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La normalità della maternità nella valutazione delle prestazioni Tommaso M. Fabbri Fondazione Marco Biagi - Università di Modena e Reggio Emilia

"Valutazione delle prestazioni lavorative e maternità" - Paper Prof. Tommaso Fabbri - Fondazione Marco Biagi

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La normalità della maternità nella valutazione delle prestazioni

Tommaso M. Fabbri

Fondazione Marco Biagi - Università di Modena e Reggio Emilia

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1. Introduzione

La conciliazione vita-lavoro è un ambito problematico complesso, in cui si distinguono analiticamente

almeno due piani: il piano dei valori e quello degli strumenti. I valori in gioco sono la parità di genere di

fronte alle opportunità professionali, la tutela della famiglia dalle eccessive richieste o ingerenze sulle

donne della sfera professionale, la parità di importanza delle espressioni lavorative e “non lavorative” della

persona (de-femminizzazione e de-familizzazione della questione conciliazione). Gli strumenti sono i

dispositivi regolativi, siano essi di matrice giuridica o di matrice organizzativa, con cui quei valori sono

perseguiti.

La razionalità di una qualsivoglia azione di conciliazione, quale la stesura di un dispositivo giuridico o la

progettazione di un dispositivo organizzativo, in quanto azione regolativa finalizzata al perseguimento di un

valore-obiettivo, coincide con la strumentalità sostanziale dell’azione stessa rispetto al valore-obiettivo, che

deve pertanto essere definito chiaramente e univocamente. Un dispositivo giuridico o organizzativo

concepito e progettato per “proteggere” la famiglia potrebbe ad esempio rivelarsi poco razionale e dunque

debolmente strumentale rispetto al valore-obiettivo della parità di genere, o viceversa.

Una ricognizione sommaria allo “stato dell’arte” della conciliazione vita-lavoro in Europa e in Italia, oltre le

affermazioni di principio e/o a carattere generale, restituisce un quadro di eterogeneità sia negli

orientamenti valoriali sia, conseguentemente, nelle strumentazioni operative, così che la sequenza ideale

che va dagli indirizzi comunitari, alle leggi nazionali, alle leggi regionali e, infine, alle applicazioni aziendali,

più o meno legittimate o intermediate dalle parti sociali, difetta a volte di coerenza interna, sovente in

favore di un sincretismo teorico e metodologico che può pregiudicare la razionalità sostanziale degli sforzi

conciliativi.

A ciò contribuisce la frammentazione della “questione conciliazione” sotto diverse etichette – CSR, Work-

Life Balance, Welfare Aziendale, SHRM, Benessere Organizzativo, Quality of Working Life, disciplina anti-

discriminatoria … - spesso riconducibili a precisi e distinti ambiti disciplinari, ciascuno con la propria

cassetta degli attrezzi e ciascuno con le proprie ambizioni “egemoniche”.

Per aumentare l’efficacia degli investimenti pubblici, ma anche privati, in materia di conciliazione, quelli in

essere e quelli che potranno venire, sono quindi auspicabili due passaggi: una riflessione essenzialmente

politica che possa incrementare la precisione e la coerenza regolativa tra i livelli comunitario, nazionale e

regionale, e una riflessione essenzialmente tecnica, che possa incrementare la razionalità giocoforza

interdisciplinare dei dispositivi di conciliazione disponibili e progettabili.

Ciò premesso, in quanto elemento di consapevolezza risultante dalle analisi e dagli approfondimenti teorici

ed empirici condotti nel corso del progetto N.Or.Ma.Le, nel prosieguo si affronta un problema

deliberatamente circoscritto in coerenza agli obiettivi del Progetto che è quello del rapporto tra valutazione

della prestazione lavorativa e maternità. La domanda cui cercherò di rispondere è come un sistema di

valutazione delle prestazioni lavorative possa (se già presente in azienda) o potrebbe (se non presente)

incorporare la maternità delle lavoratrici come “normale” fase della vita professionale.

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2. La valutazione delle prestazioni

La valutazione delle prestazioni individuali è il processo decisionale angolare della gestione delle risorse

umane in quanto informa le scelte di dinamica retributiva (fissa e variabile), di formazione e sviluppo

professionale, di mobilità orizzontale e verticale (carriera).

Idealmente, e spesso anche praticamente, la valutazione della prestazione individuale fa parte di un più

ampio sistema di performance management che, data la strategia aziendale, formalizza gli obiettivi di

performance di periodo (generalmente l’anno contabile o esercizio) delle diverse unità organizzative

aziendali, dai livelli più alti a quelli più bassi, e da questi deriva piani/obiettivi di performance/prestazione di

periodo delle singole persone che afferiscono alle unità organizzative. Idealmente, e spesso anche

praticamente, il sistema di performance management si innesta su un sistema formalizzato di posizioni (job

description) gerarchizzate (job grading) cui sono associate una struttura retributiva, ossia una sequenza di

scaglioni retributivi corrispondenti ai diversi grade, ed una dinamica retributiva e di carriera, ossia delle

regole if-then formalizzate che determinano gli incrementi retributivi e i passaggi di grade/scaglione.

Il concetto di prestazione si può declinare in due modi: come risultati e come comportamenti.

I risultati sono l’esito quantitativo di una certa attività e sono indicati e possibili con riferimento a quelle

posizioni o ruoli rispetto alle quali è possibile stabilire una relazione relativamente certa tra sforzo profuso

e “quantità prodotte”; esemplare è il dirigente commerciale valutato sulla base dell’incremento del

fatturato o del miglioramento della marginalità dei prodotti venduti. Gli strumenti di valutazione della

prestazione sono in questo caso delle schede personali che fissano – generalmente come esito di una

negoziazione tra capo e collaboratore – i risultati quantitativi attesi nel periodo relativamente ad uno o più

key performance indicators, e sulle quali vengono riportati, con periodicità infra-annuale e infine annuale, i

risultati effettivamente conseguiti. Alla misura del raggiungimento (in difetto o in eccesso) dei risultati

attesi sono associati proporzionalmente dei premi (tipica è la componente variabile della retribuzione come

percentuale della RAL).

I comportamenti1 sono la manifestazione in itinere del proprio modo di lavorare e sono indicati e necessari

con riferimento a quelle posizioni alle quali è difficile o impossibile associare a priori risultati quantitativi

ovvero la cui attività non genera risultati quantitativi facilmente rilevabili e misurabili e ad essa riconducibili

in maniera stringente. Gli strumenti di valutazione della prestazione sono in questo caso delle schede

(rating scales) elaborate dalla direzione del personale per aggregati di dipendenti (ruoli, qualifiche, famiglie

professionali) che riportano le dimensioni di prestazione rilevanti (ad esempio competenza tecnica,

capacità relazionale, capacità di iniziativa autonoma, attitudine a lavorare in gruppo…) sovente espresse in

forma di comportamento appunto (behaviourally anchored rating scales; ad esempio, nel caso della

dimensione “capacità di iniziativa”, l’item della scheda di valutazione è il collaboratore “risolve problemi

inaspettati senza ricorrere al superiore diretto”) e rispetto alle quali il valutatore esprime un giudizio lungo

una scala likert (ad esempio, mai, qualche volta, spesso, sempre).

1 Dalla seconda metà degli anni Novanta il termine “competenze” è entrato prepotentemente nella riflessione e nella

prassi della gestione delle risorse umane, senza tuttavia modificarne i principi e le logiche di fondo (si veda in

proposito F.Maraschini, Gestire le competenze: perché e come, Giappichelli, 2004; T.M.Fabbri, Y.Curzi, Gestione delle

risorse umane e valorizzazione delle competenze, in R.Albano, M.Dellavalle, Organizzare il servizio sociale, Franco

Angeli, 2013). Da allora, le dimensioni della prestazione individuale sono generalmente espresse come competenze

necessarie per compiere un buon lavoro in quel job e quindi tradotte in modalità comportamentale negli item della

scheda di valutazione.

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Per i non addetti ai lavori, complice certa manualistica gestionale tanto diffusa quanto semplicistica, la

valutazione della prestazione è un processo decisionale oggettivo che commisura incentivi, monetari e non,

al merito del singolo lavoratore/trice. In realtà, “la maggior parte delle ricerche sulla valutazione della

prestazione si prefiggono di capire perché le valutazioni sono così fallaci” (K.R.Murphy, J.N.Cleveland,

Understanding performance appraisal, Sage, 1995, p.380) ovvero perché i giudizi forniti dai valutatori sono

così distorti o imprecisi o infondati da misconoscere, nel bene e nel male, l’effettivo contributo lavorativo

fornito, con la conseguenza di generare pregiudizi e iniquità nell’assegnazione degli incentivi.

Dagli anni Sessanta ad oggi, la ricerca ha indicato tre possibili cause della fallacia valutativa.

La prima è che essa sia riconducibile alla qualità dello strumento di misurazione e quindi al formato della

scala di giudizio. Questa prima ipotesi è stata seriamente screditata nel 1980 quando Landy e Farr

(Performance Rating, Psychological Bulletin, n° 87/1980), a seguito di un’analisi estensiva della ricerca

disponibile, concludevano che il formato non ha effetti rilevanti sulla qualità della valutazione e che, quindi,

non c’è un formato – leggi: uno strumento di valutazione – significativamente migliore degli altri.

Da allora l’attenzione si è spostata su una seconda e alternativa causa della fallacia valutativa, e cioè sui

processi cognitivi messi in atto dai valutatori in sede di valutazione. Sulla scorta degli sviluppi della

psicologia cognitiva, l’idea è che i valutatori sono soggetti limitatamente razionali, che non possiedono

tutte le informazioni rilevanti per emettere un giudizio (si pensi al problema dell’osservabilità dell’operato

dei propri collaboratori da parte di un dirigente che ne abbia molti e spazialmente dislocati) e che non

dispongono del tempo e delle capacità computazionali necessarie a processare le informazioni disponibili

nella maniera necessaria ad emettere un giudizio accurato; ciò motiva il ricorso a procedure decisionali

semplificate, definite euristiche cognitive, che operano inferenzialmente sulla base di alcuni elementi

informativi per così dire indiziari che vengono completati attraverso la memoria personale (in particolare

attraverso le strutture mnemoniche quali schema, scripts, exemplars, stereotypes…). In T.M.Fabbri (2001;

La valutazione della prestazione: limiti cognitivi e giochi di potere nella valutazione della prestazione,

Sviluppo&Organizzazione n.183), si mostra come i principali errori di valutazione (rating errors) individuati

in letteratura siano effettivamente riconducibili all’operare delle principali euristiche cognitive

(rappresentatività, disponibilità, ancoraggio e aggiustamento) e si illustrano i principali espedienti, radicati

nella behavioral decision theory, con cui è possibile limitare il loro potenziale distorsivo in sede di

valutazione delle prestazioni.

Una terza ipotesi interpretativa della fallacia delle valutazioni, sostenuta empiricamente per la prima volta

nel contributo di Longenecker, Sims & Gioia (1987; Behind the mask: the politics of employee appraisal, The

Academy of Management Executive, Vol. 1) è che il valutatore fornisca valutazioni inaccurate dei propri

subordinati deliberatamente, e non invece inintenzionalmente a causa dei propri limiti cognitivi. Una

discussione realistica sulla valutazione delle prestazioni non può, secondo gli autori, trascurare il fatto che

le imprese sono anche entità politiche dove, in merito ad ogni rilevante decisione organizzativa, gli attori

coinvolti agiscono per conservare o per migliorare la propria posizione ed i propri interessi; la valutazione

delle prestazioni rientra fra queste decisioni e pertanto è influenzata da comportamenti politici, cioè

deliberatamente finalizzati a perseguire propri interessi nei confronti degli altri. Sulla base di un’indagine

empirica condotta su sessanta dirigenti di sette imprese di grandi dimensioni gli autori concludono che due

degli errori tipici di valutazione messi in luce dalla ricerca cognitivista, indulgenza e severità, non sono in

realtà errori, bensì azioni intenzionali che aiutano a gestire il personale più efficacemente. Gli errori di

valutazione possono essere quindi re-interpretati, legittimamente, come commission invece che come

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omission (Cleveland & Murphy, Analyzing performance appraisal as goal-directed behavior, Research in

Personnel and Human Resources Management, JAI Press, Vol. 10/1992, p.122): i valutatori sono sì decisori

limitatamente razionali ma anche soggetti portatori di interessi specifici, solo in parte coincidenti con quelli

dei valutati e della Direzione del Personale. Nella realtà, si sostiene, il processo di valutazione coinvolge tre

attori organizzativi – il valutatore, il valutato e la Direzione del Personale – per cui la valutazione come esito

decisionale emana dalla specifica integrazione strategica che essi realizzano nel processo. I managers-

valutatori intervistati, ad esempio, dichiarano che diversi obiettivi possono suggerire una deliberata

distorsione verso il basso delle valutazioni: dare una lezione ad un subordinato deviante, richiamare un

dipendente su livelli di prestazione a lui possibili, accelerare un licenziamento o le dimissioni. Dal canto suo,

invece, la Direzione del Personale può utilizzare la valutazione della prestazione come uno strumento per

valutare il valutatore o per negoziare con le rappresentanze sindacali e per agire sulle relazioni interne. Il

valutato, infine, può agire nel processo di valutazione mettendo in atto comportamenti in grado di

influenzare il giudizio del valutatore o può utilizzare il momento valutativo come un’opportunità

relazionale. Ecco che, con una chiave di lettura strategica, la valutazione della prestazione è un processo

decisionale collettivo in cui più soggetti, con differenti basi di potere e mossi da interessi differenti,

agiscono in maniera strategicamente orientata e reciprocamente influenzabile.

In sostanza, la valutazione delle prestazioni “accurata" incontra due importanti ostacoli nella pratica: la

fallacia inconsapevole del valutatore, in quanto attore cognitivamente limitato; la fallacia deliberata del

valutatore, in quanto attore organizzativo strategicamente orientato. Con riferimento alla prima

limitazione, esistono interventi concreti capaci di mitigare le distorsioni di giudizio generate dal ricorso a

modalità decisionali euristiche da parte del valutatore. Con riferimento alla seconda limitazione si tratta di

riconoscere che il nucleo problematico della valutazione della prestazione non è lo strumento di valutazione

bensì il processo di sviluppo ed implementazione dello stesso. A questo proposito è bene tenere presente

che diverse ipotesi di progettazione e diffusione dello strumento comportano gradi diversi di

coinvolgimento dell’organizzazione e quindi distribuzioni di responsabilità differenziate. La decisione, ad

esempio, di sviluppare lo strumento secondo modalità partecipate, e la decisione di diffonderlo fino ai livelli

bassi della gerarchia, potrebbero stemperare la conflittualità intorno allo strumento: la riflessione

sull’equità organizzativa evidenzia infatti che il livello di equità percepita da un soggetto in merito ad una

decisione che lo riguarda è direttamente proporzionale al livello di partecipazione e di controllo che il

soggetto ha sul processo che porta a quella decisione (equità procedurale); pertanto, in ogni azione e

decisione che un’azienda assume relativamente alla valutazione delle prestazioni è presente un messaggio

in merito al tipo di relazione che essa intende stabilire o mantenere con i soggetti coinvolti, valutatori e

valutati. In termini generali e conclusivi, se si definisce “buono” quel sistema di valutazione che produce le

informazioni e supporta efficacemente le decisioni per le quali è stato sviluppato, la progettazione e

l'implementazione di un buon sistema di valutazione delle prestazioni impone l'individuazione di uno

strumento idoneo, la correzione delle distorsioni che i valutatori introducono, in quanto decisori

limitatamente razionali, e la gestione delle dinamiche strategiche e di potere che caratterizzano

l'organizzazione, e quindi la negoziazione delle diverse istanze di cui i valutatori e i valutati, o le loro

rappresentanze sindacali, sono portatori.

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3. Valutazione delle prestazioni e maternità

Una sintetica introduzione alla valutazione della prestazione, come quella condotta nel paragrafo

precedente, dovrebbe a mio avviso bastare per sgombrare il campo dalle derive semplicistiche, talvolta

promosse dalla consulenza e sovente assecondate dal policy maker, che fanno coincidere la soluzione del

problema con l’individuazione di uno strumento, anche solo in forma di mero prototipo con un nome

accattivante. Un atteggiamento questo orgogliosamente “pratico” e fatalmente dimentico che la

distinzione tra teoria e pratica è analitica, non empirica (Kant, 1793, Sul detto comune “Questo può essere

giusto in teoria ma non vale per la pratica”, in Scritti Politici, Utet, Torino, 2010) così che l’efficacia di uno

strumento è tutt’uno con la qualità della teoria che incorpora, e viceversa.

Ai presenti fini: non esiste un modello o strumento di valutazione della prestazione per la parità di genere,

e più in particolare per la tutela della maternità, se con ciò si intende un modello o strumento di per sé

capace di prevenire o evitare che la lavoratrice in maternità venga in qualche modo o misura discriminata

rispetto alla sua qualità e alle sue ambizioni professionali. Nessuno strumento infatti, di per sé, è capace di

prevenire le distorsioni del giudizio cui è soggetto il valutatore – tra le quali vanno certo annoverati i

pregiudizi di genere – né di prevenire un utilizzo deliberatamente distorto da parte dello stesso valutatore.

È sempre possibile, invece, (ri)progettare, implementare e utilizzare uno strumento di valutazione della

prestazione in modo che non discrimini le donne in maternità e quindi non pregiudichi le legittime

ambizioni femminili di conciliare la formazione e lo sviluppo di una famiglia con lo sviluppo e l’affermazione

professionale.

In tal senso, sono da distinguere le situazioni aziendali già dotate di un sistema di valutazione delle

prestazioni da quelle che invece ne sono sprovviste.

Per le aziende che ne sono sprovviste, si tratta preventivamente di comprendere le esigenze che il sistema

di valutazione potrebbe soddisfare. In letteratura si è soliti distinguere tra esigenze di controllo dei

comportamenti/risultati da esigenze di sviluppo delle professionalità e quindi tra sistemi di valutazione

associati a ricompense monetarie e sistemi di valutazione associati a percorsi formativi e di sviluppo. A

questo proposito va segnalato come una parte considerevole degli esperti ritenga le due esigenze

difficilmente conciliabili e veda quindi criticamente quei sistemi che ambiscano a soddisfarle

congiuntamente. Inoltre, è bene sapere che la relazione tra sistemi di valutazione delle prestazioni e

performance dell’impresa è controversa, sia sul piano teorico che su quello empirico.

Sul piano teorico, interi filoni di riflessione manageriale (a partire da Mc Gregor, 1960, The Human Side of

the Enterprise) affermano l’inopportunità del performance appraisal in quanto esso impatterebbe

negativamente sulla motivazione al lavoro e quindi sulla disposizione delle persone a esprimere nel lavoro

le proprie qualità migliori. Sul piano empirico, evidenze recenti (Schneider et al., Which Comes First:

Employee Attitudes or Organizational Financial and Market Performance?, Journal of Applied

Psychology, n.5/2003) attesterebbero che le imprese che più investono in sistemi di gestione delle risorse

umane sofisticati, tra i quali si annovera il performance management e quindi la valutazione delle

prestazioni, sono quelle che hanno migliori performance economico-finanziarie, e non viceversa (come

invece assume il filone oggi prevalente dello Strategic Human Resource Management).

Alcune imprese che hanno partecipato al progetto Normale non hanno un sistema di valutazione delle

prestazioni né si sono dichiarate interessate a introdurlo, e ciò sulla base di valutazioni “organizzative” assai

ragionevoli: ad esempio, due soli livelli gerarchici, e quindi assenza di veri e propri percorsi di carriera,

minimi differenziali retributivi tra i due livelli e indisponibilità di risorse economiche significative da allocare

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a forme di incentivazione. In queste condizioni l’investimento nella progettazione e implementazione di un

sistema di valutazione delle prestazioni sembrerebbe eccedere i benefici che ne potrebbero scaturire. In

queste condizioni, lavorare sulla “normalità della maternità” significa allora lavorare sulle innumerevoli

scelte organizzative, diverse da quelle relative alla retribuzione e alla carriera, che pure impattano sul

rapporto tra la maternità e l’attività lavorativa.

Alcune imprese che hanno partecipato al progetto Normale non hanno un sistema di valutazione delle

prestazioni ma si sono dichiarate interessate a introdurlo. In questo caso si tratta di progettare strumento e

processo di valutazione prefigurandone il potenziale discriminante rispetto alla maternità.

L’analisi del potenziale discriminante, sia essa preventiva o riferita a un sistema di valutazione già in uso,

può utilmente avvalersi dei seguenti criteri:

a) tempo e comportamenti

Se la prestazione è intesa come comportamenti/competenze, lo strumento è in sé potenzialmente

neutrale rispetto al tempo di lavoro: un valutatore potrà valutare positivamente la dimensione di

prestazione “capacità di iniziativa autonoma” a prescindere dal fatto che il valutato abbia lavorato

l’intero esercizio o una sua porzione (ad esempio perché in maternità). Se è vero che nell’arco di 12

mesi si hanno maggiori opportunità di esibire “capacità di iniziativa autonoma” è altrettanto vero

che nell’arco di, ad esempio, solo 4 mesi bastano poche “iniziative autonome” per indurre nel

valutatore un giudizio positivo. Ciò su cui bisogna intervenire è quindi il processo di valutazione,

principalmente fornendo istruzioni ai valutatori affinché esprimano effettivamente un giudizio

neutrale rispetto al tempo di lavoro (esempio: il periodo di osservazione utile ai fini della

valutazione della prestazione riferita all’esercizio coincide col tempo di lavoro effettivo del valutato

nel corso dell’esercizio). In tal senso potrebbe essere utile coordinare il momento della valutazione

con il periodo di presenza effettiva, così da mitigare gli effetti distorsivi inconsapevoli sopra

accennati.

b) tempo e risultati

Se la prestazione è intesa come risultati quantitativi, lo strumento è in sé potenzialmente

discriminante rispetto al tempo di lavoro e ciò per due ragioni: da un lato i risultati attesi di periodo

sono generalmente tarati sulla presenza piena a processi di lavoro cronologicamente continui;

dall’altro, tra la profusione di uno sforzo lavorativo e la concretizzazione formale di risultati ad esso

associabili intercorre generalmente un lasso temporale anche di alcuni mesi, così che assentarsi per

maternità comporterebbe il mancato riconoscimento di tutti gli sforzi che all’atto del congedo non

si sono ancora concretizzati in risultati. In questi casi si tratta allora di procedere in due direzioni

possibili: scollegare la variabilità retributiva (fissa e variabile) dal tempo di lavoro, parametrizzando i

risultati conseguiti (ovvero riportando a base annua quanto conseguito nei mesi di effettiva

attività)2, oppure definire obiettivi e indicatori di risultato ad hoc, cioè tarati sui tempi e sulle

condizioni di lavoro concrete della lavoratrice in maternità (ciò richiede ovviamente una vera e

propria “gestione” della maternità, come appunto sperimentato nel progetto N.Or.Ma.Le). Obiettivi

e indicatori di risultato possono essere definiti ad hoc sia in quantità/entità (operando una

2 È in questo modo che un’azienda partecipante al progetto, dotata di un sistema di valutazione della prestazione, ha

potuto erogare la componente variabile della retribuzione a una sua dirigente in maternità.

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parametrizzazione previa) sia in qualità: la condizione di maternità offre non di rado l’opportunità,

prevista dalla disciplina lavoristica delle mansioni, di riconfigurare temporaneamente i contenuti

del lavoro di una persona in maniera gradita sia all’impresa sia alla persona stessa, in ragione delle

particolari condizioni fisiche e psicologiche. L’adattamento della mansione alla condizione di

maternità comporta un lavoro aggiuntivo di “gestione” della maternità ma promette certamente

benefici peculiari, in quanto inclusivi del benessere della lavoratrice, che possono essere considerati

in una contabilità di maternità come quella sperimentalmente elaborata nel progetto N.Or.Ma.Le.

4. Considerazioni conclusive

La valutazione delle prestazioni lavorative è un dispositivo organizzativo finalizzato a regolare il rapporto

incentivi/contributi. L’assenza di un sistema di valutazione delle prestazioni formalizzato non impedisce un

trattamento “conciliativo” della maternità. La presenza di un tale sistema genera, potenzialmente, sia

effetti discriminatori sia effetti antidiscriminatori. Dei primi si è detto poc’anzi; quanto ai secondi, si ritiene

che l’esplicitazione e la pubblicizzazione a livello aziendale dell’oggetto e del funzionamento del rapporto

incentivi/contributi possa contribuire a togliere il trattamento della maternità dall’alveo dell’informalità,

facilmente caratterizzato da retaggi culturali e pratiche tradizionali pregiudizievoli. Si tratta, va ribadito, di

effetti solo potenziali, il cui prodursi o meno dipende dalla consapevolezza organizzativa dei soggetti

coinvolti ovvero dalla loro capacità di presidiare la coerenza tra le soluzioni tecniche e gli obiettivi

perseguiti.

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