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VITA DI BORGATA

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Alla fine degli Sessanta (1968) un giovane prete, don Roberto Sardelli, fresco di seminario, formatosi poi alla scuola di don Milani, si è battuto per il riscatto esistenziale e morale dei baraccati di Roma. Coerente con la sua scelta di vita decise di andare a vivere nelle baracche vicino all’Acquedotto Felice proprio perché tra i baraccati, i suoi veri parrocchiani, più autentica sentiva la sua missione: don Roberto abbandonò ogni tipo di copertura clericale, ogni privilegio, e testimoniò una condivisione della loro esistenza, delle loro incertezze, delle loro speranze, delle loro lotte. Scrive don Sardelli “occorreva aprire una pagina completamente nuova che restituisse dignità alla scelta di un prete e dignità alle persone cui egli si rivolgeva” e “incidere su una coscienza narcotizzata dallo stigma dell’esclusione. Ridestare dal sonno la coscienza e condurla a mostrare con orgoglio quello che si era nella realtà e a non nascondersi umiliati, coperti di vergogna”.

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traversamenti | 03

collana diretta da Anna Chiriatti

Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie,passioni, percorsi, progetti, memorie.

Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, de-sideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti eincanti di realtà.

Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Inda-gano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali.

Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi,oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri.

Sono tensioni di futuro.Traversamenti.

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Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel e Fax 0832 801528

www.kurumuny.it – [email protected]

ISBN 978-88-95161-92-1

Questo libro è stato pubblicato in prima edizione

nel 1980 da Nuova Guaraldi Editrice

Chiuso in stampa nel mese di febbraio 2013

© Edizioni Kurumuny – 2013

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Certo è più facile limitarsi a dire, come anche troppo spesso si sente: questo bambino non è intelligente.

Non è giusto. È anzi lo sbaglio supremo

che si può fare con un uomo, l’ingiustizia massima che si può usargli,

il metterlo con tanta disinvoltura nella categoria delle bestie,

senza aver prima chiamato a raccoltatutta l’iniziativa di cui si può essere capaci,

tutto il calore umano che uno può avere, per restituire alla vita

queste sue parti gelate.

Émile-Auguste CHARTIER, detto ALAIN

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A Filomena, Mariacarmine, Antonia e Luciano

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11 Introduzione di Enrico Fontana

19 Prefazione 29 Presentazione 31 Nasce una scuola 41 La scuola è laica 48 Contrasti 59 In campagna 65 Di quel securo il fulmine 69 Una strana Via Crucis 72 Scriviamo al sindaco di Roma 92 Il costo della scelta 102 Scuola e lotta: prima occupazione 115 Maria 125 I ragazzi viaggiano 137 Le pecore di Belisario 144 Nun tengo più gnente, che te devo dà? 149 Lettera ai cristiani di Roma 161 I ragazzi scrivono la cronaca 169 Spieghiamo il sesso 173 Ursa 181 Don Paolo e l’elettricità 189 Il lavoro

Indice

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198 Muore Luciano 202 Leggiamo insieme 207 Non tacere 217 Tentano di chiuderci nel ghetto 221 Artemio 228 Crisi della scuola 233 Sul piazzale delle coppie 240 L’udienza 244 Si parte 247 Dalle case alle baracche

253 Postfazione Educare non è come scrivere sulla sabbia

261 Appendice I 272 Appendice II

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IntroduzioneEnrico Fontana*

Appena ho finito di leggere Vita di borgata, in questasua seconda edizione, mi è venuta in mente una fraserintracciata da don Luigi Ciotti nei diari di Rosario Liva-tino, il giovane magistrato ucciso dalla Stidda agrigen-tina il 21 settembre del 1990. Alla fine, scriveva Livatino,«non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili».Lui, giudice ragazzino, come veniva definito in manieradispregiativa, con una fortissima fede religiosa, sapevaperfettamente quale fosse la differenza tra una formalee ipocrita adesione ai precetti della religione cattolica el’interpretazione autentica, nella vita di tutti i giorni,degli insegnamenti evangelici. Non era una questione di“credo” ma, appunto, di “credibilità”. E basta scorrere lepagine di questo libro per essere trascinati dai raccontie dalle riflessioni di don Roberto Sardelli, nella sua per-sonale, faticosa ed entusiasmante ricerca di credibilità.

Lui, giovane sacerdote fresco di seminario, scopre su-bito la differenza tra le parrocchie ambite, quelle del cen-tro di Roma, e quelle che era meglio evitare, nelleperiferie degli anni Sessanta. E messo alla prova, sceglieil luogo in cui sente più autentica la sua missione: il ba-raccamento, come si chiamava allora, dell’AcquedottoFelice. Lì, tra quelle baracche, vivendo la stessa esi-stenza, dura e difficile, di chi le abitava tra la fine deglianni Sessanta e i primi anni Settanta, don Roberto co-struisce, tra mille difficoltà e altrettante contraddizioni,che non nasconde mai neppure a se stesso, un’espe-rienza straordinaria di pedagogia popolare, come l’ha de-

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scritta qualcuno, ma che riletta oggi assume più il ca-rattere di una vera e propria pedagogia politica, che fa-rebbe bene a tutti coloro che già svolgono, o intendonoassumere, ruoli pubblici.

Non c’è nulla di scontato in questa esperienza, rac-contata come biografia personale e collettiva allo stessotempo. Non è scontata la dogmatica classificazione a si-nistra, magari rivoluzionaria, dei valori e dei metodi didon Sardelli, a cominciare dalla Scuola 725, dal numerocivico della baracca di nove metri quadrati che la ospi-tava, nata tumultuosamente («all’appuntamento si pre-sentarono circa 50 ragazzi di tutte le classi, dalleelementari alle medie») il «14 ottobre del 1968 alle ore15,30». Non è scontato che un sacerdote della “libera-zione” bacchetti senza mezzi termini l’estremismo fine ase stesso, di quei giovani che andavano a trovarlo pro-ponendogli lotte ancora più aspre, parole ancora piùforti e a cui chiedeva dove sarebbero stati e cosa avreb-bero fatto il giorno dopo e quello dopo ancora. Non èscontata la reazione dei baraccati, dei giovani che fre-quentano la 725 e delle loro famiglie, che oscillano travoglia di partecipare e disillusione.

Quella in cui si viene immersi leggendo Vita di bor-

gata è una realtà che ha molto da insegnare ancora oggi,nonostante siano passati oltre trent’anni dalla suaprima edizione e dalla demolizione delle baracche del-l’Acquedotto Felice. Un esito nient’affatto scontato,anche nelle sue conseguenze, tra l’entusiasmo di averefinalmente una casa degna di questo nome e l’ansia disentirsi deportati in un quartiere, la Nuova Ostia, dovemanca tutto, a cominciare dall’umanità.

Una storia, quella della lotta di liberazione dell’Acque-dotto Felice, che «Paese Sera» in quegli anni ha raccon-

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tato molto da vicino, sostenendo l’impegno di don Sar-delli e dei suoi giovani, con una cronaca rigorosa, at-tenta ma mai neutrale. A quegli articoli si fa riferimentodiverse volte nel libro, come quando viene raccontata, il15 dicembre del 1969, la lettera al sindaco, destinata adiventare famosa anche oltre confine: «Si tratta di unadenuncia esplosiva dello stato di abbandono morale ol-treché fisico, e anche di un messaggio socio-religioso einfine di un monito», scrive «Paese Sera». O quando, il 4marzo 1972, il quotidiano pubblica il testo integrale diun’altra lettera, scritta da 13 sacerdoti di periferia e ri-volta ai cristiani di Roma, presentandola con questanota: «Queste pagine sono un atto di accusa implacabilecondotto sulla realtà di Roma e sul filo dello spirito delVangelo. Le proposte che questi sacerdoti avanzano nonsono utopiche, specie là dove prospettano i cambiamentida introdurre nel presente assetto sociale. Se le leggi –essi dicono – non consentono una soluzione dei pro-blemi, se ne facciano delle altre. L’uomo è superiore allalegge. Il testo è tanto più impressionante in quanto vienedopo l’appello della CEI. Lo offriamo integrale alla let-tura, convinti che esso rappresenti un documento im-portante del nostro tempo».

Non è un caso, insomma, che il «Nuovo Paese Sera»,tornato a vivere sotto forma di quotidiano on line e dimensile, abbia chiesto a don Roberto Sardelli di scrivereuna rubrica, “Terra e cielo”, in cui ogni mese vengonosollecitate riflessioni, rilanciate denunce, approfonditequestioni che interrogano credenti e non, da quelle sullegerarchie ecclesiastiche alle responsabilità dei partiti edella classe politica romana. Senza sconti, com’è semprestato nello stile di don Sardelli, sin dai primi mesi dellasua missione tra i baraccati di Roma. A chi avesse dubbi

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sulla genuinità di questo impegno consiglio di leggere lepagine dedicate alla critica, radicale, dell’elemosina equelle, divertenti, sulla ritirata dei salesiani che avevanoscelto l’Acquedotto per una Via Crucis letteralmentestravolta da don Roberto e dai suoi ragazzi.

Il profilo di don Sardelli emerge con chiarezza anchequando racconta dei suoi burrascosi incontri con le ge-rarchie ecclesiastiche, dal parroco di allora di San Poli-carpo al vescovo Canestri («Voi non siete i ministri delcoraggio e del rischio. Voi non amate la luce, ma agitenel buio dei vostri templi. Voi siete i ministri del sospettoe non della franchezza»). Ma è significativa anche la sem-plicità con cui è capace di descrivere un altro incontro:quello con il papa Paolo VI a cui consegna la secondalettera ai cristiani di Roma, scritta insieme ad altri preticome lui sui mali di Roma, a cominciare, già allora, dallaspeculazione edilizia. Ricorda don Sardelli di aver dettoal papa che «bisogna fare qualcosa, compiere dei gestidi credibilità. Una città e una chiesa incapaci di farsi ca-rico delle speranze dei poveri, sono come un uccellosenza le ali, un mostro».

L’obiettivo, ambizioso da raggiungere, era quello di«incidere su una coscienza narcotizzata dallo stigmadell’esclusione. Ridestare dal sonno la coscienza e con-durla a mostrare con orgoglio quello che si era nella re-altà e non a nascondersi umiliati, coperti di vergogna»,come Cesidio, uno dei primi ragazzini incontrati da donRoberto nella parrocchia di San Policarpo, a Cinecittà.A questi giovani, tra mille difficoltà, era rivolta una pro-posta scolastica tutta particolare, profondamente ispi-rata dall’esperienza di don Milani e della sua scuola diBibbiena, che don Sardelli andò a visitare e che è ancoraoggi il suo modello di riferimento: «Crediamo che questo

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sia il compito di una scuola: creare una comunità dipersone e non individui isolati; educare al servizio deglialtri e non all’arrembaggio dei primi posti».

Lasciata la parrocchia, o meglio sollecitato ad allon-tanarsi, don Sardelli decide di andare a vivere lì, tra ibaraccati, i suoi autentici parrocchiani, quella che saràanche la sua personale liberazione: «La ripulitura del-l’Acquedotto continuava: non più luogo di scarico dellapietà, ma luogo di lotta e di cultura (…). Imparavamo aspogliarci del vestito che ci avevano messo addosso diessere portatori di bisogni e indossammo l’abito di por-tatori di diritti». Vivrà una stagione intensa di movimentidi lotta per la casa, occupazioni, manifestazioni, carichedella polizia e snervanti trattative in Campidoglio.

Oggi quelle baracche dove vivevano cittadini italiani,in buona parte abruzzesi di origine, sono state sostituitealtrove da altre baracche, dove vivono altri cittadini ita-liani ma di un’etnia diversa: i rom. E dalla parvenza dilegalità delle murature realizzate tra gli archi dell’Acque-dotto Felice si è passati all’illegalità da sgomberare dellelamiere messe insieme a ridosso delle sponde dell’Anieneo nei vuoti urbani, negli spazi abbandonati al degrado,da ripulire senza troppi scrupoli.

Se possibile, è cresciuta ancora di più la distanza tra icittadini di serie A, quelli che vivono nelle loro rispettabiliabitazioni, com’erano quelle di via Lemonia a ridosso dellabaraccopoli dell’Acquedotto, e i cittadini di serie B, invisibilifino a quando non diventano fastidiosi. Così come sonoancora più lontane di ieri dal centro della Capitale le nuoveborgate, quelle oltre il Grande raccordo anulare (Gra), dovealle baracche si sono sostituite le case, magari di proprietà,ma continua a mancare sempre tutto: dai servizi socialialla cultura, dai luoghi d’incontro ai mezzi pubblici.

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Sono 57 le nuove borgate romane, ex abusive, cre-sciute oltre il Gra, secondo uno studio, “Periferie dimezzo”, realizzato nel 2010 dall’Associazione italianacasa e dall’Unione borgate. Qui vivono oltre 330 milaabitanti, «poveri no, esclusi sì», scrivono i ricercatori.Che non vogliono andare via ma chiedono trasporti pub-blici, parcheggi, servizi. E soprattutto vorrebbero vederequelle ex borgate abusive diventare finalmente quartieri,con luoghi d’incontro e di svago, negozi, scuole, servizisociali, insomma con gli stessi standard del centro.

Nella lettera al sindaco scritta nel 1970 dai ragazzidella 725 la realtà che veniva descritta era drammatica-mente diversa: «Il luogo dove viviamo è un inferno. L’ac-qua nessuno può averla in casa. La luce illumina soloun quarto dell’Acquedotto (…). L’umidità ci tiene com-pagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. Ipozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosid-dette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ognigenere di immondizie a cento metri dalle baracche». Maanche nelle nuove borgate, dove la casa è spesso di pro-prietà e si respira quasi sempre aria buona, è la consa-pevolezza comune che deve fare uno scatto: «Se nelleperiferie non si formeranno interessi collettivi, non ci sa-ranno prospettive per migliorare la qualità della vita»,spiega al mensile «Paese Sera» (numero 1, giugno 2011),Paolo Iannini, socioeconomista del gruppo che ha curatola ricerca.

In fondo è lo stesso percorso avviato tra i baraccatidell’Acquedotto Felice da don Roberto per uscire dallanarcosi dell’individualismo e cercare strade diverse, fattedi condivisione e corresponsabilità. Immerso nelle nuoverealtà della Capitale del Terzo millennio e nelle sue con-traddizioni, don Roberto Sardelli è sempre impegnato a

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costruire la propria credibilità di sacerdote con la stessapassione di allora. Tanto che sembrano scritte oggi leparole che lui stesso dedica, più di trent’anni fa, alla fa-ticosa costruzione di una speranza e di un progetto dicambiamento per Roma, e non solo: «O noi nelle scuole,nelle sedi dei partiti e dei sindacati, nei centri religiosi esociali, in un grande sforzo comune riusciremo a elabo-rare un progetto per il futuro o dovremo piegarci davantial dominio dell’omertà, della sfiducia, della banalità edel grigiore. Dobbiamo ricomporre i frammenti dispersidella fiducia». Rileggere oggi Vita di borgata aiuta sen-z’altro a farlo. A me è servito sicuramente. Buona letturaa tutti.

Roma, 15 novembre 2012

*Direttore del «Nuovo Paese Sera»

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Prefazione

Dal seminario alla scelta passando per don Milani

Fin dagli ultimi anni del seminario, parlo del 1965, miha sempre turbato il fatto che la città fosse consideratacome strutturata su un centro e una periferia. Si parlavadi parrocchie “in” e di parrocchie “aut”. Le prime eranoappetibili, di prestigio perché ben servite dai servizi socialie culturali, perché popolate di gente perbene, dalla bor-ghesia media e alta fino all’aristocrazia. Le seconde, alcontrario, venivano descritte come desolate, abitate dalmalaffare, da lavoratori abbrutiti e... comunisti.

Se qualche seminarista, la domenica, vi si inoltrava, ilsuo impegno, principalmente rivolto ai ragazzi, non an-dava oltre l’organizzazione di partitelle sul campo sportivoparrocchiale, intercalate da lezioncine di un catechismoastratto e nozionistico che evitava accuratamente di farsicarico delle condizioni in cui quei ragazzi vivevano.

Mi sembra ovvio osservare che a questo tipo di tiroci-nio pastorale si dedicassero soprattutto i seminaristimeno portati per lo studio e più portati per la pratica. Sitrattava di una vera e propria manovalanza ecclesiasticapriva di una qualsiasi coscienza dei problemi della peri-feria di una grande città, con un atteggiamento pedago-gico dozzinale e praticone che riduceva l’uomo a unindividuo da attrarre con il giochetto del biliardino perportarlo, dopo, al catechismo.

Si arrivava al punto di escludere dal giochetto i ra-gazzi che non frequentavano la messa. L’oratorio era so-stanzialmente questo.

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Una visione del genere mi apparve subito come para-lizzante e offensiva non solo dei ragazzi stessi, ma anchedella mia dignità di educatore.

Ricordo con angoscia il giorno che, per la prima volta,fui mandato come viceparroco in una parrocchia dellaperiferia ovest di Roma. Il parroco, prima di darmi ilbenvenuto, mi si presentò trasmettendomi gli strumentidel mio ministero: mi mise tra le mani un pallone dicen-domi che i ragazzi potevano giocare tutti i pomeriggidalle ore 16 alle ore 18. Io, esterrefatto, prendendo il pal-lone lo lasciai scivolare per terra. Se il mio impegno erasignificato da quella traditio instrumentorum io non erola persona adatta. Era una visione che istintivamentemi ripugnava, ma, non avendo una soluzione di ricam-bio, tacqui. Mi agitavo interiormente come un pulcinonella stoppa ed ebbi chiara la sensazione che, conti-nuando così, prima o dopo ne sarei rimasto soffocato.

Come uscirne?Non si poteva che partire da quella situazione. Ri-

muoverla non avrebbe risolto l’interrogativo. E decisi dicollocarmi nel solco della ricerca di una risposta.

Occorreva compiere delle scelte e trarne tutte le con-seguenze.

Bisognava smettere di parlare dei poveri come se fos-sero dei vasi vuoti da riempire perché non avevano nullada offrire. Nella migliore delle ipotesi erano consideraticome destinatari della beneficenza elargita dagli appa-gati. Per me si faceva sempre più chiara l’idea che biso-gnava farla finita con catechismi anacronistici intrecciaticon partitelle a pallone e biliardini accompagnati dallaproiezione di squallidi film parrocchiali.

Occorreva aprire una pagina completamente nuovache restituisse dignità alla scelta di un prete e dignità

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alle persone cui egli si rivolgeva. Altro che pallone!La ricerca mi portò a Barbiana del Mugello, dove c’era

un prete che gridava, don Milani, il cui nome non potevaessere pronunciato in un almo seminario dominato dailinguaggi vellutati e perbenisti, dove prevaleva il fascinoe la legge del “rosso serico sacerdotale”.

Andare oltre

Dopo quell’incontro decisi di salire ancora più in altoe mi inoltrai nella grande città come un Giona attraversoNinive, e arrivai nella baraccopoli dell’Acquedotto Felice.

In una baracca di 9 mq aprii la Scuola 725, cosid-detta dal numero civico della baracca.

Ai ragazzi che la riempirono all’inverosimile non pro-posi le facezie del genere parrocchiale che forse si aspet-tavano da me, né catechismi posticci lontani dalla lorocondizione; non detti loro nemmeno il sospetto chestessi lì per fare il proselitismo d’accatto cui erano abi-tuati. Posseduto da un lampo di follia creativa, proposilo studio come leva per uscire da una situazione umi-liante in cui la città del centro li aveva gettati.

Non fu facile, né potevo pretendere che capissero su-bito. Puntai tutto sull’orgoglio, sulla loro potenziale in-telligenza che aveva bisogno di una spinta dall’esternoper potersi manifestare, sul riscatto come conquista enon come elargizione dall’alto. Studio a tempo pieno:non si trattava solo di recuperare gli anni perduti in unascuola pubblica che li considerava ragazzi perduti. Sitrattava di aiutarli a prendere coscienza della situazioneche li aveva discriminati e in cui si trovavano a viverenon per loro scelta. Bisognava passare al contrattacco

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e, da ultimi, superare i primi. Cosa facile a dirsi, ma poi-ché io ne ero convinto non ci restava che osare.

Rendersi conto, giorno per giorno, di ciò che ci acca-deva. Fu questo il mio lavoro più duro, perché mirava aincidere su una coscienza narcotizzata dallo stigmadell’esclusione. Ridestare la coscienza dal sonno e con-durla a mostrare con orgoglio quello che si era nella re-altà e non a nascondersi umiliati, coperti di vergogna.

Tutto questo potetti farlo sulla base della mia op-zione. Abbandonai ogni tipo di copertura clericale, ogniprivilegio, e iniziai a testimoniare una condivisione dellaloro esistenza, delle loro incertezze, delle loro speranze,delle loro lotte per costruire l’exit di cui noi tutti insiemedovevamo essere gli artefici.

La solidarietà, molto avara a questo punto, era labenvenuta, ma sulla base del nostro impegno e della no-stra critica alla città dominante.

Il mondo in una baracca

In quel piccolo, umido e freddo spazio di 9 mq non im-parammo solo a leggere, a scrivere e a far di conto, maogni sera, al lume di una tremolante candela, giornalealla mano imparammo a riflettere su quanto ci accadevaintorno, su quanto accadeva nel mondo ed entrava nelnostro spazio angusto: le fragili mura venivano abbattutee sotto gli archi dell’Acquedotto che ci sovrastava risuo-navano le voci del mondo, della rivolta di Battipaglia, dellasofferenza del Vietnam, dell’I have a dream di Martin Lu-ther King, del Satyagraha del mahatma Gandhi.

Fu una fatica perché bisognava tutti uscire daun’educazione centrata sull’individuale per costruire in

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noi stessi una dimensione dove prevalesse l’afflato col-lettivo.

La causa dell’altro è la mia causa.Le relazioni con gli altri dovevano acquisire un peso

crescente nella nostra formazione e così scoprire la com-ponente pedagogica del nostro parlare e del nostro agire.

Dov’era il maestro? Dov’erano gli alunni? Ognuno di-ventava docente dell’altro.

In un primo momento il mio ruolo fu prevalente, enon poteva essere diversamente in una situazione in cuila cultura dominante aveva giocato pesantemente eaveva creato diffusi stati di apatia e di sfiducia in sestessi. Sapevo bene che l’ideale sarebbe stato che gli in-teressati avessero loro stessi organizzato un percorsoculturale e avessero svolto il ruolo sociale e politico chea loro spettava. Ma nel contempo vedevo che un ruolonon poteva essere negato alla solidarietà e alla condivi-sione che veniva da fuori. Spesso il migrante viene a tro-varsi in una situazione caratterizzata dall’estremodisagio fatto di carenze varie, di difficoltà a esprimersi,di assenza di strumenti culturali per potersi fare ascol-tare nei suoi diritti. A questo punto hanno bisogno diuno che parli per loro, e qui prende le mosse l’etica deldiscorso di difesa, che sarà valido ed efficace nella mi-sura in cui colui che parla abbia un fondamento etico eagisca con il massimo e trasparente disinteresse. In-somma, l’incontro con il povero, nell’ambito della pro-posta evangelica, non lascia inalterate le situazionipersonali e strutturali, ma la sua alta carica etica ma-nifesta un mutamento reale che non consente di esau-rire tutto nella pratica della beneficenza, ma interroga ilpalazzo e le sue strutture piramidali e oppressive. Ed èqui che per me nascevano difficoltà con le gerarchie ec-

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clesiastiche che mi invitavano a occuparmi dei baraccatie lasciare ad altri, ai vescovi, il problema della chiesa.Io non mi consideravo in missione, bensì testimone diuna scelta. In questa prospettiva l’ambiente che mi cir-condava, a sua volta, mi diventava maestro, imparavonuovi linguaggi, creava in me nuove visioni e nuove ge-rarchie di valori rivoluzionando le precedenti. Non po-tevo sfuggire a questa stretta. Dovevo uscire dal guscioe, nudo, inoltrarmi sulla strada degli altri.

È qui, nello spazio della scuola, che scoprivamoquanto, oltre i linguaggi razionali, avesse un ruolol’espressione artistica che ci aiutava, attraverso vie sco-nosciute, a leggere la realtà personale e sociale. Dise-gnando la triste adolescenza di Malcolm X («Quando miamadre era incinta di me», così iniziava la sua autobiogra-fia) e la sua faticosa ricerca e ascesa, capivamo la nostracondizione, imparavamo a liberarci dello stigma che cimortificava e ci isolava, imparavamo a spogliarci del ve-stito di portatori di bisogni, che ci avevano messo ad-dosso, e a indossare l’abito di portatori di diritti.

Per la prima volta, da un vecchio registratore Gelosopotemmo ascoltare la Sesta Sinfonia di Beethoven. Fuin agosto. Ci trovavamo tutti in campagna per un interomese, e sotto un grande leccio, tra una discussione el’altra, introdussi storicamente la Sesta. Per i ragazzi chevenivano prevalentemente da una cultura e da un am-biente rurale dominato da sconfinati boschi e frequen-tato da pastori, il sentir tradotta in musica la loroesperienza esistenziale fu una scoperta meravigliosa cheallargava le nostre conoscenze verso spazi impensabili.Mentre ascoltavamo Il temporale e successivamentel’Ecco il sereno!, un passerotto nascosto tra il fogliamedel leccio cantò come per unirsi al nostro godimento. In

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quel momento ci rammaricammo di non avere a dispo-sizione un registratore per immortalare l’evento che Bee-thoven non aveva previsto e che la natura ci donava.

Svolgere tutto questo lavoro in un ambiente degra-dato moltiplicava le normali difficoltà, ma io non desi-stevo. Ero convinto che le aspettative stimolassero neiragazzi il risveglio di energie sopite: gli ultimi devono di-ventar primi, mi ripetevo, devono essere loro a prenderela parola.

Lettera al sindaco

La Lettera al sindaco fu il primo documento di scrit-tura collettivo elaborato in un luogo famigerato che, fi-nalmente, alzava il capo e mostrava di essere quello cheera, non più quello che altri volevano che noi fossimo,violentando la nostra identità, congelandoci nel loro cli-ché di comodo.

Da quel documento, che fu tradotto in varie lingue,la lotta per la casa prese nuovo vigore e di lì a qualcheanno avrebbe provocato un terremoto politico che maisi sarebbe verificato senza il nostro apporto.

Lo stesso convegno sui mali di Roma, organizzatodalla chiesa romana, aveva nella lettera le sue prime ra-dici.

Oggi

Sono passati quarant’anni, e se allora ci trovammo avivere nel pieno della società dei consumi che erodevala nostra coscienza, oggi ci troviamo a vivere le prime

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fasi del suo drammatico crepuscolo. Le vetrine si vannospegnendo.

In uno splendido giorno di maggio del 2007, 39 annidopo il primo incontro, ci siamo rivisti tutti all’Acque-dotto Felice, ora chiamato Parco degli Acquedotti.

Non ci siamo limitati a ricordare, ma partendo dai ri-cordi le nostre osservazioni si sono allargate all’oggi dellacittà. Usando gli strumenti e il metodo di allora abbiamoguardato la città, attraversata da una gravissima crisiculturale e sociale.

Lo scambio di vedute, in quel giorno, si snodava cosìlinearmente che a un certo punto, Fabio Grimaldi, il re-gista documentarista di Non tacere, che ci seguiva, cichiese se per caso non ci fossimo incontrati la sera pre-cedente.

–No!– è stata la nostra risposta –Ci siamo visti 39anni fa!

Riproporre il percorso della Scuola 725 è certamentereso più difficoltoso, ma non meno urgente. Allora noisperavamo, oggi si dispera. Ma proprio ora occorronolampi di follia creativa. Purtroppo noto in giro troppebraccia penzoloni e altre pronte a rattoppare i guasti iso-lati e moltiplicati dalla crisi. Si dirà: meglio i rattoppi chenulla, e ci consoliamo. Ma se anche noi, in quel tempo,ci fossimo rassegnati al rattoppo, e di motivi ce n’erano,oggi non potremmo raccontare la portata del nostro im-pegno. Io non potrei che parlare in prima persona sin-golare, invece mi esprimo in prima persona pluraleperché fu un popolo a scrivere quella pagina dall’infernodelle baracche, da dove sembrava non potesse nascerenulla di buono.

Addormentati dalla cultura amnestica, non siamo piùin grado di attingere dal “fu” e di raccogliere quel filo

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rosso che abbiamo lasciato cadere, ma che solo ci per-metterebbe di ritrovare la follia là dove, impaurita, si èannidata. Ci resta difficile capire che la profezia ha il suoterreno di cultura nella privazione.

Insomma viviamo un tempo triste, ma è anche l’oc-casione buona per costruire, e la scuola resta lo spazioprincipe per dare radici al progetto. È un’avventura af-fascinante che sarebbe bene non evitare.

Ottobre 2012

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Presentazione

Nell’anno 1585, appena eletto al pontificato, Sisto Videò un grandioso progetto urbanistico che prevedeva,tra l’altro, lo sviluppo di Roma attorno alla zona che oggicirconda piazza di Spagna.

Per alimentare di acqua questa zona restaurò l’anticoacquedotto di Alessandro Severo (226 d.C.) dandogli ilproprio nome di battesimo (da cardinale si chiamava Fe-lice Peretti).

Così lo stesso acquedotto che, in alcune zone diRoma, è chiamato ancora “Alessandrino”, in altre, spe-cialmente periferiche, tra l’Appia antica e la Tuscolana,è meglio conosciuto come “Felice”, e Felice è chiamatal’acqua che esso tuttora trasporta.

Sotto i suoi archi, tra il 1936 e il 1973, 650 famigliecostruirono altrettante baracche e lì vissero una storiala cui ultima parte (1968-1973) è raccontata in questolibro.

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Nasce una scuola

Far scuola tra le baracche

In una domenica dell’ottobre romano del 1968, fui in-caricato dal parroco di S. Policarpo di celebrare il matri-monio di persone a me sconosciute. Prima di cominciareil rito, mi rivolsi ai due chierichetti che si preparavanoad accompagnarmi, e chiesi loro:

–Dove abitate?Dopo essersi guardati per un istante in viso, uno di

loro, esitante e con voce appena percettibile, rispose: –All’Acquedotto Felice, alle baracche.–E come ti chiami?–Adolfo.Poi, rivolgendomi all’altro: –E tu, come ti chiami?–Cesidio.–Come? –Cesidio.Mi era talmente nuovo il nome che dovetti farmelo ri-

petere due volte. Erano, questi, due ragazzi timidissimi e talmente

avari di parole che mi scoraggiarono a continuare il di-scorso. Dopo la messa riuscii ancora a sapere che Adolfonon andava più a scuola e, a dodici anni, s’era fermatoalla quarta elementare. Ora lavorava a “Vini e oli”. Cesi-dio invece frequentava la quarta ginnasio.

–Sareste contenti se venissi a far scuola tra di voi? Mi risposero con un fioco sì, dettato più dalla scon-

venienza di dire no a uno che passava per superiore che

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dalla convinzione. La proposta della scuola non è chefosse scaturita improvvisamente dalle mie labbra. Eraun’idea che curavo da molto tempo. Ora, per la primavolta, mi trovavo a formularla davanti a due ragazzi.

Mi accorsi che il breve e scarno incontro con lorodava alla mia idea due volti. Si trattava di due volti tipi-camente meridionali: Adolfo già segnato dal lavoro pre-coce, Cesidio, ancor fine nei tratti, rifletteva negli occhiuna tristezza incarnata e rassegnata.

Primi collaboratori

Qualche giorno prima avevo incontrato Enzo, un gio-vane sui vent’anni, capo di un gruppo giovanile parroc-chiale. Egli aveva scelto le baracche quale luogo del suoimpegno socio-cristiano. Tranne Enzo, nessuno degli altrigiovani della parrocchia intendeva il ruolo di una scuolatra i baraccati. E io cercavo giovani che non si fossero per-duti in inutili discussioni da liceali presuntuosi. In questafase di approccio, non avevo bisogno di collaboratori chepretendessero di discutere ogni mio pensiero e ogni miaintuizione, ma di gente generosa, pronta a giocare sullafiducia e non sul sospetto, disponibile ad approfondire ea verificare e non a far chiacchiere da intellettualini.

Il metro che avrebbe dovuto misurare noi tutti eranoi ragazzi del borghetto.

Numero civico 725

Questi giovani, intanto, avevano comprato una ba-racca al numero 725. Misurava tre metri per tre e cin-

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quanta. Aveva una porta e, sullo stesso lato, una piccolafinestra con un vetro smerigliato. La baracca non eraalta più di due metri. Fu ripulita e imbiancata, ma cirendemmo subito conto della sua insufficienza ad acco-gliere insieme alunni e maestri, quindi ci mettemmo allaricerca di un altro ambiente.

Natalino, al numero 601, ci offrì una sua baracca ab-bandonata che cominciammo subito a ripulire. Eralunga e stretta, buia e terribilmente umida, senza fine-stre e con una porticina sgangherata che, per entrarci,bisognava piegarsi. Avrebbe potuto essere benissimouna grotta per la coltivazione dei funghi.

Ma non c’erano altre possibilità di scelta e dovemmofare di necessità virtù.

Vi sistemammo una vecchia stufa a legna. Per arre-dare didatticamente questi ambienti prendemmo dallaparrocchia dei tavoli, delle panche e una lavagna inuti-lizzati. Con l’aiuto di alcuni ragazzi più grandi siste-mammo tutta questa ricchezza nel miglior modopossibile. La lavagna la inchiodammo a una parete dellabaracca 725; alla 601, con tutta quell’oscurità non sa-rebbe servita.

Il 14 ottobre del 1968, alle ore 15,30 cominciammo afar scuola. All’appuntamento si presentarono circa 50ragazzi di tutte le classi, dalle elementari alle medie. Nonsapevo dove mettere le mani e mi lasciavo trascinare unpo’ dalla logica dei fatti. Ogni piano che avevo concor-dato con i giovani saltava senza riguardo e pietà alcuna.

La volontà non mancava, ma c’era anche una grandeconfusione. Dividemmo i ragazzi tra i due ambienti. Ionon facevo altro che passare da una baracca all’altra pervedere come procedevano le cose. Mi resi conto che nonpotevano procedere.

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Il problema dello spazio ci condizionava e ci innervosivatutti. Accanto a queste difficoltà oggettive, bisognava cal-colarne altre: né i ragazzi né i giovani che li aiutavano ave-vano un’idea di come potesse funzionare una scuola.

I primi, approfittando di trovarsi insieme in unostesso piccolo luogo, scaricavano tutte le tensioni e da-vano libero sfogo alla vivacità senza porsi minimamenteil problema dello studio, della necessità di creare il climaperché si potesse studiare.

Con rare eccezioni, dipendevano totalmente dal gio-vane al loro fianco. Per ogni parola, per ogni rigo, perogni problema, per ogni lettura, avevano bisogno di chie-dere. Qualcuno dei giovani si faceva in quattro per ri-spondere a tutte le domande che si accavallavano l’unaall’altra. Le ragazzette più grandi facevano cerchio in-torno al giovane che, nella loro mente, rappresentava ilmiglior partito disponibile.

Mi fija nun è scema!

Mentre facevo la spoletta tra una baracca e l’altra,verso le 18 mi venne incontro una delle mamme delle ra-gazzine. Mi assalì, con un fiume di parole, ad alta voce:

–A don Robè io mi fìja nun ce la manno più a la scola,aoh, du’ ore per faje fa’ na paggina de bastoni! E che mifija è cretina, e che l’avete presa proprio pe na scema mifija? Annate affanculo, mi fija nun ce la manno più a lascola! A li mortacci loro, aò co’ du’ ore a faje fa na pag-gina de bastoni!

Io, questa benedetta “fija” non la conoscevo. Chiesiche classe frequentasse e mi rispose che faceva la primaelementare. Al che, quasi impaurito, risposi:

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–Ma se non ci capiamo un po’ tra di noi, io solo nonriuscirò a fare nulla. Non vedi che confusione? Non riu-sciamo a seguire tutti, non conosciamo nemmeno ilnome dei ragazzi, se poi ci facciamo venire i nervi nonarriveremo a concludere proprio nulla.

–Don Robè voi parlate bene, ma mi fija nun è scemae io a la scola nun ce la manno più.

Se ne andò dicendo così, forse esasperata e sconfittanelle sue speranze, tra cui non rientravano i “bastoni”.Per un istante rimasi lì, impalato, come chi viene a co-noscenza improvvisa di una sgradevole realtà. Ebbi latentazione di fuggire subito via. Mi frenai, mi superai.

Verso la stessa ora, si dovettero accendere le candeleche avevo portato dalla parrocchia. L’operazione elet-trizzò ancora di più i ragazzi. Non facevano che far scor-rere sui tavoli la cera liquefatta, se ne modellavano dellepalline e se le lanciavano reciprocamente.

Dopo circa due ore di confusione indescrivibile, i piùpiccoli li mandammo a casa. I più grandi non avevanoancora terminato i loro compiti scolastici.

Era chiaro che in quelle condizioni non avremmo rag-giunto nemmeno lo scopo minimo: far svolgere ai ragazzii compiti della scuola di Stato.

Dopo qualche giorno, avendo notato l’assenza di al-cuni ragazzi più grandi, chiesi:

–Perché non sono venuti? –I genitori non vogliono mandarli più perché qui non

si studia– risposero alcuni ragazzini. Capii che la situazione andava presa decisamente in

mano. Lasciarla a se stessa, in attesa che i ragazzi e igiovani avessero compreso, era un rischio che ci avrebbeportato a porre termine all’iniziativa di lì a qualchegiorno.

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Verso le 18,30, con i ragazzi e le ragazze dalla quintaelementare in poi, ci ritrovammo nella baracca 725 cheera la più accogliente. Quando ci fummo pigiati, io misedetti su una sedia sotto la lavagna e cominciai a par-lare.

Forse avrei dovuto cominciare a leggere qualche cosasulla loro vita, ma avrei incontrato le stesse difficoltà.

Forse avrei dovuto far parlare loro, ma l’avrebberofatto? Credo di no. Non esistevano i presupposti per po-terlo fare.

Americani e Viet-cong

Non feci certamente il bilancio della giornata; sarebbestato inutile poiché tutti l’avevano sperimentato.

Era meglio cominciare immediatamente con qualcosadi nuovo, per fare intendere a tutti che una scuola nellebaracche non poteva limitarsi ai compiti della scuola diStato, non poteva essere di serie B perché esistente inun ambiente di serie B.

Proprio in quei giorni infuriava la guerra in Vietnam.Aprii un libro che avevo portato con me, Americani e

Viet-cong. Cominciai a leggere.Non guardavo, né mi interessavano i giovani studenti.Essi possedevano già tutti gli strumenti per capire.Guardavo i ragazzi e mi accorgevo che non seguivano.

Si distraevano tra loro con scempiaggini varie. Avvertivola loro estraneità alla mia lettura. Le parole cadevano inquel piccolo spazio senza che interessassero o venisseroaccolte da qualcuno. Notavo solo visi indifferenti e, nellamigliore delle ipotesi, interrogativi:

–Ma che vuole questo?

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–Che cosa sta leggendo?–Ma che ce frega a noi de sta roba?Continuai a leggere così, a lume di candela, ancora

per una decina di minuti. Poi non ne potei più. Mi fermaicome davanti a un muro. Era come se un peso calasselentamente sulla mia testa e un senso soffuso di scora-mento mi fiaccava. Mi ripresi dall’attimo di smarri-mento, dal momento critico che presagiva un passaggio,un salto.

Chiesi che cosa significasse la parola “Viet-cong”:nessuna risposta.

–E guerriglia?– nessuna risposta. –Dove si trova il Vietnam? Chi è Diem?Silenzio.Tra le mani avevo un libro per privilegiati. Per i ra-

gazzi dovevo parlare un’altra lingua.Forse avrei dovuto cominciare a leggere qualche cosa

sulla loro vita, ma avrei incontrato le stesse difficoltà.Forse avrei dovuto far parlare loro, ma l’avrebbero

fatto? Credo di no. Non esistevano i presupposti per po-terlo fare.

Avevo provato a leggere qualche passo di antologiasui baraccati scritto da Moravia, ma mi rivoltò lo sto-maco e lo scartai senza rimpianti.

Ora bisognava continuare a leggere? E come? Conquale scopo?

Il ruolo delle parole

Per la prima volta ebbi la consapevolezza dell’impor-tanza delle parole. Come seguendo un intuito, mi alzai,mi avvicinai alla lavagna e scrissi su di essa, a caratteri

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maiuscoli, la parola “Viet-cong” e iniziai a spiegarla.Quindi prendemmo in esame la parola “guerriglia” e ciconsultammo sia con il libro stesso che con un giornale.Si cercò di capire la differenza tra guerra e guerriglia.

La ricerca filologica entusiasmava i ragazzi, ma io nonmi arrestavo davanti ai primi risultati. Esigevo che si ar-rivasse al possesso della parola in tutte le sue implica-zioni.

La scuola cominciava così, pedantemente. E siccomeavvicinarsi alla parola significava anche apprendernel’evoluzione storico-sociale, alcuni giovani presenti siscandalizzarono.

La piega politica

Essi dicevano: –Se l’indagine sulla parola assume tali dimensioni

non può non sfociare in un’analisi di carattere politico equindi la scuola esce dai suoi propri binari.

–La scuola non può non essere politica– rispon-devo –perché solo così essa diventa strumento di edu-cazione per tutti. Non dobbiamo separare la scuola dallavita di questi ragazzi, ma cercare tra di loro i nessi pro-fondi. Le parole nascono dall’esistenza e da questa as-sumono il loro significato, che diventa chiaro nellamisura in cui l’adesione della parola alla vita si fa piena.Le parole ci servono per lottare. Io non voglio essere so-porifero per nessuno, né per i borghesi, né per i barac-cati, né per i ragazzi, né per voi, né per me stesso. Nonsono una dama di san Vincenzo.

Man mano che la scuola si legava al borghetto, i gio-vani che non vedevano di buon occhio tale processo di

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identificazione e che vedevano male la mia fermezza, cilasciavano. Spesso andavano a lacrimare in parrocchiaalimentando la polemica contro di me.

Il viceparroco don Geremia non li ascoltava, ma ilparroco si impensieriva. La scuola, per lui, prendevauna direzione imprevista. Essa usciva dagli schemi dellabeneficenza parrocchiale.

Il bello era che simile coro di cornacchie si stava au-toeleggendo paladino della libertà dei ragazzi. Si affer-mava che non potevano essere forzati a riflettere sulVietnam o su altre cose del genere. E alzavano la vocesoprattutto coloro che da anni avevano lasciato che lagente morisse nella libertà delle baracche.

La storia di Adolfo1

Sono un ragazzo del borghetto, mi chiamo Adolfo, ho tredicianni, non studio, lavoro.

Lavoro ogni giorno meno che la domenica. Porto sulle spalle, con una grande borsa, boccioni di vino, bot-

tiglie di birra, aranciate ecc. Porto questa borsa all’Appio Claudio: fino qui ai cantieri. Porto vino e acqua frizzante per le case dei signori che non si

scomodano a venire al vinaio e nemmeno a darmi la mancia. Certi la danno, ma sono solo cinque o sei. Faccio questo lavoro dalle otto e mezza di mattina fino alle

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1 In questo, come al termine di ogni altro capitolo, sarà riportatoun brano tratto dal ciclostilato «Scuola 725», settimanalmentecompilato dai ragazzi.

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due e mezza. Poi stacco e riattacco alle quattro e mezza per finirealle nove. Per tutto questo lavoro prendo tre sacchi e mezzo(3500 lire) alla settimana.

Adesso vi dico una cosa che mi è successa: avevo trovato unlavoro migliore del vinaio, era l’idraulico al Tuscolano, ma mihanno rifiutato perché ero troppo piccolo.

Io vorrei interessarmi della scuola, ma se lavoro non studio ese studio non lavoro e del lavoro ho bisogno.

(Dal numero 2 di «Scuola 725», 1969).

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La scuola è laica

L’iniziativa della scuola poneva a me, prete, dei pro-blemi relativi all’impostazione della scuola stessa. Latentazione di scavalcare i ragazzi e di imporre loro deglischemi dai contenuti incomprensibili, era grande.

Spesso mi trovavo in difficoltà tra l’essere fedele allalenta maturazione dei ragazzi e il timore che la fedeltà aquesto processo ingenerasse in loro delle idee sbagliatesulla scuola, che, a lungo andare, sarebbe stato impos-sibile rimuovere.

È vero: ai ragazzi e all’ambiente bisognava immedia-tamente dare l’idea che quello che si voleva fare non erail doppione della scuola istituzionale, ma era altrettantovero che bisognava rispettare le tappe del loro processoconoscitivo.

Una simile convinzione ebbe la sua prima conse-guenza: i giovani che fin dall’inizio non volevano che al-l’iniziativa si desse una chiara impronta politica, ma chesi conservasse nel solco del rudimentale neovincenzia-nesimo della parrocchia, abbandonarono le baraccheper continuare a suonare le trombe contro di me. Rima-sero ad aiutarmi Rosario, Enzo, Grazia, Alberto, Paride,Vincenzo, Maurizio e Saro. Con loro il discorso si fecepiù sereno e omogeneo, e ciascuno si dava il cambio perdarmi una mano.

La domenica pomeriggio ci incontravamo per discu-tere insieme vari problemi, tra cui quello della spiega-zione del Vangelo ai ragazzi e la celebrazione dellamessa.

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Il Vangelo

Qualcuno era contrario a che si spiegasse il Vangeloa scuola e aveva le sue buone ragioni da far valere.

Io pensavo che simili ragioni fossero di carattere ec-cessivamente intellettuale: date le circostanze, non sipoteva privare i ragazzi della comprensione di un librodi cui avrebbero sentito parlare altrove e, spesso, noncorrettamente.

Anche se personalmente potevo essere condizionatoda una lettura regressiva della Bibbia, nella decisione dileggerla con i ragazzi avevo presenti questi punti:

1) il contesto culturale dei ragazzi, da cui non ci sidoveva astrarre. Ripetevo spesso che, se mi fossi trovatoa far scuola in un ambiente musulmano, pur essendocristiano, avrei spiegato il Corano ai ragazzi, riservandoad altri spazi l’annuncio del Vangelo. Per me, nellascuola, il Vangelo era cultura e null’altro.

2) In quanto operazione culturale, il Vangelo non an-dava letto alla luce dei dogmi o dell’infallibilità interpre-tativa. Questo punto mi permetteva di non considerarechiusa nessuna questione. Esempio: che Maria fosse lamadre di Gesù era cosa che appariva chiara nel Vangelo,ma che fosse fisicamente «vergine prima, durante e dopoil parto» erano affermazioni magisteriali che io spiegavoper far conoscere, ma accennavo anche ad altre spiega-zioni non meno autorevoli di quelle della Chiesa Catto-lica. Non vincolavo l’adesione dei ragazzi a una dataaffermazione o a un’altra, ma a conoscere tutte le affer-mazioni che si potevano fare su un determinato argo-mento. Altrimenti avrei trasformato la Scuola 725 inun’aula di catechismo.

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La messa

Rimaneva il problema della messa. Si sarebbe potutofare il medesimo discorso del Vangelo, ma qui andavasalvaguardata una specificità dell’eucaristia che è og-getto di fede responsabile di chi crede. Mi rifiutavo diammettere che i ragazzi potessero emettere un atto difede responsabile.

Io celebravo la messa in parrocchia e quindi per qual-che tempo si andò avanti così. Poi ci ripensai, ancheperché era venuto a stare con noi don Sergio. Data que-sta circostanza, in modo certamente frettoloso, dovutoalla nostra deformazione professionale, si decise di ce-lebrare la messa nella scuola. Ma non l’avrei celebrataio, e nemmeno avrei predicato.

I ragazzi più grandi, se avessero avuto problemi di co-scienza per la partecipazione alla messa potevano libe-ramente assentarsi. I più piccoli no, perché la loroassenza avrebbe significato rifiuto del pungolo all’inte-resse e alla partecipazione.

Una visita

Un pomeriggio, verso gli inizi del 1969, tre signorinimi si presentarono alla scuola col magnetofono. Chie-sero di poter conversare con noi e di registrare. Accon-sentii, ma li pregai di attendere un po’ fuori perchédovevamo terminare i compiti della scuola di stato.

Appartenevano a un gruppo studentesco cattolicoche, in quegli anni, aveva avuto una grande diffusione aMilano: era l’atto primo di Comunione e Liberazione. Laconversazione fu accesa, ma ci lasciammo con chiarezzae senza rancore, almeno da parte nostra.

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Dopo qualche mese essi riferivano su un loro giorna-lino i risultati della visita:

La prima cosa che ci colpisce non è certamente uncrocifisso. Non vogliamo essere troppo simbolisti,ma pensavamo che potesse esserci: così, forse unpensiero semplice. Ma ci colpisce un grande manifesto arancione om-

breggiato di nero, che ripropone la fisionomia di Er-nesto Che Guevara. Accanto un altro manifesto, eve ne citiamo il titolo: Camillo Torres, il prete guerri-

gliero. Guardando su un’altra parete vediamo due grandi

manifesti (manifesti di questo genere qui trovanosempre posto, anche in una stanza molto piccola) ri-producenti gli atleti neri, alle olimpiadi del Messico,che fanno il saluto del Potere nero. E, scendendo nei particolari di questo piccolo

mondo rurale, vediamo subito una scritta di manoinfantile sull’arancione del cartello di Che Guevara:“Viva Mao”. Qualche ragazzo sa ben disegnare, e sudoppio foglio strappato da un quaderno ci sono duedisegni: Gandhi e Mao Tze Tung. Non capiamo quale nesso possono avere le due fi-

gure se non che tutti e due hanno cambiato qual-cosa, ma in maniera totalmente opposta. Senza entrare nel merito artistico, notiamo i voti:

Gandhi 9, Mao 10. Forse è pura coincidenza, mal’abbiamo notato. “Viva Mao” era scritto ancora su altri cartelli sem-

pre da mano infantile, sempre con grafia minuta. Maquesti ragazzini hanno già qualcosa di tremendonelle loro mani: i semi dell’odio e della violenza. E ilprete, il prete che è lì a loro servizio, dice loro chedevono acquistare una coscienza di classe nella lottacontro i padroni, e che l’arma di questa lotta è la ri-voluzione interna. Dice loro questo, e chissà se ha

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mai letto e spiegato loro il discorso della montagna. Caro don Roberto: a quei poveri ragazzini, che oltre

ad avere la sventura di tanti acciacchi economici efamiliari hanno avuto anche quella di incontrare lei,insegni il Padre nostro, invece che parolacce. Evedrà che diventeranno rivoluzionari. Ma rivoluzio-nari sul serio.

Scrissero queste e altre amenità. Mi piacque soprat-tutto quel consiglio di ricorrere al Padre nostro come ef-ficace allucinogeno della nostra tensione sociale.

Questi censori dell’impegno altrui non avevano capitoche, quando io parlavo di scuola laica, non intendevo ri-ferirmi solo alla professione di fede cristiana, ma anchea qualsiasi altra fede. Per esempio, io non ho mai intesolegare la scuola alla violenza o alla non violenza. Per me,anche rispetto al Vangelo, queste sono due ideologie che,come tali, non devono essere assolutizzate.

Ma c’era qualche visitatore che capitava mentre sta-vamo leggendo la vita di Gandhi e ci prendeva per paci-fisti, altri, che capitavano mentre stavamo leggendol’autobiografia di Malcolm, ci prendevano per violenti.Nessuno dei due generi di visitatori si preoccupava diinformarsi, ci catalogava e basta.

In genere essi ignoravano tutto il lavoro che giornal-mente ci impegnava per scoprire e leggere le pieghe piùnascoste della vita dell’Acquedotto. L’apatia di molti, il de-siderio di integrazione nel modo di vita borghese dei piùgiovani, l’aspirazione alla casa, la solitudine dei vecchiabbandonati, il lavoro, erano tutti argomenti che entra-vano nella scuola attraverso la testimonianza dei ragazzi.

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Una scuola nella bufera sociale

Appena ci addentrammo in questa lettura dell’am-biente, la scuola entrò nella bufera. Non potemmo rima-nere distaccati osservatori, divenimmo interpreti epartecipanti. I ragazzi maturavano le loro convinzioniumane e sociali più che in ogni altro luogo e più che inogni altro momento. Evitammo sempre le scelte di par-tito.

In quello scorcio del 1968 venivano a trovarci moltistudenti. Sul viso di alcuni di loro notavo un segno dimeraviglia e anche di contrarietà a vederci tanto impe-gnati nello studio:

–Ma come, il mondo brucia sotto il nostro avanzare,siamo all’alba della rivoluzione, e voi chiusi in una ba-racca a studiare.

In genere rispondevo che non mi interessavano le ma-nifestazioni dove chi parlava era il solito figlio di papà.Mi interessavano le manifestazioni dove la parola sa-rebbe stata presa dagli operai, non da imberbi che ave-vano scoperto la politica e pretendevano di tener bancocome bimbi impertinenti e, per giunta, impreparati e ci-nici.

Ecco, anche in queste circostanze non volemmo es-sere confessionali, ma additavamo a tutti il duro itine-rario del sapere e fummo tra i primi critici delmovimento della contestazione giovanile, giudicandolosuperficiale e non radicato nella realtà delle masse pro-letarie e sottoproletarie.

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La nostra scuola

La nostra scuola è diretta da un sacerdote aiutato da alcunigiovani. Noi vi andiamo alle tre e mezza. Fino alle sei e mezza cifacciamo i compiti per la scuola statale.

Dalle sei e mezza in poi discutiamo di politica. Ma noi per politica intendiamo i fatti importanti del mondo

come la guerra, la fame, il lavoro e la lotta tra operai e padroni.Poi critichiamo questi fatti. Questa scuola ci insegna soprattuttoil risveglio degli operai.

Ogni settimana ciclostiliamo un giornale che diamo a tutti i ba-raccati. In questo giornale scriviamo quello che si discute nellascuola.

Sono venuti a visitarci anche dei giovani (studenti) che hannodetto di impegnarsi per noi, ma non l’hanno fatto.

(Dal numero 3 di «Scuola 725», 1969).

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Contrasti

Ero geloso dei ragazzi

Cominciavo ad amare i ragazzi. Entravano nella miavita e mi sentivo coinvolto in una reciproca rigenera-zione. Io, per loro, finivo di essere un impersonale“padre” e cominciavo a essere un familiare “don Robè”.

Loro, per me, cessavano di essere un gruppo anonimoe diventavano Luca, Anna, Paola, Luigino, Maurizio,Francesco, Cesidio, Domenica, Quirina, Massimo, Lucio,Sabatino, Nicola, Luciano, Loreta, Maria, Paolo, Angeloe poi Emidio, Marcella, Lorenzo, Zimicco, Franco...

Man mano che mi inserivo nella loro esistenza non po-tevo fare a meno di assumerla tutta, mettendo in pericolola mia stessa autonomia. Non potevo porre delle riservementali a questo processo di identificazione. Una loro la-crima era anche la mia, una loro gioia diventava anchela mia, un’offesa recata alla loro dignità rimbalzava sullamia persona. Diventavo quasi geloso e non volevo chealtri osassero alzare la voce su di loro. Se avevano da fareosservazioni avrebbero dovuto comunicarle prima a me.Non potevamo essere in tanti a intervenire sui ragazzi:bastava uno solo. Avrei dosato io gli interventi, tenendoconto della condizione familiare e personale del ragazzo.

La corsa di Luca

Un pomeriggio del febbraio 1969, come al solito, allequindici e trenta ero già nella scuola baracca ad atten-

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dere i ragazzi. Man mano che essi entravano si sedevanoe svolgevano i compiti della scuola statale. Io mi rendevoconto della quantità dei compiti e li stimolavo a far su-bito. Poi mi portavo sull’uscio per sollecitare i ritarda-tari. Non sopportavo che camminassero con andaturaflemmatica e li sgridavo perché fossero più svelti e de-cisi. Quel giorno, Luca si avvicinava con andatura inso-lente. Arrivato vicino alla scuola non entrò e, con passomolto incerto, passò oltre. Io chiamai:

–Luca, perché non entri? –Nun ci ho i compiti da fare!–E che novità sono queste? Mica qui si viene a fare i

compiti, queste cose le stiamo dicendo da quattro mesi...–Sì, ma io nun ci ho da fare i compiti...–Vieni lo stesso, aiuterai i tuoi compagni, leggerai,

farai altri lavori e poi discuteremo insieme...–No, nun vengo...–No, tu verrai perché queste sono le regole che tutti

dobbiamo rispettare, io per primo. Non ti permetterò difare il comodo tuo.

Luca aveva dodici anni. Era un immigrato dalla Sar-degna. Aveva due occhi vivacissimi e neri. Intelligente,ma incostante e incoerente. Ci stava sempre vicino. Conme aveva stabilito un rapporto di particolare simpatia.S’era fatto un piccolo quaderno dove appuntava le parolenuove che sentiva da me durante la discussione. Vi avevasegnato sopra “sciopero”, “cottimo”, “guerriglia” ecc. Ac-canto a ciascuna parola aveva scritto il significato.

Quel pomeriggio non voleva entrare nella scuola. Noninsistetti perché entrasse subito, ma gli dissi:

–Luca, se vuoi, pensaci pure un po’ sopra, ma primao dopo dovrai entrare.

Passò circa mezz’ora e Luca rimaneva fuori appog-giato a un palo. Allora decisi di essere più fermo:

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–Adesso finiamola con questi capricci... E così dicendo mi avvicinai a lui, che si spostò di

quattro o cinque metri. Lo seguii dicendogli: –Puoi andare dove vuoi, ma io ti seguirò per farti ca-

pire che non mi arrenderò mai davanti ai capricci.Lo seguivo passo passo, lui davanti e io dietro. La

passeggiata durò circa due ore. Ora tra i campi dell’Ap-pio Claudio e ora intorno alla chiesa di San Policarpo.Verso le diciassette e trenta eravamo ritornati sui nostripassi iniziali, stavamo alle muracce di via Lemonia.

All’improvviso diedi uno stacco in corsa, stavo quasiper raggiungerlo quando ci trovammo su un burrone.Sotto, tutta dissestata, scorreva via Lemonia. Era buio.Luca con un salto era già in salvo. Io tentai di fare lostesso, ma ohimè, arrivato sul suolo stradale caddi gi-nocchioni. Sentii un urlo raccapricciante di Luca:

–Don Robertoooo!! I calzoni si erano tutti strappati all’altezza delle ginoc-

chia, che s’erano malamente sbucciate. Dolente stavoper rialzarmi, ma già davanti mi stava Luca che mi ten-deva una mano.

Mano nella mano, senza proferir parola, ritornammonella scuola. I ragazzi, al vedermi così conciato, si im-pressionarono. Io, per il dolore, quasi svenivo. MentreCortesa, che abitava accanto alla nostra scuola, mi por-tava una tazzina di caffè, Luca era alla ricerca affannosadi alcool e di garza per pulire e disinfettare la larga ferita.Terminata l’operazione e riavutomi un po’, mi alzai e, ri-volto a Luca:

–Non ti do uno schiaffo perché... e perché non dovreidartelo?

Così dicendo gli allungai un rovescio sul viso. Lucal’accettò. Ebbi la sensazione che avesse capito quanto

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per un intero pomeriggio avevo cercato invano di farglicapire.

Nella scuola si trovava un giovane settentrionale cheera venuto ad aiutarmi per qualche giorno. A vedere loschiaffo che avevo dato a Luca, si alzò e protestò violen-temente in difesa di chi non aveva bisogno di difesa. Urlò:

–Non è giusto schiaffeggiare così un ragazzo!E io, alterando la voce: –E chi ti permette di intrometterti nelle nostre cose?

Che ne sai tu dei rapporti che intercorrono tra me e i ra-gazzi e con il baraccamento? Esci immediatamente daqui, presuntuoso!

–No, io non esco!Era di quei giovani che, per avere offerto un dito, cre-

devano di avere acquisiti i medesimi diritti di chi dà lavita. Pensava così di essersi procurata la simpatia deiragazzi, ma allorché mi mossi per uscire io dalla porta,vidi che tutti i ragazzi mi precedevano. Raccolsero i libridai tavoli e si precipitarono all’uscita.

Vista così miseramente finita la sua difesa dell’edu-cazione dei ragazzi, si allontanò.

Gli amici di Giobbe

La scuola, le ore che i ragazzi trascorrevano con me,non erano che momenti, forse privilegiati, della nostravita. Ma poteva la loro vita, la vita del baraccamento, ri-manere estranea alla scuola?

In pieno inverno del 1969 venne a trovarmi una si-gnora della Croce Rossa. Mi proponeva una scuola piùampia, impiantando un prefabbriccato. La tentazione fuforte, ma ebbi il coraggio di rifiutare. Le risposi:

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–Non ho alcun diritto e alcun dovere di far vivere i ra-gazzi in un ambiente artificioso. Non devo creare nellosquallore delle baracche un angolino di Svezia. Siamobaraccati e tali dobbiamo rimanere. La scuola non deveessere diversa dalle abitazioni. La realtà della vita deveessere, anche visibilmente, la nostra forza e il motivobase da cui prenderà quota la nostra protesta. Chesenso ha un paradiso didattico in un inferno?

Per gli stessi motivi risposi di no alla proposta di altridi trasferirci in qualche ambiente libero della parroc-chia. Accettare certi compromessi in quei momenti di fu-rore avrebbe significato buttare un secchio di acqua suuna fiammella che, invece, doveva divampare.

Anche questa volta gli amici di Giobbe furono prontia parlare:

–Chi ti autorizza a decidere a nome degli altri?–Tu puoi rinunciare ai tuoi diritti, ma non a quelli dei

ragazzi. Essi hanno il diritto di crescere in un ambientemigliore. E i desideri dei loro genitori dove li metti? Il ra-gazzo durante la sua evoluzione psicofisica ha bisognodi vivere tra mura pulite, bianche, con servizi igienici,calore, altrimenti l’invidia e il rancore ne faranno uneterno esasperato e non lo faranno crescere.

E così passavo per un volgare autoritario! Io cheavevo scelto questi ragazzi passavo per un mascalzone,e loro, che mai se ne erano ricordati prima, passavanoper sentinelle della democrazia e del rispetto dei dirittidegli uomini.

Ma facendo forza su me stesso, non mi davo per vintoe non accennavo nemmeno a difendermi, attaccavo:

–Me ne infischio di questi vostri sentimenti che con-sentono a voi di dormire al caldo e a questi di creparenel freddo. Se dipendesse da me vi proibirei di pronun-

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ciare la parola democrazia qui, dove essa non ha sensoe la sua esperienza, spesso, si confonde con la morte,con le malattie e con l’oppressione. Io non voglio far ri-manere i ragazzi all’umido, ma intendo fare dell’umidouna leva di forza per svergognare voi, il vostro mondo,la vostra democrazia puramente formale, il vostro mododi vita e la vostra ipocrisia.

Mi sentivo il cuore scoppiare. Soffrivo perché ero con-sapevole di chiedere ai ragazzi un sacrificio troppogrande. D’altra parte avvertivo il bisogno di chiarire leacque, di mettere ciascuno davanti alle sue responsabi-lità personali, politiche e religiose.

L’elemosina era un’iniziativa disonesta e immoralesotto qualsiasi veste si fosse presentata, era una vera epropria contraddizione dei nostri doveri legati alla soli-darietà.

I ragazzi non erano tenuti all’oscuro di tutto questotravaglio, da cui pian piano emergeva e si delineava lafunzione della scuola. Essi seguivano, ascoltavano, spe-rimentavano. Ci si cominciava a capire anche con il si-lenzio. Ci guardavamo negli occhi e ci si capiva. Leinflessioni della voce ci facevano leggere il nostro animo.

Tramite i ragazzi, le stesse famiglie venivano messeal corrente degli scontri. Se nei primi giorni qualche ba-raccato mi si avvicinava per chiedere denaro o racco-mandazioni, dopo qualche mese nessuno più siavvicinava a me per cose del genere. Spiegavo che ci an-dava di mezzo la dignità dei lavoratori e che sarebbestato meglio attaccarsi alle radici degli alberi piuttostoche abbassarsi a chiedere l’elemosina.

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Non siamo numeri

A pochi metri dall’Acquedotto Felice, verso la zona delQuadraro, sorgeva un grande convento delle suore del-l’Assunzione. Il convento, con l’annessa chiesa, era statocostruito anche per il munifico dono di uno dei piùgrossi latifondisti romani, Gerini Torlonia. Per perpe-tuarne la memoria, le suore si erano premurate di ap-porre su un muro una grande lapide marmorea connome e cognome dei mecenati e con un grande Dominus

recordatur in calce. Queste suore avevano in viale Ro-mania uno studentato per ragazze bene. Una volta almese, accompagnate dalle loro insegnanti, le ragazze sipresentavano al baraccamento in gruppo di dieci, quin-dici e si prodigavano a distribuire pacchi alle famiglieche avevano scelto su segnalazione delle suore.

Stavo sulla soglia della baracca 725. A un tratto sentiichiamare ad alta voce dei numeri:

–Chi è?– chiesi a Luca. –Sono le ragazze delle suore che vengono a distribuire

i pacchi.–Ma come, nemmeno per nome ci chiamano? Siamo

diventati dei numeri?Forse pensando di ricevere un plauso alla loro inizia-

tiva mensile, vennero davanti alla porta della baraccascuola e chiesero di una ragazzina che avrebbe dovutofarsi fotografare con loro. A questo punto, mi rivolsi allaragazzina, che già lasciava i libri per la foto, e le dissi diritornare al suo posto, e alle ragazze:

–Andate immediatamente via di qui, noi lavoriamoper la nostra dignità e voi venite a insultarci sfogandosui poveri le manie vostre e quelle delle suore!

Le ragazze non si aspettavano una simile reazione.

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Qualcuna accennò a mettersi a piangere, ma non mi fecicommuovere, chiusi la porta e continuai a far scuola.

Incontro con le suore

Sembrava che l’episodio fosse finito lì. Invece neigiorni seguenti, alcune ragazzine che frequentavano lascuola media delle suore mi riferirono che le loro pro-fessoresse le avevano messe in guardia contro di me econtro la nostra scuola.

Una sera, con Grazia ed Enzo decidemmo di andarea bussare al convento. Dopo aver risposto alla nostravoce, le suore ci fecero attendere fuori per circa unquarto d’ora. Alla fine fummo fatti entrare nella camerad’attesa e qui si fece trovare anche la madre superiora.

Era, questa, una donna sulla mezza età. Nell’affron-tare la questione che ci metteva faccia a faccia, mostravaun carattere deciso e molto pratico.

Seguiva il discorso con intelligenza e vivacità non co-mune, specialmente tra le suore. Mi sembrò sincera eleale, virtù rarissime in un convento. La nostra madreAstrid, tale era il suo nome, apparve quasi scocciatadalla polemica delle sue consorelle e dalla loro incapa-cità di capire che tra i baraccati dell’Acquedotto Felicestava succedendo qualcosa di nuovo:

–Don Roberto, dobbiamo andare d’accordo. Ci siamoun po’ impressionate perché l’altro giorno le ragazze diviale Romania sono ritornate quasi piangendo perché leile aveva cacciate. Sono brave ragazze che cercano di faredel bene ai bambini delle baracche.

Risposi:–Vede madre, tra i baraccati, specialmente tra le

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donne, serpeggia una certa psicologia assistenziale. I ba-raccati, molti, credono di poter vivere di elemosina. Cene sono alcuni che posseggono un elenco di sette o ottoenti assistenziali e ogni mattina vanno a visitarne uno.Alla fine del giro ricominciano daccapo. Tutte questepersone, bisogna recuperarle a una vita dignitosa. Noidobbiamo lottare contro questa maledetta psicologia as-sistenziale che addormenta la gente. La gente così ad-dormentata è funzionale a quegli enti che rifiutano, nona caso, di porsi il problema alla radice e mensilmentedanno delle pennellate sulle situazioni di bisogno.

La madre Astrid aveva il viso atteggiato tra il per-plesso e il convinto:

–Ma come fa una Clelia, un Ottaviano, vecchi e malaticronici, a maturare in questo senso! Ormai bisognaprenderli così come sono!

–Certo– risposi –per i casi più gravi c’è poco da far di-scorsi, ma non manca il modo di aiutarli, il più discre-tamente possibile. L’assistenza è un’offesa e non incidepositivamente sul piano dei cambiamenti sociali, anzi,spesso svia il comportamento delle persone facendonedegli assistiti e impedendone la presa di coscienza. Seoggi dobbiamo fare qualcosa per Clelia e per Ottaviano,dobbiamo impegnare la nostra speranza per il domani,perché Clelia e Ottaviano non abbiano eredi.

–Forse noi dobbiamo capire queste cose– interruppela madre.

–Sì, è ora che si capiscano... Ed ella soggiunse: –Intanto le ragazze di viale Romania non le mandiamo

più e cerchiamo di rimanere in buoni rapporti.

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L’odio è una virtù

La madre superiora aveva fretta di chiudere, ma nonaltrettanto io che desideravo chiarire il problema dellascuola. Quindi ripresi:

–Voi avete tutta la libertà di parlare male di me e dellascuola, ma se questa vostra libertà si ripercuote sulleragazze, allora dovremo fare un altro discorso.

A questo punto, sentendosi coinvolta, intervenne lamadre preside:

–Ma non è che noi abbiamo parlato male di lei, siamospaventate da come le ragazze si comportano con lealtre. Ieri, per esempio, Domenica si è rivolta a una com-pagna durante la ricreazione e le ha urlato “borghesac-cia”. Noi temiamo che in queste ragazze venga instillatol’odio.

Con una preoccupazione tra il didattico e il polemico,svolsi questo pensiero:

–Guardi madre preside, lei dovrebbe accertarsi se laborghesaccia è veramente borghesaccia. Se fosse figliadi un operaio allora lei avrebbe il dovere di far riflettereDomenica. Se poi così non fosse... allora lasci correre unpo’... chissà da quanti anni Domenica deve subire l’ar-roganza sottilissima delle borghesacce. Per voi alloratutto andava bene, non c’erano problemi, non c’era odio.Ora che Domenica alza la testa ci si straccia le vesti.

–Ma l’odio...–Ma che odio e odio, si sforzi di penetrare un po’ i

comportamenti di Domenica e scoprirà che l’odio è unavirtù che lei, forse, non conosce ancora. Se la conoscessesarebbe lei stessa a consigliare Domenica a praticarla ingrado eroico. Solo allora diventeremo dei santi tra il po-polo e non dei santi da nicchia. La parola amore è stata

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talmente manipolata che ormai serve solo alla classe do-minante e ai suoi servi per tagliare le ali ai ribelli per lagiustizia e per il diritto. Ora finiamola e lasciamo cheparli Domenica. Se è l’odio che l’ha portata a prenderela parola, non diamole l’antidoto dell’amore, perchéquello che voi chiamate odio, in realtà, è amore e quelloche voi chiamate amore è il più subdolo degli odî.

La madre superiora che capiva, e capiva anche le se-grete reazioni delle suore, mi sembrava preoccupata dievitare polemiche e di chiudere l’incontro. Io stesso noninsistetti.

L’Apollon

Il padrone dell’Apollon ha un figlio che andava male a scuola.Allora il padre per otto mesi gli ha rifiutato il bacio. Poi, all’ot-

tavo mese, per ricompensarlo di questo enorme sacrificio gli haregalato una macchina tedesca. Poi, preoccupato per il suo av-venire gli ha anche regalato una fabbrichetta con trecentoventioperai. Cioè l’attuale Apollon. Il figlio ha chiesto anche quattro-cento milioni per il mantenimento della fabbrica, ma li ha spesiper conto suo e ha licenziato tutti gli operai. Questi operai, per ri-spondere alla cortesia, hanno occupato la fabbrica.

(Dal numero 4 di «Scuola 725», 1969).

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Ursa

–Sì, sono Ursa, ma non sono Ursa, sono Francesco.Ormai i connotati della mia vita sono talmente cambiatiche non mi vedo più nei panni di Francesco. Ursa è en-trata nel sangue. Il vedermi sulla carta d’identità ma-schio per legge, mi dà fastidio. Non le nascondo chequando passo per qualche albergo esito sempre nel con-segnare i documenti, non perché mi vergogni del contra-sto, ma perché io mi sento Ursa e Ursa sarò per sempre...

–Per sempre– aggiunse Ursa dopo una breve esitazione,come di chi vuole uscire con un’affermazione puramenteverbale da una sofferenza profonda e con un orgoglio au-toimposto. Questa era una delle realtà che mi trovai da-vanti fin dai primi mesi di vita all’Acquedotto Felice.

Viveva qui una comunità di travestiti. Intorno allaloro infelicità brulicava il mondo degli sfruttatori. Questinon solo percepivano le tangenti in cambio della prote-zione, ma pretendevano di regolare e dominare la vita diquesti miei fratelli suscitando, non poche volte, inutilirivolte, anche cruente, che finivano con ulteriori limita-zioni della libertà e un rincrudimento dello sfrutta-mento. Il baraccamento accettava questa presenzasenza mostrarsene eccessivamente scandalizzato.

Anche noi abbiamo un’anima

La notte del Natale del 1968, poco prima di celebrarela messa, mi si avvicinò Rina. Ella aveva stabilito con itravestiti un particolare rapporto di amicizia:

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–A don Robè, e da questi poveracci nun ce va nessunoa portargli quarche cosa?

Avevo capito che stava parlando della comunità deitravestiti. Lì per lì rimasi interdetto e quasi infastidito:la domanda apriva al mio impegno una visione nuova,su cui avevo fatto cadere un pietoso silenzio difensivo.

Dopo alcuni istanti di esitazione, risposi: –Rina, io non ho nulla da portare, ma accompagnami

da loro.Mi tremavano le gambe: cosa avrei detto? Come sarei

stato accolto? Come avrei dovuto rivolgermi a loro, al fem-minile o al maschile? Entrai in una baracca ben tenuta,salutai e detti la mano a Lucilla, a Massimina e a Katty:

–Sono venuto ad augurarvi buon Natale. Non vi hoportato nulla perché non ho nulla, ma prendete la miapresenza come un segno di rispetto.

Queste parole servirono a rompere il ghiaccio e si av-vicinarono. Quindi si svolse tra di noi un breve dialogosulla situazione dell’Acquedotto e sul mio impegno nellascuola:

–Stia tranquillo, non le daremo fastidio e se ha biso-gno di qualche cosa non ha che da dircelo.

Andandomene, sull’uscio, si fece avanti Katty, mi sa-lutò e mi disse parole che gravarono le mie responsabi-lità e mi dettero il senso della fraternità; furono come unvero messaggio natalizio:

–Grazie per essere venuto. Si ricordi che anche noiabbiamo un’anima.

Per me fu un trauma vissuto con gli occhi della co-scienza, spalancati per la crudezza della realtà che eranocostretti a mirare.

Ora davanti a me si trovava Ursa. Ursa mi invitava al-l’amore e io ero stato educato ai pregiudizi più reazionari.

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Mi chiamava al rispetto della persona, ma io ero statoeducato al disprezzo dell’uomo che non avesse rispostoalle regole della normalità.

Dopo le prime parole, si creò una pausa di silenzioreso ancora più intenso a causa del mio personale smar-rimento. Ma Ursa riprese a parlarmi.

Storia di una diversità

Ho sempre pensato di uccidermi e chissà che ungiorno o l’altro non la faccia finita. Sono veramentestanca! Lei non potrà mai capire la tristezza di un ragazzoavvolto dall’oppressione della paura sessuale e che, aquesto soffocamento, deve aggiungere la sua diversità cheavverte come una gravissima colpa che gli impedisce diunirsi spensieratamente ai suoi amici.

Lentamente, come una lumaca che si ritrae nel suoguscio, io cominciavo a isolarmi e a cercare nella ma-sturbazione quegli attimi di gioia che l’ambiente mi ne-gava. Non facevo che chiudermi progressivamente, cheprocurarmi una lenta morte. Dovevo annullarmi. Spessopiangevo in silenzio, accoratamente, soffocando con uncuscino i singhiozzi che salivano dal cuore.

Dovevo crescere come una pianta nascosta nel buio.Vedevo intorno a me solo censori e nemici. Oggi ho sco-perto che vedevo bene perché, se avessi mostrato la miadiversità, tutti mi avrebbero rifiutato.

Pensi: un giorno mi trovavo a passare da solo in unvicolo molto vecchio, con poche case abitate e molte altreabbandonate e fatiscenti. Nella mente mi attraversò unvivo desiderio di entrare in una di queste ultime e giàsognavo di farci l’amore con un ragazzo, cosa che finoallora non avevo mai fatto.

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Ero solo! Ma ecco che, mentre camminavo, ancora in-certo su ciò che avrei voluto fare, appena svolto unacurva, mi si presentò davanti, con passo deciso e con lasua grossa mole, l’anziano prete della parrocchia vestitodella lunga nera veste, con un gran cappello nero sullatesta e un bastone anch’esso nero. Mi domandò:

–Dove vai?–Vado qui a trovare Sirio!– risposi improvvisando una

bugia. Forse la domanda del prete era la più innocente,ma in quell’istante credetti che egli avesse come rapitoe quindi censurato, i segreti pensieri della mia testa emi sentii avvampare da un tale sentimento di odio chel’avrei ucciso. Non l’uccisi fisicamente, ma da quel caldopomeriggio estivo, quando penso al censore lo immaginovestito di nero, con cappello e bastone nero.

Qualche anno prima frequentavo il catechismo dellaparrocchia. Un giorno il parroco ci riunì fra i più grandiper parlarci del sesto comandamento. Dopo averci so-lennemente avvertiti che “gli impuri non vedranno Dio”,ci raccontò che alcuni anni prima, mentre stava a sor-vegliare i ragazzi in oratorio, ne notò uno che s’era al-lontanato per andare al gabinetto. Siccome tardava, luiandò a vedere. Lo trovò morto che stava commettendoun atto impuro. E con voce tonante aggiunse:

–Dio lo ha punito.Ecco che cosa è per me la chiesa! Non potrò mai en-

trarci perché essa punisce e invoca la punizione di Diosu chi cerca un po’ di tregua...

Ursa parlava con serenità e le sue parole erano caldee sofferte, venivano dal fondo e da qui prendevano unatonalità bassa e suadente. Sì, ella doveva avvertire ilcompito di persuadermi a cambiare giudizio. Io ascol-tavo interiormente turbato, ma Ursa, come non accor-gendosene, continuò il suo racconto:

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–Quindi Dio poteva scaricare su di me i suoi fulmini,ma la paura di Dio non mi impediva di desiderare il pia-cere, la felicità. Se egli non mi colpiva con la morte istan-tanea, c’erano i suoi servi che mi isolavano e miuccidevano lentamente.

Nonostante i miei sforzi non riuscivo a liberarmi daigravi sensi di colpa: io ero ciò che era peccato. Questaangoscia mi tagliava come in due parti in conflitto di-sperato tra di loro.

Ricordo che stavo volentieri con i miei compagni, mami proibivo di frequentarli spesso perché avevo paura diinnamorarmene e, non potendo manifestare, con gesti ocon parole, i miei sentimenti, mi mettevo nella condi-zione di soffrire ancora di più. Le energie della mia ado-lescenza erano totalmente impegnate a nascondermi.

Avevo diciassette anni e frequentavo con molto pro-fitto il penultimo anno del liceo classico. Leggevo molto,ma giornalmente la tristezza prendeva possesso di me.Ero arso dal desiderio di un amore insoddisfatto e, forse,proibitomi per sempre.

Davanti alla nostra casa, quasi dirimpetto, all’ultimopiano, abitava una famiglia di nostra conoscenza. Era unacoppia di giovani sposi americani. Non ricordo per qualivicende erano capitati lì. Gente serena e cordiale. Un giornoci comunicarono che avrebbero ospitato per qualche meseun loro nipote. L’annuncio mi incuriosì perché, sempre, laconoscenza di un coetaneo faceva scattare in me degli in-teressi che io mi premuravo di tenere ben repressi.

Non potevo, nemmeno per un attimo, dimenticare divivere in una famiglia borghese dove era severamenteproibito ogni riferimento alla sessualità, e tali proibizioniscendevano fino ai livelli più profondi della mia co-scienza.

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George

Una mattina, mentre mi trovavo affacciato alla fine-stra, alzai di poco gli occhi e il mio sguardo si posò sulnipote arrivato dagli USA. Era appoggiato a un muro delterrazzo. Una decina di metri appena mi separavano dalui. Guardava davanti a sé, forse non s’era nemmeno ac-corto di me e fissava i tetti della vecchia Roma. Potevaavere la mia stessa età.

Era l’inizio dell’autunno e indossava ancora un paiodi pantaloni corti. Aveva i capelli neri che ricadevanosulla fronte pettinati e in disordine allo stesso tempo.Gli occhi erano neri come bruna era la sua pelle. Nonera un tipico americano. Mi innamorai di lui e ciò resepiù difficile un avvicinamento poiché il sentimento del-l’amore mi precipitava in un groviglio di colpe.

Una mattina lo salutai dalla finestra con il cuore ingola. Il nipote mi rispose con uno di quei sorrisi propridegli adolescenti. Fatto questo primo passo, si poneva ilproblema di parlargli. Per caso ci incontrammo sullastrada. Io guardai e dopo esserci incontrati con gli occhi,gli sorrisi e mi sorrise. Ambedue ci fermammo. Per unattimo rimanemmo in silenzio. Tra le altre cose c’era ladifficoltà della lingua: come ci saremmo intesi? Spicci-cava qualche parola in italiano? Ruppi ogni indugio e losalutai. Con uno stentato italiano ricambiò il mio saluto.La prima difficoltà era caduta. Fu lui a chiedermi comemi chiamassi. Lui si chiamava George. Il discorso nonpotè continuare e ci lasciammo con la promessa che cisaremmo rivisti.

Continuammo a incontrarci e io lo condussi spesso acasa mia dove, insieme, ascoltavamo dischi. Poi fa-cemmo anche delle lunghe passeggiate in bicicletta. Pur

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negli impedimenti del linguaggio cercavamo di parlaredi tutto, di comunicarci le esperienze su Roma.

Lo amavo con purezza rara. Mai pensai di possederlo,forse per inibizione, forse per delicatezza, non so. So chel’amavo e godevo della sua vicinanza. Un pomeriggio,mentre si parlava seduti sul ciglio di una stradina dellacampagna romana, sfiorai leggermente il suo viso con lamia mano. Egli stette alla mia carezza. Volevo semplice-mente trasmettergli un sentimento profondo nel silenzio,senza parole che dicono sempre meno di quanto si sentadentro.

Venne il giorno della partenza e io lo accompagnai allastazione. Finì così un tempo d’amore, puro eppur clande-stino, che mi gettava in una disperata solitudine. Ero an-cora Francesco. Ursa sarebbe nata di lì a qualche anno.

Piazza dei Cinquecento

I rapporti con mio padre erano continuamente tesi.Spesso questa tensione esplodeva in scenate, in cui icalci e le cinghiate erano gli strumenti per ridurmi a unsilenzio pieno di rancore e di odio.

Una sera eravamo tutti a cena. Non ricordo più nem-meno il motivo per cui mio padre cominciò ad alzare lavoce. Io, a un certo punto, non ne potei più a sentirequella voce così stridula che martellava nel mio cervellocome un martello pneumatico. Mi alzai e gridai:

–Non ne posso più! Stai crepando la mia vita.Mio padre si alzò come una belva, ululando cominciò

a colpirmi. Io fuggii nella camera accanto, ma lui mi rin-corse, mi saltò addosso e con le zampe anteriori e po-steriori mi colpiva. Tutti gridavano. Al culmine dellinciaggio mi sentii gridare in faccia:

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–Femmina fottutaaaa! Vattene da casa!Immediatamente si creò il silenzio. Io rimasi curvo,

assente, incapace di pensare, incapace di muovermi.Avevo diciotto anni. Quella sera stessa, a piazza dei Cin-quecento, nacque Ursa.

Visita a Roma città aperta

Martedì scorso siamo andati a visitare la mostra “Roma cittàaperta”. Essa presentava alcuni episodi della Resistenza romana.

Dopo l’armistizio, infatti, l’Italia diventava alleata dell’Americacontro la Germania. I tedeschi allora, per rappresaglia, hanno co-minciato a perseguitare gli italiani ormai nemici.

È nato così un movimento popolare contro i tedeschi e i fasci-sti al quale hanno partecipato soprattutto operai e contadini e,poi, studenti e intellettuali. Essi hanno lottato anche a costo dellavita per ottenere un’Italia libera e migliore, come dimostra l’eccidiodelle Fosse Ardeatine.

Ma essi sono stati traditi perché l’Italia di oggi non è come ipartigiani speravano. Molti di noi non hanno ancora la casa, sonosenza lavoro, e vi è gente che, perché sciopera, viene presa afucilate.

Inoltre la mostra presentava tutti gli ordini che i fascisti davanoagli italiani, con fotografie che documentavano i maltrattamentifatti dai fascisti.

Abbiamo visto anche un giornale dell’epoca «Il Messaggero»(giornale padronale) che portava scritto “W l’Italia e gli alleati”.Questo stesso giornale, qualche mese prima (nell’agosto del1943) scriveva a favore di Mussolini. Questo dimostra che i pa-droni quando si tratta di comandare sono sempre pronti a cambiarpartito.

(Dal numero 12 di «Scuola 725», 1969).

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Appendice I

Lettera della Scuola 725 al sindaco(Roma 1970)

PremessaNoi mandiamo questa lettera al Sindaco perché è il capo

della città. Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaiadei suoi cittadini vivono nei ghetti. Per scriverla ci abbiamoimpiegato dieci mesi. Ogni sera a pensierino si aggiungevapensierino, si correggevano e si battevano a macchina, c’eralavoro per tutti. Nella lettera abbiamo voluto dire una solaidea: la politica deve essere fatta dal popolo.

Al Sindaco di RomaAl Ministro dei LL. PP – RomaAl Presidente della Provincia – RomaE p.c.:Al Presidente della Repubblica ItalianaAl Presidente del SenatoAl Presidente del Consiglio dei MinistriAl Presidente della Camera dei DeputatiAl Santo Padre Paolo VIAl Cardinale Angelo Dell’Acqua, Vicario delSanto Padre per la città di Roma

1Sindaco, “e-grege” vuol dire fuori dal popolo. Se noi aves-

simo cominciato in un modo del genere la lettera l’avremmoposta al di sopra di noi, invece lei è come noi. Ciò le fa onore.

2E neppure “signore” l’abbiamo voluta chiamare. Il Signore

è uno ed è morto in croce e certo lei non ci muore. Parliamodella croce dello sfruttamento: questa è già occupata da noi.

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3C’è rimasta la parola “sindaco”. Abbiamo visto sul vocabo-

lario che essa significa difensore del diritto. Di quale diritto?4Di quello dei ricchi o dei poveri? Senz’altro lei dovrebbe es-

sere dalla parte dei poveri. Questa è giustizia. E per due ra-gioni.

5I poveri sono da tutti dimenticati e non sanno come difen-

dersi.6Lei crede di avere la coscienza tranquilla quando ha trat-

tato tutti allo stesso modo. Invece ciò per noi è ingiustizia.7Se ci sono due uomini, uno zoppo e l’altro sano, se il primo

viene offeso dobbiamo metterci dalla sua parte e non fare ineutrali.

8Lei qui all’Acquedotto non s’è mai visto. E ogni giorno che

passa, qui si costruisce un ghetto. Lei sicuramente conosceràil significato della parola, solo perché l’avrà letto sul vocabo-lario. Noi lo sappiamo perché ci viviamo da quando siamo nati.

9Solo chi vive ha il diritto di parlare. Chi legge, saprà le cose

a memoria, ma è bene che stia zitto e si metta dietro a noi.10Andiamo alla scuola borghese.La scuola del mattino ci dimentica. Esistono solo i “signo-

rini” dei palazzi. Infatti i suoi programmi sono fatti dai loropapà per essi. Non per noi. E riescono anche a influenzarci.

11Un nostro amico abitava da dodici anni all’Acquedotto; ha

cambiato casa e ora ride di noi perché abitiamo nelle barac-che.

Quando andiamo alla scuola di Stato gli insegnanti nonpensano a noi, ma a quelli che hanno una casa.

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12La maestra di Marta l’anno scorso era arrivata quasi alla

fine del libro, ma Marta non sapeva ancora leggere la primapagina.

Sabatino faceva la seconda elementare e non sapeva leg-gere né scrivere. Il maestro voleva mandarlo in una classe dif-ferenziale come ritardato.

Da noi ha preso coraggio, è stato promosso e ci aiuta a fareil giornale.

13Gli insegnanti non sanno cosa significa studiare in una ba-

racca, in una cameretta dove c’è cucina, letto e gabinetto, lamamma e i fratellini mai quieti e innervositi.

I nostri genitori talvolta sono analfabeti. Qualche papà perpensare ad altro si ubriaca. È la malattia dei poveri. Purtroppoalcuni baraccati accettano questa offesa alla loro intelligenza.

14La scuola potrebbe svegliarci. Ma essa è nelle mani dei si-

gnori.La riforma di questa scuola dovrebbero farla gli operai e i

contadini, invece la fanno gli avvocati e i professori. Le personepiù contrarie alla classe operaia.

15Vogliono parlare a nome dei poveri, ma non vogliono inse-

gnare loro a farlo da soli. Hanno paura. Crollerebbe tutto illoro modo di vivere. E poi accettare i poveri come maestri nonè facile per i superbi.

Il preside del “Plinio Seniore”, detto il barbiere, ha definitobene la scuola di Stato: essa prima di tutto educa all’esteriorità.

16Codesta è una scuola che appoggia i ricchi. Vi impariamo a

imitare i borghesi. Eppure noi con loro non abbiamo nulla a chefare. Noi oppressi, loro oppressori. E andiamo alla loro scuola.

17Una maestra fanatica di “Canzonissima” ha dato questo

tema: scrivi la canzone che preferisci e che ti piace di più. Un’al-tra volta voleva addirittura che si facesse l’analisi grammaticale

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di queste canzonette. Noi l’abbiamo fatta, ma sulla canzone deiguerriglieri colombiani. Mica hanno dato un tema sull’uccisionedei due operai ad Avola o delle persone uccise a Battipaglia.Due maestri che hanno provato, sono stati cacciati dalla scuola.

18A Carla la maestra ha dato uno di questi temi che spesso

ci assegnano: descrivi il palazzo dove abiti. Carla non sapevacosa inventare perché aveva vergogna, come molti di noi, didire che abitava nelle baracche. Ma la vergogna non è nostra.Don Roberto la costrinse a dire la verità. Una delle regole dellanostra scuola, infatti, è di non dire e non fare cose inutili.

19La nostra scuola è in una baracca. Tra noi c’è sempre il

prete, e dei giovani che a sera hanno la gioia di ritornare inuna casa. A noi questa gioia non è data.

Prima i giovani erano molti: venivano soltanto per aiutarcia fare i compiti. Venivano vestiti alla moda. Cercavano di in-fluenzarci.

Ragazze truccate in viso e ragazzi che parlavano troppo:credevano di essere rivoluzionari. Avevano letto solo i libri. Al-cuni si dicevano maoisti… perché Mao era assente.

20Parlavano la lingua dei ricchi e non quella nostra. Poi si

sono stancati e ci hanno lasciati. Hanno fatto bene. Non si samai: chi va con lo zoppo impara a zoppicare! Ed erano zoppi.

Difatti alcuni di loro fanno ripetizioni ai figli dei borghesi.Avrebbero una sola via d’uscita: lasciare gli studi e mettersi

al servizio della classe operaia.21La nostra scuola.La nostra scuola mira a una preparazione politica e a farci

conoscere la situazione in cui dobbiamo vivere. Non accettiamonessun ragazzo che abita nei palazzi. Ne avevamo accettatouno ma è andato via. Non ci ha capiti. Era già storto nellamente. Vestiva e pensava come un fantoccio. Se fossimo statipiù accorti gli avremmo dovuto chiedere di lasciare per alcunianni i suoi studi e di dedicarsi a uno di noi che è indietro.

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22Qualcuno si è fatto venire i dolori di pancia ascoltando i

nostri discorsi. Al prete dicono che la politica non deve farla.E chi non fa politica è un egoista. A noi dicono che non dob-biamo imparare queste cose perché non ne siamo capaci. Die-tro queste accuse c’è sempre qualcuno che non vuoleimpegnarsi col Vangelo né con noi. Molti dei giovani baraccatihanno ascoltato questo consiglio e oggi si ritrovano a parlaresolo di sport, di canzoni, di macchine e di ragazze.

23Abbiamo letto sul giornale che a Castelfranco Veneto un

prete fa giocare gli operai e i contadini: così saranno sempresfruttati. Il suo dovere sarebbe quello di farli pensare.

Abbiamo anche saputo che il giornale del Vaticano ha par-lato bene di un prete che si è ridotto a fare il calciatore. E hatradito la sua missione.

Il male è che le obiezioni suddette vengono da persone chesi piccano di essere educatori.

24Dicesi educatore colui che crede nella intelligenza dei ra-

gazzi come noi e non viene a insegnarci stupidaggini come lafavola di Cappuccetto rosso o la poesia della vispa Teresa o ilracconto del gatto che possiede la “serenità di spirito”.

25Un nostro compagno di terza elementare, sul foglietto dal

quale abbiamo ricavato insieme a tutti gli altri questa lettera,ha scritto: alla scuola del mattino (dello Stato) ci fate starezitti, a quella del pomeriggio (la nostra) invece si deve parlare,leggere, discutere.

26Noi bisogna essere sempre occupati a fare qualcosa e,

tranne qualcuno, nessuno se ne sta scioccamente a giocare.Si studia tutti i giorni dalla mattina alla sera, e tutto l’anno.

La parola “vacanza” è da confessare come parolaccia. Il Mi-nistro della Pubblica Istruzione si preoccupa di diminuire lostudio dei ragazzi: noi ci preoccupiamo di aumentarlo. I verimaestri non sono coloro che rendono facile lo studio, ma co-loro che lo rendono difficile.

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27La nostra scuola è piccola (circa 15 mq). Il silenzio non è

obbligatorio, ma quando si studia, tutti quanti cerchiamo dinon disturbarci, altrimenti non si capisce niente.

28Il sabato sera si celebra la messa e per tutto il pomeriggio

si legge il Vangelo su un testo greco, latino e italiano. Poi settegiorni su sette, ci si sforza a viverlo. Amandoci. E si sa, la Bib-bia è dalla parte dei poveri.

29Agli studenti invece non importa che gli oppressi abbiano

coscienza della propria situazione e rispettino la propria fede.Poverini, credono che noi si abbia bisogno del loro messaggio.Un messaggio che regolarmente prende le ferie quando c’è dafare il libero amore, c’è da andare sulla neve, in palestra o almare o quando si avvicinano i loro esami all’università. Si di-cono rivoluzionari, ma sempre borghesi rimangono. E comeborghesi vorrebbero dividere gli operai.

30Le nostre ragazze sono un po’ pigre. Un po’ la colpa è delle

mamme che, mentre lasciano liberi i ragazzi, costringono leragazze a lavorare in casa o a non venire a scuola.

31Sono più indifese dei maschi e si riesce a influenzarle di

più. Alcune di esse parlano ancora di cantanti e di canzoni.Ma si vergognano di farlo innanzi a noi. Lo fanno di nasco-

sto come per le zozzerie. Perderanno l’abitudine. Qualche altraè andata via perché ha preferito far l’amore borghese piuttostoche far politica.

Sono ancora vittime del razzismo di questa società chesiamo costretti a digerire con la violenza. Quella nascosta e raf-finata che lei deve conoscere. Poverine! Se non si libererannodalla pigrizia, saranno destinate a fare le servette dei signori ea farsi sfruttare come commesse in qualche grande magazzino.

32Sul libro di storia della prima media c’è scritto che gli egi-

ziani nelle scuole per i figli dei signori – come vede il peccato

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non è di ora – ripetevano: “l’orecchio del ragazzo sta sullaschiena”. Qualcuno che è passato tra noi, ha pensato male.Non ha capito il significato della frase. Se è andata bene per isignori, ora andrà bene anche per noi. Ma non abbiamo nes-suna idea di ripetere le grandi imprese dei signori.

33Nella scuola e ovunque si deve far politica.I signori ci hanno sempre fregato. Ci hanno detto che la po-

litica è una cosa sporca, ma che solo nelle loro mani diventapulita. È un modo per tenerci oppressi e per colpire il donodell’intelligenza che Dio ci ha fatto. È uno dei tanti modi peressere razzisti. Per la nostra scuola tutto ciò che avviene nelmondo diventa occasione per far politica.

34Anche lo sport che tanto piace agli industriali. La sera noi

si apre il giornale e si commenta tutto quello che capita.35Così veniamo a sapere che la situazione dell’Acquedotto è

la situazione di due miliardi di uomini. Siamo tanti, sindaco!Che accadrà se un giorno la rabbia dei poveri scoppierà?

36I signori posseggono una grande quantità di armi. Le

bombe sono pericolose e possono incendiare l’universo. Essidicono di volerci difendere così. Hanno messo sotto i piedi diciascuno di noi ben cento tonnellate di tritolo.

37Noi abbiamo ragione da vendere. Crediamo nella forza della

ragione e non in quella della armi. Come si vede siamo evangelici.Leggendo la vita di Gandhi abbiamo conosciuto una parola cheè un programma: “satiagraha”, che significa forza della verità.

38Gesù prima di Gandhi ci aveva proclamati beati a causa

della nostra sete di giustizia. Bisogna lottare per uscire daquesto inferno: uscirne tutti insieme, e per sempre uniti a co-loro che soffrono, e far politica.

La politica è l’unico mezzo umano per liberarci. I padronilo sanno bene, e cercano di addormentarci.

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Ci portano vino, televisione e giradischi, macchine e altrigeneri di oppio. Noi compriamo e consumiamo. Serviamo adaumentare la ricchezza padronale e a distruggere la nostra in-telligenza.

39Perché scriviamo.Ora vogliamo dirle perché scriviamo. Per farle conoscere le

nostre idee. Per dirle che esistiamo. Lo so bene, dirà lei, ma losa dai libri. Noi da molti anni abitiamo nelle baracche e moltevolte è venuta gente a farci l’elemosina. Forse per sentirsi lacoscienza tranquilla. Questa gente sono i ricchi. Anche le par-rocchie fanno il loro gioco: spendono milioni per fare capan-noni per giocare a bocce, o per costruire campi sportivi,magari da affittare a giovani fannulloni. Poi come attività evan-gelica riescono anche a organizzare i signori per farci benefi-cenza. E molti di questi sono falsi: dicono che dal loro palazzo,dietro all’Acquedotto vedono solo la polizia. Hanno gli occhi esi rifiutano di vedere.

40Sarebbe ora di smetterla di trattarci come se fossimo pa-

sticche tranquillanti. Non dobbiamo accettare l’elemosina cheviene da simili mani. Alcuni di noi l’accettano e poi arrivano adire che questi signori sono buoni. Non sanno che quei doniarrivano per offendere la nostra coscienza. Vogliono vederci inginocchio.

41Fanno a gara. Le parrocchie come le sezioni dei partiti. Si

sono dati il compito di acchiappar gente e voti. Avevano quellodi essere maestri. Anche nel nostro inferno avevano messo unasezione. Era del PSI. Mica vi si faceva politica. Vi si riunivano ivecchietti della borgata per bere, come si fa in molti circoli dellaACLI. Per attirare i giovani avevano messo anche i biliardini.Alzavano il pugno mentre nell’altra mano tenevano il bicchiere.

42Baracche, raccomandazioni e case.Sul libro di storia della terza elementare abbiamo letto che

nel 3000 a.C. gli egiziani costruivano le loro case con il fango

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impastato con la paglia. Oggi, cinquemila anni dopo, si vasulla luna, ma noi qui, nel ghetto, come gli egiziani. Abbiamodavanti agli occhi le case dei signori con la loro vita egoista.Non si può andare avanti così. E lei neppure deve sopportarese non vuol passare per un sindaco neutrale come quelli checi sono stati prima di lei.

43Poi ci hanno detto che lei si professa cristiano. Ora di-

ciamo: la sua religione sarà vuota e senza significato se a chile chiede una casa lei offre parole. Un nostro compagno hascritto: quasi ci tenete all’Acquedotto per divertimento.

44A ogni pipì di gallina danno una casa. Ciò fa nascere delle

invidie tra di noi. È come se un padre desse da mangiare a unfiglio e non lo desse agli altri. Non si deve giocare a mettercil’uno contro l’altro. Chi divide i poveri è un vigliacco. Appro-fitta dell’ignoranza.

45Noi vorremmo darle un’idea: poiché lei e i padroni direte di

volerci bene, noi vi si vuole aiutare, perché questo vostro benenon rimanga sospeso in aria, ma scenda sulla terra come feceGesù, nel fango dell’Acquedotto Felice. Venite ad abitare quida noi. Unitevi alla nostra lotta. Siamo fatti della stessa carnee delle stesse ossa. Reumatismi a noi, reumatismi a voi. Sof-friremo insieme, ci vorremo più bene e lotteremo. Di questoabbiamo bisogno e non di promesse e di pietà. Sindaco, forsequesto è l’unico modo perché la nostra situazione venga ri-solta.

46La casa è un diritto e non un regalo come l’ha reso la classe

borghese. E accusa per quest’ultima è il fatto che la gente perottenere un tetto è costretta a ricorrere alle raccomandazioni.Si è costruita una civiltà di raccomandazioni. Si è calpestatoil diritto.

47Ci diranno che i baraccati sono gente in arrivo a Roma dal

Meridione, senza arte né mestiere. Pur sapendo cosa trove-

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ranno a Roma, si muovono alla ricerca di chissà quali ric-chezze. Così credono taluni di incolparci e rimangono incol-pati. I soldi si trovano solo al Nord. E a noi è stato comandatodi andarli a guadagnare là. Invece si dovevano dividere bene.Purtroppo chi ci governa ha paura di toccare i padroni che liposseggono.

48Ai nostri genitori ogni mese viene tolta una somma per la

costruzione delle case ai lavoratori. Quindi quello che chie-diamo è già nostro. E se non l’abbiamo avuto la colpa è anchedella nostra ignoranza che non ci permette di organizzarci. Maun discorso più documentato a riguardo lo faremo in seguito.

49Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può

averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acque-dotto. (Dopo venticinque anni, nel 1970 è arrivata la luce elet-trica. L’abbiamo presa con un attacco abusivo. Per questosiamo stati tutti denunciati dal Comune). Dove c’è la scuolasi va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tuttol’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano apochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quar-tiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metridalle baracche.

50Siamo in un continuo pericolo di malattie.Lo sa, sindaco, che durante quest’anno all’Acquedotto due

bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite,che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svi-lupparsi.

51Poi c’è l’amore…Le coppie mica vengono a farlo innanzi a lei. Vengono da

noi. La sera è pericoloso stare sulla strada. Guardie non se nevedono. Davanti alle banche ce n’è sempre una. Il denaro delpadrone si difende. L’onestà dei poveri no.

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52Noi bisogna uscire da qui, tutti insieme. Non bisogna ras-

segnarsi, ma lottare perché il diritto dei poveri sia ricono-sciuto.

53Sindaco, noi si dice che tutto il mondo è paese. C’è chi abita

lontano, e noi lo conosciamo solo dai giornali, ma gli si vuolbene lo stesso. È per questo che noi qui ci interessiamo ditutti, dei neri, degli americani, dei cinesi, dei colombiani. Edè giusto che tutti sappiano quello che noi facciamo, in modoparticolare quelli che abitano nella nostra città.

54Aspettiamo.Siamo in attesa di una risposta. La prima l’aspettiamo da

lei, sindaco. Poi dai baraccati o dai gruppi di giovani o di sa-cerdoti che soffrono con loro. Aspettiamo una risposta anchedal Ministro dei Lavori Pubblici e dal Presidente della Provin-cia. Lavorare da soli può essere buono, ma sarà difficile otte-nere ciò che vogliamo. Bisogna lavorare tutti insieme. Noiabbiamo ragione.

55È per questo che dopo averla mandata a lei, manderemo la

lettera ai giornali. Forse ci capiranno solo quelli che vivonocome noi. Ma noi si continuerà ugualmente ad aver fiducianella ragione.

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