicato

citato da Yalom.

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I - LA PSICOTERAPIA E IL GRUPPO: DEFINIZIONI E STORIA

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stesso attraverso la presenza dei propri simili. La terapia di gruppo, fin dai primordi,

tenta di dare risposta a questa esigenza relazionale. Nel capitolo successivo cercheremo

di tratteggiare in che modo le relazioni plurali del gruppo terapeutico possono

raggiungere una piena efficacia.

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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Capitolo II

FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

Introduzione

Il gruppo sembra rappresentare una specifica dimensione di intervento e in anni

recenti sono state differenti le ricerche tese a indagarne le peculiarità cliniche. Tali

indagini hanno intercettato questioni come l‟efficacia della terapia fino a poter

distinguere ciò che i terapeuti cercano di perseguire avvalendosi delle proprie

concettualizzazioni da ciò che sperimentano i pazienti attraverso la propria esperienza.

In questo modo è stato possibile individuare differenti vertici di osservazione sui

molteplici processi attivi all‟interno del gruppo a prescindere dalle particolari

condizioni di applicazione.

Tuttavia in un momento applicativo diventa importante poter definire e

contestualizzare un intervento come in un esperimento è necessario isolare variabili

dipendenti dalle variabili indipendenti. A questa funzione assolve il setting, che viene

illustrato insieme ad alcune variabili alla luce delle possibilità di impiego con un

gruppo. Ad una prospettiva di ordine più teorico viene quindi associata una visione più

pragmatica e procedurale che termina con un‟analisi dell‟atteggiamento del leader come

è stato considerato da alcuni importanti autori classici della psicologia umanistica.

3. La ricerca sul processo e i fattori terapeutici

Differenti ricerche e meta-analisi sembrano convergere sul fatto che l‟efficacia

della psicoterapia non dipenda tanto da fattori specifici legati alla teoria di riferimento

(Luborsky et al., 2002) come l‟analisi del transfert o la ristrutturazione cognitiva, quanto

da fattori trasversali alla tecnica di intervento e comuni ai vari approcci, definiti

aspecifici o comuni (Messer e Wampold, 2002). In questo passaggio dal risultato finale

alla considerazione di cosa accade durante il trattamento, si passa dalla ricerca sull‟esito

alla ricerca sul processo terapeutico (Dazzi, 2006): questi ambiti intendono rispondere

rispettivamente alle domande „la psicoterapia funziona?‟ e „in che modo funziona la

psicoterapia?‟. Da qui un acceso dibattito sembra aver spostato l‟attenzione da una

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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visione globale del processo terapeutico verso gli aspetti metodologici adottati nelle

ricerche stesse, piuttosto che nella terapia. Ciò ha portato a risultati controversi e forse

ha allontanato dalle intenzioni originali di definire un panorama generale come punto di

partenza per ricerche mirate a intercettare degli specifici meccanismi di funzionamento.

Quindi la risposta alla domanda „in che modo la terapia di gruppo aiuta le persone?‟

risulta ancora aperta. Tale importante risposta costituisce la „chiave di volta‟ di un

trattamento di gruppo: può risultare preziosa per disporre di un principio organizzativo

capace di orientare un modello di intervento e definire una strategia operativa. Un

tentativo ponderato di risposta è stato avanzato da Yalom (1970), autore molto attivo

nella valutazione del processo terapeutico.

Le principali ricerche per la loro identificazione e definizione (ibidem) sono state

effettuate durante gli anni „50 e „60 del secolo scorso combinando, anche su ispirazione

di Lewin, modelli di ricerca mutuati alla sociometria, indagini statistiche dirette su

gruppi sperimentali, indagini e meta-analisi condotte su lavori già disponibili. Il limite

metodologico è rappresentato dalla soggettività delle risposte date dai soggetti ai

questionari e nei colloqui, dalla difficoltà di operazionalizzare e poi sintetizzare delle

variabili complesse (Lambert e Ogles, 2004), dall‟autoreferenzialità dei paradigmi

(Migone, 2011).

Dopo la prima definizione dei fattori terapeutici, gli sforzi sulla scia del

contributo di Yalom per cercare di definire gli aspetti del processo terapeutico sono stati

numerosi: sono state sviluppate una quantità di scale per valutare (Hasting-Vertino et

al., 1996; Lese, MacNair-Semands, 2000) ed esplorare (Bloch e Crouch, 1985;

Vlastelica et al., 2001; Burlingame, McClendon, Alonso 2011) le qualità peculiari del

trattamento di gruppo. Ad esempio Bloch e Crouch (1985) hanno formulato un modello

che indica l‟autosvelamento (self-disclosure) e la comprensione del sé (self-

understanding) come validi predittori del cambiamento. Più recentemente Dierick e

Lietaer (2008) hanno realizzato un questionario con 28 scale da cui, attraverso l‟utilizzo

di tecniche di analisi fattoriale multivariata, hanno cercato di definire il legame tra i

fattori terapeutici e il loro reciproco grado di interconnessione. Per spiegare il ruolo dei

fattori terapeutici sono state intercettate due dimensioni interpretate come: clima

relazionale (Relational Climate) e attività psicologica (Psychological Work). Un

tentativo promettente di identificare il ruolo dei fattori relazionali all‟interno del

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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processo terapeutico proviene da Burlingame, McClendon e Alonso (2011) che hanno

elaborato un questionario fondato su una teoria unificata della relazione gruppale che

individua un modello a tre fattori: legame positivo, capacità di lavoro positiva e

relazione negativa. Questi fattoti vengono incrociati con informazioni specifiche su

quanto le relazioni in gruppo siano significative, analizzandole nei livelli membro-

leader, membro-membro e membro-gruppo. Tale tentativo sembra rappresentare

rispetto al modello di Yalom un momento integrativo e forse di evoluzione.

Questi lavori derivano dall‟applicazione di reattivi psicologici impegnativi per i

pazienti e sviluppati per campioni non strettamente clinici. A integrazione sono stati

sviluppati strumenti più snelli ed efficaci che, pur mantenendo un‟impostazione clinica,

possono essere applicati in una varietà di situazioni, anche nel corso del trattamento

(Caruso et al., 2013). Le dimensioni salienti dell‟esperienza di gruppo emerse sono

sintetizzate in sottoscale (ibidem) poi assimilate ai fattori individuati da Yalom (1970):

1. condivisione di emozioni ed esperienze: raggruppa i fattori universalità, sviluppo di

tecniche di socializzazione, comportamento imitativo; 2. miglioramento del

funzionamento cognitivo: comprende il fattore informazione; 3. apprendimento di

gruppo: sottende la capacità di cogliere ruoli relazionali e regole esemplificando il

fattore apprendimento interpersonale; 4. difficoltà nella libera espressione: implicando

l‟abilità dei terapeuti di creare un ambiente relazionale sicuro e non giudicante libero

dalle costrizioni culturali e sociali consente di individuare le difficoltà che emergono nel

trattamento e di modificare il programma terapeutico per incontrare le esigenze dei

partecipanti; 5. relazioni interpersonali: raggruppa fattori come altruismo, infusione di

speranza, sviluppo di tecniche di socializzazione, catarsi e riepilogo correttivo del

gruppo familiare.

3.1 Meccanismi di cambiamento: i fattori terapeutici di gruppo

Oltre gli sviluppi il contributo di Yalom sembra essere stato „sufficientemente

buono‟ che l‟American Group Psychotherapy Association (AGPA, 2007) 37 anni dopo

la loro definizione ritiene i fattori terapeutici “validi per tutti i gruppi” indicandone la

conoscenza come “fondamentale” per tutti gli operatori del settore.

Come già accennato i „fattori terapeutici di gruppo‟, o fattori curativi, sono i

meccanismi secondo i quali avviene il cambiamento nei membri (Yalom, 1970) e

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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interessano, in modo più o meno diretto, tutte le possibili tipologie di attività svolte in

gruppo. Un fattore terapeutico di gruppo può essere considerato come un elemento della

terapia di gruppo che contribuisce al miglioramento di una condizione del paziente: è

funzione delle azioni del terapeuta, degli altri membri del gruppo e del paziente stesso

(Bloch e Crouch, 1985). Differenti approcci al lavoro di gruppo favoriscono l‟azione di

diversi raggruppamenti di fattori. Per esempio (Yalom, 1970):

nel polo informativo/supportivo come i gruppi di auto-mutuo-aiuto (AMA), gli

Alcolisti Anonimi, i fattori sollecitati sono essenzialmente infusione di speranza,

informazione, universalità, altruismo, alcuni aspetti della coesione;

nel polo educazionale/formativo come gruppi di preparazione alla dimissione –

realtà tipicamente americana inserita negli ospedali psichiatrici – fanno ampio

uso dell‟informazione e dello sviluppo di tecniche di socializzazione;

nel polo elaborativo/integrazionale come nei gruppi di terapia classici o a

mediazione corporea – gruppi Gestalt, psicodramma – sono centrali

apprendimento interpersonale e coesione.

I fattori terapeutici vengono anche attivati in differenti fasi del processo terapeutico. Nei

primi stadi di vita il gruppo si preoccupa principalmente della sua sopravvivenza, di

stabilire confini esterni e mantenere la partecipazione (ibidem): emergono nettamente

universalità e infusione di speranza. La prima è inevitabile in quanto i partecipanti

iniziano a confrontarsi e ri-conoscersi, la seconda risponde ad un principio

autoconservativo. Fattori come l‟altruismo e la coesione agiscono trasversalmente per

tutta l‟esistenza del gruppo. La coesione lavora prima come catalizzatore che favorisce

accettazione e partecipazione, successivamente come dispositivo per l‟autostima e

l‟apprendimento interpersonale (ibidem).

I meccanismi che sembrano creare cambiamento nei membri, quindi innescare

un processo opportuno a decretare l‟efficacia di un lavoro gruppale, andando da un

ideale polo che comprende finalità prettamente terapeutiche verso l‟estremo

espressivo/formativo, sono riassunti a seguire. Separati per chiarezza di esposizione

questi fattori agiscono in modo interdipendente, alcuni in modo diretto, altri come

condizioni necessarie per poter innescare il cambiamento. Rappresentando aspetti

diversi del processo di cambiamento i fattori primari sono generali e più complessi:

assumono una maggiore importanza, in termini assoluti e rispetto alla presenza di quelli

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secondari. I fattori primari in realtà non sono precoci nel processo di sviluppo del

gruppo e tendono a presentarsi dopo episodi di relativa conflittualità (ibidem).

3.2 Coesione

Stabilendo un‟equazione tra la terapia di gruppo e individuale la coesione

corrisponde all‟alleanza terapeutica (Yalom, 1970; Burlingame et al., 2002): il clima di

fiducia e accettazione alimentato da sentimenti positivi che viene ad instaurarsi nella

relazione tra paziente e terapeuta che, strettamente connesso con la reciproca

motivazione ad affrontare il trattamento, permette al paziente di mobilitare le sue

risorse. Il rapporto terapeutico su cui fonda l‟alleanza, a prescindere dal paradigma

adottato, è tra i fattori che dimostrano la maggiore efficacia terapeutica (Castonguay et

al., 2006; Norcross, 2002). Il corrispondente nella terapia di gruppo è un concetto più

ampio che comprende il rapporto del partecipante con: 1. il terapeuta di gruppo, 2. gli

altri membri, 3. il gruppo come insieme (Yalom, 1970). Effetto della reciproca

accettazione tra i membri, la coesione è una proprietà fondamentale dei gruppi e indica

l‟attrattiva di un gruppo sui suoi componenti: un senso di appartenenza mantiene il

gruppo unito favorendo la solidarietà e la capacità di difenderlo da minacce interne ed

esterne (ibidem).

In un gruppo coeso si può vedere una frequenza assidua, partecipazione, aiuto

reciproco: questo può aiutare a guardare alla coesione non come un vero fattore

terapeutico, piuttosto come una condizione necessaria e facilitante verso l‟instaurarsi di

rapporti interpersonali leali, significativi, empatici. Sentirsi accettati – come all‟interno

della famiglia o del gruppo dei pari –, quindi uniti, rappresenta un‟esperienza affettiva

importante e nutriente, rara per molti pazienti psichiatrici a causa delle loro particolari

modalità d‟interazione che possono far aumentare l‟isolamento e le convinzioni

disfunzionali su di sé in un circolo vizioso. Appartenenza, accettazione e approvazione

sono della massima importanza per lo sviluppo, oltre che del gruppo sociale,

dell‟individuo (ibidem; Rogers, 1970). La coesione è essenziale per la sopravvivenza

del gruppo e per lo sviluppo degli altri fattori terapeutici (Leszcz e Kobos, 2008).

Yalom (1970) indica che grazie a questa precondizione operativa a livello individuale il

membro (Rogers, 1959):

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è sempre più libero nell‟esprimere i suoi sentimenti, opera maggiori

discriminazioni tra sentimenti e percezioni provenienti dall‟ambiente, da sé,

dagli altri e dalle esperienze, comincia a fare esame di realtà;

consapevolizza l‟incoerenza tra le sue esperienze e il suo concetto dell‟Io

insieme ai sentimenti che precedentemente aveva negato o deformato;

riesce a ricevere senza sentirsi minacciato la considerazione incondizionata e

positiva del terapeuta e provare un‟analoga considerazione di sé;

si trova a sperimentare se stesso come punto di convergenza della natura e del

valore dell‟esperienza;

la sua reazione all‟esperienza è sempre meno coartata e più libera

nell‟intensificare, rendere più efficace e sviluppare l‟esperienza stessa.

I membri possono validare il proprio sistema di valori, consolidare e mantenere a

lungo termine dei comportamenti in risposta alla percezione positiva degli altri e del

gruppo come esperienza complessiva: acquistando una grande importanza l‟uno per

l‟altro i membri possono interiorizzare il gruppo (Yalom, 1970; Rogers, 1970):

l‟accettazione da parte degli altri e l‟accettazione di sé sono interdipendenti e reciproche

(Fromm, 1956) e costituiscono la base per sviluppare autostima (Yalom, 1970).

Attraverso la coesione è come se il gruppo come insieme ricompensasse i singoli

membri che vi aderiscono.

3.3 Apprendimento interpersonale

Questo meccanismo di cambiamento costituito da processi caratteristici della

situazione di gruppo può rappresentare l‟equivalente dell‟insight, l‟elaborazione del

transfert e l‟esperienza emotiva correttiva del setting duale (ibidem): nel capitolo 4

vedremo meglio cosa significhi questa affermazione. Per ora basti dire che l‟attitudine

interpersonale è una qualità intrinseca e distintiva dell‟uomo e che la personalità,

secondo alcune teorie, è quasi interamente il prodotto dell‟interazione con altre persone

significative (Sullivan, 1953): il concetto di sé che un individuo sviluppa è basato sulle

valutazioni che percepisce fatte da chi gli è più vicino.

L‟apprendimento interpersonale permette di confutare, attraverso una

validazione consensuale in un clima di fiducia, le distorsioni paratassiche (ibidem), cioè

la propensione in un contesto interpersonale a relazionarsi con l‟altro sulla base di una

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percezione deformata preesistente piuttosto che sulla base di reali attributi. Rappresenta

un concetto di transfert di più ampia portata che tende a perpetuarsi e a portare a

„profezie che si autoavverano‟. Si acquista invece benessere psicologico nella misura in

cui si diventa consapevoli dei propri rapporti interpersonali (Sullivan, 1940).

Secondo Alexander (Alexander et al., 1946) essenza del trattamento è di esporre

il paziente, in condizioni più favorevoli, a situazioni emotive che in passato non era

riuscito ad affrontare: per essere aiutato deve avere un‟esperienza emotiva correttiva

capace di rimediare la precedente esperienza traumatica. Quando la persona si rende

conto che le sue reazioni non sono adeguate alla situazione terapeutica può riportare tale

consapevolezza anche nel suo quotidiano (ibidem). Il gruppo moltiplica la possibilità di

questo tipo esperienze rispetto il setting individuale e le agevola lasciando emergere

appoggio, prima e dopo l‟espressione emotiva, stimolazione degli affetti, durante, ed

esame di realtà, in una fase di contatto pieno, in un crescendo di tensione che nasce

dall‟espressione di un sentimento negativo, o positivo, raramente verbalizzato e che

tende poi a risolversi naturalmente ripristinando le normali libere interazioni percepite

sotto una nuova luce (Yalom, 1970). In questo caso il gruppo agisce da microcosmo

sociale in cui trovano espressione modalità relazionali coartate che, sottoposte a

riscontro da parte del gruppo, vengono in qualche modo disattese lasciando spazio a

nuove forme di apprendimento e di comportamento: si mette in moto una „spirale

adattiva‟ che nasce nel gruppo e, con il diminuire della preoccupazione e il crescere

dell‟autostima, si sviluppa al suo esterno (ibidem). L‟evidenza del comportamento e dei

suoi effetti è spesso data dal gruppo mentre la consapevolezza di quanto accade

concretamente e delle emozioni, motivazioni e delle relazioni attuali è lasciata al

singolo; il ruolo del leader in questi casi può essere quello di aiutarlo a capire com‟è

arrivato a comportarsi in un certo modo (ibidem).

Sembra che dopo alcuni mesi di gruppo, sfumati gli obiettivi iniziali, i membri

siano più propensi a trovare nuove motivazioni di natura interpersonale alla

partecipazione (ibidem) ed è questo il momento più propizio per l‟apprendimento

interpersonale.

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3.4 Fattori terapeutici secondari: informazione e infusione di speranza

L‟azione di questi fattori è in relazione ai fattori primari, di cui ne coadiuvano lo

sviluppo, e sono spesso reciprocamente collegati tra loro.

Informazione. È quanto di educativo avviene nel gruppo ad opera del leader o

dei membri più esperti. Racchiude semplici informazioni „tecniche‟ sulle modalità di

sviluppo, di azione e sulle implicazioni di determinate modalità relazionali e

comportamentali, spiegazioni sul funzionamento psichico, suggerimenti per la gestione

di particolari momenti dell‟esistenza, insiemi organizzati di nozioni che tipicamente

vengono forniti in modo implicito (ibidem). Esistono anche casi di lavoro con il gruppo

in cui l‟aspetto didattico diventa centrale, nel modello (Marsh, 1935), per la finalità

dell‟intervento, come nei gruppi omogenei di sensibilizzazione, quindi su un versante

preventivo. Nei gruppi AMA, ad esempio, un‟informazione precisa assume un peso

caratteristico.

Spiegazioni, chiarificazioni, confronti su questioni che assumono rilievo per le

persone è di per sé terapeutico riducendo l‟incertezza, accrescendo la consapevolezza e

rappresentando il primo passo verso il controllo di un fenomeno (Yalom, 1970).

Attraverso l‟informazione le persone possono diventare più responsabili e proattive.

Negli scambi tra i membri nelle fasi avanzate della vita del gruppo dare o chiedere

consiglio assume il valore di un reciproco prendersi cura e fornisce indizi utili a

prescindere dall‟aspetto di mero contenuto. Questo stesso processo orizzontale può

sollecitare delle dinamiche relazionali che il gruppo, rispondendo, può rendere palesi.

Infusione di speranza. Indica la fiducia per un sistema di cura che si sviluppa

ascoltando le esperienze simili alle proprie e constatando il miglioramento o le modalità

efficaci che gli altri membri hanno messo in campo per affrontare un problema

(ibidem). Lungi dal voler essere un motivo di eccessivo ottimismo la speranza è utile al

partecipante affinché possa darsi tempo e modo di beneficiare degli altri fattori

terapeutici, inoltre può ben collegarsi con le aspettative di aiuto connesse con l‟adesione

ad un gruppo psicologico. Può essere importante avere una composizione assortita per

grado di maturità e richiamare periodicamente l‟attenzione del gruppo sui progressi fatti

dai singoli e raccogliere le testimonianze (ibidem). In questo modo il gruppo diventa

uno stimolo concreto per i membri.

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3.5 Universalità e riepilogo correttivo del gruppo primario familiare

Universalità. Caratteristica dei disturbi di personalità (DDP) è un quadro

pervasivo di pensieri e percezioni che spesso si traducono in mancanza di relazioni

sincere o in isolamento sociale: situazioni in cui non si può disporre di una franca

verifica del proprio modo di essere. Ciò può acuire la percezione di pensieri, impulsi,

fantasie spaventose o inaccettabili, rinforzandoli. L‟universalità consiste nella smentita

del senso di unicità percepito come distonico potendo ascoltare altre persone che

rivelano pensieri o preoccupazioni simili alle proprie (ibidem). La dimostrazione del

carattere universale di alcuni problemi, ma anche dell‟empatia e della capacità di

comprensione da parte degli altri può lenire la profonda convinzione che molti nutrono

rispetto la propria inadeguatezza, la percezione di alienazione interpersonale e di

incapacità di prendersi cura di sé o degli altri, una serie di segreti e fantasie inerenti la

sfera sessuale: la preoccupazione del proprio valore personale e interpersonale (ibidem).

L‟universalità si collega allo sviluppo della coesione.

Riepilogo correttivo del gruppo primario familiare. Le esperienze fatte nel

primo e più importante gruppo, la famiglia, influiscono sulla storia personale e sulle

esperienze successive. Il gruppo terapeutico, con la presenza di un leader cui si

attribuiscono una conoscenza e un potere superiori, con la possibile competizione tra i

membri e il loro percorso di crescita che li porterà ad abbandonare l gruppo per

guadagnare il mondo assomiglia molto ad una famiglia. Per questo non è raro che riesca

a far riemergere ricordi antichi e porti alla chiusura in chiave rielaborativa delle

esperienze passate. Il riepilogo può essere correttivo nella misura in cui si esprimono

forti sentimenti, non si lascia che i rapporti coartati possano perpetuarsi incoraggiando

l‟esame di realtà nel presente e la sperimentazione di nuovi comportamenti (ibidem).

3.6 Altri fattori terapeutici secondari

Altruismo. Per tutto il corso della terapia i partecipanti si aiutano l‟un l‟altro.

All‟interno di un gruppo terapeutico è possibile condividere appoggio, rassicurazioni,

intuizioni, problematiche e l‟esperienza di poter avere qualcosa da offrire agli altri

membri, scoprire di poter essere importanti per gli altri alimenta una percezione di sé

positiva sviluppando l‟autostima: la gente ha bisogno di sentirsi utile (ibidem).

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Sviluppo di tecniche di socializzazione. Lo sviluppo e l‟apprendimento della

socialità è insito nei gruppi di ogni tipo benché in modo più o meno esplicito. Nei

gruppi in cui si utilizza il feedback i membri possono ottenere numerose informazioni

sui limiti e sui punti di forza del loro comportamento sociale, come comportamenti che

mettono in atto o come impressioni che suscitano negli altri (ibidem). Le abitudini

sociali disfunzionali possono perpetuarsi meglio quando restano sconosciute a chi le

attua. Il gruppo rappresenta per molti pazienti la prima opportunità di mettersi di fronte

ad uno specchio. Lo sviluppo delle tecniche di socializzazione ha il suo acme

terapeutico nell‟apprendimento interpersonale.

Comportamento imitativo. Come ha evidenziato Bandura (Bandura et al.,

1963) l‟apprendimento per imitazione è un fenomeno ubiquitario e contingente al vivere

sociale. Il comportamento imitativo non consiste nel semplice copiare persone più

capaci, assume piuttosto un valore terapeutico nell‟innescare un processo di collaudo di

nuovi comportamenti, in questo processo si può scoprire „ciò che si è‟ per progressiva

differenza da ciò che si imita (Yalom, 1970). Il comportamento imitativo rappresenta

una base per l‟apprendimento di nuovi e più funzionali adattamenti.

Catarsi. Questo fattore sembra giocare un ruolo all‟interno di ogni forma di

intervento psicologico e, dagli stessi resoconti dei pazienti, la forte espressione di

affetto è considerata parte indispensabile del processo terapeutico, tuttavia la catarsi di

per sé non rappresenta un obiettivo: non produce modificazioni del comportamento

(ibidem). Il suo ruolo diventa importante all‟interno di un concomitante processo

interpersonale. L‟espressione e l‟elaborazioni reciproca di forti sentimenti assume una

funzione nello sviluppo della coesione. L‟espressione di un forte sentimento è inoltre

collegata all‟esperienza emotiva correttiva, ovvero l‟importanza dell‟apprendimento

interpersonale è proporzionale alla forza che assume per l‟individuo l‟affetto espresso

(ibidem).

3.7 Verso un approccio client-based

In un lavoro comparativo effettuato da Yalom (ibidem) sembra che:

a) la descrizione tecnica dei fattori curativi per ordine di importanza: 1. coesione, 2.

apprendimento interpersone, 3. informazione, 4. infusione di speranza, 5.

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universalità, 6. altruismo, 7. riepilogo correttivo del gruppo familiare, 8.

sviluppo di tecniche di socializzazione, 9. comportamento imitativo, 10. catarsi;

b) li ponga in un ordine diverso da quello considerato saliente dai terapeuti: 1.

coesione, 2. universalità, 3. apprendimento interpersonale, 4. riepilogo correttivo

del gruppo familiare, 5. altruismo, 6. comportamento imitativo, 7. informazione,

8. catarsi;

c) a sua volta differente da quello riferito in un gruppo sperimentale: 1.

apprendimento interpersonale, 2. catarsi, 3. coesione, 4. universalità, 5. infusione

di speranza, 6. altruismo, 7. riepilogo correttivo del gruppo familiare.

Le prospettive di terapeuti e pazienti su quanto avviene all‟interno del processo

terapeutico sembrano piuttosto differenti. Riassumendo, parlando di fattori decisivi

all‟esito positivo i terapeuti a livello teorico danno molta importanza all‟emersione di

consapevolezza dei comportamenti e alla correlazione con esperienze infantili e sintomi

manifesti, mentre i pazienti nella loro percezione dell‟esperienza di gruppo pongono

l‟accento sugli elementi personali del rapporto, sull‟incontro con un nuovo tipo di figura

di autorità, sulla mutata immagine di sé e degli altri, ignorando gli argomenti cari ai

terapeuti (ibidem). Colpisce che pazienti e terapeuti si riferiscono alla stessa esperienza

traendone due speculazioni differenti, forse complementari.

Da simili considerazioni nascono due approcci alla terapia (APA, 2005). Uno

centrato sull‟evidenza clinica (evidence-based) che enfatizza l‟applicazione di modelli

teoricamente validati, adotta scelte sul trattamento a partire dagli indici di efficacia

ricavati da campioni randomizzati e da particolari trattamenti usati per particolari

condizioni cliniche: un modello basato sul disturbo. Un approccio alternativo è centrato

sul paziente (client-based) che integra i dati scientifici con la capacità clinica applicata

ad una particolare popolazione di pazienti, un atteggiamento capace di considerare le

caratteristiche, cultura e abitudini del paziente. La tendenza più attuale sembra assumere

direzione centrata sul paziente (ibidem).

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4. Fasi evolutive del gruppo

4.1 Dinamica di gruppo e fasi evolutive di gruppo

L‟espressione dinamica di gruppo viene utilizzata per indicare i processi che

interessano un gruppo influenzandone lo sviluppo e la condotta (Lewin, 1951), in

particolare si riferisce al contrasto di forze che agiscono al suo interno fino al

raggiungimento di un livello di equilibrio. Nel gruppo si stabiliscono legami e tensioni

che derivano dall‟interferenza fra condizioni individuali, caratteristiche di ciascun

partecipante, e gruppali, dovute alle interazioni sociali e con l‟ambiente esterno (Spaltro

e De Vito Piscicelli, 2002). Obiettivo finale della dinamica di gruppo come metodo di

analisi e al contempo di intervento viene espresso nel raggiungimento di tre differenti

finalità (Lewin, 1951):

portare i membri a una maggiore consapevolezza e padronanza di possibilità

e responsabilità personali;

sollecitare una maggiore efficacia e maturità sociale in modo da attuare i

processi necessari allo sviluppo del gruppo;

assumere tale processo indirizzandolo anche nell‟ambito di organizzazioni

complesse, quindi ad un livello sovraordinato.

La dinamica di gruppo si propone quindi, evidenziando i caratteri comuni che

sono rintracciabili all‟interno di ogni gruppo, di analizzare l‟andamento delle relazioni

all‟interno del gruppo, definendone la sua struttura e la sua evoluzione (Mucchielli,

1968). Il lavoro di Lewin (1951) viene a svilupparsi da un vertice psicologico e

sociologico, capace cioè di affrontare il problema sia dal punto di vista soggettivo che

interpersonale. Successivamente i contributi offerti dai diversi autori rendono più

complesso il paradigma di analisi introducendo principi interpretativi anche molto

distanti fra loro, come ad esempio la sociometria (Moreno, 1964), il paradigma

organizzativo (Mayo, 1946) e il modello gruppoanalitico (Foulkes, 1948), in cui

vengono elaborati il concetto di matrice (ibidem) e di assunti di base (Bion, 1961).

Per poter operare al meglio all‟interno di un gruppo è necessario conoscere la

sequenza evolutiva del gruppo, ovvero la successione dei compiti evolutivi che un

insieme di persone possono incontrare nell‟interagire e nel cooperare verso un obiettivo

che li accomuna (Yalom, 1970). Il terapeuta dovrebbe avere quindi un‟idea chiara di

qual è lo sviluppo naturale e ottimale di un gruppo terapeutico. In questo modo,

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conoscendo lo sviluppo positivo, quello viziato e i blocchi che possono subentrare,

diventa possibile aiutare il gruppo nell‟affrontare ogni fase e nel contrastare gli ostacoli

che si oppongono al loro superamento (ibidem). Inoltre la conoscenza di fasi generali,

come una mappa di un territorio ignoto, può dare al conduttore una sensazione di

padronanza utile a prevenire sentimenti di confusione e frustrazione, fisiologici negli

stadi iniziali del lavoro di gruppo, che facilmente potrebbero trasmettersi ai membri

(ibidem).

Sebbene ogni gruppo terapeutico con la sua particolare composizione attraversi

uno sviluppo assolutamente particolare, individualizzato e in ultima analisi

imprevedibile, esistono delle forze complessive che operano in tutti i gruppi e che

influenzano il corso del loro sviluppo (ibidem). In riferimento a queste forze è possibile

definire uno schema sommario ma utile delle fasi di sviluppo. Non esiste una sequenza

netta secondo cui le fasi si succedono e i confini tra una e l‟altra possono apparire

sfumati, tuttavia certe configurazioni tendono a precedere, altre a seguire secondo un

ordine approssimativo (Rogers, 1970).

Prima di parlare delle fasi evolutive viene fatto un breve accenno alla dinamica

di gruppo (Lewin, 1951) e a un modello di estrazione gruppoanalitica mutuato dalla

psicologia organizzativa (Spaltro e De Vito Piscicelli, 2002).

4.2 Difese, episodi e fenomeni di gruppo

La scuola psicoanalitica considera il gruppo come dotato di un unico apparato

mentale costituito dalle singole menti, definito “mente gruppale” (Spaltro e De Vito

Piscicelli, 2002). Secondo questa concettualizzazione un gruppo nell‟elaborare una sua

identità sviluppa nei singoli un pensiero di tipo prevalentemente primordiale, ponendo

in essere delle caratteristiche configurazioni complessive. Infatti il gruppo viene

considerato da Bion (1961) come un serbatoio comune in cui affluiscono i contributi dei

membri: in questo contenitore è possibile gratificare gli impulsi e i desideri che i singoli

contributi veicolano. Questo passaggio verso una realtà a vertice sociale „chiama‟ a

un‟esternalizzazione delle dinamiche interiori del singolo che mette in atto particolari

comportamenti: i meccanismi di difesa di gruppo rappresentano l‟effetto regressivo

provocato dal gruppo sugli individui (Spaltro e De Vito Piscicelli, 2002).

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L‟assetto gruppale oltre a rappresentare uno spazio di gratificazione, allo stesso

tempo rappresenta per l‟individuo l‟ostacolo maggiore per raggiungere gli obiettivi che

si è posto con la partecipazione (Bion, 1961). Il gruppo viene allora visto dall‟individuo

come luogo della rinuncia dei propri istinti e pulsioni (ibidem) a favore di una

collaborazione e cooperazione con gli altri membri. A partire dalle specifiche

caratteristiche dei singoli e del modo in cui interagiscono si innesca una dinamica che

inizia a strutturare l‟insieme. Il processo evolutivo di gruppo implica il passaggio

attraverso degli assetti contraddistinti da caratteristici comportamenti che i membri

assumono e, in una visione psicodinamica derivata nel settore organizzativo, vengono

considerati tre passaggi. In questo percorso di trasformazione si parla di difese di

gruppo, episodi di gruppo e fenomeni di gruppo (Spaltro e De Vito Piscicelli, 2002).

Difese di gruppo. In una fase iniziale i soggetti sono dominati dall‟incertezza

verso il gruppo e presentano comportamenti che li pongono in una posizione

individulistica o all‟interno di relazioni duali. C‟è la tendenza a rinviare un contatto

interpersonale autentico assumendo posizioni conformistiche e ad affrontare la

situazione nel „qui ed ora‟. Esempi di difese di gruppo sono (ibidem): 1. appaiamento:

interazione fra gli individui a due a due con la complicità del gruppo; 2. fuga nel

passato: ci si concentra su elementi e argomenti legati al passato; 3. fuga all‟esterno:

discussione di argomenti che non sono inerenti al gruppo stesso; 4. fuga in avanti:

presenza di fantasie proiettate nel futuro; 5. provocazione protettiva: continua richiesta

di aiuto per focalizzare l‟attenzione e bloccare lo sviluppo del gruppo; 6. spostamento

del conflitto: deviazione del problema su un piano diverso di disimpegno; 7. confusione

di ruolo: non perfetta percezione del proprio ruolo nel gruppo, evitamento delle

responsabilità, tendenza ad assumere la conduzione del gruppo senza esplicita richiesta;

8. fuga nella virtù: dichiarazione continua di fedeltà al gruppo, elogio dei

comportamenti ritenuti accettati e condivisi; 9. lamento: continua critica della situazione

per evitare di essere coinvolto o per evitare l‟aiuto; 10. assistenza del conduttore:

affiancarsi al leader smarcandosi dal gruppo; 11. attacco e fuga: provocare tensione

rivolta verso l‟interno o l‟esterno; 12. formazione di sottogruppi: variante

dell‟appaiamento con conflitto tra sottogruppi differenti; 13. teorizzazione: eccessiva

verbalizzazione e intellettualismo; 14. personalizzazione dei conflitti: decisione di

trattare i conflitti personali separatamente dal gruppo.

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Episodi di gruppo. In una fase successiva l‟individuo inizia a presentare dei

comportamenti che, anche attraverso l‟indifferenza o l‟attesa, iniziano a porre in essere

l‟esistenza del gruppo come insieme. Iniziano ad emergere sentimenti contestualizzati

nel „qui ed ora‟ che mettono gli individui in reciproca relazione e che evidenziano

l‟esigenza di disporre di una maggiore strutturazione. Esempi di episodi di gruppo sono

(ibidem): 1. silenzi: lunghi minuti passati senza nessuna parola, capacità di tollerare il

silenzio; 2. condensazioni: improvvisi sblocchi di confidenze e di materiale personale,

spontaneità; 3. dipendenza: sottomissione dell‟individuo al gruppo o del gruppo al

leader; 4. risonanza: progressivamente, uno dopo l‟altro, gli individui esprimono il

proprio punto di vista su un problema, condivisione inter-gruppale dei problemi di un

singolo; 5. regressione: ritorno a fasi precedenti del funzionamento del gruppo o ad uno

stadio precedente; 6. transfert: trasferimento sulla situazione di gruppo di precedenti

esperienze del singolo; 7. leadership fissa: necessità del gruppo di avere sempre uno

stesso capo.

Fenomeni di gruppo. In una fase tardiva gli individui sono animati dalla

curiosità e dall‟interesse reciproco, l‟accettazione del gruppo come realtà attuale facilita

l‟espressione, lo scambio e il superamento di una posizione individualistica. Esempi di

fenomeni di gruppo sono (ibidem): 1. socializzazione del linguaggio: il gruppo si

esprime con prevalenza dell‟utilizzo del „noi‟ sull‟„io‟; 2. sala degli specchi: i membri

costituiscono lo schema di riferimento con cui comparare il proprio comportamento e

fungono da reciproco controllo; 3. catene di associazioni: gli individui espongono e

reagiscono alle associazioni mentali del gruppo formando delle libere associazioni; 4.

interdipendenza: centralità del contenuto proposto su lo chi propone, vissuti del singolo

si ripercuotono sul gruppo; 5. feedback: all‟azione di un componente corrisponde la

risposta di un altro o di tutto il gruppo; 6. equilibri: una situazione raggiunta viene

considerata una conquista da mantenere e preservare; 7. capri espiatori: fissazione

dell‟aggressività del gruppo verso il soggetto pochi individui più idonei a riceverla

senza il rischio di venire puniti; 8. circolazione della leadership: condivisione della

conduzione e della scelta degli obiettivi, passaggio da un individuo all‟altro delle

funzioni di comando; 9. accettazione delle differenze: le differenze e devianze vengono

riconosciute e accettate; la diversità viene utilizzata in modo costruttivo, esiste poca

pressione conformistica, in casi estremi il gruppo rischia di disgregarsi.

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

56

4.3 Compiti di sviluppo secondo Yalom

I contributi di Yalom (1970) nascono da indagini sistematiche condotte su

gruppi sperimentali cui è affidato un compito, sull‟osservazione di gruppi di

sensibilizzazione e consapevolezza (sensitivity training) e gruppi terapeutici

psicodinamicamente orientati da cui sono state estratte indicazioni generali. Dalle

ricerche condotte in ambiti come la psicologia sociale, la prevenzione psicologica e la

clinica, che mettono a confronto modalità di gestione differenti di setting gruppali,

emerge che al variare del linguaggio utilizzato per descrivere i processi in atto le fasi

fondamentali in gioco manifestano una sostanziale concordanza (ibidem).

L‟analisi di Yalom vuole fare riferimento particolare all‟applicazione terapeutica

e ai primi stadi dello sviluppo, ponendo enfasi minore sui momenti conclusivi del

processo. Ciò potrebbe essere motivato da due ordini di motivi:

metodologici: i gruppi terapeutici tipicamente sono continuativi e aperti ad

un progressivo ricambio dei membri, per cui la possibilità di una limitazione

temporale che ne decreti la conclusione è episodica;

processuali: nei gruppi terapeutici accade raramente che si superi

definitivamente una fase in modo che il gruppo possa tornare più volte sui

compiti di sviluppo fondamentali (ibidem).

A tal proposito descrivere lo sviluppo del gruppo viene assimilato allo “stringere

i bulloni di una ruota” (Schutz, 1966), dove dopo averli stretti uno dopo l‟altro

l‟operazione viene ripetuta fino al completo serraggio. Analogamente nella vita di un

gruppo ogni fase emerge, diventa predominante e declina perché il gruppo possa

tornarvi affrontando gli stessi problemi in modo più approfondito. Date queste

considerazioni potrebbe essere più preciso parlare di compiti di sviluppo piuttosto che

di fasi o sequenza di sviluppo (Yalom, 1970).

L‟ingresso nel gruppo o il suo avvio sono spesso accompagnati da un timore

ingiustificato poi dissipato dall‟esperienza reale. Un breve discorso introduttivo sullo

scopo e sul metodo può essere opportuno specie quando i membri non sono stati

preparati in precedenza. In ogni caso può essere utile ribadire poche regole

fondamentali, come la sincerità e la riservatezza. Il terapeuta può suggerire delle

presentazioni prima che qualche membro più proattivo proporrà altrettanto. Alle

presentazioni può seguire un silenzio apparentemente interminabile per i membri. I

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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primi a prendere spontaneamente parola sono i membri destinati a dominare le prime

fasi del gruppo. I primi interventi riguardano tipicamente i motivi che hanno spinto alla

partecipazione e sollecitano negli altri descrizioni simili. Analogamente può emergere e

diffondersi il tema del disagio provato o della paura dei gruppi. Superato l‟avvio i

compiti di sviluppo che illustra Yalom (1970) sono: orientamento, conflitto, coesione,

compito.

A. Orientamento. In uno stadio iniziale il gruppo è caratterizzato dalla ricerca

di una struttura e degli obiettivi. La preoccupazione verso i confini del gruppo vira

verso una dipendenza nei confronti del leader. Tema dominante è l‟essere „dentro o

fuori‟ (Schutz, 1966).

Ciascun membro inizia a manifestarsi sul piano interpersonale e a ricreare un

proprio microcosmo sociale (Yalom, 1970). Il contenuto e lo stile delle interazioni può

essere relativamente stereotipato nella direzione di un atteggiamento „socialmente

conveniente‟. I problemi sono affrontati razionalmente e in modo superficiale.

Contenuti tipici sono la descrizione dei sintomi, le precedenti esperienze terapeutiche e

argomenti inerenti l‟argomento psicologico, attraverso cui è possibile testare reciproci

comportamenti e reazioni.

Qui i membri devono affrontare due compiti (ibidem): 1. stabilire come

realizzare il compito fondamentale, ovvero lo scopo per cui si sono uniti al gruppo; 2.

occuparsi dei rapporti sociali nel gruppo in modo che non ostacolino il compito

fondamentale ma possano validare l‟appartenenza. Solitamente nei gruppi non

terapeutici come squadre sportive, classi, gruppi di lavoro, compito fondamentale e

sociale sono ben differenziati e facilmente distinguibili; nel gruppo terapeutico i due

compiti convergono rendendo l‟esperienza gravosa, soprattutto per degli individui non

pienamente efficienti sul piano sociale. Una fondamentale preoccupazione può

riflettersi sulle motivazioni e sul significato della terapia chiedendosi, e chiedendo al

leader, in che modo l‟esperienza di gruppo potrà aiutarli nel risolvere i loro problemi.

Nello stesso tempo i membri si valutano a vicenda e valutano anche il gruppo

riflettendo su di esso i dubbi rispetto la loro accettazione sociale. Questa motivazione

sociale è abbastanza forte da investire in essa la maggior parte dell‟energia nella forma

di ricerca di approvazione e consenso. Atteggiamenti difensivi e svalutativi verso il

gruppo, o razionalizzanti come considerare il gruppo uno scenario „artificiale‟, possono

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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essere espressione di profonda preoccupazione verso l‟accettazione da parte degli altri.

Il dubbio riflette la reale incertezza su cosa comporti l‟appartenenza al gruppo. In modo

più o meno cosciente è attiva una ricerca dei comportamenti che il gruppo può aspettarsi

e approvare. Con le prime esplorazioni interpersonali ogni membro può scoprire affinità

– cui viene attribuita grande importanza e che giocherà un ruolo nello sviluppo della

coesione – e divergenze: definendo i singoli caratteri può iniziare a delineare il ruolo

che potrà ricoprire nel gruppo.

L‟esitanza, l‟incertezza di tentativi di interazione sono la manifestazione di

dipendenza, che catalizza nei confronti del leader. Ogni membro in modo più o meno

diretto guarda al leader per una guida e probabilmente compete per raggiungere il suo

apprezzamento in virtù del suo ruolo. Ogni commento del leader è attentamente

considerato per poterne ricavare informazioni sul comportamento auspicabile e per

inferire le sue aspettative su cosa i membri debbano fare. Anche gli aspetti legati al

setting possono rafforzare l‟idea che il terapeuta è predisposto a prendersi

personalmente cura dei membri. È allora essenziale che il leader non colluda con le

fantasie di onnipotenza dei membri offrendo risposte o soluzioni, promesse di aiuto non

realizzabili, guidando il gruppo nel modo in cui il gruppo si attende ma indirizzando il

gruppo verso l‟esplorazione delle proprie risorse.

B. Conflitto. Il gruppo affronta problemi di predominio interpersonale.

L‟attenzione verso il potere e un processo di „liberazione‟ alimenta conflitti tra i membri

e verso il leader. Tema dominante sono la fiducia e l‟autorità: l‟essere „in cima o in

fondo‟ (Schutz, 1966).

Ogni membro cerca di stabilire la quantità d‟iniziativa per lui sostenibile

definendo progressivamente una gerarchia di potere, un ordine sociale interno. Come se

fosse in atto una competizione per raggiungere una posizione nel gruppo, critica,

commenti normativi e negativi, espressione di giudizi diventano frequenti (Yalom,

1970) in un progressivo allontanamento dalle convenzioni sociali.

L‟esigenza di mantenere il compito fondamentale e i rapporti sociali confluisce

in una tensione che affiora in modo piuttosto diretto nelle interazioni. Nuovo compito

che ne scaturisce è giungere ad una soluzione che attraverso l‟espressione di irritazione

e disillusione permetta di guadagnare un maggior contatto con la realtà. Il leader, come

nella terapia individuale, funge da catalizzatore per la traslazione del paziente e, in

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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questo caso, del gruppo. In questa prospettiva devono poter essere letti sia il punto di

vista psicodinamico individuale che quello della dinamica di gruppo.

Secondo un comportamento non chiaramente cosciente l‟iniziale desiderio di

dipendenza può essere considerato come il tentativo di creare una figura di autorità, o

un rapporto privilegiato e idealizzato, che è poi possibile distruggere superando la

conseguente disillusione e delusione. Questo comportamento può essere visto come

dimostrazione di forza e prova di integrità, quindi tentativo di affermazione personale.

Inibire il gruppo sopprimendo sentimenti ambivalenti equivale a mantenere delle

proscrizioni, quindi delle norme proibitive, in contrasto con la regola della sincerità e

libertà di espressione. Esistono diversi modi in cui il gruppo può evitare il confronto con

il terapeuta (ibidem): 1. razionalizzando e spostando l‟attacco su temi o figure esterni al

gruppo; 2. spostando l‟attacco su un membro che funge da capro espiatorio; 3. negando

l‟attacco e nominando implicitamente un leader sostitutivo tra i membri.

Quando il leader asseconda l‟espressione dell‟autorità può accadere che mentre

alcuni membri attaccano il terapeuta altri ne prendono le difese: l‟emergere di queste

tendenze può essere prezioso per il lavoro futuro. I primi a manifestare comportamenti

apertamente aggressivi possono porsi come leader sostitutivi: è possibile espressione di

intensi sentimenti di dipendenza vissuti in modo conflittuale, ovvero controdipendente,

che mettono in luce un desiderio di dipendenza non elaborato, quindi una difficoltà nel

provare fiducia. Assumere le difese del leader può rispecchiare un atteggiamento

ripartivo verso una figura di autorità percepita come inattendibile e debole, può

ugualmente sottendere il desiderio di una alleanza contro i membri percepiti come più

potenti. Un gruppo che non esprime ostilità verso il terapeuta è destinato a stagnare

nella prima fase di sviluppo.

La presenza di temi aggressivi e di rivalità può anche essere considerata come

una risposta alla presa di consapevolezza di ogni membro di non essere il preferito dal

leader ed essere espressione di un vissuto di inganno o tradimento. In tale competizione

è centrale il ruolo del leader, che può essere oggetto di comportamenti ostili per quanto

nella fase precedente può essere stato irrealisticamente idealizzato. Indipendentemente

dalle sue capacità la maggior parte dei membri potrà trovarsi deluso del leader e

riconoscere i suoi limiti. È importante che il leader non fomenti risposte negative

adottando atteggiamenti ambigui, deliberatamente enigmatici, facendo promesse. La

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capacità di non prestarsi a giochi collusivi ora mostra pieno significato non avendo

offerto gratuitamente al membro motivi di plausibile svalutazione. Ugualmente il leader

deve essere attento a non mostrare segni di difficoltà verso i membri che ne assumono le

difese. Compito del leader è di fare in modo che il gruppo si senta libero di misurarsi

con il ruolo che riveste permettendo e incoraggiando il confronto. Resistere ad un

attacco senza essere distrutto né distruttivo – ovvero autoritario – ma rispondere

cercando di appurare ed elaborare le motivazioni offre al gruppo un importante modello.

In uno scenario ideale il membro arriva ad accorgersi che il terapeuta frustrerà i piani

segreti preparati per lui, il leader si comporta con il membro in modo da non alimentare

risentimento né colpa ma dimostrando sostenibile disponibilità e cooperazione. Il

gruppo maturo impara a valutare l‟operato del terapeuta per il valore intrinseco che

assume piuttosto che accettarlo per l‟autorità che egli rappresenta.

C. Coesione. In seguito il gruppo si interessa sempre più dell‟armonia e della

sintonia tra i membri: le differenze individuali vengono accantonate in nome della

coesione del gruppo. Temi dominanti sono la familiarità e il contatto: l‟essere „vicino o

lontano‟ (Schutz, 1966).

Dopo aver sperimentato la maggiore diversificazione e distanza interpersonale i

membri tendono a tornare in una unità compatta. Il morale migliora, aumenta la

disponibilità ad aprirsi, si può instaurare una sincera fiducia reciproca (Yalom, 1970). In

questa fase è possibile che alcuni membri esprimano la vera motivazione che li ha

condotti nel gruppo e, più in generale, possono riaffiorare ricordi personali, compare

attenzione per i membri assenti, aumenta la motivazione alla partecipazione. Ogni

membro inizia ad analizzare il proprio stile interpersonale e possono emergere dubbi

rispetto alla propria desiderabilità sociale, la capacità di essere vicini agli altri – anche

persone esterne –, la possibilità di essere troppo in confidenza. Il gruppo come unità può

manifestare autonomia nell‟organizzare riunioni e prendere un caffè.

Questa fase può apparire al membro come il raggiungimento di una „terra

promessa‟, in particolare dopo il superamento del conflitto, tuttavia il compito che il

gruppo ora deve affrontare è l‟espressione e l‟elaborazione di tutti gli affetti latenti. Se

ciò non avviene le riunioni possono arrivare ad apparire rituali e futili.

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Se il gruppo diventa un ambiente sicuro e confortevole di espressione e di

scambio raggiunge il pieno status di gruppo di lavoro, che perdurerà per tutta la vita del

gruppo.

D. Compito. Dopo un periodo piuttosto prolungato il gruppo come insieme – è

in questo memento che il gruppo è pienamente sviluppato – emerge ed è capace di

operare per il raggiungimento dell‟obiettivo. È caratterizzato da alto grado di coesione,

notevole capacità di indagine interpersonale e intrapersonale, dalla capacità di impegno

totale nel compito fondamentale (ibidem).

Il membro può sperimentare un nuovo comportamento.

4.4 Stadi secondo Rogers

L‟analisi di Rogers (1970) origina da una ricerca condotta da Betty Meador6 su

un gruppo d‟incontro con otto partecipanti esaminati attraverso la Rogers‟ Process

Scale7, uno strumento che valuta la fluidità e la spontaneità della comunicazione in

riferimento ai sentimenti espressi. Il gruppo ha una durata complessiva di 16 ore divise

in cinque sedute. Per ogni partecipante vengono estratti 10 segmenti filmati della durata

di due minuti, due per ogni seduta. Una commissione di 13 valutatori esterni e

addestrati visiona i segmenti, presentati in ordine casuale, e classifica le interazioni su

una scala a sette punti. L‟analisi dimostra una sufficiente attendibilità nei valori

attribuiti a ogni segmento. Da questa elaborazione il processo di gruppo sembra

convogliare nella successione di sei stadi che descrivono l‟esperienza dalla prospettiva

del singolo membro.

Un ulteriore modello proposto da Rogers deriva dall‟esperienza con gruppi di

incontro, che possono assumere varie dimensioni e durata. Si tratta quindi di

applicazioni con una gestione del setting piuttosto differente da un gruppo terapeutico a

conduzione psicodinamicamente orientata, come adottata da Yalom, tuttavia aspetto

comune può essere l‟assenza di una strutturazione, ovvero di un compito esplicitamente

assegnato – condizione che sembra caratteristica delle applicazioni non squisitamente

terapeutiche . Dall‟osservazione naturalistica di queste esperienze deriva una

6 Meador, B., (1969), An analysis of process movement in a Basic Encounter Group, U. S. International

University, Tesi di laurea inedita.

7 Rogers‟ Process Scale: Rogrs, C.R., Rablen, R.A. (1958), A scale of Process in Psychotherapy,

University of Wisconsin, manoscritto inedito.

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descrizione che consta di 15 fenomeni che avvengono nella prospettiva più ampia

dell‟intero gruppo. A seguire, al solo fine di rendere l‟esposizione più omogenea, viene

operata una sovrapposizione di questi fenomeni nei sei stadi individuati attraverso la

ricerca strutturata.

Primo stadio. La comunicazione riguarda aspetti esteriori: sentimenti e pensieri

personali non vengono espressi, se espressi non vengono riconosciuti come tali. Le

costruzioni mentali sono rigide e i rapporti intimi considerati pericolosi.

F1. Girare a vuoto: nel gruppo, informato che ha piena libertà, tendono a

manifestarsi confusione, silenzio, interazioni superficiali, frustrazione, mancanza di

continuità causate dall‟essere faccia a faccia in assenza di una strutturazione esterna,

dall‟evidenza di non conoscersi e dover rimanere insieme per un tempo notevole.

Secondo stadio. I sentimenti se descritti appaiono esterni al Sé e rappresentano

oggetti passati: sono lontani dall‟esperienza soggettiva. Possono essere presenti

affermazioni contraddittorie, problemi e conflitti vengono percepiti come esterni al Sé.

L‟espressione su argomenti non personali avviene piuttosto liberamente.

F2. Resistenza all‟espressione o all‟indagine personale: la manifestazione di

atteggiamenti personali nel girare a vuoto tende a provocare reazioni ambivalenti degli

altri membri. Essi mostrano reciprocamente il proprio Sé pubblico; gradualmente, con

timore e in modo ambivalente, iniziano a rivelare qualcosa del Sé privato.

F3. Descrizione di sentimenti passati: nonostante l‟ambivalenza e il rischio di

esporsi, la discussione comincia a essere dedicata all‟espressione dei sentimenti,

tipicamente riferiti ad un tempo ed un luogo esterni al gruppo.

Terzo stadio. Le descrizioni di sentimenti e pensieri personali aumentano

quantitativamente, il loro contenuto è negativo o non accettato. L‟esperienza presente

viene mediata dal riferimento ad esperienze passate, distanti; anche aspetti del Sé

vengono espressi attraverso il riferimento a parole di altri. La validità di costruzioni

mentali rigide può occasionalmente essere messa in discussione. Ad una maggiore

fluidità di espressione corrisponde la possibilità di attribuzione interna di problematicità

personali.

F4. Espressione di sentimenti negativi: le prime espressioni autentiche e

significative di un sentimento provato „qui e ora‟ tende a estrinsecarsi in atteggiamenti

negativi verso gli altri membri o il leader come modo migliore per saggiare la libertà e

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l‟affidamento del gruppo. È possibile supporre che esprimere sentimenti positivi possa

essere più socialmente rischioso.

F5. Espressione e investigazione del materiale personalmente significativo: le

conseguenze “non catastrofiche” alle espressioni autentiche permettono al singolo di

riconoscere il gruppo come proprio e la possibilità di sperimentare libertà, sebbene

comporti dei rischi. Un nascente clima di fiducia agevola l‟espressione della propria

personalità, tuttavia ciò non coinvolgere l‟intero gruppo.

Quarto stadio. Sentimenti e pensieri, eccetto i più intensi, sono descritti come

attuali e appartenenti al Sé. Appare alla consapevolezza un collegamento, percepito

come confuso, tra affetti disconosciuti e comportamento presente. Il significato

dell‟esperienza passata appare come attribuito: non intrinseco né assoluto; l‟esperienza

presente inizia ad assumere connotati affettivi, emerge preoccupazione. Si avverte una

qualche responsabilità personale per i problemi, le costruzioni mentali si allentano. È

possibile assumere il rischio di mettersi in rapporto con gli altri sulla base di un

sentimento.

F6. L‟espressione di sentimenti interpersonali immediati nel gruppo: l‟esplicita e

diretta dichiarazione dei sentimenti attuali, positivi o negativi, che un membro prova nei

confronti di un altro sollecita un loro esame da parte del gruppo in un clima di maggior

fiducia.

F7. Lo sviluppo di capacità curativa nell‟ambito del gruppo: alcuni membri

dimostrano una capacità naturale e spontanea di essere comprensivi e accoglienti, di

trattare il dolore e le sofferenze altrui, in forma benefica, agevolante e terapeutica. La

libertà e il clima dell‟esperienza di gruppo agevola l‟emergere delle capacità curative

presenti nelle persone.

F8. L‟accettazione di se stessi e l‟inizio del cambiamento: il prendere coscienza

di sé, accostarsi di più ai propri sentimenti e sentirsi autentici porta l‟individuo ad essere

se stesso, ponendo le basi per l‟inizio del cambiamento: l‟accettazione di se stessi ne

rappresenta il necessario presupposto. I sentimenti non sono più organizzati

rigidamente.

Quinto stadio. I sentimenti esperiti come attuali sono ammessi ed accettati:

vengono espressi liberamente. All‟esperienza presente viene attribuito un valore

positivo. Le contraddizioni vengono attribuite a vari aspetti della propria interiorità, i

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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sentimenti negati diventano sentimenti possibili. Il valore delle costruzioni mentali

viene posto in dubbio e surclassato da quello dell‟esperienza presente. All‟autenticità

corrisponde la presenza di senso di responsabilità.

F9. La rottura delle facciate: l‟espressione del Sé di alcuni rende chiaro che è

possibile un incontro profondo: il gruppo punta intuitivamente a quest‟obiettivo in una

progressiva insofferenza per le difese. Con gentilezza o impeto, supera gli atteggiamenti

stereotipati ed esige che i membri, senza nascondere i sentimenti dietro la maschera dei

normali rapporti sociali, siano se stessi.

F10. L‟individuo riceve un feedback: nell‟interazione liberamente espressiva

l‟individuo acquisisce rapidamente una quantità di dati su come appare agli altri. Nel

contesto di sollecitudine che si va sviluppando, a rischio che risultino irritanti, i

feedback diventano costruttivi elementi di informazione che avviano una nuova e

significativa esperienza personale e di gruppo.

F11. Il confronto: oltre ai feedback vengono ingaggiate interazioni personali in

cui un individuo ne affronta un altro, livellandosi direttamente su di lui. Possono

avvenire confronti positivi o scontri, funzionali purché arrivino a risolversi entro la fine

della seduta.

F12. L‟utilità del rapporto fuori dalle sedute di gruppo: uno degli aspetti

stimolanti del gruppo è la maniera in cui i membri si rendono disponibili ad aiutare chi

sta affrontando dei momenti di difficoltà. Ciò può avvenire nel gruppo come fuori dal

gruppo.

Sesto stadio. Sentimenti negati possono essere accettati e sperimentati nel

presente provocando una sensazione liberatrice ed emozionante. Le costrizioni mentali

appaiono come interpretazioni deliberate create all‟interno del Sé, l‟esperienza

emozionale appare come riferimento chiaro ed utilizzabile per la costruzione di nuovi

significati, il Sé viene esperito non più come oggetto ma come un processo in divenire.

L‟individuo assume il rischio di poter essere accettato come essere in divenire.

F13. L‟incontro fondamentale: i membri pervengono ad un contatto reciproco

più intimo e diretto di quello che esperiscono normalmente nella quotidianità.

Nell‟esperienza di gruppo è uno degli aspetti più intensi: l‟espressione autentica dei

sentimenti, negativi o positivi, provati verso l‟interlocutore alimenta accettazione

dell‟altro ed è funzionale al cambiamento.

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II - FATTORI TERAPEUTICI DI GRUPPO E FASI EVOLUTIVE DEL GRUPPO

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F14. L‟espressione dei sentimenti positivi e l‟intimità: con il procedere delle

sedute cresce un senso di calore, di spirito di gruppo, di fiducia, derivante da una realtà

che comprende tanto il sentimento positivo quanto quello negativo. La schiettezza nei

rapporti reciproci conferisce alle persone l‟abilità di guarire con un affetto pieno di

comprensione.

F15. Cambiamenti di comportamento nel gruppo: nel gruppo cambiano i gesti, il

tono di voce, la sollecitudine e la premura che i membri adottano uno verso l‟altro.

Tuttavia più importanti sono i cambiamenti che avvengono in seguito all‟esperienza di

gruppo, quando la persona cerca di adottare gli stessi comportamenti nella vita reale.

Qui possiamo vedere come il processo di gruppo, anche se descritto in modi

differenti, esemplifichi una successione stadiale ciclica piuttosto che lineare. I contributi

presi in esame, coerentemente con gli studi provenienti da altri campi come la

psicologia dei gruppi e organizzativa (cfr. Tuckman, 1965), sembrano concordare sulla

presenza di alcune „fasi‟ caratterizzate dalla presenza di:

incertezza e progressiva strutturazione, con la prevalenza di una dimensione

temporale diacronica (primo stadio di Rogers);

esplorazione relazionale e sviluppo di comportamenti funzionali, con

l‟emersione di temi conflittuali (secondo e terzo stadio di Rogers);

fiducia e raggiungimento di armonia, contraddistinta da una crescente

accettazione (quarto stadio di Rogers);

collaborazione e impegno nel perseguire gli scopi del gruppo, in cui

predominano il „qui ed ora‟ di una dimensione temporale sincronica e il tema

della responsabilità (quinto e sesto stadio di Rogers).

Considerare il gruppo come un organismo funzionalmente omogeneo, a

prescindere dalle possibili configurazioni esteriori che può assumere, può aiutare a

contestualizzare gli aspetti procedurali e legati al setting esposti nel capitolo successivo.

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

66

Capitolo III

CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

Introduzione

Il terzo capitolo sembra tornare a un approccio definitorio illustrando le

condizioni che permettono di operare attraverso l‟impiego del gruppo; in realtà qui si

passa da una prospettiva processuale a una procedurale. Ogni setting necessita di punti

fermi che devono necessariamente essere definti a monte e resi operativi nella pratica:

in questo il più generico setting gruppale è simile ad ogni altro possibile e più specifico

setting terapeutico. Qui si parla anche dell‟atteggiamento terapeutico come precoce

disposizione del conduttore intorno a cui può strutturarsi e può concretamente prendere

forma il gruppo. Degli esempi di classificazione del lavoro con il gruppo esprimono la

centralità del ruolo del conduttore e degli obiettivi che si pone attraverso l‟intervento.

5. Criteri di applicazione del setting gruppale

5.1 Definizione di setting e ricerca scientifica

Il setting è il luogo e il tempo – e la loro regolazione contrattuale – in cui si

dispiega la relazione terapeutica (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004). Riassume le

condizioni materiali, un aspetto concreto e logistico, e l‟atteggiamento terapeutico, sotto

forma di informazioni, condizioni e obiettivi: è lo scenario, la cornice complessiva entro

cui può svilupparsi l‟incontro. Al centro del concetto di setting c‟è la salvaguardia della

relazione stessa come presupposto per ogni intervento (ibidem). In questa ottica

rappresenta una sorta di „confine‟ tra la quotidianità dell‟individuo e la possibilità di

sviluppare un nuovo tipo di relazione. Una opportuna definizione del setting fornisce

alla persona un precoce senso di contenimento e ne favorisce la possibilità di mettersi a

proprio agio (ibidem). Esistono differenti modalità di trattamento, quindi di setting:

individuale, di coppia, familiare, di gruppo (ibidem).

Se le parti coinvolte in una relazione terapeutica trovano nel reciproco incontro

una adeguata collocazione e un mutuo collegamento interpersonale, la distanza che

separa il setting duale da quello di gruppo non è molto grande. In entrambe le

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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condizioni – con particolare riferimento all‟applicazione terapeutica – il terapeuta lascia

spazio a ciò che sta emergendo piuttosto che a quanto è già stato formulato, privilegia le

ideazioni, le fantasie, le emozioni e gli affetti, rinuncia ad indirizzare in senso

predeterminato lo svolgimento degli eventi (Neri, 1995). Dalla prospettiva del terapeuta

quindi la condizione di gruppo rispetto al setting individuale offre spazio per la

manifestazione di un più vasto repertorio comportamentale, permettendo al terapeuta di

ottenere informazioni di „prima mano‟ circa le inclinazioni del paziente (Berne, 1966).

Il discorso diviene più complesso considerando i riferimenti ai modelli teorici e

le relative implicazioni nella prassi. A prescindere dagli specifici paradigmi, nel setting

individuale e di gruppo sono attivi fenomeni differenti che comportano l‟applicazione di

tecniche e strategie diverse. Differente è il ruolo del terapeuta, che da interlocutore

esclusivo, in un rapporto privato e in cui assume una posizione asimmetrica, diventa

figura di sfondo in un contesto di rapporti alla pari tra membri (Neri, 1995). Cambia

inoltre il processo comunicativo: al dialogo bilaterale viene a sostituirsi la circolarità del

discorso tra più parti, in cui i significati attraversano necessariamente uno „spazio

comune‟ (ibidem) attivando una nicchia ecologica o micro-cultura (Tommasello, 1999).

Un buon setting risponde a criteri di: dimensione, comodità fisica; riservatezza,

intimità (Yalom, 1970; Berne, 1966); isolamento acustico, riparo da possibili fonti di

disturbo esterne (ibidem; ibidem). La disposizione classica utilizza delle sedie disposte a

cerchio senza mobili all‟interno della circonferenza, le sedie sono poste alla distanza

appena inferiore a un braccio – zona personale di Hall (1966) – così da non creare

isolamento né esporre i pazienti ad una situazione di eccessiva intimità (Berne, 1966). Il

terapeuta siede nella posizione che garantisce miglior visibilità rispetto le sorgenti di

luce, non vengono consumate bevande, cibo, né sigarette. Possibili brevi interruzioni e/o

brevi assenze da parte del terapeuta, nella misura di 2-3 minuti per massimo 2 volte

all‟ora, possono rappresentare un interessante stimolo clinico e occasione di ravvivare

l‟attenzione del terapeuta (ibidem).

Differentemente da quanto avviene in settori psicologici devoluti alla ricerca,

nella clinica il momento di indagine scientifica dovrebbe rimanere chiaramente distinto

da quello terapeutico (ibidem). Nei gruppi con finalità eminentemente scientifiche in cui

si applicano tecniche di statistica inferenziale (cfr. Ercolani et al., 2002) il cambiamento

personologico dovrebbe rappresentare una questione esplicitamente secondaria e

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accessoria alla ricerca. Se la raccolta dati avviene il terapeuta deve occuparsi delle

fantasie che questa può suscitare nel gruppo (Yalom, 1970; Berne, 1966). Allo stesso

modo nel gruppo dichiaratamente terapeutico è auspicabile non inserire momenti di

indagine o valutazione invasivi, strutturati, metodici, tanto più occulti – come specchi

unidirezionali, registrazioni audio/video ignote al paziente . In ogni caso una

commistione può alimentare confusione o perplessità nei membri, condizionare o

ostacolare l‟attività del terapeuta introducendo nella relazione un momento di „slealtà‟

(Berne, 1966). In un trattamento di gruppo non è permessa alcuna unilateralità – nelle

finalità come nei comportamenti manifesti – che non sia esplicitamente condivisa nel

contratto e accolta dalle parti (ibidem). Differente può essere la questione per

valutazioni statistiche descrittive (cfr. Ercolani et al., 2002) svolte a posteriori.

Gli osservatori, figure che assumono un ruolo centrale e attivo nei momenti di

retroazione successivi alle attività aperte ai membri, non partecipano alle interazioni del

gruppo. In caso sia utile la presenza di osservatori è bene che il gruppo venga

preventivamente informato della loro presenza e che siedano fuori dal circolo del

gruppo piuttosto che seguano le sedute attraverso un specchio monodirezionale (Yalom,

1970).

I coterapeuti, ovvero la presenza di due terapeuti, è importante che abbiano pari

status formativo e accademico altrimenti si rischiano tensione e incertezza nel ruolo

della leadership, sia per i terapeuti che per i pazienti (Yalom, 1960; Berne, 1966). Può

essere utile una esplicita suddivisione dei ruoli (Yalom, 1970). Una coppia di terapeuti

uomo e donna permettono invece particolari vantaggi, come vantaggiosa può essere una

co-conduzione per terapeuti alle prime armi (ibidem; Berne, 1966).

Si parla di vice-terapeuta quando vi sono differenze formative e accademiche

che giustificano una differenza di ruoli e funzioni che vanno condivise con il gruppo

(Berne, 1966). In questo caso il terapeuta può essere sollevato da compiti di routine e

dedicarsi maggiormente al gruppo senza che si creino confusioni rispetto la leadership;

allo stesso tempo il vice-terapeuta può usufruire di un‟utile esperienza.

Nel caso di una presenza doppia nella forma di coterapeuti, vice-terapeuta o

osservatori è utile riservare uno spazio dopo la chiusura per discutere i reciproci rapporti

(Yalom, 1970).

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5.2 Scelta delle modalità di trattamento

Alla luce di queste implicazioni di ordine 1. tecnico, 2. interpersonale e 3.

relazionale la scelta del setting più adatto ad un cliente potrebbe considerare (Giusti,

Montanari, Iannazzo, 2004):

complessità del problema: se investe i sistemi: familiare, di coppia,

extrafamiliare, ricorrendo all‟opportunità di adottare i rispettivi tipi di setting;

stadio della vita: prima e seconda infanzia, adolescenza, età adulta e connesso

stato civile;

sintomatologia: per tipologia, se inerente la sfera fisica o comportamentale, e

intensità, se acuta o lieve;

rapporto costi/benefici: perseguire la maggiore efficacia anche considerando

possibili esperienze precedenti.

Secondo Seligman (1990) una terapia in gruppo è consigliata per:

- clienti ansiosi o con problemi verso l‟autorità;

- clienti dipendenti, dopo o in contemporanea ad un trattamento

individuale;

- problemi di natura interpersonale;

- clienti che tendono a dare eccessivo potere al terapeuta;

- clienti che hanno bisogno di test di realtà e di feedback dal gruppo.

Tutti i pazienti possono essere inseriti in un trattamento di gruppo dopo

un‟adeguata preparazione di alcune sedute individuali preliminari; la questione è

piuttosto in quale tipo di gruppo inserirli nei migliori interessi del paziente: un terapeuta

con esperienza dovrebbe essere pronto ad accettare in qualsiasi gruppo qualsiasi

paziente (Berne, 1966). Sottolineando il vantaggio di avere una certa eterogeneità tra i

membri Berne (1966) indica che nuovi ingressi sono sempre possibili. Possono

considerarsi eccezioni i casi che oggettivamente rappresentano degli assortimenti capaci

di generare lavoro extra non necessario, sia all‟interno che fuori dal gruppo: persone

con disfunzioni sostanzialmente irreversibili, persone che hanno questioni legali in

sospeso, parenti e amici del terapeuta (ibidem).

In un‟ottica analistico-transizionale in caso di invii e di pazienti che giungono

con una cartella a seguito, venire a conoscenza di particolari non strettamente richiesti e

non inerenti il trattamento rappresenta una forzatura al fisiologico rapporto paziente-

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terapeuta (ibidem): il paziente deve essere libero di presentarsi come ritiene più adatto

come il terapeuta deve essere libero di farsi una propria idea del paziente.

Il trattamento in gruppo può essere abbinato a uno individuale e, su richiesta del

partecipante che segua solo una terapia di gruppo, o su suggerimento del terapeuta

stesso, è possibile sostenere un colloquio individuale, anche a cadenze regolari ogni 8-

10 sedute di gruppo (ibidem). È importante chiarire reciprocamente i motivi per

l‟impiego del trattamento di gruppo, che sia al posto o in aggiunta alla terapia

individuale (ibidem). In questo secondo caso si parla di terapie combinate.

In un paradigma transazionale, in caso di invii da parte di altro terapeuta che

abbia in corso un rapporto con il paziente, la consultazione tra i terapeuti presenta

vantaggi e svantaggi. Questa possibilità discussa con il paziente è, in ultima istanza, da

lui autorizzata – salvo implicazioni di natura etico-deontologica . Il quadro più

complesso diventa meritevole di cautela e attenzione particolari, verso il collega e verso

il paziente. Potrebbe essere opportuno mantenere dei colloqui dedicati mantenendo

chiarezza contrattuale su questo riguardo (ibidem). Una soluzione preventiva può essere

dire al paziente pronto per il percorso di gruppo di assumere un periodo di prova per

vedere come va e, se va in modo soddisfacente, dire che potranno continuare (ibidem).

È occasionalmente possibile prevedere una riunioni extra o alternate nelle quali

il gruppo si riunisce senza terapeuta (Wolf, 1949; Berne, 1966; Yalom, 1970) in modo

da offrire al gruppo la possibilità di responsabilizzarsi come insieme e di sviluppare

autonomia come singoli individui integrando l‟esperienza con e senza il terapeuta.

Questa possibilità diventa fruttuosa dopo che il gruppo ha sviluppato coesione e norme

(Yalom 1970).

5.3 Contratto e altri aspetti procedurali

Motivo d‟essere del contratto è di portare chiarezza e responsabilità sui questioni

che potrebbero pregiudicare l‟andamento del rapporto (Berne, 1966). Tutela quindi il

ruolo e la capacità tecnico-operativa del terapeuta, in questo persegue gli interessi stessi

del paziente. Esso pone sinteticamente evidenza su alcuni semplici aspetti procedurali.

È preferibile evitare ogni ulteriore regola esplicita precoce: facilmente andrebbero a

costituire aree in cui il paziente può scegliere di manifestare delle trasgressioni (ibidem).

Sono tre gli aspetti che devono essere chiariti (ibidem):

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1. orari: di inizio e chiusura delle sedute. Ad un motivo organizzativo per il

paziente si unisce la possibilità di mettere a fuoco precocemente le tendenze e il

rapporto verso la puntualità;

2. onorari: comprese modalità di pagamento, per lo stesso rodine di motivi, pratici

per il paziente, tecnici per il terapeuta;

3. libertà di espressione: il paziente può dire „qualsiasi cosa senza eccezioni‟,

aprendo la strada alle interpretazioni che ne fa il paziente, quindi al lavoro del

terapeuta.

Inserimento. Nel caso di trattamenti in gruppi aperti, continuativi o „sedentari‟

(ibidem), un certo ricambio nei partecipanti può essere funzionale (Yalom, 1970; Berne,

1966): è possibile che all‟uscita di membri – per qualsiasi ordine di motivi – possano

corrispondere nuovi accessi. Sia nel caso di invii che di autocandidature da parte di

possibili pazienti è importante effettuare almeno un singolo colloquio per poter innanzi

tutto valutare la persona, l‟opportunità dell‟inserimento e i vantaggi che plausibilmente

può trarne. Nel corso del primo colloquio, preferibilmente evitando domande

sistematiche, il terapeuta deve essere sicuro di ottenere tutte le informazioni di cui

necessita (Berne, 1966) e di verificare che il candidato paziente non consideri la terapia

di gruppo come un ripiego rispetto un percorso individuale (Yalom, 1970): scarse

motivazioni e aspettative correlano con il drop-out e gli esiti negativi. Consapevolezza

rispetto l‟inserimento è che l‟esperienza del gruppo non è mai esattamente come il

paziente s‟aspetta. Chiedere al paziente quali siano le sue fantasie o aspettative circa ciò

che accadrà nel gruppo può risultare utile per ottenere (Yalom, 1970; Berne, 1966):

informazioni di carattere motivazionale e relazionale spendibili al momento opportuno;

indicazioni importanti sul modo in cui avvicinare il nuovo paziente al gruppo.

Qualora basti un colloquio, alla fine di questo deve essere riservato del tempo ad

una fase informativa, e in particolare (Berne, 1966):

alle legittime domande del paziente – cui il terapeuta è tenuto a rispondere

opportunamente sia su un piano relazionale che di contenuto fornendo le

informazioni necessarie;

a delineare il contratto.

Prima di poter essere inserito il paziente, per svolgere un lavoro proficuo in

gruppo, dovrebbe dimostrare una certa stabilità nel rapporto con il terapeuta (ibidem). Il

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momento migliore per inserire un nuovo membro in un gruppo è durante le fasi di

stabilità e ristagno (Yalom, 1970).

Supervisione. Un buon supervisore deve dimostrare competenza ed avere

esperienza clinica, nella terapia individuale e di gruppo, in dinamica di gruppo (Berne,

1966). Idealmente la supervisione inizia prima che il gruppo si formi (ibidem): quando

il terapeuta presenta il progetto il supervisore illustra quali aspetti è opportuno

affrontare prima di attivare il gruppo. Vengono posti sotto esame aspetti come (ibidem):

motivazioni: cosa porta all‟idea di creare un gruppo. Le fantasie sullo sviluppo

del progetto implicano:

- aspetti razionali e intellettuali: interessi scientifici espliciti;

- atteggiamenti nella conduzione: componente biografica del

comportamento;

- artifici procedurali: legati all‟influenza dell‟ambiente formativo di

provenienza;

- fantasie sul progetto: origini e finalità personali;

obiettivi terapeutici: in cosa consiste esattamente il programma terapeutico;

organizzazione: come terapeuta, possibili pazienti, colleghi, vedrebbero il

progetto;

collocazione amministrativa: possibili aspettative dell‟ambiente professionale

criteri di selezione dei pazienti;

mirando a consapevolizzare dinamiche interiori e interpersonali del terapeuta al fine di

rendere più efficace e sostenibile il processo di implementazione. Da qui è possibile

passare a come si intende raccogliere il materiale da portare nella supervisione della

conduzione: registrazioni, appunti, a memoria. Questi supporti, che hanno parimenti

intrinseci pregi e limitazioni, piuttosto che per un valore meramente documentale

assumono rilievo come catalizzatori delle dinamiche del terapeuta. Berne (1966)

raccomanda una supervisione privata a cadenza regolare per almeno un anno. In caso di

co-conduzione i conduttori dovrebbero partecipare insieme alla supervisione (Yalom,

1970).

Presentazioni e saluti. È importante che le persone possano conoscersi e

riconoscersi. Nei gruppi di psicoterapia, specie con conduttori di formazione

psicodinamica particolarmente attenti a non condizionare gli eventi, inserire rituali di

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presentazione e saluto viene considerata una forzatura e una deliberata rinuncia a utili

informazioni (Berne, 1966). Allo stesso tempo nell‟arco della seduta può essere portata

l‟attenzione sull‟argomento „presentazioni‟ qualora non siano emerse spontaneamente o

qualche membro sia rimasto anonimo (ibidem). Sempre in ottica psicodinamica se le

presentazioni servono a lenire l‟ansia, i saluti alleviano l‟angoscia: è sempre utile

osservare chi realmente mette in campo un comportamento (ibidem). Posto che i

partecipanti sanno riconoscere se un terapeuta è interessato ai suoi pazienti, il terapeuta

può prediligere di rivolgersi al gruppo piuttosto che ai singoli componenti.

Chiusura delle sedute. La chiusura della seduta va fatta con fermezza al

momento opportuno (ibidem). Al paziente che in chiusura – o dopo – abbia qualcosa di

importante da dire, va rimandato con garbo e decisione che le questioni personali

possono essere portate in seduta o, volendo mantenere maggiore riservatezza, in seduta

individuale (ibidem). Al paziente recidivo può essere anticipato in tempo utile se ha

qualcosa da dire. L‟atteggiamento con cui il terapeuta potrebbe chiudere una seduta

corrisponde all‟affermazione „vediamo cosa succede la prossima volta‟.

Conclusione. Un percorso giunge a conclusione quando paziente e terapeuta –

ma speso anche l‟intero gruppo – concordano che gli obiettivi sono stati raggiunti; in

ogni caso il membro uscente dovrebbe informare gli altri sulla sua scelta (ibidem): è

raccomandabile che il gruppo sia informato di quello che succede. Altre cause naturali

sono di ordine concreto, come trasferimenti, cambiamenti negli orari della vita del

paziente, altri impedimenti.

5.4 Atteggiamento terapeutico e autenticità

Se il setting è la cornice complessiva, il confine entro cui si svolge la relazione e

può esprimersi il mondo interno del pazinete, può eserne concettualizzata anche una

parte mentale o interna al terapeuta. Il setting interno comprende atteggiamento, valori,

aspettative e motivazioni: il modo di essere del terapeuta (Lo Verso, 1994).

Per Berne (1966) il terapeuta dovrebbe essere pronto a prendere posto all‟interno

di un gruppo, un nuovo gruppo come ogni nuovo incontro, con mente rinnovata. In

questo scarto differenziale si possono sostanziare i progressi umani, personali e

professionali che lo portano ad essere qualcosa in più di un tecnico. L‟atteggiamento è

quello di una persona attenta, oltre a raggiungere e mantenere i presupposti fisiologici,

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psicologici e sociali collegati alla cura di sé, della propria salute e del proprio benessere

emotivo, a perseguire un costante sviluppo.

Per arrivare nel modo migliore alla seduta raccomanda di superare tutto ciò che

ha incontrato in fase di preparazione, i problemi personali, tutto ciò che già sa riguardo

ai pazienti, tutto ciò che ha imparato sulla psicoterapia, come se dovesse idealmente

entrare in un mondo che non ha mai conosciuto. Considera inoltre l‟utilità di tre slogan

terapeutici (ibidem):

1. primum non nocere: „per prima cosa non nuocere‟. Con questo intende che una

certa dose di male necessario, come per il chirurgo che per svolgere il suo lavoro

deve aprire una ferita, deve essere riconosciuta e valutata con consapevolezza

sapendo cosa si sta facendo, in che direzione e con quali implicazioni per la

persona del paziente, con la sicurezza di poter portare a termine l‟intervento

avviato. Obiettivo è in primo luogo scongiurare la possibilità di aggravare il

paziente e, soprattutto, pregiudicare la sua possibilità di rivolgersi ai servizi di

altri psicoterapeuti, quindi non condurre il paziente più in la di dove può essere

preparato ad affrontare ciò che a lungo ha evitato, non squalificare con

„affermazioni sprezzanti‟ gli aspetti della vita del paziente che per lui assumono

importanza;

2. vis medicatix naturae: „la forza risanatrice della natura‟. In un‟accezione positiva

e salutogenetica il compito del terapeuta è individuare le aree sane nella

personalità del paziente in modo da sostenere e rafforzare il loro potenziale.

Obiettivo dell‟attività terapeutica è «portare il paziente ad essere pronto a che la

guarigione avvenga oggi» (ibidem; 89);

3. je le pensay, Dieu le guarit: „noi li curiamo, è Dio che li guarisce‟. Il terapeuta

non guarisce: in modo più realistico e sostenibile cura la sua abilità di operare

aspettando che la natura faccia il suo corso verso la guarigione. Tenacia, pro

attività, coscienza, acutezza devono restare distinte da forme di ardore e „furor

sanandi‟.

Al fine di agevolare la propria consapevolezza ci sono delle domande

fondamentali che il terapeuta può porsi riguardo (ibidem):

sé e la propria crescita: „perché sono seduto in questa stanza?‟, „in che modo

quello che sto facendo contribuirà alla mia realizzazione?‟;

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i pazienti e la loro motivazione: „perché stanno qui?‟, „perché hanno scelto la

psicoterapia?‟, in che modo quest‟ora contribuirà alla loro realizzazione?‟;

i propri doveri verso i pazienti e le aspettative realistiche che essi assumono:

„perché i pazienti hanno scelto di venire da me invece che da un‟altra persona?‟,

„cosa li fa pensare che io possa fare ciò che altri non hanno saputo o potrebbero

fare?‟, „a che mi servono qui le ore dedicate a studiare?‟.

Tra le qualità di un buon terapeuta Berne (1966) cita capacità di osservazione,

equanimità, iniziativa. Nella pratica clinica sono utili: 1. senso estetico, manifestato

nella volontà di porsi come persona cortese, sveglia, interessata, come in un aspetto

curato e opportuno nell‟abbigliamento e nel modo di esprimersi; 2. senso di

responsabilità, nel trasmettere implicitamente quindi sapere in qualsiasi momento verso

chi è responsabile, e che avverte la stessa responsabilità verso se stesso; 3. impegno,

essere esempio per i pazienti di una persona che ha un lavoro da svolgere e che non

permetterà che nulla interferisca troppo a lungo con il suo compito.

Secondo una più recente ottica neurobiologica la relazione terapeutica richiede

da parte del terapeuta un profondo impegno a comprendere e condividere le esperienze

del paziente: il terapeuta non deve mai dimenticare che le esperienze interpersonali

plasmano le strutture e le funzioni del cervello e, da qui, la mente (Siegel, 2013). Questo

difficile compito richiede di mantenere una visione obiettiva dei bisogni emozionali

della persona e, allo stesso tempo, di permettere alla propria mente di entrare in sintonia

con quella dell‟altro (ibidem). Comprendere e accettare gli altri per ciò che sono

sviluppa processi auto-organizzaztivi e narrativi.

Sembra che Ferenczi – psicoanalista di prima generazione che, pur evitando di

entrare accademicamente in conflitto diretto con Freud, mette in discussione l‟approccio

distaccato e onnisciente dell‟analista – negli ultimi anni della sua pratica non avesse

problemi ad ammettere errori o mancanze di fronte ai pazienti. In risposta alla critica di

un paziente si sente libero di dire:

«Credo che forse hai toccato un campo in cui io stesso non sono completamente

libero. Forse puoi aiutarmi a vedere cosa c‟è in me che non va». (Green, 1964; p.)

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Mentre Foulkes mette in luce la modestia del terapeuta di gruppo esperto capace di dire

davanti al gruppo:

«Eccoci insieme a fronteggiare la realtà ed i problemi fondamentali dell‟esistenza

umana. Io sono uno di voi, né più ne meno». (Foulkes, 1945; 149)

Questi esempi evidenziano un approccio schietto e umanistico alla terapia, che

esemplifica una effettiva alleanza, una collaborazione, tra paziente e terapeuta. La

terapia riflette un maggior rispetto per le capacità del paziente che, reso edotto, può far

maggiore affidamento sulla consapevolezza di sé (Yalom, 1970) ed assumere un ruolo

maggiormente attivo e responsabile nel processo di cura. Implicazione è lo spostamento

della relazione terapeutica da un originario vertice autoritario in direzione di una

maggiore paritarietà pariteuticità.

Una relativa flessibilità sul ruolo diventa aspetto importante e tangibile nella terapia di

gruppo in cui il terapeuta può assumere una posizione decentrata, in particolare nelle

fasi avanzate del processo, al fine di agevolare lo sviluppo dell‟autonomia dei membri e

del gruppo (ibidem). Allo stesso tempo perdere una quota di metodico anonimato e

impassibilità – cari ad una tradizione analitica – guadagnando maggiore autenticità,

potrebbe non rappresentare una minaccia per l‟assunzione del ruolo, elemento

transteorico e fondante il contratto. Il terapeuta di gruppo, potendosi servire con

discernimento della propria persona, può assumere con maggiore elasticità il ruolo a

beneficio dello sviluppo di fattori terapeutici – la coesione come l‟identificazione – e

senza timore di danneggiare il ruolo stesso (ibidem). Autenticità del resto non significa

svelarsi completamente esprimendo i propri sentimenti, in merito ad una situazione di

gruppo o a un membro, tantomeno riversare nel gruppo la propria vita privata e i propri

problemi personali (ibidem). La quantità e il tipo di autosvelamento, quindi il tipo di

leadership, non sono da considerarsi come definiti e immutabili. Oltre che con la

tipologia di lavoro che si intraprende, sono in relazione e si modificano naturalmente

man mano che il gruppo si sviluppa; così si rendono necessarie differenti forme di

leadership (Goleman et al., 2002).

Secondo Yalom (1970) il terapeuta sincero è quello che cerca di offrire ciò che il

paziente può “assimilare, verificare, utilizzare” compatibilmente con l‟economia

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dell‟intervento. Anche per Ferenczi il problema dell‟autenticità è un problema di scelta

del momento opportuno, per cui nelle prime fasi di un processo terapeutico il paziente

sente la necessità di sentirsi rassicurato dal ruolo del terapeuta (Green, 1964).

Analogamente una definizione del ruolo del conduttore di gruppo basata sulla sua

autenticità può facilmente far perdere di vista l‟individualità dei bisogni dei membri

(Yalom, 1970).

Berne (1966) esemplifica il concetto di autenticità dicendo che un terapeuta che

ricorra a qualsiasi tecnica per dimostrare che è un buon terapeuta non è autentico, lo è

piuttosto quando utilizza delle tecniche per agevolare i pazienti nel loro percorso verso

la miglior realizzazione. Discriminante per l‟autenticità terapeutica è agire a beneficio

dei pazienti, non di se stessi e di propri interessi. Per il paziente invece autenticità è

potersi sbarazzare della confusione che emerge nel tentativo di sfruttare comportamenti

propri o altrui per ricavarne dei benefici ulteriori. Compito del terapeuta è frustrare

questi tentativi mantenendo contemporaneamente un pieno rispetto per la persona

autentica che i pazienti intendono nascondere o proteggere, quindi separando il

comportamento dall‟individuo. Per Berne l‟autenticità è l‟unico lascito durevole che un

terapeuta può tramandare ai suoi pazienti.

5.5 Il paziente e la terapia

Yalom (1970) vede al paziente come una persona che possiede molte risorse che

possono essergli state utili nel passato e presenta alcune lacune che gli precludono una

fisiologica socializzazione. Tale mancanza spesso finisce per rinforzare percezioni,

pensieri, affetti e comportamenti disadattavi in un circolo vizioso.

La terapia può agire anche senza che ci siano manifestazioni all‟interno del

setting: qualche particolare episodio vissuto può essere sufficiente ad aiutare il paziente

ad affrontare le cose in maniera adattiva. Successivamente può innescarsi un processo

per cui da una modificazione intrapersonale ne scaturisce una nell‟ambente

interpersonale che produce ulteriori modifiche personali (ibidem). Al termine di una

terapia spesso si riscontrano cambiamenti e ampliamenti nella rete sociale, meno spesso

cambiamenti di ambiente, di vita o professionali. Non è sempre facile stabilire se questi

siano causali o consequenziali sull‟esito terapeutico, certo è che l‟ex paziente ha

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sviluppato la capacità di beneficiare di opportunità e risorse dell‟ambiente che erano già

disponibili (ibidem).

Per Berne (1966) ogni essere umano – a meno di conclamati deficit – è

considerato possedere un apparato neurologico completo e necessario al funzionamento

psicologico. L‟Io del paziente può essere „debolmente investito di carica‟ e non lo si

considera come se vi fossero difetti intrinseci alla sua struttura: il paziente deve essere

solo attivato (ibidem). Crescendo l‟individuo impara a sue spese che non può avere tutto

ciò che vuole, deve controllare il suo corpo e far fronte alle esigenze degli altri: scopre

un mondo competitivo. A questo punto assume decisioni consapevoli e posizioni che

giustificano tali decisioni. Parallelamente vengono eliminate le influenze che

minacciano queste posizioni, la persona comincia a istituire dei compromessi che

influenzano il suo rapporto con gli altri e determinano il corso della sua vita. Le

decisioni quando vengono assunte rappresentano una buona soluzione relativamente alle

circostanze. In realtà, dice Berne, i bambini fanno più o meno ciò che i loro genitori

vogliono che facciano.

La terapia ha la finalità di investire di carica l‟apparato psichico in modo che

possa assumere un ruolo normale nell‟organizzazione psichica: se un paziente è trattato

come avesse un „Io debole‟ reagirà di conseguenza, se viene attivato l‟Io diverrà sempre

più attivo, capace di obiettività e razionalità nei confronti del mondo esterno e di se

stesso (ibidem). In altre parole le decisioni assunte possono essere annullate ed essere

riprese in considerazione facendo in modo di poter trovare altre soluzioni più costruttive

(ibidem). Obiettivo del trattamento è combattere il passato nel presente per guadagnare

il futuro. Nella situazione di gruppo sono presenti quattro forze: 1. la naturale spinta

dell‟organismo verso la salute; 2. il riconoscimento positivo da parte di altre persone,

anche detto „carezze‟; 3. esperienze sociali correttive, incontri, confronti; 4. le

operazioni del terapeuta. La terapia ha due obiettivi: ottenere miglioramenti o

„progressi‟, esperienza gratificante quanto deludente che porterà al desiderio di guarire;

guarire, ovvero „riorganizzazione del carattere‟, disinnescare i meccanismi disfunzionali

e riprendere il percorso lì dove era stato interrotto. Il terapeuta ha il compito di dare al

paziente il permesso di riguadagnare la propria “appartenenza alla specie umana”

(ibidem). Aspetto essenziale del percorso è mantenere il paziente informato di cosa gli

sta progressivamente avvenendo.

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

79

Riassumendo secondo Berne “il paziente possiede una pulsione innata verso la

salute, sia in senso mentale che fisico”. La crescita mentale e lo sviluppo emotivo hanno

incontrato degli ostacoli. Il ruolo del terapeuta si esplica nel rimuove tali ostacoli

affinché il paziente prosegua naturalmente e liberamente la sua vita nella direzione che

gli è propria. Lo stesso principio vene sostenuto da Rogers (1959) che parla di „tendenza

attualizzate‟ come spinta vitale che porta il paziente alla progressiva realizzazione di se

stesso come individuo, spinta che può essere ripristinata fornendo una relazione

empatica e autentica, capace di garantire holding.

6. Classificazione dei setting gruppali

6.1 Classificazioni formali

Il fatto che il gruppo costituisca un‟entità viva e in trasformazione, la cui stessa

evoluzione realizza la sua identità, rende difficoltosa una classificazione rigorosa

(Fabbri, 2006). Quella che segue vuole essere una classificazione schematica e non

pretende di essere esaustiva, piuttosto sufficiente a tratteggiare quegli aspetti che

definiscono la forma complessiva di un gruppo. La distinzione tra varie tipologie di

gruppi può essere operata per differenti finalità e in vari modi. Anche se spesso può

scaturire dall‟applicazione di un criterio meramente descrittivo ogni classificazione

comporta delle implicazioni di ordine teorico e metodologico. Finalità di questo stesso

tentativo di organizzazione è, più che tassonomica, di mettere in evidenza nei diversi

setting gruppali gli „aspetti esteriori‟, come li definisce Yalom (1970), quindi il

processo sotteso.

Quando si parla di gruppo terapeutico solitamente ci si riferisce implicitamente

ad un „piccolo gruppo‟, ovvero a un insieme quantitativamente definito di persone,

indicativamente tra le 3 e le 11 (De Maré, 1990). Questo parametro numerico come

vedremo può avere delle implicazioni. Una prima e semplice modalità per classificare

un gruppo è quindi in base alla sua numerosità ovvero alle dimensioni.

6.2 Dimensioni

L‟ampiezza di un gruppo è un parametro molto importante, tanto che Lewin

(1951) nella sua definizione di gruppo psicologico indica che il grado di

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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interdipendenza delle frazioni del gruppo varia da una massa indefinita a un‟unità

compatta e dipende, tra gli altri fattori, dall'ampiezza, dall‟organizzazione e della

coesione.

In base a questo parametro i gruppi si dividono in tre tipologie: piccolo gruppo,

gruppo medio o mediano, grande gruppo. La discriminante numerica per operare tale

suddivisione cambia nei diversi autori e in base alle differenti discipline prese in esame.

Anche se la differenziazione in tutti i casi rappresenta una soglia limite di membri

raggiunta la quale vengono a modificarsi le percezioni dei singoli componenti, la

tipologia di relazioni interne, conseguentemente le possibilità di azione, il valore di

questa soglia può essere molto variabile in base al modello, operativo o di analisi,

utilizzato. I dati che seguono, ad esempio, piuttosto che come incongruenti possono

essere considerati misure di una stessa dimensione operate con unità di misura

differenti. Doel e Sawdon (2003) nel lavoro in ambito sociale parlano di 3-6 membri,

poi 7-16 e oltre i 16. De Maré (1990) in ambito gruppoanalitico parla di piccolo gruppo

con 3-7 membri, gruppi intermedio con 12 -30 e grande gruppo oltre i 30. Nello

psicodramma le numerosità sono di 2-3, 4-6 e 6-8 nel grande gruppo (Boria Migliorini,

2006). Per applicazioni di danzamovimentoterapia il numero di partecipanti è di 4-9,

10-20 e oltre i 20 (Bellia, 2001).

La dimensione del gruppo diventa una variabile importante nella pratica: in un

gruppo ristretto l‟influenza reciproca dei membri e la coesione sono intense ma tendono

a diminuire man mano che il gruppo si allarga (Fabbri, 2006). Anche il tipo di relazioni

cambia passando da relazioni orizzontali nel piccolo gruppo a verticali nel grande, in

cui l‟adesione al comportamento non è più data dalla coesione interna, vero e proprio

collante emotivo del gruppo, ma si struttura intorno all‟appartenenza, che differenzia i

membri dalla realtà sociale esterna (Yalom, 1970; Fabbri, 2006). Le identificazioni

cambiano, trasformando la “sala degli specchi” di Foulkes (1964), situazione di piccolo

gruppo in cui ogni membro riesce a percepire l‟esperienza dell‟altro, potendosi

identificare con più membri, in uno spazio non più esperito empaticamente quanto

appartenente ad un piano cognitivo e prototipico socialmente definito (Fabbri, 2006).

Nel piccolo gruppo emerge una dimensione prettamente affettiva e interpersonale, è una

realtà „calda‟.

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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In base a tali premesse, la classificazione che segue si riferisce ad un generico

lavoro psicologico di gruppo non necessariamente psicoterapeutico, in riferimento alle

essenziali dinamiche interne al gruppo e alle più elementari modalità operative. Il

gruppo minimo viene considerato di 3 persone (ibidem) in quanto al di sotto è più adatto

parlare di coppia. Nella numerosità indicata a seguire è esclusa la conduzione che

rappresenta un elemento costante e può variare per numero di componenti in base alle

specifiche esigenze operativo-progettuali.

Piccolo gruppo. Da 3 a 16 membri. Caratteristica è che permette abbondanti

interazioni. La tipica disposizione in cerchio rafforza le dinamiche affettive e la

percezione sociale di un ingroup, quindi la differenziazione dall‟outgroup. In particolare

sono possibili discussioni faccia a faccia: uno dei modelli di interazione sociale

fondamentali. Il basso numero di componenti permette di far emergere le singole

personalità e, nel tempo, si assiste alla spontanea emersione di ruoli (Yalom, 1970). Un

gruppo di 4 componenti o meno spesso cessa di operare come gruppo e il processo

diventa più affine a una terapia individuale condotta in gruppo (ibidem). L‟eterogeneità

dei partecipanti deve essere presa in considerazione come elemento che può

condizionare la dinamica di gruppo (ibidem). Un esempio che esemplifica questo tipo di

gruppo può essere l‟equipe.

Gruppo medio. Da 12 a 30 membri. Sviluppa la sua valenza pratica e metodologica

nella possibilità di operare sul confine tra dinamiche individuali e sociali dando ancora

ai membri la possibilità di percepire chiaramente la dimensione di gruppo e il reciproco

legame (ibidem). Gli scambi e le relazioni personali diventano meno incisivi e, in caso

di prolungata interazione può tendere a segmentarsi in sottogruppi. La possibilità di

adottare ancora una disposizione in cerchio permette di monitorare e agire sul gruppo

nel suo insieme e su singoli membri. Un esempio possono essere i gruppi di incontro.

Grande gruppo. Oltre i 30. La diposizione in cerchio inizia a diventare difficoltosa

optando per una disposizione di tipo frontale, in cui la leadership è spazialmente

distinta. Il grande gruppo è sorretto da fenomeni di natura prevalentemente cognitiva e

sociale (ibidem), che lo rendono „freddo‟. Applicazioni in gruppi più ampi sono

possibili. In seminari nazionali e internazionali si può arrivare a sessioni di gruppo che

contano svariate decine di persone fino a oltrepassare il centinaio. Diventa più difficile

ricorrere alle proprietà del gruppo.

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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In conclusione la dimensione ottimale di un gruppo è determinata da alcuni

fattori (Fabbri, 2006):

obiettivi: grado di complessità individuale dello scopo del lavoro;

intimità: livello di intimità ed esplorazione che si vuole raggiungere;

apprendimento: qualità dei vissuti che si vogliono scambiare;

modalità: opportunità di dover lavorare in sottogruppi;

efficienza: ottimizzazione delle risorse, perfezionamento dei risultati.

6.3 Il continuum verbale-non verbale

Una prima semplice differenziazione riguarda gli aspetti formali e strutturali

come composizione, modello teorico, finalità, variabili di setting, illustrati nel paragrafo

successivo. Questa differenziazione formale-strutturale riguarda essenzialmente aspetti

oggettivi e operativi facilmente riscontrabili. Ad esempio si possono distinguere le

psicoterapie di gruppo che adottano tecniche verbali e altre che ricorrono a tecniche

extraverbali (Bensi, 2011), anche dette terapie di gruppo attive (Berne, 1966). Tale

distinzione nasce in seno al modello analitico in cui i principi di astinenza e di rispetto

del setting centrano la prassi su un livello verbale, funzionale ad un‟integrazione

consapevole dei vissuti. Questo modello quindi considera gli „agiti‟ come momenti di

scarica delle tensioni, non funzionali al processo, se non delle vere e proprie resistenze

al trattamento (Yalom, 1970). Altri approcci invece prediligono una maggiore

partecipazione corporea che può essere oggetto di successive integrazioni verbali. In

altre attività come l‟analisi bioenergetica è invece l‟uso della parola che può essere

sconsigliato durante alcune attivazioni fisiche.

Fonte: adattato da Bensi, 2001.

Fig. 1: Classificazione per ricorso a tecniche verbali/non verbali

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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Volendo analizzare le caratteristiche funzionali e processuali la scena diventa

più articolata: il confine tra applicazioni terapeutiche e non terapeutiche può diventare

sfumato. La differenza più evidente tra grupi terapeutici e con altre finalità riguarda più

che le modalità tecniche utilizzate, la domanda che viene esplicitamente formulata (Di

Maria e Lo Verso, 1995).

6.4 Verso il processo: attività e scopi

Un tentativo di classificazione che prenda in esame aspetti funzionali e

processuali, anche se proposto in ambito psichiatrico, comprende al suo interno una

varietà di applicazioni dei setting gruppali. La classificazione riguarda i metodi adottati

nella conduzione del gruppo a seconda del grado di attività del leader e degli scopi

terapeutici che si propone (Pines e Schlapobersky, 2000). Il livello di attività riguarda la

quantità di interazione del conduttore con il membro o con il gruppo. Ogni scambio può

essere visto come un micro-intervento volto a raggiungere un determinato micro-

obiettivo. I contenuti dell‟interazione possono essere predefiniti, come nel comunicare

una consegna al gruppo assumendo un ruolo direttivo, o contingenti, come fornendo una

risposta empatica ad un partecipante o verbalizzando degli aspetti processuali

emergenti. Il tipo di attività del leader e il modo in cui la espleta sono guidati dal

modello teorico che adotta, come anche gli scopi terapeutici da perseguire. Questi ultimi

possono essere definiti a monte della sessione e sono in stretta connessione con il tipo di

lavoro che il conduttore intende svolgere. In linea di massima più l‟attività sarà di tipo

strutturato e l‟obiettivo del lavoro di gruppo sarà riconosciuto come comune dai

membri, maggiormente specifici saranno gli scopi terapeutici. Scopi terapeutici specifici

si rivolgono per lo più a gruppi omogenei per composizione (ibidem). Incrociando

queste due variabili, grado di attività e specificità degli scopi terapeutici del leader,

vengono a definirsi quattro casistiche (Fig. 2):

1. alto livello di attività – scopi specifici: polo occupazionale/gruppo di lavoro. Si

tratta di setting gruppali tipicamente inseriti in programmi terapeutici strutturati,

in cui i componenti richiedono un certo grado di attenzione e, talvolta,

comprendono lo svolgimento di determinati compiti;

2. basso livello di attività – scopi specifici: polo formazione/educazione. Sono

gruppi strutturati la cui conduzione può essere piuttosto standardizzata e

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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l‟attività del gruppo programmata. Possono essere presenti dei compiti che il

gruppo deve svolgere e che rappresentano il motivo su cui il gruppo fonda;

3. basso livello di attività – scopi non specifici: polo supportivo/espressivo. Si

trovano i gruppi la cui attività e contenuti sono proposti dai membri e

perseguono caratteristiche finalità di aiuto e di sviluppo personale. I membri

hanno ampio spazio di espressione;

4. alto livello di attività – scopi non specifici: polo integrativo/trasformativo. A un

buon grado di eterogeneità e complessità dei contenuti che possono liberamente

emergere può corrispondere un tempo di lavoro ridotto. Ruolo del leader è di

mediare tra le parti.

Riassumendo possiamo dire che scopi specifici corrispondono ad una leadreship

piuttosto direttiva, attività più strutturate ed un modello „frontale‟; scopi non specifici

prevedono maggiori capacità di holding e di insight da parte del leader, maggiore

reciprocità che spesso si sostanzia in una disposizione dei membri tipicamente a

cerchio. Ad un alto livello di attività del leader seguono un‟assunzione più forte del

ruolo, maggiori dinamismo e capacità dialettica; ad un basso livello di attività il leader

può delegare al gruppo aspetti legati al compito/obiettivo assumendo una posizione

democratica e inclusiva: la sua azione è circoscritta a momenti di particolare necessità.

Fonte: adattata da Pines e Schlapobersky, 2000.

Fig. 2: Classificazione per livello di attività del conduttore-scopi del gruppo

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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6.5 Il continuum terapia-addestramento

Secondo Yalom (1970) l‟intervento in setting di gruppo si svolge su un

continuum che va dall‟addestramento per la maturazione personale alla terapia intesa

come cambiamento caratteriologico. Su questa direttiva, che può essere concepita come

lineare per agevolare una lettura teorica esemplificativa, volendo citare alcuni esempi, si

possono identificare dei punti procedendo dal versante della terapia a quello

dell‟addestramento: gruppi psicoanalitici, gruppi di Gestalt, psicodramma, gruppi di

incontro, gruppi di auto-mutuo-aiuto, gruppi di supervisione/formazione, gruppi di

addestramento. A questi, oltrepassando l‟aspetto dell‟apprendimento interpersonale che

assume un ruolo centrale nei gruppi terapeutici (Yalom, 1970), si potrebbero aggiungere

gruppi di attività centrati sul compito, fino ad arrivare a gruppi creativo/espressivi, le

cui componenti e finalità di sviluppo personale sono meno dirette assumendo un valore

contingente.

Riferendosi alle pratiche in uso fino agli anni ‟60 Yalom (1970) fa una

distinzione tra gruppi meramente terapeutici, come ideale estensione applicativa dei

setting duali, ispirati a teorie psicologiche e con bassa strutturazione delle attività, e di

addestramento, derivati da una tradizione didattica e di ricerca, focalizzati sul

perseguimento di un compito/obiettivo, quindi strutturati. In realtà questa distinzione

sembra assumere un valore piuttosto teorico: lo stesso autore riconosce ad entrambe le

tipologie la possibilità di ottenere un certo grado di insight e di cambiamento

personologico. Tale posizione nel discriminare il carattere di terapeuticità, basato più

che sulle modalità tecniche utilizzate, sulle finalità dichiarate e sulla domanda

esplicitamente formulata (Profita e Venza, 1995), appare restare piuttosto condivisa.

Sembra che quando il compito/obiettivo interessi questioni di pertinenza psicologica –

come nei classici T-Group di Lewin – l‟effetto „terapeutico‟ sia contingente e notevole,

a prescindere dalla finalità esplicitamente non terapeutica del lavoro(Yalom, 1970;

Rogers, 1970). Questa evidenza porterà Yalom a definire i cosiddetti „fattori terapeutici

di gruppo‟ che, interagendo in varia misura tra loro, finiscono per conferire una valenza

più o meno terapeutica al lavoro di gruppo.

È possibile che su un piano pratico l‟importanza nella distinzione di intervento

terapeutico-non terapeutico interessi questioni epistemologiche: la formazione, le

modalità di progettazione e di conduzione del leader; questioni contrattuali: assumendo

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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un valore pubblico e giuridico interagiscono con le motivazioni dei possibili membri e

ne influenzano la partecipazione. L‟implicazione di questo tipo di classificazione

rimanda direttamente all‟assunzione di professionalità, responsabilità e metodo da parte

dei leader, risultando preziosa e scongiurando diatribe e reciproche rivendicazioni tra

ordini professionali.

Altri utilizzi ingenui del gruppo di addestramento, come l‟applicazione isolata di

principi psicologici – dall‟interpretazione del non verbale alle tecniche di ricalco,

all‟utilizzo di teorie di psicologia sociale nella vendita – o basati su meccanismi di

ipergeneralizzazione (Yalom, 1970) – assumere che qualcosa di positivo, come i

rapporti umani o lo svelamento, lo sia sempre, per tutti, e vada ricercato in modo

massivo –, in voga negli anni ‟60 come oggi, risultano eccessivi, „offensivi‟, rischiosi

per i partecipanti, i conduttori e, influenzando l‟opinione pubblica, possono risultare

dannosi per molte categorie professionali.

6.6 Altre variabili nel lavoro con i gruppi

Oltre a quelli già visti – dimensioni, tecnica verbale-non verbale, terappia-

addestramento, attività-scopi della leadership – esistono una serie di aspetti

organizativo-strutturali che possono interessare i gruppi e differenziarli in modo

sostanziale. Questi, in base alle specifiche che si prefissa il conduttore, possono essere

(Berne, 1966):

selezione/composizione: questi aspetti mirano ad assolvere un criterio di

omogeneità o eterogeneità nella composizione del gruppo, che è dettata dalle

specifiche organizzative o dalle finalità che si prefigge il terapeuta. Gruppi

eterogenei senza criteri di selezione sono detti „gruppi generali‟, quelli omogenei

possono essere considerati „gruppi speciali‟, quelli con composizioni differenti e

inconsuete – un anziano con deterioramento senile in un gruppo di giovani – „gruppi

sperimentali‟;

obiettivi/metodo: gli obiettivi devono essere esplicitati in fase di ideazione e

chiariti a ciascun paziente al momento dell‟inserimento. Il metodo costituisce il

modo in cui vengono perseguiti gli obiettivi: discostamenti dal metodo pianificato

devono essere motivati da ragioni valide senza che interferiscano con il piano

terapeutico prescelto;

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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conduzione: questo aspetto può variare andando da un singolo terapeuta, a due

coterapeuti a un terapeuta a cui si uniscono degli osservatori. In ogni caso si va

incontro a specifiche responsabilità per cui una co-conduzione non è meno

impegnativa di una individuale. Questa variabile è illustrata nei paragrafi successivi;

pratica privata/servizio pubblico: risponde alla possibilità di realizzare un

percorso su libera iniziativa o sotto delega di un‟amministrazione. In questo caso è

importante comprendere gli scopi del progetto e le esigenze dell‟organizzazione,

raggiungere un accordo sul significato della terminologia tecnica in modo che la

realizzazione non crei disappunti al servizio come ai pazienti ma possano essere

soddisfatte le aspettative di tutte le parti chiamate in causa. È inoltre opportuno

conoscere quali uffici sono implicati con l‟implementazione e con quale ruolo al

fine di comprendere relative responsabilità e competenze.

Secondo Yalom (1970) l‟espressione „terapia di gruppo‟ rappresenta una

semplificazione eccessiva, per cui sarebbe più opportuno parlare di „terapie di gruppo‟

riferendosi ad una serie di applicazioni di setting gruppali che possono variare per

(Yalom, 1970):

composizione: partecipanti accomunati da una condizione clinica piuttosto che

persone che attraversano momenti o condizioni di vita particolari – per esempio

gestanti, genitori, studenti;

modello teorico: dai paradigmi più ortodossi ai più recenti ed eclettici, fino a

sfociare in modelli di confine tra la promozione del benessere e l‟attività espressivo-

creativa;

finalità: che possono consistere in una modifica più o meno diretta del

comportamento, come anche la maturazione personale, la consapevolezza,

l‟addestramento, l‟aiuto e il supporto;

variabili di setting: anche „aspetto esteriorie‟, la forma e le tecniche propri di

ogni modello, fanno riferimento anche al luogo, alle tempistiche e al tipo di

attività/compito su cui il gruppo si orienta.

Nell‟intenzione di semplificare un panorama complesso, perché ampio, eterogeneo e in

continuo cambiamento, l‟autore preferisce bypassare il mero „aspetto esteriore‟ per

guardare al nocciolo delle varie „terapie di gruppo‟. L‟accezione del significato di

„terapeutico‟ per Yalom – che pure nella sua opera da prova di un atteggiamento

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III - CRITERI DI APPLICAZIONE E CLASSIFICAZIONI DEI SETTING GRUPPALI

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ortodosso e scientifico – è quindi ampio e non strettamente clinico, ricalcando una

prospettiva moderna e pragmatica di ciò che può essere definito intervento psicologico:

intervento non solo correttivo, ma anche preventivo e di promozione del benessere.

Nel capitolo successivo vedremo secondo quali meccanismi l‟intervento in setting

gruppale può incarnare quel quid di terapeutico e come la lettura neurobiologica – forse

ricalcando l‟atteggiamento di Yalom – possa esprimere una visione del paziente e della

terapia in una chiave salutogenetica centrata sul processo piuttosto che centrata sul

sintomo e su una visione nosografico-classificatoria.

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

89

Capitolo IV

BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

Introduzione

In questo capitolo il tema della gruppalità verrà affrontato dalla prospettiva delle

neuroscienze. Recenti contributi dei ricercatori da un lato potranno tracciare nuove

prospettive sull‟organizzazione interpersonale del sistema nervoso umano, dall‟altro

potranno ampliare una comprensione degli argomenti precedentemente trattati. Le

teorizzazioni esposte offriranno significative implicazioni sul funzionamento dell‟uomo

come essere sociale, sulla psicoterapia e sul funzionamento del gruppo.

Le ricerche effettuate nel campo delle neuroscienze, con particolare riferimento

ai contributi di Iacoboni (2008) e Siegel (1999; 2013), a partire dagli anni ottanta del

secolo scorso permettono di comprendere meglio importanti teorie della psicologia sotto

una nuova luce. Non solo: le scoperte interessano anche i meccanismi che reggono o

sottostanno al funzionamento interpersonale del sistema nervoso.

La neurobiologia interpersonale è un‟area multidisciplinare attigua alle

neuroscienze che studia le correlazioni fra cervello, mente e interazioni con gli altri; il

suo focus include i meccanismi molecolari delle funzioni cerebrali considerando tanto le

connessioni sinaptiche come le connessioni relazionali tra individui (Siegel, 2013).

Questo approccio, enfatizzando il collegamento tra realtà sociale e sinaptica, di basa su

tre assunti fondamentali (ibidem):

la mente è un processo incarnato e relazionale che regola flussi di energia e

informazioni, all‟interno del cervello e tra cervelli diversi;

la mente si crea all‟interno di processi neurofisiologici ed esperienze

relazionali come proprietà emergente;

lo sviluppo di strutture e funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le

esperienze influenzano i programmi di maturazione geneticamente

determinati.

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

90

7. Neurobiologia e processi terapeutici

Gli aspetti che seguono trovano applicazione e mantengono validità tanto in un

setting individuale che gruppale, tuttavia è nel gruppo che le variabili interpersonali

trovano una moltiplicazione quantitativa e qualitativa, offrendo un più ampio e ricco

panorama di applicazioni.

Attraverso degli argomenti che riguardano la neuropsicologia vengono qui

illustrati dei principi trasversali implicati nella relazione terapeutica: la neuroplasticità

come corrispettivo neurale del cambiamento, le memorie come oggetto dell‟intervento,

il trauma nelle sue implicazioni funzionali, anche connesse alla memoria, e il sistema

nervoso periferico come apparato implicato con lo stato di arausal.

La mente può essere in parte descritta come l‟esito dell‟attività delle cellule del

sistema nervoso, in cui giocano un ruolo importante le relazioni interpersonali e le

connessioni comunicative con gli altri (ibidem). Alcuni dei seguenti argomenti che

riguardano anatomia e funzioni del cervello saranno utili per capire degli aspetti del

funzionamento umano, facilitando una comprensione dei processi terapeutici di gruppo

(Badenoch e Cox, 2010) e potendo indirizzare intenzionalmente il movimento verso la

salute (Siegel, 2013). La loro operativizzazione può inoltre agevolare le capacità di

holding del conduttore e una lucida consapevolezza nei membri (Badenoch e Cox,

2010).

7.1 Neuroplasticità

Per neuroplasticità si intende la proprietà delle strutture neurali di interagire tra

loro e con l‟ambiente esterno (Làdavas e Berti, 2002). Il processo è volto a raggiungere

nuovi equilibri funzionali attraverso modificazioni e riorganizzazioni interne. Una

concezione classica della neurobiologia voleva che modifiche sostanziali nella

microstruttura del cervello fossero possibili solo in fasi precoci dello sviluppo, durante

il cosiddetto periodo critico (Fox, 1992). I dati attualmente disponibili suggeriscono che

il cervelo adulto, anche in presenza di danni neurologici, è molto più plastico di quanto

si pensasse (Doidge, 2007). L‟assunto di „periodo critico‟ è andato a ridimensionarsi,

fino a riconoscere che anche il cervello adulto è capace di operare profondi mutamenti

sia funzionali che strutturali, infatti (Siegel, 2013): le esperienze, modificando l‟attività

e la struttura delle connessioni sinaptiche che collegano le cellule nervose, plasmano i

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

91

circuiti responsabili di processi come memoria, emozioni e autoconsapevolezza. Le

esperienze possono avere un forte impatto sullo sviluppo cerebrale inducendo anche

cambiamenti in molecole che regolano l‟espressione genica, fenomeno chiamato

epigenesi (Meaney, 2010).

La forza delle connessioni sinaptiche può essere geneticamente determinata,

come se il cervello per motivi associati a vantaggi evolutivi fosse programmato per

processare in modo preferenziale alcuni tipi di input. Nonostante ciò la forza delle

connessioni sinaptiche può essere anche determinata dalle esperienze attraverso processi

neuroplastici che sono alla base delle nostre capacità di apprendimento (Siegel, 2013).

Durante un‟esperienza emotivamente significativa, quindi intensa, vengono attivati

circuiti cerebrali che influenzano direttamente l‟attenzione e lo stato di arousal

innalzando i loro livelli. L‟attivazione di complessi meccanismi chimici accrescono

l‟attivazione e l‟espressione genica (Doidge, 2007). Secondo questa prospettiva

l‟attivazione emotiva è un processo che contribuisce a creare le condizioni

neurochimiche che facilitano cambiamenti neuroplastici (Siegel, 2013). In ambito

terapeutico i processi neuroplastici sono facilitati da un ambiente interpersonale che

fornisce (Badenoch e Cox, 2010):

un‟opportuna attivazione emotiva (Cozolino, 2002);

relazioni interpersonali armoniche e sintonizzate (Siegel, 2006);

supporto nel prendere contatto e consapevolezza esperienziale con memorie

implicite (Badenoch, 2008);

esperienze che disconfermano apprendimenti impliciti precoci (Toomey e Ecker,

2009).

L‟elemento bio-psico-sociale è quindi determinante e contribuisce a influenzare

l‟espressione del patrimonio genetico (Schore, 2003). Sembra infatti esistere accordo

sul fatto che così come le relazioni precoci finiscono per forgiare la struttura del nostro

cervello, le successive continuano a modificare circuiti neuronali nell‟arco di vita

(Siegel, 1999; Schore, 2003; Doidge, 2007): le esperienze sociali possono plasmare la

nostra architettura neurale (Siegel, 2013). La relazione terapeutica è infatti l‟ingrediente

comune utilizzato da tutte le forme di psicoterapia e, nelle terapie di gruppo, l‟alleanza

nella relazione terapeutica vira in direzione della coesione (Yalom, 1970; Burlingame et

al., 2002). All‟interno di questo frame teorico che vede il comportamento umano

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92

suscettibile di continue e importanti modificazioni sviluppate all‟interno di relazioni

salienti è possibile considerare come si contestualizzano altri contributi delle

neuroscienze.

7.2 Memoria

Studi sulle relazioni tra memoria ed emozioni indicano che le esperienze

emotivamente ricche vengono normalmente ricordate con maggiore facilità (Schmidt e

Saari, 2007). Regioni cerebrali che attribuiscono un valore alle esperienze

probabilmente le „etichettano‟ come significative, importanti, degne di essere ricordate

(Sergerie et al., 2006). Tali esperienze hanno una maggiore probabilità di entrare a far

parte della memoria a lungo termine (Siegel, 2013) e plausibilmente, tramite questi

meccanismi cerebrali, le nostre vite diventano un insieme di temi emotivamente

rilevanti attorno ai quali si organizzano i ricordi dei singoli eventi (Thomsen e Berntsen,

2008). Da queste premesse sembrerebbe che in condizioni normali la mancanza di

coinvolgimento emotivo si possa riflettere negativamente sulla capacità di recupero dei

ricordi e, in ultima analisi, che le emozioni giochino un ruolo nello sviluppo delle

memorie esplicite.

Un analogo legame tra memoria ed emozione può ritrovarsi nel fatto che le

interazioni precoci con il caregiver danno forma alle prime connessioni tra il sistema

limbico – che comprende sia l‟ippocampo, centro delle funzioni mnestiche, che

l‟amigdala, sede dell‟elaborazione degli stimoli emotigeni – e le aree corticali

codificando nella memoria schemi che restano sotto il livello di coscienza (Siegel,

2013). Queste informazioni riguardano il valore che ci si attribuisce come persone e

regolano le aspettative relazionali (Badenoch e Cox, 2010). Come aveva intuito Freud –

ma in un‟accezione differente – la risoluzione di un conflitto psicologico è strettamente

collegata alla possibilità di rendere consapevole, e di poter manipolare attraverso la

ragione, contenuti inconsci. Tali contenuti oggi possono essere meglio definiti come

memorie implicite. In una cornice neurobiologica la parte „curativa‟ del processo

terapeutico non risiede tanto nel far riaffiorare dei ricordi quanto nell‟integrarli nella

propria esperienza di vita. Sono tre i sistemi di memoria implicati nel lavoro terapeutico

(ibidem).

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Memorie implicite: create nei primi 12-18 mesi, originano da percezioni

corporee, eccessi emotivi, sensazioni di sicurezza o pericolo (Badenoch, 2008;

Siegel, 1999), da esperienze ripetitive con i caregiver (Siegel, 2013), generando

aspettative quindi schemi o modelli mentali di attaccamento. Rappresentano

connessioni limbiche – particolarmente dell‟emisfero destro – che si strutturano

attraverso l‟esperienza. Per la natura della loro codifica sono accessibili quando

una certa esperienza viene ripetuta; si manifestano nella forma di modalità di

percezione pervasive che investono le aspettative sul mondo fisico e relazionale

(Schore, 2003). Non potendo essere esperite alla stregua di un ricordo

contestualizzato assumono carattere di immanenza, come se il ricordo si stesse

vivendo nel presente. Per questi motivi memorie implicite dissociate possono

avere implicazioni e strascichi importanti nella vita adulta creando circoli viziosi

in cui vengono confermate dai comportamenti attuati automaticamente in

particolari circostanze (Badenoch e Cox, 2010). Le memorie implicite, per la

loro caratteristica di esperienze non integrate, si collegano ad un recupero che

può interrompere il normale flusso della coscienza (Badenoch, 2008). Gli

schemi di attivazione delle memorie implicite che dominano le relazioni

interpersonali possono essere modificati in due modi:

- sotto il livello di consapevolezza, attraverso episodi di sintonizzazione

empatica capaci di modificare le connessioni limbiche (Schore, 2003);

- a livello consapevole, con un lavoro espressivo e rielaborativo

(Badenoch, 2008).

In questo secondo modo le memorie implicite possono trasformarsi in esplicite

ed essere esperite nel presente disconfermando gli apprendimenti precoci e

potendo essere incorporate all‟interno di una narrazione autobiografica coerente

(ibidem).

Memorie esplicite: sebbene tutte le memorie siano collegate ad un livello

implicito, intorno ai 2 anni l‟ippocampo inizia a codificare le esperienze secondo

specifiche spaziali e temporali (Badenoch e Cox, 2010). Questo nuovo tipo di

codifica permette di riconoscere un ricordo come evento appartenente al passato

e di collocarlo, oltre che di recuperarlo, con un margine di consapevolezza e di

intenzionalità.

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Memoria autobiografica: dopo i 2 anni il sistema limbico inizia a creare

collegamenti con aree associative della corteccia prefrontale, prima

nell‟emisfero destro, dove il senso del Sé può assumere una strutturazione

prospettica, poi nel sinistro, in cui il Sé può iniziare ad essere codificato

attraverso il linguaggio (ibidem). Questo tipo di memoria inizia ad agire in modo

più consistente ed efficiente non prima dei 4-5 anni (Siegel, 1999). Come

sostengono le teorie evolutive socioculturali ed interazioniste lo sviluppo della

memoria autobiografica sembra il risultato della costruzione collaborativa di

narrazioni personali del passato che coinvolge il bambino e adulti significativi

(Wang, 2006). Ciò suggerisce la possibilità che anche processi tipicamente

privati, come anche il pensiero e l‟autoriflessione, abbiano origine come forme

di comunicazione interpersonale (Siegel, 2013).

7.3 Eventi traumatici

Possono essere definiti traumatici quegli eventi che eludono i meccanismi

attraverso cui normalmente interpretiamo le nostre reazioni, ordiniamo le nostre

percezioni del comportamento altrui e ci creiamo schemi di interazione con la realtà

(Van der Kolk et al., 2005). Gli autori distinguono tre differenti categorie di eventi

traumatici: con durata limitata nel tempo caratterizzati dall‟imprevisto e dall‟intensità

dell‟evento; riferiti a situazioni sequenziali con possibile effetto cumulativo;

un‟esposizione prolungata a condizioni di stress, situazioni che possono provocare

incertezza e sentimenti di impotenza, pregiudicando i legami di attaccamento e

generando un fondamentale senso di insicurezza.

Di fronte ad una attivazione emozionale eccessiva il cervello risponde attivando

il sistema nervoso autonomo mettendo in circolo ormoni che inducono un arousal

persistente che può durare diversi minuti fino ad ore (Siegel, 2013). Inoltre esperienze

traumatiche possono portare ad un blocco dei meccanismi della memoria esplicita con

una inibizione delle funzioni dell‟ippocampo (Siegel, 2013; Van der Kolk et al., 2005).

In tal modo si può verificare una compromissione della memoria autobiografica: il

ricordo implicito è invece integro e può comprendere comportamenti come fuga o

evitamento, reazioni irrazionali, sensazioni corporee e immagini correlate agli eventi

(Siegel, 2013).

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In un‟ottica neurobiologica il trauma è strettamente connesso con le memorie

implicite, causa di disregolazioni comportamentali. Possono rappresentare fonte di

memorie con un potenziale disregolativo difetti nel maternage, eventi biografici

traumatici, periodi di stress prolungato (Badenoch e Cox, 2010).

Eventi particolari e l‟azione dello stress possono interferire in ogni momento

della vita con l‟integrazione tra memorie implicite ed esplicite o autobiografiche

facendo riaffiorare il loro potenziale disregolativo (Schore, 2003). A livello

fenomenologico in caso di rievocazione di memorie implicite si può assistere a vissuti

di perdita di libertà di agire e di scelta consapevole, con conseguente senso di

confusione e scoraggiamento (Badenoch e Cox, 2010).

Il vantaggio dell‟elaborazione in gruppo di un trauma consiste nella valenza

autoregolativa che si realizza tanto per il membro che riceve sostegno che per chi offre

supporto (Schore, 2003).

7.4 Sistema Nervoso Centrale e Periferico

Solo quando una persona si sente al sicuro o ha una „neurocezione di sicurezza‟

(Porges, 2007) diventa capace di entrare in contatto profondo con gli altri attraverso il

„cervello sociale‟ e di beneficiare dei meccanismi di co-regolazione interpersonale

(Badenoch e Cox, 2010). Le ricerche di Porges (2007) hanno identificato degli assetti

del sistema nervoso autonomo che agiscono in modo gerarchico.

Percezione di pericolo: il complesso vegale dorsale del sistema parasimpatico

attiva una risposta di congelamento, blocco e dissociazione. I centri superiori di

elaborazione subiscono un arresto escludendo il confronto sociale, riducendo i

livelli di consapevolezza e di risposta al dolore. In caso di stress elevato la

risposta ormonale limita i collegamenti tra amigdala e ippocampo producendo

memorie implicite non integrate (Badenoch e Cox, 2010). Questo arousal

parasimpatico è una strategia adattiva per mantenere l‟omeostasi in uno stato di

attivazione del sistema simpatico (Schore, 2010).

Percezione di minaccia: si attiva il circuito simpatico che riduce l‟attività dei

sistemi di modulazione sociale e prepara l‟organismo a difendersi attraverso una

risposta di attacco o fuga (Badenoch e Cox, 2010).

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Neurocezione di sicurezza: le innervazioni ventrali del sistema parasimpatico

creano uno stato di quiete favorevole a instaurare relazioni personali accoglienti.

L‟attivazione di questo sistema permette di inviare e leggere segnali sociali –

comprendenti ad esempio espressioni facciali, contatto visivo, postura e

prossemica, movimento e prosodia – che stimolano la reciprocità portando a una

condizione di mutua regolazione e relazione empatica.

7.5 Integrazione

La neurobiologia interpersonale all‟interno di ogni individuo distingue tre aspetti

funzionali (Fig. 3) che interessano flussi di energia e informazioni (Siegel, 2013):

cervello: è il meccanismo neurale che plasma tali flussi;

relazioni: sono la loro condivisione;

mente: è il processo incarnato nel sistema nervoso e ancorato nelle relazioni

interpersonali che regola i flussi.

Cervello relazioni e mente non sono elementi separati ma facce della stessa medaglia. In

quest‟ottica la mente è una proprietà emergente di un sistema nella forma di processo

auto-organizzante, che regola cioè in modo ricorsivo le fonti da cui ha origine: cervello

e relazioni plasmano la mente, la mente plasma relazioni e cervello (ibidem). Mente

cervello e relazioni posono essere diretti intenzionalmente verso la salute e il benessere

integrando energia e informazioni all‟interno del sistema nervoso e delle interazioni con

gli altri: l‟integrazione è il principio organizzativo che regola i modi in cui i flussi di

energia e informazioni vengono plasmati nel cervello, condivisi nelle relazioni e

regolati dalla mente (ibidem).

Fonte: Siegel, 2013.

Fig. 3: I tre aspetti dei flussi di energia e informazioni

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Più precisamente per integrazione si intende il processo di collegamento in un

insieme funzionale di parti differenziate, è quindi un principio unificante che risulta

centrale per la salute della mente e da cui emergono vitalità ed armonia; quando si

verifica nel cervello per mezzo di fibre assonali si parla di integrazione neurale

(ibidem). Componenti essenziali dell‟integrazione sono la differenziazione e il

collegamento; la differenziazione implica il modo in cui parti di un sistema possono

specializzarsi diventando uniche e definite, il collegamento è la connessione di aree

separate che comporta la condivisione di flussi di energia e informazioni (ibidem).

Anche se tutti gli elementi del sistema contribuiscono al suo funzionamento

alcune regioni hanno un ruolo integrativo maggiore (ibidem): aree limbiche, in special

modo l‟ippocampo; aree prefrontali; corpo calloso: che collega fra loro i due emisferi

cerebrali; cervelletto: che partecipa la collegamento tra movimenti corporei, stati

mentali e processi cognitivi. Il modo in cui il cervello regola i suoi processi viene detto

autoregoalazione, meccanismo che sembra dipendere dall‟integrazione neurale (ibidem).

L‟autoregolazione è essenziale per la capacità del cervello di creare un senso del Sé

(ibidem). Come già accennato nel paragrafo sulla neuroplasticità, relazioni

interpersonali positive, come le comunicazioni integrative, possono stimolare la crescita

di fibre nervose integrative (ibidem), viceversa esperienze di trascuratezza e di abuso

nella prima infanzia inibiscono selettivamente i meccanismi di integrazione neurale

(Teicher, 2010). Allo stesso modo negli stati emozionali positivi l‟individuo è più

integrato, sia internamente che interpersonalmente, potendo disporre di prospettive più

ampie, emozioni negative corrispondono ad una diminuzione di integrazione (Siegel,

2013); un simile meccanismo diventa visibile nel lavoro di gruppo in cui un clima

collaborativo riduce le distanze tra i singoli punti di vista e amplifica i punti di forza

producendo un‟intelligenza di gruppo che è maggiore rispetto alle possibilità del singolo

individuo lì dove un gruppo non collaborativo ha una prestazione massima che non

eccede la miglior prestazione del singolo (Woolley et al., 2010). Oltre a incrementare

l‟intelligenza, l‟integrazione creae coerenza ed equilibrio all‟interno del sistema: rende

più flessibili, creativi, adattivi; agevolando la presenza di emozioni positive rende più

piacevole la vita (Siegel, 2013).

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In una visione olistica che vede parimenti implicati biologia, processi psichici e

sociali come aspetti sinergici di un sistema complesso, si possono distinguere vari tipi di

integrazione neurale:

integrazione verticale (Tucker, 2007): riguarda le funzioni „inferiori‟

localizzate nel tronco encefalico e nelle regioni limbiche, come ad esempio

la memoria e le emozioni, e le funzioni „superiori‟ situate nella corteccia,

come ad esempio funzioni cognitive, linguistiche e motorie;

integrazione dorsoventrale (ibidem): riguarda i possibili collegamenti

all‟interno del singolo emisfero cerebrale tra le cortecce che sovrintendono

processi motivazionali e simbolici;

integrazione laterale (ibidem): ancora all‟interno del singolo emisfero

riguarda i collegamenti che interessano processi percettivi che permettono di

mettere a fuoco l‟esperienza nella sua pienezza, a livello funzionale risponde

a caratteristiche di lateralizzazione emisferica;

integrazione bilaterale o interemisferica (Siegel, 2013): riguarda i processi

attivi tra i due emisferi che interessano strutture di collegamento come il

corpo calloso e la commissura anteriore.

Tuttavia movimenti integrativi possono coinvolgere la singola mente sia le

interazioni con le altre menti, reclutando tanto processi interni che interpersonali: in

un‟apertura alla dimensione sociale l‟integrazione interpersonale comporta meccanismi

di co-regolazione reciproca all‟interno del fenomeno chiamato risonanza (ibidem), che

verrà illustrato più avanti. Attraverso una progressiva strutturazione del Sé che avviene

anche attraverso processi autoregolatori e meccanismi di co-regolazione, l‟integrazione

crea l‟esperienza del Sé che cambia nel tempo (ibidem).

8. Neuroscienze: il „cervello sociale‟

In questa parte vengono illustrate delle ipotesi a sostegno della profonda natura

sociale dell‟uomo attraverso l‟importanza che gli stimoli interpersonali e sociali

assumono nell‟organizzazione cerebrale. Obiettivo è mettere in evidenza da una

prospettiva neurobiologica il primato delle relazioni nella strutturazione dell‟individuo,

quindi nella regolazione del suo comportamento.

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8.1 I neuroni specchio

All‟interno dell‟area F5 – situata nel lobo frontale, Area 6 di Broadman, nella

corteccia premotoria inferiore che sovrintende processi di pianificazione, selezione e di

esecuzione di azioni, quindi anatomicamente in una zona di congiunzione tra il lobo

frontale, responsabile della regolazione del comportamento, e il lobo temporale, sede

della memoria e delle elaborazioni mediate dalle emozioni, corrispondente all‟area di

Broca nell‟emisfero cerebrale sinistro – si trovano i neuroni specchio. Rispondendo alla

produzione di gesti e all‟osservazione di altri che compiono gesti, identici o che

perseguono uno scopo simile a quelli codificati in una determinata area cerebrale,

nonché ai rumori connessi a particolari azioni (Keysers et al., 2003), vari autori li

ritengono implicati in processi come: apprendimento per imitazione (Iacoboni, 2008),

intenzionalità (Iacoboni et al., 2005), intersoggettività (Gallese e Goldman, 1998;

Iacoboni, 2008), sviluppo del linguaggio (Arbib, 2005), comprensione degli stati

mentali degli altri (Gallese e Goldman, 1998). In particolare rispondono anche a stimoli

di natura sociale, come le espressioni facciali, la gestualità comunicativa, l‟inflessione

vocale, la postura – tutti correlati corporei di stati emotivi – e sembra sempre più

accreditato il loro ruolo nello sviluppo dell‟empatia (Iacoboni, 2008). L‟attività dei

neuroni specchio è associata con i sistemi cerebrali che monitorano e regolano affetti,

cognizioni e memoria (Badenoch e Cox, 2010), inoltre gioca un ruolo nel

riconoscimento degli stai interni altrui e nello stabilire rapporti (ibidem).

L‟attività di questo tipi di neuroni multimodali sembra mettere in discussione

due assunti: 1. la separazione tra percezione e azione, creando una „zona franca‟ in cui

la percezione della realtà esterna diventa in qualche modo equivalente all‟elaborazione

di intenzioni e al comportamento (Iacoboni, 2008); 2. la distinzione sé-altro,

sviluppando una „rappresentazione incarnata‟ e precognitiva (Siegel, 2013) che

trascende e unifica la dialettica soggetto-oggetto. Si può dire che nell‟area F5 le persone

riescano a „sintonizzarsi‟ e a rappresentare se stessi reciprocamente (Badenoch e Cox,

2010) diventando intimamente collegati e capaci di entrare in risonanza con l‟ambiente

sociale (Cozolino, 2006). Ciò conferisce ai neuroni specchio una dimensione

essenzialmente relazionale tanto da poterli considerare il centro del „cervello sociale‟

(Adolphs, 2009). L‟attività dei neuroni specchio, cellule cerebrali che colmano la

distanza tra sé e l‟altro, risulta particolarmente intensa quando le azioni che si osservano

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avvengono durante le relazioni sociali (Iacoboni, 2008). Come due facce della stessa

medaglia, in una relazione la comprensione dell‟altro è essenziale per comprendere noi

stessi, tuttavia la natura premotoria dei neuroni specchio può fornire solo una

comprensione intuitiva, implicita e preriflessiva (ibidem).

Neuroni specchio „logicamente correlati‟. La teoria della mente è stato un

paradigma dominante nella psicologia dell‟età evolutiva e, fin da quando si è andata

sviluppando – già prima che venissero scoperti i neuroni specchio –, compete con la

teoria della simulazione. Quest‟ultima, che sostiene che è possibile comprendere gli

stati mentali degli altri facendo letteralmente finta di essere nei loro panni, assume due

varianti che ricalcano una posizione (ibidem):

moderata: implica il ricorso a un processo cognitivo deliberato e intenzionale;

radicale: ritiene che la simulazione avviene automaticamente, in modo pervasivo

e precognitivo. Questa posizione trova supporto nelle ricerche sui neuroni

specchio (Gallese e Goldman, 1998; Goldman, 2006) e la loro capacità di

codificare precocemente l‟intenzione del gesto-comportamento altrui (Iacoboni

et al., 2005).

I neuroni specchio „logicamente correlati‟ (Di Pellegrino et al., 1992), un

particolare sottotipo di cellule, si attivano non solo nel veder compiere delle azioni ma

anche, in una catena associativa, per le azioni logicamente correlate ad esse (Iacoboni,

2008). È quindi possibile che questi neuroni codifichino lo scopo connesso ad un‟azione

isolata ma espressa in un contesto e, in qualche modo, forniscano informazioni

precognitive sulle intenzioni altrui. È come se il cervello simulasse l‟intenzione degli

altri o “come se l‟intenzione dell‟altro abitasse il mio corpo, e la mia il suo” (Gallese,

2006).

Formazione dei neuroni specchio. Già alla nascita possediamo una dotazione

di neuroni specchio, tuttavia sembra che il funzionamento del mirror system, di cui si

parlerà più avanti, possa essere modellato dall‟esperienza. Un esempio sono

l‟autoriconoscimento e l‟imitazione, capacità che si perfezionano nei primi mesi di vita

(Asendorpf e Baudonniere, 1993). Un‟ipotesi sullo sviluppo dei neuroni specchio

necessari a queste abilità vuole che avvenga una sorta di condizionamento all‟interno

della intensa relazione diatica madre-bambino, anche definita „intersoggettività

primaria‟ (Trevarthen, 1979) caratterizzata da reciprocità e sincronia nell‟interazione tra

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sé e altro. La risposta imitativa del caregiver assocerebbe alla vista del sorriso il piano

motorio per effettuarlo (Iacoboni, 2008). Così i neuroni apprenderebbero a riconoscere

le espressioni attivando contestualmente una simulazione del relativo piano motorio,

essenziale per poter provare empatia. Il fatto che autoriconoscimento e capacità di

imitazione maturino parallelamente (Asendorpf e Baudonniere, 1993) sembra suffragare

questa ipotesi. Inoltre le aree impegnate nell‟autoriconoscimento nell‟emisfero destro

sono le stesse in cui sono presenti i neuroni specchio (Uddin et al., 2006). Nel corso

dello sviluppo un contesto più ricco di stimoli interpersonali, quindi una maggiore

attitudine e competenza sociale, rende i neuroni specchio più attivi e responsivi (Pfeifer

et al., 2008).

8.2 Sistema limbico

Il sistema limbico comprende le parti profonde del telencefalo, in particolare

strutture come l‟ippocampo, sede delle memorie, l‟amigdala, centro delle emozioni, e la

corteccia del cingolo. Questo sistema sovraintende la valutazione e le risposte –

autonomiche, espressive, comportamentali, sia automatiche che apprese – a stimoli

emotigeni. Quando il sistema limbico – in particolare l‟amigdala che codifica

l‟emozione della paura (LeDoux, 2003) – è sovraeccitato l‟amigdala attiva la via

talamica, filogeneticamente più antica. La risposta da stress coinvolge la componente

simpatica del sistema nervoso autonomo e innesca dei comportamenti automatici, non

mediati dalla consapevolezza. Il collegamento dell‟amigdala con le aree corticali è

infatti più complesso e lento (ibidem) e assume un ruolo di controllo sulle elaborazioni e

le risposte operate attraverso la via talamica. La percezione di uno stimolo minaccioso –

reale o potenzialmente tale, discriminazione operata anche in base all‟esperienza

personale –, analogamente ad un interruttore che scatta, può sospendere i normali

processi di sintonizzazione e di collegamento interpersonale facendo perdere la capacità

di utilizzare l‟altro come sorgente di regolazione (Porges, 2007).

Il lavoro di integrazione delle aree limbiche stimola il senso di calma riducendo

la reattività, migliora le capacità di holding, alimenta un senso di sicurezza nei contesti

interpersonali e di gruppo (Badenoch, 2008). La possibilità di osservare in modo

consapevole la propria mente o la mente degli altri attiva processi integrativi – tra le

aree mediali della corteccia prefrontale e le regioni limbiche – capaci di creare una

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prospettiva più ampia sugli eventi e un senso di fiducia e stabilità (Badenoch e Cox,

2010), seguito spesso da un aumento del senso di compassione (Siegel, 2007).

8.3 Mirror system e mappa spaziale peripersonale

I neuroni specchio con altre aree del cervello che giocano un ruolo

nell‟imitazione, nell‟empatia e nell‟identificazione, e con altre che sovraintendono le

emozioni, la cognizione e la memoria, fanno parte di un sistema più generale chiamato

mirror system (Schermer, 2010). Questo sistema, proiettando all‟interno del cervello la

presenza degli alti (Iacoboni, 2008), è responsabile dell‟intelligenza emotiva (Goleman,

1996) e dell‟intelligenza sociale collegando individui ad un livello profondo che

precede il linguaggio e il ragionamento logico (Schermer, 2010). Le capacità di

reciproco riconoscimento e di identificazione sarebbero quindi meccanismi precoci e

precedenti lo sviluppo della coscienza, dell‟autoconsapevolezza e della cultura.

Rappresentano una dotazione che conferisce agli esseri umani la capacità di interagire e

di rispondere agli altri istaurando interazioni nei contesti interpersonali a prescindere da

un livello razionale e linguistico (ibidem). Il precoce riconoscimento precognitivo

dell‟altro come simile, operato all‟interno del mirror system, può spiegare la capacità

tipicamente umana di ingeggiare in breve tempo relazioni e formare gruppi di vario

tipo.

Mappa spaziale peripersonale. Dalle ricerche sui neuroni specchio emerge che

particolari neuroni, detti „canonici‟, „scaricano‟ quando si afferra un oggetto, come alla

semplice vista dell‟oggetto afferrabile (Iacoboni, 2008). In F4 – una zona della corteccia

adiacente quella in cui sono situati i neuroni specchio – si trovano cellule che

rispondono ai movimenti della parte superiore del corpo, alla sua stimolazione

sensoriale nonché a oggetti reali manipolabili posti a una distanza che permette di

afferrarli (ibidem). La parte dello spazio in cui stimoli visivi – costituiti da oggetti –

innescano i neuroni canonici viene chiamata campo recettivo visivo (Rizzolatti et al.,

1981a). La parte del corpo che, toccata, attiva le stesse cellule, viene chiamata campo

recettivo tattile (Rizzolatti et al., 1981b). Questi due campi sono correlati e si ritiene che

la loro combinazione crei una mappa dello spazio prossimale detta mappa spaziale

peripersonale (Iacoboni, 2008). Come accade nella corteccia motoria, in quella

somatosensoriale e nelle restanti cortecce implicate nella percezione sensoriale, in cui il

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

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corpo o delle caratteristiche degli stimoli sono codificate in modo discreto, le ricerche

lasciano supporre che in F4 sia rappresentata una mappa spaziale di azioni potenziali

eseguibili dal corpo in cui percezione e azione rappresentano un processo unitario

(ibidem).

Le ricerche di Rizzolatti e collaboratori sembrano in linea con la disposizione

che si assume in un setting in cui si utilizzano terapie di gruppo di tipo verbale, dove i

pazienti vengono posti tra loro ad una distanza che supera la „zona personale‟ di Hall

(1966), ovvero la distanza di un braccio (Berne, 1966).

8.4 Risonanza e imitazione interna

Sviluppata all‟interno del mirror system, sistema poi ampliato da Siegel (2013)

in „circuiti della risonanza‟, consiste nella sintonizzazione con gli altri e

nell‟allineamento dello stato interno con quello delle altre persone. La risonanza è il

risultato dell‟attività di differenti apparati anatomici (Fig. 4) (ibidem): 1. neuroni

specchio, che consentono di percepire lo stato interiore di un altro individuo, di imitarne

il comportamento e simularne lo stato interno; 2. insula, coinvolta nella valutazione

degli stati fisiologici interni e nella consapevolezza del Sé corporeo, detta „introcezione‟

(Craig, 2010); 3. ippocampo, organizzatore cognitivo attraverso l‟attività mnestica.

Fenomenologicamente è possibile supporre che fino a questo livello del processo di

elaborazione degli stimoli sociali possono emergere delle sensazioni sia propriocettive

attivate dalla risonanza con gli stati interni dell‟altro, sia sensazioni attivate dalle

proprie memorie implicite, quindi dei particolari pattern autonominici collegati con le

risposte emotive elicitate dall‟ambiente sociale come dalle pregresse esperienze

personali. Le informazioni elaborate all‟interno di questo processo possono incontrare

ulteriori stadi di organizzazione ed essere trasferite alla memoria esplicita e, ancora

oltre, afferire alla 4. corteccia orbitofrontale (Rolls e Grabenhorst, 2008), che coordina

livello di arousal, processi di valutazione ed elaborazioni più complesse del „pensiero

superiore‟; e alle 5. aree prefrontali mediali, che integrano informazioni sociali,

coscienza autobiografica, valutazione dei significati e coordinamento delle risposte

motorie. È a questo livello di integrazione che, probabilmente, può subentrare la

sensazione di piena consapevolezza e la possibilità di comportamento intenzionale.

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

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Ogni intervento terapeutico dovrebbe puntare al conseguimento di questo processo di

elaborazione cognitiva, quindi di integrazione neuronale.

Fonte: Siegel, 2013.

Fig. 4: Alcune componenti del „social brain‟

La risonanza implica processi psicologici e interpersonali attraverso cui gli

individui si modellano, riflettono e apprendono reciprocamente gli uni gli altri

(Schermer, 2010). Il fenomeno mette in risalto alcune considerazioni (Siegel, 2013):

permettendo di sintonizzarsi con gli altri consente di sintonizzarsi con il proprio

stato interno;

la mente ha una matrice interna dovuta ai processi cerebrali e una esterna che

scaturisce dalle relazioni sociali;

la mente è un processo creato all‟interno di processi neurofisiologici – „processo

incarnato‟ – ed esperienze relazionali – „processo relazionale‟ – capace di

regolare flussi di informazioni.

Imitazione interna o simulazione. La teoria della simulazione di Goldman

asserisce che se si vuole comprendere ciò che un‟altra persona prova in un determinato

stato o circostanza si deve immaginare di trovarsi in quello stato o circostanza. I neuroni

specchio sono il correlato neuronale dei processi di simulazione necessari alla

comprensione della mente altrui (Gallese e Goldman, 1998; Goldman, 2006). Tuttavia il

termine simulazione in ambito neurobiologico assume un significato specifico.

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L‟imitazione nella nostra specie assume un‟importanza fondamentale per la

capacità di apprendimento e di trasmissione culturale (Heidegger, 1927; Tomasello,

1999; Iacoboni, 2008), oltre che per lo sviluppo del linguaggio e della capacità di

leggere la mente altrui (Hurley e Chater, 2005). Più in particolare per imitazione interna

o simulazione si intende il processo neuronale attraverso il quale è possibile

rappresentare l‟altro, in maniera precognitiva, a partire dai suoi comportamenti

(Iacoboni, 2008) sia motori che espressivi. La simulazione consente una forma di

interazione e interdipendenza immanente tra il sé e l‟altro conducendo ad una profonda

connessione reciproca. Tale processo automatico permette di discriminare le intenzioni

altrui (Iacoboni et al., 2005) e di modellare le interazioni sociali in un incontro

condiviso che assume un senso concreto, pragmatico, esistenziale (Iacoboni, 2008) oltre

che fenomenologico. Con la simulazione, condividendo emozioni e intenzioni,

possiamo capire gli altri e, successivamente, accedere cognitivamente e in modo

intenzionale ai loro stati mentali interagendo in modo profondo con l‟altro; si tratta

quindi di un meccanismo neurobiologico radicato nella realtà sociale.

8.5 Linguaggio ed empatia

Da studi di psicologia dell‟età evolutiva emerge che capacità linguistiche e

motorie, in particolare manuali, si sviluppano di pari passo e in un impiego di strutture

gerarchicamente sempre più complesse (ibidem). Sembra inoltre che osservare azioni

manipolative dotate di struttura gerarchica implica una maggiore attività dei neuroni

specchio (Molnar-Szakacs et al., 2006). L‟area F5 in cui sono contenuti i neuroni

specchio è collocata nell‟Area di Broca: questa sovrapposizione tra aree motorie e

implicate nel linguaggio trova riscontro negli studi che hanno rilevato che all‟interno di

una conversazione si tende a imitare reciprocamente parimenti il ritmo gestuale e le

strutture sintattiche (Iacoboni, 2008). Il collegamento tra processi linguistici e motori è

confermato da deficit temporanei nell‟Area di Broca indotti con la TMS che producono

incapacità di imitazione (Heiser et al., 2003).

La „semantica incorporata‟ (emboided semantics), un recente approccio alla

linguistica, sostiene che concetti linguistici siano costruiti dal basso secondo processi

„bottom-up‟ utilizzando rappresentazioni senso-motorie a supporto (Iacoboni, 2008). I

concetti sembrano essere strettamente legati alle interazioni tra movimenti del corpo e

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materiale linguistico, quindi connessi a proprietà biomeccaniche del corpo (Glenberg,

Kaschak, 2002). Ascoltare o leggere frasi che descrivono azioni o vedere le stesse

azioni in video – manipolazioni e azioni che interessano la bocca – attiva selettivamente

corrispondenti aree motorie (Aziz-Zadeh et al., 2006). La stessa attivazione sulla

corteccia motoria avviene nel produrre o ascoltare delle sillabe (Wilson et al., 2004),

come inibire le aree motorie del parlato riduce la capacità di discriminare suoni

linguistici (Meister et al., 2007). Anche le vocalizzazioni con connotazione emotiva

attivano simulazioni motorie (Warren et al., 2006).

Nel corso del dialogo sia le parole che le azioni tendono a costituire un‟attività

coordinata e congiunta, una danza sociale, (Goodwin e Heritage, 1990) verso un

obiettivo comune. Questa reciprocità di turni, movimenti e costruzioni sintattiche alla

base delle interazioni sociali sembra facilitata dai neuroni specchio (Iacoboni, 2008). È

come se una simulazione interna, un rispecchiamento neuronale o una profonda

immedesimazione precognitiva, aiutasse a capire quello che si ascolta, che accade e,

allo stesso tempo, un meccanismo simile sembra essenziale nello stabilire legami

coesivi all‟interno di gruppi sociali (ibidem). Il ruolo dei neuroni specchio nel

linguaggio potrebbe essere di trasformare le azioni del corpo da un‟esperienza privata a

un‟esperienza sociale, condivisibile attraverso un „linguaggio incorporato‟ (ibidem).

Nella prospettiva di un linguaggio visto come comportamento sociale il

rispecchiamento di strutture sintattiche e ritmo gestuale adottato durante un‟interazione

potrebbe essere indice ed effetto di una sintonizzazione precognitiva con l‟altro e del

corso di una regolazione interpersonale.

Empatia. L‟empatia svolge un ruolo fondamentale nel condividere emozioni,

esperienze, bisogni ed obiettivi, quindi nella regolazione della vita sociale (ibidem). Il

semplice guardare volti che esprimono emozioni incrementa l‟attività dei corrispondenti

muscoli facciali in chi osserva (Dimberg, 1982). Questa imitazione motoria latente

sembra avere implicazioni anche in processi di ordine superiore ripercuotendosi sulla

capacità di percepire le emozioni altrui: ad esempio nell‟osservazione di espressioni

emozionali discriminare cambiamenti risulta più difficile avendo una matita in mezzo ai

denti (Niedenthal et al., 2005). Il collegamento tra aspetti motori e stati interni è

confermato dalla scoperta che produrre configurazioni facciali a valenza emotiva

provoca un corrispondente cambiamento fisiologico (Ekman, 1983).

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La capacità di imitare le espressioni facciali degli altri oltre ad essere una forma

di comunicazione non verbale aiuta a percepire espressioni ed emozioni altrui. L‟ipotesi

confermata dalle indagini è che dai neuroni specchio l‟attività motoria stabilisca

collegamenti con altre parti del cervello propriocettivo – insula – ed emotivo – lobo

limbico –: una simulazione interna permetterebbe di comprendere le emozioni dell‟altro

come fossero proprie in una attivazione empatica (Carr et al., 2003). Con uno sforzo

intenzionale l‟elaborazione emotiva da precoce e automatica può diventare anche

esplicita ed intenzionale. Per i circuiti responsabili della percezione del dolore sembra

accadere qualcosa di analogo: osservare una mano che si avvicina ad un ago fino ad

essere punta basta a inibire l‟attività dei muscoli implicati nel movimento osservato,

l‟inibizione è inoltre proporzionale alla stima del dolore attribuito (Avenanti et al.,

2005). Il cervello, in una simulazione totale, considera le emozioni manifestate e il

dolore alla stregua di un‟esperienza condivisa.

Anche l‟imitazione dei movimenti, posture e atteggiamenti (Chartrand e Bargh,

1999), quindi un semplice rispecchiamento fisico, sembra avere effetti sul gradimento

che si prova interagendo con l‟altro secondo una correlazione positiva. È come se una

certa similitudine esteriore e funzionale – anche probabile riflesso di stati interni –

portasse a considerare l‟altro come meno distante dal sé, quindi a sviluppare

un‟equazione „io-altro‟ in direzione di una crescente empatia. È quindi possibile

supporre che il rilievo che il cervello attribuisce alla considerazione dell‟altro abbia

implicazioni significative per il sé, come fossero „due facce della stessa medaglia‟

(Iacoboni, 2008). L‟altro e il sé sono entità co-costrite (ibidem) che si definiscono

mutualmente: in mancanza di un sé non sussistono possibilità di definire l‟altro, in

mancanza di altro non ha molto senso definire un sé. Questa interdipendenza che

permette di incontrare nell‟interazione sia l‟altro che noi stessi trova ancoraggio nei

neuroni specchio.

9. Funzionamento del gruppo come insieme

Se l‟esistenzialismo ci invita a cogliere il senso in questo mondo, nel mondo

della nostra esperienza, piuttosto che su piani metafisici e all‟infuori di noi stessi

(Heidegger, 1927; Sartre, 1943), questo senso e questa esperienza della condizione

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umana sono strettamente connessi con la realtà interpersonale e con la neurobiologia del

mirror system (Iacoboni, 2008). I neuroni specchio sembrano essere specializzati nel

comprendere la nostra condizione esistenziale e il nostro essere in relazione con gli altri

(ibidem). Come abbiamo visto facendo leva sul funzionamento del mirror system è

possibile estrarre dei principi in grado di leggere e guidare il processo gruppale. A

prescindere dalle caratteristiche peculiari del „social brain‟ (Cozolino, 2006), in questa

parte vedremo come alcuni apporti delle neuroscienze possano far luce sul

funzionamento del gruppo come insieme.

Il ricco ambiente interpersonale in cui si svolge la psicoterapia di gruppo offre ai

pazienti importanti opportunità di confronto, di interpretare reciproci ruoli di sostegno,

di scambio di emozioni e vissuti all‟interno di un ambiente sicuro e accogliente creato e

mantenuto dal terapeuta (Badenoch e Cox, 2010). In questo senso, come sostengono

anche autori come Yalom (1970) e Rogers (1970), nel gruppo la maggior parte

dell‟attività che sortisce effetti terapeutici verrebbe svolta tra i membri in un rapporto

„alla pari‟ piuttosto che direttamente dal conduttore. Lo stesso essere parte di un gruppo

– esperienza alla quale si può scegliere di contribuire più o meno attivamente ma che,

come abbiamo potuto vedere, difficilmente può lasciare impassibili – può attivare

meccanismi di per sé funzionali all‟elaborazione di un comportamento più equilibrato.

Infatti in un gruppo sono presenti differenti parti, o sistemi, che possono reciprocamente

entrare in relazione e sono: il conduttore, il singolo membro, sottogruppi, il gruppo

come insieme (Badenoch e Cox, 2010). Si parla in questo paragrafo del gruppo come

insieme.

9.1 Gruppo come spazio sicuro

Nelle fasi precoci della vita del gruppo, specie in gruppi omogenei per

composizione i cui partecipanti vengono da esperienze simili, esiste un‟alta probabilità

che l‟accesso di un membro a memorie implicite traumatiche comporti negli altri

un‟attivazione analoga (ibidem). Un modo in cui affrontare questa eventualità nei

migliori interessi del membro e del gruppo è agevolando un contatto emotivo con

l‟esperienza in corso unitamente alla presenza di un‟esperienza capace di disconfermare

quanto appreso nel passato (Alberini, 2005). Questa manovra può beneficiare di un

gruppo che abbia già sviluppato coesione (Yalom, 1970) e, allo stesso tempo, può

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rappresentare un incentivo allo sviluppo della coesione favorendo l‟identificazione dei

membri verso il gruppo (Brown, 2000). Un gruppo omogeneo in cui l‟attivazione di

particolari circuiti neurali – fenomeni di risonanza – si presenta facilmente tra i membri,

a prescindere dalla connotazione emotiva negativa o positiva, può rappresentare una

condizione vantaggiosa piuttosto che sfavorevole per il lavoro terapeutico (Badenoch e

Cox, 2010). Aspetto importante è far maturare nei membri la consapevolezza del ruolo

di spazio sicuro che può assumere il gruppo come insieme, capace di diventare per ogni

membro una potente risorsa regolativa (ibidem).

A seguito di episodi di risonanza all‟interno del gruppo possono verificarsi

fenomeni di „rimbalzo‟ fisiologico ed emotivo per cui all‟intensa attivazione viscerale di

un membro gli altri possono rispondere con una corrispondente attivazione in direzione

opposta sollecitando naturalmente risposte empatiche, calma e lo sviluppo di un

ambiente sociale accogliente (ibidem). Questo tipo di episodi fornisce un‟esperienza

ricca che combina contenimento a una profonda comprensione empatica causata dalla

similarità delle precedenti esperienze di vita (ibidem). Gli effetti a medio e lungo

termine riportati dai membri consistono nella sensazione di conservare il supporto

trovato nel gruppo anche nei momenti della vita quotidiana (ibidem; Yalom, 1970),

supporto capace di rappresentare una stabile risorsa interiore.

9.2 Gruppo come „cervello sociale‟

Come abbiamo visto dalle ricerche effettuate emergono profondi e reciproci

collegamenti tra il cervello e l‟ambiente sociale (Siegel, 2013). L‟interesse verso la

neurobiologia dei legami di attaccamento negli ultimi decenni – anche grazie alle

scoperte collegate ai neuroni specchio – sembra essersi ampliato a voler abbracciare

l‟intero arco di vita svincolandosi da una posizione predittiva del comportamento adulto

(Iacoboni, 2008). I contributi di molti autori hanno messo in evidenza da differenti

vertici di osservazione come l‟esperienza dell‟individuo sia indissolubilmente connessa

alla relazione con l‟altro. Ad un maggiore livello di astrazione rispetto le precedenti

trattazioni in questa parte si cerca di portare a compimento quanto già detto e di operare

un parallelismo tra cervello e gruppo.

Una visione della mente come processo incarnato e relazionale (Siegel, 2013)

permette di stabilire un‟equazione tra il funzionamento del „cervello sociale‟ e del

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gruppo. Il cervello come sistema complesso è un organo auto-organizzato deputato alla

continua integrazione di esperienze che, a livello neuronale, si sostanzia nel

collegamento tra differenti circuiti cerebrali (Badenoch e Cox, 2010). Il progressivo

esito di questo processo elaborativo socialmente mediato produce un‟unità armonica e

coerente che muove dalla semplicità alla complessità; all‟intero di tale sistema si

verificano incertezze quando sopraggiungono vincoli che ostacolano questo normale

flusso integrativo (Siegel, 1999). Il gruppo permette di amplificare e dialettizzare

quanto avviene nel singolo individuo rendendolo esplicito e, allo stesso tempo, consente

di normalizzare le reazioni attraverso il ruolo che gioca ogni membro.

Come nel cervello esistono neurotrasmettitori che veicolano le informazioni nel

gruppo opera il linguaggio. Per stimolare una comunicazione capace di migliorare la

flessibilità, l‟adattabilità, la coerenza, l‟energia e la stabilità di pensieri, sentimenti,

comportamenti e percezioni attraverso un flusso integrativo che possa alimentare il

cervello Siegel (2006) ha sviluppato un linguaggio basato sugli indicatori sintetizzati

nell‟acronimo FACES da riferire a pensieri, sentimenti e comportamenti, separando

quindi la persona dal processo che la vede coinvolta. I feedback basati su questo

principio – ad esempio „i tuoi pensieri sono diventati più flessibili‟ – oltre a promuovere

una maggior consapevolezza (Badenoch e Cox, 2010) separano la persona dal

comportamento rendendo il messaggio più chiaro sollevandolo da interpretazioni e

implicazioni personali.

9.3 Il gruppo come scambio

Le evidenze neurobiologiche enfatizzano che nel gruppo è presente un concetto

di scambio (Siegel, 2013) che va la di la dell‟idea di essere generosi o altruisti. Più

precisamente sussiste l‟idea di dare senza perdere quello che si è dato o del ricevere

senza portare via (Zinkin, 1996). Ciò sembra richiedere una visione peculiare di

proprietà, non come possesso personale ed esclusivo piuttosto come risorsa libera e

accessibile a tutti. In questo senso con-dividere non significa dividere ma moltiplicare.

Infatti nelle esperienze di gruppo che ogni membro può trarre maggior beneficio se tutti

i partecipanti sono aiutati ad aprirsi e a rendere pubblico ciò che appartiene ad una sfera

privata (ibidem). Se il gruppo viene ben supportato può riconoscere che non si perde

nulla nell‟esternare le esperienze interiori in quanto ciò che viene svelato rimane

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proprietà privata entrando nella storia del gruppo piuttosto che del singolo individuo.

Un simile principio di reciprocità attivo all‟interno delle dinamiche gruppali sembra

suffragato dalle ricerche sulla sintonizzazione, capace di attivare processi neuroplastici

riparativi nei circuiti della regolazione emotiva sia in chi riceve aiuto come in chi lo

offre (Schore, 2003).

9.4 Ruolo dell‟informazione

Quando un paziente apprende che il suo funzionamento disregolativo ha

motivazioni di ordine fisiologico piuttosto che caratteriale – aspetto che potrebbe

rappresentare meglio un epifenomeno dei processi neurobiologici – può considerare in

modo differente la propria persona e il proprio comportamento mostrando una maggiore

apertura alle dinamiche interne al gruppo e al cambiamento (Badenoch e Cox, 2010).

L‟instillazione di speranza come fattore terapeutico di gruppo (Yalom, 1970), oltre che

dall‟esperienza e dai progressi che si rinvengono tra i membri ad un livello relazionale

„orizzontale‟, può essere così ragionevolmente alimentata dal terapeuta stesso. Una

maggiore indulgenza e accettazione verso se stessi (self-compassion) rappresenta inoltre

un potente fattore neuroplastico (Lutz et al., 2004). Alcuni processi funzionali su cui è

possibile informare il gruppo sono (Badenoch e Cox, 2010): 1. neuroplasticità; 2.

memorie implicite; 3. risonanza dell‟attivazione autonomica; 4. rispecchiamento. Gli

effetti che possono scaturire sulla persona sono un maggiore senso di integrità, stabilità,

spontaneità e resilienza, che possono espandersi su un livello interpersonale facilitando

l‟emergere di empatia, sintonia, recettività e comprensione (compassion) (Badenoch,

2008; Siegel, 2006). Queste conoscenze, oltre a rappresentare un bagaglio di

informazioni spendibili nella vita quotidiana dei pazienti, possono operare

sincronicamente all‟interno del gruppo stesso agevolando lo sviluppo di un clima

accogliente e coesivo, quindi facilitando le singole interazioni e una processualità di

gruppo più funzionale (Badenoch e Cox, 2010). Ad esempio l‟informazione sulle

risposte autonomiche e le implicazioni che assumono sul comportamento sociale,

l‟autoregolazione e il funzionamento personale, spesso produce una maggiore

collaborazione tra i membri nel cercare di preservare il gruppo come spazio protetto

(ibidem). Questa tendenza implica di discernere uno stato di attivazione fisiologica e di

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modulare il comportamento personale, ovvero offre la possibilità di espletare

intenzionalmente un processo di autoregolazione.

9.5 Una visione integrata sul gruppo

Una visione integrata tra neurobiologia e teoria. I collegamenti tra la

neurobiologia del cervello e il comportamento sociale possono fornire una base per

illustrare alcune prospettive teoriche sul gruppo. Ad esempio le conoscenze sui neuroni

specchio possono offrire una potenziale base neurologica per le concezioni riguardanti il

gruppo come insieme, fornendo delle parziali spiegazioni (Schermer, 2010).

Nella pratica del lavoro in setting gruppale il gruppo inizia a formarsi quando un

individuo entra in contatto con un altro: è come se il gruppo stesse aspettando in

membro per „incorporarlo‟ (ibidem). La formazione del gruppo si verifica precocemente

rispetto alla possibilità di una cognizione riflessiva, cioè nella stessa modalità con cui

operano i neuroni specchio (ibidem). Lo stesso concetto di „sé di gruppo‟ (Karterud,

Stone, 2003) può essere considerato come il prodotto globale dell‟attività dei neuroni

specchio che struttura e sostanzia un‟entità emergente dal gruppo e che manifesta il

risultato dei sé individuali (Schermer, 2010).

Come sostiene Schermer (2010), se gli individui fossero creature autonome e

isolate parlare di teoria del campo (Lewin, 1951), matrice di gruppo (Foulkes, 1964) e

assunti di base (Bion, 1961), concetti che si riferiscono a sistemi umani e che

trascendono i singoli individui che li compongono, risulterebbe una forzatura. Tuttavia

gli esseri umani sono biologicamente equipaggiati a rispondere alle reciproche

similarità rendendo più facile concepirli come capaci di organizzarsi in sistemi sociali

complessi che li investono nella loro globalità. La capacità di entrare mutualmente in

sintonia attraverso la percezione e l‟azione, supportata dai neuroni specchio, predispone

gli individui a diventare elementi di unità sociali, come la diade, la famiglia, il gruppo.

Analogamente il mirror system e i relativi circuiti neuronali fungono da substrato

biologico per le interrelazioni presenti nel funzionamento del gruppo come sistema

d‟insieme. Alcune importanti concettualizzazioni sul gruppo come dimensione

sovraordinata sembrano collegarsi con la neurobiologia cerebrale. Vediamo alcuni

esempi.

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La teoria del campo di Lewin (1951) si riferisce alla tendenza di organizzazione

e di risposta in virtù di fattori che complessivamente prevalgono in un gruppo. Il

concetto di campo può essere considerato in due modi differenti, mutuati

rispettivamente all‟elaborazione percettiva e all‟elettomagnetismo: come una

configurazione globale emergente, esito finale dei processi di risonanza mediati dai

neuroni specchio; come mappa neuropsicologica che, al pari di un circutio neurale che

può coinvolgere diverse tipologie di neuroni e sistemi, riverbera nel gruppo attraverso

l‟attivazione dei neuroni specchio nei singoli individuo. A partire da collegamenti

profondi e precognitivi tra le singole menti può emergere una configurazione globale

d‟insieme che rappresenta un prodotto qualitativamente differente dalla somma delle

singole parti (Schermer, 2010). Un esempio di tale configurazione complessiva

emergente potrebbe essere la coesione (Yalom, 1970), ovvero il „collante emotivo‟ che

si sviluppa all‟interno di un gruppo e lo mantiene unito. Un‟idea che presenta delle

affinità con quella di campo può essere trovata nel pensiero di Foulkes, che la sviluppa

in una visione che offre implicazioni dinamiche e interattive.

Il concetto di matrice di Foulkes (1948) si riferisce a reti di comunicazione –

conscia e inconscia – che si instaurano tra i membri all‟interno di un gruppo,

enfatizzando la natura sociale del sé. I neuroni specchio forniscono un possibile

collegamento tra individui intesi come „punti nodali‟ di relazioni. La natura stessa dei

neuroni specchio evidenzia che il sé che costituisce la nostra individualità, come

concepito da Foulkes, abbia una natura sociale: è attraverso l‟identificazione con gli

altri che è possibile definire un senso del sé strutturato. Sono i neuroni specchio che

sovrintendono la possibilità di identificarsi con i propri simili fornendo le basi per

un‟individualità socialmente definita (Schermer, 2010) – nonché la possibilità di

conferire un senso immanente e condiviso agli eventi interpersonali, qualità che Foulkes

attribuisce alla matrice dinamica presente nei gruppi. Analoghi collegamenti emotivi e

inconsci operanti nel setting gruppale sono considerati da Bion, che intuisce e descrive

con un linguaggio quanto mai moderno, in una prospettiva forse esplicativa piuttosto

che funzionale.

Gli assunti di base di Bion (1961) rappresentano delle formazioni inconsce del

gruppo derivanti da un reciproco e precognitivo adattamento alla condizione gruppale.

Come sostiene Iacoboni (2008) i neuroni specchio permettono una rappresentazione

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intuitiva, implicita e precognitiva dell‟altro. Lo stesso concetto di sistema protomentale,

da cui hanno origine «gli stati emotivi […] che rafforzano, pervadono e, in alcune

occasioni, dominano la vita mentale del gruppo» (Bion, 1961; 108), rappresenta

«qualcosa in cui il fisico e lo psicologico […] si trovano in uno stato indifferenziato»

(ibidem; 109). Questa affermazione sembra affine alla descrizione che fa Siegel (2013)

dei neuroni specchio come neuroni multimodali capaci di sviluppare una

„rappresentazione incarnata‟ dell‟altro, cellule in cui arrivano a sovrapporsi azione e

percezione (Iacoboni, 2008).

Una visione integrata tra neurobiologia e terapia. Quando sono presenti

difetti nel maternage, eventi biografici traumatici, periodi di stress prolungato, anche il

più lieve stimolo può portare l‟individuo da una condizione di autoregolazione ad

un‟attivazione del sistema nervoso simpatico, quindi ad una condizione di

disregolazione: è su questa soglia che si svolge la terapia di gruppo, rappresentando una

risorsa capace di modificare collegamenti neuronali (Badenoch e Cox, 2010). Tale

modifica è infatti facilitata dalla presenza di un ambiente interpesonale che fornisce

supporto nel prendere contatto e consapevolezza esperienziale con memorie implicite

(Badenoch, 2008) e di relazioni interpersonali armoniche e sintonizzate (Siegel, 2006),

capaci cioè di disconfermare gli apprendimenti impliciti precoci (Toomey e Ecker,

2009). Inoltre il gruppo offre la possibilità di osservare in modo consapevole la propria

mente o la mente altrui, situazione che attiva processi integrativi capaci di creare una

prospettiva più ampia sugli eventi e un senso di maggior fiducia e stabilità (Badenoch e

Cox, 2010).

Le ricerche riguardanti la neurobiologia interpersonale (Siegel, 1999), il mirror

system (Schermer, 2010) e i circuiti della risonanza (Siegel, 2013) permettono di

comprendere come (cfr. Gantt e Badenoch, 2013):

la relazione interpersonale e gli scambi sociali siano contestualizzati nel

presente e coinvolgano gli interlocutori nella globalità del loro

funzionamento nel „qui ed ora‟;

lo stato neurofisiologico e mentale altrui vengano internalizzati a partire dai

correlati neuronali espressi attraverso il corpo e il comportamento;

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

115

attraverso la ripetizione nel tempo di esperienze interpersonali – vissute in

prima o seconda persona – queste possano creare una rappresentazione

permanente e stabile dell‟altro.

Questi aspetti che avvengono all‟interno di ogni forma di psicoterapia sono stati

sviluppati da vari autori (cfr. Badenoch, 2008; Badenoch e Cox, 2010; Gantt e

Badenoch, 2013; Siegel, 2013) con particolare riferimento alle terapie di gruppo.

Holding e memorie implicite. All‟interno di un gruppo conduttori e membri

rievocano le loro memorie implicite, particolarmente attive nei contesti relazionali, che

possono riaffiorare in ogni interazione e nell‟esperienza di gruppo nel suo complesso

(Badenoch e Cox, 2010). Comprendere le implicazioni delle memorie implicite

consente al terapeuta di osservare il comportamento dei membri con maggiore chiarezza

riuscendo a cogliere, anche attraverso l‟espressione corporea ed emozionale, le

percezioni che sembrano scollegate dal contesto nel „qui ed ora‟ della relazione

(ibidem). Cercando una risposta centrata sull‟empatia e sulla capacità di holding il

terapeuta come il gruppo possono trasmettere al membro comprensione ed accettazione

fornendo un‟esperienza disconfermante gli apprendimenti impliciti ed emotivamente

nutriente (ibidem). Infatti l‟esperienza di „riemergere‟ da una memoria dissociata e

sentirsi presenti e partecipi in uno spazio relazionale accogliente rende le memorie

implicite suscettibili di trasformazione (Ecker e Toomey, 2008). Un punto di forza del

setting gruppale è la potenzialità di far emergere e poter elaborare memorie precoci tra i

membri accrescendo le possibilità riparative (Badenoch e Cox, 2010) e, grazie

all‟azione del gruppo, poter incorporare le memorie implicite all‟interno di una

narrazione autobiografica coerente (Badenoch, 2008). Il gruppo può allora costituire un

ambiente relazionale sicuro capace di offrire una varietà di stimoli emotivi e, allo stesso

tempo, di garantire contenimento e supporto.

Il gruppo come spazio sicuro. Dalle ricerche sui neuroni specchio (Carr et al.,

2003) emerge che l‟attivazione emotiva è facilmente trasmissibile tra le persone. Per

questo motivo è importante, per il terapeuta quanto per i membri, conoscere i

meccanismi connessi con la percezione di minaccia e pericolo. Come abbiamo già visto

il sistema implicato in queste situazioni è lo stesso che regola la paura (LeDoux, 2003) e

consta di due vie, una per le risposte automatiche, una più lenta per le riesposte

intenzionali. La comprensione del funzionamento del sistema nervoso autonomo può

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IV - BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA GRUPPALITÀ

116

aiutare il terapeuta a ottenere una maggiore collaborazione e a rendere il gruppo un

rifugio sicuro per i membri: sapendo in che modo l‟attivazione del sistema nervoso

periferico influisce sulla percezione, sulla memoria e sul comportamento essi possono

progressivamente sperimentare e beneficiare degli effetti regolativi del gruppo

(Badenoch e Cox, 2010).

Le ricerche sui neuroni specchio ed i circuiti della risonanza permettono di

comprendere meglio il processo terapeutico connesso al gruppo come spazio sicuro e

fonte di regolazione: una simulazione interna dell‟altro (Siegel, 2007) che comprende

fisicità, emozioni e intenzioni (Iacoboni et al., 2005; Gallese, 2006; Goldman, 2006)

viene esperita nel „qui ed ora‟ dall‟individuo e dal gruppo. Attraverso la ripetizione è

possibile creare una rappresentazione permanente dell‟altro (Badenoch, 2008) e,

secondo alcuni autori, è possibile interiorizzare il gruppo nel suo insieme come stabile

fonte autoregolativa (Yalom, 1970; Rogers, 1970; Badenoch e Cox, 2010).

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CONCLUSIONI

117

CONCLUSIONI

L‟assunto della centralità della relazione nelle applicazioni terapeutiche (Rogers,

1957; Yalom, 1970) che Rogers sostiene affermando che non è possibile un

cambiamento nella personalità all‟infuori di una relazione, ma che prudentemente

considera un‟ipotesi passibile di smentite, trova invece assoluta conferma nelle ricerche

che hanno definito in campo neurobiologico il primato della relazione positiva sul

cambiamento personale (cfr. Gantt e Badenoch, 2013; Siegel, 2013) come catalizzatore

di fenomeni neuroplastici. Questi processi infatti sono facilitati da un ambiente

interpersonale che fornisce (Badenoch e Cox, 2010): 1. un‟opportuna attivazione

emotiva (Cozolino, 2002); 2. relazioni interpersonali armoniche e sintonizzate (Siegel,

2006); 3. supporto nel prendere contatto e consapevolezza esperienziale con memorie

implicite (Badenoch, 2008); 4. esperienze che disconfermano apprendimenti impliciti

precoci (Toomey e Ecker, 2009). Queste condizioni capaci di integrare memorie

implicite disregolative sono disponibili e quantitativamente rilevanti in un setting

terapeutico gruppale. Inoltre vantaggio strategico del setting gruppale consiste in un

effetto moltiplicativo dell‟esperienza terapeutica che, attraverso la sintonizzazione, si

realizza nel membro che riceve sostegno come in chi offre supporto (Schore, 2003).

In questo lavoro si è cercata di sviluppare l‟apertura alla dimensione

interpersonale avviata nel panorama psicologico dall‟avvento del setting di gruppo (Di

Maria e Lo Verso, 1995), apertura che oggi trova riscontro nelle ricerche condotte nel

campo delle neuroscienze. Viene fatto particolare riferimento agli studi intrapresi nel

campo della neurobiologia interpersonale sul mirror system (Schermer, 2010), il

fenomeno della risonanza (Siegel, 2013) e la neuroplasticità (Schore, 2003; Doidge,

2007; Siegel, 2013). Lo stesso modello della neurobiologia interpersonale (Siegel,

1999), che ha assunto un ruolo centrale nello sviluppo della tesi, guarda al cervello, alla

mente e alle relazioni interpersonali come tre poli di un unico sistema, sintetizzando una

sostanziale continuità e reciprocità tra fenomeni biochimico-cellulari e fenomeni

interpersonali, mediati dalla mente come anello di collegamento. In tal senso questo

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CONCLUSIONI

118

lavoro, grazie agli studi condotti da Badenoch (2008; Badenoch e Cox, 2010; Gantt e

Badenoch, 2013) e Siegel (2013) tenta di proporre una chiusura, ovvero una

integrazione, del divario tra sé e altro, tra setting diatico e gruppale.

Un atteggiamento basato su una lettura individualistica dei rapporti interumani,

visti sostanzialmente come relazioni tra mondi autoreferenziali (Di Maria e Lo Verso,

1995), sembra appartenere ad una scienza della mente di tradizione aristotelica, in cui

soggetto e oggetto sono entità distinte e separate, poste tra loro in una successione di

causalità lineare: uno scenario legato alle scienze positive e a una logica cartesiana in

cui il „cogito ergo sum‟ rappresenta la soluzione ultima di ogni dubbio metodico; in

realtà il gruppo appartiene ad una categoria di strumenti che non possono essere pensati

come esistenti indipendentemente dal loro uso (Profita e Venza, 1995). Nel gruppo e

nella psicoterapia di gruppo i primi autori a superare una simile posizione adottando una

visione essenzialmente relazionale e complessa sono stati (Schermer, 2010):

Lewin (1951) con la teoria del campo, in cui ogni fenomeno interferisce con

l‟ambiente secondo una logica di mutua reciprocità, con il concetto di

interdipendenza del destino e del compito che contraddistingue i gruppi

(Lewin, 1948), con il metodo dell‟action-research (Lewin, 1951) che

estende la ricorsività tra cause ed effetti nella prassi applicativa;

Foulkes (1948) con il concetto di matrice di gruppo, come rete di relazioni

tra individui, e di situazione totale, come approccio olistico alla

comprensione del setting;

Bion (1961) che, riconoscendo una specifica dimensione psicologica al

gruppo lo elegge sede di attivazione del sistema protomentale, ovvero spazio

«in cui il fisico e lo psicologico o mentale si trovano in uno stato

indifferenziato» (ibidem; 109).

Attraverso il lavoro di Schermer (2010) abbiamo visto come queste posizioni

teoriche di Lewin, Foulkes e Bion abbiano trovato riscontro nella natura dei neuroni

specchio, cellule multimodali con funzioni sia percettive che premotorie, capaci di

connettere tra loro persone ad un livello intuitivo, implicito e precognitivo, come se

l‟intenzione dell‟altro abitasse il proprio corpo, e la propria il corpo dell‟altro (Gallese,

2006), e capaci di colmare la distanza tra sé e l‟altro come fossero due facce della stessa

medaglia (Iacoboni, 2008). Le informazioni sul funzionamento del nostro sistema

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CONCLUSIONI

119

nervoso ci pongono di fronte all‟evidenza di dover superare un atteggiamento lineare

basato su una logica causa-effetto, operando un‟integrazione tra scienze nomotetiche e

scienze ideografiche. In questo senso, come i neuroni specchio aprono l‟individuo alla

realtà dell‟altro, la neurobiologia interpersonale apre gli indirizzi psicologici (Fulcheri,

2008) basati sul soggettivismo – gli approcci psicodinamico, fenomenologico e

funzionalista – e sull‟oggettivismo – gli approcci comportamentista ed evoluzionista –

all‟adozione di un paradigma concettuale basato sulla complessità.

In una visione olistica del gruppo terapeutico Badenoch e Cox (2010) hanno

sottolineato più volte il ruolo dell‟informazione, rendendo edotti i membri sul

funzionamento del sistema nervoso centrale e periferico. Una funzione informativa,

analogamente ad un vero e proprio consenso informato, assume importanza conferendo

ai singoli individui la possibilità di poter accedere integralmente, e non solo attraverso

una „rappresentazione incarnata‟ e precognitiva dell‟altro (Siegel, 2013), nel setting

gruppale, spazio elettivo dei processi integrativi (ibidem) che coinvolgono anche la

consapevolezza. Grazie all‟attività del mirror system (ibidem) queste semplici attività

preventive rappresentano una leva operativa essenziale facilitando nel singolo membro

il superamento di una posizione individualistica a vantaggio dell‟adozione di una

prospettiva gruppale regolata dalla mutua reciprocità. Dai meccanismi attivati dal mirror

system e dall‟azione informativa del terapeuta (Gantt e Badenoch, 2013) è possibile per

i membri sperimentare il gruppo come „luogo sicuro‟ e accogliente, capace di elicitare

uno stato di „neurocezione di sicurezza‟ (Porges, 2007) che facilita i processi di co-

regolazione interpersonale (Badenoch e Cox, 2010).

Per poter meglio comprendere come la ricerca sul gruppo terapeutico sia potuta

arrivare „fisiologicamente‟ allo stato attuale è stata intrapresa una ampia rassegna

storica a partire – se è possibile, perché ai tempi certo non poteva essere presente il

concetto di terapia di gruppo – dalla Grecia del V secolo avanti cristo (Roccioletti,

2002). Dopo i primi interventi in gruppo documentati risalenti alla Francia della fine del

XVIII secolo (Zilboorg, 1941) si è potuto arrivare alle applicazioni che inaugurano la

storia moderna della psicologia. Qui sono emerse anche esperienze che inizialmente

sono mancate di una specifica teorizzazione sul gruppo, ma che hanno fatto ricorso ad

esso per motivi contingenti. Può essere il caso di Pratt, internista che utilizza il gruppo

per finalità informative con dei pazienti tubercolotici adottando delle modalità di tipo

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CONCLUSIONI

120

essenzialmente educativo, ma scoprendo subito come il benessere psicologico riesca ad

influenzare il decorso della sintomatologia. Anche Bion, che viene incaricato di lavorare

nella Tavitsok Clinic su un gruppo di reduci di guerra, non dispone di una pregressa

conoscenza con questo tipo di setting. Questi casi tuttavia si rivelano di estremo

interesse tanto per le questioni metodologiche che teoriche che sono stati capaci di

sollevare.

In tempi più recenti, omettendo una parte notevole di sviluppi teorici e pratici

perché non strettamente collegati con i temi centrali di questa conclusione, la scena

della terapia di gruppo vede come principali protagonisti Yalom e Rogers. Per questi

autori, che appartengono al periodo della psicologia umanistica, nel gruppo la maggior

parte dell‟attività che sortisce effetti terapeutici viene svolta tra i membri in un rapporto

„alla pari‟ piuttosto che dall‟azione diretta del conduttore (Yalom, 1970; Rogers, 1970).

La letteratura in campo neurobiologico sembra in linea con questa tesi affermando che il

gruppo rappresenta un luogo in cui i membri possono offrirsi reciprocamente supporto

(Badenoch e Cox, 2010). Tuttavia queste parole non intendono relegare in una

posizione di secondo piano la persona del terapeuta, piuttosto vogliono enfatizzare la

concezione inclusiva foulkesiana che vede al leader come membro che partecipa ad un

movimento complessivo del gruppo, emergendo dallo „sfondo‟ e conducendolo solo in

caso di necessità (Profita e Venza, 1995).

Yalom (1970) in particolare prendendo in esame i fattori terapeutici di gruppo,

ovvero i meccanismi capaci di innescare un cambiamento, esplicita una sostanziale

continuità tra applicazioni terapeutiche e di „addestramento‟ possibili nel setting

gruppale. È la sua posizione a fare da spartiacque tra un periodo in cui si è fatta una

netta distinzione tra terapia e sviluppo personale, e il periodo successivo, in cui questa

distinzione è apparsa meno legata ad aspetti procedurali quanto contrattuali (Profita e

Venza, 1995). Il suo contributo permette di vedere al setting gruppale come una forma

di intervento che può avere valenza tanto terapeutica che preventiva che di promozione

del benessere. Rogers (1957) incarna sostanzialmente una posizione analoga parlando

dell‟importanza di un rapporto empatico basato sulle qualità del terapeuta,

soffermandosi in particolare sulla congruenza, la genuinità e l‟accettazione

incondizionata, aspetti fondanti dell‟approccio „non direttivo‟ e della „terapia centrata

sul cliente‟ (Rogers, 1951) che applica nei gruppi di incontro. In un contesto

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CONCLUSIONI

121

terapeutico, contraddistinto dalla domanda esplicitamente formulata piuttosto che da

modalità e tecniche utilizzate (Profita e Venza, 1995), le ricerche di Yalom sui fattori

terapeutici di gruppo permettono di focalizzare l‟attenzione su obiettivi propri della

terapia come creare coesione e stimolare l‟apprendimento interpersonale (Yalom, 1970).

Differenti dalle ricerche sul processo, che interessano i fattori terapeutici già

esposti, sono le ricerche sull‟esito, ovvero sugli effetti del trattamento. Le ricerche

sull‟efficacia della psicoterapia convergono sulla conclusione che il modello teorico sia

secondario al successo terapeutico (Lambert e Ogles, 2004) e l‟efficacia non dipenda

tanto da fattori specifici legati al modello di riferimento (Luborsky et al., 2002), quanto

da fattori trasversali alla tecnica di intervento e comuni ai vari approcci, definiti

aspecifici o comuni (Messer e Wampold, 2002). Dierick e Lietaer (2008) hanno

evidenziato l‟importanza del fattore chiamato „clima relazionale‟ (Relational Climate).

Il rapporto terapeutico, a prescindere dallo specifico paradigma, sembra essere tra le

variabili che dimostrano la maggiore efficacia terapeutica (Castonguay et al., 2006;

Norcross, 2002). Queste ricerche sembrano confermare l‟importanza del rapporto

terapeutico come ipotizzato da Rogers (1957) e dello sviluppo di un clima accogliente e

coesivo che facilita le singole interazioni e una processualità di gruppo più funzionale

(Badenoch e Cox, 2010). Come abbiamo potuto vedere relazioni interpersonali

armoniche e sintonizzate (Siegel, 2006) assumono un ruolo centrale nei fenomeni

neuropatici (Schore, 2003; Doidge, 2007; Siegel, 2013) alla base dell‟integrazione

(Siegel, 2013).

Grazie ai contributi offerti da una prospettiva neurobiologica capace di fornire

una lettura dei processi e dei fenomeni interpersonali chiara ed incoraggiante, la

considerazione del gruppo visto come luogo in cui i pazienti sperimentano nuove

modalità relazionali e relazioni interpersonali complesse permette di guardare a questo

setting come dispositivo in grado di attivare naturalmente processi che possono avere

effetti trasformativi.

L‟interessante frontiera costituita dalla neurobiologia interpersonale ha fornito

una importante chiave di lettura dei fenomeni presenti nel gruppo terapeutico tuttavia il

campo di indagine, costituito in anni recenti, resta aperto a nuovi sviluppi.

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RINGRAZIAMENTI

122

RINGRAZIAMENTI

Confrontarmi con un lavoro compilativo mi ha permesso di constatare in modo

nuovo quale sia la distanza tra la teoria e la pratica. Personalmente trovo che poter

guadagnare una posizione di maggior contatto con la realtà, con impegno e affrontando

una certa dose di apprensione, costituisca un valore aggiunto dell‟esperienza e un

privilegio di cui posso far tesoro. Credo che affrontare i miei dubbi e le mie incertezze

sia una fonte di ricchezza; un processo importante tanto più nella scelta di un percorso

di studi e, dio volendo, di vita, in cui la realtà mentale diventa metafora, chiave di

lettura, e strumento fondante l‟esperienza del reale. Nell‟ultima pagina di questo lavoro

c‟è il senso di una finitudine, di una fine, che posso esprimere solo attraverso la

gratitudine al Prof. Mario Fulcheri, che ha accolto la mia richiesta di tesi come chi è

capace di ascoltare il silenzio per creare uno spazio utile alle parole dell‟altro, alla

Prof.ssa Angela D‟Addario, che nello svolgere il suo lavoro con intrinseca cura e grande

disponibilità mi ha permesso di incontrare i miei limiti, ma offrendo sempre una mano

per superarli. Il rapporto con loro ha assunto un valore che nessuna dissertazione può

essere in grado di contenere. Ringrazio i Docenti che ho avuto modo di conoscere negli

ultimi esami, che sono stati capaci di rivolgersi alla persona che hanno avuto di fronte,

prima ancora che ad uno studente. La loro umanità mi è stata e rimarrà di esempio.

Ringrazio il personale dei Servizi Didattici, della Segreteria Unificata, delle Biblioteche,

per il puntuale supporto e la gentilezza, personale che forse con delle semplici risposte è

stato per me un grande aiuto, oltre che un sicuro riferimento. Ringrazio gli autori che ho

conosciuto negli studi e attraverso questa tesi, perché il loro lavoro mi ha permesso di

incontrare il loro pensiero e, così, di ampliare il mio. Ringrazio la mia famiglia – Lindo,

Maria, Lucia – che mi ha agevolato e stimolato nel potermi concedere questa

esperienza.

A tutte queste persone – che non lascio alle spalle ma che, per poter guardare al

futuro, accolgo nella mia esperienza – va il mio pensiero e la mia gratitudine.

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