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InIziativa inserita nell’ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da: VENERDI’ 22 GIUGNO 2012 Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA ATTI DEL CONVEGNO Elisabetta Donati Sociologa e ricercatrice. Laureata all’Università di Trento, insegna Sociologia della Famiglia all’Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze Politiche. Dal 1993 è responsabile dell’area Ricerche della società “Pari e Dispari”, un’impresa femminile leader nella progettazione di azioni positive e in indagini per la sperimentazione di politiche di conciliazione dei tempi di vita. E’ stata presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Brescia. E’ presidente di un consultorio familiare accreditato. Ha pubblicato nel 2008 “Nuovi cinquantenni e secondi cinquant’anni. Donne e uomini adulti in transizione verso nuove età”. In corso di pubblicazione, per “Il Mulino”, un saggio sulle generazioni e sugli scambi familiari. Grazie molte dell’invito, che è scaturito da un convegno nazionale delle Acli a cui son stata invitata nell’aprile di quest’anno e che metteva proprio a fuoco il tema dei mutamenti delle famiglie. E siccome all’epoca se ne parlava al plurale, mi hanno convinto anche a venire qui poiché io, venendo da una scuola di pensiero che fa riferimenti agli studi sulla famiglia di Chiara Saraceno, quando sento la parola “famiglia” declinata al singolare mi viene un po’ l’orticaria ed allo stesso modo quando sento invece parlare di “famiglia” declinata al plurale mi sembra più rispettoso di quella che è effettivamente la realtà. Quindi son contenta di essere qui e di poter ragionare con voi e presentarvi alcuni lavori che ci hanno visti coinvolti come università. Il primo è uno studio comparativo proprio sul tema dell’analisi di persone in fasi della vita molto complesse. La prima quando si hanno figli piccoli e i genitori hanno un lavoro non standard e quindi con penuria di tempo da dedicare al lavoro di cura e la fatica nel tenere insieme mondi altrettanto importanti nella loro visione e nelle priorità della vita. L’altra invece riguarda il ruolo del care-giver , quindi uomini-donne adulti ma soprattutto donne adulte che si occupano dei genitori nel momento in cui non sono più autosufficienti e li accompagnano nel percorso più o meno lungo verso la fine dell’esistenza. Il secondo apporto che vorrei mettere a disposizione oggi in questo incontro è un progetto che sempre come Università di Torino, in questo caso proprio come polo distaccato di Biella, grazie alla sensibilità del direttore prof. Silvia Cantoni che ha voluto essere parte di un progetto europeo con altri partner di altri 6 stati che riguarda il tema del maltrattamento nei confronti delle donne anziane. Temi che si intrecciano e si intersecano, perché il fenomeno dell’invecchiamento si trascina dietro moltissimi aspetti di cambiamento. Noi proveremo a metterne a fuoco alcuni, a partire da quelli che sono i risultati di questi due lavori di ricerca. Il primo si è concluso ed è già all’interno di una pubblicazione de “Il Mulino”, l’altro invece dura due anni e si concluderà l’anno prossimo.

VENERDI’ 22 GIUGNO 2012 - Acli...consultorio familiare accreditato. Ha pubblicato nel 2008 “Nuovi cinquantenni e secondi cinquant’anni. Donne e uomini adulti in transizione verso

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InIziativa inserita nell’ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da:

VENERDI’ 22 GIUGNO 2012

Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA

ATTI DEL CONVEGNO

Elisabetta Donati

Sociologa e ricercatrice. Laureata all’Università di Trento, insegna Sociologia della Famiglia all’Università

degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze Politiche. Dal 1993 è responsabile dell’area Ricerche della società

“Pari e Dispari”, un’impresa femminile leader nella progettazione di azioni positive e in indagini per la

sperimentazione di politiche di conciliazione dei tempi di vita.

E’ stata presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Brescia. E’ presidente di un

consultorio familiare accreditato.

Ha pubblicato nel 2008 “Nuovi cinquantenni e secondi cinquant’anni. Donne e uomini adulti in transizione

verso nuove età”. In corso di pubblicazione, per “Il Mulino”, un saggio sulle generazioni e sugli scambi

familiari.

Grazie molte dell’invito, che è scaturito da un convegno nazionale delle Acli a cui son stata invitata

nell’aprile di quest’anno e che metteva proprio a fuoco il tema dei mutamenti delle famiglie. E siccome

all’epoca se ne parlava al plurale, mi hanno convinto anche a venire qui poiché io, venendo da una scuola di

pensiero che fa riferimenti agli studi sulla famiglia di Chiara Saraceno, quando sento la parola “famiglia”

declinata al singolare mi viene un po’ l’orticaria ed allo stesso modo quando sento invece parlare di

“famiglia” declinata al plurale mi sembra più rispettoso di quella che è effettivamente la realtà. Quindi son

contenta di essere qui e di poter ragionare con voi e presentarvi alcuni lavori che ci hanno visti coinvolti

come università.

Il primo è uno studio comparativo proprio sul tema dell’analisi di persone in fasi della vita molto complesse.

La prima quando si hanno figli piccoli e i genitori hanno un lavoro non standard e quindi con penuria di

tempo da dedicare al lavoro di cura e la fatica nel tenere insieme mondi altrettanto importanti nella loro

visione e nelle priorità della vita. L’altra invece riguarda il ruolo del care-giver , quindi uomini-donne adulti

ma soprattutto donne adulte che si occupano dei genitori nel momento in cui non sono più autosufficienti e

li accompagnano nel percorso più o meno lungo verso la fine dell’esistenza.

Il secondo apporto che vorrei mettere a disposizione oggi in questo incontro è un progetto che sempre

come Università di Torino, in questo caso proprio come polo distaccato di Biella, grazie alla sensibilità del

direttore prof. Silvia Cantoni che ha voluto essere parte di un progetto europeo con altri partner di altri 6

stati che riguarda il tema del maltrattamento nei confronti delle donne anziane. Temi che si intrecciano e si

intersecano, perché il fenomeno dell’invecchiamento si trascina dietro moltissimi aspetti di cambiamento.

Noi proveremo a metterne a fuoco alcuni, a partire da quelli che sono i risultati di questi due lavori di

ricerca.

Il primo si è concluso ed è già all’interno di una pubblicazione de “Il Mulino”, l’altro invece dura due anni e

si concluderà l’anno prossimo.

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VENERDI’ 22 GIUGNO 2012

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Proverò a dar conto di alcuni delle conseguenze del processo di invecchiamento che si presenta con due

caratteristiche di fondo: è strutturale ed è permanente. Quindi significa che stiamo ragionando di qualcosa

che non cambierà domani ma che è frutto di processi che si sono via via verificati e condensati nel tempo.

Questo processo di invecchiamento sta dentro ad un più generale processo di cambiamento che chiamiamo

“seconda transizione demografica”. Cosa vuol dire ? Vuol dire innanzitutto una diminuzione dei matrimoni.

il nostro Paese, nonostante abbia un’alta tradizione nel matrimonio, ha assistito negli ultimi 30 anni ad una

drastica diminuzione di persone che scelgono di sposarsi, anche se ciò non significa che non ci siano

persone che scelgono di vivere insieme e di assumersi responsabilità reciproche, seppur in forme diverse.

Aumentano quindi le convivenze, aumentano i divorzi, aumentano i bambini nati fuori dal matrimonio. Per

cui si sommiamo due fatti: il primo che negli ultimi 10 anni c’è stato un aumento delle aspettative di vita ed

il secondo che, nel mentre si allunga la vita, si vengono a determinare dei fenomeni che indeboliscono i

rapporti familiari. Due fatti molto importanti perché l’invecchiamento cambia non solo la vita delle persone

ma anche le reti parentali, ridisegnando la mappa dei rapporti tra le persone e creando nuovi ruoli.

Facendo riferimento alla mia pubblicazione “Nuovi cinquantenni e secondi cinquant’anni”, emerge che, in

questa indagine campionaria svolta in Piemonte su 100 individui nella fascia d’età “50-60”, attorno ai 50

anni si addensano caratteristiche e ruoli che un tempo si diluivano nel corso dell’esistenza. Ruoli e

responsabilità che gli individui vedono disegnarsi all’improvviso ad un certo punto della loro vita, senza

avere una forma di preparazione primaria all’assunzione di quel ruolo e dovendo quindi sperimentarlo un

po’ alla volta all’interno della propria vicenda, facendo i conti con la propria storia, col contesto in cui si

vive, con le politiche che in quel momento ci sono in quel Pese( per esempio, provate a pensare all’effetto

che avrà la riforma delle pensioni recentemente approvata). Questo trend è senza dubbio un trend che

cambierà non solo le tappe e le scadenze delle carriere lavorative ma anche il modo in cui gli individui

coniugano il proprio ruolo lavorativo con tutti gli altri ruoli. E a questo proposito la riflessione delle studiose

dei mondi femminili ci insegna che la vita non è a compartimenti stagni ma è una somma che

costantemente si coagula a seconda delle priorità diverse e dei tempi della vita. A 50-60 anni quando gli

individui hanno ancora un ruolo lavorativo, un rapporto di coppia e hanno spesso ancora responsabilità di

mantenimento economico dei figli, il sopraggiungere dell’infragilirsi dei proprio genitori li porta ad essere

“generazioni del sovraccarico” o “generazioni sandwich”.

Stiamo ragionando su fatti che nel mentre li diciamo modificano già il contesto e le vicende delle persone,

quindi per questo cerchiamo di utilizzare delle chiavi di lettura particolari, che adesso vi andrò a spiegare.

Per prima cosa dobbiamo chiederci: come possiamo far sì che domande e offerte di cura avvengano dentro

la famiglia quando il processo di invecchiamento è inserito all’interno di un processo di indebolimento delle

reti familiari e di una diminuzione delle stesse reti (la media nazionale di 1,4 figli per coppia testimonia

come le famiglie siano molto lunghe ed ormai “a tre generazioni” ma molto strette) ?

Proviamo a vedere cosa succede in questo ridisegno dei ruoli e delle relazioni mettendo l’accento su come

vengono definite e ridefinite oggi le “obbligazioni intergenerazionali”, ovvero quella serie di norme che si

basano sull’affetto e non solo e che ci indicano quali obbligazioni prendiamo nei confronti del benessere di

chi appartiene alla nostra rete parentale. Si chiamano “obbligazioni intergenerazionali” perché sono norme

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di vario tipo (legale, religioso – esempio il comandamento “Onora il padre e la madre”, che abbiamo dovuto

persino scriverlo in quanto non era naturale). Ma cosa significa oggi per i figli “onorare il padre e la madre”

? Cosa significa per i cinquantenni prendersi cura dei loro genitori quando devono rimanere nel mercato del

lavoro più a lungo in conseguenza di altre norme politiche ? E soprattutto, come si sviluppano queste

obbligazioni in seguito ad una nuova visione di come i rapporti tra le persone sono in qualche modo

governati all’interno della parentela ? Un tempo si diceva: “la parentela te la trovi non te la scegli” mentre

oggi si elegge chi all’interno della parentela è degno di interesse particolare. Tutti gli altri parenti invece si

vedono nelle feste comandate, nelle ricorrenze e alla fine noi frequentiamo davvero una stretta parentela

eletta, selezionata.

Quindi che cosa abbiamo fatto in queste due ricerche ? Abbiamo provato a vedere come si assumono

queste obbligazioni intergenerazionali. In particolare, nella prima ricerca abbiamo provato a rispondere a

questa domanda: come si definiscono gli scambi e i confini spaziali fra le varie generazioni ? Si definiscono

quando un figlio va quotidianamente a casa di un suo genitore non autosufficiente e si prende cura di una

parte dei suoi bisogni. Oppure quando dei bambini vengono portati al mattino dalla casa alla casa dei nonni

che se ne prendono cura fino a che i genitori non tornano dal lavoro. Ecco quindi che si disegnano delle

geografie spaziali e dei cambiamenti che fanno sì che quel famoso fenomeno del “pendolarismo familiare”

non sia soltanto dettato da ragioni lavorative (secondo quanto limitatamente sosteneva Ford) ma sia

piuttosto un pendolarismo familiare tra parentele e tra famiglie. Strategie di cura così’ incentrate sulle

relazioni familiari danno origine alle cosiddette “vite troppo strette”. Nel senso che per la sopravvivenza

quotidiana dobbiamo basarci su queste relazioni che diventano troppo strette perché ci sono in gioco le

identità, gli spazi di autonomia, il desiderio di autorealizzazione delle persone e quindi una serie di tensioni

non secondarie.

Che chiavi di lettura abbiamo usato per questo fenomeno ? Primo: le persone che abbiam intervistato

nell’indagine comparativa sono persone colte nella lor età biografica che scivola grosso modo tra i 45 e i 65

anni ma anche di età storica, ovvero sono persone nate in un certo periodo storico. Ad esempio, troviamo

donne che sono entrate nel mercato del lavoro e non ne sono più uscite e che hanno una certa continuità

lavorativa, mentre nelle generazioni più vecchie trovavamo donne con discontinuità lavorativa perché dopo

il matrimonio e la nascita dei figli uscivano dal mercato del lavoro. Si è quindi così messa in atto l’idea che i

compiti di cura sia una competenza naturale delle donne. E l’Istat in questi ultimi vent’anni ci ha

fortemente evidenziato, attraverso indagini multiscopo, come i compiti di cura vedano donne e uomini

impegnati in modo molto diverso (il 76% delle attività sono svolte dalle donne di qualunque età). Ci parla

pertanto di un contesto e di un’epoca storica e ci parla anche di un’età sociale in questo momento storico

in cui forse, su questi temi, ci saremmo aspettati una migliore suddivisione delle responsabilità.

L’altra chiave di lettura usata è il concetto di “vite legate”, ovvero che le nostre vite sono interdipendenti

con quelle degli altri. Spesso nella rete parentale si condivide lo stesso network di relazioni: gli eventi e le

decisioni di un individuo della parentela hanno effetti sugli altri. Se uno si ammala, perde il lavoro o

l’autonomia, si ridisegnano non soltanto i rapporti e le relazioni ma anche la vita degli altri. La cura in

particolare crea questo tipo di legami di dipendenza e interdipendenza. Ma perché alcuni individui stanno

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nella geografia della cura e altri no ? Perché qualcuno è più responsabile degli altri ? Perché, parlando di

famiglie, è rilevante capire nella geografia familiare chi e per quali motivi è chiamato a queste necessità di

cura, come risponde e come il contesto lo supporta, lo orienta, lo compensa. Proprio riguardo al contesto

faccio un breve accenno a quello italiano: le politiche sociali nel nostro Paese regolano la vita degli individui

e le obbligazioni tra le generazioni in un determinato modo, diverso dagli altri Paesi. Io vorrei solo

accennare al fatto che abbiamo tre modelli di intervento delle politiche pubbliche sulle relazioni

generazionali: il primo è il “familismo sostenuto” quello che fornisce un sostegno diretto ad un particolare

tipo di obbligazioni (es: trasferimenti monetari per pagare babysitter o assegni familiari o assegni di cura).

Esso è sviluppato soprattutto in Francia. Il secondo modello sposta una parte delle responsabilità dalla

famiglia alla collettività: lo stato fornisce servizi di cura finanziati con denaro pubblico. E’ detto di

“defamilizzazione” poiché non serve avere una famiglia per accedere a questi beni o servizi (es. le donne

vedove). E’ un modello praticato dai Paesi scandinavi. Il terzo, invece, lascia tutte le responsabilità alle

risorse e alle disponibilità familiari. E’ un modello detto “familismo di default” e caratteristico dei paesi

mediterranei, tra cui il nostro, e che sta iniziando a diffondersi anche in Polonia e Bulgaria. Capite bene

quindi che in questo modello, la solidarietà intergenerazionale è cruciale. Bisogna essere solidali l’uno con

l’altro, perché dagli individui e dai rapporti con i loro familiari ci si aspetta la risposta per il soddisfacimento

dei bisogni di cura. Ma tanto è forte la necessità di una solidarietà altrettanto è forte il rischio che sorgano

tensioni e conflitti di ruolo, proprio perché c’è questa forte responsabilità che non si può in certi momenti

condividere con nessuno. E l’intervento dei servizi è un intervento residuale, se si pensa che (dato Istat) il

90% degli over 65 non più autosufficienti è curato a casa loro direttamente dai familiari. Ciò significa che

l’istituzionalizzazione e gli interventi locali di assistenza domiciliare coprono a mala pena il 10%, con

qualche punta più generosa in alcuni comuni e con invece delle punte ancora più drammatiche in altri.

Quindi se questo è il modello del contesto italiano dove è cruciale che ci sia una qualche forma di

solidarietà e c’è il rischio che ci siano delle tensioni tra queste responsabilità così gravose, qual è il criterio

che si utilizza nelle famiglie ? Quello del capire chi ha più bisogno di cura in quel momento. Può accadere

che in alcune famiglie i bambini piccoli siano momentaneamente meno considerati rispetto ad un genitore

improvvisamente non più autosufficiente o, viceversa, se il genitore anziano può andare avanti da solo,

nonostante qualche deficit di autonomia, si possono allora riservare attenzioni economiche e di tempo ai

bambini più piccoli o a qualche figlio/a che in un momento della vita ha interrotto una relazione familiare.

Si verifica così il fenomeno soprattutto maschile dei figli divorziati che tornano a vivere coi i genitori. Quindi

la forza dei legami della solidarietà nel nostro Paese è data per scontata ed è data come presente in tutte le

famiglie. Ed è senz’altro un bel valore di riferimento. Non è però questo che voglio mettere oggi a fuoco.

Certo che è fondamentale poter contare sui legami familiari e di parentela ma il problema è che ciò è dato

per scontato. Ma che cos’è che mette i familiari in condizione di prestare cura ? E se non esiste una rete

parentale ? E se non c’è una famiglia con queste caratteristiche di disponibilità ? E se quello che occorre

fare va oltre le risorse familiari ? Queste sono domande importanti se si ragiona in termini di diritti delle

persone ad essere curate bene, a vivere la vecchiaia con dignità. E’ molto importante occuparsi di queste

cose, altrimenti diventa difficile ragionare in termini di diritti di cittadinanza, di libertà e di dignità se il

diritto di qualcuno ad essere curato è pagato dai diritti di qualcun’altro che se ne deve prendere cura.

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Diventa un gioco veramente che somma a zero quel poco che c’è, anziché essere un gioco virtuoso che

mette le persone in grado di ricevere ma anche gli altri in grado di sentirsi liberi e competenti nel dare.

Noi abbiam analizzato i confini familiari delle vite collegate nella cura di anziani fragili e abbiamo osservato i

flussi di scambi, i confini tra le case e le famiglie che si vengono a generare. Ne sono emerse quattro

tipologie di cura:

1) Il “patchworking”, ossia il combinare insieme diverse risorse. E’ il primo step di quando si cominciano a

verificare alcuni primi problemi di salute dell’anziano che fino a ieri era in buona salute e che ora invece, in

seguito a questi primi episodi, questa buona salute non è più così data per scontata: una caduta, una

malattia, un qualcosa che mette in forse la sua autonomia. Un qualcosa che magari è temporaneo o forse è

il segnale di un processo che sta incominciando. Qui inizia la messa a raccolta delle risorse dei familiari,

soprattutto dei figli ma soprattutto delle figlie. E’ atteso che siano infatti le figlie femmine ad occuparsi di

un genitore che non sta più tanto bene e se i maschi ci sono in genere tendono ad occuparsi più degli

aspetti economici, mentre delegano i lavori di cura alle sorelle. Se invece non ci sono donne, è abbastanza

probabile, e anche abbastanza giustificabile, che il figlio non si occupi direttamente dei propri genitori,

perché non c’è una mediazione femminile. In questo modello si mette insieme il lavoro gratuito delle figlie,

il contributo del marito che va a fare la spesa, il tempo che i nipoti dedicano a vedere la televisione coi

nonni, il sostegno offerto dal mondo del volontariato, dai vicini di casa, da qualche froma di ADI e, a volte,

dal medico di famiglia. Tutte risorse che si combinano, si cuciono insieme per soddisfare il bisogno di cura.

2) la “semiesternalizzazione”, ovvero quando in casa entra un’assistente famniliare o la cosiddetta

“badante”. In genere è un successivo step che indica un lieve peggioramento delle condizioni di vita della

persona anziana e richiede una persona che stia con lei/lui 24 h su 24. Quindi è molto legato alla tipologia

di problema che la persona anziana incontra. Semi “esternalizzazione” perché in realtà una badante che

entra in una casa necessita di una figura familiare di riferimento che faccia da regista e che la sostituisca nel

momento in cui gode del riposo o nei fine settimana, e che la sostituisca quando ha diritto a godersi le

ferie. Una figura che allo stesso tempo la assuma, che segua tutte le pratiche necessarie, che versi i

contributi etc e che esegui anche un’operazione di verifica di come stanno andando le cose perché non è

così scontata la buona relazione tra l’assistente familiare e la persona da acccudire.

3) la “ricoabitazione”, ossia quando un anziano non più autosufficiente va a vivere nella casa dei figli e

quindi qui svaniscono del tutto i confini, perché si torna in un nucleo familiare ma con ruoli molto diversi e

in fasi della vita molto diverse, dove quel rapporto di genitori che curavano i figli si inverte con dei figli che

si prendono cura dei loro genitori.

4) il modello dell’”istituzionalizzazione”, che avviene quando i bisogni sanitari di cura eccedono e

diventano talmente importanti e cruciali da necessitare un ricovero, con l’anziano viene allontanato da casa

e ricoverato in una struttura soci-sanitaria.

Nei primi tre in ogni casi lo spazio di cura è la casa, in particolare la casa dell’anziano. Una casa i cui confini

vengono però attraversati da diversi attori nell’arco della giornata. Ci sono alcuni figli che vanno la mattina

in casa del genitore, per vedere come è andata la notte, lo lavano, lo cambiano, gli preparano la colazione e

poi vanno a lavorare. A volte durante la mattinata arriva un ADI, a volte in pausa pranzo dei figli vengono a

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casa a mangiare con genitore e badante; nel pomeriggio ci può essere una vicina di casa che da magari

un’occhiata e vede se c’è un segnale di attività (es. la tapparella che si alza); poi i figli tornando dal lavoro

ripassano nella casa per sapere com’è andata la giornata, cenano insieme al genitore e a volte i nipoti si

fermano la sera per vedere la televisione coi nonni. Se avessimo un satellite dall’alto osserveremo dunque

questi confini spaziali che si dissolvono in continuazione, con tante persone che attraversano la casa dei

genitori, ognuna però con ruoli e logiche di azioni diverse e anche spazi diversi. Qualcuno sosta nel tinello,

qualcuno accompagna l’anziano nella sala da bagno, qualcuno va nella camera da letto, qualcuno si ferma

sull’uscio. Dipende da che storia umana c’è stata in precedenza, da che tipo di relazione e da che senso di

responsabilità ne è generato. A tal proposito, alcune delle testimonianze raccolte nell’indagine sono molto

belle. Per esempio quella di una figlia che abita al piano di sopra, mentre sotto abita la madre di 86 anni che

a seguito di un episodio di ischemia diventa non più autosufficiente. Questa madre si prendeva cura di un

figlio over 50 con un grosso deficit psichiatrico. Improvvisamente la figlia sente una responsabilità nei

confronti sia della madre che del fratello e che cosa succede ? Che la madre scrive una lettera investendo

questa figlia di quella responsabilità che prima aveva lei. E’ il lascito, del tipo: “non so quanto potrò ancora

vivere. Affido a te tuo fratello”. Lettera che questa madre aveva già preparato ma ha tenuto nel comò per

un po’ di tempo. L’ischemia è l’episodio che fa sì che questa lettera esca dal comò per finire in mano alla

figlia, la quale intuisce qualcosa e non la legge immediatamente, riponendola in un cassetto della propria

scrivania. Pensate quindi, il gioco dei confini spaziali: la lettera che esce dal comò e va a finire in un altro

cassetto, fino a quando questa figlia non trova il coraggio di leggerla. Qui avviene questa investitura

ufficiale di “care-giver” del fratello. Interessanti anche i modi scelti per l’investitura: la madre, per non

esagerare nella richiesta verso la figlia, sceglie di scrivere una lettera e la figlia risponde attraverso una

telefonata dal piano di sopra al piano di sotto, perché l’intensità di questa relazione è così forte che non

riesce ad andare a dire di persona alla madre che accetta questo incarico ma usa il telefono, quasi a

soddisfare un bisogno di distanza.

Altri episodi meritevoli di nota sono quelli riguardanti l’uso delle chiave e del campanello di casa dei

genitori. I figli e le figlie hanno le chiavi di casa finchè vi vivono e quando escono per intraprendere una loro

vita autonoma conservano ancora le chiavi che però non tendenzialmente non usano, poiché prima di

entrare suonano il campanello. Nel momento in cui il genitore è più fragile tornano però a riutilizzare le

chiavi e non suonare più il campanello, per non allarmare il genitore. Quando però entra una badante in

casa, ecco che è come se si ricreasse un nucleo familiare che fa sì che i figli non si sentano più a loro agio ad

aprire la porta perchè in quella casa c’è di nuovo una famiglia;: genitore + care-giver.

A partire dalle relazioni si creano quindi dei confini che generano a loro volta degli intrecci molto complessi

di interdipendenze tra il care-giver, le altre persone e la persona di cui ci si prende cura. Lo stesso se noi

guardiamo la situazione dal punto di vista non solo dei confini ma tenendo presente anche un altro

indicatore: i confini di realtà. Queste persone, soprattutto figlie, che spesso dedicano al proprio genitore

non autosufficiente ore della giornata (ci son casi che parlano di 10-12 ore al giorno, soprattutto quando ci

son problemi legati alle demenze senili o con patologie particolari – Alzhaimer – che non richiedono solo

assistenza ma vigilanza continua). In questi casi si possono allora creare dei confini delle realtà tra la tua

famiglia (marito, figli) e quella del genitore di cui ci si prende cura. E’ il caso di Andrea, libero professionista

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di 48 anni, che ha curato per diversi anni la madre con vari problemi che l’hanno poi portata alla morte.

Improvvisamente un’anziana zia si ammala e la moglie gli chiede: “non è che hai intenzione di ricominciare

a fare la vita di prima ?”. Andrea inizia così a raccontare bugie e a dire che va al bar o in piscina quando in

realtà va a curare l’anziana zia. Ecco quindi i conflitti di realtà: lui vorrebbe curare la zia ma anche

mantenere buoni rapporti con i suoi familiari e allora è costretto a vivere in questa realtà di finzione.

Oppure quella forma difficile che si viene a creare quando il care-giver è figlio unico e quindi non ha altre

persone nella costellazione parentale con cui condividere le proprie responsabilità di cura. E soprattutto se

questo figlio non ha nemmeno una storia particolarmente felice col proprio genitore. Una storia che deve

esser riabilitata dopo anni sotto l’effetto di una situazione molto pressante che costringe in qualche modo a

sospendere a mettere tra parentesi la conflittualità o, come vediamo nell’altra ricerca sul maltrattamento,

a volte a sospendere invece la capacità di tutelare la vita dell’assistito perché pesa molto la storia familiare

di prima. Non bisogna dimenticare infatti che non tutte le storie familiari sono a lieto fine o positive. Ci

sono famiglie in cui le relazioni non sono state all’insegna del rispetto, della reciprocità, del senso di libertà

delle persone. Questa ricerca ci dice allora di questo intreccio complesso e dinamico di equilibri sempre

cercati ma spesso instabili, perché le soluzioni dipendono anche dagli altri. Per molte donne “care-giver”

del proprio genitore molto dipende dai colleghi di lavoro, perché si tratta di donne che hanno ancora un

rapporto di lavoro. Dipende quindi se i colleghi capiscono e sono solidali, se il proprio datore di lavoro

consente quelle forme di sensibilità talvolta immediate. Si tratta di situazioni in cui lo squillo del telefono

mentre si è a lavoro diventa un incubo (“Oddio che cosa è successo ? Non starà bene ?) e quindi diventa

subito impellente la necessità di dover negoziare coi colleghi e col proprio datore di lavoro per poter

correre a casa o sostituire qualcuno che in quel momento non c’è. Ecco le vite collegate: coi familiari, coi

parenti, coi colleghi, coi servizi pubblici e con la propria storia personale.

A questo aggiungo un piccolo passaggio che deriva dal secondo filone di ricerca che stiamo svolgendo: il

maltrattamento delle donne anziane. Una ricerca molto complessa che riguarda aspetti anche molto ostrici

delle donne anziane di cui ci stiamo occupando. Tra vent’anni probabilmente la situazione sarebbe molto

diversa. Stiamo infatti parlando della vulnerabilità di donne anziane di oggi, soprattutto quelle dai 65 anni

in su, che sono state sottoposte nella loro vita a messaggi legati alla logica tradizionale del patriarcato,

secondo i quali una donna contava un po’ meno in famiglia rispetto ad un uomo ed i suoi bisogni potevano

essere esauditi dopo che venivano esauditi gli altri. Il suo destino era dunque quello di occuparsi della

soddisfazione dei desideri altrui e per questa generazione di donne è sempre stato molto difficile mettere

al centro la propria autonomia e dipendenza. Nel contempo sono state però esposte negli anni ’80 a dei

messaggi molto diversi. Le loro figlie sono cresciute con un’idea che le donne hanno la stessa libertà di

scegliere che hanno gli uomini: scegliere quanti figli fare ed eventualmente anche di scindere un legame

coniugale se non è quello che ci si aspettava o che si desiderava o se addirittura è pericoloso e/o lesivo

della propria dignità. Non è proprio la stessa cosa venire al mondo in una società che dice che è compito di

un marito correggere anche con la forza fisica il comportamento della moglie e dei figli rispetto a crescere

in un periodo storico in cui il diritto di famiglia del 1975 parla di parità tra i coniugi. Son soggette a queste

vecchie norme patriarcali soprattutto alcune donne anziane, in particolare quelle – ci dice l’Istat – con

scarsa scolarità, con storie contributive interrotte e pensioni insufficienti e che vivono nelle abitazioni più

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povere. Abbiamo detto che l’abitazione è il luogo principale della cura, ma dipende da che abitazioni sono e

se hanno le stanza per ospitare un’assistente familiare, se hanno stanza agevoli, se hanno la possibilità di

ampliare il bagno nel momento in cui quella persona gira con una carrozzina. Dipende se si ci sono i soldi in

famiglia per fare questi interventi di ristrutturazione. Sono spese sostenuti dalla fiscalità ? Si possono

detrarre ? Dipende in che comune siamo e dalle politiche di bilancio dello Stato in cui siamo. Il rischio è che

quindi molte di queste donne con le caratteristiche sopracitate quando non sono più autonome possono

subire delle forme di maltrattamento che per la maggior parte arriva da un familiare, esattamente come il

70% delle violenze nei confronti delle donne avviene dalle persone che conoscono e che sono a loro più

care (marito, padre, fratelli, parenti conosciuti). Anche qua non si tratta di colpevolizzare ma di capire

perché si creano questi “corto-circuiti” nella relazione anche da parte di persone che non vorrebbero farlo.

E qui abbiamo una bellissima ricerca della Caritas Ambrosiana che ha intervistato delle persone

uomini/donne figli/figlie di anziani non più autosufficienti. Ed è emerso che molti fili si intrecciano

nell’attività di cura familiare di un anziano non più autosufficiente, che confermano cose che abbiamo visto

anche nella nostra ricerca anche se none eravamo arrivati a questo.

La buona riuscita della cura, infatti:

- dipende dalla salute dal care-giver, da come sta questo adulto che si prende cura di un anziano. Se

è in equilibrio, se sta bene, se la relazione e l’aiuto che si da non è eccessivo, se non mette in forse

il proprio dormire, mangiare etc.

- dipende dalla relazione passata da chi da la cura oggi e chi la riceve; dipende dal tempo e dallo

spazio del prendersi cura (quante ore, quanti anni, se si è soli o supportati da altri); dallo spazio

(come sono le case dove si svolge la cura ? L’Italia ha questo primato degli italiani proprietari di

casa – il 78% - che da una parte è una grande risorsa ma nel momento delle fragilità può diventare

un elemento di vincolo perché l’anziano si sente in diritto di essere curato lì, anche se la casa non

ha più le caratteristiche adatte ad ospitarlo). Su questo punto ci sono esperienze interessanti di altri

paesi che non hanno queste condizioni, come per esempio la Svezia, dove improvvisamente anziani

che abitano al terzo/quarto pian vengono abbassati al piano terra. Cambiano le geografie, con le

coppie più giovani che si spostano sopra. Certo, se si è proprietari di casa non è possibile, ma a mio

avviso certo un ragionamento sugli spazi andrebbe fatto.

- dipende infine dal modo di reagire delle persone anziane: non siamo uguali quando siamo bambini,

quando siamo giovani, quando siamo adulti e non siamo uguali neanche quando siamo anziani. Il

rischio di omogeneizzare un età della vita è molto alto col nascere di stereotipi che ancora

disegnano l’età anziana come un vestito che si cala addosso a chiunque senza tenere conto della

vita che ha avuto prima. I modi di reagire delle persone anziane invece son molto diversi. Da una

parte c’è la persone che accetta volentieri di essere lavato, cambiato e accudito da una persona

straniera ed eventualmente di essere anche nutrito con cibo straniero; dall’altra la persona che

invece non sopporta, non tollera e reagisce male.

Possono quindi sorgere questi “corto-circuiti” generazionali e il vederli il tempo, sapere che se queste

condizioni (isolamento, scarsità di risorse economiche, care-giver pressato perché unico punto di

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riferimento) son tutti compresenti allora significa non perdere di vista l’obiettivo che è rimanere nelle

relazioni di cura non di sottrarsi. Rimanere con un senso di agio perché se è troppo alto il carico da

sopportare, questo agio è facile che diventi una condizione di stress e soprattutto, da quello che abbiamo

visto da questa indagine sui cinquantenni, generi proiezioni negative sul futuro della vecchiaia. I

cinquanta/sessantenni sperimentano il loro futuro di essere anziani con l’esperienza di sovraccarico che

provano nel momento in cui curano i loro genitori e questo sottrae autonomia, sottrae senso di apertura e

di possibilità. E come si proiettano in futuro ?

Chiudo dicendo che la cura, se non l’abbiamo ancora sottolineato abbastanza, non è una questione privata,

non è una regolamento tra donne ma riguarda gli equilibri complessivi di un Paese, i temi dell’integrazione

e della giustizia sociale e che se si ignora la cura come attività umana allora si ignorano le dipendenze e le

interdipendenze che fanno parte dell’esperienza umana. Quindi credo che la solidarietà familiare e i legami

tra le generazioni che sono una risorsa fondamentale per ognuno di noi, lo continueranno ad essere solo se

saranno integrate, rigenerate, compensate e contenute.

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InIziativa inserita nell’ambito del progetto

Alcuni dati sulla situazione

Come si evince dai dati ISTAT al 01/01/2011

constatare che la seconda fascia di età più presente è quella dei cosiddetti “over 65”, che conta ben 47.705

persone pari al 25,34 % della popolazione totale.

Una percentuale che è notevolmente più alta (quasi 6 punti) di quella

19,31%.

ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da:

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Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia

Alcuni dati sulla situazione attuale biellese

Come si evince dai dati ISTAT al 01/01/2011 la Provincia di Biella conta 185.768 a

constatare che la seconda fascia di età più presente è quella dei cosiddetti “over 65”, che conta ben 47.705

persone pari al 25,34 % della popolazione totale.

Una percentuale che è notevolmente più alta (quasi 6 punti) di quella della media na

della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA

rovincia di Biella conta 185.768 abitanti. E’ significativo

constatare che la seconda fascia di età più presente è quella dei cosiddetti “over 65”, che conta ben 47.705

della media nazionale, che si ferma al

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InIziativa inserita nell’ambito del progetto

Il fatto che il territorio Biellese sia uno di quelli con il maggior numero di anziani residenti è provato anche

dall’analisi regionale

che vede Biella al primo posto tra le province piemontesi in merito

abitanti, anche in questo caso ben superiore (3 punti e mezzo) rispetto alla media regionale del 21,84%.

Dinnanzi ad una statistica che parla in modo chiaro di una realtà che sta invecchiando, diventa dunque

interessante capire qual è l’entità dei bisogni di cura che essa comporta e qual è il modo in cui tende a

soddisfarli.

Da un’analisi effettuata su dati prelevati dal sito “Biellese Anziani”, si può notare che la scelta della

struttura residenziale coinvolge attualment

in struttura mostra come il 75,84% soggiorni in strutture dei comuni della zona del Consorzio IRIS e il

24,16% in comuni della zona del Consorzio CISSABO.

ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da:

VENERDI’ 22 GIUGNO 2012

Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia

Il fatto che il territorio Biellese sia uno di quelli con il maggior numero di anziani residenti è provato anche

che vede Biella al primo posto tra le province piemontesi in merito alla percentuale over65/numero di

abitanti, anche in questo caso ben superiore (3 punti e mezzo) rispetto alla media regionale del 21,84%.

Dinnanzi ad una statistica che parla in modo chiaro di una realtà che sta invecchiando, diventa dunque

capire qual è l’entità dei bisogni di cura che essa comporta e qual è il modo in cui tende a

Da un’analisi effettuata su dati prelevati dal sito “Biellese Anziani”, si può notare che la scelta della

struttura residenziale coinvolge attualmente 1854 casi. La ripartizione delle persone attualmente ospitate

in struttura mostra come il 75,84% soggiorni in strutture dei comuni della zona del Consorzio IRIS e il

24,16% in comuni della zona del Consorzio CISSABO.

della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA

Il fatto che il territorio Biellese sia uno di quelli con il maggior numero di anziani residenti è provato anche

alla percentuale over65/numero di

abitanti, anche in questo caso ben superiore (3 punti e mezzo) rispetto alla media regionale del 21,84%.

Dinnanzi ad una statistica che parla in modo chiaro di una realtà che sta invecchiando, diventa dunque

capire qual è l’entità dei bisogni di cura che essa comporta e qual è il modo in cui tende a

Da un’analisi effettuata su dati prelevati dal sito “Biellese Anziani”, si può notare che la scelta della

e 1854 casi. La ripartizione delle persone attualmente ospitate

in struttura mostra come il 75,84% soggiorni in strutture dei comuni della zona del Consorzio IRIS e il

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InIziativa inserita nell’ambito del progetto

Per quanto concerne la domiciliarità invece i dati forniti da INPS ci dicono che al 31/12/2011 sono 879.909 i

contratti di lavoro domestico attivi e regolarmente denunciati sul territorio nazionale. Un’indagine Censis

però rivela che sono 1.538.000 le persone che vi trovano impiego, fornend

rimane ancora rilevante la dimensione del lavoro nero in questo settore.

ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da:

VENERDI’ 22 GIUGNO 2012

Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia

à invece i dati forniti da INPS ci dicono che al 31/12/2011 sono 879.909 i

contratti di lavoro domestico attivi e regolarmente denunciati sul territorio nazionale. Un’indagine Censis

però rivela che sono 1.538.000 le persone che vi trovano impiego, fornendo un’idea di quanto purtroppo

rimane ancora rilevante la dimensione del lavoro nero in questo settore.

della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA

à invece i dati forniti da INPS ci dicono che al 31/12/2011 sono 879.909 i

contratti di lavoro domestico attivi e regolarmente denunciati sul territorio nazionale. Un’indagine Censis

o un’idea di quanto purtroppo

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InIziativa inserita nell’ambito del progetto

Un’osservazione più specifica evidenzia che su 2977 contratti regolari attivi nel Biellese al 31/12/2011, sono

1183 quelli di assistenza familiare (il

Tra i contratti di assistenza familiare, invece, sono in netta prevalenza quelli a regime di convivenza (715,

pari al 60,44%) rispetto a quelli a regime orario (468 pari al 39,56%).

ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da:

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Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia

Un’osservazione più specifica evidenzia che su 2977 contratti regolari attivi nel Biellese al 31/12/2011, sono

1183 quelli di assistenza familiare (il 39,74 %) contro i 1794 di collaborazione domestica pari al 60,26%.

Tra i contratti di assistenza familiare, invece, sono in netta prevalenza quelli a regime di convivenza (715,

pari al 60,44%) rispetto a quelli a regime orario (468 pari al 39,56%).

della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA

Un’osservazione più specifica evidenzia che su 2977 contratti regolari attivi nel Biellese al 31/12/2011, sono

39,74 %) contro i 1794 di collaborazione domestica pari al 60,26%.

Tra i contratti di assistenza familiare, invece, sono in netta prevalenza quelli a regime di convivenza (715,

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InIziativa inserita nell’ambito del progetto

Interessante è analizzare infine la nazionalità delle persone dedite a

stime Censis, si rileva che il 71,6 % è di origine straniera e proviene in forte prevalenza dall’Est Europa:

Romania (19,4%), Ucraina (10,4%), Po

Un dato da tenere in considerazione in virtù di quanto l’antropologo Fabio Pettirino ci esporrà più avanti

sulle abitudini e sulle tradizioni in grado di influenzare modi e scelte di vita all’inte

lavoro domestico.

Intervento dott. Adriano Guala

Geriatra ed ex primario di Geriatria all

Intervengo dopo essere stato coinvolto in quanto, fino all’anno scorso, datore di quattro badanti, per mia

mamma e mia suocera, e poi probabilmente anche perché l’anno prossimo entro nella vecchiaia e

probabilmente prima o poi avrò bisogno anch’io di una badante.

Volevo solo offrirvi alcuni flash: quello della relazione, non intesa come relazione di cura ma nel senso di

relazione generale. La relazione tra badanti e familiari è una relazione asimmetrica, perché tutto sommato

il vecchio si trova in una situazione di ostruzione di questi rapporti, un’ostruzione sociale, poiché il vecchio

viene considerato un cittadino, diciamo cosi,” di serie non elevata”. Questo a causa di quello che viene

chiamato il “vecchismo”, ovvero l’equivalente

che in questo caso è l’età. Giustamente la Donati ha detto che parlare di vecchi come un contenitore

omogeneo è assolutamente sbagliato, però normalmente c’è ancora la tendenza a considerare il v

portatore di una condizione non brillante. Il vecchio è malato, il vecchio è dipendente. Ovviamente questo

ambito del progetto “Nuovi vicini di casa” finanziato da:

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Sala Becchia c/o Palazzo della Provincia

eressante è analizzare infine la nazionalità delle persone dedite al lavoro di cura.

stime Censis, si rileva che il 71,6 % è di origine straniera e proviene in forte prevalenza dall’Est Europa:

Romania (19,4%), Ucraina (10,4%), Polonia (7,7 %), Moldavia (6,2%) per un totale del 43,7 %.

Un dato da tenere in considerazione in virtù di quanto l’antropologo Fabio Pettirino ci esporrà più avanti

sulle abitudini e sulle tradizioni in grado di influenzare modi e scelte di vita all’inte

eriatra ed ex primario di Geriatria all’Ospedale di Biella

Intervengo dopo essere stato coinvolto in quanto, fino all’anno scorso, datore di quattro badanti, per mia

mamma e mia suocera, e poi probabilmente anche perché l’anno prossimo entro nella vecchiaia e

isogno anch’io di una badante.

Volevo solo offrirvi alcuni flash: quello della relazione, non intesa come relazione di cura ma nel senso di

relazione generale. La relazione tra badanti e familiari è una relazione asimmetrica, perché tutto sommato

o si trova in una situazione di ostruzione di questi rapporti, un’ostruzione sociale, poiché il vecchio

viene considerato un cittadino, diciamo cosi,” di serie non elevata”. Questo a causa di quello che viene

ovvero l’equivalente di razzismo, una discriminazione per effetto di una variante

che in questo caso è l’età. Giustamente la Donati ha detto che parlare di vecchi come un contenitore

omogeneo è assolutamente sbagliato, però normalmente c’è ancora la tendenza a considerare il v

portatore di una condizione non brillante. Il vecchio è malato, il vecchio è dipendente. Ovviamente questo

della Provincia, via Q. Sella, 12 BIELLA

l lavoro di cura. Dal grafico, basato sulle

stime Censis, si rileva che il 71,6 % è di origine straniera e proviene in forte prevalenza dall’Est Europa:

lonia (7,7 %), Moldavia (6,2%) per un totale del 43,7 %.

Un dato da tenere in considerazione in virtù di quanto l’antropologo Fabio Pettirino ci esporrà più avanti

sulle abitudini e sulle tradizioni in grado di influenzare modi e scelte di vita all’interno di un rapporto di

Intervengo dopo essere stato coinvolto in quanto, fino all’anno scorso, datore di quattro badanti, per mia

mamma e mia suocera, e poi probabilmente anche perché l’anno prossimo entro nella vecchiaia e

Volevo solo offrirvi alcuni flash: quello della relazione, non intesa come relazione di cura ma nel senso di

relazione generale. La relazione tra badanti e familiari è una relazione asimmetrica, perché tutto sommato

o si trova in una situazione di ostruzione di questi rapporti, un’ostruzione sociale, poiché il vecchio

viene considerato un cittadino, diciamo cosi,” di serie non elevata”. Questo a causa di quello che viene

di razzismo, una discriminazione per effetto di una variante

che in questo caso è l’età. Giustamente la Donati ha detto che parlare di vecchi come un contenitore

omogeneo è assolutamente sbagliato, però normalmente c’è ancora la tendenza a considerare il vecchio

portatore di una condizione non brillante. Il vecchio è malato, il vecchio è dipendente. Ovviamente questo

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è uno stereotipo che ha delle implicazioni importanti, perché capita qualche volta che si verifichino dei

“conventio ad escludendum” tra badanti e familiari, che con atteggiamento paternalistico sono convinti di

sapere loro ciò che è giusto per il vecchio, che si pensa non sia più sufficientemente lucido per essere in

grado di decidere da solo. Si consideri per esempio la perdita della memoria, fenomeno abbastanza

frequente (io stesso per ricordare i nomi sono fuori concorso seppur ritengo di ragionare ancora

abbastanza normalmente). Ebbene proprio a partire da questa perdita, si tende a pensare che il vecchio, se

non è già rimbambito, rimbambisce. Ecco che la sua capacità di decidere inizia così ad esser considerata di

basso profilo e sostituita da quella della badante e degli stessi familiari. Questo è un fattore rilevante,

perché anche nei momenti in cui il vecchio ha perso molta della sua capacità cognitiva, non è detto che non

sia in grado di decidere, specialmente se si tratta di sapere se è meglio mangiare una cosa piuttosto che

un’altra o giudicare se si ha caldo invece che freddo.

Tutte queste cose devono essere tenute in conto, altrimenti la relazione è negativa, asimmetrica. Così come

l’ascolto è asimmetrico in quanto non è un ascolto che cerca di capire cosa in quel momento vuol dire o sta

pensando ma un ascolto superficiale. Questi mi sembra siano dei concetti che non riguardano solo la

badante ma purtroppo anche il nostro modo di vedere come società.

DIBATTITO

Domande dal pubblico

Volevo chiedere alla professoressa se non le sembra che ci sia necessità di due cose: 1) di supporti

psicologici alle famiglie, non perché siano malate ma per far capire qualcosa delle relazioni che avete ben

individuato. E mi pare che siamo abbastanza carenti sotto questo profilo. 2) Il tema del “vecchio inutile” di

cui parlava poco fa il dottore. Secondo me, nello stile di vita reso sempre più febbrile dal pendolarismo etc.,

tra poco avremo settantenni che lavorano ancora e se hanno ancora una famiglia avranno bisogno loro di

aiuto e assistenza, altro che assistere un parente più anziano di loro ! Ciò mi fa ritenere che a mio avviso ci

sia assoluta necessità che quella quota del 10% dell’esternalizzazione delle varie forme di cura venga

aumentata. E bisogna che ci sia proprio la cultura della richiesta. Se si pensa che le aziende si vogliono

liberare in fretta di tutti gli anziani (e qui si parla di cinquantenni), il figlio, magari unico, nato già da genitori

di una certa età, rischia di trovarsi ad avere dei genitori anziani e lui un lavoro pendolare a causa del quale

non può, anche se volesse, assistere il genitore. Gradirei pertanto se la professoressa potesse delucidarmi

su questi miei ragionamenti.

A sostegno dell’intervento del signore, volevo soltanto soffermare l’attenzione sul costo economico per una

famiglia con badante, perché oggi questo tipo di cura è possibile grazie al fatto che in passato ci sono state

generazioni con una forte tendenza al risparmio, grazie alle quali la famiglia può trovare le risorse

necessarie per garantire questo tipo di assistenza. Ma cosa faranno i figli dei nostri figli per i quali oggi il

concetto di risparmio è già praticamente nullo e in più hanno una vita lavorativa all’0insegna della

precarietà ?

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Risponde la prof.ssa Donati

Credo che sul tema della riforma pensionistica abbiamo perso una grande occasione, perché dalle

esperienze europee, dalla letteratura, dalle letture multidisciplinari abbiamo sufficienti conoscenze per

poter dire che il fenomeno dell’invecchiamento non è un problema di conti dell’Inps, non riguarda la

contabilità delle entrate degli organismi previdenziali. Il tema dell’invecchiamento sta trasformando la

nostra esistenza, gli equilibri su cui le nostre esistenze si sono basate. E soprattutto nel nostro paese, dove

l’invecchiamento è più veloce che in altri perché associato alla diminuzione della fecondità e quindi ancora

più incidente e talmente irreversibile (difficilmente torneremo a tassi di natalità pari a quelli dell’Ottocento)

è sorprendente come siamo privi di chiavi di lettura e continuiamo ad occuparci di pensioni senza tenere

conto di quest’altro pezzo di mondo che ci sta dietro e che riguarda politiche di gestione organizzative.

Come diceva giustamente il signore, abbiamo avuto fino a ieri tutto il fenomeno dell’espulsione dei

lavoratori adulti, dei prepensionamenti ( la questione esodati: quanti sono, sono solo quelli in uscita,

accompagnati o meno…) insomma una visione molto complessa. Improvvisamente poi abbiam virato su

un’altra faccenda: il mantenimento al lavoro degli adulti, dimenticandoci di tutti gli aspetti più complessi

che riguardano il senso dello stare al lavoro, le storie delle generazioni che stanno al lavoro (chi ci è entrato

con bassa secolarità, chi con un titolo di studio), il rapporto adulti/giovani e la presunta conflittualità tra di

loro, l’assenza di strumenti formativi. Non dimentichiamo che in Italia la formazione nei confronti dei

lavoratori riguarda poco più che il 10% del totale e ciò è un segnale che la famosa formazione ricorrente

lungo l’arco della vita non esiste: c’è gente che ha conosciuto la scuola da giovane e poi non è più tornata a

reinterpretare il senso del proprio lavoro. E in più politiche dove sembra che se sei nato in un anno ti va

bene, se sei nato due mesi dopo non ti va più bene. Un’operazione che annulla il senso di un’esistenza, la

qualità, l’essere degli individui nella propria complessità lasciando decidere tutto al fatto di cadere in uno

scaglione piuttosto che in un altro. Quindi è anche molto difficile per una persona che affronta i

cambiamenti delle età assumere delle strategie più esplicite, consapevoli, autonome. Stiamo parlando di

temi (il lavoro, l’essere care-giver, il processo di invecchiamento) così complessi che non può essere che si

affidi tutto al fatto che se sei nato in quell’anno diventi un pensionato o uno che deve lavorare ancora dieci

anni. Allora la nostra è davvero una società che non ha messo in campo delle politiche per riuscire a gestire

meglio questo tema dell’invecchiamento e ce lo consegna come un problema del tutto familiare o come un

terno al Lotto, a seconda di che annata sei. Non c’è cultura delle transizioni, non c’è nessun ragionamento

economico di ampie vedute. Dallo studio comparativo che ho illustrato è emerso che le politiche di

domiciliarità francesi costano esattamente come l’ammontare dei costi delle badanti italiane. Con degli

esiti, però, ovviamente molto diversi, con un accesso decisamente più universalistico, con dei compiti dove

sei accompagnato e sostenuto e dove allora ti assumi anche una responsabilità e fai tesoro di

apprendimento per te stesso su cosa significa, ad un certo punto della mia vita, occuparmi di una persona

fragile. Dove devo ridisegnare il significato complessivo delle relazioni, del senso alla mia vita e anche

immaginarmi cosa diventerò. Stiamo consegnando un’immagine di vecchiaia piena di giudizi e stereotipi,

sulla superficie. Sotto, invece, gli individui e le persone sono intente a cercare, nelle loro scelte, altri

significati alla loro vita, nel mentre transitano da una fase all’altra a cercare dei modi di orientamento

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diversi. Ridisegnano una relazione di intimità tra persone non più giovani, ridisegnano le relazioni tra loro e

i figli e il significato del lavoro.

In questa ricerca ad esempio emerge un dato molto interessante: le donne tra i 50-60 anni che hanno

ancora un lavoro se lo tengono stretto, non solo perché costrette dalla riforma pensionistica ma perché lo

considerano una valvola di sfogo di quell’eccessivo sovraccarico che tramuta la disponibllità in

obblligatorietà. Quindi paradossalmente il lavoro proseguito negli anni diventa un mondo dove finalmente

ci si sente liberi. E cosa chiedono i datori di lavoro ? Delle politiche di riconoscimento anche della

conciliazione verso le persone che infragiliscono. La legge 53 ha già fatto un passaggio sui congedi per chi

non solo ha dei figli piccoli ma anche dei genitori anziani. Però questo tema di flessibilità di orari e del

rimanere a lavoro in condizioni diverse è stato mancato dalla riforma delle pensioni. Mi dispiace, perché si è

persa l’occasione di guardare all’allungamento della vita lavorativa come ad un qualcosa da tenere insieme

nell’integrità delle persone e dei loro cambiamenti nel corso della vita, perché solo così attingi alla loro

progettualità, alle loro competenze ed esperienze. Non per una razionalità che deve solo sfruttare un

dispositivo ma con una razionalità più sostantiva dove guardare come proseguire la vita lavorativa con dei

progetti, con delle strategie. possibilmente con dei percorsi di accompagnamento. La Francia fa i bilanci di

competenza da lavoro a pensione, attiva una forte rete per l’incontro tra esigenze di cura e di lavoro, da

una grande enfasi al lavoro del volontariato dentro i luoghi lavorativi, premia il volontariato dentro i

contesti organizzativi perché sono risorse a disposizione anche della produzione.

Quindi credo davvero che la cultura dell’invecchiamento debba attraversare i soggetti tradizionali, le

politiche pubbliche, i soggetti della contrattazione perché dal mio punto di vista hanno una visione ancora

molto orientata al passato, di un invecchiamento che non c’è più e che non sarà più così. Si tratta di fasi

della vita che si ridisegnano ai nostri occhi mentre le viviamo e che mi fanno dire a me, che ho 55 anni, che

non mi vedo nei 55 anni di mia mamma e sto dando ai miei 55 anni dei significati diversi che sono risorse

per me ma anche risorse a disposizione di chi mi sta vicino, della mamma che curo, della figlia che cresco e

degli altri soggetti con cui ho relazioni. Eh si, concordo con voi, che c’è molto da fare !