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N° 18 - APRILE 2008 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S. P. A.- SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA i n VERONA

Verona In 18/2008

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Page 1: Verona In 18/2008

N° 18 - APRILE 2008 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA

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Autari e Teodolinda

Se la cittadina ligure di Alassiovanta una storia d’amore più anti-ca di quella di Giulietta e Romeo,tanto che il ministero dello Svi-luppo economico le ha ricono-sciuto il titolo di “unica città degliinnamorati in Italia”, Verona nonha solo la vicenda immortalata daShakespeare a sostegno di un pri-mato oggi messo in discussione .Gli alassini si rifanno all’anticaleggenda di Adelasia e Aleramo,che affonda le sue radici nell’an-no Mille, quindi in un tempo pre-cedente la vicenda dei due giova-ni a cui si ispirò il drammaturgoinglese, anche se la tragedia deidue amanti scaligeri sembra tro-vare riferimenti addirittura nel-l’antica Grecia.La notizia offre l’occasione perrispolverare un’altra curiositàamorosa, una storia quasi mo-derna per il suo carattere “trasna-zionale”, che tocca da vicino Ve-rona e che nella scala dei secoli sicolloca precedentemente alla di-nastia degli Ottoni, quindi in untempo in cui la principessa Ade-lasia e il suo servo Aleramo anco-ra non erano nati.Siamo in Italia sul finire del VI se-colo e questa è la storia di Teodo-linda e Autari: lei era la figlia diGaribaldo, re cattolico di Baviera;lui il re dei Longobardi e primoduca di Verona, di fede ariana.Spieghiamo che l’arianesimo erauna dottrina abbracciata da moltipopoli “barbari” che contraddice-va l’idea della natura divina diCristo, condannata come ereticadal primo Concilio di Nicea (325d.C).Minacciati a Nord dai cattolicissi-mi Franchi, osteggiati a Sud dalpapato, che sempre meno trovavain Bisanzio un valido punto di ri-ferimento, i re Longobardi, perragioni di stato, cercarono spessodi sposare donne nobili di fede

cattolica. E così cercava di fareAutari che, dopo aver tentato sen-za esito di unirsi alla sorella del reFranco Childeberto II, mandòambasciatori in Baviera perchéchiedessero in moglie per lui la fi-glia del re Garibaldo.Scrive Paolo Diacono nella suaHistoriae Langobardorum, che ilsovrano bavarese accolse amabil-mente gli emissari, acconsenten-do alle nozze.Ricevuta la notizia il re dei Lon-gobardi non seppe resistere: vabene il matrimonio di interesse,ma la sposa doveva anche esserebella, molto bella: la cosa andavaassolutamente verificata. Autariscelse tra i longobardi una scortanon molto numerosa ma formatada coraggiosi con a capo un uomoche gli era particolarmente fedelee si mise subito in marcia con loroper la Baviera nel finto ruolo disemplice ambasciatore.Quando vennero condotti davan-ti al re Garibaldo e quando il capodell’ambasceria ebbe pronuncia-to le parole di rito, Autari, chenessuno aveva riconosciuto, si av-vicinò al sovrano bavarese e disse:«Il mio signore, il re Autari, mi haqui inviato con l’espresso coman-do di vedere vostra figlia, che è fi-danzata a lui e che in avvenire sa-rà la nostra signora, affinché iopossa fornirgli notizie più sicuresulla sua persona».Il re fece cercare la figlia Teodo-linda e così Autari poté ammirarein silenzio quanto fosse bella e co-me corrispondesse ai suoi deside-ri «sotto ogni rapporto» comeprecisa Paolo Diacono, disse aGaribardo: «Poiché l’aspetto divostra figlia ci piace moltissimo enoi ci auguriamo di averla comenostra regina, saremmo contentiche piacesse alla vostra nobiltà diavere dalla sua stessa mano unacoppa di vino». Il sovrano bava-rese acconsentì e la cronaca deltempo narra che la giovane, se-condo le usanze, offrì prima la

Primo piano

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e da

solo Dal VI secolo una

pagina di storia che tocca da vicino la nostra città.Uno dei tanti possibilipercorsi culturali che non sfigurerebbeaccanto ai cuoricini rossi appesi per le vie di Verona e allospettacolo “Giulietta e Romeo”di Cocciante

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coppa a colui che sembrava essereil capo, poi a Autari, non sapendoche fosse il suo fidanzato.Come questi ebbe bevuto, nell’at-to di rendere la coppa, senza chenessuno se ne accorgesse, toccòcon un dito la mano della princi-pessa e con la destra le accarezzòla fronte, il naso e la guancia.Rossa per l’imbarazzo e confusaTeodolinda narrò la cosa alla suanutrice e questa saggiamente ledisse: «Se questo uomo non fosseil re in persona, e quindi il tuo fi-danzato, non avrebbe mai osatotoccarti. Ma per il momento te-niamo la cosa segreta perché tuopadre nulla ne sappia».Gli scritti giunti fino a noi de-scrivono un Autari giovane, no-bile nel portamento, con i capellibiondi e ricci, il viso roseo e belloper cui è facile immaginare che ilgradimento fosse reciproco eche l’amore fosse di quelli a pri-ma vista.Sulla via del ritorno, quando Au-tari raggiunse la frontiera con l’I-talia si drizzò più che poté sul suocavallo e con tutta la sua forzascagliò l’ascia di guerra che por-tava con sé contro un albero di-cendo «Ecco i colpi che Autari in-ferisce!» e da quelle parole i bava-ri della scorta riconobbero constupore che egli non era un sem-plice ambasciatore, ma bensì il redei longobardi in persona.Poco tempo dopo, trovandosiGaribaldo in difficoltà per l’inva-sione dei Franchi, sua figlia Teo-dolinda fuggì in Italia e fece an-nunciare il suo arrivo al fidanzatoAutari, che con grande apparatoandò personalmente ad incon-trarla proprio a Verona, dove incampum Sardis, a Nord della cit-tà, il quindici maggio del 589 fu-rono celebrate le nozze. Ricordia-mo che Verona fu conquistata daAlboino che ne fece la capitaled’Italia fino al 571, anno in cui lacorte longobarda fu spostata aPavia, altra famosa città teodicea.

Il destino anche per questi dueamanti fu però tragico. Proprio aVerona, e proprio il giorno dellacerimonia nuziale, avvenne infat-ti un episodio eccezionale: un ful-mine con un fragoroso boato col-pì un albero nei pressi della reg-gia. Un servo del duca di Torino,esperto nell’arte della divinazio-ne, prese da parte il suo signoreAgilulfo, in città per le nozze delre, spiegandogli il significato diquell’evento: «Questa donna cheora si marita con il nostro sovra-no diverrà fra poco tempo tuasposa». Agilulfo minacciò il servodi fargli saltare la testa se soloavesse aggiunto dell’altro, maquesti rispose: «Sia pure, fammitagliare la testa, ma è sicuro chequesta donna è venuta nel nostropaese per essere unita a te».Lasciamo per un attimo la miste-riosa profezia e riportiamo un al-tro fatto che lega la vicenda di Teo-dolinda e di Autari a Verona: unepisodio miracoloso, che avvenneprobabilmente nell’ottobre dellostesso anno e che viene interpreta-to come il segno della conversionedi Autari al cattolicesimo.In quel tempo nel Veneto si ebbeuna devastante inondazione«quale non era più avvenuta daitempi di Noè» scrive Diacono,forse esagerando un po’. «Intereproprietà e beni terrieri furonoridotti a campi sassosi e fra glianimali e gli uomini vi furonomorti in gran numero; le stradeerano distrutte, i passaggi ostruitie il fiume Adige, straripando, erauscito così lontano dal suo lettoche nella chiesa del santo martireZeno, che si trova davanti allemura di Verona, l’acqua arrivavaalle finestre superiori». In questodesolante panorama ci immagi-niamo una chiesa allagata, cosache miracolosamente non avven-ne perché l’acqua, come scrissepiù tardi anche papa Gregorio,non penetrò in nessun modo al-l’interno che rimase asciutto.

Primo piano

Vicende amorose,matrimoni e intrighi

di potere hannospesso caratterizzato

la storia di Verona.Ricordiamo la

macabra vicenda diRosmunda e del

longobardo Alboinoambientata nel

palazzo di reTeodorico; c’è poi la

storia di Adelaide,rinchiusa da

Berengario II nelcastello di Malcesine,liberata e poi sposata

dall’imperatoreOttone I, che ispirò

Gioacchino Rossini...

«Questo fatto si verificò il 17 ot-tobre e si ebbero lampi e tuoni ditale violenza che simili non si ve-dono nemmeno d’estate. Duemesi dopo gran parte di questacittà bruciò completamente».Tornando alla profezia, ecco cosaavvenne. Autari dopo le nozze eb-be una figlia da Teodolinda madovette presto abbandonare lacittà di Verona per sfuggire aiFranchi che stavano scendendo laValdadige. Il re si stabilì a Pavia,dove morì il 5 settembre del 590,probabilmente avvelenato duran-te una congiura di palazzo. Nellacittà lombarda Teodolinda fu unaregina amata, governò con sag-gezza e sposò proprio Agilulfo.Vicende amorose, matrimoni eintrighi di potere hanno spessocaratterizzato la storia di Veronadi quei tempi. Ricordiamo la ma-cabra vicenda di Rosmunda e dellongobardo Alboino, ambientatanel palazzo di re Teodorico; c’èpoi la storia di Adelaide, rinchiu-sa da Berengario II nel castello diMalcesine, liberata e poi sposatadall’imperatore Ottone I, cheispirò Gioacchino Rossini. An-che le pene d’amore di Ermen-garda, figlia del re longobardoDesiderio e moglie ripudiata diCarlo Magno, magistralmentenarrate nell’Adelchi del Manzoni,sono il pretesto per raccontare lasconfitta dell’ultimo re longobar-do a Verona e la conquista dellacittà da parte del futuro impera-tore del Sacro romano impero,nel 774.Ce n’è abbastanza per disegnareun interessante percorso cultura-le che non sfigurerebbe come at-trattiva turistica accanto ai cuori-cini rossi appesi per le vie di Vero-na e allo spettacolo Giulietta e Ro-meo di Riccardo Cocciante, ancheper non lasciare Shakespeare dasolo a difendersi dall’intrapren-denza altrui.

Giorgio Montolli

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Una notizia ha di recente occupato le primepagine dei giornali: Michael Seifert, il boiadel lager di Bolzano, pagherà per i sui crimi-ni. Estradato in Italia dal Canada dove, al-l’indomani della fine della seconda guerramondiale, era scappato sotto altra identità,sconterà l’ergastolo che nel 2000 il Tribunalemilitare di Verona, presieduto da Bartolo-meo Costantini, gli aveva comminato e poiconfermato nei successivi gradi di giudizio.Ma per uno che viene assicurato alla giusti-zia, seppure dopo oltre 60 anni, molti altricriminali rimangono impuniti, e così parec-chi episodi di violenza su civili e militari,perpetrati durante l’occupazione nazista inItalia, non vedranno mai un colpevole néuna sentenza.

Troppo tempo è passato. In molti casi infatti,a differenza di quanto avvenuto nella stessaGermania, per molti eccidi e molte straginon è stato possibile dopo il ’45 neppureistruire il processo. Questo non solo ha favo-rito la latitanza dei responsabili di moltestragi, ma ha permesso la prescrizione del

reato o ancora ha fatto venir meno il tessutoaccusatorio a causa della morte dei testimo-ni. Ed anche nella provincia di Verona episo-di di violenza dell’esercito tedesco contro cit-tadini italiani sono e resteranno impuniti eaddirittura se ne sta perdendo la memoria.Questa è l’amara constatazione che si ricavaparlando con il presidente dell’Istituto storicodella resistenza e della storia contemporaneaMaurizio Zangarini, che ci spiega che moltidegli incartamenti raccolti dopo la guerranon solo sono ora insufficienti per istruireprocessi ma spesso non permettono di rico-struire i fatti. Ma come si è potuto arrivare aquesta situazione? Nell’intervista che seguene abbiamo parlato con il Procuratore mili-tare di Verona Bartolomeo Costantini.

Crimini impunitiDopo 60 anni arriva

la condanna del boia di BolzanoSeifert. Nel veronese altri episodidi violenza di cui si sta perdendo

la memoria

25 aprile, anniversario della Liberazione

Giustizia per le vittime

del nazismo

di Laura Muraro

– Alla fine della seconda guerramondiale attraverso quale proce-dura in Italia si pensò di fare giu-stizia per i gravi episodi di violen-za compiuti da nazisti e fascisti?«Bisogna distinguere le compe-tenze. I tribunali militari sonocompetenti per i reati compiutidai mililtari italiani nonché, per

quanto riguarda il codice di guer-ra, per i reati commessi dai nemi-ci ai danni di italiani sia militariche civili, in particolare perquanto riguarda i cosiddetti cri-mini di guerra. I fascisti, le Briga-te nere, non sono assimilati aimilitari ma considerati civili, epertanto i reati da loro compiutisono di competenza della giusti-zia ordinaria. A questo riguardo

perciò l’indomani della guerrafurono istituite delle corti straor-dinarie d’assise per giudicare inmodo rapido i reati di collabora-zionismo con i tedeschi e furonocosì avviate molte indagini edemesse varie sentenze nei con-fronti di fascisti italiani per darerisposte di giustizia immediateed evitare anche episodi di ven-detta».

Bartolomeo Costantini

Tra i crimini rimastisenza un colpevole c’è

l’assassinio delcolonnello Giovanni

Duca, fucilato perché si rifiutò di rivelare

i nomi di antifascisti e partigiani

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– Alla Procura militare di Veronasubito dopo la fine della Secondaguerra mondiale giunsero denun-ce di cittadini o associazioni perviolenze compiute da nazisti con-tro civili?«La procura militare di Verona ne-gli anni immediatamente seguentila fine dl conflitto era stata inte-ressata per denunce provenientida diversi enti, ad esempio ilCNLAI e i Carabinieri. Alcune in-chieste quindi erano iniziate, peròin seguito la Procura generale mi-litare di Roma aveva avocato a sétutte le indagini per i crimini diguerra compiuti da militari tede-schi».– Quali furono i motivi di questaavocatura da parte della Procuragenerale?«Questo avvenne inizialmente perragionevoli esigenze di coordina-mento di indagini e per la maggiorfacilità dell’organo centrale di ot-tenere la disponibilità dei tedeschi

detenuti nei campi di prigioniaanglo americani».– In quel periodo la Procura di Ve-rona ebbe comunque modo di av-viare qualche indagine?«Sempre su delega di Roma si era-no potuti celebrare ben pochi pro-cedimenti, e comunque conclusisisempre con l’archiviazione pernon luogo a procedere in quantoignoti o non rintracciabili i colpe-voli. Tra questi quello per l’uccisio-ne del colonnello Giovanni Duca(a cui è titolata la caserma di Mon-torio). Nell’immediato dopoguer-ra dei congiunti denunciarono l’e-pisodio: ci sono infatti degli atti diindagine svolti dalla PM di Veronache però non ebbero seguito».– Ma la maggior parte degli incar-tamenti rimasero a Roma...«Già a partire dal ’47, e a seguirenegli anni successivi, dalla Procuragenerale romana non furono piùdistribuiti alle varie procure terri-toriali competenti gli incartamenti

delle denunce e delle testimonian-ze raccolte l’indomani della finedel conflitto. Nel 1960 gli atti ven-nero addirittura archiviati dalProcuratore generale militare deltempo in maniera del tutto ille-gittima: non avrebbero potutofarlo e nemmeno trattenerli oltrela prima fase iniziale. L’episodio(il noto armadio della vergogna)scoperto nel 1994 è stato oggettodi indagine non solo da parte didue Commissioni parlamentari,ma anche, a partire dal 1996, daparte dell’organo di autogovernodella giustizia militare (Consigliodella magistratura militare) perscoprire le ragioni di quell’insab-biamento».– In questo periodo di silenziodurato fino al ’94 la PM di Veronaebbe modo di svolgere comun-que indagini e processi contronazisti?«Uno in particolare – ricorda ilProcuratore – iniziato al di fuori

Attualità

Aprile 20086

«Già a partire dal ’47dalla Procura generale

romana non furonopiù distribuiti alle

varie procureterritoriali competentigli incartamenti delle

denunce raccoltel’indomani della fine

del conflitto. Nel 1960gli atti vennero

addirittura archiviatidal Procuratore

generale militare del tempo in maniera

del tutto illegittima»

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della giustizia militare. La procuradi Verona ha infatti un’area dicompetenza piuttosto vasta, checomprende sei province: Brescia,Mantova, Verona, Belluno, Bolza-no e Trento. Ebbe perciò modo diaccogliere il procedimento avvia-to precedentemente dalla Procuracivile di Belluno e poi trasferitoleper competenza: mi riferisco alleritorsioni delle SS nelle valli delBiois e di Falcade. Il processo ini-ziato alla fine degli anni ‘70 si con-cluse nei primi anni anni ‘80 conla condanna all’ergastolo di unmaggiore dell’ SS, reato poi estin-to per la morte dell’imputato».– Dopo il ’94 quanti fascicoli delfamigerato armadio della vergo-gna furono inviati dalla PM diRoma alla PM di Verona? Cheprocessi furono quindi istruiti? «A Verona arrivarono dopo il ’94circa 130 fascicoli e solo allora fupossibile avviare la maggior partedei processi: ma i più importantisono quelli che sono stati poi con-clusi ed in particolare quelli cheriguardavano il lager di Bolzano.Infatti, fra il ‘96 e il ‘99, furono ce-lebrati dalla Procura di Verona iprocessi contro il comandante dellager, tenente Titho e il marescial-lo Hage, successivamente archi-viati. Nel ’99 scoperta grazie allacollaborazione delle autorità te-desche, l’esistenza in vita di Mi-cheal Seifert, venne avviato il pro-cedimento a carico dello stesso,con la richiesta dell’estradizionedal Canada, la raccolta delle testi-monianze e dei verbali dei proces-si dell’epoca fino ad arrivare ai tregradi di giudizio e all’estradizionedel 16 febbraio scorso».– E degli altri fascicoli arrivati aVerona cosa è stato?«Dei molti processi avviati grazieal ritrovamento di questi incarta-menti quasi tutti furono chiusiper archiviazione in seguito allamorte dell’indagato o perché con-tro ignoti o per reati estinti perprescrizione dopo 50 anni».– Qualcuno dei crimini in que-stione che vede il coinvolgimentodi nostri concittadini o avvenutonel veronese rimarrà quindi im-punito? «Sicuramente. Si sa di un plurio-micidio con decine di morti, chesi accompagnò a distruzioni edincendi, avvenuto alle Terrazze il26 aprile del ‘45. In quella circo-

stanza le truppe tedesche trucida-rono otto civili e ventuno soldatigeorgiani come ritorsione adun’azione compiuta da tre parti-giani che avevano sparato sui sol-dati del Terzo Reich in ritirata: ilfatto non fu mai denunciato.C’è poi l’assassinio del colonnelloDuca fatto prigioniero e torturatopresso il comando delle SS in cor-so Porta Nuova poiché si rifiutavadi collaborare con i tedeschi rive-lando i nomi di antifascisti e par-tigiani, e quindi fucilato a Veronail 28 agosto 1944: il responsabile,il maggiore delle SS Kranebitter, èmorto ormai da tempo...».– Che tipo di rapporto si è in-staurato tra la Procura militaredi Verona e le associazioni com-battentistiche e partigiane? So-no state utili al fine dell’accerta-mento della verità? Quale è statoil loro ruolo sotto questo puntodi vista?«Ebbero poco materiale a dispo-sizione da fornire, ma la collabo-razione non è mancata: controSeifert si costituirono parte civilel’Anpi, il comune di Bolzano, lacomunità ebraica».– Quello contro Seifert è quindipresumibilmente l’ultimo pro-

cesso per crimini di guerra a Ve-rona?«Con molta probabilità non ce nesaranno altri, poiché sono ormaipassati oltre 60 anni… anche se cisarebbe ancora da ricercare ilcomplice, Otto Sein. Ma non si sadove sia e se sia ancora in vita...».– A proposito delle responsabilitàdel clamoroso ritardo della giu-stizia, la Commissione bicamera-le, incaricata, nel corso della legis-latura conclusasi nel 2006, di in-dagare sulle cause di questo oc-cultamento, si è alla fine divisasulle conclusioni: leggerezze e ne-gligenze di alcuni esponenti dellamagistratura per gli uni e invecepressioni politiche dettate da ra-

gioni di stato in piena guerrafredda per gli altri. Qual è la suaopinione in merito?– «Occorre sottolineare che laCommissione parlamentare (del-la legislatura conclusasi nel 2001)arrivò ad un’unica conclusione,così come lo stesso Consiglio su-periore della magistratura milita-re: cioè che ci fosse una conver-gente responsabilità di politica emagistratura.E anche secondo me è più credibi-le questa versione (e i documentie le testimonianze di politici comeTaviani, Andreotti lo attesterebbe-ro). Consideriamo, tra l’altro, chein quel periodo la Giustizia mili-tare non aveva le garanzie di indi-pendenza e autonomia attuali(conseguenti alla riforma del1981): si pensi che il Procuratoregenerale era nominato dall’esecu-tivo stesso.Non c’è da stupirsi quindi che igiudici militari fossero molto sen-sibili alle pressioni politichequando il nemico era l’Urss e nonpiù la Germania, che doveva inve-ce entrare nel Patto atlantico. Aquesto si aggiunge un’altra situa-zione che concorse ad insabbiare ifatti: l’Italia avrebbe dovuto chie-dere alla Germania la consegnadei soldati tedeschi macchiatisi dicrimini contro i civili, ma nellostesso tempo da Grecia, Albania eYugoslavia si reclamava invanol’estradizione di nostri militaricolpevoli di analoghi delitti inquesti territori. Con quale credi-bilità potevamo fare queste richie-ste, quando da parte nostra si fa-ceva di tutto per non consegnare imilitari italiani, spesso uomini inposizioni di comando nei territorida noi occupati?».– Quali sono i suoi sentimenti di-fronte a una giustizia che arrivain ritardo di oltre 60 anni?«E’ doloroso che ciò avvenga a co-sì lunga distanza ma è importanteche comunque avvenga, perchéc’è sia l’esigenza di riaffermare unprincipio di giustizia violato e didare un riconoscimento alle vitti-me e ai congiunti. E poi la con-danna emessa ed eseguita assumeun grande valore storico-moraledi prevenzione, affinché, ricor-dando certi fatti assolutamenteimperdonabili e i loro responsabi-li, episodi simili non avvenganopiù».

Attualità

inVERONA 7

«Con molta probabilitànon ci saranno altriprocessi dopo quello di Seifert, anche se

ci sarebbe ancora daricercare il complice,

Otto Sein. Ma non si sadove sia e se sia ancora in vita»

La sede della Procura militare di Verona

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di Elisabetta Zampini

Quando si pensa al concetto di“veronesità” immediatamentevengono in mente due nomi so-prattutto: Angelo Dall’Oca Bian-ca e Berto Barbarani. Attraversoritratti in colori e in parole i dueartisti hanno infatti dato vita evoce all’anima popolare della cit-tà. E rimangono icone e punti diriferimento ancora oggi, benchéil loro percorso artistico ed uma-no si sia svolto a cavallo tra Otto-cento e Novecento. Come a dire,provocatoriamente, che dopo diloro non c’è stato più interpreteautentico, vivace, commosso e

partecipato delle vicende dellacittà.I due artisti vissero in una Veronache attraversava un momento diparticolare vitalità e rinnovamen-to che oggi stenta a riproporsi,quando non prende anzi direzio-ni di verso opposto. Essi sono sol-tanto la punta dell’iceberg di unalarga schiera di personaggi chefurono specchio e artefici, ciascu-no nel proprio ambito specifico,dalla letteratura alle scienze, dal-l’impegno politico a quello socia-le ed economico, di un tempo flo-rido per la città.Il parallelo d’Oltralpe potrebbeessere la Belle Epoque rappresen-

tata con punte massime in Fran-cia nell’ottimismo dilagante se-guito alle nuove scoperte dellascienza e della tecnologia: l’ener-gia elettrica, i servizi igienici, laminore paura di affrontare le ma-lattie e l’ignoto. L’Italia aveva bendiverse situazioni politiche edeconomiche ma le idee e i sentorinuovi si diffondevano comun-que, magari più lentamente, ma-gari in mezzo a contrasti più evi-denti tra nuova ricchezza e fidu-cia e permanenti povertà e dispe-razione.Nel ricordo che i turisti hanno diVerona è compresa anche unapercezione d’insieme originale

Cultura

Aprile 20088

ZAMPINI

Quando Verona vivevaLa città tra Ottocento e Novecento ha vissuto momenti di particolare vivacità

culturale che oggi stentano a riproporsi con formule adeguate ai tempi

Dopo il 1866,a Verona iniziò

un periodo dicambiamenti, con

problemi sociali,economici ma anche

dinamismoimprenditoriale,

scientifico edintellettuale

Page 9: Verona In 18/2008

che spesso si definisce con il ter-mine “asburgica”. Nel senso chenella città permane traccia diquell’impostazione severamentemilitare che l’ha caratterizzata inmaniera evidente per tutto il do-minio austriaco che si concluse il16 ottobre 1866. Per la posizionegeografica strategica, infatti, Ve-rona era un città circondata daforti, vissuta da soldati, limitatanel suo espandersi da precisi vin-coli di carattere militare. Certo,l’economia veronese traeva gran-di vantaggi dalla presenza davve-ro consistente dei soldati con tut-ta una serie di attività di servizio edi accoglienza che dava lavoro amolti. I militari erano indubbia-mente fonte di reddito. Tuttaviaera un’economia senza possibilitàdi sviluppo e legata alla contin-genza, perciò non autonoma.

Mentre nel resto dell’Europa enella vicina Lombardia già si av-viavano, nel bene e nel male, iprocessi di sviluppo e di una verae propria rivoluzione industriale.Così, dopo il 1866, a Verona ini-ziò un periodo di cambiamenti,con problemi sociali, economicima anche dinamismo imprendi-toriale, scientifico ed intellettuale.Convivevano insieme le vetrineilluminate e le orchestrine deicaffè, dove si esibivano gli artistipiù eccentrici e le dame più ma-liarde, con la miseria delle cam-pagne e la pellagra che continua-va a mietere le sue vittime non-ostante le ricerche mediche perdebellarla fossero state intensifi-cate anche dagli studi dello stessoLombroso.La voglia era quella del rinnova-mento, in uno spirito di intra-prendenza, fiducia nel futuro enelle possibilità umane, un otti-mistico andare avanti poi brusca-mente fermato dal disastro epo-cale della Grande Guerra. Il velo-cipede e la mongolfiera sono,simbolicamente, le immagini deldinamismo e della corsa verso ilfuturo. Molte volte si alzarono involo i palloni aerostatici che affa-scinarono i veronesi. Partivanodall’arena sistemata e ripulita in-sieme alle Arche scaligere e ad al-tri luoghi della città, mentre era-no iniziati gli scavi per riportarealla luce il Teatro Romano.Il velocipede fece la sua comparsanelle strade di Verona nel 1874,incredibile con quella sua enormeruota anteriore. Nel 1890 comin-

Storia

inVERONA 9

É come se in queltempo di confine tra

due secoli fosseroaccolte a Verona tutte

le sfumature e leimplicazioni umane,

culturali, economiche,sociali, politiche che

comportavano ilrinnovamento in atto

e il dover affrontarenuove situazioni

anche problematiche.È un tempo

memorabile esignificativo proprio

per l’ampiezza divedute e soprattutto

per la vivacitàculturale non

accademica ma calatanel flusso

dell’attualità

ciò a girare un modello di bici-cletta più simile a quello che usia-mo oggi e che allora si chiamava“bicicletto”. Fece così tanto suc-cesso questo nuovo mezzo di tra-sporto che nel 1892 il comune,sull’onda di diversi incidenti stra-dali tra ciclisti e pedoni, ne proibìl’uso. Decisione ferma ma ridico-la, revocata non molto tempo do-po.La città cambiava volto, recupe-rava una memoria storica, siapriva e nuove prospettive. Poitra il 15 e il 18 settembre 1882l’Adige esce dagli argini, furiosa-mente, invade le strade e le case.È un fatto disastroso davvero digrandi dimensioni. Lo stesso reUmberto I si sentì in dovere di ve-nire a Verona per manifestare lasua vicinanza e il suo sostegnomentre l’esercito si occupava diportare ogni tipo di aiuto e venivaindetta una lotteria nazionale persostenere i soccorsi. La reazionepositiva fu la sistemazione degli ar-gini e la costruzione dei lungadigi.Ci fu poi la costruzione dell’ac-quedotto e del canale Camuzzoni,che permise l’insediamento dellanuova zona industriale in BassoAcquar e che alimentava il primoimpianto elettrico municipaleentrato in funzione nel 1899.Anche il settore primario ricevet-te un nuovo impulso con l’intro-duzione di nuove macchine per lamietitura e trebbiatura, il miglio-ramento della coltivazione dellavite e la fortuna del tabacco e del-la barbabietola da cui si sviluppa-rono le attività degli zuccherifici.

Page 10: Verona In 18/2008

Nel celebre caffèDante i clienti

potevano trovare igiornali per tutti i

gusti: politici, sportivi,umoristici. Ci fu un

momento in cuiconvissero insiemequattro quotidiani:L’Arena, L’Adige,

Verona Fedelee La Nuova Arena.

Su quest’ultima iniziòa scrivere EmilioSalgari. Senzadimenticare la

redazione veronese de Il Gazzettino

e le variepubblicazioni

satiriche

che accompagnava il nuovo voltoindustriale. I caffè erano i luoghidi ritrovo e fucine di idee, c’eraun interesse partecipato dai citta-dini per gli accadimenti nazionalie internazionali o per le amorosevicende. Il bisogno di informa-zione e di dare spazio ai millepensieri e contraddizioni di un’e-poca era grande e la carta stam-pata soddisfaceva questo bisogno.Nel celebre caffè Dante, nell’o-monima piazza, i clienti potevanotrovare i giornali per tutti i gusti:politici, sportivi, umoristici. Ci fuun momento in cui convisseroinsieme quattro quotidiani: “L’A-rena”, “L’Adige”, “Verona Fedele” e“La Nuova Arena”. Su quest’ulti-ma iniziò a scrivere Emilio Salga-ri. Senza dimenticare la redazioneveronese del “Gazzettino”. Nonmancavano le riviste letterarie tracui spicca il significativo esperi-mento de “La Ronda”. Ma la partedel leone la facevano i fogli umo-ristici, tanti, dalla vita più o menobreve. Erano fogli immersi nellavita cittadina, con lo sguardo e at-tento ai particolari, presenti aiconsigli comunali, interessati allapolitica e alla quotidianità. Eranopubblicazioni vigili, nel linguag-gio della satira che fa ridere dicuore tenendo all’erta i cittadini.Il più famoso di tutti fu il “Can dala Scala”, al quale collaborò ancheRenato Simoni prima di lasciare“L’Arena” per trasferirsi nella re-dazione de “Il Tempo” di Milano.Nel 1890 compare anche “Verona

del Popolo”, un settimanale (di-ventato nel 1902 quotidiano) chesi occupava con impegno dellequestioni sociali e che aprì ancheun’inchiesta di denuncia sullacondizione dei ricoverati nel ma-nicomio di San Giacomo.L’attenzione al sociale si allargavasulla situazione di povertà osfruttamento in cui vivevanomolte persone, sia nelle campa-gne sia in città, dove molti si era-no inurbati in cerca di lavoro e si-stemazione migliore diventandospesso senzatetto. E tutti, dalmondo della cultura a quello po-litico imprenditoriale a quello re-ligioso, si sentivano chiamati incausa da questa urgenza. L’ammi-nistrazione comunale intervennein modo significativo per soste-nere le strutture assistenziali esi-stenti e nel 1891venne allestitol’asilo notturno Camploy, dovetrovavano rifugio più di un centi-naio di persone a notte, special-mente nei periodi invernali. Que-sti problemi c’erano sempre statima adesso diventano evidenti, so-no messi in luce, si denunciano, sicercano soluzioni: si dimostracioè un interesse.Il Veneto fu la regione che toccò ipicchi più alti di emigrazionetransoceanica proprio nel perio-do della Belle Epoque, alla ricercadi condizioni migliori. Segno cheinsieme alla fiducia nel progressoconviveva un sentimento di penae di desiderio di cambiamentoanche tentando soluzioni difficili,

dolorose come lasciare il propriopaese, vendere tutto e partire.Berto Barbarani descrive nel 1896la situazione degli emigrati nellapoesia “I va in Merica”. Vi emer-gono le complesse e varie motiva-zioni che stanno alla base dell’e-migrazione locale: «Fulminadi daun fraco de tempesta,/ l’erba deiprè, par ‘na metà passìa,/ brusà levigne da la malatia/ che non lassa ivilani mai de pèsta;/ ipotecandotuto quel che resta,/... Ma a starqua, no se magna no, par dio,/ bi-sognerà pur farlo sto gran passo,/sel’inverno el ne capita colgiasso,/pori nualtri, el ghe ne fa undesio! Drento l’Otobre, carghi defagoti,/dopo aver dito mal de tuti isiori,/dopo aver fusilà tri quatrogoti,/ co la testa sbarlota, imbria-gada,/ i se da’ du struconi in tra delori,/ e tontonando i ciapa su lastrada».Quasi come risposta a queste tra-sformazioni sociali iniziano le ri-cerche sul folclore locale di EttoreScipione Righi, Pietro Caliari eArrigo Balladoro. Non è un casoche il recupero del patrimoniodegli usi, costumi, delle musiche edanze, delle fiabe, leggende, pro-verbi locali avvenga in un mo-mento di passaggio. Campagne emontagne cominciavano ad esse-re abbandonate dagli abitanti di-retti verso le industrie che sorge-vano attorno alle città o versonuovi mondi. La transizione èpercepita da questi studiosi e in-tellettuali unitamente al culto peril passato, al popolare di deriva-zione romantica e a un’esigenzadi sistematizzazione di tutti i ma-teriali. Infine la percezione chequesti materiali rischiavano diandare perduti insieme con losmembramento delle comunitàdi cui costituivano elementoidentitario.Si ha allora l’impressione che inquel tempo di confine tra due se-coli fossero accolte a Verona tuttele sfumature e le implicazioniumane, culturali, economiche,sociali, politiche che comportava-no il rinnovamento in atto e il do-ver affrontare nuove situazionianche problematiche. È un tempomemorabile e significativo pro-prio per l’ampiezza di vedute esoprattutto per la vivacità cultu-rale non accademica ma calatanel flusso dell’attualità.

Storia

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Il 14 marzo 1898 venne inaugura-ta la fiera internazionale Cavalli edell’Agricoltura.L’analfabetismo era ancora moltodiffuso ma l’Amministrazionedella città si occupò di allargarel’offerta dell’istruzione primariae secondaria e ampliò la Bibliote-ca civica.La città respirava dunque ancheun notevole fervore intellettuale

Page 11: Verona In 18/2008

di Piero Piazzola

Per quanto riguarda la montagna,la Lessinia in particolare, marzonei tempi andati manteneva vivain calendario una tradizione tuttapopolare: Cantar marso.Era un saluto speciale alla prima-vera vicina, di stampo popolare,lanciato da ragazzi e giovani conun’esplosione di suoni e canti at-torno ad un falò e con l’accompa-gnamento sonoro dei campanacci(le ciòche). Durante le prime seredel mese i ragazzi del paese mar-tellavano tutta la comunità con ilsuono di secchie e contenitori dilatta (i bandòti) e di campanacci(le ciòche), scandendo mordaci fi-lastrocche. Oggetto di queste bur-le erano, per lo più, i personaggipiù strani: povere zitelle delle con-

trade che venivano accoppiate(nel canto) a curiosi cavalieri;spesso erano resi pubblici, senzaalcun ritegno, i futuri matrimonio le liti tra coniugi e tra morósi;oppure si denunciavano pubbli-camente le fughe da casa di qual-che moglie o di qualche ragazzache con i genitori non andava piùd’accordo.Divisi in due gruppi distinti, sudue dossi opposti, i gruppi si da-vano botta e risposta con un dia-logo a distanza, comunementedetto “la canta”, eccone una: « En-tra marso in questa sera / par mari-dar ‘na puta bela – Ci ela, ci nonela? – L’è la Roseta che l’è marida-réla – Ci ghe dénti par moroso? –Quel de la Piassa che l’è on bel toso– Cossa ghe dénti par dota? – ‘Napegora morta ligà co ‘na stropa –

Cossa ghe dénti par stima? – On fe-ro rosso e ‘na lima ».La chiassosa sarabanda andavaavanti di questo passo fino alle orepiccole della notte.

Nel dopo Quaresima la vita dellecontrade si rianimava. La settima-na che precedeva la Pasqua era de-dicata alle tradizionali pulizie pas-quali, anche per riflettere il moti-vo della purificazione spiritualeche ricorreva in occasione del-l’imminente festa religiosa.Si riassettavano a fondo le dimoredetergendo granari, càneve, muri,cassóni (madie) e camini. Con uncerto tipo di sabión, mescolato asale e aceto, oppure con farina dipolenta e aceto, si lucidavano i ra-mi (pentole usate sul focolare);nei tempi andati v’era addirittura

Tradizioni

inVERONA 11

DOPO L’INVERNO

Pasqua e dintorniNel dopo Quaresima la vita delle contrade si rianimava. Era un tempo dedicato

alle tradizionali pulizie pasquali, che ricordavano la necessità di purificare anche lo spirito per essere pronti a celebrare la grande festa religiosa

In Lessinia a marzoera viva una

tradizione tuttapopolare:

“Cantar marso”.Un saluto speciale alla

primavera vicina,di stampo popolare,lanciato dai ragazzicon un’esplosione di

suoni e canti attornoad un falò e con

l’accompagnamentodei campanacci

Nella fotografia in alto: Cerimonia di battesimo del 1930

con la presenza (da sinistra adestra) del sindaco, del parroco, del

sacrestano, di un bambino, dellacomare col bimbo da battezzare, del

padre e della suocera

Page 12: Verona In 18/2008

un ambulante, il soldamaro, cheveniva saltuariamente nei paesi avendere questo tipo di sabbia par-ticolare. La catena del camino chereggeva le pentole, veniva trasci-nata lungo le strade dai bambiniper scrostarla dalla fuliggine, maanche come difesa contro strìe eanguane che, si diceva, scendevanodai camini a portar scalogna.

In quest’occasione si faceva anchela tradizionale lìssia, un bucato ec-cezionale con acqua e cenere, mol-to efficace per lenzuola e bianche-ria; la cenere che rimaneva dallabróa (il lissiasso, acqua bollente, sa-tura di cenere, che si versava sopraun grosso telo, el bugaról, nel bren-tón, una brenta molto grande), ve-niva conservata gelosamente in unangolo dell’orto, perché sarebbeservita come letame; la vecchia ac-qua santa, che era stata conservatain casa dal Sabato santo dell’annoprecedente fino a quel giorno, fini-va sul fuoco e si rimpiazzava conquella nuova.

I Sepolcri, che qualche anziano ri-corderà ancora e che dominavanola scena del Giovedì santo, eranodegli altari, riccamente addobbatidi piante e lumini e ornati di fioriper l’adorazione straordinaria delCorpo di Cristo. Per capirli me-glio, bisogna rifarsi alla stagione incui, di norma, ricorre la Pasqua(fine marzo o primi d’aprile); faancora freddo, la natura stenta ascongelarsi. Una volta non c’erano

tere sui denti di un rullo di legnoprovocando un rumore secco emartellante. Nei monasteri, anti-camente, non avendo ancora lecampane, usavano il crotalo, unaserie di nacchere di dimensionipiù grandi.

Nelle tre serate del martedì, mer-coledì e giovedì si cantavano inchiesa i Matutini, una sequenzaininterrotta di un’ora abbondantedi salmi, lezioni, antifone, inni,tutti in latino, per cui chi sedevatra i banchi non ci capiva niente. Ei primi a non capirci niente eranoproprio i ragazzini che arrivavanoa quelle funzioni muniti della pro-pria ràcola, perché così voleva ilcopione, e soprattutto perchéquelle erano occasioni speciali perdar sfogo alla loro esuberanza.Quando terminava la recita deiMatutini, il parroco percuoteva ilmessale sull’inginocchiatoio; eraquello il segnale con cui i ragazzidavano il via ad un tremendo stre-pito con i loro arnesi. Si diceva cheai presenti il baccano dava l’im-pressione di partecipare fisica-mente, in veste di giudei, alla con-danna a morte di Gesù. Ma il gior-no seguente, al “Gloria” del Giove-dì santo, con la celebrazione dellaMessa granda si rientrava in un’at-mosfera di festa, sottolineata daifestosi suoni delle campane, dalsuono di campanelli che ogni ra-gazzino, sempre come copione, siportava dietro per quella funzio-ne, dallo sparo di trombini, deimortaretti e dallo scoppio dei bus-soloti col carburo. I grandi sparava-no i màscoli che di solito erano re-siduati bellici della Prima guerramondiale. Li caricavano con pol-vere nera, vi introducevano unamiccia, pressavano il tutto conpolvere di mattone frantumata epoi li facevano detonare.Gli scoppi col carburo, invece, era-no il diversivo pasquale personaledei ragazzi che cercavano un po’ dicarburo (gas di acetilene); allora losi trovava con una certa facilità,perché i minatori che tornavanodal Belgio o dalla Francia si porta-vano a casa le lampade e anche unpo’ di carburo; ma lo vendevanoanche in certi negozi di genere. Siprendeva un bussolotto, di quellidella conserva di pomodoro diuna volta, vi si praticava sul fondoun piccolo foro. Si scavava un pic-

cola buca nel terreno, vi si sputavadentro, si depositava nello sputoun tantino di carburo e poi, velo-cemente, vi si ribaltava sopra ilbussolotto, lo si stuccava per benecon terra tutt’attorno, cercandocon un dito di otturare bene il foropraticato. Poi, dopo qualche se-condo, via il dito dal buco e con unfiammifero s’innescava la scarica;esplosione garantita. E anche... pe-ricolosa.

Le donne, solitamente affaccenda-te in casa con i bambini, uscivanoa camminare con loro per la con-trada, facendo attraversare la stra-da ai più piccoli, quasi a istruirlisui disagi che avrebbero potuto in-contrare nella vita; gli uomini sle-gavano gli animali dalle canàole,collari di legno che li tenevano le-gati alle mangiatoie (grépie). La se-ra del Giovedì santo si celebravauna solenne processione per le viedel paese, illuminato a festa dalanterne e lumi sui davanzali (nonc’era ancora la luce elettrica), conle finestre addobbate con drappicolorati, accompagnato dai Con-fratelli del Santissimo con le lorocappe rosse che reggevano il bal-dacchino o portavano le torce do-rate, oppure gli stendardi.In certi paesi di pianura e di colli-na, la mattina del Giovedì santo,dopo lo scampanio imponente del“Gloria”, i contadini andavano alegare con delle stròpe (vimini) lepiante da frutto, perché si credevache la pianta avrebbe dato fruttipiù abbondanti.Il Venerdì Santo, sempre di sera, sisvolgeva una processione con laCroce senza la figura del Cristo, esi cantava l’inno“Vexilla regis pro-deunt”. Quelle certe croci, che sirinvengono ancora adesso in qual-che crocevia dei nostri paesi, era-no dette “Croci della Passione” ederano guarnite con i simboli dellapassione del Signore. In alcunipaesi vigeva la tradizione di porta-re in processione la sera del Vener-dì una croce di quel tipo. Per taleprocessione, anticamente, usava-no come lumi sulle finestre grosseconchiglie di bogóni, piene di oliolampante, non commestibile.

Il giorno di Venerdì qualche ma-cellaio improvvisato uccideva unamucca; le parti migliori le vendevaa un commerciante della vallata; il

Tradizioni

Aprile 200812

fiori di questa stagione e se c’era-no, erano i soliti gerani conservatinelle stalle. Ma poi le donne diquei tempi non si curavano tantodi tenere vasi di fiori; c’era dell’al-tro ben più importante cui pensa-re: “la fabbrica dell’appetito”, co-me si usava dire; l’hobby maggioreera el cassón de la polenta (madia),che non doveva mai restar vuota.Ad ogni modo, un po’ di verde at-torno al Sepolcro le donne riusci-vano ugualmente ad assicurarlo.Seminavano per tempo in alcunivasi un po’ di frumento, poi porta-vano i vasi nella stalla per una die-cina di giorni e il frumento, a queltepore e con quell’umidità germo-gliava rapidamente e cresceva infretta, fino a una trentina di centi-metri d’altezza. Il verde per il “Se-polcro”era garantito.

Durante i giorni che andavano dalGiovedì santo alla mattina del Sa-bato santo, le campane tacevano eal loro posto si ripercuoteva il cre-pitar delle ràcole, (i Cimbri le chia-mano snére) dal suono mesto e tri-ste. Ogni famiglia, dove c’eranoragazzini soprattutto, aveva la suabella ràcola oppure un aggeggio si-mile (ranèle, snàtare) per far fra-casso. In certi paesi di matricecimbra, più indietro nel tempo, sisostituiva il suono delle campanecon quello del grolón, un arnese si-mile alle ràcole sistemato sul cam-panile; era né più né meno cheuna cassa di legno con delle stec-che elastiche che andavano a sbat-

L’”Ultima Cena” in una formella del portale di San Zeno.

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resto, a chili e a mezzi chili, venivaceduto a buon mercato alle fami-glie del luogo per fare il brodo perla domenica per la tradizionaleminestra con le taiadèle. Il giornodi Pasqua era infatti solennizzato,dopo la lunga parentesi di astinen-ze e digiuni della Quaresima, conun pranzo particolarmente ricco abase di taiadèle in brodo con i figa-dìni, di carne di manzo o di cap-pone con i crauti, pearà, crén, edolci, le tipiche brassadèle, focaccemolto leggere che avevano la for-ma del sole, simbolo appunto del-la bella stagione, e ne costituivanoun’invitante manifestazione.L’unica nota, poco conforme allasolennità, era il vino; un vino neroche si ricavava da un’uva nera epiuttosto aspra di collina, ché aberlo, si diceva, bisognava appog-giarsi saldamente a un muro pernon cadere a terra.

Di mattino prestissimo, prima an-cora che il sole all’orizzonte, fil-trasse le nebbioline primaverili,sulla piazza, davanti alla chiesa, ilsacrestano accendeva un fuoco tradue sassi posticci, con dei rami diolivo tenuti in serbo dalla festadelle Palme e i ragazzini vi aggiun-gevano, come consuetudine, unastèla, un pezzo di legno, mentrel‘interno del tempio era completa-mente buio. Poi usciva il sacerdoteaccompagnato dai confratelli delSantissimo e dai chierichetti, san-tificava il fuoco e scaldava quattrograni d’incenso a forma di chiodi e

li infiggeva nel cero tanto da for-mare una croce; cerimonia che siripete ancora adesso. Quindi par-tiva verso l’interno della chiesauna processione che andava a por-tare, via via, la luce alle candele de-gli altari e a tutte quelle delle ciocà-re, cioè quei grandi lampadari chependevano dalla volta della chiesa,carichi di candele che il sacrestanoaccendeva una ad una. Dopo unalunga sequenza di inni e di orazio-ni e il canto della Litanie dei Santi,aveva luogo il rinnovo dell’acquadel fonte battesimale. Dopo lafunzione le donne si procuravanouna bottiglietta di acqua del nuo-vo fonte che poi portavano a casa eversavano nelle acquasantiere ailati dei letti oppure tenevano inserbo per la successiva benedizio-ne pasquale delle case.

Quando nell’area cimbra dei Tre-dici Comuni, dopo la ricorrenzadella Pasqua, nasceva il primo ma-schietto il battesimo assumeva uncarattere del tutto straordinario:quel bimbo aveva l’onore di esserebattezzato con l’acqua santa con-sacrata il sabato santo. Per tale ri-correnza ricorreva il detto che ilbambino el g’à verto el fonte oppu-re che el g’à rinovà el fonte.E i cerimoniali esteriori che ac-compagnavano l’aspetto stretta-mente religioso assumevano uncarattere di straordinarietà. Il cor-teo — se si può chiamare così ilgruppetto di persone che parteci-pava alla cerimonia — che di nor-

ma accompagnava il neonato, eracostituito dal padre (mai dallamamma), dai due padrini, dallacomare che aveva assistito al partoe da una schiera di ragazzini chepuntavano solamente a ricevere iconfetti e la mancéta dopo le ceri-monia.V’erano tre confratelli del Santis-simo in pompa magna che porta-vano la Croce e due torce, il sagre-stano, qualche fabbriciere e qual-che persona di prestigio nella vitadella comunità, come il sindaco ol’amministratore comunale; il cor-teo era seguito da un agnellino diun paio di mesi di vita, tutto abil-mente agghindato con carta dafiori e con dei campanellini al col-lo. L’agnello, poi, a battesimo avve-nuto, lo lasciavano al parroco cheprocurava di sistemarlo nella suastalla e di foraggiarlo per bene perun altro mese circa. Al momentopiù propizio il parroco invitavatutti coloro che avevano parteci-pato al battesimo, faceva cucinarel’agnello, lo accompagnava condell’ottimo vino e tutto finiva ingloria.

A cominciare dal lunedì successivoall’ottava di Pasqua, parroco e sa-grestano incominciavano una set-timana di impegno piuttosto pe-sante: la benedizione della case.Durante la messa domenicale ilparroco emanava dal pulpito il ca-lendario e gli itinerari con l’elencodei nuclei familiari direttamenteinteressati a quella visita straordi-

naria. Quando il parroco partiva,lo seguiva il sacrestano con unadérla (bicollo) e due sésti da lissiaper depositare le uova che ogni fa-miglia avrebbe donate.E quando a una famiglia toccava ilsuo giorno si trovavano tutti algran completo in casa, nel localedi cucina, attorno a un tavolo sucui era stata stesa una tovaglietta,accese due candeline di quelle del-la Serióla, preparato un bicchierecon dell’acqua benedetta il Sabatosanto e un rametto di ulivo per labenedizione.In un piatto fondo da minestra lamadre deponeva delle uova di gal-lina, tante quante erano le personedel nucleo familiare. Il sacerdoteimpartiva la benedizione «alla casae ai suoi abitanti» e il sagrestanoraccoglieva le uova e le ponevanelle ceste. Al posto delle uova ilparroco poneva nel piatto alcunecandeline benedette il dì della Se-rióla, tante quanti erano i compo-nenti della famiglia.Quella era l’occasione più appro-priata anche per far celebrare dellemesse per i propri defunti, di sal-dare eventuali ”sospesi” (leggi“quote sociali della Confraternitadel Santissimo), di rimediare condenaro alla mancata consegna del-la legna al parroco e per definirealtri piccoli debiti. Ovviamentesaldi o anticipi avevano luogo inbase a uova; e la primavera era lastagione più propizia e generosanella deposizione delle uova daparte delle galline.

inVERONA 13

Durante i giorni cheandavano dal Giovedìsanto alla mattina del

Sabato santo, lecampane tacevano e al

loro posto siripercuoteva il crepitardelle ràcole, dal suono

mesto e triste. Ognifamiglia, dove c’eranoragazzini soprattutto,

aveva la sua bella ràcolaoppure un aggeggio

simile per far fracasso

Venditore di uova(Stampa A. Bertarelli, Milano)

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di Alice Castellani

Nello studio della scultrice vero-nese Gabriella Manfrin c’è un bu-sto dedicato a Enrico Bernardi, ilgenio scaligero che alla finedell’800 inventò il primo motore ascoppio alimentato a benzina.Il busto è stato realizzato su com-missione dell’ASTaV (Associazio-ne Scienza e Tecnica a Verona),creata da appassionati di archeolo-gia tecnica per cercare di salva-guardare il patrimonio di materia-le tecnico scientifico e diffondernela conoscenza, ma è ancora in atte-sa di trovare una degna collocazio-ne. L’idea iniziale era quella di col-locarlo in piazza a Quinzano, dovec’era la residenza estiva della fami-glia Bernardi nel cui cortile l’in-ventore aveva ricavato un labora-torio. Ora sembra più probabileche il busto, progettato per essereposto su marmo rosso di Verona earricchito da due elementi in ac-ciaio, possa trovare posto all’Arse-nale, dove potrebbe nascere ungiardino dei veronesi illustri dellaScienza e della Tecnica, visto ancheil progetto di trasferire in questasede il Museo delle Scienze Natu-rali, a cui potrebbe associarsi forseanche un Museo della Tecnica. Ilprogetto deve però ancora esserevagliato e approvato dal Comunee la speranza è che presto la cittàche ha dato i natali all’ingegnere einventore, il cui prototipo di vei-colo circolò per la prima volta nel-l’estate del 1884, riesca a onorare

questo genio di cui esistono nu-merose opere non ancora catalo-gate.La realizzazione della prima auto-mobile da parte di Bernardi è co-munque ricordata da una lapideposta in occasione del centenariodella scoperta sulla casa di fami-glia di Quinzano che recita: “Inquesta casa Enrico Bernardi ideò esperimentò geniali opere dellascienza e della tecnica e nel 1884realizzò il primo veicolo con mo-tore a benzina della storia”. Ma chiera Bernardi? E perché solo disfuggita viene ricordato un perso-naggio la cui invenzione rivoluzio-nò il mondo? Enrico Zeno Bernardi era nato il20 maggio 1841 da Lauro Bernar-di, medico-fisico, e da Bianca Car-lotti. La sua intelligenza e la suacreatività furono molto precoci vi-sto che a dodici anni aveva già ini-ziato a pensare alle problematicheconnesse ai veicoli in movimentoe, aiutato da alcuni compagni discuola e di giochi, aveva costruitoun piccolo carro per rilevare e stu-diare la differenza delle traiettoriein curva delle ruote esterne e in-terne. Un problema affrontato inpassato da Erone Alessandrino eLeonardo da Vinci, e che sarebbestato poi risolto con l’impostazio-ne del differenziale. Lo stesso Ber-nardi, nel 1896, lo avrebbe risoltocon l’impostazione e la soluzionerigorosa dello sterzo singolo delleruote direttrici di un quadriciclo.Nel 1856, quindicenne, Bernardi

Scienza

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INVENZIONI

Il motore a benzinafu l’idea di un veronese

Enrico Bernardi anticipò di due mesi Karl Benz e Gottlied Dailmer.Ideò un motore a scoppio che sfruttava come combustibile il derivato del petrolio

presentò all’Esposizione veronesed’agricoltura industria e belle artiun modello di locomotiva e unmodello di macchina a vapore fis-sa, da lui realizzati presso le Offici-ne Ferroviarie di Verona inaugura-te nel 1854 fuori Porta Vescovo, leprime a costruire, in numero limi-tato, locomotive concepite e pro-gettate da un tecnico italiano, l’in-gegner Cappelletto. E per quei duemodelli, in cui per la prima voltaveniva affrontato il problema delladistribuzione dell’inversione delmoto ad un solo eccentrico, Enri-co Bernardi ottenne giustamenteuna menzione onorevole.Dopo gli studi nella città nataleBernardi si laureò a Padova in ma-tematica nel 1863 e nei quattro an-ni successivi ricoprì, contempora-neamente gli incarichi d’assistentealle cattedre di geodesia, idrome-tria, meccanica razionale e fisicasperimentale. Fu poi professore difisica e di meccanica e quindi pre-side dell’Istituto Tecnico di Vicen-za, dove, nel 1870, compì un inte-ressante studio sull’eclisse solareche originò l’opera Importanza diun’eclisse totale di sole (Vicenza,1870), grazie a cui Bernardi diven-ne socio corrispondente all’Istitu-to Veneto di Scienze Lettere e Arti,di cui sarà membro effettivo nel1878.È del 1873 un suo scritto circa ilmodo di utilizzare il calorico del-l’ambiente per produrre lavoro,mentre già l’anno successivo pre-sentò all’Istituto Veneto uno stu-

Alcune immagini di Bernardi con la sua automobile a tre ruote

Page 15: Verona In 18/2008

Scienza

inVERONA 15

dio su un nuovo motore a gas illu-minante. Il motorino costruito daBernardi aveva la potenza di 1/50di KW e consumava quasi il 20%in meno dei contemporanei mo-tori germanici, di potenza 80 voltemaggiore, costruiti dagli ingegneriLangen e Otto. Nel 1878 costruìun secondo motorino a gas illumi-nante, con stelo dello stantuffoagente direttamente sulla mano-vella e non tramite dentiera e roc-chetto, come negli altri motori deltempo. Queste sue ricerche furonopubblicate negli Atti dell’IstitutoVeneto con il titolo Studi sopra imotori atmosferici a gas.L’anno dopo vinse la cattedra dimacchine idrauliche termiche eagricole presso l’Università di Pa-dova mentre è del 1882 il brevettotriennale, o meglio l’attestato diprivativa industriale, per il “mo-tore a scoppio a gas per le piccoleindustrie”, il primo brevetto rela-tivo ad un motore a scoppio acombustione interna operante se-condo un ciclo atmosferico adazione diretta, ovvero la “MotricePIA”, primo motore a funzionarea benzina.Il motore che Bernardi era venutoideando e perfezionando era unmonocilindrico orizzontale, capa-ce di sviluppare due chilogram-metri il secondo alla velocità di140 giri il minuto, che presto di-vennero 200 giri il minuto. Questomotore “atmosferico” possedevaorgani di spinta alternativa (stan-tuffo e asta) molto alleggeriti (soli150 grammi), ed era inoltre corre-dato di un arresto a frizione, idea-to dal Bernardi e da lui chiamato“l’afferratore”oltre a possedere, ri-spetto agli altri motori atmosferi-ci, una finestra, situata “al centrodel fondo del cilindro motore”, ca-pace di dar luogo a “una rapidapropagazione della fiamma in tut-ti i sensi”. La Motrice PIA (dal no-

me della figlia) venne applicatadapprima ad una macchina percucire, presentata nella sezionemeccanica della XVII EsposizioneNazionale di Torino del 1884, evalse a Bernardi il massimo rico-noscimento della sezione motori.Lo stesso anno venne applicata altriciclo giocattolo in legno del fi-glio Lauro, che aveva allora cinqueanni e scorrazzava per le vie diQuinzano. L’idea di applicare ilmotore ad un velocipede, che risa-liva all’italiano Giuseppe Murni-gotti (titolare di un brevetto del1879) venne a Bernardi dopo averprovato di persona il mezzo del fi-glio, veicolo piuttosto faticoso.Forse il fatto che il motore venneapplicato al giocattolo del figlio èalla base della successiva diatribarelativa al fatto se Bernardi fossedavvero il primo inventore di una“macchina” a benzina, che lo videcontrapposto al tedesco Karl Frie-drich Benz (1844-1929).Gli studi e le ricerche di Bernardinel quadriennio 1885-89 si con-centrarono sull’ideazione e la co-struzione di un motore a benzinaper l’autolocomozione secondoun ciclo a quattro tempi, brevetta-to nel 1889 con varie caratteristi-che originali, tra cui il cilindro-motore a camera di compressionediretta e un carburatore di ben-zina a livello costante graziead un galleggiante ope-rante sulla valvola di pre-sa del carburante, corre-data di un dispositivo diregolazione a mano cheha precorso i modernicarburatori a getto pol-verizzato di benzina.Bernardi brevettò dunqueuna serie di dispositivi sullameccanica interna del mo-

tore, sul suo sistema di raffredda-mento e sulla trasmissione deimovimenti alle ruote e allo sterzo.Tra le sue maggiori scoperte appli-cative ricordiamo la postazionedelle valvole di distribuzione delfluido operativo in testa al cilindromotore e con l’azionamento me-diante un bilanciere e un’asta daun eccentrico mosso dall’alberomotore (i cui pregi sono stati teo-ricamente e sperimentalmente di-mostrati vari anni dopo e poiadottati dalle case costruttrici dimotori automobilistici).Bernardi analizzò e discusse inol-tre i vantaggi delle soluzioni qua-dricicle e tricicle, ritenendo dap-prima preferibile la soluzione atriciclo a doppia ruota direttrice.Più tardi, in occasione della pro-gettazione e costruzione delle sueultime autovetture presso la Socie-tà Bernardi di Padova, preferì lasoluzione a quattro ruote, conl’aggiunta del meccanismo diffe-renziale prima superfluo. La guidaera resa semplice dal regolatore divelocità del motore controllabiledal pilota, che sotto il controllo diun unico manubrio azionava i trecomandi dell’innesto, del freno edel regolatore di velocità. Successi-vamente brevettò un dispositivo

Il bustodedicato

all’inventoredi Quinzano

Dove collocare il bustodell’ing. Bernardi: a

Quinzano, dove è natoe aveva il suo

laboratorio, o incentro a Verona?

Dopo le polemichesembra probabile chel’opera della scultrice

Manfrin possa trovareposto all’Arsenale,

dove potrebbe nascereun giardino deiveronesi illustri

della Scienza e della Tecnica

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di comando pneumatico più sem-plice, grazie a un servomeccani-smo ad aria compressa. Dalla mi-nuscola motocicletta azionata conmotore da 1/3 di CV realizzata peril figlio Lauro nel 1884, al moto-scooter a tre ruote in fila del 1892(ottenuto applicando alla biciclet-ta del figlio un carrello-appendicecon il motore LAURO a fare dapropulsore), alla vettura automo-bile a tre ruote che cominciò a cir-colare nel 1894, prima automobileitaliana con motore a combustio-ne interna, fu un continuo susse-guirsi di geniali concezioni inno-vatrici per la tecnica motoristica.Nel 1894 nacque a Padova la So-cietà Miari e Giusti per la fabbrica-zione industriale di motori e divetture automobili Bernardi, tra-sformata poi in accomandita Mia-ri e Giusti e quindi in Società Ita-liana Bernardi. La vettura Bernar-di, con motore a 2,5 CV, presenta-va, sia nel motore sia nei meccani-smi di trasmissione e guida, dispo-sitivi originali che in parte precor-sero i tempi e sono rimasti nellecostruzioni automobilistiche suc-cessive. La macchina raggiungeva i

35 Km all’ora e con questa velocitàvinse le prime gare: la corsa auto-mobilistica Torino-Asti-Alessan-dria, disputata il 17 luglio 1898, levalse un premio di tremila lire peril miglior tempo sul tragitto di 19Km (9 h e 47’). Alla fine del secoloun’autovettura Bernardi percorseben sessantamila chilometri senzadover subire radicali riparazioni,nonostante lo stato delle strade deltempo.La Società Italiana Bernardi nonebbe però successo commerciale evenne posta in liquidazione nelgiugno del 1901, dopo che un cen-tinaio d’esemplari di auto eranostati costruiti e venduti in Italia.Libero dagli impegni della sua So-cietà, l’inventore veronese appro-fondì e intensificò i rapporti di ca-rattere tecnico con i dirigenti dellaFiat, appena affacciatasi alla ribal-ta industriale. Infatti neI 1902 in-contrò a Verona Giovanni Agnelli,fondatore della fabbrica torineseche ben presto riuscì a svilupparsisu grande scala. Ma Enrico Ber-nardi, più che industriale, rimaseper tutta la vita uno studioso. Gliultimi dieci anni padovani, so-

prattutto dal 1910, li dedicò conpassione anche ai problemi dellafotografia a colori, indagando sul-le tecniche di riproduzione del co-lore e degli effetti tridimensionali,nonché a studi ed esperimenti diaerodinamica. Dopo il ritiro dallavita accademica, nel 1917 lasciòPadova e si stabilì a Torino. Quimorì due anni dopo, il 21 febbraio1919, a seguito di una trombosicerebrale. A Padova, nell’Istitutodi Macchine da lui fondato pressola Facoltà di Ingegneria, un picco-lo Museo ne custodisce i cimeli, lepubblicazioni, gli scritti inediti; al-tri cimeli sono esposti nelle saledel Museo dell’automobile a Tori-no, nel Museo della scienza e dellatecnica “Leonardo da Vinci” diMilano, nel nuovo Museo “Nico-lis” dell’Auto, della Tecnica e dellaMeccanica di Villafranca e pressola sede dell’Automobil Club di Ve-rona, dove si può ammirare il pro-totipo della prima automobile ita-liana, creata da Bernardi e lasciataal Museo delle Scienze Naturalidal figlio Lauro, a cui si deve il no-me del motore del primo ciclomo-tore azionato a benzina.

Scienza

Aprile 200816

Bernardi tentò la produzione

di automobili ma non ebbe successo e la Società da lui

fondata venne postain liquidazione dopo

aver venduto uncentinaio di macchine.

L’inventore veronesetrovò il tempo per

approfondire irapporti di carattere

tecnico con i dirigentidella Fiat, appena

affacciatasi allaribalta industriale

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SUL MODELLO 730, SUL MODELLO UNICO O SUL CUDFIRMA E INDICA ALLA VOCE “CODICE FISCALE”IL NUMERO: 00618240238

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Personaggi

Aprile 200818

di Aldo Ridolfi

Sottovoce, con ogni delicatezza,ma confidiamocelo: trentaseianni di vita sono davvero pochi!Se le aspettative di vita oggifossero queste uno non farebbein tempo a terminarel’università, a fare qualche stageall’estero che già vedrebbe lanera signora frequentaresospettosamente le sue stessestrade. Senza aver avuto iltempo di completare unaricerca, un progetto; senza avertrovato un interlocutore stabile,senza aver potuto tentare, conbuone possibilità di successo, dimettere su famiglia, di avere deifigli... Sì, trentasei anni sonodavvero pochi, ma le cose nonsono sempre andate così.

È il 1824 quando a Tregnago,paese della Val d’Illasi, nasceAbramo Massalongo, in unacasa borghese ma non lussuo-sa, ancora visibile in Via deiBandi. È appena il 1860 quan-do la morte lo coglie a soli 36anni. Davvero pochi. Ma secerchiamo di rimuovere la pol-vere che in quasi un secolo emezzo si è depositata sulla sto-ria, e se srotoliamo le alternevicende della sua esistenza, e secerchiamo di toglierlo dai pe-ricolosi tentacoli dell’oblio, ciaccorgiamo di come era spen-dibile una vita brevissima aquel tempo.Da Tregnago si trasferisce a Ve-rona dove compie gli studi su-periori; si iscrive alla facoltà dimedicina a Padova, ma im-provvisamente una diagnosi,allora terribile, spezza l’incan-to: tubercolosi! Abbandonamedicina, troppo impegnativafisicamente, studia legge e silaureerà, ma si tratta di un in-cidente di percorso.Abramo sente prepotente il ri-chiamo della terra, delle grot-te, delle cave. Un filo misterio-so e irrazionale lo lega a quellanatura che pure sembra male-dirlo con una malattia che nonperdona. Studia privatamentescienze naturali a Verona con ilprofessor Manganotti che lo

presenta ad un grande studio-so: Roberto de Visiani, botani-co di Padova, del quale Abra-mo diventa allievo e ospite.Inizia un rapporto bellissimo,caratterizzato da simpatia estima reciproche. E inizia uncammino nel mondo dellescienze naturali che si conclu-derà solo alla morte. Etica-mente intransigente, polemiz-za con alcuni colleghi, tra que-sti lo stesso suo maestro Man-ganotti. Intrattiene rapporticon naturalisti di mezzo mon-do che gli inviano reperti perottenere preziose consulenze; èaccolto in numerose accade-

mie; settaccia la Lessinia e ilVeronese, il Vicentino e il Ber-gamasco, raggiunge a Senigal-lia il professor Scarabelli; sispecializza in lichenologia, inlicheni fossili precisamente, edunque ecco l’affascinante ti-tolo di “principe della licheno-logia”; si occupa dell’orso dellecaverne, perciò viene chiamato“fondatore della paleontolo-gia”; pubblica le sue opere inItalia, ma anche a Vienna, Ra-tisbona, Mosca e Praga. Impa-ra a disegnare con mano fer-missima e felice gli oggetti deisuoi studi.Nel 1851Abramo sposa MariaColognato dalla quale ha cin-que figli, tra questi Caro, Ro-berto e Orseolo. Nel 1856, conaltri intellettuali veronesi, fon-da la Compagnia dell’Ibis, ungruppo di amici che si ritrova-no sotto i portici di San Seba-stiano, presso Porta Leona, perdiscutere sul destino della so-cietà, così esprimendo l’inten-to – come chiariscono Curi eDelaini – «di divulgare, attra-verso articoletti, su giornali adiffusione popolare, la grandescienza da loro posseduta e ap-presa nelle solenni sedute ac-cademiche... ». Mette insieme1500 esemplari di fossili e pre-tende che alla sua morte ven-gano affidati allo Stato italia-no, negandoli, dunque, all’Au-stria.Tossisce, è costretto a mettersia letto, sputa sangue, conoscebenissimo il suo destino, attra-versa perciò momenti di pro-fonda malinconia; confessa al-l’abate Bonvicini di Bassano didover sopportare un «immen-so fardello di melanconie... » esi rammarica perché gli amicilo abbandonano per paura diessere contagiati dal suo mor-bo...Oggi nella protomoteca dellaBiblioteca Civica c’è un suobusto e sotto sta scritto “Natu-ralista” e nei pressi di SantaAnastasia, qui a Verona, c’è ViaAbramo Massalongo e Tregna-go gli ha dedicato la sua piazzapiù bella ...Se trentasei anni vi sembranpochi...!

NATURALISTA

Massalongo:una vita breve

ma intensaIntrattenne rapporti

con scienziati di mezzo mondo che gli inviavano reperti per ottenereconsulenze. Noti i suoi preziosi studi

sull’ambiente della Lessinia

In alto: la casa natale di AbramoMassalongo a Tregnago in Via dei BandiSopra: ritratto di AbramoMassalongo, conservato nellaBiblioteca Civica di Verona,Autografoteca Scolari (si ringraziaper la gentile concessione)

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Personaggi

di Carmelo Ferlito

Vent’anni fa, nel 1987, scompariva GuidoMenegazzi, economista originario di Le-gnago, che fu professore universitario a Pi-sa e Verona. Vogliamo con queste righe sot-tolineare alcuni aspetti del suo pensiero,tentando, in omaggio alla ricorrenza, distrapparlo all’oblio in cui il nostro concit-tadino, tra i padri fondatori dell’ateneoscaligero, è stato gettato.Guido Menegazzi nasce a Legnago, in pro-vincia di Verona, il 15 settembre del 1900.Dopo aver partecipato, giovanissimo, allaprima guerra mondiale, si laurea nel 1921all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dive-nendo in breve tempo assistente volontariopresso l’Università Cattolica del SacroCuore di Milano. In Cattolica sono gli annidi Padre Gemelli, il quale consente al gio-vane Menegazzi di perfezionare gli studi,tra il 1923 ed il 1925, a Vienna, Berlino,Londra e Parigi. All’economista veronese,dunque, non viene certo a mancare la pos-sibilità di conoscere l’ambiente internazio-nale; tornato in Italia, inizia a collaborarecon Alberto de’ Stefani, anch’egli veronese,primo ministro delle Finanze del governoMussolini.Nel 1939, Menegazzi diviene professore or-dinario di Politica economica e finanziaria,andando ad insegnare a Cagliari per un an-no e spostandosi poi a Bari. Nel 1957 vienechiamato a Pisa, a ricoprire la cattedra chefu di Giuseppe Toniolo, mentre dal 1964 lotroviamo a Verona (sede staccata dell’ate-neo patavino), dove rimane, come profes-sore emerito, fino alla morte, avvenuta il 21agosto 1987Benché a qualche economista siano noti gliscritti maturi di Menegazzi, il suo pensieroeconomico inizia ad emergere nel secondodecennio dell’era fascista, anni in cui il re-gime si trova a fare i conti con gli effettiglobali della crisi del 1929: è il momento incui si compie la svolta corporativa e autar-chica e la politica economica mussolinianaviene vista da molti osservatori, anche in-

ternazionali, come una possibile alternati-va sia alla crisi dell’impostazione liberaletradizionale sia alla svolta rivoluzionario-bolscevica maturata in Unione Sovietica.Ciò che verrà scritto dopo gli anni Trentanon muta nella sostanza le convinzioni delgiovane Menegazzi, pur perfezionando iconnotati formali della riflessione.Non abbiamo qui la possibilità di sviscera-re nello specifico il pensiero menegazzia-no. Ci basterà tuttavia insistere su di unpunto: la legge fondamentale dell’equilibrioeconomico-sociale. Inizialmente enunciatanel 1934, sarà il filo rosso di tutta l’analisidi Menegazzi. Questa la prima enunciazio-ne del principio: «La riforma [del sistemaeconomico] deve essere orientata secondoi principii che riconoscono e fissano unagerarchia di valori nella vita economica,basata sulla norma fondamentale: l’essenzadei valori finanziari è condizionata daquella dei beni economici, e l’essenza deibeni economici è condizionata da quelladei bisogni umani».Su tale considerazione si innesta tutta l’a-nalisi economica di Menegazzi. In partico-lare, la moneta e l’organizzazione econo-mica generale devono essere concepite inmodo da rispettare il principio fondamen-tale, ovvero il primato della sfera spiritualee della persona umana sopra ogni cosa. Ivalori economici debbono essere subordi-nati ai valori umani e quelli finanziari esse-re regolati in modo tale da svolgere un’a-zione funzionale a quelli economici, e nonviceversa.Le recenti crisi dei valori mobiliari ci fannopensare che, forse, la lezione di chi sostene-va di portare «la Verità che mi sostiene»possa avere una pesante attualità.

ECONOMISTA

Guido Menegazzi: l’attualità di un maestro dimenticato

inVERONA 19

«L’essenza dei valori finanziariè condizionata da quella

dei beni economici, e l’essenzadei beni economici è

condizionata da quella dei bisogni umani».

Su tale considerazione si innesta tutta l’analisi

economica di Menegazzi.In particolare, la moneta

e l’organizzazione economicagenerale devono essere

concepite in modo da rispettare il principio

fondamentale, ovvero il primato della sfera

spirituale e della personaumana sopra ogni cosa

Il prof. Guido Menegazzi

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di Marta Bicego

Con l’antologica dedicata a Do-menico Gnoli, artista scomparsoprematuramente all’età di tren-tasette anni, si apriva a Verona lastoria espositiva della Galleriad’Arte Moderna Palazzo Forti.Era il novembre del 1982 e la di-rezione del museo civico cittadi-no, destinato a dare spazio e visi-bilità alle tendenze artistichecontemporanee, venne affidata aGiorgio Cortenova, saggista ecritico d’arte affermato, giornali-sta e professore all’Accademia diBelle Arti di Bologna.Sotto la guida di Cortenova lagalleria di Volto due Mori è ri-uscita a tagliare l’ambito tra-guardo dei venticinque anni diattività, con oltre centocinquan-ta mostre temporanee realizzateall’interno dello storico edificioche il botanico Achille Forti nel1937 lasciò in eredità al Comunedi Verona perché ne ricavasseuna struttura museale dedicataall’arte moderna.Palazzo Forti appunto, la cui os-satura originaria (rintracciabilenella cosiddetta “ala di Ezzelinoda Romano”, tirannico capitanodel popolo che governò la cittàdal 1232 fino alla sua morte avve-nuta nel 1259) potrebbe esseredatabile al tredicesimo secolo. Lastruttura medievale ha subito,con il passare del tempo, alcuniinterventi significativi. Il primorisale alla metà del Quattrocentoquando la famiglia Emilei, origi-naria del feudo di Montirone nelbresciano, si trasferì a Verona etrasformò l’edificio in un palazzoresidenziale con locali di rappre-sentanza, biblioteche, giardini,cortili interni e servizi. Il secondointervento risale al Cinquecento;il terzo è invece di epoca sette-centesca e si deve all’architettoIgnazio Pellegrini che stabilì il ri-facimento del fronte principaledella costruzione.Il palazzo divenne un importan-te crocevia di incontri culturali,politici ed artistici. Nei suoi salo-ni Francesco Emilei, provvedito-re della città, ospitò anche Napo-leone I ma (per ironia della sor-te) fu condannato a morte comeinsurrezionalista dal tribunalecapeggiato proprio dallo stessogenerale francese. In seguito Pie-

tro Emilei, acceso carbonaro, fucostretto ad affittare i locali delpiano nobile al comando gran-ducale austriaco presieduto dalgenerale Radetzky. Il periodo dioccupazione austriaca fu quellodi maggior risonanza pubblica:la dimora fu ingrandita e pro-lungata fino all’attuale via Mas-salongo. Fu successivamente Pie-tro degli Emilei, al suo rientro inpatria dopo un periodo di pri-gionia nella fortezza di Salisbur-go, a vendere la proprietà nel1854 ad lsraele Forti che ne ordi-nò un ampio restauro.Si arriva così al 1937 quandoAchille, ultimo discendente dellafamiglia Forti, lasciò lo stabile ineredità al Comune di Verona per-ché, come da precise volontà te-stamentarie, lo adibisse a museod’arte moderna. Con questi com-piti l’edificio rimase aperto perpoco più di un anno. In seguitoagli eventi bellici fu adattato, inun primo momento, a sede del-l’Accademia di Belle Arti e liceoartistico; poi, fino al 1950 circa,venne destinato ad accogliere gliuffici dell’amministrazione co-munale. Nel 1966, sotto la so-

vrintendenza di Licisco Maga-gnato, furono intrapresi alcunisignificativi lavori di restauro cheriportarono alla luce le strutturemedievali. Nel frattempo la sedemuseale, anche se solo per qual-che mese, venne riaperta e quindinuovamente chiusa (se si escludequalche solitaria esposizione) fi-no agli anni Ottanta. Nel 1982l’amministrazione comunale de-cise la definitiva apertura dellaGalleria, che venne inaugurata il14 marzo dello stesso anno.Pur restaurato e rimaneggiato,questo luogo rappresenta un ve-ro e proprio percorso tra epochestoriche e differenti stili architet-tonici. Racchiusa tra i confini delcentro storico, la Galleria d’ArteModerna Palazzo Forti ha sem-pre rappresentato un punto dicollegamento significativo tra lacontemporaneità e le anticheorigini della città scaligera. Ed èforse per questo motivo che vie-ne spontaneo chiedersi perchél’attuale amministrazione comu-nale abbia proposto di metternein vendita le mura, affidandonele sorti ad un incerto destino.“Ho ideato mostre in cui le opere

dialogassero tra loro e il modernosi rispecchiasse dialetticamentenel contemporaneo, e questo nel-l’antico. L’arte è nella storia ma èal di fuori del tempo: non è ideali-smo, il mio, ma atto di fiducia.Nel tramonto della civiltà conser-v iamocene una scheggia” , hascritto Cortenova nel catalogo(edito da Marsilio) che celebra iprimi tre decenni di attività dellaGalleria.Un percorso segnato da continuistudi, catalogazioni ed acquisi-zioni di opere d’arte. Presentainfatti un’interessante collezionepermanente di artisti italianidell’Ottocento e del primo No-vecento: Francesco Hayez, MosèBianchi, Arturo Tosi, GiovanniFattori, Medardo Rosso, Umber-to Boccioni, Ardengo Soffici, Fe-lice Casorati, Mario Sironi, Otto-ne Rosai e Mario Mafai.La raccolta si prolunga al perio-do del dopoguerra, con opereastratte e informali di Emilio Ve-dova e Renato Birolli, fino ad ar-rivare alle tendenze artistiche deigiorni nostri. Ma la vocazionedella Galleria Palazzo Forti èrappresentata principalmente daun’offerta espositiva di respirointernazionale, dalla quale emer-ge una speciale predilezione per igrandi nomi dell’arte e per tema-tiche capaci di attirare l’interessedel pubblico. Wassily Kandinsky,Amedeo Modigliani, René Ma-gritte, Giorgio de Chirico, PabloPicasso, Salvador Dalí e Joan Mi-ró sono solo alcuni degli artistiche sono stati ospitati all’internodei suoi spazi.Fiore all’occhiello delle moltepli-ci opportunità proposte dallaGalleria è infine il programmadidattico, rivolto sia alle scuoleche al pubblico più in generale. Èun tipo di didattica che si rivolgealla persona, nella quale il museosi trasforma in una occasioneunica per avvicinarsi alle espe-rienze artistiche e riuscire a toc-care con mano la modernità intutte le sue espressioni. Partendodal presupposto che ogni mostraracchiude in sé un valore educa-tivo e formativo, è possibile inquesto modo sfatare il falso mitodell’arte contemporanea come“difficile” da comprendere, an-che se non si è esclusivamentedegli addetti ai lavori.

Cultura

Aprile 200820

GIOIELLI IN VENDITA

Palazzo Forti:donato per l’arte

In venticinque anni di attività più

di centocinquantamostre sono state

realizzate nell’edificioche Achille Forti nel

1937 lasciò in eredità al Comune di Verona

perché ne ricavasse unastruttura musealededicata all’arte

moderna. Ma ora il Comune vuole

venderloPalazzo Forti

Page 21: Verona In 18/2008

Cultura

di Rino Breoni

È ritornato in libreria un volumetto che ri-propone due celebri scritti di don PrimoMazzolari: “Lettera sulla parrocchia/invitoalla discussione” e “La parrocchia”. Il primoscritto, per ammissione dello stesso autore,non ha avuto riscontri, il secondo è statoguardato con sospetto. L’edizione critica,curata dal prof. Maurilio Guasco, introducel’opera nel contesto ecclesiale e sociale deltempo. Gli scritti mazzolariani sono datati:1936 e 1957. L’interesse per realtà come laparrocchia, connotava il periodo storico ele reazioni al messaggio che veniva da unpaese della bassa padana, stavano ad indi-care che alcune realtà sembravano intocca-bili. Riflettervi, annotare, sollevare dubbi,poteva ingenerare reazioni opposte: la non-curanza, come nel caso del primo scritto oil sospetto come nel caso del secondo.Dopo aver letto le pagine appassionate diun uomo il quale per la parrocchia ha spesotutte le sue energie, ritenendola suo primoimpegno ministeriale, realizzazione dellasua vocazione umana, cristiana e sacerdo-tale, viene spontaneo un interrogativo e na-scono molte perplessità sulla condizioneattuale delle nostre parrocchie. Venticinqueanni di servizio in due parrocchie diversetra loro geograficamente, ambientalmente,con stratificazioni sociali altrettanto diver-se, con tradizioni e respiri cristiani quali sipossono viver ed attuare in un centro stori-co ed in una zona assolutamente singolarecon i caratteri del quartiere vero e proprio,mi hanno consentito di trovare nelle paginemazzolariane il vento della profezia e l’in-tuizione profonda di una intelligenza pa-storale che coglie quanto è essenziale edineludibile perché la parrocchia possa resi-stere ai mutamenti storici, comportamen-tali, sociali ed altro.Non servono tante argomentazioni per direche è definitivamente tramontata, anchenei paesi, l’identificazione tra “comunitàparrocchiale” e territorio. È sufficiente con-siderare la sproporzione tra abitanti e pra-ticanti per prendere atto che la parrocchia

intesa come piccolo gruppo di credenti, staal territorio come l’evangelico lievito sta al-la pasta. Ma a questo punto incalzano altriproblemi, perché il territorio come tale ed isuoi abitanti, pur verificando un rarefarsidei legami con la comunità cristiana, con-serva tuttavia l’eco di una prassi, di unaconsuetudine religiosa che continua a chie-dere alla parrocchia riti, gesti, funzioni, ce-lebrazioni sacre col rischio, non molto ipo-tetico, che venga considerata come un’a-genzia distributrice di azioni religiose. Chequeste poi nascano da una sensibilità di fe-de piuttosto che da un vago sentimento re-ligioso, a volte superstizioso, è tutto da di-mostrare.Se ci si chiede il perché di questa situazione,la parrocchia stessa può esserne chiamatain causa come responsabile, almeno in par-te, per aver dato attenzione, spazio, energiead ambiti di vita non strettamente legati al-le sue coordinate essenziali che sono l’edu-cazione alla fede, l’esperienza liturgica e lacarità, vissuta come attenzione vicendevoleai poveri, ai cosidetti lontani. La ricreazio-ne, lo sport, il turismo spirituale, cose purerispettabilissime e di qualche utilità, hannodi fatto assorbito energie a tutti i livelli, sot-traendole talvolta a finalità tutt’altro chemarginali.La parrocchia vive oggi una crisi di identità.Stupisce che le voci profetiche che già si al-zavano molti decenni or sono con modalitàed in ambienti assolutamente diversi (sipensi oltre che a Mazzolari, anche a Milani)siano state disattese, ignorate, guardate ma-le e talvolta ritenute anche espressioni discarso amore della Chiesa. La parrocchia hasubito e sta subendo i contraccolpi dell’ine-sorabile processo di secolarizzazione. Unasocietà che si costruisce aldifuori di riferi-menti religiosi e culturali pone evidentel’interrogativo sul significato stesso di unarealtà come un piccolo gruppo di personecredenti e impegnate in un annuncio comequello del Vangelo di Gesù Cristo. L’eviden-te interrogativo si coniuga con l’altrettantoevidente condizione di minoranza dei cri-stiani, per secoli mentalmente abituati ad

essere maggioranza e a ritenere la societàcivile realtà coincidente con le misure dellaloro esperienza religiosa. Personalmenteconsidero il fenomeno dei cosidetti “movi-menti” come espressione di una ricerca diquanto la parrocchia non ha saputo dare,ma anche come espressione di una ricercadi presenza numericamente consistente,capace di affrontare il momento storicouscendo dall’irrilevanza. Il discorso si fadifficile, perché cristianamente parlando, larilevanza dell’esperienza cristiana non di-pende affatto o esclusivamente dal numeroma dall’azione dello Spirito che anima lacomunità dei credenti.Ed è a questo punto che, preso atto dellanon coincidenza fra territorio e parrocchia,si pone quasi drammaticamente l’impor-tanza che essa potrebbe assumere vivendola propria esperienza tra i cosidetti “lonta-ni”. Quando il Concilio Ecumenico Vatica-no II ci avvertiva che le gioie, le speranze ele angoscie dei cristiani e non v’è nulla digenuinamente umano che sia ad essi estra-neo (GS 1), sostanzialmente ci avvertivache quanto può sembrare il fallimento diuna realtà come la parrocchia, può rivelarsiinvece l’occasione più vera per mostrarne lasua verità e la sua importanza. Vivendo l’e-sperienza dell’uomo d’oggi, condividendo-ne le disperazioni, le tensioni, le ansie, laparrocchia può diventare riferimento disperanza, attraverso la chiarezza della pro-posta evangelica, la leggibilità della vita diquanti in essa si riconoscono.Tutto questo impone un mutamento di ot-tica, un mutamento di linguaggio per co-municare, la capacità di incrociare l’uomocontemporaneo per ripetergli in una cre-scente verità le parole di Pietro e di Giovan-ni allo storpio del Tempio “Non abbiamoné oro né argento ma quello che abbiamolo diamo a te: in nome di Cristo alzati ecammina”. Ricuperare quello che pare unluogo comune, cioè la “povertà”, guardatacome essenzialità e libertà da compromis-sioni mondane, può significare il ricuperoanche della necessità e della verità di que-sta tanto discussa “parrocchia”.

RIFLESSIONI

La crisi della parrocchiaAlcune voci profetiche del passato sono state ignorate. La Chiesa ha le sue responsabilità.Occorre recuperare il valore della povertà intesa come essenzialità

inVERONA 21

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Sopra: Silveria GonzatoIn basso: gli attori dellacompagnia “I Dialettanti”mentre rappresentano “Quel mato de Orlando”

di Irene Lucchese

“In mèso a ‘na stradela che fasso da‘na vita, sòn scapussà in una vèciamarmìta: ò fato ‘n rebaltòn e ò batùel sarvèl, ò serà i òci e me sòn trovàin ciel”. Inferno, 1° Canto delle Di-vina Commedia di Dante Alighie-ri. Dialetto veronese per la più no-ta opera in lingua volgare toscana.È quello che si è inventata SilveriaGonzato, autrice veronese di testiin dialetto e da otto anni registadegli spettacoli della compagniateatrale “I Dialettanti”.Nata nel Duemila in occasione diun breve corso di dialetto, la com-pagnia è composta da una ventinadi persone che hanno iniziato amettere in scena le opere dellaprofessoressa Gonzato. E hannoesordito proprio con La Comèdiadel domìla, rifacimento comico eattualizzato dell’opera di Dante.I lavori della signora Gonzato nonsono da considerarsi traduzionidei grandi classici, ma opere ricchedi fantasia e comicità che, in ognicaso, mantengono lo spirito origi-nale del capolavoro da cui prendo-no spunto, come i sempre richiestiQuel mato de Orlando e I PromessiSpaìsi.Per rendere più vicine al pubblicole grandi opere letterarie, l’autricemostra una grande originalità neicontenuti, soprattutto con richia-mi all’attualità. Così, ad esempio,per L’Inferno del domìla la scrittri-ce ha avuto l’idea di cambiare pec-cati e pene per adattarli alla nostrarealtà: si trovano, infatti, inquina-tori, razzisti, corruttori, spacciato-ri di droga, mercanti d’armi, tuttitraghettati da Caronte e puniti dadiavoli.

Questa curiosa iniziativa ha unastoria più lunga, risalente ad unaquindicina di anni fa. La Gonzatoè stata per molti anni un’inse-gnante di lingua francese. Si è poidedicata agli alunni diversamenteabili e proprio per loro ha volutocreare un diverso metodo di inte-grazione. È qui che sviluppa l’ideadi portare in scena i classici dellaletteratura, aggiungendo la parti-colarità del dialetto: in questo mo-do è riuscita a mettere sullo stessopiano tutti gli alunni, accomunatidalla difficoltà di leggere e impara-re a memoria versi in dialetto ve-ronese. Nate quindi per il mondodella scuola, le sue opere sono suc-cessivamente state adattate perrappresentazioni teatrali e unpubblico adulto, ma hanno sem-pre mantenuto una grande comi-cità e totale assenza di volgarità.«Ora che è cambiato il target di ri-ferimento» spiega la Gonzato «hoaggiunto qualche doppio senso,niente di più di ciò che si usa nellavita quotidiana, ma rigorosamen-te mai parolacce né volgarità di al-cun genere, tant’è che tuttora glispettacoli sono molto apprezzatida bambini, giovani e adulti».In relazione alla lingua utilizzata,la Gonzato spiega: «Pur avendototale rispetto e ricordo amorevole

verso il dialetto del passato, lo sco-po del mio lavoro è la comunica-zione e quindi è fondamentale far-si capire da tutti». Per questo ildialetto usato è quello contempo-raneo, comunemente parlato ogginella città scaligera. «Scrivere indialetto non è affatto semplice»,afferma l’autrice. «Essendo laurea-ta in Lingue e Letterature Stranie-re, ritengo fondamentali le regolegrammaticali, per cui non mi sonoimprovvisata scrittrice dialettalema ho studiato a approfondito lamia conoscenza in materia».La Gonzato ritiene fondamentalenon prendersi troppo sul serioquando ci si avvicina a scrittori diimmenso talento, per i quali l’au-trice ha un enorme rispetto; «sa-rebbe impossibile farne una imi-tazione», dichiara, «quindi me-glio mettersi in discussione, farcapire al pubblico che si tratta co-munque di un gioco».Con ragazzini come protagonistiprima, e con attori non più giova-nissimi oggi, la regista non puòche mettere l’ironia al primo po-sto, creando per ogni personaggiooriginale una caricatura, alla qua-le tutto è concesso: non sarà allo-ra così strano vedere un Ulisse oun Amleto dodicenne né una Lu-cia Mondella quasi sessantenne.

Cultura

22

TEATRO

Dante in dialetto«In mèso a ‘na stradela che fasso da ‘na vita, sòn scapussà in una vècia marmìta...»

Silveria Gonzato ha iniziato nelle scuole, per favorire l’integrazione dei ragazzidiversamente abili. Nei suoi lavori la regista mette l’ironia al primo posto

I testi della compagnia“I Dialettanti” nonsono da considerarsi

traduzioni dei grandiclassici, ma opere

ricche di fantasia ecomicità che, in ognicaso, mantengono lospirito originale del

capolavoro da cuiprendono spunto

Page 23: Verona In 18/2008

Cultura

inVERONA

di Marzia Sgarbi

Poeta veronese e non, generica-mente, poeta dialettale veneto.L’anima poetica del Barbarani po-trebbe essere riassunta così, nellasola parola veronese, senza chequesto dimensionarla al solo con-testo cittadino ne sminuisca laportata; si può forse dire che nonci sarebbe stato Barbarani senzaVerona, ma non perché Verona èla città dove il poeta è nato e cre-sciuto. La città natale è qualcosa dipiù, è il primo e principale argo-mento della sua poetica, è l’ogget-to di tante sue liriche, è lo sfondosu cui si muovono i personaggicantati, è il luogo in cui si trovanoi monumenti celebrati, è l’originedelle tradizioni fatte rivivere daisuoi versi; le notissime poesie suSan Zeno e la ricorrenza di SantaLucia sono chiari esempi in talsenso. È la sua vita ed è la sua poe-sia e si sa quanto spesso per unpoeta le due cose coincidano.Barbarani inizia presto a scriveredella sua città: risalgono al 1892,ai vent’anni del poeta, le primepoesie pubblicate sul periodicoumoristico cittadino Can da laScala; nel 1895 ha inizio la sua col-laborazione come cronista per ilquotidiano L’Adige, dove ha mododi conoscere Antonio Libretti checura e fa pubblicare El rosario delcor, la sua prima opera poetica.Negli anni in cui lavora come cro-nista Barbarani ha modo di entra-re in contatto con gli strati piùumili della società e ad essi si avvi-cina con tutta la sensibilità e la de-licatezza che traspaiono dalla rac-colta I Pitochi, dove, cantando ipoveri di Verona, canta in realtà

anche i poveri di tutto il mondoperché la poesia sa trascendere iluoghi e i tempi. Le sue opere var-cano il confine di Verona nel1900: in quell’anno viene invitatoa leggere a Milano alcune dellesue poesie e a riproporle successi-vamente anche in altre città italia-ne insieme a poeti dialettali qualiGaetano Crespi e Trilussa; ma il1900 è anche l’anno in cui vienepubblicato il primo CanzoniereVeronese, una summa delle suepiù recenti raccolte ma anche unasumma delle tematiche a lui piùcare: la primavera, l’amore, lamalinconia strisciante che sem-bra seguire l’alternarsi delle sta-gioni, la varietà delle vicendeumane. Per trent’anni, a partiredal 1902, Barbarani collabora conil quotidiano regionale Il Gazzet-tino, per il quale scrive non soloarticoli di cronaca ma anche reso-conti di viaggio e bozzetti in ge-nerale che saranno riuniti in unvolume a parte nel 1942. Poeta egiornalista, quindi, ma anche per-sonalità attiva nella vita culturaleveronese: con l’amico AngeloDall’Oca Bianca, illustratore dellecopertine di alcune sue opere, adesempio, conduce una battagliacontro l’amministrazione cittadi-na per la tutela della storicità diPiazza delle Erbe. Ma Barbarani èlegato all’amico pittore anchedalla profonda sensibilità allacausa degli umili di Verona: pochianni dopo la costruzione del Vil-laggio Dall’Oca Bianca viene, in-fatti, costituita la FondazioneBerto Barbarani, originata da unapubblica sottoscrizione cui con-corsero oltre 5000 veronesi, aven-te lo scopo di offrire educazione

POESIA

Barbarani, poeta mutoLa celebrazione più consona ad un artista, la diffusione delle sue opere,

è preclusa al cantore della veronesità: in forza al contratto firmato nel 1921 con la Mondadori i suoi versi non vengono pubblicati dal 1986

ed istruzione ai figli dei poveri diVerona.Ai Canzonieri del 1911 e del 1922fa seguito nel 1937 L’autunno delpoeta, la quarta e ultima raccolta,dove, nella parziale ripresa dei te-mi delle sue prime poesie, si pos-sono intuire i segni di quell’isola-mento artistico che caratterizza lasua maturità artistica.Nel 1940 il ministero per la Cultu-ra popolare, quale pubblico rico-noscimento al valore della sua ar-te, attribuisce al poeta un vitalizioche gli consente di trascorreresenza preoccupazioni economi-che gli ultimi anni, funestati peròdalla guerra e dalla perdita degliaffetti più cari: l’amico Dall’OcaBianca, il nipote caduto in Russiae la moglie.Barbarani muore di malattia nelgennaio 1945 nella sua Verona,dove è ritornato dopo essere sfol-lato a Soave. Recentemente la cittàha commemorato il poeta con l’e-rezione, a margine della tantoamata Piazza delle Erbe, di unastatua bronzea che lo raffigura ri-volto verso il centro della piazzastessa, quasi verso la statua di Ma-donna Verona, l’ipostasi della cittàtanto celebrata nelle sue poesie.Ma è la celebrazione forse piùconsona ad un poeta, la diffusionedelle sue opere, che al Barbarani èpreclusa: in forza al contratto fir-mato nel 1921 dal poeta con laMondadori, infatti, i suoi versinon vengono pubblicati dal 1986poiché il Barbarani è ritenuto dal-l’editore che ne detiene l’esclusivaun poeta di nicchia. In questo ca-so la veronesità del Barbarani, piùche la sua peculiarità, è diventatail suo limite.

Berto Barbarani in Piazza delle Erbe

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di Nicola Guerini

Antonio Salieri nacque il 18 agosto1750 a Legnago, centro agricolosull’Adige che, in epoca risorgi-mentale, divenne una delle piazze-forti del Quadrilatero Austriaco, inuna casa di cui è rimasto solo l’ar-co della porta, oggi incorporatonel Museo Fioroni, dedicato inparte alla memoria del Maestro.Poco più che adolescente Salieriintraprese lo studio del violino conil fratello Francesco, allievo di Giu-seppe Tartini, e del clavicembalocon G.Simoni, organista della cit-tà. All’età di 15 anni si recò a Vene-zia sotto la protezione della fami-glia Mocenigo, presso la scuola diS.Marco, dove fu allievo di F. Paci-ni per il canto e G.B. Pascetti per lacomposizione. Proprio a Veneziaincontrò Leopold Gassmann,maestro della cappella imperiale, ilquale lo condusse con sé a Viennatrattandolo come un figlio fino al-la propria morte e dandogli la co-noscenza della cultura letterariatedesca, latina e francese, oltre cheun’ottima istruzione musicale. In-trodotto a corte, ormai noto comecompositore di musica sacra, dal1769 diresse le prove d’opera delTeatro di corte viennese e nel 1770esordì come operista con “Le don-ne letterate” che, rappresentate allapresenza di Gluck, gli valsero la suastima.Salieri, che a Venezia aveva cono-sciuto Metastasio e Haydn, delquale fu molto amico, nella sua vi-

ta viaggiò molto per seguire lerappresentazioni delle sue molteopere abitando per qualche tempoanche a Parigi dove conobbeGluck, Piccinni ed Hasse. Il 10 ot-tobre 1774 sposò Teresa Helfer-sdorfer e l’unione, a dispetto diqualche chiacchiera successiva, fufelice e allietata da otto figli. MortoGassmann nel 1774, Salieri gli suc-cedette nella prestigiosa carica dicompositore di corte e di direttored’orchestra del Teatro imperiale e isuccessi ottenuti dalle sue opereteatrali lo portarono all’interessa-mento dei teatri italiani che lo in-vitarono a Milano, Venezia, Romae Napoli. Ebbe così inizio una car-riera per certi versi sfolgorante chelo avrebbe portato a diventareMaestro di cappella alla corteasburgica (sia pure per un breveperiodo, dal 1778 al 1790, poiché atale carica preferì quella di com-positore ed insegnante di corte).Dopo il felice debutto della primaopera si aggiunse il successo del-l’Armida del 1771, alla quale feceseguito il lavoro che lo avrebbeconsacrato nel panorama musica-le dell’epoca, l’“Europa ricono-sciuta”, commissionatagli dall’im-peratrice Maria Teresa d’Austria eche fu destinata all’inaugurazione,il 3 agosto del 1778, del Nuovo Re-gio Ducal Teatro (l’attuale Teatroalla Scala) fatto erigere a Milano(ricordiamo che la medesima ope-ra ha salutato il 7 dicembre 2004 lariapertura del teatro scaligero do-po un lungo lavoro di restauro).

Fra le sue trentanove composizio-ni per il teatro si ricordano: LaScuola de’ gelosi (1778), DerRauchfangkehrer (1781), Les Da-naïdes (1784, attribuita in un pri-mo tempo allo stesso Gluck), Tara-re (1787), La grotta di Trofonio,Eraclito e Democrito, Axur, red’Ormus (1788), Palmira, Reginadi Persia (1795), Falstaff o sia Letre burle (1799, tema tratto da Leallegre comari di Windsor di Sha-kespeare che sarà poi ripreso daGiuseppe Verdi per il suo Falstaff).Fra le composizioni strumentalispiccano invece due concerti perpianoforte e orchestra ed un con-certo per organo scritti nel 1773,un concerto per flauto, oboe e or-chestra del 1774, un insieme diventisei variazioni su La Follia diSpagna (1815) e le numerose sere-nate.Quando il maestro della cappelladi corte G.Bonno si ritirò, Salieriprese il suo posto e lasciata l’attivi-tà di direttore del teatro continuò,con l’assunzione al trono di Leo-pordo II, a ricoprire l’incarico dicompositore di corte e di vicepre-sidente della Tonkunstler-Società,di cui diresse i concerti fino al1818. Membro di diverse societàtedesche e francesi (associé étran-ger dell’Istitut, dal 1806; correspon-dant étranger del Conservatoriodi Parigi, cavaliere della Legiond’Honneur nel 1815, membrodell’Académie Royale des BeauxArts), nel 50° anniversario dellesue attività viennesi gli vennero

Cultura

Aprile 200824

MUSICA

Salieri: da Legnagoalla corte di Vienna

Accadde negli anni intorno al 1790 che Mozart, allora all’apice della notorietà,accusasse Salieri di plagio e della volontà di attentare alla sua vita

Direttore d'orchestra e compositore di

musica sacra, classicae lirica, il musicista

legnaghese fu tra ifondatori del

Conservatorio di Vienna (1817)

ed ebbe fra gli allieviuna schiera di nomi

illustri, fra cuiBeethoven

Page 25: Verona In 18/2008

tributate grandi onorificenze e fudecorato con la Civil-Ehrenmedail-le d’oro. All’attività di composizio-ne affiancò quella, stimatissima, diinsegnante: fu tra i fondatori delConservatorio di Vienna (1817) edebbe fra gli allievi una schiera dinomi illustri, fra cui Beethoven(che gli dedicò le tre sonate perviolino e pianoforte Op.12, e com-pose 10 variazioni per pianofortesu un’aria del Falstaff), J.N. Hum-mel, Liszt, Meyerbeer, C.G. Reissi-ger, F. Schubert, J.H. Stuntz, F.X.Sussmayr. Fra i suoi pupilli vi fuanche uno dei figli dello stessoMozart, Franz Xaver Wolfgang,mentre fra gli allievi di canto, nu-merosissimi, ricordiamo CaterinaCavalieri, la principessa E. diWurttemberg, Fortunata Fianchet-ti. Lasciò erede della sua ricca bi-blioteca musicale la Tonkunstler-Società, che la donò a sua volta allaBiblioteca Nazionale di Vienna.Nel 1821 le condizioni mentali diSalieri, già scosse da quando avevaperduto l’unico figlio (1805) e lamoglie (1807), si aggravarono an-

che per una malattia agli occhi; nel1823 la sua mente fu completa-mente offuscata, tanto che l’annosuccessivo fu mandato in pensione(a pieno stipendio). Questa circo-stanza portò inevitabilmente al-l’attenzione la sua presunta rela-zione con Mozart in quanto, pro-prio durante il suo periodo di ri-covero, il compositore si sarebbeautoaccusato della morte delgrande compositore salisburghe-se. Secondo voci calunniose diffu-se nel sec XIX, risultate poi infon-date, Salieri avrebbe tramato con-tro Mozart provocandone la mor-te con il veleno. Antonio Salierimorì a Vienna il 7 maggio 1825.Fu sepolto nel MatzleinsdorferFriedhof e le sue spoglie venneropoi trasferite al Zentralfriedhof(Cimitero Maggiore) di Vienna. Alsuo funerale Schubert – suo allie-vo prediletto – diresse il Requiemin Do minore che lo stesso Salieriaveva scritto diverso tempo prima(nel 1804) per la propria morte. Ilsuo monumento funebre è ornatoda una iscrizione composta da un

suo allievo, Joseph Weigl: Riposa inpace! Non coperta di polverel’eternità ti è riservata. Riposa inpace! In eterne armonie si è dissoltoil tuo spirito. Egli ha espresso se stes-so in note incantevoli, ora è salpatoverso l’eterna bellezza.L’attività artistica di Salieri ha vi-sto e vede riconosciuta in tempirecenti una rivalutazione. È im-portante ricordare che, dopo la di-struzione del 1945, il Teatro Filar-monico di Verona riprese la suastagione nel 1975 proprio con il“Falstaff” di Antonio Salieri diret-to dal M° Sergio Failoni. Nel Tea-tro Salieri di Legnago (VR), suacittà natale, è attiva invece unaFondazione culturale anch’essa in-titolata al nome del compositoredove si svolge regolarmente il “Fe-stival Antonio Salieri”. Nell’ambitodi questa manifestazione si è tenu-ta nell’autunno 2004 la prima rap-presentazione in epoca modernadi una sua rara opera, “Il riccod’un giorno”, scritta su testo del li-brettista principe del “rivale” Mo-zart, Lorenzo Da Ponte.

Cultura

inVERONA 25

di Nicola Guerini

Accadde negli anni intorno al1790 che Mozart, allora all’apicedella notorietà, accusasse Salieri– allora in calo della notorietà –di plagio e della volontà di at-tentare alla sua vita. Secondo lostorico Alexander Wheelock

Thayer i sospetti di Mozart potrebbero essere statideterminati da un episodio accaduto una decina dianni prima quando il compositore salisburghese sivide sottrarre da Salieri il ruolo di insegnante dimusica della principessa del Württemberg. L’annoseguente, Mozart non riuscì a farsi nominare nep-pure insegnante di piano della principessa. Quan-do poi le sue Nozze di Figaro registrarono al de-butto il negativo giudizio sia del pubblico che del-l’imperatore in persona, il compositore accusò delfallimento Salieri, reo di averne boicottato l’esecu-zione (“Salieri e i suoi accoliti muoverebbero cieloe terra pur di farlo cadere”, commenterà il padre diMozart, Leopold, riferendosi al primo – ma solotemporaneo, come dimostrerà il susseguente suc-cesso dell’opera – insuccesso del figlio).In realtà a quell’epoca Salieri era impegnato inFrancia per la rappresentazione della sua opera Les

Horaces il che fa pensare come gli sarebbe stato dif-ficile determinare da tale distanza il successo o l’in-successo di un’opera. Molto più probabilmente –sempre stando a Thayer – ad istigare Mozart controSalieri potrebbe essere stato Giovanni Battista Ca-sti, rivale del poeta di corte Lorenzo da Ponte, auto-re del libretto di Figaro. Una conferma indiretta diquanto la diatriba Mozart-Salieri possa essere statapiù che altro un caso montato ad arte, viene dal fat-to che quando – nel 1788 – quest’ultimo vennechiamato alla carica di Kapellmeister, anziché pro-porre per l’occasione un’opera propria preferì cu-rare l’allestimento di una riedizione delle stesseNozze di Figaro.Nel corso dei decenni nacque e si diffuse la leggen-da secondo la quale Mozart sarebbe stato avvelena-to per gelosia da Salieri. Questa diceria, priva difondamento, ha ispirato diversi artisti nel corso deisecoli. Il poeta e scrittore russo Alexandr SergeevicPuskin credette a queste voci, e nel 1830 scrisse Mo-zart e Salieri (precedentemente intitolato Invidia),un brevissimo dramma in versi in cui un Salieri ro-so dalla gelosia commissiona all’odiato rivale Mo-zart un Requiem, con l’intento di rubarglielo unavolta avvelenato e spacciarlo per suo. In merito al-l’opera di Puskin si è detto: «Se Salieri non ha ucci-so Mozart, di sicuro Puskin ha ucciso Salieri».

La leggenda Mozart-Salieri

MUSICALMENTE

L’attività artistica di Salieri è oggi

rivalutata.È importante

ricordare che, dopo ladistruzione del 1945,il Teatro Filarmonico

di Verona riprese la sua stagione nel

1975 proprio con il“Falstaff” di Antonio

Salieri diretto dalMaestro Sergio

Failoni. Nel TeatroSalieri di Legnago

è attiva invece unaFondazione culturale

anch’essa intitolata al nome del

compositore dove sisvolge regolarmente il “Festival Antonio

Salieri”

Antonio Salieri

Page 26: Verona In 18/2008

A nove anni lasciòdefinitivamente la

scuola e fu ospitatopresso una famiglia

contadina diPalazzina a cui iniziò

a sorvegliare il bestiame,

trascorrendo granparte dell’infanzia con

loro come “fameio”

di Alice Castellani

Fu grazie all’Atelier di pitturacreato dallo scultore scozzese Mi-chael Noble e dal professor MarioMarini all’interno dell’Ospedalepsichiatrico di San Giacomo allaTomba di Verona che Carlo Zinel-li scoprì il suo talento. Entrato de-finitivamente in ospedale conuna diagnosi di schizofreniaparanoide nell’aprile del 1947,dopo anni di frequenti ricoverilegati ai suoi scoppi di aggressivi-tà e crisi di panico – curati conelettroshock e trattamenti di in-sulina –, Carlo Zinelli divenneuno tra i più interessanti rappre-sentanti dell’Art Brut, apprezzatoa livello internazionale.Nato a San Giovanni Lupatoto, inprovincia di Verona, il 2 luglio1916 da una famiglia di carpentie-ri, era il sesto di sette figli e rimaseorfano di madre a soli tre anni. Lasua infanzia non fu certo facile,tanto che frequentò per tre volte laprima elementare, perché sistema-ticamente tra marzo e aprile veni-va ritirato dalla scuola per essereimpiegato nei lavori dei campi. Anove anni lasciò definitivamentela scuola, e fu ospitato presso unafamiglia contadina di Palazzina acui iniziò a sorvegliare il bestiame,trascorrendo gran parte dell’in-fanzia con loro come “fameio”. Nel1934 si trasferì a Verona andandoa lavorare presso il Macello Co-munale. Terminato il servizio mi-litare si arruolò nel Battaglione

Trento dell’11° Reggimento delcorpo degli Alpini e nel 1939 siimbarcò a Napoli come “volonta-rio”nella guerra di Spagna.L’esperienza della guerra, perquanto breve, lo segnerà per tutta

la vita. Rimpatriato dopo soli duemesi con gravi turbe psichiche,Zinelli venne presto riformato ecominciò il suo calvario dentro efuori dall’ospedale, fino al ricove-ro definitivo che lo allontanòsempre più dal mondo. La svoltaarrivò dopo dieci anni trascorsicome uno qualunque dei malati,nel 1957, con l’avvio della primaesperienza italiana di Art Therapy– che la letteratura scientifica giu-dica capace di indurre migliora-menti nella realizzazione inter-personale, nelle capacità sociali, e,per certi versi, anche nello statomentale – voluta da Noble e Ma-rini, grazie alla quale Zinelli trovòil mezzo per esprimere la sua per-sonalità. Carlo Zinelli divennecertamente un grande artista maforse, senza la sua malattia, nonavrebbe mai pensato di comincia-re a dipingere e di trovare nellapittura il modo per essere “libero”di esprimersi, tanto che nel suocaso si può dire che “la terapiadell’arte ha vinto sulla terapiadella medicina”.Oggi lo si annovera tra i pittori difama internazionale, una delle fi-gure di spicco nel panorama arti-stico del ‘900 le cui opere si trova-no nei musei di tutto il mondo.Già prima dell’inizio dei seminaridi Art Therapy, all’interno dell’o-spedale alcuni infermieri avevanonotato la sua spontanea tendenzaa disegnare su muri e sassi. Tra iventi pazienti che parteciparonoattivamente all’esperienza artisti-

Cultura

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PITTURA

L’Art Brutdi Carlo Zinelli

Un talento scoperto grazie all’Atelier di pittura creato dallo scultore scozzeseMichael Noble e dal professor Mario Marini all’interno dell’Ospedale

psichiatrico di San Giacomo alla Tomba di Verona

Oggi lo si annovera tra i pittori di famainternazionale, unadelle figure di spicco

nel panorama artisticodel ‘900 le cui opere si trovano nei musei

di tutto il mondo.Per capire la sua arte si deve prima di tutto

affondare dentro se stessi

Page 27: Verona In 18/2008

ca dell’atelier, il talento di Carlofu quello che emerse con maggio-re evidenza e Michel Noble, loscultore ideatore dell’iniziativa,ottenne per lui e gli altri dell’ate-lier anche il permesso di usciretemporaneamente dalla strutturaospedaliera. La produzione del-l’atelier suscitò ben presto un ge-nerale interesse, tanto che fu loscrittore Dino Buzzati a presenta-re la prima mostra collettiva pres-so la Galleria “La cornice” di Ve-rona, nel 1957, cui ne seguironomolte altre, con il duplice scopodi finanziare l’attività dell’ateliere di far conoscere questi lavorifuori città e all’estero.Nel 1963 Carlo Zinelli fu l’unicoitaliano ad esporre le sue operenella mostra dal titolo “InsaniaPingens”, organizzata alla Kun-stallen di Berna. Agli inizi deglianni ‘60 grazie all’interessamen-to dello psichiatra Vittorino An-dreoli, che era giunto ancora stu-dente all’ospedale psichiatrico diVerona, i suoi lavori erano statipresentati alle avanguardie chericercavano “l’arte vera”, non me-diata dall’appartenenza alla cul-tura ufficiale. Andreoli si era in-fatti rivolto all’artista Jean Du-buffet – che aveva creato conBreton ed altri esponenti surrea-listi e dada la “Compagnie del’Art Brut” – perché visionassel’opera di Carlo ed esprimesse ungiudizio.Già dai primi decenni del Nove-cento, con lo sviluppo delle teoriepsicoanalitiche e delle avanguar-die artistico-letterarie legate ai te-mi dell’inconscio, del sogno, delsuperamento dell’oggettivismo edel naturalismo, era avvenutol’incontro fra l’arte accademica equella dei manicomi, con l’artedei folli che in certi casi diventavaaddirittura un parametro pergiudicare l’arte moderna. Questogruppo di geniali intellettuali teo-rizzavano la necessità per l’arte ditornare alle origini, riconoscendonell’arte dei primitivi, dei bambi-ni e dei folli l’esempio a cui ispi-rarsi. Ma inizialmente Dubuffetnon era convinto dell’effettiva “li-bertà” culturale del lavoro di Zi-nelli, comunque caratterizzato daarmonia di forme e colori. Soloconoscendo meglio la sua storiadi vita si convinse della spontaneagenialità “non culturale” del pit-

Cultura

inVERONA 27

tore veronese. Nel 1966 Andreoliscrisse la prima monografia dedi-cata a Carlo nei Cahiers de l’ArtBrut ma nel 1969, con lo sposta-mento nel nuovo manicomio diMarzana, l’ispirazione e l’incisivi-tà di Zinelli subirono un calo, an-che se proseguì la sua investiga-zione grafica e pittorica tramitel’uso di forme di testo e nuovetecniche.L’esaurirsi della vena creativa ne-gli ultimi anni di vita si lega all’i-stituzionalizzazione dell’atelieravvenuta nella nuova sede e allaperdita delle precedenti relazioni,con una conseguente inibizionedelle facoltà immaginative edespositive di quella che era statauna forma d’arte totale, capace dicoinvolgere segno, colore, parolae suono a creare un linguaggiovero e proprio, per Sergio Mari-nelli costituito da “una civiltà fi-gurativa individuale”.Zinelli morì nel gennaio del 1974per una semplice broncopolmo-nite. La sua opera è costellata dalnumero 4, dal valore sacro-sim-bolico difficilmente interpretabilema che certamente assume unavalenza ritmica, quasi un elemen-to ordinatore di tutto il sistemalinguistico usato dall’artista.Nella prima fase della sua produ-zione troviamo allo stato minimotutti gli elementi che verranno inseguito investigati e combinati, aformare gli elementi del suo voca-bolario espressivo. In una secondafase Zinelli acquisisce una mag-giore destrezza di segno e una ca-pacità straordinaria di usare il co-lore, sia sullo sfondo che nelle fi-gure. In un terzo periodo compa-re la presenza decisa della scrittu-ra quale elemento grafico-decora-

tivo mentre nell’ultimo si registraun passaggio dal bianco e nero algrafico descrittivo e a nuove speri-mentazioni pittoriche.I suoi quadri raccontano per as-sociazioni tematiche e con un lin-guaggio reinventato, criptico e af-fascinante, la sua vita e i suoi mi-steri, con una vena poetica chederiva dal suo mettere tutto sestesso nella narrazione di sé. Zi-nelli ci parla della sua vita con unoriginale e unico sistema seman-tico, che pur trae i suoi elementidal vocabolario universale comu-ne – cioè da quel caos primigenioche ha in sé il potenziale sviluppodi ogni successivo linguaggio –vista la mancanza di condiziona-mento culturale e la pulsionecreativa allo stato originario dellasua pittura. Così per capire la suaarte si deve prima di tutto affon-dare dentro se stessi, abbando-narsi alla primigenia capacitàpercettiva, alla memoria arcaica,alla tensione verso la conoscenza.E l’unica cosa da fare è guardare,come disse una volta Zinelli a ungiornalista, che lo incalzava per-ché gli spiegasse il significato diun suo quadro esposto ad unamostra a Milano: «se non te sicretino, guarda!». Vi invitiamo al-lora a visitare la Fondazione Cul-turale Carlo Zinelli a San Giovan-ni Lupatoto (nel Palazzo Munici-pale in via Roma 18) per vedereda vicino le sue opere, caratteriz-zate sì dalle tipiche espressionidella produzione schizofrenica(l’horror vacui, la stereotipia, latendenza all’ordine, alla reitera-zione), ma pure da canoni pura-mente pittorici come la serialità,il rigore e l’armonia compositivae cromatica.

Agli inizi degli anni‘60 grazie

all’interessamentodello psichiatra

Vittorino Andreoli,che era giunto ancorastudente all’ospedale

psichiatrico di Verona,i lavori di Zinelli

erano stati presentatialle avanguardie che

ricercavano “l’artevera”, non mediata

dall’appartenenza allacultura ufficiale

Nelle immagini alcune opere di Carlo Zinelli

Page 28: Verona In 18/2008
Page 29: Verona In 18/2008

Negli anni Sessanta il paese di Legnago

aveva una vocazioneprevalentemente

agricola ed un tessutodi piccole-medie

aziende che davanooccupazione.

La costruzionedell’ospedale ha avutoun effetto dirompente

nel nuovoorientamento del territorio

di Stefano Vicentini

Ospedale, ospizio, osteria, ostello,hotel: una famiglia allargata, eti-mologicamente parlando, quelladei luoghi adibiti all’ospitalità. Seperò si evidenzia un altro puntodi vista, collegato ad esempio allacapacità ricettiva o ai posti di la-voro che offre, ecco che la primadella classe senz’ombra di dubbioè “l’istituzione ospedaliera”, pro-prio come ente sanitario socio-assistenziale riconosciuto dallacomunità civile.L’ospedale di Legnago ha rag-giunto il quarantesimo anno dal-la sua fondazione (è stato inaugu-rato nel 1968), presentandosi cosìuna valida occasione per valutar-ne il cammino di sviluppo e pren-dere atto delle varie modificazio-ni che sono positivamente inter-venute nella genetica del territo-rio basso veronese.Bisogna, appunto, partire dalle ra-dici storiche, cioè ricordare chenegli anni Sessanta il paese di Le-gnago aveva una vocazione preva-lentemente agricola ed un tessutodi piccole-medie aziende che da-vano occupazione. L’avvento dellacostruzione dell’ospedale in que-sto senso ha avuto un effetto di-rompente nel nuovo orientamen-to del territorio: polo d’attrazioneper molti posti di lavoro ma an-che, nello specifico qualitativo, perl’inserimento di professionisti sa-nitari ed amministrativi. Inoltre, ledimensioni rilevanti della primiti-

va struttura, la cui posa della pri-ma pietra fu fatta nientemeno chedal senatore Guido Gonella difronte ad uno straordinario con-corso di autorità, hanno fatto ca-pire fin da subito l’apertura dinuovi orizzonti: l’ospedale nonsolo per Legnago ma per tutti i co-muni della Bassa, ossia per unafetta rilevante di popolazione.In quest’ottica sono arrivate pre-sto nuove tappe di progresso: altriospedali affiliati alla sede centrale,i distretti socio-sanitari, una vastapluralità di mezzi e risorse umanea disposizione. Oggi l’ente, colle-gato alla Regione Veneto, ha as-sunto il nome di “Azienda Ulss 21”e si presenta con una carta d’iden-tità di tutto rispetto: comprende25 Comuni per un bacino d’uten-

za di 153.000 abitanti, di cui il 20per cento oltre i 65 anni; s’identifi-ca in un presidio dislocato su tresedi – Legnago, Bovolone, Zevio –con circa 500 posti letto; possiedepunti sanità a Porto di Legnago,Cerea, Nogara, Bovolone e Zevio;s’avvale di oltre 1750 dipendenti.Sono numeri importanti per unospedale di provincia, ma primadi tutto viene la qualità dell’eroga-zione sanitaria, i cui risultati sonosoddisfacenti. “Benvenuti nell’oasidella sanità che funziona”: a con-fermarlo è il titolo dato dal setti-manale Panorama qualche anno faad un’inchiesta giornalistica sul-l’ospedale del basso veronese, clas-sificandolo il migliore d’Italia.

Territorio

inVERONA 29

LEGNAGO

Una grande scommessaa favore della salute

L’ospedale di Legnago ha un bacino di utenza di 153 mila abitanti e conta 1750dipendenti. Il settimanale Panorama lo ha classificato il migliore nosocomioitaliano. La prima pietra fu posata 40 anni fa dal senatore Guido Gonella

La cartina del territoriodell’ULSS 21

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cuni servizi logistici, ci si rendeconto come l’ospedale odierno ab-bia un’identità assai diversa daquella d’un tempo, con un nume-ro elevato di professionisti checomporta inevitabilmente l’atten-zione prioritaria alle spese e al bi-

lancio.Alcuni direttori hanno seguitocostruzioni e restauri, aperture direparti e nomine di primari, inau-gurazioni ma anche problemi ditagli alle spese. Un ampio vissutoche in otto lustri ha coinvolto circauna dozzina di massimi dirigenti,dai legnaghesi Luigi Zanferrari eAntonio Alfredo Tognetti, arteficidel primo nucleo importante del-l’ospedale, ai politici Carlo Alber-to Faustini e Loris Vesentini, ai di-rettori degli ultimi anni MicheleRomano, Giuseppe Castellarin,Angelo Campedelli, Mario Favaz-za e recentemente, dal gennaioscorso, Daniela Carraro, primadonna alla guida dell’Ulss 21.È stato Campedelli, venuto im-provvisamente a mancare due an-ni fa nel pieno delle sue funzionidirigenziali, ad inaugurare la parteanteriore profondamente rinno-vata del nosocomio di Legnago,che ufficialmente dal 2003 si chia-ma “Ospedale Mater Salutis” coltaglio del nastro del presidentedella Regione Veneto GiancarloGalan. Dalla carta d’identità allaqualità delle sue attività quotidia-ne: diverse letture trasversali si po-trebbero fare per delineare l’ospe-dale, dalla quantità delle presta-zioni effettuate ad alcuni successidi interventi speciali che moltimedici senz’altro annoverano tra iricordi più vivi della loro storia;oppure il cammino “silenzioso”ma eccezionale del passaggio sani-tario da macchinari primitivi amezzi all’avanguardia, o quello

dell’avvento di sofisticati compu-ter al posto del vecchio sistemameccanografico.Per documentare le novità d’unacosì grande azienda sono sorti, ne-gli ultimi anni, il servizio Urp perle relazioni dell’ente col pubblico,il Tribunale dei diritti del malato edell’anziano per aiutare le catego-rie deboli, l’Ufficio stampa per irapporti coi mass media.Ma merita d’essere ricordato an-che il corso di laurea per la forma-zione degli infermieri (rinnovandola vecchia scuola infermieri, chiusaper un lungo periodo) per daresperanza ai giovani che s’apronoalla professione sanitaria con l’U-niversità di Medicina di Verona.Le più importanti scommesse, in-somma, restano quelle di sempre:una sanità a servizio del cittadinosuperando le tante problematicheche ne limitino l’efficienza. Lo di-ceva recentemente il famoso on-cologo, già ministro della sanità,Umberto Veronesi: nel rapportocol paziente, ossia nel capire e nelcercare di soddisfare la sua do-manda di salute, si misurerà nelfuturo prossimo la validità dell’o-spedale. Proprio il motivo per cuiè nato storicamente l’“hospitale”.

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Aprile 200830

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N° 18/aprile 2008

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Quindi un fiore all’occhiello perinfondere ottimismo all’anniver-sario dei 40 anni, in controtenden-za con altre sedi ospedaliere italia-ne tuttora nel mirino dei mass me-dia per lo stato di precarietà in cuiversano.Ma per approdare a tali traguardinaturalmente si è investito molto,si è puntato ad una progressivaspecializzazione e separazione deisettori, creando una struttura ve-ramente complessa e labirintica.Solo osservando il passaggio, po-chi anni fa, dalla responsabilitàd’un solo presidente a ben quattrodirettori con precise competenze –generale, amministrativo, sanita-rio e sociale – si capisce che la ge-stione nel tempo è diventata piùmanageriale. Se poi si aggiungono,ad esempio, i dipartimenti ospe-dalieri, i vari distretti socio-sanita-ri sul territorio, i legami coi centrid’assistenza Ceod e le case di ripo-so, la conferenza dei sindaci o al-

È stato il direttoreAngelo Campedelli,

venuto improvvisamentea mancare due anni

fa, ad inaugurare la parte anterioreprofondamente

rinnovata dell’ospedale,che ufficialmente dal

2003 si chiama“Ospedale Mater

Salutis”

Sopra: la posa della prima pietra dell’ospedale di Legnago nel 1966In basso: la stuttura ospedaliera negli anni ’90

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