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EBREI A VERONA ISTITUTO VERONESE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA mostra storico-documentaria

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EBREI A VERONA

ISTITUTO VERONESE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA

mostra storico-documentaria

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UN PERCORSO CHE SI RINNOVA

La mostra «EbrEi a VErona. PrEsEnza Ed EscLusionE», inaugurata nel marzo del 1992 nelle sale della Società Letteraria di Verona, fu il primo importante risultato dell’at-tività di ricerca condotta dall’Istituto veronese per la storia della Resistenza, con l’aiuto e la collaborazione della Comunità Ebraica di Verona, su un tema centrale per la storia del Novecento su cui mancavano, a livello locale, studi e indagini che permettessero un’ade-guata ricostruzione. Lavorarono allora alla realizzazione della mostra Antonia Dusi, Anna-pia Lobbia, Agata La Terza, Gianluca Meneghini, Ivano Palmieri, Lina Pellegatta, Manuela Tommasi, Gianmaria Varanini, Maurizio Zangarini. La documentazione raccolta risultò ben più ampia di quanto non si riuscisse a presentare in quell’occasione e infatti formò la base della successiva pubblicazione del volume dallo stesso titolo, stampato da Cierre edizioni nel 1994. Si trattò di un inizio: da allora l’Istituto – che nel frattempo ha esteso la propria attenzione, e con essa anche la propria denominazione, alla «storia della Re-sistenza e dell’età contemporanea» – ha sviluppato molteplici iniziative su questo tema, sia in riferimento al mondo giovanile e studentesco sia nella ricerca e pubblicazione di nuovi materiali e documenti. A distanza di più di vent’anni, il tema non ha perduto nulla della sua attualità ed anzi è vi-va la domanda di strumenti di informazione e riflessione non solo per le generazioni più giovani, che maggiormente avvertono la distanza di un passato spesso poco conosciuto e poco compreso, ma anche per quelle più mature. D’altra parte proprio l’ampliarsi e l’appro-fondirsi degli studi sviluppati negli ultimi anni ci permette di presentare oggi una nuova edizione della mostra, interamente rinnovata nella grafica e rivista e aggiornata nei conte-nuti. È un contributo alla storia e alla memoria della città che riteniamo utile e necessario per noi tutti, un «passaggio del testimone» che si manifesta anche nella composizione del gruppo che ha prodotto questo lavoro, che vede insieme con alcune delle ricercatrici che operarono alla prima edizione la presenza di nuove e più giovani protagoniste. Come già vent’anni fa, un particolare ringraziamento va alla Comunità ebraica di Verona per il rinnovato sostegno all’iniziativa e alle famiglie veronesi che, con grande disponibi-lità, hanno offerto documenti e testimonianze preziose per il nostro lavoro.

Rappresentazione grafica dell’area dell’antico ghetto ebraico di Verona.

In copertina: due ebrei ritratti sull’ingresso della loro bottega nel ghetto (Verona, archivio privato).

Agata La Terza, Annapia Lobbia, Nadia Olivieri, Sara Ottaviani, Manuela Tommasi

Andrea Dilemmi

Mostra a cura di

Progetto grafico e impaginazione

In collaborazione con il Comune di Verona Con il contributo e il patrocinio della Comunità ebraica di Verona

Crediti

Archivio di Stato di Verona (concess. 28/2013, riproduzioni fotografiche di V. Giuliano)Comune di Verona, Biblioteca civica (autorizzazione alla pubblicazione del 21.11.2013, prot. Gen. U.O. 19, 330924, 2.12.2013)Comune di Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille FortiArchivio storico del Museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso dell’Università di TorinoArchivio della Società LetterariaArchivio dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di VeronaArchivio storico del Liceo classico statale Scipione Maffei di Verona Comunità ebraica di VeronaVittorina Castagnini BaseviLa famiglia Giangiacomo ReichenbachLa famiglia Giancarlo ReichenbachCivici Musei di Storia ed Arte di TriesteCivico Museo del Risorgimento e Sacrario Oberdan di TriesteIvres Cgil Dott.ssa Maria Palma Pelloso e casa editrice AVELuca Speziali

L’Ivrr è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nelle descrizioni delle foto.

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LE ORIGINI

iL Primo insEdiamEnto Ebraico a VErona viene fatto ri-salire al VI secolo, quando un gruppo di ebrei di Ravenna trova rifugio e protezione sotto Teodorico. L’esistenza di una comuni-tà ebraica organizzata è attestata con certezza solo dal XII seco-lo. Essa accoglie personalità di grande rilievo culturale, come il romano Manuello Giudeo, autore di Bisbidis, un poemetto in onore di Cangrande della Scala, e de L’inferno e il paradiso, in ricordo di Dante Alighieri. Nel 1408 la Repubblica veneta concede agli ebrei l’autorizza-zione a stabilirsi in città, a patto che si occupino di prestito a interesse, attività allora proibita ai cristiani. L’area di residenza loro assegnata è un quartiere nella contrada di San Sebastiano, fra l’attuale piazza Erbe e la Biblioteca Civica. Proprio l’attività di prestito a interesse è all’origine di un periodo di intolleran-za nei confronti degli ebrei, che nel 1499 vengono espulsi con un provvedimento del Consiglio veronese. Nel 1516, dopo aver concesso alla Serenissima un prestito di diecimila ducati, gli ebrei

ottengono il permesso di rientrare a Verona. Si apre così un perio-do di relativa tranquillità, in cui la popolazione ebraica si inserisce nel tessuto cittadino, svolgendo varie attività: rigattieri, mercanti all’ingrosso, sensali, professionisti, sarti, imprenditori tessili e ma-nifatturieri. Alcuni di loro, raggiunto un certo grado di benessere, si trasferiscono in altre zone della città.A seguito della bolla papale Cum nimis absurdum del 1555, in di-verse città italiane vengono istituiti i ghetti, luoghi dove gli ebrei sono costretti a risiedere e da cui possono uscire solo portando un segno distintivo di colore giallo. A Verona il ghetto ebraico nasce nel 1599, nell’area compresa fra le attuali via Mazzini, via Pellicciai e via Quintino Sella. Nello stesso anno viene acquista-to a Campofiore, al di là dell’Adige, il terreno del primo cimitero ebraico, nell’area oggi occupata dalle scuole Massalongo.

Rilievo del ghetto eseguito dall’amministrazione veneziana a fini fiscali. In pianta e in sezione vengono indicate le proprietà (Archivio di Stato di Verona, Antico archivio del Comune, Registro 387, Livellari del ghetto).

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IL GHETTO

nEL 1604 gLi EbrEi di VErona entrano ufficialmente nel ghetto. L’evento viene fe-steggiato dalla popolazione ebraica, che gli attribuisce valenza di protezione da possibili forme di intolleranza e occasione di libertà di espressione della propria identità. Nello spazio del ghetto gli ebrei godono di una certa autonomia amministrativa: adottano uno statuto interno (Statuto del ghetto) e istituiscono un servizio di sorveglianza notturno. Nel corso del Seicento agli ebrei originari, ashkenaziti provenienti dalla Germania, se ne aggiungono altri, di tradizione sefardita, che arrivano in due diverse ondate da Venezia, Spagna e Portogallo.

Due proclami di epoca veneziana. Nel primo, risalente al 1669, il podestà Andrea Vendramin proibisce la vendita e l’affitto di case nel ghetto ad ebrei che non abbiano ottenuto preventivamente il permesso delle autorità (Archivio di Stato di Verona, Proclama 212). Nel secondo, del 1776, il capitano Daniele Dolfin diffida dall’ingiuriare i rappresentanti dell’Università degli ebrei ed i loro familiari (Archivio di Stato di Verona, Proclama 227).

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L’EMANCIPAZIONE

LE idEE di LibErtà, uguagLianza E fratErnità diffuse in Europa con la Rivoluzione francese inducono, sul finire del Set-tecento, decisivi mutamenti nello status giuridico e nelle condi-zioni di vita degli ebrei, dando inizio al periodo della cosiddetta «prima emancipazione».A Verona le porte del ghetto vengono abbattute e bruciate nel 1796, all’arrivo delle truppe napoleoniche, e il 4 luglio 1801 il governo della Repubblica Cisalpina dispone che vengano de-molite anche le mura che circondano l’area. Agli ebrei è quindi concesso abitare in qualunque parte della città: i più abbienti lasciano le malsane abitazioni del ghet-

to per trasferirsi nei palazzi del centro storico. Il clima di rin-novamento sociale si arresta, però, alla caduta di Napoleone, quando Verona diviene austriaca e gli ebrei si vedono negare gran parte dei diritti ottenuti grazie ai francesi. Fortunatamen-te non sono costretti a rientrare nel ghetto, come invece accade in altre città italiane, e durante il periodo della dominazione austriaca aderiscono ai valori e alle imprese del Risorgimento nazionale. La completa uguaglianza nei diritti di cittadinanza («seconda emancipazione») arriva finalmente nel 1866, con l’annessione di Verona al Regno d’Italia.

Verona primo Ottocento: alcune delle proprietà degli ebrei dopo l’apertura del ghetto (Comune di Verona, Biblioteca civica, mappa 2.e.4 del 1823).

Well-Weiss

Goldschmidt

Pincherle Bassani Alessandri NorsaTreves Forti

Tedeschi

Forti

Bassani

Pincherle-Forti

GoldschmidtGoldschmidt-LebrechtRidolfi

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FRA OTTO E NOVECENTO

nEL corso dELL’ottocEnto la comunità ebraica veronese è in costante crescita, fino a raggiungere nel 1864 il picco massimo di milleduecento perso-ne. Nel 1866, con l’annessione del Veneto all’Italia, gli ebrei conseguono una completa parità di diritti e la libertà di spostarsi non solo all’interno del ter-ritorio urbano, ma sull’intero territorio nazionale.Dopo l’unificazione, come nella maggior parte del-le piccole e medie comunità ebraiche italiane, an-che a Verona si verifica un calo demografico. Que-sto può trovare diverse spiegazioni: spostamento verso centri maggiori, allentamento dei vincoli con le comunità di appartenenza, progressiva ri-duzione dell’incremento naturale o l’intreccio di tutti questi fattori. Nel 1909 gli ebrei veronesi so-no circa seicento. Fra Otto e Novecento il ruolo degli ebrei nella vita economica, culturale, sociale e letteraria veronese è notevole. Spiccano i nomi dello scienziato Ce-sare Lombroso (1835-1909), dell’intellettuale e giornalista Eugenia Vitali Lebrecht (1858-1930), fondatrice della prima cooperativa per il lavoro femminile in Italia, e del naturalista e mecenate Achille Forti (1878-1936).

cEsarE Lombroso (Verona 1835 – Torino 1909)Dal 1866 professore straordinario dell’Univer-sità di Pavia, nel 1871 Lombroso ottiene la dire-zione del manicomio di Pesaro e propone alle autorità ministeriali la creazione di manicomi criminali. L’anno successivo inizia gli studi che lo portano alla «teoria dell’uomo delinquente nato o atavico», individuabile da una particolare struttura fisica che lo differenzierebbe dall’uo-mo normale e socialmente inserito. Gli viene assegnata la cattedra di Igiene pubblica e Me-dicina legale (1876), poi di Psichiatria (1896) e infine di Antropologia criminale (1905) all’Uni-versità di Torino, dove nel 1898 fonda un Museo criminale. Muore nel 1909, donando il proprio corpo alla scienza. Le sue teorie, benché scien-tificamente superate, hanno il pregio di aver aperto la strada a studi sul delitto inteso come fenomeno umano e sociale.

EugEnia VitaLi LEbrEcht (Ferrara 1858 - Verona 1930) Appassionata d’arte e di teatro, acuta polemista, instancabile conferenziera e saggista, Euge-nia Vitali Lebrecht si muove sia a livello locale che nazionale. La sua vita e il suo pensiero si intrecciano con le animate discussioni che tra fine Ottocento e inizio Novecento coinvolgono le donne italiane sui temi del diritto di famiglia (divorzio, ricerca di paternità, figli illegittimi/naturali), dell’istruzione, del lavoro e della par-tecipazione femminile alla vita pubblica. Nel 1907 è una delle quattro donne ammesse a pieno titolo alla Società Letteraria. Istituisce una scuola domenicale per le donne e crea la prima cooperativa di lavoro femminile. Scrive di poli-tica e critica letteraria sul quotidiano veronese «L’Adige». Nel suo testamento dispone lasciti a favore di diversi enti fra cui la Biblioteca Civica, il Museo di Castelvecchio, l’Amministrazione provinciale e la Società Letteraria di Verona.

Demografia dal 1776 al 1993

Ritratto di Eugenia Vitali Lebrecht, olio su tela di Antonio Mancini, 100x60 (Comune di Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti).Ritratto fotografico di Cesare Lombroso (Archivio storico del Museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso dell’Università di Torino).

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ACHILLE FORTI

In alto: prospetto principale di Palazzo Forti; dal testamento di Achille Forti: la donazione di Palazzo Forti al Comune di Verona con il vincolo all’istituzione di una galleria d’arte moderna e il frontespizio del testamento ( Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5); Ritratto di Achille Forti (Comune di Verona, Biblioteca civica, Fototeca 1104).In basso: Achille Forti ritratto nell’atrio dell’omonimo palazzo in compagnia del senatore Litta e dell’ingegner De Longhi (Comune di Verona, Biblioteca civica, Fototeca 1104.3).

achiLLE forti (Verona 1878 - Verona 1937)Docente di Scienze naturali a Padova, organiz-za nel suo palazzo veronese un laboratorio mo-dernamente attrezzato, con una ricca biblioteca. Per indagini e ricerche scientifiche viaggia nei Balcani, in Marocco, Algeria, Spagna, Anatolia e nel Nordeuropa fino alla Norvegia. Diviene socio di importanti accademie, come l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, l’Accademia delle Scienze di Torino e la Società Letteraria di Verona. Per la sua opera ottiene riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui il ricco e ambito pre-mio Desmazières dell’Accademia delle Scienze di Parigi. Partecipa all’amministrazione del Co-mune di Verona come consigliere e membro della commissione di vigilanza della Bibliote-ca civica e del Museo di Storia naturale. Privo di eredi diretti, nel suo testamento beneficia i suoi collaboratori e molte istituzioni pubbli-che. Lascia all’Istituto Botanico dell’Università di Padova e all’Istituto Veneto di Scienze Let-tere ed Arti una grande somma di denaro e le sue preziose collezioni botaniche, naturalisti-che, gli erbari, i preparati microscopici e la sua biblioteca naturalistica. Finanzia il ripristino del prospetto del Palazzo di Mercato Vecchio in piazza Erbe a Verona. Destina una collezione di libri di matematica, arte e archeologia, guide e carte geografiche alla Biblioteca civica e alla Società Letteraria, istituzioni con cui collabora-va e di cui faceva parte. Nomina come erede principale il Comune di Verona, a cui lascia un cospicuo patrimonio immobiliare, costituito da alcuni palazzi nel centro storico ed estesi fondi rurali in provincia.

achiLLE forti nEL 1935 rEdigE di sua mano un lungo testamento che precisa la ricca serie di donazioni a istituzioni pubbliche e culturali. Il lascito più significativo va al Comune di Verona, a dimostrazione del forte senso civico dello studioso ebreo. Tra i be-ni donati vi è l’antico palazzo di famiglia Emilei Forti, che viene esplicitamente vincolato all’istituzione di un museo cittadino d’arte moderna. Assieme al palazzo il Comune eredi-ta l’importante collezione di opere d’arte di famiglia. Il testamento viene letto alla morte del benefattore, avvenuta l’11 febbraio del 1937, solo un anno prima dell’emanazione delle leggi razziali che l’avrebbero escluso, in quanto ebreo, dall’appartenenza alle istitu-zioni culturali che aveva beneficato. L’amministrazione cittadina allestisce da subito nel palazzo la Galleria d’Arte Moderna, ma anche un Museo del Risorgimento. Il 5 dicembre 1938 i due musei sono inaugurati alla presenza del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai: un fatto paradossale, se si pensa che viene celebrata la realizzazione della disposizione testamentaria di un ebreo.

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LA QUESTIONE DEL GHETTO

La zona dEL ghEtto VEronEsE, così come la vediamo oggi, è il risultato di lavori effettuati negli anni Venti del secolo scor-so, al termine di un lungo e acceso dibattito cittadino. A partire dal 1887 vengono pubblicati rapporti sanitari assai sfavorevoli al ghetto. L’amministrazione veronese inizia così a pensare di demolirlo e di sostituirlo con un blocco edilizio dotato di abita-zioni, uffici, attività commerciali e un grande politeama. Ma la proposta di modificare il lato meridionale di piazza Erbe provoca un acceso scontro. Da una parte si trovano i cosiddetti «novatori» e «scienziati» che, in nome delle esigenze della scien-za, del progresso e della modernizzazione scrivono: «Scompaia un centro di infezione com’è quello lì, che per colmo di disgra-zia è situato proprio al centro della città» (Cipolla). Dall’altra parte «conservatori» e «artisti» prendono parola contro le de-molizioni previste, a difesa della storia culturale della città e di una delle sue piazze più significative. Capofila della protesta è il pittore Angelo Dall’Oca Bianca, che tuona: «Ma è Piazza delle Erbe […] interessantissima […] non per quelle sagome

architettoniche che non ha, ma per il suo insieme affascinante, originale incantatore». Le proteste contro la demolizione del ghetto e il progetto di co-struzione di un politeama arrivano anche in Parlamento: nel mar-zo del 1902 il ministro della Pubblica Istruzione Nasi richiama il Comune di Verona ai suoi compiti di tutela dei monumenti e no-mina un’apposita commissione, che chiuderà il caso con un giu-dizio negativo sul progetto. Nel 1910 le case del ghetto veronese prospicienti piazza Erbe sono dichiarate monumento nazionale.La discussione riprende quando la Cassa di Risparmio di Verona, nel 1911, bandisce un concorso internazionale per la costruzio-ne della propria sede nell’area del ghetto, tra la Domus Mercato-rum, via Mazzini e via Portici, con un fronte su piazza Erbe. Le po-lemiche dei «conservatori» sono meno compatte, poiché alcuni si dichiarano disponibili a considerare i risultati del concorso. Il progetto vincitore viene comunque bloccato dalla Commissione superiore di Belle Arti, che nel 1915 proclama l’intangibilità della piazza. La demolizione del ghetto è così nuovamente sospesa.

Immagini del ghetto (Comune di Verona, Biblioteca civica, Archivio fotografico Q. 15).Da sinistra a destra: via Camera di Commercio; corte Spagnola; corte.

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Immagini del ghetto (Comune di Verona, Biblioteca civica, Archivio fotografico Q. 15).In evidenza: corte.In alto: via Camera di Commercio, sbarramento; via Pellicciai. Al centro: due immagini di corte Spagnola.In basso: via Portici (già via Ghetto); via Portici, da via Mazzini verso via Pellicciai; via Portici, da via Pellicciai verso via Mazzini; altra veduta di via Portici.

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LA DEMOLIZIONE

La quEstionE dEL ghEtto si concLudE solo nella seconda metà degli anni Venti: il problema dell’intangibilità di piazza Er-be viene eluso evitando di toccare la cortina di case che tuttora affacciano sulla piazza. Si demolisce però tutto il resto del ghet-to a eccezione del porticato trecentesco di via Portici. Nel 1924, infatti, l’Amministrazione comunale fascista di Verona approva un progetto di demolizione e risanamento del ghetto, articolato in tre fasi successive.La prima fase prevede la sistemazione degli edifici fra via Portici, via Pellicciai e vicolo Nuovo, con l’apertura di una strada di colle-gamento (oggi via Rita Rosani) fra via Portici e vicolo Nuovo. Si prevede inoltre la sistemazione del prospetto della sinagoga.La seconda riguarda l’espropriazione e la demolizione dell’isolato compreso tra vicolo Nuovo, vicolo Mondo e vicolo San Rocchetto.La terza fase include la demolizione dei caseggiati fra via Portici, corte Segattina e corte Spagnola, rispettando le case prospicien-ti piazza Erbe. A seguito di un intervento della Soprintendenza, si decide di dichiarare l’intangibilità del porticato di via Portici. Le tre fasi di abbattimento del ghetto si sovrappongono a par-tire dal 1926, anno in cui prendono avvio i lavori di acquisto e demolizione degli edifici. Alla progettazione e ristrutturazione dell’area lavorano l’architetto Ettore Fagiuoli, che realizzerà la nuova facciata della sinagoga, e l’architetto Francesco Banterle, che farà costruire il «Superpalazzo», conosciuto anche come «Su-percinema», oggi sede di grandi magazzini. I lavori di risistema-zione dell’antico ghetto si concluderanno nel 1930.

Demolizione del ghetto. Immagini dei lavori. Demolizioni in via Camera di commercio (Comune di Verona, Biblioteca civica, Archivio fotografico A 69.43); altre due immagini delle demolizioni (Comune di Verona, Biblioteca civica, Archivio fotografico Q. 15).

Prospetto del progetto di Ettore Fagiuoli per la sistemazione del ghetto di Verona (tratto dal volume di P.P. Brugnoli, A. Sandrini [a cura di], L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, Banca Popolare di Verona-Mondadori, Verona 1994).

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IL FASCISMO e gli EBREI

nEL 1922 in itaLia Va aL PotErE iL fascismo, che inizialmente non assume posi-zioni antisemite. Circolano però idee razziste, che prendono sempre più spazio sugli or-gani di stampa, nei circoli culturali e in una letteratura pseudo-scientifica. Si tratta ancora di un razzismo inteso in chiave più «spirituale» che biologica, che misura la superiorità di una razza in termini di civiltà, cultura e patrimonio storico. Il giornale di Verona «L’Arena», dal 1925 organo ufficiale del Partito nazionale fascista, non si discosta da queste posizioni: nei suoi articoli, fino alla vigilia delle leggi razziali, si rimarca la distanza fra il razzismo spirituale fascista e il razzismo nazista, che viene de-finito addirittura «aberrante».

Fino al 1935 la stampa insiste sulla distinzione tra razzismo tedesco, biologico e materialista, e razzismo italiano, spirituale. Nell’articolo Razza (15 settembre 1933) si riporta da «Il Popolo d’Italia» la critica decisa delle leggi tedesche concernenti la sterilizzazione volontaria ed obbligatoria dei «degenerati». In particolare si contesta il giornale «Hamburger Fremdenblatt», che fa apparire tali leggi come «una necessità suprema e in un certo senso umanitaria».Nell’articolo Ritorno alla Patria (15 ottobre 1935), anche G. V. Lampronti prende le distanze dal razzismo biologico tedesco. Il vero razzismo è spirituale: consiste nel fatto che tutti gli italiani, anche con sangue diverso nelle vene, per merito di Mussolini si riconoscano in una stessa speranza, in una stessa passione, pronti a tornare in patria ad imbracciare le armi per conquistare l’Etiopia.

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«RAZZISMO ABERRANTE»

Nell’articolo Razzismo aberrante (6 novembre 1933) Nino Serventi rifiuta il razzismo tedesco che riduce la purezza della razza ad una teoria materialistica o fisiologica. Sostiene che la selezione delle razze pure implica una disperata sfiducia nella provvidenza e nella scienza, nella religione e nella medicina: in una parola è «immorale». In contrapposizione si vengono precisando le caratteristiche del razzismo italiano.

Nell’articolo La tutela della razza in regime fascista (8 novembre 1934) si rifiuta l’esclusione del diverso per garantire la purezza di un popolo. Si deve invece accelerare l’incremento demografico: il fascismo vuole contare su molti italiani, «molti e buoni» dal punto di vista fisico. Con bonifiche, propaganda d’igiene, lotta alla tubercolosi, tutela della maternità e dell’infanzia si prepara un rinvigorimento della razza italiana.

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«LA DIFESA DELLA RAZZA»

iL 1938 sEgna una radicaLE inVErsionE di rotta: il 14 luglio viene pubblicato sul quotidiano «Il giornale d’Italia» un documento intitolato Il Fascismo e i problemi della razza, redatto da dieci scienziati italiani (e noto anche come Manifesto degli scienziati raz-zisti o Manifesto della razza), che teorizza l’esistenza di razze distinte su base biologica.Il ministro dell’Educazione nazionale Bottai, con specifica circolare, invita l’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona ad approfondire i temi affrontati dalla nuova rivi-sta «La difesa della razza», destinata, nelle sue intenzioni, a diventare «l’organo di mag-giore importanza del razzismo italiano».Bottai sottolinea che «i fondamenti del razzismo italiano, pur partendo da dati biologici, sono di sostanza squisitamente spirituale e vengono posti innanzi tutto a salvaguardia di quell’inestimabile patrimonio intellettuale e morale che il nostro popolo ripete da Ro-ma». Ma precisa anche che «ora […] con la creazione dell’Impero la razza italiana è venuta a contatto con altre razze e deve perciò essere tutelata da ogni pericolosa contaminazione di sangue». Il razzismo «spirituale» diventa razzismo «biologico».

Dal primo numero della rivista «La difesa della razza»: copertina, la prima pagina con la riproduzione del cosiddetto Manifesto degli scienziati razzisti e uno degli articoli, dal significativo titolo I bastardi, che spiega, con ampio utilizzo di immagini esplicative, gli effetti del mescolamento delle razze.

La circolare del ministro Bottai che invita l’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona a dotarsi della nuova rivista «La difesa della razza» (Archivio dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona).

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IL CLIMA è MATURO

a PartirE daLL’EstatE dEL 1938 il giornale «L’Arena» riprende in maniera sempre più intensa le indicazioni a proposito di una vocazione razzista del fascismo italiano. Non vi è più spazio ormai per un dibattito sulla questione della razza: le voci di dissenso e oppo-sizione sono definitivamente zittite. La stampa nazionale e locale si uniforma alle diret-tive del regime. Il clima ormai è maturo: anche a Verona l’opinione pubblica è pronta ad accettare i successivi provvedimenti del governo. Nel novembre 1938 vengono emanati i Provvedimenti per la difesa della razza italiana.

Nell’articolo L’azione razzista del fascismo in sedici anni di Regime (26 luglio 1938) si nota l’evoluzione del razzismo italiano. Il Ministro Segretario del Partito ricorda che da sedici anni il regime ha adottato una politica tesa al miglioramento della razza italiana, inclusa nel gruppo indoeuropeo. Gli istituti di cultura dovranno per il futuro elaborare e diffondere i principi fascisti in tema di razza. L’antisemitismo comincia a precisarsi. Nell’articolo Il clima è maturo (6 agosto 1938) si ricorda che Mussolini già nel 1921 aveva parlato di razza. Ora il contatto con le popolazioni africane dà nuova importanza al problema razziale. Il razzismo italiano non intende perseguitare nessuno, checché ne pensino gli ebrei italiani, loro sì razzisti integralisti: si tratta di mantenere certe proporzioni razziali per garantire il «patrimonio spirituale del popolo italiano, base fondamentale per lo Stato, elemento di sicurezza per l’Impero».

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I DELIBERATI DEL GRAN CONSIGLIO

I Deliberati del Gran Consiglio (7 ottobre 1938). «L’Arena» elenca con precisione gli articoli approvati il 6 ottobre 1938 alle ore 22. Il 13 agosto «L’Osservatore Romano» ha inteso «mettere le cose a posto», in relazione alla posizione della Chiesa nel confronti degli ebrei e «L’Arena», nell’articolo La questione ebraica e «L’Osservatore romano» (17 agosto 1938) ne elenca le argomentazioni. L’antisemitismo è ufficiale e dichiarato. Nell’articolo Gli ebrei stranieri che calano in Italia (17 agosto 1938) degli ebrei che si rifugiano in Italia si sottolinea il «risentimento della subita persecuzione, il livore di fuoriusciti», la tenacissima e intransigente caratteristica di razza, la capacità di penetrazione.

Si invoca dunque dallo Stato la difesa dei sacrosanti interessi degli italiani. L’articolo Politica della razza - politica imperiale (17 agosto 1938) evidenzia il grande successo del primo fascicolo della rivista «La difesa della razza», dimostrazione e conferma che tutti gli italiani desiderano allargare le proprie conoscenze sul tema. Ormai l’Italia è una nazione imperiale e tutti i problemi, anche quello della razza, devono essere affrontato in un’ottica imperiale.Nell’articolo La razza ebraica ha la fobia della terra (7 settembre 1938) le statistiche pubblicate dall’Agenzia d’Italia e dell’Impero portano a concludere che l’ebreo preferisce la speculazione e lo sfruttamento all’opera delle proprie braccia.

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LE LEGGI RAZZIALI

La Prima LEgisLazionE razziaLE si avvia in Italia nel 1937 ed è destinata ad impedire e punire i «rapporti di indole coniugale» con le popolazioni dell’Africa Orientale Italiana. I provvedimenti contro gli ebrei iniziano più tardi, a partire dall’autunno del 1938. Il primo ambito di intervento è quello della scuola, ma ben presto la legislazione si estende e il 17 novembre 1938 si emanano i Provvedimenti per la difesa della razza italiana. Gli ebrei ven-gono espulsi dal Partito nazionale fascista. Viene loro vietato il matrimonio con cittadini ariani, l’esercizio del servizio militare, la proprietà di terreni e fabbricati per un valore supe-riore a quello stabilito dalla legge. Gli ebrei non possono tenere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, non possono lavorare come dipendenti pubblici. È prevista la pos-sibilità della «discriminazione»: ebrei «benemeriti», cioè componenti di famiglie di caduti o feriti in guerra, decorati della I guerra mondiale, legionari di Fiume, iscritti al partito fascista prima del 1924, possono inizialmente essere esclusi dall’applicazione di queste leggi.Successivamente i divieti si estendono alle libere professioni: giornalisti, farmacisti, oste-triche, avvocati, ingegneri, architetti sono obbligati ad iscriversi in elenchi speciali e viene loro impedito di esercitare per conto di non ebrei o enti pubblici. Si vincola la libertà di fa-re testamento, si proibisce il commercio di oggetti antichi e d’arte. Viene vietata qualsiasi attività nell’ambito dello spettacolo. Dal maggio 1942 gli ebrei sono precettati al lavoro manuale. In un crescendo inarrestabile, le norme si susseguono ad impedire qualsiasi attività e a limitare progressivamente ogni diritto, arrivando a proibire l’inclusione negli elenchi telefonici, il soggiorno nelle località turistiche, il possesso di apparecchi radio e persino l’ingresso nelle biblioteche pubbliche. Nel novembre del 1943 la Carta di Verona, promulgata dalla neonata Repubblica di Salò, dichiara che gli ebrei sono «stranieri» e co-me tali appartenenti a nazionalità nemica. Il 30 novembre, infine, si ordina l’invio di tutti gli ebrei nei campi di concentramento ed il sequestro di tutti i loro beni.

In alto: manifesto raffigurante gli effetti pratici dell’applicazione dei Deliberati del Gran Consiglio (Verona, Archivio privato).In basso: inserto pubblicitario apparso sui quotidiani nazionali.

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LE LEGGI RAZZIALI A VERONA

comE risPondE L’ambiEntE VEronEsE ai provvedimenti razzisti e al clima discriminatorio che ne deriva? Le testimonian-ze orali non riferiscono, di norma, manifestazioni clamorose di intolleranza. Incontriamo piuttosto, in sede locale, episodi di ostilità o atti di discriminazione, non dovuti a iniziative sponta-nee, ma decisi o suggeriti dall’apparato istituzionale.L’Unione provinciale professionisti e artisti fa pervenire al Du-ce la sua «entusiastica adesione» alla riforma in senso razziale della disciplina degli albi professionali, ispirata a «romana giu-stizia» e tale da conferire «nuova dignità e prestigio al lavoro professionale». La Società Letteraria e l’Accademia di Agricoltura Scienze e Lette-re a decorrere dal 1° dicembre 1938 escludono i soci «non aria-ni». Anche la toponomastica, cittadina e non, viene modificata,

eliminando i nomi di personalità ebree, come Cesare Lombroso e Luigi Luzzatti. «L’Arena», in sintonia con lo spirito dei provvedimenti, continua a pubblicare articoli destinati a confermare nel lettore l’immagi-ne della cultura ebraica come antitetica a quella genuinamente italiana.Col precipitare degli eventi bellici, l’offensiva antiebraica pren-derà l’aspetto di un’emergenza che non ammette più distinzio-ni o indulgenze. Il commento de «L’Arena» al ritiro della tessera del Partito nazionale fascista inflitto a tre professionisti cittadini, per «ostentata amicizia con elementi di razza ebraica», parla di «recidere i rami secchi». Inoltre definisce «suicidio» ogni ulterio-re tolleranza e tratta la «gente ebrea mistificatrice e pestilenzia-le» come nemici di guerra senza eccezioni.

Soave. Via Luigi Adami sostituirà Contrada degli ebrei? (5 gennaio 1939). I professionisti veronesi e le nuove disposizioni razziali per gli albi (6 maggio 1939).Qualche esempio di applicazione delle leggi razziali in città e in provincia: i nomi delle strade vengono sostituiti e i professionisti sono esclusi dagli albi professionali; saranno iscritti in albi specifici, con precise limitazioni nell’esercizio dell’attività. Il linguaggio risulta particolarmente violento nell’articolo Il ritiro della tessera del Partito a tre filo-giudei (22 novembre 1942).

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L’ESCLUSIONE DALLA SCUOLA

doPo La PubbLicazionE del Manifesto degli scienziati razzisti (14 luglio 1938), i primi provvedimenti antiebraici adottati in Italia riguar-dano la scuola. Il 24 agosto 1938 il ministero dell’Educazione nazionale diffonde una circolare e dispone, già dal giorno successivo, la distribu-zione di schede per il censimento del personale di «razza ebraica». I dipendenti ebrei sono immediatamente messi in congedo; in seguito saranno sospesi dall’incarico. A Verona si segnala l’espulsione, fra gli altri, di tre insegnanti dal Regio li-ceo ginnasio Scipione Maffei e quella delle dirigenti di due asili d’infanzia comunali, Ada Rimini e Emma Foà. Quest’ultima, pur essendosi trasferita a Sanremo, viene individuata e deportata ad Auschwitz, dove muore nell’aprile del 1944. Successive disposizioni escludono gli alunni di «razza ebraica» dalle scuole di qualsiasi ordi-ne e grado, pubbliche e private. Lo Stato istituisce speciali sezioni di scuola elementare nelle località in cui ci siano almeno dieci alunni. Le comunità ebraiche possono chiedere l’autoriz-zazione a istituire scuole elementari e medie al loro interno. Nel caso in cui le comunità non riescano a trovare aule o edifici, è possibile aprire sezioni ebraiche nelle scuole pubbliche, purché in spazi e con accessi diversi da quelli riservati ai bambini di «razza ariana».Nell’autunno del 1938 gli alunni ebrei veronesi sono sei di scuola elementare, tre del ginnasio inferiore, uno del ginnasio superiore, quattro delle medie inferiori, tre di quelle superiori e due liceali. La Comunità ebraica di Verona organizza una pluriclasse per gli alunni delle elementari, in funzione fino al 1943. La dirige il professor Finzi, con la col-

In alto a sinistra: la pagella scolastica di Giangiacomo Reichenbach, che riporta la dicitura «di razza ebraica» (Verona, Archivio privato); a destra: il Comune di Verona risponde al Regio ispettorato scolastico, che ha indetto il censimento del personale di razza ebraica, segnalando che le due

direttrici di asilo comunale ebree sono già state sospese e poste in congedo (Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5).A fianco: ritratti fotografici di Giangiacomo Reichenbach ed Emma Foà (Verona, Archivi privati).

Emma foà (Verona 1874 - Auschwitz 1944)Dopo la laurea in Pedagogia, Emma Foà lavo-ra in diverse scuole nelle province di Genova, Imperia e Verona. Nel 1933 si stabilisce defini-tivamente a Verona, dove ottiene l’incarico di direttrice didattica dell’Asilo infantile comunale San Zeno. Vi lavora fino al 24 settembre 1938, quando viene posta forzatamente in congedo perché di «razza ebraica». Col progressivo in-tensificarsi delle persecuzioni, Emma si trasfe-risce in Liguria, a Sanremo, con la famiglia del cugino. Il 6 gennaio 1944, su precisa delazione, viene arrestata. Portata dapprima nel campo di concentramento di Vallecrosia (Imperia) – dove subisce umiliazioni, privazioni e percosse siste-matiche – viene successivamente trasferita nel campo di Fossoli (a Carpi di Modena). Deporta-ta ad Auschwitz, viene uccisa al suo arrivo, il 10 aprile del 1944. Il 24 aprile 1993 il Comune di Verona le ha intitolato la scuola per l’infanzia di cui fu direttrice.

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laborazione di docenti messi in congedo in applicazione delle Leggi per la difesa della razza nelle scuole. Per qualche tempo vi lavora anche un insegnante non ebreo, che sarà ben presto costretto a rinunciare. Gli alunni, alla fine di ogni anno, devono sostenere un esame nelle scuole pubbliche, in aule separate dagli altri studenti e alla presenza di ca-rabinieri che vigilano su di loro per tutto il tempo degli scritti e degli orali. Gli studenti espulsi dalle scuole superiori continuano a studiare, almeno fino al settem-bre 1943, sotto falso nome in istituti religiosi cattolici o privatamente, presso insegnanti a loro volta espulsi. All’inizio di dicembre vengono comunicate le istruzioni per il cambio del nome degli istituti intitolati a persone di «razza ebraica» e per l’esclusione di tutti i libri di testo scritti o pubblicati da autori ed editori ebrei.

Divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei (Verona, Archivio storico del Liceo Maffei).

Provvedimenti di sospensione dello stipendio e, successivamente, di dispensa dal servizio per due insegnanti del Liceo Maffei (Verona, Archivio storico del Liceo Maffei).

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GLI ISTITUTI DI CULTURA

LE LEggi razziaLi imPongono L’EsPuLsionE dEi soci EbrEi dalle accademie e dagli istituti di cultura. A Verona il provvedimento riguarda la Società Letteraria e l’Ac-cademia di Agricoltura Scienze e Lettere. La prima nasce nel 1808 come associazione ri-gorosamente laica che, a norma di statuto, «interdice in tutti i suoi atti esterni od interni qualsiasi manifestazione di tendenza politica o confessionale». Sin dall’inizio ha accolto soci ebrei, figure di grande rilievo nel mondo della cultura, della scienza e delle profes-sioni. Alcuni di essi hanno contribuito alla formazione del patrimonio della Società Lette-raria con significativi lasciti e donazioni. Di fronte alle richieste di espulsione imposte dalle leggi razziali, l’avvocato Lombroso, ebreo e socio, tenta di resistere, sostenendo che la Società Letteraria non rientra nella categoria degli istituti culturali indicati nella legge, trattandosi di un «ente privato con scopo morale». Ma tale interpretazione è rifiutata dal ministero. L’allontanamento dei so-ci ebrei è allora inevitabile, ma avviene senza clamore: non se ne discute nell’assemblea generale della Società Letteraria del 29 novembre 1938, non se ne fa menzione nei regi-stri dei verbali e neppure nel bollettino periodico del sodalizio. Agli interessati non viene inviata nessuna comunicazione scritta. La vicenda sembra chiudersi con l’affissione nelle sale di un breve avviso scritto a mano (1° dicembre 1938) e la cancellazione dei nomi dei sedici soci ebrei dall’elenco.

Documenti relativi alla Società Letteraria. In alto: lo scarno avviso con cui la Società Letteraria esclude i soci ebrei; lettera dell’avvocato Nicoletti di Roma al presidente Boggian che suggerisce come poter continuare ad usufruire di legati e donazioni di provenienza ebraica; la lettera di dimissioni del socio «di religione ebraica» Silvio Finzi e la sua riammissione, a guerra conclusa, per cessazione delle disposizioni di legge riguardanti i soci ebrei (Archivio della Società Letteraria di Verona, b. 119, fasc. 1; b. L/F, fasc. 3; b. 121, fasc. 2; b. 119, fasc. 1).In basso: circolare del Ministero dell’educazione nazionale che invita a sopendere l’utilizzo di fondi provenienti da cittadini non ariani (Archivio della Società Letteraria di Verona, b. L/F, fasc. 2)

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Si pone però il problema degli ingenti finanziamenti di origine ebraica di cui la Società dispone: è inevitabile la loro restituzione alla Comunità ebraica, come indicato dal mini-stero? La decisione rimane sospesa, finché, nel 1942, una comunicazione dell’avvocato Nicoletti al presidente Boggian chiarisce che il Ministero degli Interni ha stabilito che i lasciti degli ebrei possono essere accettati, purché non siano condizionati a intestazioni o qualifiche che richiamino l’origine ebraica del donatore.La stessa cosa, del resto, è già avvenuta nell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere: il 29 giugno 1939 un decreto di Vittorio Emanuele III l’ha autorizzata ad accettare il con-sistente legato di lire 50.000, disposto in suo favore dal testamento di Achille Forti. In entrambi i casi è chiara l’intenzione degli istituti di cultura di non rinunciare a impor-tanti contributi finanziari di origine ebraica, proprio quando donatori, soci, collaboratori ebrei vengono allontanati dalla vita associativa senza ombra di solidarietà o rammarico. Del resto è con uguale disinvoltura che, a guerra conclusa, il 19 giugno 1945 il presiden-te Boggian comunica agli ex soci ebrei la loro riammissione alla Società Letteraria, infor-mando semplicemente che «come certo le è noto sono venute a cessare le disposizioni di legge che le vietavano di far parte di questa Società». Nel frattempo due dei destinatari di questa lettera sono morti a causa della deportazione. Il 28 novembre del 1998 l’assemblea generale dei soci della Letteraria approva all’una-nimità l’affissione di una targa «In memoria dei soci Ebrei espulsi dalla Società Letteraria a sessant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali».

Documenti dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere: censimento dei soci di razza ebraica; autorizzazione del re Vittorio Emanuele III ad accettare il lascito Forti (Archivio dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona).

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LA CHIESA CATTOLICA

nEL corso dEgLi anni trEnta La chiEsa cattolica assume una posizione incerta e ambigua: condanna il razzismo ma non l’antisemitismo, preoccupata innanzitutto di stigmatizzare l’ide-ologia anticristiana del nazismo. Gli ebrei non devono essere odiati, non vanno colpiti in quanto ebrei, bensì corretti nel loro errore e salvati dal loro accecamento. Si viene così delineando un antisemitismo cattolico, fondato su ragioni di fede, che vuo-le distinguersi da quello più evidentemente razzistico: «L’anti-semitismo non è sempre una difesa della razza – stupidissima cosa che alligna solo nei cervelli tedeschi – è bene spesso difesa di interessi economici e morali contro chi, non appartenendo che nominalmente al Paese che li ospita, pretende di guidarne le sorti e spesso infrangerne il vincolo religioso e morale» (da Gli ebrei in Austria, in «L’amico del clero», XVII 1935). Nonostante ciò, dal 1938 sulle riviste diocesane e negli inter-venti vescovili iniziano a comparire pesanti giudizi antiebraici, che non sono mai stati espressi con tanta evidenza. E infatti, do-po la promulgazione delle leggi razziali, la Chiesa cattolica non prende ufficialmente le parti della minoranza ebraica, ma si li-mita a condannare il razzismo in senso lato.Anche nel caso della diocesi veronese, per quanto riguarda la questione razziale riferita alla minoranza ebraica, si dovrebbe parlare di silenzio, «testimoniato» dall’assenza di fonti.

Se non compaiono prese di posizione ufficiali in difesa degli ebrei, tuttavia vi sono molti casi di concreta solidarietà e di fat-tivo aiuto da parte di esponenti del clero. Alcuni ebrei trovano infatti rifugio in conventi, monasteri, istituti religiosi o vengono aiutati a fuggire. A Verona si distinguono in particolare don Gio-vanni Calabria, monsignor Angelo Marini e monsignor Giusep-pe Chiot. Le testimonianze di questo aiuto sono soprattutto ora-li, trasmesse cioè dalla viva voce dei sopravvissuti. Fra le poche testimonianze scritte, va ricordata quella della pediatra Mafalda Pavia, che si salva grazie all’intervento di don Calabria.

Il «Bollettino Ecclesiastico Veronese» riporta una lettera indirizzata a tutti i rettori delle Università ecclesiastiche e dei Seminari con l’indicazione delle argomentazioni atte a confutare le teorie razziste (Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5); omelia del vescovo di Cremona riportata su «L’Arena» dell’11 gennaio 1939 in cui gli ebrei vengono bollati come razza antagonista, dalle cui malefiche influenze è legittimo difendersi (Comune di Verona, Biblioteca civica).

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DEMOGRAFIA

La ricostruzionE su basE statistica dell’evoluzione del-la popolazione ebraica è resa difficile dal variare nel tempo dei criteri in base ai quali le rilevazioni sono state compiute. Tra-dizionalmente, le comunità ebraiche tengono un’anagrafe dei propri iscritti, presente anche a Verona per gli anni dal 1850 al 1918, e dal 1945 a oggi. I censimenti ufficiali dello Stato italiano si basano, fino al 1931, sul criterio religioso, chiedendo di dichiarare l’adesione al culto israelitico. Ma l’identità ebraica è cosa più complessa: il rico-noscersi in una comune memoria, cultura e tradizione, infatti, non necessariamente si identifica nell’iscrizione a una comunità ebraica e/o nella pratica del culto religioso. Tanto meno nell’«ap-partenenza razziale» postulata dalle leggi fasciste. I dati di cui possiamo disporre per ricostruire la consistenza del-la popolazione ebraica a Verona sono dunque disomogenei. Nel 1938 il censimento fascista rileva a Verona la presenza di 414

ebrei, compresi gli stranieri. In città la comunità ebraica si con-centra storicamente intorno ad alcune grandi e numerose fami-glie. I ceppi familiari di antica origine sono pochi, ma ricchi di diramazioni, fortemente intrecciati e imparentati fra loro: Base-vi, Cuzzeri, Forti, Bassani, Levi, Tedeschi, Rimini sono alcuni dei cognomi più diffusi.Il 29 luglio 1942 la circolare ministeriale N. 517-30R prescrive alle prefetture la redazione di un nuovo elenco degli ebrei resi-denti, distinto in due rubriche: rubrica A (ebrei cosiddetti «pu-ri») e rubrica B (ebrei «misti»). A Verona si è conservata la rubrica A, che è la più rilevante. Gli ebrei registrati nel 1942 risultano 342. Questo numero comprende, oltre a ciò che è rimasto del nucleo «storico» veronese (già molto impoverito rispetto al cen-simento di quattro anni prima), alcuni immigrati in data recente (1939-1940), soprattutto da Merano (13), nonché un gruppo di internati politici residenti a Caprino (32).

Fotografie della famiglia Basevi. In alto, da sinistra: Attilio Basevi con il padre e la figlia; i fratelli Giuliana e Giuseppe Basevi nel ricordo della festa della Maggiorità religiosa.

In basso: retro della fotografia di Giuliana Basevi; Rita Basevi con la madre (Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5).

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NEL 1942

iL nucLEo Ebraico VEronEsE è quello più antico e stabile della provincia. Nel 1942 è composto da 247 persone, esclu-dendo gli stranieri e gli immigrati dopo il 1938. La collocazione sociale è prevalentemente di media borghesia: commercianti, professionisti, impiegati, persone genericamente definite come «benestanti» e «possidenti». Le donne sono in grande maggio-ranza casalinghe (101 su 135).La dimensione così ridotta della comunità rende difficili i suoi meccanismi di autoriproduzione. A Verona il 55,6% dei matri-moni degli ebrei sono misti (contro il 43,7% in Italia). È alta, pe-rò, anche la percentuale dei non coniugati (celibi il 40,7% degli uomini, nubili il 42,5% delle donne). La parte più consistente della popolazione si concentra nelle fa-sce di età adulta e anziana. I giovani sono pochi ed è evidente il calo delle nascite. L’età di chi si sposa è relativamente avanzata, soprattutto se confrontata con le abitudini matrimoniali dell’in-

sieme della popolazione italiana nel periodo preso in esame. E se pure quella del non matrimonio aveva potuto nel passa-to configurarsi come una scelta, non c’è dubbio che l’incidenza delle leggi razziali, con il divieto dei matrimoni misti, l’abbia trasformata in una pesante costrizione.Meno quantificabili, ma non meno immaginabili sono gli ef-fetti indiretti del clima di persecuzione: incertezza del doma-ni, della casa, del lavoro, della vita. Quale migliore dissuasio-ne dalla prospettiva di formare nuove famiglie, di mettere al mondo dei figli?

Nubili / Celibi

Coniugate / i

Vedove / i

collocazione socialeAttività lavorativa degli uomini (112 persone)

eBRei ReGisTRaTi al 1942 suddivisi per nazionalità

Italiani 279Tedeschi 12Jugoslavi 11Cecoslovacchi 8Rumeni 1Polacchi 1Apolidi 11

PoPolazione PeR sesso, eTà e sTaTo civile

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LA SOLUZIONE DELLA «QUESTIONE EBRAICA»

PEr La PoPoLazionE Ebraica La situazionE PrEciPita nel 1943, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana. Da quel momento, infatti, gli «ap-partenenti alla razza ebraica» vengono considerati stranieri e quindi nemici. A partire dal 1° dicembre si dispone che tutti gli ebrei, di qualunque naziona-lità essi siano, vengano inviati in appositi campi di concentramento e che tutti i loro beni, mobili e immobili, vengano sottoposti a immediato sequestro. Ini-zialmente restano esclusi dalla deportazione i nati da matrimoni misti, rico-nosciuti appartenenti alla razza ariana, gli anziani con più di settant’anni, gli ammalati gravi e gli ebrei sposati con non ebrei.A partire dal 1943 Verona è il centro di smistamento di migliaia di deportati e il

punto di passaggio obbligato dei convogli diretti ai campi di concentramento. Diventa anche il centro operativo della Gestapo italiana: il suo responsabile, lo Sturmbannführer Bosshammer, cui era affidata la soluzione della «questione ebraica» in Italia, proprio da Verona stabilisce di applicare la normativa tedesca. A partire dal 2 agosto del 1944 vengono avviati ai campi di concentra-mento anche coloro che fino a quel momento erano stati risparmiati.La Comunità ebraica di Verona si vede sottrarre quarantacinque persone. La deportazione colpisce anche trentadue internati di Caprino e diversi altri che allora abitavano nella provincia di Verona, nonché alcune decine di ebrei nati a Verona ma residenti in altre parti d’Italia. La maggior parte di loro non farà ritorno. Per molti ebrei non rimane altra soluzione che nascondersi, cercare di fuggire all’estero o scegliere la via della clandestinità e della lotta par-tigiana.

L’indirizzo al Duce (17 novembre 1943).Il 14 novembre a Verona, in Castelvecchio, durante il Congresso del Partito Fascista Repubblicano viene approvato il Manifesto programmatico che prelude alla formazione della nuova Italia fascista e repubblicana. Nel capitolo In materia costituzionale ed interna gli ebrei sono dichiarati «stranieri» e «nemici». Entro poche settimane cominceranno la persecuzione e i rastrellamenti da parte della Milizia fascista.

In basso: l’ordinanza di polizia, a firma Buffarini Guidi, che impone la deportazione di tutti gli ebrei a partire dal 1° dicembre 1943; lettera di Gilda Forti, ebrea veronese, dal campo di Bolzano. Si notino le indicazioni fornite agli scriventi, utili per non incorrere nei rigori della censura (Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5).

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il campo di CAPRINO

nELL’agosto dEL 1941 il prefetto di Verona dà avviso al po-destà di Caprino dell’imminente concentramento nel suo co-mune di un centinaio di ebrei ex internati provenienti dalla Dalmazia e dal Montenegro. Nella risposta del podestà la pre-occupazione maggiore sembra quella degli alloggi. Siamo an-cora in agosto: come mettere d’accordo ebrei e villeggianti? A Caprino, in effetti, giungerà un numero di persone più bas-so del previsto: nel 1942 sono trentadue in tutto, in gran parte provenienti dalla Jugoslavia. Gli internati vengono sottoposti a severe restrizioni, sia nella corrispondenza sia negli sposta-menti personali. Nonostante ciò il podestà di Caprino risulta forse troppo tenero: viene così privato del potere di rilasciare permessi agli ebrei che hanno bisogno di recarsi a Verona per cure mediche. Inoltre viene ammonito a evitare che gli internati abbiano un «tenore di vita da turisti».Gli internati lasciano il comune di Caprino l’11 marzo 1944. Tra loro c’è anche la piccola Magda Bodner, nata a Caprino il 10 gen-naio 1942, il cui destino sarà di morire in un lager nazista il 10 aprile 1944. Gli internati vengono trasferiti nel campo di Fossoli (Carpi). Di loro ci restano soltanto le poche notizie raccolte da Liliana Picciotto Fargion ne Il libro della memoria.

a VErona si insEdia iL comando della SiPo–SD (Sicherhei-tspolizei - polizia di sicurezza; Sicherheitsdienst – servizio di si-curezza), di cui la Gestapo è una sezione. Bosshammer istituisce un ufficio specializzato nell’arresto e deportazione degli ebrei presso la sezione IV B 4 (Gestapo). A tale ufficio vengono comu-nicati tutti gli arresti effettuati dalle polizie italiane e dai coman-di avanzati del SiPo–SD, e annunciati i trasferimenti al campo di Fossoli, principale campo di transito per i deportati italiani (poi sostituito, a partire dall’estate del 1944 e fino alla fine della guerra, dal campo di Bolzano, più lontano dal fronte di guerra).Le liste dei deportati sono compilate sulla base della cartoteca dell’ufficio di Verona. Passano da Verona convogli provenienti da numerose città d’Italia e destinati soprattutto ad Auschwitz. Si può seguire la sorte del convoglio formato a Milano e tran-sitato per Verona il 30 gennaio 1944, giunto ad Auschwitz il 6 febbraio: su quel treno viaggiano 605 persone; 128 superano la selezione. Alla fine del conflitto, soltanto 28 persone di quel convoglio sono sopravvissute.

Corrispondenza fra Prefettura e Questura di Verona e il Comune di Caprino riguardante gli ebrei provenienti dalla Dalmazia e dal Montenegro costretti a risiedere in quella località (Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5).

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DOPO L’8 SETTEMBRE: STORIE DIVERSE

doPo L’8 sEttEmbrE 1943 la vita di ogni ebreo italiano inizia a dipendere sempre più da fattori esterni, difficilmente calcola-bili e prevedibili. Gli ebrei faticano a rendersi conto del pericolo che li sovrasta. Sono increduli e impreparati di fronte agli eventi che incalzano. Per tutti diventa vitale l’appoggio e la solidarietà di quella popolazione che aveva accolto con sostanziale indiffe-renza le leggi razziali e che adesso può determinare, col proprio comportamento, la salvezza o la condanna. Alcuni esempi con-creti danno conto delle scelte e degli esiti possibili.

Lina Arianna Jenna: l’incredulità di fronte al maleLina Arianna Jenna era una poetessa e scultrice veronese. Era sorella di un noto avvocato cittadino, Ruggero Jenna, e viveva col padre anziano. Agli amici che le consigliavano di lasciare la città per mettersi in salvo, rispondeva: «Perché mi dovrebbero arrestare? Non ho mai fatto male a nessuno.» Poco dopo la mor-te del padre, nel giugno del 1944, viene arrestata e, dopo una breve permanenza nelle prigioni del forte San Leonardo a Vero-na e nel campo di concentramento di Fossoli, viene deportata ad Auschwitz, da cui non fa ritorno.

Mafalda Pavia: la salvezza grazie a don CalabriaMafalda Pavia era originaria di Milano, ma veronese d’adozio-ne. Laureata in medicina, dopo aver ottenuto la specializzazione in Clinica pediatrica inizia a lavorare a Verona presso l’Ospedale Infantile Alessandri. Nel 1935 ottiene la libera docenza in Cli-nica pediatrica. A causa delle leggi razziali, nel febbraio 1939 viene sospesa dal servizio ed estromessa dall’Ospedale Civile Maggiore di Borgo Trento. Quando giunge l’ordine di polizia n. 5 del 30 novembre 1943, che dispone l’avvio in campi di con-centramento di tutti gli ebrei, Mafalda si rivolge a don Calabria, che la invia come novizia in un convento a Roncà, dove rimane nascosta sino alla fine della guerra.

La famiglia Reichenbach: la salvezza «comperata»Molti ebrei veronesi cercano di nascondersi in campagna o sui mon-ti. Alcuni cercano di fuggire in Svizzera e fra coloro che riescono a trovarvi la salvezza vi è la famiglia di Attilio Reichenbach, con la mo-glie Marcella Jenna (sorella di Lina Arianna) e i figli Giangiacomo e Giancarlo. Dopo la promulgazione delle leggi razziali, i Reichenbach si rifugiano ad Erbezzo, dove vengono informati dei movimenti dei tedeschi dalla loro tata ebrea, tedesca anch’essa. Quando la situa-

A sinistra: Lina Arianna Jenna (Verona, Archivio privato).A destra: Mafalda Pavia (riproduzione dal libro di M.P. Pelloso, L. Piovan, Shalòm Beatrice, Editrice AVE, Roma 2000).

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zione si aggrava, spariscono tutti e quattro da Erbezzo durante una partita di calcio in cui giocano entrambi i ragazzi. Con l’aiuto di un collega di Attilio, attraverso gli istituti don Bosco di Verona e Mila-no, riescono ad arrivare in un villaggio vicino alla frontiera. Per giu-stificare la presenza di tante persone presenti per l’espatrio viene organizzato un finto matrimonio, con musica fino alle quattro del mattino. Nella notte, i Reichenbach riescono a passare attraverso un buco nella rete. Il padre aspetta che tutta la famiglia sia passata prima di pagare la cifra pattuita: 10.000 a testa.

I Löwenthal: meglio la morte che il viaggio «per ignota destinazione»La famiglia di tipografi berlinesi Löwenthal lascia la Germania nel 1933. Dopo qualche anno di permanenza a Roma, nel 1938 i Löwenthal si trasferiscono a Verona, dove la figlia Brigitte en-tra in contatto con l’ambiente artistico veronese e conosce il suo futuro marito, lo scultore Berto Zampieri. Licenziato a seguito delle leggi razziali, Löwenthal continua a lavorare da casa, sti-pendiato di nascosto dal suo datore di lavoro – l’editore Monda-dori – anche dopo l’8 settembre, quando la famiglia si rifugia a Marcemigo di Tregnago. Il 28 febbraio 1945 un rastrellamento della Guardia Civica alla ricerca proprio di Zampieri, ferito du-rante l’assalto agli Scalzi, si avvicina al rifugio. Piuttosto che farsi catturare, i signori Löwenthal si uccidono con una forte dose di sonnifero. La figlia e Zampieri vengono arrestati e trattenuti nel-le carceri vicino al Teatro Romano fino alla fine della guerra.

La famiglia del dottor Toledano: la solidarietà che salvaGli ebrei che hanno trovato rifugio fuori città, in provincia, na-scosti da parenti o amici, sono sottoposti al costante pericolo di essere scoperti e denunciati. Alcuni sono fortunati. La famiglia del dottor Toledano, per esempio, si trasferisce nel piccolo paese di San Giorgio Ingannapoltron, sulle colline della Valpolicella, dove trova la solidarietà di tutti gli abitanti del luogo. Avvisati per tempo di un imminente rastrellamento, i membri della fa-miglia vengono aiutati a nascondersi in una cisterna d’acqua e sfuggire così alla cattura e alla deportazione.

Ezio Volterra: la delazione che condanna a morteIn Valpolicella cerca rifugio anche Ezio Volterra, un commercian-te di vestiti di Verona, che si stabilisce con la famiglia nella villa di un amico a Novare di Arbizzano. Quando giunge la voce che la famiglia è ricercata dai fascisti, Ezio si separa dalla moglie – cattolica – e dai figli, che vengono ospitati a Negrar dall’avvocato Beghini. Lo stratagemma non ha successo. Qualcuno li tradisce, in cambio di un compenso di 10.000 lire. Quando Ezio vede la figlia e la nipotina di pochi mesi trascinate via dalle SS, decide di consegnarsi spontaneamente. È il 4 aprile 1944. Arrestato, viene deportato ad Auschwitz, dove muore la sera stessa del suo arrivo, il 6 agosto 1944.

A sinistra: la famiglia di Attilio Reichenbach, con la moglie Marcella Jenna e i figli Giangiacomo e Giancarlo (Verona, Archivio privato). A destra: dal diario della pittrice ebrea polacca Margherita Pollak Gronich: la fuga in Svizzera (Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondo Ivrr, b. 5).

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GLI EBREI E LA RESISTENZA

doPo LE LEggi razziaLi molti ebrei adottano forme di resistenza civile attiva, prestan-do assistenza alle migliaia di profughi ebrei che cercano rifugio in Italia per l’espatrio in paesi neutrali. Questa attività continua clandestinamente anche dopo l’8 settembre, con la distribuzione di aiuti economici e carte di identità false ai correligionari perseguitati.Circa un migliaio sono gli ebrei che scelgono di impegnarsi direttamente nella Resi-stenza armata contro i nazifascisti. La minoranza ebraica italiana ha dato alla Resistenza un contributo di grande valore, che invalida lo stereotipo dell’ebreo «passivo» di fronte all’oppressione totalitaria. Fra i combattenti ebrei partigiani si contano novantasette ca-duti, tra cui la medaglia d’oro al valor militare Rita Rosani.

rita rosaniDi Rita Rosani, partigiana morta durante un’azione di combattimento, si sa abbastanza poco. Nata a Trieste nel 1920, figlia unica di genitori di origine cecoslovacca, Rita è maestra di scuola elementare. Dopo l’8 settembre del 1943 decide di reagire alle violenze e ai sopru-si dei fascisti, partecipando alla lotta clandesti-na di Resistenza. Arriva a Verona nel febbraio del 1944 ed entra a far parte della formazione Aquila, legata alla brigata Pasubio, prendendo parte a varie azioni. Il 17 settembre del 1944, sul monte Comun di Negrar, la sua formazione viene sorpresa da un rastrellamento dei nazi-fascisti. I partigiani ingaggiano uno scontro a fuoco, ma presto sono costretti a ritirarsi. Du-rante il combattimento vengono colpiti Rita Rosani e Dino Degani. Altri tre partigiani risul-tano dispersi. Rita Rosani è l’unica donna fra le cinque medaglie d’oro conferite a ebrei parti-giani. Sepolta al cimitero ebraico di Verona, la sua figura è ricordata da una targa sulla faccia-ta della sinagoga. A suo nome sono state inti-tolate due scuole veronesi e alcune strade nei comuni di Trieste, Verona, Grezzana e Negrar. Presso il cippo che ricorda il luogo del rastrel-lamento sul monte Comun si tiene ogni anno una cerimonia commemorativa.

In alto: la targa apposta sulla facciata della sinagoga dalla Comunità ebraica veronese in ricordo di Rita Rosani e un suo ritratto fotografico (Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, foto F_048494).

Un’immagine che ricorda l’appartenenza di Rita Rosani alla Banda dell’Aquila (Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, foto F_035806).3 giugno 1945: la salma di Rita Rosani viene trasferita dal cimitero di Alcenago a quello ebraico di Verona. Il corteo passa da piazza Bra (Civico Museo del Risorgimento e Sacrario Oberdan di Trieste, foto 48479).

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il ritorno e la memoria

nELL’aPriLE dEL 1945, doPo La LibErazionE, gli ebrei superstiti cominciano a guar-darsi attorno e a cercare di riconoscersi. Lentamente tornano a casa e rimettono insieme persone e cose. Sono tristi inventari. A Verona si ricostituisce la Comunità ebraica. Su un quadernetto la signora Rossana Forti comincia ad annotare nomi e date. Tra i nomi ci so-no anche quelli di coloro che sono stati portati via dai nazisti: di loro non si conosce anco-ra la sorte atroce. Si continua a immaginarli vivi, probabilmente ad aspettarli. Quelli che tornano portano cicatrici che non si possono più dimenticare. Ma tornano. Con pazienza iniziano a tessere il filo di una dolorosa identità. Oggi gli ebrei a Verona sono un centina-io. Di certo un numero molto piccolo rispetto al passato, eppure una presenza rilevante e ricca per la storia della città di Verona.

Il monumento ai deportati ebrei veronesi, opera dell’architetto Fabrizio Rossini, inaugurato il 27 gennaio 2004 al Cimitero ebraico di Verona.A fianco: particolare del monumento, con l’elenco di tutti gli ebrei vittime della deportazione dalla provincia di Verona; elenco dei nomi delle trenta vittime iscritte alla Comunità ebraica di Verona (Comunità ebraica di Verona).