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INCHIESTA - OTTOBRE-DICEMBRE 2011 PAG. 49 DOSSIER LA REALTÀ DEI ROM Viaggio nelle realtà di una discriminazione perpetua: i Rom e i campi “nomadi” Un dossier su i Rom curato da Dimitris Argiropoulos con interventi di Dimitris Argiropoulos, Monica Rossi, Marco Braccioduro, Mauro Raspanti e Nazzareno Guarnieri. O siamo capaci di sconfiggere le idee contra- rie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero svi- luppo dell’intelligenza. Maddalena, 15 anni, Liceo Classico Prati di Trento. L a conoscenza prodotta sopra e verso i rom, attraverso pregiudi- zi antichi mantenuti da genera- zione e generazione e soprattutto attra- verso la “bontà” degli amici che si av- vicinano al loro mondo, è in crisi. Non riesce a spiegare i comportamenti dell’ altro, non riesce a descrivere la sua na- tura, neppure negativamente, diventa ripetitiva e soprattutto ha bisogno di forme di violenza per essere imposta. Si tratta di una conoscenza che non con- vince e si impone con la minaccia, ed un agire istituzionale emergenziale e per questo eccezionale ma anche dico- tomico: da una parte l’assistenzialismo dall’atra gli sgomberi. Sono passati decenni dall’istituzione dei campi “nomadi” e dalla nascita delle leggi che ne hanno legittimità Le leggi Regionali sul nomadismo che hanno preteso di dare risposte ad una mino- ranza polimorfa riducendone le carat- teristiche e le sue unicità. Si tratta di leggi che hanno fondato l’equazione rom, uguale nomade fingendo di supe- rare e per questo rafforzando quella di rom uguale zingaro, deviante e peren- nemente fuori dalla comunità sociale. Ho proposto nell’apertura di questo dossier una lettura sulla realtà roma- nì (in particolare quella che vive in si- tuazione abitativa di campo “noma- di”) cercando di facilitare il rovescio delle chiavi dell’approccio analitico fin ora a disposizione: la contraddizione che potrebbe favorire conoscenza e com- pressione di due condizioni umane, della nostra a della loro no può essere soltanto Una loro “caratteristica” ma quello che ci collega e che evidenzia la profondità delle nostre relazioni. Ho proposto il binomio; fuga tregua sosti- tuendo quello spazialità nomadismo per invitare ad una verifica di una con- dizione che non è solo dell’altro, dello zingaro e nomade ma nostra. Una con- dizione dove noi siamo pienamente partecipi e responsabili dell’allontana- mento dell’altro che abbiamo nomina- to a- thigano e nomade. Ho trovato interessante e unica per il contesto italiano le analisi di Monica Rossi sulla sopravivenza dei rom e l’eco- nomia soprattutto informale dei campi “nomadi” Anche l’esclusione si orga- nizza e cerca i significati di una esclu- sione perpetua che fa i conti con una marginalità perpetua. Nelle periferie dei campi “nomadi” nella realtà delle po- vertà estreme si cerca il senso delle cose e si resiste ed è questa resistenza che non permette l’assoluto dell’estremo, è questa resistenza che si apre all’altro di- ventando r-esistenza. Le realtà romani, le realtà storiche e del- l’attualità contemporanea, le realtà della descrizione dell’altro che attraversa il secolo della modernità, la realtà dell’ar- te e della letteratura così come descritte negli articoli di Marco Brazzoduro e di Mauro Raspanti è una realtà di lonta- nanza sociale si crea nella distanza so- ciale e si impegna nel mantenerla. È un realtà alla quale tenta l’organizzarsi della r-esistenza romanì. Oggi sono circa qua- ranta le associazioni rom in Italia e la loro espressione politica sta diventando una realtà considerevole e significativa a livello locale e nazionale. Incontra una realtà più grande quella europea con la quale interagisce e dentro alla quale ne porta la sua importanza. Presentiamo volentieri una prima analisi di nazza- reno Guarnieri presidente della Federa- zione Romanì e leader politico delle co- munità rom italiane. Grazie. Dimitris Argiropoulos

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INCHIESTA - OTTOBRE-DICEMBRE 2011 PAG. 49

DOSSIER LA REALTÀ DEI ROM

Viaggio nelle realtà di una discriminazioneperpetua: i Rom e i campi “nomadi”

Un dossier su i Rom curato da Dimitris Argiropouloscon interventi di Dimitris Argiropoulos, Monica Rossi,

Marco Braccioduro, Mauro Raspanti e Nazzareno Guarnieri.

O siamo capaci di sconfiggere le idee contra-rie con la discussione, o dobbiamo lasciarleesprimere. Non è possibile sconfiggere le ideecon la forza, perché questo blocca il libero svi-

luppo dell’intelligenza.

Maddalena, 15 anni,Liceo Classico Prati di Trento.

La conoscenza prodotta sopra everso i rom, attraverso pregiudi-zi antichi mantenuti da genera-

zione e generazione e soprattutto attra-verso la “bontà” degli amici che si av-vicinano al loro mondo, è in crisi. Nonriesce a spiegare i comportamenti dell’altro, non riesce a descrivere la sua na-tura, neppure negativamente, diventaripetitiva e soprattutto ha bisogno diforme di violenza per essere imposta. Sitratta di una conoscenza che non con-vince e si impone con la minaccia, edun agire istituzionale emergenziale eper questo eccezionale ma anche dico-tomico: da una parte l’assistenzialismodall’atra gli sgomberi.Sono passati decenni dall’istituzione deicampi “nomadi” e dalla nascita delleleggi che ne hanno legittimità Le leggiRegionali sul nomadismo che hannopreteso di dare risposte ad una mino-ranza polimorfa riducendone le carat-teristiche e le sue unicità. Si tratta dileggi che hanno fondato l’equazione

rom, uguale nomade fingendo di supe-rare e per questo rafforzando quella dirom uguale zingaro, deviante e peren-nemente fuori dalla comunità sociale.Ho proposto nell’apertura di questodossier una lettura sulla realtà roma-nì (in particolare quella che vive in si-tuazione abitativa di campo “noma-di”) cercando di facilitare il rovesciodelle chiavi dell’approccio analitico finora a disposizione: la contraddizioneche potrebbe favorire conoscenza e com-pressione di due condizioni umane,della nostra a della loro no può esseresoltanto Una loro “caratteristica” maquello che ci collega e che evidenzia laprofondità delle nostre relazioni. Hoproposto il binomio; fuga tregua sosti-tuendo quello spazialità nomadismoper invitare ad una verifica di una con-dizione che non è solo dell’altro, dellozingaro e nomade ma nostra. Una con-dizione dove noi siamo pienamentepartecipi e responsabili dell’allontana-mento dell’altro che abbiamo nomina-to a- thigano e nomade.Ho trovato interessante e unica per ilcontesto italiano le analisi di MonicaRossi sulla sopravivenza dei rom e l’eco-nomia soprattutto informale dei campi“nomadi” Anche l’esclusione si orga-nizza e cerca i significati di una esclu-

sione perpetua che fa i conti con unamarginalità perpetua. Nelle periferie deicampi “nomadi” nella realtà delle po-vertà estreme si cerca il senso delle cosee si resiste ed è questa resistenza chenon permette l’assoluto dell’estremo, èquesta resistenza che si apre all’altro di-ventando r-esistenza.Le realtà romani, le realtà storiche e del-l’attualità contemporanea, le realtà delladescrizione dell’altro che attraversa ilsecolo della modernità, la realtà dell’ar-te e della letteratura così come descrittenegli articoli di Marco Brazzoduro e diMauro Raspanti è una realtà di lonta-nanza sociale si crea nella distanza so-ciale e si impegna nel mantenerla. È unrealtà alla quale tenta l’organizzarsi dellar-esistenza romanì. Oggi sono circa qua-ranta le associazioni rom in Italia e laloro espressione politica sta diventandouna realtà considerevole e significativaa livello locale e nazionale. Incontra unarealtà più grande quella europea con laquale interagisce e dentro alla quale neporta la sua importanza. Presentiamovolentieri una prima analisi di nazza-reno Guarnieri presidente della Federa-zione Romanì e leader politico delle co-munità rom italiane.Grazie.

Dimitris Argiropoulos

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Diritto alla culturae all’educazione in unaprospettiva romanìDimitris Argiropoulos

1. I diritti

Le realtà rom incontrano il di-ritto e i diritti a partire dauna posizione di svantaggio,

prodotto quotidianamente e dive-nuto uno dei nodi delle loro diffi-coltà di una esistenza – resistenza .Questa difficoltà si moltiplica a di-smisura soprattutto per le personee le comunità che abitano nei cosid-detti “campi nomadi”. L’interloqui-re con i gaggi condiziona la perce-zione e l’utilità dei diritti, ed è la qua-lità di questo interloquire che fini-sce talvolta a rafforzare le difese in-dirizzate all’agire dell’altro e talvol-ta a rafforzare la distanza sociale inun continuo investimento di inuti-lità e danno verso tutto ciò che rap-presenta l’affermazione dei diritti.L’inutilità dei diritti arriva a inclu-dere persone, vicinati, istituzioni, ilsociale organizzato o meno, e tuttoquello che è del gaggio poiché il di-ritto è del gaggio. L’inutilità dei di-ritti segna la negatività della rela-zione fra rom e non rom, fonda ap-partenenze lontane, nella separa-zione, e diventa uno dei meccanismigenerativi di quelle stesse distanze.Le realtà rom regolano con i propridiritti i loro rapporti interni ai grup-pi e alle comunità, la conoscenza dei

quali risulta parziale, forse nulla, ecomunque destinata a consolidarela categoria dell’appartenenza romnella diversità. Non si indagano ledifferenze e le somiglianze sono de-legate al sovrannaturale (“siamo figlidello stesso Dio”) oppure sono esclu-se a priori.La considerazionedei diritti da partedellaminoranza rom,minoranzade-storicizzata, perseguitata, investitadi a-socialità e di pregiudizi, assu-me in questo momento storico eu-ropeo una particolare valenza.L’apertura europea ai popoli, consi-derati nella formazione di un istitu-zione sovranazionale, include i rom,popolo europeo, minoranza del ter-ritorio nazionale e locale dei singo-li Stati membri e popolo di dimen-sioni europee. In questa nostra Eu-ropa delle due guerre mondiali e diAuschwitz, gli approcci di aperturapolicentrica significano riconosci-mento e pragmatiche di inclusione,agite e produttrici di convivenza. Si-gnificano progressivamente la co-struzione di una grande entità isti-tuzionale, sovranazionale, per darecittadinanza e riconoscimento a tuttii popoli che vi abitano. Riconosceree considerare i rom, allontana l’Eu-ropa dal rischio “Bosnia”. Apertu-ra, convivenza e mescolanza digenti, permettono all’Europa di al-lontanarsi dalle politiche concentra-zioniste di enclave e di settorializza-zione. Un’Europa che riconosce e ri-visita il passato e imposta il supera-mento delle politiche secolari diesclusione e di allontanamento ri-servato alle minoranze e alla mino-ranza rom. Si cerca di superare il po-grom, come unico dispositivo ditrattamento delle minoranze

L’impostazione e la strutturazionedel pogrom, storicamente e attual-mente dove si manifesta come “azio-ne democratica” si sta servendo del-l’invenzione delle categorie di “a –socialità” e della “pericolosità so-ciale” – argomenti antichi e incardi-nati nelle stereotipie pregiudizialifondanti le emergenze - da attribui-re agli “zingari”.Gli argomenti usati,adoperando nella attuale contestoogni potentissima disponibilità tec-nologica dei mass media, si appog-giano su teorie relative alla securi-tizzazione dell’altro, proposte come“scientifiche” e “neutre”; ed è questoelemento di “neutralità” che accre-sce il loro consenso e li rende “inno-cui”, “docili”, “inevitabili”. Ancoraoggi, ci si avvale del pogrom e le at-tenzioni sfuggono indebolendo ledemocrazie poiché l’indebolimentoistituzionale diventa una quotidia-nità piena di banalità, di stereotipiee di chiusure. No ci si interroga sullevicinanze e ci si affida alle paure ealla non considerazione dell’altro.L’a-problematicità del rapporto conla minoranza rom la fa apparirecome “zingara” e come “nomade”,vale a dire che è la debolezza stessadell’analisi che teorizza le sue posi-zioni per spiegare, talvolta, forse pergiustificarsi, socialmente e istituzio-nalmente. Occorre ripensare checosa provoca distanza sociale ed isti-tuzionale nei nostri rapporti, come siproduce conoscenza sociale, comeconosciamo quello che pensiamo diconoscere, quali possono essere i ri-conoscimenti che devono essere in-vestiti dalla reciprocità e, soprattut-to, quale può essere l’impostazionedell’istanza politica per affrontareintenzionalmente le minoranze.

DOSSIER LA REALTÀ DEI ROM

* Docente a contratto, Università di Bolo-gna - Facoltà di Scienze della Formazione.

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potere iniziare a pensare e a inter-loquire con i rom. È importantepartire dalla fatica degli interroga-tivi per trovare la vicinanza dei sa-peri e della convivenza. È necessa-ria una attenzione per rivisitare imodelli di analisi, relativamente albinomio Nomadismo – Stanzialità,considerato finora come unica chia-ve interpretativa di una realtà dif-ficile e talvolta estrema. La pola-rizzazione sul nomadismo nascon-de la sostanza di una contrapposi-zione forte: la fuga e la tregua di unaminoranza che adegua le sue pre-senze e la sua sopravvivenza neiterritori europei, presenza e sopra-vivenza fondate e condizionate dae nei rapporti con i non rom, igaggi.Inoltre, visto che si tratta di una mi-noranza, facilmente tendiamo apensarla come una cosa unica, de-scritta una volta per tutte, mono-morfa, senza distinzioni all’inter-no come all’esterno. Al contrario ènecessario considerare tutta la co-stellazione dei gruppi Rom e Sintie tutto ciò che rappresenta “il no-madismo”, come una presenza chevaria, sia come gruppi che come in-dividui. Non a caso facciamo fati-ca a capire che tra loro ci sono bam-bini e adulti, uomini e donne e chenon ci sono anziani, e poi conti-nuiamo ad insistere, a far politichesul nomadismo, alternando glisgomberi ai pogrom, attraverso po-litiche che vogliono l’altro “liqui-do”, non stabile sul territorio enelle relazioni.In Italia abbiamo ancora 12 leggiregionali costruite maggiormentenegli anni ‘80 che impostano poli-tiche di promozione del nomadi-

prima o poi si sposteranno, è inu-tile investire, pensare, proporre aloro qualsiasi cosa al di fuori del-l’idea della provvisorietà – poichéè legittimo investire di provviso-rietà chi non si attribuisce apparte-nenza cioè stabilità e “proprietà” ter-ritoriale. Si investe di provvisorie-tà la minoranza – minorità che sipuò “nomadizzare”, allontanare edisporre a piacimento perché con-siderata superflua, perché al difuori dalle categorie di cittadinan-za, di parità e uguaglianza dei di-ritti; perché confinata eternamentenella diversità. Individui e gruppi,comunità e persone, diversi per cuinon indispensabili, che ci autoriz-ziamo a collocare al limite dellaprecarietà.Considerare i pogrom contro i rom,la quotidianità di sgomberi ed al-lontanamenti, di violenza istitu-zionale e di violenza legalizzata, ciporta a pensare l’altro come un fug-giasco. In altri termini, qualcunoche non riesce e a cui gli è permes-so di stabilizzarsi, né di avere quel-la tregua necessaria per stabilirsi inun territorio, interloquendo e cre-scendo con questo territorio e lasua gente, con i vecchi e i nuovi cit-tadini insieme, che si pensano e in-teragiscono fra pari potendo pas-sare da una situazione di acco-glienza ad una di mobilità sociale.Riferirsi ai rom, collocandoli nel bi-nomio nomadismo – stanzialità ri-sulta riduttivo e incline alla distor-sione, diventa un’assoluzione e ci al-lontana dalla responsabilità anchediretta delle nostre azioni, e delleazioni istituzionali in particolare.Occorre andare oltre e pensaresemmai al binomio fuga-tregua per

2. Il nomadismo

La richiesta di capire, va rafforzatadall’esplorazione del quotidiano,specialmente quello degli incontrie delle frequenze, del lavoro e dellasalute. Occorre capire gli spazi del-l’infanzia e del domestico. Occor-re assemblare le icone di una soli-tudine etnica confinata nella vici-nanza - lontananza dei campi “no-madi”.Capire la condizione di vita deirom significa capire l’estremo, ca-pire un quotidiano nell’estremo.Capire una popolazione esule nelleperiferie e nella povertà delle no-stre città, dai rapporti residuali eistituzionalizzati, dove non c’è trac-cia di persone della terza età e dovei bambini giovani faticano per co-noscere e capire la propria storia.Capire significa sapere che l’etàmedia dei rom in Europa è di qua-rantadue anni.Occorre andare a rivedere il model-lo dell’approccio che usiamo per de-scrivere l’altro: nell’avvicinarsi airom, ci siamo lasciati andare conmolta facilità ad un’idea di noma-dismo investito spesso da una reto-rica compiacente, “dolce”, - “sonofigli del vento”, “vivono di emozio-ni” , “passano le giornate cantandoe ballando”, “non pensano al futu-ro” – e altre volte, più pesantemen-te negativa, – “sono nomadi”, “zin-gari si nasce” per cui “è impossibilerelazionare con loro”, “sono così ge-neticamente” non possono essere di-versamente – e tutto ciò ci ha crea-to un alleggerimento di pensiero,– sono nomadi, per cui non pen-siamo a loro, non possiamo soffer-marci sui loro problemi, tanto

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smo, quando anche i cosiddetti“nomadi”, una volta rinchiusi neicampi-nomadi, non si sono spostatipiù dalle periferie delle città e ab-bisognano ormai di misure di de-istituzionalizzazione per poter in-traprendere un percorso di inte-grazione e di inserimento sociale.Difficilmente persone con respon-sabilità politiche e con responsabi-lità tecniche si interrogano sulla op-portunità e la giustizia di operareancora oggi con queste leggi. Si èvenuta a creare, quindi, una situa-zione paradossale di sospensionedei diritti attraverso il diritto cosìcome concepito nelle leggi regio-nali “nomadiche” e una non con-siderazione-soddisfazione dei bi-sogni attraverso la loro reinven-zione nella stesura e nelle prassiapplicative di queste leggi.

3. Il dispositivo campo “nomadi”

La presunta estraneità degli “zin-gari” con o senza cittadinanza ita-liana non è stata considerata nellesue varie dimensioni, problema-tizzandola sia sul piano delle con-dizione di vita sia quello dei dirit-ti. Le istanze istituzionali e ammi-nistrative risultano riduttive, la so-luzione abitativa proposta e co-struita per i rom è esclusivamentequella del campo “nomadi”. Unamisura che si banalizza nella tec-nicità della risposta, perdendo lasua istanza politica. Non si indagaper capire ma si procede per evita-re “ulteriori problemi”: siamo inemergenza e l’emergenza percepi-sce la soluzione campo “nomadi”come unica possibile e la riprodu-

ce. Il campo “nomadi” è una solu-zione abitativa speciale, eterna-mente provvisoria, di una provvi-sorietà intenzionalmente perma-nente. Proposta per i rom e i sinti,è diventata il modello abitativoanche per proposte e soluzioni neiconfronti dei migranti, dei profu-ghi e di altre categorie di personeche richiedono la casa.La soluzione campo “Nomadi”,Centro di Prima ed Eterna Acco-glienza è diventata la soluzione a-problematica nell’affrontare i biso-gni di intere fasce di popolazioneemarginate e povere che richiedo-no una molteplicità di risposte or-ganiche per superare tali condizio-ni di esclusione.Il campo nomadi diventa “il pro-prio” dell’altro dallo “zingaro - no-made”; la sua realtà, se viene presain considerazione, lo è per l’abita-re nei campi, centri di prima acco-glienza o centri profughi, areesosta, in una condizione che raf-forza la povertà, soprattutto di re-lazioni, e la separatezza. Denota-zioni ed etiche dei contesti di se-parazione, insospettabili e legaliz-zati, che accrescono e perpetuanoil “convivere” di più differenze: ladifferenza culturale e la povertà, ledifferenze della malattia, della sa-lute mentale, dell’handicap, la dif-ferenza culturale originaria deigruppi e la cultura che si nutre delcontesto di separazione, la devian-za come proposta di integrazionecon il resto della popolazione e ladebolezza della proposta istituzio-nale per l’integrazione. Ed è in talicontesti che queste differenze sicombinano con il vissuto di unacultura tradizionale millenaria, che

si riformula a partire dalla cultura/ subcultura del vivere nei campi.L’abitare nel campo “nomadi” ri-sulta una collocazione “inevitabi-le”, giustificata storicamente conl’equazione pregiudiziale “zinga-ro uguale nomade”. Attraverso itempi prolungati, dell’obbligato-rietà e della “naturalità” di questacollocazione sostenuta istituzio-nalmente, l’abitare nel campo no-madi ha avviato meccanismi di sra-dicamento culturale, che produco-no una cultura dell’apartheid. Senon si è abituati a vivere in roulot-te, poiché da sempre si è vissuti incasa, e si viene collocati in uncampo nomadi fatto di roulotte, seè pur vero che dopo dieci anni ci siadatta, non per questo si può so-stenere che la “sistemazione”campo sia adeguata.Occorre quindi riconoscere che lepreferenze delle persone sono adat-tive, cioè si adatta al contesto di op-portunità reali che hanno a loro di-sposizione. Concepire questo adat-tamento sposterebbe la comunica-zione e spiegherebbe perché la ri-sposta istituzionale si ripete sem-pre uguale a sé stessa, come delresto si ripete il comportamento dichi vive nei campi, rafforzandol’immagine del nomadismo a tuttii costi che investe i gruppi e le co-munità rom.Il campo, intervento residenzialepubblico, coinvolge le istituzioniche si attivano con interventi par-ziali e settoriali, soprattutto con in-terventi dei servizi sociali che per lopiù sono frazionati e circoscritti, ri-spondono e demarcano soprattut-to l’emergenza. Tali interventi nonsono impostati progettualmente e

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non è l’assenza di rumore ma è unpresenza – realtà, multiforme evaria, unica, non subordinata ne al-ternativa alla nostra presenza. Un si-lenzio-presenza, che va consideratoe valorizzato poiché si tratta di si-lenzi impostati nel riconoscere il loro“Altro”, che procede con fraintendi-menti e malintesi, che costruisce gliargomenti per le lontananze e le re-pressioni. Il silenzio nostro, del loroAltro è un silenzio che tende ad es-sere globale, e su questo silenzio siinveste istituzionalmente e politica-mente. È un silenzio che confondele responsabilità individuali e col-lettive, facendo “dimenticare” le no-stre responsabilità. È il silenzio tipi-co di chi parla malvagiamente, dichi si avvicina usando costante-mente un orientato-disorientamen-to relativo ai disagi della tolleranza,di chi “affatica” nel cercare le di-stinzioni delle responsabilità indivi-duali e collettive. Tornare a precisa-re, distinguendo tra individuo egruppo di appartenenza, è un im-perativo di oggi e diviene anche undispositivo educativo, un dovereprofessionale individuale, ma anchedi cittadinanza, sia nei nostri con-fronti che nei confronti di tutti quel-li con cui abbiamo a che fare.Ancora oggi facciamo fatica a con-siderare la nostra e la loro storia incomune. Facciamo ancora più faticaaffannandoci a cercare di trovarepossibili alternative a questa storia:la diamo per scontata, e la trattiamoimpostandola quassi fosse un desti-no. La ricerca, a livello europeo nonè interessata ed è silente relativa-mente il periodo della schiavitùzingara in Europa. Le nostre uni-versità indirizzano le loro attività

tanarsi dai rom, laddove per dove-re dovrebbero appunto avvicinar-si e lavorare con loro. Finiamo, così,ad escludere in modo autoreferen-ziale la la possibilità di cambia-mento dei rom stessi. Questo acca-de in ogni settore sociale, compren-dendo anche il settore sanitario, ognivolta che esiste una relazione di ero-gazione di servizi, una relazioned’aiuto, di dovere istituzionale. Il“nomade” viene sempre affrontatocome una persona che non può ap-prendere, e di conseguenza non puòcambiare, non può cambiare trami-te gli apprendimenti. Non può cam-biare la sua “programmazione cul-turale” e bio – politica che lo collocaoggettivandolo, stanti le discrimi-nazioni dei nostri razzismi. Da que-sto punto di vista, bisogna ritornarea riflettere sul razzismo di oggi persuperare, avvicinare e capire meglioche cosa è il razzismo differenziali-sta, razzismo agito e non sempre in-tenzionale, che riconosce la diffe-renza e in questa e, soltanto in que-sta e per di più in senso unico, col-loca il soggetto, cristallizzandolonella differenza stessa, senza altrapossibilità – “sei nato zingaro, e, mo-rirai zingaro” –. Un razzismo diffe-renzialista che condiziona la dina-micità degli approcci e delle rela-zioni, ridimensionando le possibili-tà dell’incontro, rendendole inutili,per rafforzare semmai l’immaginestereotipata di non cambiamento chepermette non solo lo scontro maanche l’indifferenza.Per approcciarsi ai Rom e ai Sinti ac-corre avvicinarsi ad una realtà cir-condata dal silenzio. Attraverso illoro silenzio, noi impariamo chequesto silenzio non è un non essere,

non considerano i tempi lunghi dicui devono tenere conto per favo-rire l’uscita dai campi, né la dina-micità delle comunità e la loro in-clusione nel tessuto urbano. Sonosemmai indirizzati su alcune pro-blematiche dei minori e trascura-no gli adulti, senza incidere sullequestioni femminili, né sui percor-si familiari e comunitari.Le politiche sociali che stanno amonte di questi interventi, sono(anche) il prodotto di leggi specifi-che che cercano di contemplare ilfenomeno e di disciplinarlo, par-tendo per lo più dal nomadismo,dentro al quale collocano in modounivoco tutte le comunità e le ca-ratteristiche degli “zingari”.Il fenomeno delle situazioni/con-dizioni delle comunità romanì ita-liane o straniere presenti sul terri-torio, comincia ad essere concepitodalle istituzioni solo quando il lorocambiamento-trasformazione di-venta oggetto di controllo/ordinepubblico.La sospensione del diritto e i po-grom ci riportano alla politica della“concentrazione”, attraverso unaquotidianità investita dalla praticadella discriminazione e del razzi-smo. Si tratta di razzismi struttu-rati attraverso un processo conti-nuo, talvolta istituzionali, che ri-mangono impunibili. Ci si può ri-ferire ai “nomadi” in modo razzistae discriminatorio e il riferimentoappare “naturale” nella assuefazio-ne sicuritaria: nessuno si indigna, sipuò maltrattare l’altro perché è“nomade” e/o “zingaro”, sogget-to di correzione e di sfogo. Così ildiscorso si aggroviglia e e anche glioperatori sociali tendono ad allon-

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di ricerca sulle schiavitù lontane, re-lative all’altro lontano. Gli “zinga-ri” al contrario sono i nostri “altri”interni, i nostri schiavi da ri-educa-re, interessano la nostra corte e sonotroppo vicini, e, potrebbero essere –lo sono – soggetti portatori di peri-colosità, sociale e non solo, poiché“fatti male”. Noi, europei, non pos-siamo essere rappresentati come og-getto di studio, ci riserviamo l’iconadell’immunità salvifica dalle bar-barie che appartengono esclusiva-mente agli altri lontani.Ed è l’autoreferenzialità, l’assenzadel dubbio e la mancanza di inte-resse che ci riempie di fatica, co-munque, anche ad apprenderedalle forme di mediazione socio-culturale. La mediazione non è an-cora inserita nello specifico del la-voro sociale, specialmente nelle si-tuazioni di marginalità, e se tal-volta la si incontra, spesso si confi-gura come pratica distorta, usata asproposito e sconvolgendo l’azionesocio-educativa e gli intenti dell’in-serimento sociale. L’idea di media-zione nei servizi è riduttiva, ha perdi più una funzione superficiale daeffetto vetrina, è un idea che bana-lizza il concetto stesso di mediazio-ne, cercando di applicare forme efunzioni strettamente dipendentidal valore in ribasso dei budget, ac-compagnate dalla retorica delle re-gole che attribuiscono un giudizionegativo di inadeguatezza a chi nonriesce a saperle e a capirle.

4. L’operatività sociale

Gli standard riduttivi e la descri-zione negativa nella pratica del la-

voro sociale riducono non solo lamediazione socio-culturale, maanche l’essenza e le potenzialitàdelle relazioni di aiuto e di cura,agite dall’ente pubblico e dal pri-vato sociale. Fare mediazione,quando diventa una attività che sisomma a tutte le altre previste daivari regolamenti dei campi “no-madi”, si trasforma in prassi buro-cratica e non in azione socio–edu-cativa. Nell’attuale contesto socio–istituzionale, la mediazione impo-stata acriticamente ci allontanadalle possibilità di poter distin-guere fra persone di diversa e variaprovenienza e cultura. Fare me-diazione socio-culturale con glistranieri, immigrati e profughi, e/ocon i Rom, “è la stessa cosa”: atti-vità di indirizzo neutro e identichead una realtà appiattita dal nonsenso, dalla monotonia e dalla ri-petizione. Non è ancora stata im-postata una mediazione che partadai contesti culturali e dalle condi-zioni di vita concrete delle perso-ne ed è per questo che la media-zione non produce conoscenza; alsuo posto abbiamo una descrizioneistituzionale costantemente nega-tiva: gli “zingari” sono gli stranie-ri “estranei” che trasgredisconocontinuamente le regole. Nessunosi interroga su chi ha impostato esu come sono state impostate que-ste regole, come sono state condi-vise e soprattutto se sono state og-getto di comunicazione e di edu-cazione per essere capite. La reto-rica delle regole ci porta a quelladella sicurezza e ovviamente, rin-forza le giustificazioni dei pogrom.L’interesse verso forme di speri-mentazione è ridotto ed è circo-

scritto e frantumato nei settori diappartenenza. Non ci si assumonole responsabilità affrontare, anchein maniera sperimentale, le rela-zioni difficili; relazioni difficili in-nanzitutto da capire e descrivere.Neppure nei campi “nomadi”.I Rom e Sinti negli anni Trenta sonostate due categorie etniche “affida-te” all’universo della concentra-zione senza essere state nominatenelle leggi razziali: la loro a-socia-lità è stato “l’alibi” per poterli de-stinare all’estremo, allo sterminio.Oggi i pogrom ripartono dalle stes-se categorie, della a-socialità del-l’altro, dall’assenza di problemati-cità, dal suo modo di essere.Occorre pensare l’altro nella suaforma di cittadino, soggetto di di-ritti e interlocutore potenzialmen-te attivo, capace di presentare e ne-goziare le sue richieste e le sueaspettative.È necessario pensare tutte le nostrepratiche di “accoglienza” e “ospi-talità” non come cristallizzate omesse in essere una volta per tutte,ma come prassi che possono por-tare al cambiamento, che sono ne-cessarie e capaci per cambiare “ildestino” delle cose, che possono at-tivare le persone, e che devono pro-vocare e portare alla mobilità so-ciale non solo nei confronti deiRom e dei Sinti, stranieri per eccel-lenza, ma per tutti i migranti che avario titolo si trovano sul territorioitaliano, poiché questo è il cambia-mento che loro cercano.Diventa necessario cercare di co-noscere i paradossi di un agire so-ciale pubblico, per cercare le vie diuscita, ri-organizzando e influen-zando, non solo la politica con la

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L’attuale tipologia di mediazionelinguistica, nei vari servizi pubbli-ci e privati, investita dalla banalitàe dall’inutilità dell’azione stessa,non si (ri)qualifica e non è un vei-colo di produzione di conoscenza.Far conoscere la propria situazio-ne non rappresenta per i rom e sintiuna strategia di apertura e di di-versa impostazione dei rapporticon i non rom, per motivi di so-pravvivenza.I professionisti dei servizi e dellepolitiche sociali descrivono e indi-cano gli “zingari” come esempio dinon integrazione, come esempio diuna inutile-utilità, per rafforzare lepolitiche della sicurezza, e speri-mentarne i risvolti.Le tradizionali agenzie educative,Scuola ed enti di Formazione pro-fessionale, preposte anche comeveicolo di mobilità sociale, nonhanno ancora sperimentato e pro-dotto forme di comunicazione e direlazione per produrre conoscenzareciproca e consolidare i saperi e icomportamenti –non violenti e giu-sti- verso una minoranza.Il riconoscimento di una presenzamultiforme, titolare di diritti, non èuna prassi scontata, occorre impe-gnarsi con senso di giustizia.I diritti attribuiti ed esplicitati neiconfronti dei rom, riguardano ca-tegorie inventate “i nomadi”. Leleggi sono regionali e non nazio-nali e/o sovranazionali: si tratta dileggi inapplicabili e difficilmentepossono essere usate per tutelareuna presenza in situazioni di diffi-coltà, talvolta gravissime.I regolamenti amministrativi – so-prattutto dei Comuni – hanno unaimpostazione rigida nel concepire e

stituita da una costellazione di pre-senze, diversificata e omologatadalla collocazione nel campo “no-madi”.Le politiche gaggi, consolidate sul“nomadismo”, sono inadeguateper i riconoscimenti e la mobilitàsociale dei rom e dei sinti e si con-tinua a proporle ad altre realtà dicittadinanza debole, e sempre inmodo a-problematico.I Rom e i Sinti, sono costantemen-te e perpetuamente oggetto di di-scriminazione e di razzismo impu-nibile, quello conosciuto storica-mente come razzismo fisico maanche di razzismo differenzialista.La produzione sociale della cono-scenza risulta influenzata e sensibi-le alle condizioni di una precarietàpermanente. La conoscenza è in-fluenzata dal silenzio che permaneun silenzio. Si ignora intenzional-mente lo “zingaro” servendosi diuna conoscenza distorta dai pregiu-dizi e dalle stereotipie diffuse anchedall’azione istituzionale.La repressione istituzionale che ri-cevono rom e sinti paradossal-mente produce conoscenza che in-cide nell’incentivare le pratiche diallontanamento sociale. L’operati-vità istituzionale a tutti i livelli diintervento non distingue fra indi-viduo e gruppo di appartenenza.I saperi ufficiali e accademici co-struiti da gaggi non tengono pre-sente le storie delle migrazioni rom,e la loro schiavitù in Europa, comenon tengono presente le attuali re-lazioni con gli assetti sociali e isti-tuzionali, per potere reimpostarela descrizione e indirizzare i modidi comunicazione – con e fra – rome non rom.

‘p’ maiuscola, ma anche la politicache riguarda la nostra operativitàquotidiana.

5. Prospettive possibili

È possibile superare questa situa-zione? Certamente, bisogna inizia-re a pensare la reciprocità e i rico-noscimenti. Riconoscere che i romsono individui e persone con dirit-ti veri, senza attribuirli a categorieinventate come il nomadismo, èpossibile. Ed è necessario investirecon un altra attenzione e intenzio-ne politica, anche nel nostro quoti-diano, là dove le relazioni sono di-rette e gli sguardi si incontrano. Oc-corre riconsiderare l’operatività so-ciale pensandola nel suo intento disolidarietà, bisogna riconsiderarel’impossibilità di applicare leggi eregolamenti inventati e posti in es-sere solo per essere trasgrediti.Oggi i campi “nomadi” sono ingo-vernabili perché nessun essereumano può accettare e seguire queiregolamenti. È uno sforzo che partedai professionisti, dagli operatoriche a vario titolo operano nel so-ciale, da tutti quelli che hanno a chefare con le relazioni: occorre ini-ziare ad affrontare i Rom come per-sone che hanno una dignità, den-tro e oltre le problematiche sociali.La riduzione della distanza socialee istituzionale potrebbe essere pos-sibile e facilitata se si comprendo-no quattro fattori, cruciali nei rap-porti interpersonali ma anche neldisegno e nell’implmentazionedelle politiche sociali.Innanzitutto si tratta di considera-re la popolazione romanì come co-

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regolare i comportamenti nei campi“nomadi” e nei centri di Prima Ac-coglienza che provoca nonché in-centiva un’alta conflittualità e la co-stante trasgressione di questi stessiregolamenti, che difficilmente po-tranno essere considerati per crearerelazioni e dinamiche di diritto.Non esiste una legislazione che con-sidera le differenze etniche di mi-noranza e quella relativa alle mi-grazioni è stata ed è a tutt’oggi in-fluenzata dalle logiche dell’emer-genza.I Diritti Umani e di Cittadinanza dif-ficilmente sono interpellabili, relati-vamente alla questione rom e sinta,poiché questi ultimi sono investitidalla descrizione negativa e percepi-ti come a-sociali. Il riconoscimentodelle differenze socio culturali av-viene in senso restrittivo: si è noma-de e non cittadino, non profugo, nonimmigrato e non cittadino, anchequando si tratta di cittadini europei.Le politiche verso “i nomadi” hannocondizionato le politiche sociali di ac-coglienza deformandone il concettoe l’impostazione degli interventi,orientandoli in senso assistenzialistae repressivo.Le politiche di emergenza e gli inter-venti speciali hanno condizionato leimpostazioni e i percorsi della mobi-lità sociale.

6. Le istanze politiche

Le organizzazioni di rappresentan-za dei rom e sinti si occupano so-prattutto della difesa delle tradizionie della cultura dei vari gruppi. L’at-tenzione politica e la partecipazionedei rom attraverso le tradizionali

forme gaggi di aggregazione politicaè residuale. L’ organizzazione sinda-cale per rivendicare e ottenere dirit-ti di cittadinanza è ancora debole.I rapporti dei rom con i gaggi e la so-cietà circostante ai campi “nomadi”sono impostati sulla “logica deldanno minore” nel rapportarsi conl’esterno e di conseguenza sono im-postati sulla difesa e sulla chiusura enon sulla rivendicazione e aperturaalle relazioni.L’autogoverno dei gruppi e delle fa-miglie allargate dei rom e sinti, nonè considerato per cercare forme dirappresentanza politica nei rapporticon i gaggi. L’attuale impostazionedella mediazione socio-culturale nonpermette la nascita di percorsi politi-ci emancipatori.Esiste una leadership intellettualedei rom e sinti che guida sempre dipiù i gruppi e le comunità e che do-vrebbe essere considerata e valo-rizzata. Il bisogno di emancipazio-ne e di alfabetizzazione alla politicaè forte ed è sentito fra i gruppi romin condizione di povertà e collocatinei campi “nomadi” poiché è forteil tentativo di capire e spiegare lapropria condizione.In relazione a quanto detto finora, èpossibile formulare delle proposte:1) Re-impostare la partecipazione deirom e sinti e richiedere sempre la loropresenza in ogni situazione che li ri-guarda.2) Interloquire e intervenire sistema-ticamente con le realtà di romche abi-tano nei campi “nomadi”, per chia-rire tutte le dimensioni di una situa-zione di apartheid e cercare le solu-zioni di uscita.3) Ripensare e ristabilire pratiche co-municative per interrompere i circuiti

istituzionali di assistenzialismo e re-pressione riservati ai rom, proble-matizzando i bisogni per proporresoluzioni.4) Prospettare forme di comunica-zione e di contrattazione con le isti-tuzioni su tutte le tematichedella pre-senza e delle condizioni di vita deirom e dei sinti. La varietà delle formecomunicative influenza la presa inconsiderazione e i successi della con-trattazione.5) Vanno descritte e valorizzate tuttele forme dell’abitare rom al di fuoridel campo “nomadi”, poiché esisto-no e rappresentano realtà abitativeconsone culturalmente e desideratedai rom e sinti.6) Reimpostare la formazione, lascuola e la formazione professiona-le, che non devono perdere la loro fi-nalizzazione alla mobilità sociale.7) Ri-considerare l’inserimento lavo-rativo, che ha perso il suo carattereetnico, vista la complessità della mo-dernità rom e sinta. La tradizione èancora significativamente presentefra le persone e le comunità rom manon è l’unica e nemmeno onnipre-sente.8) Riflettere sulle questioni relativealla salute; i rom che vivono neicampi “nomadi” si trovano ancoraoggi a fronteggiare l’emergenza e leprassi della possibile educazionealla salute che investe la loro quo-tidianità.9) Le Forme di mediazione sociale eistituzionale devono proporsi tenen-do presente la giustizia nei rapportida mediare ed i processi di interio-rizzazione che potrebbero investirela parte debole: “i riconosciuti e di-chiarati deboli” che vengono anco-ra oggi considerati come soggetti im-

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Mondiale e l’OECD, che hanno stu-diato inprofondità questo fenomeno(Latouche, 1997; Schneider edEnste,2002; Shanin, 2002; Ringold, Oren-stein e Wilkens, 2003; OECD, 2004;).L’Italia, assieme alla Grecia, rap-presenta una notevole anomalia nelpanorama europeo e questo ele-mento diviene un fattore di im-portanza capitale per qualsiasi ana-lisi dedicata ai gruppi svantaggia-ti o marginalizzati in Italia poichéha influenzato e informato tutti iloro processi di integrazione.Ciò è ancora più vero per il gruppoRom, la cui inclusione nel mercatodel lavoro italiano, in particolareper quanto riguarda i rom stranie-ri, ha quasi sempre avuto luogoentro questa cornice di informali-tà, e soprattutto in una città comeRoma, che fin da dall’epoca del-l’unità nazionale è stata volonta-riamente privata di ogni tipo di in-sediamento industriale (Caracciolo,1993, pp. 248-254) e dove questoaspetto ha rappresentato uno deglielementi costitutivi e distintividella nostra storia sociale.A questo proposito nota infattil’economista T. Shanin:

Ricordo di essere andato in Italia nel1980, quando sia l’Italia che la Gran Bre-tagna avevano alti tassi di disoccupa-zione. Ma mentre i disoccupati eranovisibili ovunque nelle città del nord del-l’Inghilterra, in Italia non riuscivo a tro-varli. Ognuno era occupato facendoqualcosa, in centinaia di modi informa-li. … L’economia informale è globale. Inalcuni luoghi diventa “black economy”e si fonde con la criminalità. Ma spessoè perfettamente legale; solo persone chelavorano con la loro famiglia ed i loroamici per tirare avanti” (Shanin, 2002,p. 44).

demente non solo da regione a re-gione, ma anche da una municipa-lità all’altra, rendendo pratica-mente impossibile l’individuazionedi un modello unitario di approccioalle relazioni etniche.Questa è la prima, grande differen-za esistente fra l’Italia e altri paesieuropei come ad esempio la Franciae la Gran Bretagna, i cui rispettivimodelli teorici hanno influenzatotutta la legislazione e le pratiche pro-dotte in materia di migrazioni e rap-porti con le minoranze.L’Italia non ha adottato il modellocomunitarista inglese né quello re-pubblicano francese, ma ha datoorigine piuttosto ad una sua parti-colare forma ibrida, che presentaaspetti dell’uno e dell’altro model-lo. Questo elemento è fondamen-tale, e va tenuto in considerazionequando si analizzano le politicheitaliane verso Rom e migranti per-ché serve a spiegare, almeno inparte, alcune delle contraddizioniche il nostro sistema presenta e adar conto delle particolari modali-tà che hanno caratterizzato la storiadelle politiche migratorie in Italia.Accanto a questo fattore di base cen’è un altro altrettanto importante,e che sancisce un’ulteriore profon-da differenza fra la situazione ita-liana da quella di tutti gli altri paesieuropei (in particolare dell’Europasettentrionale). Si tratta cioè dellastorica e consistente presenza delsettore economico informale1.La specificità del mercato del lavo-ro italiano e la larga presenza del-l’economia informale sono temi ditale rilevanza da essersi guadagnatil’attenzione di economisti e diagenzie internazionali come laBanca

possibilitati al cambiamento, eter-namente zingari.10) In ogni pratica di intervento eazione sociale occorre tener presen-te la stigmatizzazione e soprattuttol’auto-stigmatizzazione dei rom esinti in quanto sentimento totaliz-zante attinente all’inadeguatezza distare nel mondo.11) In ogni pratica di intervento eazione sociale occorre considerare eproporsi alla comunità e alla persona,come bisogna tener presente le pro-spettive differenti degli adulti e deiminori, delle donne e degli uomini.Deve trovare legittimità ed è indi-spensabile tenere sempre da conto ladomanda di cambiamento che nascedai rom e sinti e che è rivolta al cam-biamento verso se stessi, verso ilgruppo e i contesti di appartenenzae che incontra la dimensione politica.

Fiori nella discarica:forme di resistenzanell’iperghetto

Monica Rossi*

Nel paese dell’informale

È molto difficile offrire un panora-ma complessivo delle politiche ita-liane verso i rom. La mancanza diun chiaro paradigma teorico di ri-ferimento e quindi di una politicanazionale univoca ha dato originea una situazione in cui gli inter-venti messi in atto variano gran-

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* School of Government and Society, Uni-versity of Birmingham.

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I sistemi economici informali sonoben collaudati e funzionanti, e scor-rono quasi invisibili affiancandoquello formale, e sebbene com-prendano forme anche gravissimedi sfruttamento diventando spes-so sinonimo di sottoimpiego, essigarantiscono tuttavia a molti uo-mini e donne a possibilità di co-struirsi una vita, mentre questi la-vori invisibili ma reali, costituisco-no comunque occasioni di redditoper settori della popolazione svan-taggiati (Latouche, 1993, p. 107) in-clusi i migranti e naturalmente,anche i Rom.Il terzo e ultimo importante ele-mento è quello relativo a un altrotratto peculiare italiano, quello cioèdella pratica dell’edilizia informa-le che ha permesso, soprattuttonelle grandi aree metropolitanecome quella romana, lo sviluppodi forme di autocostruzione cosìdiffuse da far coniare ad alcuni ri-cercatori l’espressione “self-madeurbanity”2.Le forme che questo modello di dif-fusa anarchia edilizia3 ha assuntosono molto diverse fra loro. Com-prendono l’abusivismo edilizio sugrande scala (speculazione priva-ta) le aree urbane che circondanola capitale4, le definizioni urbani-stiche quali quelle delle cosiddettezone “O” o “toponimi”5, fino a in-cludere i borghetti, le baraccopolie naturalmente, i campi Rom.Dunque la compresenza di questitre elementi: assenza di un model-lo di riferimento per le relazioni et-niche, larga presenza dell’econo-mia e dell’edilizia informale, sicompone per formare uno sfondounico del quale va tenuto conto,

dato che costituisce un elementointerpretativo chiave per l’analisidelle povertà metropolitane con-temporanee nel nostro paese.

Ghetti, borghetti, baraccopoli: una sto-ria romanaPiccoli e grandi ghetti urbani comei borghetti e le baraccopoli hannorappresentato una caratteristica co-stante del panorama romano,anche se per la prima volta vengo-no registrati ufficialmente solo apartire dal censimento del 1911 (In-solera, 2001, p. 72).La popolazione che abitava questiluoghi era composta almeno finoagli anni 70, da cittadini italiani, inparticolare romani sfrattati dal cen-tro storico e migranti interni prin-cipalmente provenienti dal sud eda altre regioni dell’Italia centrale6.Questi settori impoveriti della po-polazione trovavano rifugio do-vunque fosse possibile, nelle piaz-ze romane, sotto i portici e persinoin baracche, spesso costruite dallostesso Comune di Roma (Insolera,2001, pp. 63-65).La dimensione di questo fenome-no era tale che nel 1957 la “Com-missione Consiliare per lo studiodel problema della casa per gli abi-tanti delle grotte, dei ruderi e dellebaracche”, registrò più di 60.000persone che vivevano in alloggi de-nominati come “impropri”7.Esteticamente queste baracche au-tocostruite fatte di mattoni, legnoe metallo avevano l’aspetto di pic-cole case. La presenza di piccoli ortie di animali domestici e da cortileper l’integrazione della dieta testi-moniava l’origine rurale dei suoi

abitanti. Dal punto di vista dellacondizione occupazionale poi, sitrattava di persone già inserite nelmondo del lavoro come edili, ma-novali, operai, e dunque di un veroe proprio proletariato urbano.Nonostante le difficili condizionidi vita gli abitanti delle baraccopo-li romane dal dopoguerra8 viveva-no una situazione transitoria, e chesarebbe presto mutata.Gli sforzi delle organizzazioni po-litiche di base come il “Movimen-to di lotta per la casa” vennero so-stenuti dalla determinazione daparte di politici e istituzioni di met-tere fine a questo fenomeno. Ciòportò ad azioni concrete da partedelle istituzioni e nel corso delladecade 1970 – 1980, nella speranzadi risolvere una volta per semprequesto problema, l’amministrazio-ne guidata dal sindaco Luigi Pe-troselli intraprese l’azione di di-struzione dei vecchi borghetti, ga-rantendo a migliaia di cittadini l’ac-cesso all’edilizia popolare. Per laprima volta vennero inclusi in que-sta azione anche gruppi di rom ita-liani, che vivevano anch’essi nellebaraccopoli9.Sembrava che la storia degli inse-diamenti informali a Roma fosse fi-nalmente giunta alla fine. Natural-mente non era così.Nel corso del decennio 1980-1990,quando anche l’Italia era già en-trata a far parte della rosa delle pos-sibili mete migratorie, i ghetti ur-bani romani conosceranno unanuova rinascita, e i migranti ma-ghrebini, sud asiatici, africani edest europei sostituiranno gradual-mente gli ex abitanti italiani.Fabbriche e capannoni abbando-

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terpretano la crescita degli slums intutto il mondo come un processodi late capitalistic humanity screening(Davis, 2006, p. 177).Sono luoghi in cui si raccoglieun’umanità composta dagli indi-vidui più deboli e da quelli consi-derati come “eccedenti”, che ven-gono lasciati da soli ad affrontarela crisi in atto. Queste “human wa-stes” vengono spazialmente rele-gate in aree già fortemente margi-nalizzate, ai confini della civiltà(Bauman, 2007, pp. 79-116) dovequesti settori impoveriti della po-polazione, espulsi dalla competi-zione del mercato del lavoro, co-stituiscono un’umanità “di scarto”le cui possibilità di integrazione oreintegrazione, sono inesistenti(Ibid. p. 66).In queste mutate condizioni di baseanche il ghetto si è trasformato, as-sumendo forme che disegnanooggi il nuovo paradigma del-l’esclusione sociale urbana.Di grande interesse per l’analisi diqueste nuove forme urbane del-l’esclusione sociale sono i lavori diL. Wacquant dedicati a quella chedefinisce marginalità sociale avan-zata10.I suoi scritti sono importanti so-prattutto per il contributo teoricoche hanno offerto al concetto so-ciologico di ghetto, ed in partico-lare alla sua modalità contempora-nea, definita dallo stesso autorecome iperghetto.Ma come nasce, e cosa caratterizzal’iperghetto?

affinché un ghetto emerga, il confina-mento spaziale deve anzitutto essereimposto e onnicomprensivo e secon-

in nessun modo simili a quelle chepossiamo vedere oggi occupate daiRom o da piccole comunità di mi-granti, e la portata di queste diffe-renze è tale da aver portato ad unaridefinizione del concetto stesso dighetto.

Dal ghetto all’iperghetto

I mutamenti socio economici degliultimi trent’anni sono stati caratte-rizzati dall’erosione sistematica deitradizionali sistemi di protezionesociale e di welfare e da importan-ti processi di deindustrializzazio-ne. Questo dato, unito alla diffusaderegulation che pervade il mer-cato del lavoro ha introdotto ele-menti di incertezza e insicurezzaper interi settori della popolazionemondiale (Davis, 2006; Bauman,2007).Uno degli indicatori di questo pro-cesso di pauperizzazione globale èrappresentato senz’altro dalla cre-scita esponenziale del fenomenodegli slums metropolitani. Questiluoghi non rappresentano per nullaun fenomeno marginale o in via diestinzione e anzi, sono divenutiuna caratteristica distintiva del-l’urbanizzazione del terzo millen-nio, specialmente nei paesi del suddel mondo. Due importanti rap-porti delle Nazioni Unite (UNHuman Settlements Programme,2003; UN Habitat, 2003) hanno sti-mato che nell’anno 2001 921 milio-ni di persone vivevano negli slums,e prevedevano che questo numeroavrebbe superato il miliardo nel-l’anno 2005.Sociologi come Bauman e Davis in-

nati diverranno allora il rifugio diuna popolazione che per molte ra-gioni, (gli alti costi degli affitti, lamancanza di documenti, il pregiu-dizio dei locatari ecc.) si era trova-ta nell’impossibilità di poter acce-dere ad un alloggio, ricorrendo per-ciò all’autocostruzione.Nel corso degli anni molti di que-sti insediamenti informali sonostati costruiti, evacuati, distrutti ericostruiti altrove, a volte durandosolo poche settimane, ma la carat-teristica fondamentale di questi in-sediamenti era sempre stata la lorotemporaneità.Il periodo di permanenza in questiluoghi poteva essere più lungo perqualcuno o più breve per qualcunaltro, comunque prima o poi tuttiavrebbero lentamente mutato leloro condizioni, integrandosi pro-gressivamente con il contesto so-ciale grazie all’accesso a un allog-gio regolare e a un’occupazione. Lavita nelle baraccopoli era perciòstata per queste persone, solo unadolorosa parentesi, anche per i pro-tagonisti delle più recenti migra-zioni postfordiste. Quei luoghierano ancora simili al ghetto dellatradizione sociologica descrittodagli autori della Scuola di Chica-go e definito da Wirth come un fe-nomeno di passaggio ineludibile,che Wirth intendeva come coinci-dente con la migrazione (Wirth,1928, p. 285), ma nel corso dei de-cenni vi sono stati enormi e so-stanziali mutamenti che hanno al-terato la morfologia sociale di que-sti spazi, rendendoli totalmente di-versi da come erano in origine.Le baraccopoli romane del dopo-guerra e degli anni ’70 non erano

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dariamente deve essere accompagna-to da un distinto … set istituzionaleche metta in grado il gruppo così rac-chiuso di riprodurre se stesso entro ilperimetro assegnato (Wacquant, 2004,p. 4).

Il ghetto diviene allora una “ mac-china per l’identità collettiva” ba-sata sulla separatezza.Questo effetto segregante e che siautoriproduce è mantenuto e rin-forzato per mezzo di altri due ele-menti:

… primo, il ghetto rende più efficien-ti le frontiere fra la categoria degli out-cast e quella della popolazione circo-stante per mezzo dell’approfondi-mento dell’abisso culturale fra loro. Se-condo, il ghetto è un motore di com-bustione culturale che fonde le divi-sioni fra i gruppi rinchiusi e alimentail suo orgoglio collettivo mentre altempo stesso consolida lo stigma che loavvolge (Ibid. p. 5).

L’iperghetto di Wacquant è unluogo dove le possibilità di eman-cipazione e di inclusione socialesono quasi ridotte a zero non soloda fattori strutturali di classe maanche dalla mancanza di un ade-guato capitale sociale a cui fare ri-corso.I ghetti odierni sono iperghetti per-ché la “disoccupazione e l’esclu-sione sociale, avendo raggiuntoproporzioni drammatiche hannoinnescato un processo di iperghet-tizazione” (Wacquant, 1989, p. 3) e:

il risultato è una nuova forma urbanache io chiamo iperghetto, caratterizza-ta da una doppia relegazione sullabase dell’appartenenza razziale e dellaclasse e rinforzata da una politica sta-tale di contrazione del welfare e di ab-

bandono urbano (Wacquant, 2008, p.114).

Il ritiro e l’erosione graduale del si-stema del welfare come meccani-smo di inclusione sociale è statorimpiazzato da politiche di sorve-glianza con il fine di controllare econfinare un settore problematicodella popolazione offrendo cosìuna risposta di tipo securitario aproblemi sociali.La differenza esistente fra le anti-che baraccopoli e quelle odierne staproprio in questi mutamenti strut-turali che hanno ristretto dramma-ticamente l’accesso a occupazioniregolari inaugurando un nuovo la-boratorio globale di precarizzazio-ne. La popolazione di questi inse-diamenti non sarà mai parte delleclassi lavoratrici e non avrà mai ac-cesso a un impiego regolare.

L’iperghetto istituzionalizzato

Il modello teorico costruito da Wac-quant è a mio avviso particolar-mente efficace per descrivere lecondizioni di campi che si trovanooggi a Roma e in altre città d’Italia.Il caso dei campi Rom rappresentainfatti un perfetto esempio di mo-derno iperghetto. Quelle condizio-ni che abbiamo visto essere tem-poranee anche per migranti arri-vati solo da pochi anni, sono inve-ce divenute permanenti per i mem-bri di questa comunità, mentre legravi forme di segregazione e mar-ginalizzazione cui sono sottopostinon conoscono precedenti in altrigruppi e che sono rimaste immu-tate fin dai primi arrivi di Rom stra-

nieri in Italia. I primi iniziano adarrivare in Italia dalla ex Yugosla-via dopo il 1965. Come gli italianicostruiranno alloggi di fortunaovunque sia possibile su porzioniabbandonate di terreno alla perife-ria della città, in maniera del tuttospontanea e rimanendo a lungo inpratica ignorati dalle istituzioni11.Nel corso del decennio 1980-1990in mancanza di una legge nazio-nale, si cerca di regolamentare que-sta materia perlomeno a livello digoverno locale, e dunque in queglianni undici regioni italiane (inclu-so il Lazio)12 promulgano delleleggi specificatamente dedicate aiRom.Questi atti, nelle intenzioni dei le-gislatori, istituivano i campi comeluoghi che avrebbero dovuto sod-disfare al bisogno di un gruppo chesi supponeva nomadico, e venne-ro implementati con l’intenzione diproteggere e preservare l’ereditàculturale e le tradizioni della mi-noranza Rom.Veniva richiesto alle autorità loca-li che questi campi fossero costrui-ti in aree facilmente raggiungibilie ben connesse con i trasporti pub-blici, forniti di servizi e infrastrut-ture, e sostenuti da interventi de-dicati all’integrazione lavorativa eall’inclusione sociale.In realtà solo poche delle azionipreviste da queste leggi sono stateportate a compimento. Gli inter-venti di integrazione sociale e la-vorativa infatti, perlomeno perquanto riguarda la città di Roma,sono stati in gran parte limitati einefficaci. Gli stessi progetti di sco-larizzazione dedicati ai minoriRom (in pratica l’unico intervento

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provvedono al riciclaggio. Si trattadi una forma di lavoro praticata so-prattutto dagli uomini anche per-chè oltre ad essere un lavoro moltofaticoso e non certo esente da rischi,richiede anche continui spostamen-ti da una parte all’altra della città.Questa attività viene svolta dai Romormai da più di trent’anni.Ciò che risulta invece nuovo è ilfatto che questa occupazione, informe diverse, sia divenuta unafonte di reddito anche per le donne,che sole o a piccoli gruppi hannogradualmente intrapreso la raccol-ta degli oggetti e dei vestiti raccol-ti dalle pattumiere e che vengonopoi riparati e rivenduti sia nei mer-cati di quartiere che in quelli piùgrandi come quello di Porta Porte-se (De Angelis, 2006). L’ampiezzae la qualità del capitale sociale im-piegato in queste attività sono im-pressionanti e meriterebbero unamaggiore attenzione da parte delleistituzioni, le quali paiono invecenon accorgersi affatto di pratichecome quelle appena descritte (no-nostante sia evidente che le attivi-tà di raccolta e riciclaggio potreb-bero costituire un’importante ri-sorsa per sostenere nel concreto iRom offrendo loro occasioni di red-dito regolare).Inoltre i pochi interventi per l’in-clusione socio lavorativa messi inatto finora hanno riguardato so-prattutto la popolazione maschile14

o le famiglie, ignorando le dinami-che di social change in atto anche inqueste comunità, in particolarequando queste riguardano le donne.Forse anche qui è all’opera unaforma di filtro stereotipico che im-magina le società Rom come imper-

presenza di quel peculiare ele-mento nazionale che è l’economiainformale.Le pratiche economiche informalidei Rom sono risposte creative cherappresentano un’alternativa al si-stema dell’economia formale dalquale sono esclusi e costituisconoun’importante risorsa per la so-pravvivenza quotidiana fornendoconcrete occasioni di reddito.Queste forme di resistenza “…comprend[ono] strategie di rispo-sta globali alle sfide poste dalla vitanelle periferie urbane a popolazio-ni spostate e sradicate, divise tra latradizione perduta e l’impossibilemodernità” (Latouche, 1993, p.107). Inoltre “… nell’informale…l’economico… È dissolto, incorpo-rato (embedded) nel sociale, in par-ticolare nelle reti complesse chestrutturano queste periferie …”(Latouche, 1997, p. 160). Ed è pro-prio in questa embeddedness degliaspetti economici e sociali che ilmodello dell’“oikonomia neoclani-ca” (Ibid. p. 189) teorizzato da La-touche diviene uno strumento im-portante per lo studio delle nicchieeconomiche dei rom a Roma.Il corpus di piccole attività econo-miche informali praticate dai romsono infatti, come vedremo, prin-cipalmente quelle del piccolo com-mercio su scala familiare.

Fiori nella discarica: forme di re-sistenza nell’iperghetto

Una larga parte della popolazionedi Rom stranieri a Roma è occupa-ta nella raccolta di metalli che ven-gono poi rivenduti alle ditte che

condotto sistematicamente) nonhanno sortito gli effetti sperati(Rossi, 2009 pp. 67-72).L’unico effetto che queste leggihanno avuto è stato quello di averistituzionalizzato i campi pren-dendo come pretesto il rispetto cul-turale di un “nomadismo zingaro”,un modus vivendi che la grandemaggioranza dei Rom (perlomenoquelli dei campi romani che pro-vengono principalmente dai Bal-cani) aveva peraltro abbandonatoda almeno cinquecento anni13.Questa scelta ha, di fatto, provve-duto a congelare per più di un qua-rantennio la questione dell’abitareper i Rom contribuendo a mante-nere questo gruppo come fosse uncorpo separato dalla popolazioneitaliana e alimentando diffidenza epregiudizi.Separatezza etnica, segregazionespaziale e incuria istituzionalehanno cristallizzato la situazionedei Rom che oggi vantano il tristeprimato di essere giunti alla quin-ta o sesta generazione di personenate nei campi. La stessa integra-zione lavorativa, pure avvenutaper molti migranti, non si è maiconcretizzata in maniera diffusaper i Rom, che sono stati invece so-spinti verso le uniche nicchie eco-nomiche a disposizione e cioè ap-punto quelle del settore informale(manghèl, raccolta, riciclaggio e ven-dita di oggetti di seconda mano, in-dumenti e metalli).La situazione parrebbe davvero di-sperata, ma anche in questi iper-ghetti romani si sono sviluppateforme di resistenza all’anomia so-ciale che incombe e che hanno po-tuto svilupparsi proprio grazie alla

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meabili al cambiamento, al di fuoridella storia, ma gli esseri umanisono organismi complessi e di con-seguenza lo sono i fatti sociali, eper poter cogliere appieno questacomplessità senza lasciarsi sedurredalle generalizzazioni è necessariouno sguardo non ideologico suigruppi che decidiamo di osserva-re e sulle loro pratiche sociali.Dal punto di vista dei rapporti digenere le comunità Rom condivi-dono con il gruppo latino e medi-terraneo un certo modello di rela-zione fra i sessi che venne definitonegli anni ’60 da Peristiany e altricome “sistema di onore e vergo-gna” (honour and shame system).Dunque un sistema basato su unarigida divisione dei ruoli sessualie delle prerogative che la tradizio-ne ascrive come proprie a ciascungenere. Questo modello è stato inseguito criticato da diversi autori(non ultimo lo stesso Peristiany)15,e le etnografie prodotte da ricerca-tori donne in diverse aree del Me-diterraneo16 e in altri contesti geo-grafici hanno invece mostrato comeil raggio d’azione femminile, a di-spetto delle convenzioni maschili,possa spaziare grazie ad un’alter-nanza continua di libertà e con-trollo.Gli stessi dati etnografici che horaccolto nel corso delle mie ricer-che di campo e le molte situazioniosservate rivelano questo aspettocon molta chiarezza. Se analizzia-mo meglio le azioni del generefemminile notiamo una serie di in-teressanti contraddizioni nellequali si può vedere in che modo ilmodello basato sulla supremaziamaschile assoluta si incrini, mo-

strando tra le crepe gli spazi diazione disponibili.Le romnià possono andare da soleper la città a chiedere l’elemosina oa praticare la raccolta, percorrendocosì distanze anche molto lunghe,ma queste vengono percorse a piedipoiché poche donne sono in pos-sesso della patente (anche se sonomolte quelle che sono perfettamen-te in grado di guidare)17. Possono in-teragire con le istituzioni per que-stioni relative ad esempio alla logi-stica dei campi (distribuzione di ser-vizi igienici o altro) anche se poi alleriunioni ufficiali troviamo in mag-gioranza gli uomini, ed assieme aquesti si potrebbero citare molti altriesempi simili.Questa apparente contraddizionenel comportamento atteso delledonne Rom, è stata rilevata anchedalla Okely a proposito del gruppoda lei studiato in Inghilterra (Okely,1995, p. 257).La spiegazione di questa apparen-te anomalia è stata analizzata dal-l’autrice alla luce dei concetti di pu-rezza e contaminazione nella dop-pia relazione uomo/donna e rom/gagè nella quale è la donna ad as-sumersi la responsabilità del con-tatto con il modo dei gagè, percepi-to sostanzialmente come fonte dicontaminazione. Personalmentenon la considero un’interpretazio-ne condivisibile, e trovo invece piùpregnanti le ipotesi formulate daBourdieu che in un suo saggio del1998 basato sulla sua esperienza et-nografica in Marocco afferma che:

... le donne hanno il privilegio, tuttonegativo, di non lasciarsi irretire daigiochi che hanno per posta i privilegi

e, nella maggior parte dei casi, di nonlasciarsene coinvolgere, almeno diret-tamente, in prima persona (Bourdieu,1998, p. 91).

In questa specie di gioco di ruolobasato sul genere le donne osser-vano gli uomini condurre i lorogiochi per il potere, la posizione so-ciale e la dominazione, lasciandoloro l’utilizzo dello spazio pubbli-co e sociale. Questo non significaaffatto che manchino del capitalesociale e culturale necessario, anzitutt’altro, perché le competenzemesse in campo dalle donne sonodavvero estese e comprendono peresempio anche qualità come quel-la relativa alla capacità di combat-tere ed al coraggio, caratteristicaquesta, rilevata anche dalla Okely(Ibid. p. 277).Questo aspetto “guerriero” pre-sente nelle romnià rappresenta unapotenziale risorsa di ribellione allaquale poter fare ricorso nei mo-menti di crisi. Nel contesto tradi-zionale può venir attivata peresempio per rifiutare con la fugaun matrimonio non voluto, ma puòanche essere utilizzata in altrimodi, ad esempio come “motore diricerca” di nuove istanze emanci-patorie che vengono offerte anchegrazie all’interazione con il mondodei gagè (scuola, istituzioni, asso-ciazionismo).Un’ultima osservazione va poi fattasulla qualità del capitale sociale eculturale che le donne mettono ingioco rispetto a quello impiegatodagli uomini.Attraverso la pratica dell’elemosi-na e la vendita degli oggetti di se-conda mano presso i mercati loca-

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sto progetto, è che i soci hanno ri-chiesto alle istituzioni di riconosce-re in maniera ufficiale questa attivi-tà che, lo ricordiamo, ancora oggiviene svolta in maniera informale,così da poter ottenere anche un per-messo di soggiorno per motivi di la-voro. Un problema questo che an-cora affligge molti membri delle co-munità (in particolare della ex Ju-goslavia) e che non è ancora stato ri-solto e persino persone nate in Italia,con conseguenze drammatiche.Tutti i progetti indicati finora pos-sono venire considerati come fertilipunti di inizio per politiche di in-clusione più innovative, per esem-pio attraverso l’utilizzo del sistemadei microcrediti così da permetteredi estendere questa attività a tutti iRom che saranno interessati.La sfida è quella di offrire vere oc-casioni di emancipazione garanten-do anzitutto i diritti di cittadinanzaad individui che sebbene presenti inItalia ormai da decenni, si trovanoancora privi di documenti permet-tendo loro anche l’acccesso ad unaforma di reddito regolare e non in-termittente.Sfortunatamente tutte queste inizia-tive hanno avuto finora solo formeepisodiche di sostegno da parte delleistituzioni, che hanno mancato di ri-conoscere il sofisticato livello di ca-pitale sociale investito in queste atti-vità, ed hanno lasciato ancora unavolta i Romsoli ad arrangiarsi da soli.

NOTE

1 L’economia informale è composta dablack e shadow economy. La black econo-my è costituita dalle attività criminali,mentre la shadow economy comprende

gruppo ha prodotto costumi teatra-li e diverse collezioni di abiti e borseed ha realizzato alcuni modelli chesono stati poi utilizzati dallo stilistaRomeo Gigli in una delle sue sfilate.Il secondo esempio è quello del “Ro-manò Hapè”. Si tratta di un serviziodi catering gestito da donne e soste-nuto dalle associazioni Stalker Os-servatorio Nomade e Romà Onlusdi Roma. Questa cooperativa offreil proprio servizio di catering con unmenu composto di piatti tipici dellatradizione balcanica.Il terzo caso è quello delle ragazzeche compongono il gruppo di ballo“Chejà Chelen” (Ragazze che balla-no) formato da un gruppo di giova-ni donne provenienti dal campo ro-mano di via Cesare Lombroso e fon-dato da Vania Mancini, che a questaesperienza ha anche dedicato unamonografia.L’ultimo caso, forse il più rilevante,è quello rappresentato daiPijats Ro-manò (Romanò Markets), una coo-perativa sociale che raggruppa 183soci e socie provenienti da molticampi romani e che ha il suo cuorepulsante nella figura di Umiza Ha-lilovic, una eccezionale protagoni-sta femminile proveniente anche lei,come le ragazze del gruppo “ChejaChelèn”, dal campo di via C. Lom-broso.I membri di questa cooperativahanno richiesto alle istituzioni loca-li un sostegno per la loro attività, ri-chiedendo l’autorizzazione ad ope-rare in maniera ufficiale regolamen-tando l’attività dei rom offrendo lorodegli spazi all’interno dei mercati dizona dove peraltro i Rom sono unapresenza storica ormai consolidata18.L’ultimo aspetto importante di que-

li, le donne Rom hanno avuto lapossibilità di entrare in contatto conuno spettro di persone più ampiorispetto a quello delle attività ma-schili della raccolta dei metalli.La necessità di comunicare a livel-li più complessi le ha messe ingrado di apprendere la lingua ita-liana, anche perchè questo tipo dilavori comporta una continua in-terazione con i locali a diversi li-velli e facendo ricorso a unagamma più ampia di registri lin-guistici. Anche gli uomini hannocontatti frequenti con gli italiani nonRom, ma la loro interazione è piùbreve e scarna, limitata a lavoratorinon specializzati mentre le donneinteragiscono con persone di tutte leclassi sociali.Nel corso degli ultimi vent’anni c’èstata una decisiva crescita nella par-tecipazione femminile alle attivitàpubbliche e le donne romsi sono reseprotagoniste di progetti estrema-mente interessanti, in particolare nelcampo dell’auto imprenditoria.A Roma diversi gruppi di donneRom si sono organizzate realizzan-do cooperative di lavoro mostran-do una grande capacità di collabo-razione reciproca e grandi abilità or-ganizzative.Gli esempi più noti sono tre: il primoè quello dell’”Antica Sartoria Rom”,costituito da un gruppo di donne didiverse nazionalità che produconoabiti e accessori ispirati alla tradi-zione Rom. L’organizzatrice delgruppo è una donna lei stessa, Car-men Alessandra Rocco, che di pro-fessione fa la cantante lirica ma cheè anche laureata inAntropologia edha lavorato permolti anni comeope-ratrice nei campi Rom romani. Il

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attività anch’esse illegali, in quantoprive di autorizzazioni ma non diret-tamente criminali. (Cfr. anche Latou-che, 1997, pp. 161-167).2 Vedi a questo proposito il lavoro deiricercatori dello SMU Research. Sitoweb: http://smu-research.net/smu/ita-lian.3 Espressione utilizzata da Caracciolo,1993, p. 104.4 La Roma delle borgate per intender-si, visto che per quest’ampia parte dicittà non è mai stata trovata una defi-nizione appropriata se non quella, pe-raltro molto generica di città abusiva.5 Per un approfondimento sulle “ZoneO” ed i toponimi vedi: http://www.ur-banistica.comune.roma.it/uo-periferi-ca-toponimi.html. Per la storia dei con-sorzi di autorecupero e dei processi dipartecipazione dei cittadini vedi inve-ce: http://smu-research.net/projects/2nd-workshop e http://smu-rese-arch.net/projects/smu-report.6 È il caso ad esempio dei Rom italianiabruzzesi che durante gli anni ’60 vis-sero nella baraccopoli romana del-l’Acquedotto Felice” assieme ad ita-liani non Rom (Cfr. Sardelli, R. in bi-bliografia).7 Comune di Roma (1957) “Commis-sione Consiliare per lo studio del pro-blema della casa per gli abitanti dellegrotte, dei ruderi e delle baracche”,Roma. Il rapporto registrava 13.703 fa-miglie composte da 54.576 persone edivise in 28 insediamenti informali, 24“borghetti” e 356 nuclei e conglomera-ti di baracche.8 Che erano comunque cittadini italia-ni, una differenza non trascurabile ri-spetto agli abitanti stranieri dellenuove baraccopoli metropolitane.9 Ma non ai rom stranieri che invece ri-masero nei campi.10 “Advanced social marginality”, dicui Wacquant distingue sei caratteri-stiche distintive: “…growing internalheterogeneity and desocialisation oflabour, functional disconnection of nei-ghbourhood conditions from macro-economic trends, territorial fixation

and stigmatization, spatial alienationand dissolution of place, loss of a via-ble hinterland, symbolic fragmenta-tion of marginalised productions”(Wacquant, 1996, pp. 124-128). Il ter-mine “avanzata” si riferisce al fatto chequesta forma di marginalità è, perusare le parole dello stesso Wacquant,davanti a noi (ahead of us) (Wacquant,1996, p. 123).11 Basti pensare che dall’anno dellaprima comparsa delle classi LacioDrom nel 1965, bisognerà attenderefino al 1982 perchè i ragazzi Rom ver-ranno inseriti in classe con gli alunninon Rom (Rossi, 2010, pp. 235-236).12 L.R. 24/5/1985, n. 82 “Norme in fa-vore dei Rom”.13 Vi sono ancora gruppi che praticanoil nomadismo, come ad esempio i Kal-derasha, ma qui mi riferisco ai gruppipiù numerosi come i Xoraxanè.14 Progetti, censimenti, tutti adopera-no ancora l’espressione “capofamiglia”(sempre riferendosi a maschi) o “fa-miglia”, come se quest’ultime non fos-sero costituite da individui15 Il dibattito antropologico attorno aquesto concetto non può venire ripor-tato per mancanza di spazio, e neces-siterebbe di una trattazione a parte inquanto è stato ed è tuttora oggetto diforti critiche e revisioni (Herzfeld,1980; Pina Cabral, 1989; Goddard 1994;Peristiany e Pitt Rivers, 1992).16 Anche qui sarebbe lungo indicareuna bibliografia completa, cito pertutte quella di Vanessa Maher (1989).17 Vedi a questo proposito quanto scri-ve Pierre Bourdieu in merito all’“im-potenza acquisita” (learned helplessness)femminile (Bourdieu, 1998, p. 75).18 I primi mercatini Rom autorizzati ri-salgono al 1990 e riguardarono i Mu-nicipi XII e VII (nello spazio dove c’èPorta Portese Nuova). In seguito, altrimercati vennero attivati nei MunicipiV, XII, XI, VIII, IV, e XV, ma molti sonostati poi sospesi a causa della man-canza di autorizzazioni, delle difficol-tà logistiche e dal gran numero di romche avrebbe voluto parteciparvi.

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analizzando gli stereotipi e i pre-giudizi che nei secoli si sono accu-mulati a carico di questa minoran-za e che ancora oggi risultano per-tinacemente radicati nella panciadella gente comune.Pochi conoscono la storia di que-sta etnia la cui origine è indiana epiù precisamente nell’India setten-trionale. Gli studiosi della materiaconvergono in maggioranza a rite-nere che verso l’anno mille, in se-guito a una catastrofe naturale o aun’invasione straniera, i rom dalPunjab e dal Rajasthan si sianomossi verso ovest.I primi documenti della loro pre-senza in Europa risalgono al XIVsecolo. In Italia al 1422. Da sempresono stati guardati con diffidenzache spesso ha deragliato in ostilitàe persecuzione. Si potrebbero cita-re i bandi che le varie città emette-vano a loro carico come il tentativodi assimilazione coattiva perpetra-ta dalla imperatrice Maria Teresaper finire al porrajmos (che altri romnominano coma samudaripen) cioèlo sterminio perpetrato dal regimenazista. Quell’orrore è stato il cul-mine della storia di discriminazio-ni e persecuzioni subite dal popo-lo rom [1].Si sarebbe potuto legittimamentepensare che dopo quel picco di or-rore quanto meno l’Europa si fossevaccinata contro il morbo del raz-zismo, della discriminazione, dellaxenofobia. Ma con rammarico dob-biamo prendere atto che non è statocosì, a partire dallo stesso processodi Norimberga che ha completa-mente e colpevolmente trascuratoil seppur minimo accenno all’olo-causto dei rom.

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I Rom e ladiscriminazione

Marco Braccioduro*

Che i rom siano oggetto di com-portamenti discriminatori è un fattocosì evidente e diffuso che nonpenso sia il caso di procedere a unadimostrazione dell’assunto. In se-guito vedremo alcune delle formeche questi comportamenti assumo-no nella pratica quotidiana.Credo che comunque sia più inte-ressante analizzare i motivi di que-sti atteggiamenti e tentare di spie-garne la dinamica e la fenomeno-logia. Ritengo che sia utile partire

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DOSSIER LA REALTÀ DEI ROM

* Docente Università di Roma.

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L’antiziganismo non ha mai am-messo l’irragionevolezza dei suoipregiudizi e come un fiume carsicoha continuato a scorrere nel sotto-suolo di tutta Europa per irromperesovente in superficie e stigmatizza-re, emarginare, travolgere vite umanecolpevoli di essere diverse. Qui nonc’è lo spazio per un riferimento pun-tuale ai vari episodi anche di veri epropri pogroms che le cronache ita-liane hanno registrato non ultimiquelli di Opera nel dicembre 2006 edel rione Ponticelli a Napoli nel mag-gio del 2008 quando campi rom sonostati dati alle fiamme.L’atteggiamento delle autorità èquanto meno ambiguo. Se vanno re-gistrate iniziative finalizzate all’in-tegrazione delle comunità rom piùpovere sia sotto il profilo dell’habi-tat che quello dell’accesso al merca-to del lavoro e della scolarizzazio-ne, troppo numerose sono le presedi posizione e le dichiarazioni a tuttii livelli che stigmatizzano, condan-nano, aizzano contro le comunitàrom additate come il classico caproespiatorio dell’insicurezza metro-politana. Si vedano ad esempio leordinanze con le quali nel 2008 ilConsiglio dei Ministri varò tre prov-vedimenti (3676, 3677, 3678) “perfronteggiare lo stato di emergenzain relazione agli insediamenti di co-munità nomadi” che tematizzanola questione in termini di ordinepubblico accogliendo le distorsioniimputabili alla sindrome securitariagià presente con i ”patti per la sicu-rezza” varati a Roma e Milano. E in-vero scoraggiante l’incapacità delleamministrazioni a più livelli a in-quadrare il problema nel suo cor-retto contesto che le induce a un co-

stante annaspamento cui si tenta diporre rimedio con la facile e rozzascorciatoia dell’ordine pubblico. Fareleva sull’istintivo riflesso d’ordinedell’elettorato funziona sempre mie-tendo consensi ma non risolve i pro-blemi perché non li prende dal versogiusto.Uno dei pregiudizi più antichi e an-cora largamente difffuso è quello cheattribuisce ai rom la pratica del ra-pimento dei bambini. A contrastar-lo non basta l’argomento secondo ilquale i rom, tradizionalmente incli-ni a una marcata prolificità, hannogià abbastanza figli naturali da do-verne desiderarne altri.Adimostra-re l’inconsistenza del pregiudizio èintervenuta una documentata ricer-ca che ha proceduto a una accuratadisanima di tutte le sentenze dei tri-bunali italiani su questo tema [2]. Inprimo luogo è emerso che mai èstato trovata una persona scompar-sa in un campo rom. Si sono peròsvolti diversi processi per tentatorapimento che si sono risolti in unproscioglimento per non aver com-messo il fatto.La convinzione anche a livello isti-tuzionale che i rom sono inclini aquesta pratica costituiva senzaombra di dubbio la motivazione cheha giustificato l’iniziativa di pren-dere le impronte digitali anche deibambini durante i censimenti neicampi nomadi svolti sulla base delleordinanze citate [3].Un altro tenace pregiudizio che poicontribuisce ad alimentare l’ostilitàe la discriminazione nei confrontidei rom riguarda ilmanghel (elemo-sina). Come noto questa è una pra-tica largamente diffusa tra i rom chespesso impiegano i bambini. La rea-

zione dei gagè (non rom) è in gene-re di stigmatizzazione cui segue l’ac-cusa di parassitismo nonché quelladi costringere i bambini con la vio-lenza aunapratica che viceversa essinaturalmente rifiuterebbero. Chiprofesssa questo pregiudizio – esono molti – denuncia clamorosa-mente la sua totale ignoranza delmondo rom. L’elemosina è una pra-tica secolare chedipendedalla esclu-sione dei rom dal mercato del lavo-ro (chi assume un rom ?), dallo lorofunzione di capro espiatorio nellanostra società che ha trovato in que-sta operazione un sollievo alla pro-pria ansia di vivere. Una costrizio-ne quindi non una scelta vocazio-nale. L’integrazione lavorativa serealizzata farebbe precipitare il fe-nomeno fino all’inconsistenza. Ibambini praticano il manghel per-ché hanno più successo degli adul-ti tanto è vero che spesso quanto rac-colgono costituisce il maggiore icon-tributo monetario per il sostenta-mento della famiglia.Il diffuso atteggiamento di ostilitàche spesso si traduce in comporta-menti discriminatori trae alimentodalla convinzione che i rom prati-chino il furto come attività privile-giata di sostentamento. Tra quantiprofessano questa convinzione cisono quelli che attribuiscono la pra-tica del furto al DNAdei rom come silegge in non poche dichiarazioni ri-portate anche sui blog che si occu-pano del tema. Naturalmente si trat-ta di un’idiozia ma purtroppo la dif-fusa ignoranza alimenta anche que-sti spropositi. Un’altra corrente, percosì dire, attribuisce la pratica alla“cultura” dei rom come ebbe a di-chiarare in una trasmissione televi-

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di è stata varata negli anni ’80 quan-do diverse Regioni italiane vararononormative tese alla tutale della mi-noranza rom [4]. Così sono prolife-rati i campi autorizzati secondo lanormativa prevista. Nell’avviarequesta progettualità nessuno si è pe-ritato di consultare i diretti interes-sati. Se lo si fosse fatto si sarebbe ap-preso che i rom nella stragrandemaggioranza non sono più nomadida generazioni. Un dato di fatto in-confutabile: su 170.000 rom presen-ti in Italia sono 35.000 circa quelli chevivono nei campi.condizione che lacopertura mediatica fa apparirecome la realtà consueta di questami-noranza etnica. Invece dalle cifre di-sponibili appare evidente come solouna minoranza viva nei campi. Delresto anche i recenti immigrati daex- Jugoslavia e Romania vivevanoin case già nei loro paesi d’origine.Del resto la generale ignoranza deiproblemi attinenti questa minoran-za si rivela anche nella dizione di“nomadi” con cui li si nomina inve-ce del più derogatorio termine di“zingari”. Lo stesso Comune diRoma in collaborazione col prefettoha varato un “Piano Nomadi”. “Manomadi chi ?” – verrebbe da com-mentare dal momento che i cosid-detti nomadi sono stanziali da de-cenni. I campi, per la loro ubicazio-ne, per il modo di progettazione(con recinzioni metalliche, teleca-mere di controllo, polizia privata agliaccessi che seleziona chi può entra-re e chi no) si configurano come verie propri ghetti etnici se non comelager in cui confinare quella che siritiene essere spazzatura sociale oanche comunità asociali [5] da sot-toporre a controllo preventivo.

zione familiare o di vicinato. In que-sto contesto che poi è tipico di tuttoil sottoproletariato mondiale – com-preso quello italiano – il ricorso alfurto e in genere all’illegalità è fe-nomeno diffuso ma jn una certa mi-sura obbligato. Personalmente ri-tengo che una efficace lotta alla po-vertà estrema farebbe cadere a piccoquesta pratica. Invece di alimentarei pregiudizi sarebbe molto più effi-cace, in termini di percezione dellasicurezza, di risparmio di risorse im-piegate nella, peraltro giusta, re-pressione dell’illegalità, contrastarela povertà con strumenti appropria-ti finalizzati all’inserimento dei romnel mercato del lavoro.Ascoltando la viva voce dei romemerge un catalogo di discrimina-zione spicciola che va dal rifiuto diassunzione, al licenziamento quan-do il datore di lavoro apprende cheil lavoratore assunto vive in uncampo, fino a tutte le minute an-gherie e vessazioni che caratterizza-no i rapporti tra datori di lavoro elavoratori nell’economia sommersaper cui è successo più volte che alrom è stato negato il compenso pat-tuito. Si potrebbe fornire un lungoelenco di testimonianze di compor-tamenti discriminatori spiccioli chei rom subiscono in silenzio. Anchese sono consapevoli che sono stativiolati diritti fondamentali legal-mente protetti, non hanno la possi-bilità economicqa di farli valere percui l’atteggiamento consueto è quel-lo di subire e ricominciare.Ma ora intendo soffermarmi suquello che ritengo essere un atto divera e prpria discriminazione isti-tuzionale. E’ il tema dei “campi no-madi”. La pratica dei campi noma-

siva un politico poi assurto a unadelle più alte cariche istituzionalidella repubblica. Quella dichiarazio-ne sicuramente condivisa daun largopubblico, espressa per di più da unavoce così autorevole, con certezzaandòa consolidareunpregiudizio giàlargamente diffuso. Certo è che conquella dichiarazione quel politico di-mostrò due cose: primo la sua igno-ranza antropologia, perché la cultu-ra è un fatto storico e come tale è sog-getta a continue modificazioni: nonesiste una cultura immutabile. E se-condo che emerge chiaramente dallesue argomentazioni come non avevamai parlato con un rom. Questa si-tuazionedi individui, ai diversi livelli,che trinciano giudizi perentori e ca-tegorici anche se scevri di una cono-scenza dei fatti, non è purtroppo rarae costituisce un potente fattore di cri-stallizzazione dei pregiudizi.La questione dei furti e più in gene-rale dell’illegalità dei rom ovvia-mente è un problema che esiste enon può essere misconosciuto. Maquello che fonda il pregiudizio è lacompleta misinterpretazione di que-sta illegalità. Basterebbe una mini-ma frequentazione di quel mondoper rendersi conto che in gran partesi tratta di una questione di povertà.I rom che vivono nei campi (35.000su circa 170.000) appartengono so-cialmente al sottoproletariato o,come li classificherebbe la sociolo-gia americana, alla underclass chenon comprende i poveri ma quelliche patiscono condizioni di povertàestrema in quanto fuori dal mercatodel lavoro, privi di assistenza socia-le, immersi in un ambiente altret-tanto deprivato per cui impossibili-tati ad appoggiarsi a reti di prote-

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In questa sia pur succinta carrellatadi discriminazioni non può manca-re un riferimento alla legge n. 482del 1999 a tutela delleminoranze lin-guistiche risiedenti sul territorio ita-liano. Come conseguenza dellalegge, 12 sono le minoranze etnichetutelate. Da esse sono esclusi i romche pure numericamente sono tra leminoranze più consistenti. Si parla esi scrive di necessaria integrazionema se si esclude deliberatamenteuna intera comunità dal processo, diche integrazione si disquisisce ?Salvo poi ad addebitare alle vittimela colpa della loro discriminazionecome ben focalizzato da quella ca-tegoria dell’antropologia americanache appunto consiste nel “blamingthe victim”[6].Aconclusione di questa breve espo-sizione credo opportuno ed efficacecitare alcuni excerpta così come ap-paiono nei vari blog che si incontra-no navigando sulla rete.Sig. Nazzareno, perché gli zingarinon si lavano?

[postato il 17-02-2011 alle 15:00 dacamelot2009]Credo che ogni commento in que-sto caso sarebbe superfluo. Forse sa-rebbe appropriato un moto di pietàper la salutementale di camelot2009.Il seguente brano appare significa-tivo per un florilegio di pregiudiziconcentrati in un unico commento.Case??? Ma stiamo scherzando???Qui le persone normali che hannoaccettato di essere riconosciuti uffi-cialmente dallo stato attraversoun’identificativounivoco (Codice Fi-scale) lottano con le unghie e con identi per una casa! Voi nomani ri-fiutate il codice fiscale (sarebbe dura

far fronte alle procedure penali concui dovreste fare i conti durante levostre eccezionali attività crimina-li), rifiutate un qualunque tipo di cit-tadinanza, rifiutate di pagare letasse, e vi permettete di pretendereCase! Ho 28 anni, lavoro dalla mat-tina alla sera per campare la fami-glia di mio padre e pagare il mutuodi una casa chepeserà sullamia testaancora per 25 anni minimo, e anco-ra NON MI SPIEGO perché i mieisoldi (quelli che uso per pagare letasse) vengano spesi per VOI che virifiutate di collaborare con la socie-tà, di lavorare, ma bensì preferitedarvi a crimini di ogni tipo. Ringra-ziate Dio che i nostri poliziotti si ri-fiutano di farvi la guerra, e farvi pa-gare tutte le vostre malefatte. P.S.non sono un razzista, ma ho uncampo nomadi vicino casa... E an-cora ricordo quando con il poliziot-to davanti al vostro “campo” gli in-dicavo il mio motorino (da voi ru-bato) parcheggiato tranquillamentevicinouna roulotte (ovviamente nes-suno fece nulla per farmi riottenereil mio mezzo).

postato il 15-02-2011 alle 16:23 daEmanuele83È chiaro come l’autore del brano sisia fatto un’idea dei rom che non hariscontro con la realtà e appare piut-tosto la proiezione di sue persona-lissime pulsioni. Infatti in primoluogo chi conosce i rom sa quantoper essi sia importante il codice fi-scale e quanto rimangano delusi senon riescono a ottenerlo.Secondo: quali sarebbero le “ecce-zionali” attività criminali ? Attivitàillegali esistono ma in gran parte sitratta di microcriminalità. L’ingi-

gantimentodella cattiveria del caproespiatorio è una procedura norma-le, anzi necessaria per poter legitti-mare il proprio odio.Terzo: il tema della colpevolizzazio-ne dei rom perché rifiuterebbero dilavorare è un altro dei pregiudizi piùcorrenti e dimostra ancora una voltaquanta grossolana ignoranza cir-conda il loromondoperché chi li fre-quenta e li conosce può testimonia-re l’esatto contrario.L’espressione “non sono razzistama…” è tipica di chi invece nutreacrimonia se non odio nei confron-ti dell’altro. Poi perché il poliziotto difronte al motorino rubato non sia in-tervenuto sottraendosi così ai suoiobblighi, è un mistero. In genere ilcontrollo dei campi da parte delleforze dell’ordine è sistematico e inquesti controlli vengono verificatinon solo i documenti identificatividelle persone ma anche i titolo diproprietà dei veicoli parcheggiati.La successiva citazione non usa tonicarichi di astio e pur tuttavia rivelauna serie di pregiudizi. In primoluogo quali sarebbero “le loro regoleal di fuori della convivenza civile”?I rom sono dei nuovi barbari forse?Inoltre anche qui ritorna la convin-zione della “loro propensione alfurto e all’accattonaggio”. Dianzi siè tentato di dimostrare che furto eaccattonaggio sono in gran parte uneffetto della povertà estrema e nonuna “propensione” naturale. Il restodel commento riportato non puònon suscitare un sorriso. Perché dairom si pretendono le buone manieree dagli italiani no ? L’aspirazione aun alloggio dignitoso configura undiritto universale sancito anche dalladichiarazione universale dei diritti

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stata oggetto di condanna ad opera delParlamento dell’Unione Europea condelibera adottata io 10 luglio 2008.[4] Cfr. Regione Lazio: legge regiona-le (l.r.) n.82/1985, Regione Sardegna:l.r. n.9/1988, Regione Friuli VeneziaGiulia: l.r. n. 11/1988, Regione EmiliaRomagna: l.r. n. 47/1988, Regione Ve-neto: l.r. n. 54/1989, Regione Lombar-dia: l.r. n. 77/1989, Regione Umbria:l.r. n. 32/1990, Regione Liguria l.r. n.16/1992, Regione Piemonte l.r. n.26/93, Regione Marche l.r. n. 3/1994,Regione Toscana l.r. n. 2/2000.[5] Il termine di “asociali” riferito airom e sinti è già cominciato a trapela-re qui e là. Si rammenta come la per-secuzione e poi lo sterminio dei rom esinti in Germania prese le mosse pro-prio da questo stigma che venne loroapplicato.[6] Cfr. RyanW.[1976] Blaming the vic-tim,Vintage Books[7] Cfr. European Roma Rights Cen-ter,[2000] Il paese dei campi. La segrega-zione razziale dei Rom in Italia, Roma, ILibri di Carta.

Un popolo un po’troppo pittoresco

Mauro Raspanti*

A lato di quelle figure concrete, conle loro abitudini e i loro comporta-menti, con i loro pregi e i loro di-fetti, che oggi chiamiamo Rom eche almeno dal 1422 fanno parte atutti gli effetti della storia italiana,esiste invece un’altra figura che siaffianca e che spesso si sovrapponea quelle reali: l’immagine dello“zingaro”. Termine ancor oggi dal-

ma ai rom vengono assegnati allog-gi come a tutti coloro che non ce lafanno economicamente a soddisfareautonomamente questo bisogno pri-mario. Infatti una pubblicazione del2000 definiva l’Italia il Paese deiCampi [7], campi che sono una spe-cialità italiana.Quando sento blaterare di “diritto”alla casa per gli zingari, che non si sa(o si sa anche troppo bene) come siprocurino i soldi per vivere, mi assa-le una rabbia sorda che sbollisce solodopo parecchi minuti. L’ Italia eRoma in particolare è piena di zin-gari di nazionalità kosovara, serba,bosniaca, romena, ecc. che rimango-no qui perché sanno benissimo chealtrove in Europa starebbero peggio,altrimenti non si spiega la loro per-vicace volontà di rimanere nel nostroPaese. Zingari, siete o non siete no-madi ? E allora andate in Francia, inGermania, in Belgio, ecc.Andate lì adire “Voglio una casa “. Poi fatemisapere la risposta. Capricorn one.

BIBLIOGRAFIA

[1] In realtà questa dizione è impreci-sa. Quell’etnia cui per brevità o igno-ranza ci si riferisce con l’etnonimo dirom (o Rrom o Roma) o con l’eteroni-mo di zingari in realtà si presenta comeuna costellazione articolata che Leo-nardo Piasere ha definito “un mondodi mondi” e Santino Spinelli “i popo-li romanì” di cui fanno parte sinti, kalè,manouch, romanichels e rom. Cfr: Spi-nelli S., [2003] Barò romano drom. Lalunga strada di rom,sinti, kale, manouchese romanichals,Melteni, Roma.[2] Cfr. Tosi Cambini S. [2008], La zin-gara rapitrice. Racconti, denunce, senten-ze (1986-2007), Roma, CISU.[3] Si rammenta che quella pratica è

umani e non come una pretesa arro-gante.Gli zingari vogliono case e noncampi-ghetto. Questa loro pretesadovrà essere bilanciata dal totale ab-bandono delle loro regole di vita aldi fuori della convivenza civile. Do-vrannoprima imparare il rispetto perla proprietà altrui, dimenticando laloro propensione al furto e all’accat-tonaggio. Dovranno attivamente im-pegnarsi a guadagnarsi la vita, an-dando a lavorare con gran lena. Do-vranno pagare le tasse, come tutti glialtri contribuenti e mandare i lorofigli a scuola per imparare i nostri usie costumi e il rispetto delle nostreleggi. Dovranno abituarsi all’uso del-l’acqua edel sapone, per curare il lorocorpo ed indossare abiti decenti peressere presentabili in qualunqueposto decidano di recarsi. Dovrannoimparare ad esprimersi in perfettoitaliano, comportarsi con modi ri-spettosi, educati e civili. Dovrannoaspettare con pazienza che le casevengano assegnate prima a coloroche da tanto tempo le stanno aspet-tando avendone tutti i diritti. Ecco,solo dopo tutti questi giusti, neces-sari e doverosi passi potranno pre-tendere di avere una casa. Da tratta-re con cura, da persone civili, natu-ralmente.

postato il 15-02-2011 alle 20:22 da zioUmberto.Il commento successivo, di capricornone, ripropone i toni astiosi che fon-dano i comportamenti discriminato-ri ed è in tutta evidenza infarcito dialcuni dei più diffusi pregiudizi. In-fatti: primo, i rom non sono nomadi.Secondo negli altri paesi dell’Euro-pa occidentale non esistono “campi”

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* Presidente del “Centro Furio Jesi” Diret-tore della rivista “Razzismo & Modernità”.

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l’etimologia controversa, ma cheindubbiamente nel corso del tempoha condensato in sé una serie distereotipi, quasi sempre negativi,trasmessi e aggiornati di genera-zione in generazione, alcuni deiquali, adattati a contesti diversi, in-seriti in conflitti sociali mutati, sonoarrivati fino ad oggi.Questa figura dello “zingaro” èl’oggetto specifico di queste breviannotazioni, che tentano di rovi-stare nei materiali derivanti dagliarchivi delle discipline, dei saperi,dei discorsi, degli sguardi diversiche, dall’Ottocento a oggi, si sonosoffermati sul mondo “zingaro”:termine qui utilizzato consapevol-mente nella sua carica straripantedi pregiudizi, e che in questo con-testo riteniamo pienamente legitti-mo. Lungi dal definire un’essenzadella cultura Rom, esso rimandapiuttosto a un rapporto fra due enti-tà egualmente costruite1: il buon cit-tadino italiano da un lato e la suacontroparte negativa dall’altro, ilnomade zingaro senza patria. Inquesto complesso gioco relaziona-le, i rom diventano l’emblema ditutto quello che buon cittadino nondeve essere, assumendo spesso laveste inquietante dello straniero in-terno.Stendere un catalogo di alcuni diquesti persistenti stereotipi può es-sere utile, a patto naturalmente diessere consapevoli che il contestostorico-economico modifica larga-mente il significato di ognuno diessi.Nel fare ciò, un accorgimento datenere presente sarà quello di ten-tare di evitare di costruire un

nuovo stereotipo: quello della vit-tima destoricizzata, caratterizzatada una lunga e persistente soffe-renza. Come sottolinea Sarah Car-mona2,

la souffrance instaure des victimes etêtre victime s’établit facilement en uneposture morale réconfortante. Peu àpeu, le risque s’installe de créer uneidentité fondée sur la “victimité». Etc’est l’avènement du dolorisme. Lamémoire de la souffrance se tisse ets’impose à l’histoire. L’émotion primesur la compréhension. Les souffrancesdeviennes des liens, les ciments iden-titaires d’une nouvelle identité.

Rinchiudere i Rom all’interno diquesto sguardo esclusivamente vit-timario, elaborando una “storia la-crimale”, facendone degli archetipidella vittimizzazione diventaun’operazione vagamente mistifi-catoria. Se è vero che “l’identifica-zione con la vittima è diventato ilprincipale generatore di identitànella coscienza contemporanea”3,il farne l’unico criterio di intelligi-bilità della storia significa però en-trare in un terreno vischioso esdrucciolevole: “se solo la vittimaha valore, se solo la vittima è unvalore, allora quel valore non puòche diventare oggetto di rivalità”,fenomeno eclatante che emergespesso in tutta la sua tragicità nelcaso delle vittime genocidarie delnazismo4.Se nell’immediato, in vista di un ri-conoscimento e di un risarcimentodelle vittime, e nel contesto dellalotta contro un rinascente razzismoin cui gli “zingari” sono uno deisoggetti più a rischio5, il richiamo auna “persecuzione” (spesso al sin-

golare) decontestualizzata e co-stante nel tempo può rivelarsi frut-tuosa ed emotivamente appagan-te, da un punto di vista della com-prensione storica e concettuale oc-corre avere ben chiaro che “il fattoche gli imprenditori politici mobi-litino un repertorio di pregiudiziatavici nei confronti degli zingari,non implica che ci sia continuitànella persecuzione, significa sem-mai che c’è qualcosa che permanein latenza nelle culture nel lungoperiodo e può essere ri-attivato edusato in un determinato momento,e richiede di conseguenza dellespiegazioni precise e contestualidel perché un certo repertoriopossa essere mobilitato”6.Per quanto riguarda il contesto ita-liano, si è finalmente cominciato arileggere senza paraocchi i testi, levicende, le storie dell’Italia dellaseconda metà dell’Ottocento, neiquali i criteri di appartenenza allanazione, diversamente dalla visio-ne irenistica e legata alla libera scel-ta degli individui che ne facevanoparte, che per lungo tempo ha do-minato la ricostruzione storiogra-fica, si sono rivelati aggrovigliati apresupposti ascrittivi, legati alla na-scita, al territorio, ad un mito reli-gioso nazionale in cui il momentodella decisione, del patto si pensa-va piuttosto come una riscopertadi valori astorici, di rinnovamentodi un’essenza nazionale dimenti-cata e dispersa, esistente da secoli.La messa in luce di questi proces-si, in cui ideologicamente i criteridell’italianità venivano sottratti allastoria, cercati nella natura o nellametafisica religiosa, a partire dalperiodo risorgimentale, attraverso

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connotati dell’aspetto l’uno dall’altro”(p. 45).

La loro diversità, si intravede nellalingua che parlano, priva di pa-rentele con altre linguaggi e non cisono accenni invece alla possibileorigine indiana che stava diven-tando il paradigma linguistico do-minante nello studio della linguazingara:

il linguaggio lor proprio che parveminon aver relazione con verun altro co-nosciuto nei dizionarj (p. 45) li rin-chiude in una singolarità assoluta.

La mancanza di pudore delledonne zingare sorprese nell’atto diallattare i loro piccoli, sembra tra-sportarle in una dimensione di ani-malità e di mostruosità, un’im-pressione che persisterà nei suc-cessivi scritti sulla “questione zin-gara”, radicalizzandosi sempre piùfino agli scritti razzisti dei periodi-ci del razzismo fascista12:

Le femmine Zingare (...) allattando,fassi in esse una mostruosa esuberan-za del seno, da ubbriacarne anzicè no-drirne il bambino (p. 47).

La stessa animalesca sensualità sirivela nell’ambito artistico, nellamusica e nella danza, dove in ef-fetti dimostrano doti notevoli, in-quinate però da

“incompostezza de” salti, la violenzadelle contorsioni, l’inverecondia deigesti col di più dei motti fescenninifanno vedere in loro la furia delle bac-canti (p. 50).

La sfera religiosa zingara, a cui ilbarnabita è particolarmente atten-

terne, fino all’esclusione delle mi-noranze etniche o religiose, dei“meticci”, degli immigrati”, a cuipotremmo aggiungere degli zin-gari, il cui ruolo ci apprestiamo adanalizzare attraverso i diversisguardi che i saperi, le discipline, idiscorsi hanno attivato nei loroconfronti.

Uno sguardo “etnografico”

Uno dei primi resoconti “etnogra-fici” sugli zingari è dovuto al bar-nabita Felice Caronni, noto comenumismatico e erudito dell’anti-chità10.In un suo libro pubblicato nel 1812,che descrive il viaggio di studiocompiuto in Transilvania nel 1808al seguito dell’Arciduca Massimi-liano d’Asburgo, un capitolo è de-dicato agli Zingari11.Sin dall’apertura ci informa suquelli che sono i suoi pensieri suquesto popolo:

Benchè di questa odiosa genìa se ne in-contrino per la Transilvania più fami-glie forse che non altrove, il ributtan-te loro sistema pochissimo allettommia tenerle dietro, sicchè poco ne possodire (p. 44)

Come per tanti viaggiatori al primoimpatto con popolazioni diverse,si forma un’immagine collettivauniforme, incapace di distinguerele singole individualità, tutte pres-soché indistinguibili alla vista del-l’osservatore

eglino sono di statura anzichè no van-taggiosa, e non variano (secondo al-meno la foggia nostra di veder) nei

la definizione dell’italianità e dellacostruzione del buon cittadino ita-liano, con la tragica radicalizzazio-ne conosciuta nel periodo fascista,in cui il fattore “razza” definivameglio di ogni altro il diritto di de-finirsi a tutti gli effetti italiano, sonoun’acquisizione della più agguer-rita storiografia italiana degli ulti-mi anni7.In questa costruzione identitariadel “vero italiano”, in queste mo-dalità di autorappresentazione, unruolo determinante lo hanno svol-to gli zingari, indipendentementedalla loro consistenza numerica, dicui mancano dati significativi. D’al-tra parte, come sottolinea Piasere,“fornire dei numeri sugli “zingari”non è un’operazione neutra, en-trando essa direttamente nei cuoredei rapporti conflittuali tra rom enon rom”8. Non strettamente lega-ta alla loro consistenza numerica,la capacità dello stereotipo dellozingaro di impregnare l’immagi-nario collettivo ha forse avuto unruolo non ancora ben messo afuoco all’interno di quel processodi fabbricazione dell’identità na-zionale in cui le figure dell’alteritàhanno giocato un ruolo determi-nante9.I confini dell’italianità, con le rela-tive clausole di inclusione e diesclusione, risultano più evidentinei confronti dell’alterità esterna,gli stranieri facilmente convertibi-li in nemici. Meno evidente, manon meno significativa, la stigma-tizzazione di alterità interne, “op-poste alla “vera nazione, attraver-so le diverse sfumature della nonpiena appartenenza alla con-na-zionalità di donne e classi subal-

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to, viene ridotta a simulazione eimpostura, adattando le credenzee le professioni di fede ai luoghi eai popoli incontrati nelle loro pere-grinazioni

In materia di Religione, simulatori qualsono i Zingari fingono di aver in contoquella delle popolazioni, fra le qualiconvivono (...) è da temersi che in so-stanza non ne professin veruna (p. 47).

Portando all’estremo il suo ragio-namento, si sente di ipotizzare cheal fondo non credano in nulla:

la Divinità consiste in tutto quello chegiova e piace (...) Non si farebbe, diròpiuttosto, un falso giudizio a riguar-darli come atei completi” (p. 47).

Di fronte alla constatazione che inaggiunta ai difetti descritti,

il vizio dominante nei più, si è quellodi voler vivere, se il possono, a ufa sul-l’unico capitale di lor impostura o le-stezza di mano (p. 49).

si domanda come possa proporsiuna convivenza tra “questa razzadi vagabondi impostori”e i popolicivili:

La società, la quale soffre molto piùdalle furberie e rapine dei Zingari, chenon si giovi dell’industria loro, ve-dendoli refrattari alla coscrizioneegualmente che all’agricoltura, cometollera mai questa razza di vagabondiimpostori, e dai quali anche colti sulfatto, non si può neppure coi tormen-ti strappare una nozione che dia contodi loro? (p. 52).

La persistenza di caratteri negati-vi immodificabili ne pregiudica lapossibilità di progresso e di mi-glioramento

da per tutto si rimasero Zingari in tuttal’estensione del termine, cioè rapacisempre vagabondi, impenetrabili,oziosi (pp. 52-53).

spinge l’autore a ricercare la spie-gazione della loro miserevole con-dizione di vita nel fatto che sianodiscendenti di Cham13 figlio diNoè, sui quali pende una maledi-zione che ne fa i reietti della terra:

li direi provenuti dal cadetto di Noèda quel Cham, sulla cui famiglia vennescagliato il fulmine della paterna ma-ledizione (53).

Il fantasma delle origini diventatentativo di spiegazione sufficien-te a spiegare la loro diversità e laloro triste esistenza, sanzionata dapresupposti che sfuggono alla vo-lontà umana.

Letteratura

In una composizione poetica14 diUmberto Protti, poeta e comme-diografo dialettale e collaboratoredi periodici bolognesi, troviamoconcentrati in maniera esemplare(forse senza eguali nella letteratu-ra italiana) gran parte di quelle im-magini stereotipate che di solitosono associate alla figura della Zin-gara. Alla protagonista, di nomeZorca, vengono attribuite una sfre-nata sensualità, l’amoralità, la pre-disposizione al crimine, non di-sgiunte però da un senso di un in-tenso legame con la natura, com-pletamente al di fuori delle leggi edei costumi della società.La repulsione e la riprovazione perla zingara sono prevalenti, ma non

manca un certo fascino ambiguo perchi sfida le convenzioni sociali.La sua stessa nascita si pone sottoil segno della trasgressione ince-stuosa:

Nacquidaunbaciomaledetto, e sonoIl cupo fior del lezzo e del bordello;figlia d’ignobil donna che a un fratellosi dette amata qual regina in trono:Zorca mi chiamo, ed ho nel san-gue anch’iotutta la febbre orribile e l’ardoredel losco padre mio.

L’orgoglioso refrain “Zingara sono!”accompagna il dispiegarsi delle vi-cende di Zorca, in cui un eros sca-tenato e selvaggio, che la accomu-na a Carmen e alle tante donne fa-tali e alle dark ladies che popolanol’immaginario tra Ottocento e No-vecento15, in cui stereotipi sessisti erazzisti si sommano nel delineareuna immagine femminile che at-tenta alla virilità dell’uomo e ne di-strugge la mascolinità, fa da sotto-fondo alle diverse immagini pro-poste (dal vampiro alla mantide,dalla femme fatale alla sfinge):

Sovrana dell’amor che alla mia frescabocca vermiglia spreme la più vileamara voluttà, velen sottileche attossica ogni vena e l’uomo adescae lo fa pazzo del mio ardore e dellemie carni brune, allora che mi prendenuda sotto le stelle.

La sua carica sessuale primitiva edistruttiva si manifesta nell’ artedella danza, in cui trova lo stru-mento per ammaliare e distrugge-re le virtù a fondamento dell’eticaborghese:

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Letteratura per ragazzi

Nella letteratura rivolta ai ragazzi,l’elemento che emerge con più fre-quenza è il tema della forzata con-vivenza di comunità zingare ebambini, sottratti alle famiglie diappartenenza o rapiti, e la condi-visione delle loro vite all’internodelle carovane. Il loro inserimentonella vita delle comunità nomadi,sentito sempre come imperfetto eprovvisorio, troverà quasi sempreuno scioglimento finale il cui il pic-colo non zingaro recupera la suavera identità, che non era possibi-le dissimulare nel corso vita pas-sata insieme al gruppo di zingari.Non mancano segnali di umanitàanche nei confronti degli zingari,ma l’irriducibile diversità di “san-gue” che condiziona i diversi modidi sentire e i comportamenti, con-traddistingue due tipi di umanitànon assimilabili e due mondi il cuiconfine non è vantaggioso oltre-passare in maniera definitiva.In un romanzo di Lina Galli19, chesi apre con la più convenzionaledelle situazioni, in una “notte buiae tempestosa” (sic!), un misteriosouomo mascherato privo di un ditodella mano, consegna a una fami-glia zingara un piccolo bambino,destinato a crescere sul carrozzoneviaggiante, a cui verrà dato il nomedi Fanfan.Alcuni anni dopo, il giovane orfa-no Pieretto, capitato per caso tra glizingari, si aggrega per un breve pe-riodo alla carovana, ma scopertoche il piccolo Fanfan non è un verozingaro, si propone di riportarloalla sua vera famiglia. Fuggito in-sieme a Fanfan, riesce a scoprire la

pericoli. Alla vista di Sindel conDala, “una cristiana e non una zin-gara”, si accende di gelosia.Intanto, la morte del padre fa diVielka la regina degli zingari e du-rante la festa del suo insediamento,dopo aver litigato con Sindel, isti-ga inconsapevolmente l’antico spa-simante a uccidere Sindel, cheviene però soltanto ferito. La rive-lazione che la presunta rivale inamore non è altro che la sorella del-l’amato, conduce al lieto fine conl’unione dei due protagonisti.Concepito come un dramma pas-sionale, in un’atmosfera in cui tuttoè eros, istinto, violenza, vieneespresso il facile esotismo di unaavventurosa “razza vagabonda”che si può trovare a portata dimano, senza bisogno di andarla acercare in paesi lontani: il diversorisiede tra noi, affascinante e in-quietante.Tutto la vicenda si snoda sotto ilsegno dell’esotismo,un esotismo,apparentemente innocuo, che na-sconde trappole cognitive menoevidenti, ma non meno pericolose“La conoscenza è incompatibilecon l’esotismo, ma l’ignoranza, asua volta, è inconciliabile con l’elo-gio degli altri; ebbene questo è pre-cisamente ciò che l’esotismo vor-rebbe essere, un elogio dell’igno-ranza. Questo è il suo paradossocostitutivo”18.Almirante delinea figure che agi-scono in base alle loro pittoreschecaratteristiche etno-culturali, fa-cendo emergere delle diversità ir-riducibili con le forme della vita ci-vile dll’Europa moderna, forse re-liquie di un passato definitiva-mente tramontato.

Danzo la danza che calpesta tutto,che tutto ammorba; la virtù, l’onore,e sparge sangue e lutto!

Zorca la zingara, a fianco di altresue inquietanti consorelle, si rivelacosì innanzitutto come “l’arma se-greta della natura contro i valoro-si sforzi degli uomini per trionfaresulla moralità”16.La stessa visione, in cui la prota-gonista è ancora una zingara, maquesta volta inserita nel suo conte-sto tribale, compare nel film, usci-to nel 1920, da cui poi venne trattoun racconto che uscì nel 1921, cheverrà qui preso in esame17.Il regista del film, poi autore dellibro, era Mario Almirante, padredel politico fascista Giorgio Almi-rante, proveniente da una famiglidi gente di spettacolo.Sin dalla nota editoriale premessaal testo si vuole suggerire la chiavedi lettura del libro:

È un romanzo di zingari, questo, unastoria di nomadi, con il suo intrecciar-si di passioni strane e violente. L’ele-mento essenziale del racconto è il pit-toresco.

Iammandar, in cui “tutto l’orgogliodella razza vagante è negli occhi fermie penetranti”, capo di una tribù dizingari, ha una figlia, Vielka,”la piùbella fra tutte le zingare”, la quale siaccende di passione per l’affasci-nante Sindel , appartenete a una di-versa tribù, ma Iammandar lavuole far sposare a Gudlo, perso-naggio torbido e violento. Di fron-te al suo rifiuto, viene mandata inesilio dal suo gruppo, e Vielka ini-zia un periodo di solitudine e di

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vera madre del piccolo, una du-chessa alla quale il figlio era statosottratto per questioni di eredità.Nel finale, dopo la morte del rapi-tore e la condanna a trent’anni dicarcere del complice zingaro, Pie-retto si unisce alla famiglia ricom-posta, abbandonando le insidiedella strada per gli agi della villadella duchessa.Ennesima variazione sul tema deibambini rapiti con la sottolineatura,in questo caso, della complicità perdenaro degli zingari al misfatto.In un romanzo di Lucilla Antonel-li20, che si svolge all’epoca della ri-voluzione russa, Sascia Petrovich,un piccolo aristocratico, viene affi-dato dalla nutrice ad una vecchiazingara e al suo gruppo, a causadei bolscevichi che minacciano disterminare tutta la famiglia fedeleallo zar. Con il nuovo nome diPucci, viene allevato dalla famigliazingara, ma la sua origine, la di-versità, “razziale”, l’impossibilitàmorale di compiere furti e violen-ze come un vero zingaro lo carat-terizzano come un elemento estra-neo al mondo dei nomadi.Il tempo trascorre tra viaggi e spet-tacoli sulle piazze, ma dopo essergiunti in Italia e aver origliato percaso il racconto delle proprie ori-gini, il ragazzo decide di lasciare lacarovana, rivolgendosi alla poliziaper cercare di rintracciare i paren-ti sopravvissuti. Buona parte delracconto è inframezzata da massi-me che il capo zingaro impartisce algiovane per istruirlo sull’essenzadell’essere zingaro:gli zingari rifiutano il lavoro e lafatica: (“uno zingaro che lavori trop-po disonora la sua razza”), evitano di

lavarsi (“il vero zingaro non si develavare mai”), non conoscono divi-nità o religione, conducono unavita errabonda senza “un esatto echiaro concetto della proprietà, erubano dove e a chi possono senzaalcun rimorso”.L’elemento centrale sembra esserela sottolineatura di un contrasto didue diversi tipi antropologici chesi differenziano per i tratti somati-ci (lo “zingaro bianco” tra i veri zin-gari neri) e per i sentimenti moraliche differenziano l’estraneo Puccial compagno di giochi zingaro ori-ginario: “il privilegio di origini, dirazza, di sensibilità esisteva, e intaluni momenti divideva i duebambini”.Ruggero Dombre21 è lo pseudoni-mo di Marie Victorine MarguètiteLigérot (1857-1926?), feconda au-trice di romanzi per l’infanziaaventi spesso per protagonista unanimale.Ne L’eredita dello zingaro, il pasto-rello Andrea assiste agli ultimiistanti di vita di un vecchio zinga-ro che, prima di morire, gli lasciain eredità Pepè, l’orso con cui si esi-biva in spettacoli nelle piazze deipaesi nella Francia meridionale. Loinveste inoltre della missione diconsegnare un anello simbolo delpotere ad una tribù zingara chevive nella Spagna del sud.L’esperienza del nomadismo, vis-suta assieme all’orso, l’incontro congitani, ora amichevoli ora violenti epericolosi, costituiscono le tappe delromanzo di formazione del giova-ne, ritornato al paese irrobustito nelfisico e nel carattere, ricco di espe-rienze e di progetti per il futuro.Gli zingari, pur connotati utiliz-

zando un lessico razziale per allu-dere a una razza diversa da quel-la del protagonista (“quelli dellavostra razza”, e “gente della miarazza”), condividono solo alcunitratti comuni tipici (il nomadismo,ad esempio), mentre sorprenden-temente viene invitato il lettore anon generalizzare i tratti negativi:

In tutte le tribù zingaresche, insiemecon gente onesta che vive del frutto delproprio lavoro, si trovano dei ladri checampano solo col ricavato delle rapineche commettono: cose che, purtroppo,non succedono solo fra gli zingari.

Costruiti sul modello dei romanzidi formazione, questo tipo di operesono centrati sull’esperienza tem-poranea di un giovane non zinga-ro a contatto con coloro che si ri-veleranno, anche se non tutti ne-gativi, portatori però di una alteri-tà assoluta, con modi di vita noncompatibili con la vita associatadelle nazioni civili. Il ritorno alla“vita normale” dei propri conna-zionali, o dei propri consanguinei,è l’esito obbligato per i protagoni-sti di queste avventure.

Conclusione

Nella breve rassegna che precede,abbiamo volutamente escluso dallanostra attenzione quei documentiche esplicitamente rivendicavanoun approccio razzista22 o comun-que vincolato a uno sguardo in cuiconsapevolmente i presunti fatto-ri razziali erano ritenuti svolgereun ruolo importante nell’analisidegli zingari, soffermandoci inve-ce su materiali in cui i pregiudizi

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sorgimento, Torino, Einaudi, 2000: Id.,L’onore della nazione, Torino, Einaudi,2005; Id., Sublime madre nostra. La na-zione italiana dal Risorgimento al fasci-smo, Roma-Bari, Laterza, 2011.8 Leonardo Piasere, Storia dei rappor-ti…, cit., p. 13.9 Michele Nani,Ai confini della nazione,Roma, Carocci, 2006.10 Felice Caronni, 1747-1815. Nato aMonza, ordinato sacerdote, si caratte-rizzò per le sue prese di posizione for-temente ostili alla Rivoluzione france-se e vicino alla politica papalina e del-l’Austria. Noto come predicatore e in-stancabile viaggiatore, fu fatto prigio-niero da corsari africani e condotto aTunisi. Di questa esperienza ha lascia-to testimonianza nel suo scritto Rag-guaglio del viaggio compendioso di un di-lettante antiquario sorpreso da’ corsari econdotto in Barberia e felicemente ripatria-to, Milano, 1805, la cui prima parte èstata ristampata a cura di SalvatoreBono dalle Edizioni S. Paolo nel 1993.Per ulteriori notizie biografiche su Ca-ronni, cfr. N. Parise, Dizionario Biogra-fico degli Italiani, vol. 20, s. v. Caronni,Felice, pp. 542-545. Un breve accenno aCaronni è contenuto in una delle primerassegne degli studi zingarologici ita-liani: A. Colocci, Sullo studio delle tsiga-nologia in Italia, Perugina, Unione Tipo-grafica Cooperativa, 1912, p. 311 Caronni in Dacia. Mie osservazioni lo-cali, nazionali, antiquarie sui Valacchi spe-cialmente e Zingari transilvani, Milano,Pirotta, 1812.12 Vincenzo De Agazio, Gli ultimi no-madi, “La difesa della razza”, II, 16, 20giugno 1939, pp. 35-36, corredata dauna £madre gitana2 che allatta il suobambino.13 Sulle teorie che per tutto l’ancien ré-gime fanno degli zingari i discendentidi Caino o di Cham cfr. Leonardo Pia-sere, I rom d’Europa, Roma-Bari, Later-za, 2004, p. 57. Per un’analisi del mitodei discendenti di Cham all’internodelle teorie razziali, cfr. Werner Sol-lors, La maledizione di Cam: ovvero dallagenerazione alla razza, in Girolamo Im-

“Devono ritornare alla loro anticapatria o lasciarsi snazionalizzare eincivilire”25.Non sarebbero pochi ancor ogginella società politica e civile italia-na a sottoscrivere questo aut-aut ea tentare di farlo applicare con tuttii metodi identificativi e coercitividi cui lo stato dispone. La figuradello zingaro continua a esercitareun’ombra inquietante sulle rassi-curanti narrazioni della cittadi-nanza basate su insostenibili co-struzioni etno-culturali dell’italia-nità26, di cui si tenta di rintracciarefantomatiche radici, la cui man-canza viene invece attribuita allozingaro che, come ben si sa, avreb-be inscritto nei suoi tratti un pe-renne nomadismo.

NOTE

1 Leonardo Piasere, Storia dei rapportitra rom e gagé in Europa, in A. Simoni,Stato di diritto e identità rom, Torino,L’Harmattan Italia, 2005, p. 23.2 Sarah Carmona, Rromophobie, stéréo-type et déni d’identité dans les milieux aca-démiques, 14 février 2011, in http://contrelaxénophobie.wordpress.com.3 Daniele Giglioli, Una identità a misu-ra di vittima, “il Manifesto”, 14 aprile2007.4 Jean-Michel Chaumont, La concur-rence des victimes. Génocide, identité, ré-connaissance, Paris, La Découverte,2002.5 Per un’analisi aggiornata del razzi-smo contemporaneo, cfr: Alberto Bur-gio, Nonostante Auschwitz. Il “ritorno”del razzismo in Europa. Roma, eriveAp-prodi , 2010.6 Tommaso Vitale, Da sempre persegui-tati? Effetti di irreversibilità della credenzanella continuità storica dell’antiziganismo,“Zapruder”, n. 19, 2009, pp. 46-61.7 Alberto M. Banti, La nazione del Ri-

si sono condensati in modo menoconsapevole e violento.Nella costruzione dello stato-na-zione italiano, la complessità del-l’inclusione degli zingari all’inter-no delle nuove realtà politiche haportato alla marginalizzazione so-ciale e alla stigmatizzazione sulpiano del diritto, condiviso dallecontemporanee esperienze che av-venivano in tutto il continente eu-ropeo. Questo processo storico èstato interpretato come l’espres-sione di una “nazionalizzazioneimpossibile” degli zingari in Euro-pa fra il XIX e il XX secolo23.Delimitare confini, costruire iden-tità fittizie, inventare un passatogeneratore di coesione sociale èstato un processo condiviso dal-l’intera vicenda politica europea24,in cui clausole di inclusione e con-trollo permanente della mobilità edella libera circolazione si sonoesercitate in maniera particolare sugruppi di individui che mal si adat-tavano alle nuove cartografie del-l’Europa, e la cui identità politicaspesso veniva ricalcata sulle figuredense di stereotipi alimentate daidiscorsi storici e letterari.Un geografo dell’era liberale scris-se un’opera che voleva essere altempo stesso una descrizione delpresente del “mondo civile” (o eu-ropeo-americano) e una propostadi riordinamento del futuro asset-to politico di questo mondo su basietno-nazionali.La costituzione fisica, base dell’Et-nicarchia, ovvero l’istituzione deglistati-nazione, non contemplava lapresenza delle “nazioni sporadi”,senza territorio nazionale. Per cui,per quanto riguardava gli zingari,

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bruglia (a cura di), Il razzismo e le suestorie, Napoli, Edizioni Scientifiche Ita-liane, 1992, pp. 183-205.14 Umberto Protti, La Zingara, “Stren-nissima”, Bologna, 1913, p. 56. Rin-grazio Vincenza Perilli per avermi se-gnalato questo documento.15 Sulle immagini di questa femmini-lità inquietante, e le sue relazioni conle pulsioni misogine e razziste nellacultura del Novecento, cfr. Bram Dijk-stra, Perfide sorelle, Milano, Garzanti,1997.16 Bram Dijkstra, Perfide sorelle, cit., p. 8.17 MarioAlmirante,Zingari, Roma, Edi-zione della Nuova Libreria Naziona-le, 1921.18 Tzvetan Todorov,Noi e gli altri. La ri-flessione francese sulla diversità umana,Torino, Einaudi, 1991, p. 312.19 Lina Galli, Fanfan piccolo zingaro,Roma, Edizioni Paoline, 194?20 Lucilla Antonelli, Zingaro bianco, Mi-lano, Corbaccio, 1941.21 Ruggero Dombre, L’eredità dello zin-garo, Firenze, Casa editriceAdriano Sa-lani, 1941-XX.22 Per un primo resoconto sulle tratta-zioni italiane sugli zingari in chiave di-chiaratamente razziste, cfr. Mauro Ra-spanti, L’estraneo tra noi, Bologna, 2008,pp. 31-41.23 Cfr. Ilsen About, De la libre circula-tion au control permanent, “Cultures &Conflits”, n. 76, 2009, n. 4, p. 16 ; Hen-riette Asséo, L’invention des «nomades»en Europe au XXe siècle et la nationalisa-tion impossibles des Tsiganes, in GérardNoiriel (a cura di), L’identification despersonnes. Genèse d’un travail d’État,Paris, Belin 2007, pp. 161-180.23 Cfr. Anne-Marie Thiesse, La creazio-ne delle identità nazionali in Europa, Bo-logna, il Mulino, 2001; Régis Meyran,Le mythe de l’identité nationale, Paris,Berg, 2009.24 Giuseppe Tomè,Geografia del presen-te e dell’avvenire, Torino e Roma, Er-manno Loescher, 1880, p. 56.25 Cfr. Silvana Patriarca, Italianità: la co-struzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010.

Popolazione rumeni:ignorare per produrreignoranza

Nazzareno Guarnieri*

Spietata è crescita della discrimina-zione verso la popolazione romanì?Perchè tanto odio verso la questapopolazione? un popolo non/vio-lento, un popolo di pace. Non è piùsufficiente “la denuncia” per la cre-scente discriminazione, l’odio, i ten-tativi di divisione della popolazioneromanì; non è più accettabile assiste-re passivamente al tentativo di nonriconoscimento dei leaders rom esinti con credibilità e professionalitàdocumentata; non è più tollerabiletutta questa falsità e disonestà da chisi maschera da amico della popola-zione romanì. Non è più accettabilecontinuare ad “ignorare” il fallimen-to del passato per continuare a pro-durre “ignoranza”.È necessario “indagare” fino infondo le motivazioni che hanno pro-dotto il disastro nelle comunità rome sinte ed adottare le soluzioni piùappropriate per uscire dal tunnel.Devono indagare le organizzazionidella società civile che si sono occu-pate della popolazione romanì; de-vono indagare le associazionirom/sinte, le professionalità rom/sinte, le comunità rom e sinte; deveindagare la politica per dialogare di-rettamente con le organizzazioni ele professionalità romanì.Si considera i quattro punti indica-ti dal Dr DimitrisArgiropoulos del-l’Università di Bologna e attivista

della Federazione e ne assumiamopienamente l’impostazione. Si trat-ta di meccanismi di discriminazio-ne certi e con forti riscontri nellaquotidianità politica per dichiaria-mo che non è più accettabile che:– la visibilità della popolazione ro-

manì sia condizionata dallaquantità di repressione ricevuta;

– i pregiudizi e gli stereotipi versola popolazione romanì siano lar-gamente usate e diffuse dal-l’azione istituzionale;

– la politica, con la collaborazionedella società civile, riproponganoancora politiche differenziate edassistenzialismo culturale per lapopolazione romanì;

– la popolazione romanì sia unpopolo invisibile e senza voce.

La popolazione romanì RIVENDI-CA il diritto che la politica e la so-cietà civile dialoghi direttamente conle professionalità rom/sinte per de-finire insieme soluzioni adeguate almiglioramento delle condizioni divita delle comunità rom e sinte.La popolazione romanì rivendicail diritto alla normalità ed all’auto-nomia.Attraverso una superficiale anali-si si può facilmente constatare chenegli ultimi decenni la condizionegenerale della popolazione roma-nì in Italia è peggiorata e le politi-che attivate non hanno prodotto ibenefici sperati.

Responsabilità di un malintesodella cultura romanì? Si, ma anchetanto altro

Il metodo della “interpretazione”della cultura romanì per proporre

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* Presidente Federazione romanì.

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altri cittadini anche i cittadinirom/sinti presenti in Italia sono la-voratori dipendenti, autonomi e di-soccupati. Come in tutte le altre po-polazioni anche nella popolazioneromanì ci sono cittadini onesti e cit-tadini disonesti.Mancano dati certi ufficiali sullapresenza della popolazione roma-nì in Italia, ma è bene fare chiarez-za su alcune certezze:2. la maggioranza della popola-

zione romanì presente in Italiasono cittadini italiani;

3. la maggioranza della popola-zione romani presente in Italiavive in normali abitazioni in af-fitto o di proprietà;

4. una minoranza della popola-zione romani presente in Italiavive in condizioni abitative pre-carie, in particolare nei campinomadi autorizzati, tollerati edabusivi dove non esiste una si-curezza abitativa.

La minoranza della popolazione ro-manì che vive nei campi nomadi èstereotipamente e pregiudizialmen-te ben comunicata all’opinione pub-blica dai media, dalla politica e dallasocietà civile, mentre la “normalità”,la “positività”, “l’autonomia”, la cul-tura e la professionalità di una partemaggioritaria della popolazione ro-manì è ignorata ed invisibile.

È scomodo per molti rendere vi-sibile la normalità della popola-zione romanì

Responsabilità dei media?In parte si, perchè si limitano a rac-contare all’opinione pubblica unaparte interpretativa stereotipata e

trovo ad assistere ad iniziativepubbliche che si potrebbero de-finire “le buone pratiche del falli-mento”.

– Solo politiche sociali e di emer-genza per la popolazione roma-nì. È stata totalmente ignoratauna politica per la cultura ro-manì.

Le motivazioni sopra riportate, chehanno portato ad un peggiora-mento delle condizioni di vita dellapopolazione romanì, hanno con-dotto una estremizzazione/margina-lizzazione della cultura romanì chesi è tradotta in visibilità oltre mi-sura della negatività, delegittima-zione dei diritti, costruzione di falsecategorizzazioni della popolazio-ne romani.Le categorizzazioni sono il punto dipartenza per arrivare alla discrimi-nazione passando per lo stereotipoed il pregiudizio.È fin troppo evidente che occorre unradicale cambiamento di metodo.Uncambiamento determinato per ripristi-nare la verità e partecipazione attiva edabbattere la politica della paura e lepolitiche fallimentari del passato.Chi non conosce il mondo rom inItalia prende per buono tutto ciò chei media, la politica e la società civilepresentano di questa popolazione:campi nomadi, illegalità, irregolari-tà, assistenzialismo, ecc.Una rappresentazione mediatica epolitica che porta l’opinione pubbli-ca a percepire il popolo rom comeunpopolo incapace di integrasi nellasocietà multiculturale italiana.La popolazione romanì in Italia ècomposta da Rom/Sinti cittadiniItaliani, rom cittadini Europei, romcittadini immigrati. Come tutti gli

ed attivare le politiche differenzia-te del passato, è stato un docu-mentato fallimento che continua adessere ignorato dalla politica e dallasocietà civile. Hanno detto che “ilcampo nomadi era la soluzione abitati-va ai bisogni culturali di rom e sinti”.Una grande falsità ed il dramma èoggi sotto i nostri occhi, una falsitàutilizzata strumentalmente per fi-nalità diverse ed estranee al miglio-ramento della condizione di vitadella popolazione romanì e ad unaevoluzione della cultura romanì.– È stato ignorato dalla politica e

dalla società civile la presenzaattiva e la collaborazione con leorganizzazioni e professionali-tà rom e sinte, credibili e pro-fessionali. Rom e Sinti sono statiutilizzati strumentalmente“come un vetrina” per finalità di-verse ed estranee al migliora-mento della condizione di vitadella popolazione romanì e aduna evoluzione della cultura ro-manì. Ogni organizzazione hautilizzato il proprio rom/sinto,più facile da gestire e possibil-mente ricattabile, da esibirenelle occasioni pubbliche ed isti-tuzioni. Tutte le organizzazioniche si s0ono occupate delle co-munità rom e sinti hanno sem-pre evitato e spesso impeditouna collaborazione qualificata equalificante con le professiona-lità rom e sinte.

– Spesso sono state “vendute”come “buone prassi” iniziativeprogettuali inconsistenti, anchese ben finanziati e ben comuni-cati, perseguendo il solito obiet-tivo del becero assistenzialismo.Accade ancora oggi e spesso mi

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pregiudiziale del mondo rom, conun interesse quasi a zero o pura-mente folcloristico a dare voce aidiretti interessati, alle professiona-lità romanì. Accade sempre che te-levisioni e giornali quando si trat-ta della popolazione romanì inter-vistano presunti esperti esterni almondo rom oppure qualche sprov-veduto rom facile da folclorizzare,invece di dare spazio e voce a do-cumentate professionalità rom esinte.

Responsabilità della società civile?1. Da una parte si è limitata ad una

“interpretazione” della culturaromanì, della realtà e dei biso-gni della popolazione romanì;dall’altra si è arrogata il dirittodi sostituirsi alla popolazioneromanì e formulare propostepolitiche per le famiglie rom,spesso drammatiche, e collabo-rare per la loro realizzazione.Difatti tra le tante iniziative as-surde degli ultimi 40 anni la piùdrammatica è stata la propostae la collaborazione alla realiz-zazione della disastrosa politi-ca dei campi nomadi afferman-do che “il campo nomadi è la ri-sposta abitativa ai bisogni cultura-li della popolazione romani”.Mal-grado i disastri della politica delcampo nomadi siano oggi tuttivisibili, continuano nella disu-mana gestione e ancora peggionel riproporla con altri nomi,senza alcuna volontà di andareoltre, di andare verso quella nor-malità anche per la popolazioneromanì.

2. Fra tanto altro un fattore deter-minante che rende responsabi-

le la società civile Italiana è statoed è ancora oggi il soffiare sulvento della divisione (dividi etimpera) contrastando in modosubdolo la partecipazione atti-va delle professionalità rom edelle organizzazioni rom quali-ficate e credibili.

Responsabilità della politica?SI, tanta la responsabilità della po-litica che “gioca sporco” quasi sem-pre con i bisogni e la realtà romanì.

Responsabilità delle organizza-zioni rom/sinte?Si, responsabilità di troppe orga-nizzazioni rom e sinte, perchè im-pegnate solo a copiare il metodo(“imprenditoriale”) fallimentaredel passato e professionalmente in-capaci di costruire un cambiamen-to. Organizzazioni rom e sinte chesi sono “montate la testa” per leesperienze maturate nel passatocome portatori di acqua, e senzaconsapevolezza che l’esperienzanon è sufficiente per essere dei pro-fessionisti.In questo contesto è presente la Fe-derazione romanì. Il progetto fe-derazione è stato avviato nel 2003e si è sviluppato piano piano finoall’anno 2009, dopo il 1° congressoItaliano delle comunità rom e sinte,quando ha definito un programmapolitico ed una strategia per rea-lizzarlo che è stato condiviso damolte associazioni e diverse singo-le professionalità.Sul web http://federazionero-mani.wordpress.com è possibileavere tutte le informazioni di que-sta organizzazione che oggi, senzapresunzione, è in Italia una vera

rappresentatività della popolazio-ne romanì con un chiaro progettopolitico basato sulla partecipazioneattiva qualificata di rom e sinti.

DOSSIER LA REALTÀ DEI ROM