42
Corso di Letteratura Latina (a.a. 2013-2014) VITTORIO ALFIERI Vita scritta da esso ( 1804.) CAP. IV Verso il principio dell'anno '76, trovandomi già da sei e più mesi ingolfato negli studi italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non più intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e là, come accade, delle citazioni, anco le più brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle a piè pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto privo d'ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiuntasi al rossore, mi sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie di Seneca, di cui alcuni sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere più fedeli e meno tediose di quelle tante italiane che sì inutilmente possediamo. Mi presi dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale, postomi Fedro in mano, con molta sorpresa sua e rossore mio, vide e mi disse che non l'intendeva, ancorché l'avessi già spiegato in età di dieci anni; ed in fatti provandomici a leggerlo traducendolo in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi, e degli sconci equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe così ad un tempo stesso il non dubbio saggio e della mia asinità, e della mia tenacissima risoluzione, m'incoraggì molto, e in vece di lasciarmi il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi: “Dal difficile si viene al facile; e così sarà cosa più degna di lei. Facciamo degli spropositi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini, e questi ci appianeran la via per scendere agli altri”. E così si fece; e si prese un Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando, costruendo, indovinando, e sbagliando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principio di gennaio a tutto il marzo. Questo studio

VITTORIO ALFIERI Vita scritta da esso 1804.)oldsite.lettere.unifg.it/dwn/LetteraturaLatina2013-14_2dispensa.pdf · Corso di Letteratura Latina (a.a. 2013-2014) VITTORIO ALFIERI Vita

Embed Size (px)

Citation preview

Corso di Letteratura Latina (a.a. 2013-2014)

VITTORIO ALFIERI Vita scritta da esso ( 1804.) CAP. IV

Verso il principio dell'anno '76, trovandomi gi da sei e pi mesi ingolfato negli studi italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non pi intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e l, come accade, delle citazioni, anco le pi brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle a pi pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto privo d'ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiuntasi al rossore, mi sforz ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie di Seneca, di cui alcuni sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere pi fedeli e meno tediose di quelle tante italiane che s inutilmente possediamo. Mi presi dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale, postomi Fedro in mano, con molta sorpresa sua e rossore mio, vide e mi disse che non l'intendeva, ancorch l'avessi gi spiegato in et di dieci anni; ed in fatti provandomici a leggerlo traducendolo in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi, e degli sconci equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe cos ad un tempo stesso il non dubbio saggio e della mia asinit, e della mia tenacissima risoluzione, m'incoragg molto, e in vece di lasciarmi il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi: Dal difficile si viene al facile; e cos sar cosa pi degna di lei. Facciamo degli spropositi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini, e questi ci appianeran la via per scendere agli altri. E cos si fece; e si prese un Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando, costruendo, indovinando, e sbagliando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principio di gennaio a tutto il marzo. Questo studio

mi cost moltissima fatica, ma mi frutt anche bene, poich mi rimise in grammatica senza farmi uscire di poesia.

In quel frattempo non tralasciava per di leggere e postillare sempre i poeti italiani, aggiungendone qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa, e ricominciando poi da capo i primari; talch il Petrarca e Dante nello spazio di quattr'anni lessi e postillai forse cinque volte. E riprovandomi di tempo in tempo a far versi tragici, avea gi verseggiato tutto il Filippo. Ma bench fosse venuto alquanto men fiacco e men sudicio della Cleopatra, pure quella versificazione mi riusciva languida, prolissa, fastidiosa e triviale. Ed in fatti quel primo Filippo, che poi alla stampa si content di annoiare il pubblico con soli millequattrocento e qualche versi, nei due primi tentativi pertinacemente volle annoiare e disperare il suo autore con pi di due mila versi, in cui egli diceva allora assai meno cose, che nei millequattrocento dappoi.

Quella lungaggine e fiacchezza di stile, ch'io attribuiva assai pi alla penna mia che alla mente mia, persuadendomi finalmente ch'io non potrei mai dir bene italiano finch andava traducendo me stesso dal francese, mi fece finalmente risolvere di andare in Toscana per avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai pi. Partii dunque nell'aprile del '76, coll'intenzione di starvi sei mesi, lusingandomi che basterebbero a disfrancesarmi.

Ma sei mesi non disfanno una triste abitudine di dieci e pi anni. Avviatomi alla volta di Piacenza e di Parma, me n'andava a passo tardo e lento, ora in biroccio, ora a cavallo, in compagnia de' miei poetini tascabili, con pochissimo altro bagaglio, tre soli cavalli, due uomini, la chitarra, e le molte speranze della futura gloria. Per mezzo del Paciaudi conobbi in Parma, in Modena, in Bologna, e in Toscana, quasi tutti gli uomini di un qualche grido nelle lettere. E quanto io era stato non curante di tal mercanzia ne' miei primi viaggi, altrettanto e pi era poi divenuto curioso di conoscere i grandi, e i medi in qualunque genere. Allora conobbi in Parma il celebre nostro stampatore Bodoni, e fu quella la prima stamperia in cui io ponessi mai i piedi, bench fossi stato a Madrid, e a Birmingham, dove erano le due pi insigni stamperie d'Europa, dopo il Bodoni. Talch io non aveva mai vista un'a di metallo, n alcuno di quei tanti ordigni che mi doveano poi col tempo acquistare o celebrit o canzonatura. Ma certo in nessuna pi augusta officina io potea mai capitare per la prima volta, n mai ritrovare un pi benigno, pi esperto, e pi ingegnoso espositore di quell'arte maravigliosa che il Bodoni, da cui tanto lustro e accrescimento ha ricevuto e riceve.

Cos a poco a poco ogni giorno pi ridestandomi dal mio lungo e crasso letargo, io andava vedendo e imparando (un po' tardetto) assai cose. Ma la pi importante si era per me, ch'io andava ben conoscendo appurando e pesando le mie facolt intellettuali letterarie, per non isbagliar poi, se poteva, nella scelta del genere. N in questo studio di me medesimo io era tanto novizio come negli altri; atteso che piuttosto precedendo l'et che aspettandola, io fin da anni addietro avea talvolta impreso a diciferare a me stesso la mia morale entit; e l'avea fatto anche con penna, non che col pensiero. Ed ancora conservo una specie di diario che per alcuni mesi avea avuta la costanza di scrivere annoverandovi non solo le mie sciocchezze abituali di giorno in giorno, ma

anche i pensieri, e le cagioni intime, che mi faceano operare o parlare: il tutto per vedere, se in cos appannato specchio mirandomi, il migliorare d'alquanto mi venisse poi a riuscire. Avea cominciato il diario in francese; lo continuai in italiano; non era bene scritto n in questa lingua, n in quella; era piuttosto originalmente sentito e pensato. Me ne stufai presto, e feci benissimo; perch ci perdeva il tempo e l'inchiostro, trovandomi essere tuttavia un giorno peggiore dell'altro. Serva questo per prova, ch'io poteva forse ben per l'appunto conoscere e giudicare la mia capacit e incapacit letteraria in tutti i suoi punti. Parendomi dunque ormai discernere appieno tutto quello che mi mancava e quel poco ch'io aveva in proprio dalla natura, io sottilizzava anche pi in l per discernere tra le parti che mi mancavano, quali fossero quelle che mi sarei potute acquistar nell'intero, quali a mezzo soltanto, e quali niente affatto. A questo s fatto studio di me stesso io forse sar poi tenuto (se non di essere riuscito) di non avere almeno tentato mai nessun genere di composizione al quale non mi sentissi irresistibilmente spinto da un violento impulso naturale; impulso, i di cui getti sempre poi in qualunque bell'arte, ancorch l'opera non riesca perfetta, si distinguono di gran lunga dai getti dell'impulso comandato, ancorch potessero pur procreare un'opera in tutte le sue patti perfetta.

Giunto in Pisa vi conobbi tutti i pi celebri professori, e ne andai cavando per l'arte mia tutto quell'utile che si poteva. Nel fregarmi con costoro, la pi disastrosa fatica ch'io provassi, ell'era d'interrogarli con quel riguardo e destrezza necessaria per non smascherar loro spiattellatamente la mia ignoranza; ed in somma dir con fratesca metafora, per parer loro professo, essendo tuttavia novizio. Non gi ch'io potessi n volessi spacciarmi per dotto; ma era al buio di tante e poi tante cose, che coi visi nuovi me ne vergognava; e pareami, a misura che mi si andavano dissipando le tenebre, di vedermi sempre pi gigantesca apparire questa mia fatale e pertinace ignoranza. Ma non meno forse gigantesco era e facevasi il mio ardimento. Quindi, mentr'io per una parte tributava il dovuto omaggio al sapere d'altrui, non mi atterriva punto per l'altra il mio non sapere; sendomi ben convinto che al far tragedie il primo sapere richiesto, si il forte sentire; il qual non s'impara. Restavami da imparare (e non era certo poco) l'arte di fare agli altri sentire quello che mi parea di sentir io.

Nelle sei o sette settimane ch'io dimorai a Pisa, ideai e distesi a dirittura in sufficiente prosa toscana la tragedia d'Antigone, e verseggiai il Polinice un po' men male che il Filippo. E subito mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell'Universit, i quali mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne censurarono qua e l l'espressioni, ma neppure con quella severit che avrebbe meritata. In quei versi, a luoghi si trovavan dette cose felicemente; ma il totale della pasta ne riusciva ancora languida, lunga, e triviale a giudizio mio; a giudizio dei barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida, diceano, e sonante. Non c'intendevamo. Io chiamava languido e triviale ci ch'essi diceano fluido e sonante; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto, non ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto cadeva contrasto fra noi, perch io a maraviglia tenea la mia parte di discente, come essi la loro di docenti; era per ben fermo di volere prima d'ogni cosa piacere a me stesso. Da quei signori dunque io mi contentava d'imparare negativamente, ci che non va fatto; dal tempo, dall'esercizio, dall'ostinazione, e da me, io mi lusingava poi d'imparare quel che va fatto. E s'io volessi far ridere a spese di quei dotti, com'essi forse avran riso allora alle mie, potrei nominar taluno fra essi, e dei pi pettoruti, che mi consigliava, e portava egli stesso la Tancia del Buonarroti, non dir per modello, ma per aiuto al mio tragico verseggiare, dicendomi che gran dovizia di lingua e di modi vi troverei. Il che equivarebbe a chi proponesse a un pittore di storia

di studiare il Callotta. Altri mi lodava lo stile del Metastasio, come l'ottimo per la tragedia. Altri, altro. E nessun di quei dotti era dotto in tragedia.

Nel soggiorno di Pisa tradussi anche la Poetica d'Orazio in prosa con chiarezza e semplicit per invasarmi que' suoi veridici e ingegnosi precetti. Mi diedi anche molto a leggere le tragedie di Seneca, bench in tutto ben mi avvedessi essere quelle il contrario dei precetti d'Orazio. Ma alcuni tratti di sublime vero mi trasportavano, e cercava di renderli in versi sciolti per mio doppio studio di latino e d'italiano, di verseggiare e grandeggiare. E nel fare questi tentativi mi veniva evidentemente sotto gli occhi la gran differenza tra il verso giambo ed il verso epico, i di cui diversi metri bastano per distinguere ampiamente le ragioni del dialogo da quelle di ogni altra poesia; e nel tempo stesso mi veniva evidentemente dimostrato che noi Italiani non avendo altro verso che l'endecasillabo per ogni componimento eroico, bisognava creare una giacitura di parole, un rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevit e di forza, che venissero a distinguere assolutamente il verso sciolto tragico da ogni altro verso sciolto e rimato s epico che lirico. I giambi di Seneca mi convinsero di questa verit, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti maschi e feroci di quell'autore debbono per met la loro sublime energia al metro poco sonante, e spezzato. Ed in fatti qual s sprovvisto di sentimento e d'udito, che non noti l'enorme differenza che passa tra questi due versi? L'uno, di Virgilio, che vuol dilettare e rapire il lettore:

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum; (Virgilio, Aen. VIII,594)

l'altro, di Seneca che vuole stupire, e atterrir l'uditore; e caratterizzare in due sole parole due personaggi diversi:

Concede morte. Si recusares, darem. (Electra in Seneca, Agamemnon, 994)

Per questa ragione stessa non dovr dunque un autor tragico italiano nei punti pi appassionati e fieri porre in bocca de' suoi dialogizzanti personaggi dei versi, che quanto al suono in nulla somiglino a quei peraltro stupendi e grandiosissimi del nostro epico:

Chiama gli abitator dell'ombre eterne il rauco suon della tartarea tromba. (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, canto IV)

Convinto io nell'intimo cuore della necessit di questa total differenza da serbarsi nei due stili, e tanto pi difficile per noi Italiani, quanto giuoco forza crearsela nei limiti dello stesso metro, io dava dunque poco retta ai saccenti di Pisa quanto al fondo dell'arte drammatica, e quanto allo stile da adoprarvisi; gli ascoltava bens con umilt e pazienza su la purit toscanesca e grammaticale; ancorch neppure in questo i presenti Toscani gran cosa la sfoggino.

Eccomi intanto in meno d'un anno dopo la recita della Cleopatra, possessore in proprio del patrimonietto di tre altre tragedie. E qui mi tocca di confessare, pel vero, di quai fonti le avessi tratte. Il Filippo, nato francese, e figlio di francese, mi venne di ricordo dall'aver letto pi anni prima il romanzo di Don Carlos, dell'Abate di San Reale. Il Polinice, gallo anch'egli, lo trassi dai Fratelli nemici, del Racine. L'Antigone, prima non imbrattata di origine esotica, mi venne fatta leggendo il duodecimo libro di Stazio nella traduzione su mentovata, del Bentivoglio. Nel Polinice l'avere io inserito alcuni tratti presi nel Racine, ed altri presi dai Sette prodi di Eschilo, che leggicchiai nella traduzion francese del padre Brumoy, mi fece far voto in appresso, di non pi mai leggere tragedie d'altri prima d'aver fatte le mie, allorch trattava soggetti trattati, per non incorrere cos nella taccia di ladro, ed errare o far bene, del mio. Chi molto legge prima di comporre, ruba senza avvedersene, e perde l'originalit, se l'avea. E per questa ragione anche avea abbandonato fin dall'anno innanzi la lettura di Shakespeare (oltre che mi toccava di leggerlo tradotto in francese). Ma quanto pi mi andava a sangue quell'autore (di cui per benissimo distingueva tutti i difetti), tanto pi me ne volli astenere.

Appena ebbi stesa l'Antigone in prosa, che la lettura di Seneca m'infiamm e sforz d'ideare ad un parto le due gemelle tragedie, l'Agamennone, e l'Oreste. Non mi parea con tutto ci, ch'elle mi siano riuscite in nulla un furto fatto da Seneca. Nel fin di giugno sloggiai di Pisa, e venni in Firenze, dove mi trattenni tutto il settembre. Mi vi applicai moltissimo all'impossessarmi della lingua parlabile; e

conversando giornalmente con Fiorentini, ci pervenni bastantemente. Onde cominciai da quel tempo a pensare quasi esclusivamente in quella doviziosissima ed elegante lingua; prima indispensabile base per bene scriverla. Nel soggiorno in Firenze verseggiai per la seconda volta il Filippo da capo in fondo, senza neppur pi guardare quei primi versi, ma rifacendoli dalla prosa.

Ma i progressi mi pareano lentissimi, e spesso mi parea anzi di scapitare che di migliorare. Nel corrente di agosto, trovandomi una mattina in un crocchio di letterati, udii a caso rammentare l'aneddoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo I. Questo fatto mi colp; e siccome stampato non , me lo procurai manoscritto, estratto dai pubblici archivi di Firenze, e fin d'allora ne ideai la tragedia. Continuava intanto a schiccherare molte rime, ma tutte mi riuscivano infelici. E bench non avessi in Firenze nessun amico censore che equivalesse al Tana e al Paciaudi, pure ebbi abbastanza senno e criterio di non ne dar copia a chi che si fosse, e anche la sobriet di pochissimo andarle recitando. Il mal esito delle rime non mi scoraggiva con tutto ci; ma bens convincevami che non bisognava mai restare di leggerne dell'ottime, e d'impararne a memoria, per invasarmi di forme poetiche. Onde in quell'estate m'inondai il cervello di versi del Petrarca, di Dante, del Tasso, e sino ai primi tre canti interi dell'Ariosto; convinto in me stesso, che il giorno verrebbe infallibilmente, in cui tutte quelle forme, frasi, e parole d'altri mi tornerebbero poi fuori dalle cellule di esso miste e immedesimate coi miei propri pensieri ed affetti.

VITTORIO ALFIERI, RENDIMENTO DI CONTI DA DARSI AL TRIBUNAL DAPOLLO (ANNO 1976): Leggo tutto Seneca tragico, a confronto dei Greci tragici . [29 agosto 1796- 31 ottobre 1796]

Oedipus 29 agosto Sofocle Edipo re 28 agosto 1796

Agamemnon 5 settembre Eschilo Agamennone 3 settembre 1796

Hippolytus 12 settembre Euripide Ippolito 11 settembre 1796

Medea 19 settembre (tradotta) Euripide Medea 18 settembre 1796

Medea superest (v.166): hoc sublime responsum, non est Euripidis, sicuti pene haec tota tragoedia; sed totum Senecae Troades 26 settembre Euripide Troadi 25 settembre 1796

Hercules furens 3 ottobre Euripide Eracle 2 ottobre 1796

Hercules Oetaeus 10 ottobre Sofocle Trachinie 9 ottobre 1796

Thebais 18 ottobre (tradotta) Eschilo Sette a Tebe 16 ottobre 1796

Euripide Fenicie 17 ottobre 1796

Thyestes 24 ottobre (tradotta fino al v.512)

Nvtrix Sile, obsecro, questusque secreto abditos 150 manda dolori. grauia quisquis uulnera patiente et aequo mutus animo pertulit, referre potuit: ira quae tegitur nocet; professa perdunt odia uindictae locum. Medea Leuis est dolor,qui capere consilium potest 155 et clepere sese: magna non latitant mala. libet ire contra. Nvt. Siste furialem impetum, alumna: uix te tacita defendit quies. Me. Fortuna fortes metuit, ignauos premit. Nvt. Tunc est probanda, si locum uirtus habet. 160 Me. Numquam potest non esse uirtuti locus.

NUT. Chi, dacerbe punture il cor trafitto, tacito mostra imperturbabil volto pu trafigger laltrui. Lira nascosta terribil fia: lapertura al tutto vana MEDEA Quel chasconder si puote o tor consigli Ben lieve dolor: scoppian dal cuore Mal rattenuti i violenti affetti NUT. Sicura appena sei Medea tacendo MED. Teme i prodi fortuna: i vili opprime OPPURE MED. Fortuna serve ai forti: i vili opprime

Nvt. Spes nulla rebus monstrat adflictis uiam. Me. Qui nil potest sperare, desperet nihil. Nvt. Abiere Colchi, coniugis nulla est fides nihilque superest opibus e tantis tibi. 165 Me. Medea superest: hic mare et terras uides ferrumque et ignes et deos et fulmina. Nvt. Rex est timendus. Me. Rex meus fuerat pater. Nvt. Non metuis arma? Me. Sint licet terra edita. Nvt. Moriere. Me. Cupio. Nvt. Profuge. Me. Paenituit fugae. 170 Nvt. MedeaMe.Fiam.Nvt. Mater es.Me.Cui sim uide. Nvt. Profugere dubitas? Me. Fugiam, at ulciscar prius. Nvt. Vindex sequetur. Me. Forsan inueniam moras. Nvt. Compesce uerba, parce iam, demens, minis animosque minue: tempori aptari decet. 175 Me. Fortuna opes auferre, non animum potest. Sed cuius ictu regius cardo strepit? ipse est Pelasgo tumidus imperio Creo Nvtrix Sile, obsecro, questusque secreto abditos 150 manda dolori. grauia quisquis uulnera patiente et aequo mutus animo pertulit, referre potuit: ira quae tegitur nocet; professa perdunt odia uindictae locum. Me. Leuis est dolor, qui capere consilium potest 155 et clepere sese: magna non latitant mala. libet ire contra. Nvt. Siste furialem impetum, alumna: uix te tacita defendit quies. Me. Fortuna fortes metuit, ignauos premit.

NUT. Non vha pi speme : disperato il tutto MED. Chi nulla pu sperar, nulla disperi NUT. Lungi i Colchi: Giason rimanti infidoChe pi tavanza omai? MED. Medea mavanza. Medea, cui serve il ciel, la terra il foco, il ferro, la morte, i numi istessi NUT. Temi dal Re MED. Figlia di re son io NUT. Larmi non temi? MED. No, qualunque sieno NUT. Morrai MED. Morr NUT. Fuggi Nutrice Sta zitta, ti prego!Soffoca i tuoi lamenti nel segreto del tuo dolore. Solo chi, standosene muto, capace di subire le ferite pi gravi con sopportazione ed equilibrio, poi pu restituirle. Fa veramente male lira, dopo che la si tenuta nascosta; lodio, quando si manifesta apertamente, allora s che si lascia sfuggire loccasione della vendetta. Medea Solo quando un dolore lieve, ancora capace di ragionare

Nvt. Tunc est probanda, si locum uirtus habet. 160 Me. Numquam potest non esse uirtuti locus. Nvt. Spes nulla rebus monstrat adflictis uiam. Me. Qui nil potest sperare, desperet nihil. Nvt. Abiere Colchi, coniugis nulla est fides nihilque superest opibus e tantis tibi. 165 Me. Medea superest: hic mare et terras uides ferrumque et ignes et deos et fulmina. Nvt. Rex est timendus. Me.Rex meus fuerat pater. Nvt. Non metuis arma? Me. Sint licet terra edita. 169 Nvt.Moriere.Me.Cupio.Nvt.Profuge.Me. Paenituit fugaeNvt. MedeaMe.Fiam.Nvt.Mater es.Me.Cui sim uide. Nvt. Profugere dubitas? Me. Fugiam, at ulciscar prius. Nvt.Vindex sequetur.Me.Forsan inueniam moras. 173 Nvt. Compesce uerba, parce iam, demens, minis animosque minue: tempori aptari decet. 175 Me. Fortuna opes auferre, non animum potest.

e di starsene rintanato; le sciagure quando sono grandi, invece, non ce la fanno a rimanere nascoste. Lunico piacere allora quello di andare allassalto. Nut. Sei diventata una furia! Frena il tuo impeto, mia piccola! gi molto se il controllo dei tuoi gesti e della tua voce riesce a proteggerti! Med. La fortuna ha paura dei forti, mentre schiaccia i deboli. Nut.Vuoi metterla alla prova? Devi allora trovare loccasione giusta per il tuo ardire. Med. C mai un momento, in cui non si possa dar spazio allardire? Nut. Siamo alladisfatta totale: nemmeno un barlume di speranza che possa indicare una via duscita! Med. Ah, s! Non c pi nulla da sperare? E allora non c nemmeno nulla da disperare. Nut. Rifletti! Quelli della Colchide? Se ne sono andati tutti! Il matrimonio con tuo marito? Non esiste pi! Le tue ricchezze? Erano davvero enormi: ora non ti rimasto pi nulla! Med. Medea! Ecco chi rimane! Rimane viva Medea,s! Lei tutto: il mare e la terra, il ferro e il fuoco, gli dei e i fulmini.Nut. Ma tu devi avere paura di un re! Med. Anche mio padre era un re! Nut. E non hai paura delle armate? Med. No! Anche se fossero quelle partorite dalla terra! Nut. Ma tu, lo sai che morirai? Med. E il mio pi grande desiderio! Nut. Vattene, prendi la fuga! Med. Sono gi fuggita una volta: e mi sono pentita! Nut. Medea! Med. Non lo sono pi! Ma lo ridiventer! Nut. Sei una madre! Sai? Med. Eh, gi! Si visto per chi lo sono! Nut. Fuggi! Che aspetti?Med. S che fuggir! Prima per mi devo vendicare!Nut. Poi per ti inseguiranno per fartela pagare! Med.Non ti preoccupare! So come intralciarli. Nut,Clmati, basta con le parole! Sei fuori di te: metti un freno alle tue minacce! attenua la tua aggressivit! conviene sapersi adattare alle circostanze! Med. Le ricchezze, quelle s che la fortuna pu portarle via, ma il coraggio no! Cosa sento? C qualcuno che bussa e la porta della reggia cigola. E lui, Creonte, in persona. Guardalo! Il potere sui greci lo ha reso completamente tronfio.

FRAMMENTI DELLA PERDUTA MEDEA DI OVIDIO Seneca , suasoriae 3,6-7 Solebat autem Fuscus ex Vergilio multa trahere, ut Maecenati imputaret; totiens enim pro beneficio narrabat in aliqua se Vergiliana descriptione placuisse; sicut in hac ipsa suasoria dixit: 'cur iste interpretis ministerium placuit? cur hoc os deus elegit? cur hoc sortitur potissimum pectus quod tanto numine impleat?' Aiebat se imitatum esse Vergilianum 'plena deo.' Solet autem Gallio noster hoc aptissime ponere. Memini una nos ab auditione Nicetis ad Messalam venisse. Nicetes suo impetu valde Graecis placuerat. Quaerebat a Gallione Messala quid illi visus esset Nicetes. Gallio ait: 'plena deo.' Quotiens audierat aliquem ex his declamatoribus quos scholastici caldos vocant, statim dicebat: 'plena deo.' Ipse Messala numquam aliter illum ab novi hominis auditione venientem

interrogavit quam ut diceret: 'numquid plena deo?' Itaque hoc ipsi iam tam familiare erat ut invito quoque excideret. Apud Caesarem cum mentio esset de ingenio Hateri, consuetudine prolapsus dixit: 'et ille erat plena deo.' Quaerenti deinde quid hoc esse vellet, versum Vergilii rettulit, et quomodo hoc semel sibi apud Messalam excidisset et numquam postea potuisset excidere. Tiberius ipse Theodoreus offendebatur Nicetis ingenio; itaque delectatus est fabula Gallionis. Hoc autem dicebat Gallio Nasoni suo valde placuisse; itaque fecisse illum quod in multis aliis versibus Vergilii fecerat, non subripiendi causa, sed palam mutuandi, hoc animo ut vellet agnosci; esse autem in tragoedia eius: feror huc illuc, vae, plena deo. Verg. Aen. III,16 feror huc, et litore curvo moenia prima loco fatis ingressus inAeneadas que meo nomen de nominVerg. Aen. III,76 huc feror, haec fessos tuto placidissimaaccipit. Iam, vultis, ad Fuscum revertar et descriptionibus eius vos statim satiabo, ac potissimum eis quas in simili huius tractatione posuit, cum diceret omnino non concessam futurorum scientiam. Quintiliano, institutio oratoria 8,5,4 Hanc quidam partem enthymematis, quidam initium aut clausulam epichirematis esse dixerunt, et est aliquando, non tamen semper. Illud uerius, esse eam aliquando simplicem, ut ea quae supra dixi, aliquando ratione subiecta: 'nam in omni certamine qui opulentior est, etiam si accipit iniuriam, tamen quia plus potest facere uidetur': nonnumquam duplicem: 'obsequium amicos, ueritas odium parit.' Sunt etiam qui decem genera fecerint, sed eo modo quo fieri uel plura possunt: per interrogationem, per comparationem, infitiationem, similitudinem, admirationem et cetera huius modiper omnes enim figuras tractari potest. Illud notabile ex diuersis: 'mors misera non est, aditus ad mortem est miser.' Ac rectae quidem sunt tales: 'tam deest auaro quod habet quam quod non habet.'

Sed maiorem uim accipiunt et mutatione figurae, ut 'usque adeone mori miserum est?' acrius hoc enim quam per se 'mors misera non est', et tralatione a communi ad proprium. Nam cum sit rectum 'nocere facile est, prodesse difficile', uehementius apud Ouidium Medea dicit: 'seruare potui: perdere an possim rogas?'

TRADUZIONE a cura di Giovanni Cipriani

SCENA I, vv.1-55 MEDEA Di tutti del matrimonio, e tu, Lucna, protettrice del letto nuziale, e tu, Minerva, che insegnasti a Tifi a governare quellinsolita nave, che, per prima, avrebbe sottomesso le onde ribollenti, e tu, spietato signore degli abissi e tu, Titano, che vai distribuendo nel mondo la tua luce luminosa, e tu, Ecate, dai tre volti, tu che diffondi il chiarore della luna che tutto sa, durante le cerimonie segrete, e voi, di, sul cui nume Giasone mi prest giuramento, e voialtri tutti, ai quali pi sacrosanto che Medea si rivolga: a voi indirizzo le mie preghiere con parole di cattivo augurio. Parlo a te, Caos della notte eterna, a voi, potenti di inferi in rotta con gli di celesti, a voi ombre dei morti, in preda al rancore, a te signore del regno del buio, a te regina dellaldil, che un giorno fosti rapita: il tuo patto damore, per, ha avuto miglior sorte del mio.Ora, ora, qui, accanto a me vi voglio, de vendicatrici dei misfatti, divinit spettrali per quei capelli su cui si snodano i serpenti: con le vostre mani, sporche di sangue, stringete nere fiaccole; qui, accanto a me vi voglio, orrende come lo siete state tempo fa, il giorno del mio matrimonio: recate morte alla sposa di ora, recate morte al suocero e a tutta la stirpe regale. Per parte mia, c una sciagura pi atroce, che vorrei chiedervi per luomo che si era promesso a me: viva pure, ma vada ramingo per citt sconosciute, come un miserabile, un senza patria, con la paura addosso, malvisto, senza una fissa dimora. Da straniero, ormai tristemente noto, bussi allaltrui porta; che, alla fine, torni a scegliere me come moglie, e, sventura di cui non so augurargli nulla di peggio, gli capitino figli degni di un tale padre, degni di una tale madre! Lho gi partorito! lho gi partorito lo strumento della mia vendetta! Certo, io s, io ho davvero partorito! Che faccio? Spreco inutilmente lamenti e parole? Che

LUCIO ANNEO SENECA,

Medea MEDEA Di coniugales tuque genialis tori, Lucina, custos quaeque domituram freta Tiphyn nouam frenare docuisti ratem, et tu, profundi saeue dominator maris, clarumque Titan diuidens orbi diem, 5 tacitisque praebens conscium sacris iubar Hecate triformis, quosque iurauit mihi deos Iason, quosque Medeae magis fas est precari: noctis aeternae chaos, auersa superis regna manesque impios 10 dominumque regni tristis et dominam fide meliore raptam, uoce non fausta precor. nunc, nunc adeste sceleris ultrices deae, crinem solutis squalidae serpentibus, atram cruentis manibus amplexae facem, 15 adeste, thalamis horridae quondam meis quales stetistis: coniugi letum nouae letumque socero et regiae stirpi date.

Mihi peius aliquid,quod precer sponso malum : uiuat; per urbes erret ignotas egens 20 exul pauens inuisus incerti laris, iam notus hospes limen alienum expetat; me coniugem opto, quoque non aliud queam peius precari, liberos similes patri similesque matri parta iam, parta ultio est: peperi. Querelas uerbaque in cassum sero? non ibo in hostes? manibus excutiam faces caeloque lucem- spectat hoc nostri sator Sol generis, et spectatur, et curru insidens per solita puri spatia decurrit poli? 30

aspetto a muovere contro i nemici? Strapper le fiaccole dalle loro mani, strapper la luce dal cielo! Che fa il sole, capostipite della mia famiglia? Sta a guardare questo spettacolo, e si lascia ancora guardare? E, seduto sul suo carro, percorre le consuete plaghe del limpido cielo? Che fa? Continua a riprendere il cammino ad oriente e a riportare la luce del giorno? Lascia, lascia che mi si trasporti per letere sul carro di famiglia; affidami, mio progenitore, le briglie perch io possa tenere in equilibrio, a colpi di sferza infuocata, il giogo del tuo carro che sprigiona fiamme. Corinto, che con il suo Istmo continua ancora a interporsi fra le due coste, lasci finalmente che le onde dei due mari, ribollenti di fuoco, si fondano fra loro!Solo questo ci manca: e s, che sia io in persona a portare le fiaccole di buon auspicio per le nozze e che, dopo le preghiere di rito, immoli le vittime sugli altari consacrati!Cuore mio, qui, dentro le mie stesse viscere, che devi cercare la via per giungere al castigo: ce lhai ancora un po di coraggio? E allora, via la paura, che sa di donna! Riprenditi i costumi della gente del Caucaso, quello che non sa che cos lospitalit.Delitti dogni genere hanno visto il Ponto e il Fasi; gli stessi vedr anche lIstmo. Sono misfatti efferati, ancora sconosciuti, orribili e tremendi quelli che la mia mente sta agitando dentro di s, e non risparmieranno allo stesso modo n il cielo n la terra.Ho inferto ferite, ho fatto a pezzi, ho portato morte di qua e di l lungo tutte le membra. Lo so: il mio ricordo si associa a delitti fin troppo blandi: e gi! questi li ho commessi quando ero ancora ragazza! Un dolore pi atroce, allora, si levi fuori di me! E gi! Ora che ho partorito, mi si addicono reati di gran lunga pi gravi. Ira, rmati, mettici tutta la tua rabbia e preprati a portare distruzione! Il tuo ripudio, Medea, far notizia allo stesso modo del tuo matrimonio. In che modo ti staccherai da tuo marito? Ci hai pensato? Eccolo! lo stesso con cui gli sono andata dietro. E venuto il momento, ormai, di troncare gli indugi; questi ti fanno solo perdere tempo. Ho dato vita a una famiglia con il delitto, ora mi tocca lasciarla con un altro delitto!

CORO I (vv. 56-115) A nozze di re consenso e protezione assicurate, benevoli di, voi che sul cielo e sul mare avete potere. Il popolo tutto, qui, si aduna, osservando le parole di rito. Siano onorati per primi Giove e Giunone, detentori dello scettro e del tuono: a Giove sia un toro dal candido dorso a porgere il collo, sia invece una giovenca a placare Giunone Lucina : bene che il suo corpo sia bianco come la neve e non sia mai stato sottomesso al giogo. Alla dea pi pacifica, Venere, tocchi invece una vittima pi delicata: Venere a trattenere le mani sporche di sangue dello spietato

non redit in ortus et remetitur diem? da, da per auras curribus patriis uehi, committe habenas, genitor, et flagrantibus ignifera loris tribue moderari iuga: gemino Corinthos litori opponens moras cremata flammis maria committat duo. hoc restat unum, pronubam thalamo feram ut ipsa pinum postque sacrificas preces caedam dicatis uictimas altaribus. Per uiscera ipsa quaere supplicio uiam, 40 si uiuis, anime, si quid antiqui tibi remanet uigoris; pelle femineos metus et inhospitalem Caucasum mente indue. quodcumque uidit Phasis aut Pontus nefas, uidebit Isthmos. Effera ignota horrida, 45 tremenda caelo pariter ac terris mala mens intus agitat: uulnera et caedem et uagum funus per artus leuia memoraui nimis: haec uirgo feci; grauior exurgat dolor: maiora iam me scelera post partus decent. 50 accingere ira teque in exitium para furore toto. paria narrentur tua repudia thalamis: quo uirum linques modo? hoc quo secuta es.rumpe iam segnes moras: 54 quae scelere parta est,scelere linquenda est

Chorvs Ad regum thalamos numine prospero qui caelum superi quique regunt fretum adsint cum populis rite fauentibus. Primum sceptriferis colla Tonantibus taurus celsa ferat tergore candido; Lucinam niuei femina corporis intemptata iugo placet, et asperi Martis sanguineas quae cohibet manus, quae dat belligeris foedera gentibus et cornu retinet diuite copiam, 65 donetur tenera mitior hostia. Et tu, qui facibus legitimis ades, noctem discutiens auspice dextera huc incede gradu marcidus ebrio, praecingens roseo tempora uinculo. 70

Marte, Venere a favorire i patti fra le popolazioni in guerra, sempre lei che nel prezioso corno porta racchiusa la fecondit. E tu, Imeneo, che assisti le giuste nozze, spazza le tenebre della notte con in mano la torcia di buon augurio; vieni da questa parte, col passo malfermo di chi ebbro e con le tempie avvinte da una corona di rose. E vieni tu, pure, Espero, che anticipi il giorno e la notte, tu, che ti fai sempre desiderare dagli amanti: le madri e le nuore sono in ansia: diffondi quanto prima il tuo chiarore! -questo desiderano ardentemente. Lei, la sposa, vince tutte -e di molto- con la sua bellezza virginale: le nuore discendenti dallateniese Cecrope, cos come quelle che, sulle balze del monte Taigeto, Sparta, citt senza mura, sottopone alla stessa disciplina dei giovani, o quelle che si bagnano nellacqua dellAonia Tebe o nelle divine onde del fiume Alfeo. Se si volesse mettere in mostra per il suo aspetto, il capo degli Argonauti, discendente di Esone, non avrebbe rivali: n in Dioniso, domatore di tigri, figlio di quel Giove che ne pun con la folgore la madre,n in Apollo, agitatore dei tripodi, fratello di Diana, vergine selvaggia, n Castore e insieme Polluce, campione del pugilato. Su, su, ve ne prego, o dei del ciel abitatori: Creusa,donna, laltre donne vinca, e Giasone, fra gli altri uomini, pi maschio sia! Quando a danza costei si erge fra le altre vergini, il volto suo solo spicca luminoso fra tutti: allo stesso modo che, quando spunta il sole, lo splendore delle stelle si disperde e, quando spunta la luna piena -uniti i corni in un disco di luce non sua-, la fitta costellazione delle Pleiadi rimane velata. Il suo rossore virginale rifulge come una macchia di porpora sul candido manto di neve o come Lucifero, splendente sul far del nuovo giorno, agli occhi del pastore ancor umido di rugiada. Dal vincolo nuziale che ti legava al selvaggio Fasi, o Giasone, sei finalmente libero. E tu che finora, in preda allansia, usavi abbracciare controvoglia una moglie restia ad ogni freno, adesso invece con lieti auspici abbraccia con forza la vergine eolia; finalmente, per la prima volta, vai sposo con il consenso di tuo suocero. Sfrenatevi pure, o giovani: linsulto lecito; parole audaci, o giovani, dogni parte scagliate, s rara sui signori limpunita licenza . O fulgido Imeneo, nobile figlio di Lieo adorno di tirso, ora tocca a te: gi da tempo ora di accendere la tua fiaccola a pi punte; con le tue languide dita suscita il

Et tu, quae, gemini praeuia temporis, tarde, stella, redis semper amantibus: te matres, auide te cupiunt nurus quamprimum radios spargere lucidos. Vincit uirgineus decor longe Cecropias nurus, et quas Taygeti iugis exercet iuuenum modo muris quod caret oppidum, et quas Aonius latex 80 Alpheosque sacer lauat. Si forma uelit aspici, cedent Aesonio duci proles fulminis improbi aptat qui iuga tigribus, nec non, qui tripodas mouet, frater uirginis asperae, cedet Castore cum suo Pollux caestibus aptior. Sic, sic, caelicolae, precor, 90 uincat femina coniuges, uir longe superet uiros. Haec cum femineo constitit in choro, unius facies praenitet omnibus. sic cum sole perit sidereus decor, et densi latitant Pleiadum greges, cum Phoebe solidum lumine non suo orbem circuitis cornibus alligat. ostro sic niueus puniceo color perfusus rubuit, sic nitidum iubar 100 pastor luce noua roscidus aspicit. Ereptus thalamis Phasidis horridi, effrenae solitus pectora coniugis inuita trepidus prendere dextera, felix Aeoliam corripe uirginem 105 nunc primum soceris sponse uolentibus. Concesso, iuuenes, ludite iurgio, hinc illinc, iuuenes, mittite carmina: rara est in dominos iusta licentia. Candida thyrsigeri proles generosa Lyaei, 110 multifidam iam tempus erat succendere pinum: excute sollemnem digitis marcentibus ignem. festa dicax fundat conuicia fescenninus, soluat turba iocostacitis eat illa tenebris, si qua peregrino nubit furtiua marito.

fuoco: la cerimonia pronta. Il linguacciuto fescennino riversi a piene mani le sue mordaci battute; lallegra compagnia si lasci andare agli scherzi; lei, invece, approfitti del buio per andarsene, lei, s lei che, fuggiasca, andata sposa ad un marito che veniva da fuori, da lontano.

OVIDIUS,Epistulae heroidum, 12Medea Iasoni

. ausus eso, iusto desunt sua verba dolori! ausus es 'Aesonia,' dicere, 'cede domo!' 134 iussa domo cessi natis comitata duobus et, qui me sequitur semper, amore tui. Ut subito nostras Hymen cantatus ad aures 137 venit, et accenso lampades igne micant, tibiaque effundit socialia carmina vobis, at mihi funerea flebiliora tuba, pertimui, nec adhuc tantum scelus esse putabam; sed tamen in toto pectore frigus erat. turba ruunt et 'Hymen,'clamant,'Hymenaee!' frequenter quo propior vox haec, hoc mihi peius erat. diversi flebant servi lacrimasque tegebant quis vellet tanti nuntius esse mali? me quoque, quidquid erat, potius nescire iuvabat; sed tamquam scirem, mens mea tristis erat, cum minor e pueris casu studione videndi constitit ad geminae limina prima foris 'huc modo, mater, adi! pompam pater,' inquit, 'Iason ducit et adiunctos aureus urget equos!'

SENECA, Medea 116sgg. Occidimus: aures pepulit hymenaeus meas. uix ipsa tantum, uix adhuc credo malum. hoc facere Iason potuit, erepto patre patria atque regno sedibus solam exteris deserere durus? merita contempsit mea qui scelere flammas uiderat uinci et mare? adeone credit omne consumptum nefas? incerta uecors mente non sana feror partes in omnes; unde me ulcisci queam? utinam esset illi frater! est coniunx: in hanc ferrum exigatur. hoc meis satis est malis? si quod Pelasgae, si quod urbes barbarae nouere facinus quod tuae ignorent manus, nunc est parandum. scelera te hortentur tua et cuncta redeant: inclitum regni decus raptum et nefandae uirginis paruus comes diuisus ense, funus ingestum patri sparsumque ponto corpus et Peliae senis decocta aeno membra: funestum impie quam saepe fudi sanguinemet nullum scelus irata feci: saeuit infelix amor. Quid tamen Iason potuit, alieni arbitri iurisque factus? debuit ferro obuium offerre pectusmelius, a melius, dolor furiose, loquere. si potest, uiuat meus, ut fuit, Iason; si minus, uiuat tamen memorque nostri muneri parcat meo. OVIDIUS,Epistulae heroidum, 12

Medea a Giasone Hai avuto il coraggio -oh come faccio a trovare le parole per esprimere il dolore che giustamente provo?- hai avuto il coraggio di rivolgerti a me dicendo: Esci da questa casa! Questa la casa di

protinus abscissa planxi mea pectora veste, tuta nec a digitis ora fuere meis. ire animus mediae suadebat in agmina turbae sertaque conpositis demere rapta comis; vix me continui, quin dilaniata capillos clamarem 'meus est!' iniceremque manus. Laese pater, gaude! Colchi gaudete relicti! inferias umbrae fratris habete mei; deseror amissis regno patriaque domoque coniuge, qui nobis omnia solus erat! 162

Esone, esci!. Davanti a quellordine sono uscita di casa, tenendo ai miei fianchi i due bambini; mi faceva compagnia ancora lamore per te, un amore che mi seguir ovunque. Ed ecco: dimprovviso giunge alle mie orecchie il canto nuziale, e, appiccato il fuoco, guizzano davanti ai miei occhi, le fiaccole rituali; un flauto, poi, manda per laria le note dellinno che vi lega (su di me hanno leffetto deprimente di una tromba funebre), ed immediatamente mi sento sconvolta da un tremito; davvero non riuscivo ancora a pensare ad un crimine cos scellerato; in ogni punto del mio cuore si diffuse unondata di gelo. Accorre una folla di persone e urla di continuo: Imene,Imeneo. Pi vicina sentivo quella voce, peggio mi sentivo. La servit piangeva e nascondeva le lacrime: per questo si era allontanata! Chi mai avrebbe voluto portarmi una tale notizia? Mi avrebbe fatto bene, piuttosto, non sapere nulla, qualsiasi cosa fosse successa. Il mio cuore era triste, era come se avessi un presentimento. Quandecco, il pi piccolo dei miei figli qualcuno ve lo aveva mandato, o lui stesso ci era andato per la curiosit di vedere- si arrest sulla soglia dei due battenti, sul lato esterno, e di l, rivolto a me: Accorri, subito, qui, mamma! Giasone, mio padre, sta in testa al corteo e, avvolto di vesti dorate, sprona una coppia di cavalli. Tutto in un lampo! Mi strappai le vesti e mi percossi il petto; nemmeno il volto fu al sicuro dalle mie unghie. Il cuore mi spingeva ad andare in mezzo a quella folla, a strappare dalle chiome ben acconciate le corone di fiori e a portarle via. A stento riuscii a trattenermi: avrei voluto, afferrandole i capelli, gridare: mio; e poi reclamare il possesso, mettendo le mani addosso al mio uomo. Padre mio, chiss come stai godendo ora! E anche voi, uomini della mia terra, che io ho abbandonato. Voi pure, spiriti di mio fratello, ricevete il giusto sacrificio di espiazione! Mi ha lasciata sola; ho perso tutto: il regno, la patria, la casa, mio marito, s, anche lui, che da solo era tutto per me.

SENECA, MEDEA Occidimus: aures pepulit hymenaeus meas. uix ipsa tantum, uix adhuc credo malum. hoc facere Iason potuit, erepto patre patria atque regno sedibus solam exteris deserere durus? merita contempsit mea 120 qui scelere flammas uiderat uinci et mare? adeone credit omne consumptum nefas? incerta uecors mente non sana [vesana] feror partes in omnes; unde me ulcisci queam? utinam esset illi frater! est coniunx: in hanc ferrum exigatur. hoc meis satis est malis? 126 Ovidio, ars amandi , II, 373-423 Sed neque fulvus aper media tam saevus in ira est, Fulmineo rabidos cum rotat ore canes, Nec lea, cum catulis lactentibus ubera praebet, Nec brevis ignaro vipera laesa pede, Femina quam socii deprensa paelice lecti: Ardet et in vultu pignora mentis habet. In ferrum flammasque ruit, positoque decore Fertur, ut Aonii cornibus icta dei. Coniugis admissum violataque iura marita est Barbara per natos Phasias ulta suos. Altera dira parens haec est, quam cernis, hirundo: Aspice, signatum sanguine pectus habet. Hoc bene compositos, hoc firmos solvit amores; Crimina sunt cautis ista timenda viris. Nec mea vos uni damnat censura puellae: Di melius! vix hoc nupta tenere potest. Ludite, sed furto celetur culpa modesto: Gloria peccati nulla petenda sui est. Nec dederis munus, cognosse quod altera possit, Nec sint nequitiae tempora certa tuae. Et, ne te capiat latebris sibi femina notis, Non uno est omnis convenienda loco; Et quotiens scribes, totas prius ipse tabellas Inspice: plus multae, quam sibi missa, legunt.

Medea Mi sento morire! Un canto di nozze mi ha scosso le orecchie. A mala pena, io stessa, una disgrazia tanto grande, stento ancor ora a crederla. Giasone mi avrebbe fatto questo? mi ha gi tolto il padre, mi ha gi tolto la patria, e insieme il regno, e ora ha il coraggio di abbandonarmi, sola, in una terra straniera. Quel senza cuore! E cos, dopo che le mie malefatte hanno avuto ragione del fuoco e del mare -e lui mi ha visto con i suoi occhi!-, ora non sa che farsene dei favori che gli ho fatto. Crede veramente che la mia capacit di far del male del tutto esaurita? Non sto pi in me, n so cosa fare.La follia mi ha sconvolto la mente; mi sento trascinata in mille direzioni. E adesso come mi vendico? Da dove comincio? Maledizione! Oh, se avesse un fratello! Non ce lha! Per ha una moglie! su di lei che devo dirigere la mia arma! Ma, questo mi baster? Le mie sventure sono tante!

Laesa Venus iusta arma movet, telumque remittit, Et, modo quod questa est, ipse querare, facit. Dum fuit Atrides una contentus, et illa Casta fuit: vitio est improba facta viri.

si quod Pelasgae, si quod urbes barbarae nouere facinus quod tuae ignorent manus, nunc est parandum. scelera te hortentur tua et cuncta redeant: inclitum regni decus 130 raptum et nefandae uirginis paruus comes diuisus ense, funus ingestum patri sparsumque ponto corpus et Peliae senis decocta aeno membra: funestum impie quam saepe fudi sanguinemet nullum scelus irata feci: saeuit infelix amor. 136

Ennius

MEDEA sive MEDEA EXUL NUTRIX utinam ne in nemore Pelio securibus caesa accidisset abiegna ad terram trabes, neue inde nauis inchoandi exordium cepisset, quae nunc nominatur nomine Argo, quia Argiui in ea delecti uiri uecti petebant pellem inauratam arietis Colchis, imperio regis Peliae, per dolum. nam numquam era errans mea domo efferret pedem Medea animo aegro amore saeuo saucia. ........................................................................................ MEDEA quo nunc me uortam? quod iter incipiam ingredi? domum paternamne? anne ad Peliae filias?

Verg. Aen, 4, 529-539

at non infelix animi Phoenissa, neque umquam soluitur in somnos oculisue aut pectore noctem accipit: ingeminant curae rursusque resurgens saeuit amor magnoque irarum fluctuat aestu. sic adeo insistit secumque ita corde uolutat: 'en, quid ago? rursusne procos inrisa priores experiar, Nomadumque petam conubia supplex, quos ego sim totiens iam dedignata maritos? Iliacas igitur classis atque ultima Teucrum iussa sequar? quiane auxilio iuuat ante leuatos et bene apud memores ueteris stat gratia facti?

Ci sar pure un crimine di cui le citt greche o le citt barbare hanno esperienza e di cui le tue mani sono alloscuro! orbene proprio a questo che ti devi dedicare. Fatti consigliare dai tuoi stessi misfatti: ora, tutti a mente ti devono tornare!Te li ricordi? Il prestigio di un grande reame: non ti appartiene pi! Tuo fratello, il piccolo compagno di giochi di quando eri ragazza, maledetta! Fatto a pezzi con la spada! Il suo omicidio: sbattuto in faccia al padre! Il suo corpo: sparpagliato per il mare. E le membra del vecchio Pelia, messe a cuocere nel calderone? Quante volte, senza nessuna morale, ho fatto versare sangue maledetto. Eppure, non una volta ho peccato perch in preda allira! E stato questo amore sciagurato a rendermi violenta.

Quid tamen Iason potuit, alieni arbitri iurisque factus? debuit ferro obuium offerre pectusmelius, a melius, dolor furiose, loquere. si potest, uiuat meus, 140 ut fuit, Iason; si minus, uiuat tamen memorque nostri muneri parcat meo. Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens coniugia soluit quique genetricem abstrahit gnatis et arto pignore astrictam fidem dirimit: petatur, solus hic poenas luat, quas debet. alto cinere cumulabo domum; uidebit atrum uerticem flammis agi Malea longas nauibus flectens moras. Nvtrix Sile, obsecro, questusque secreto abditos manda dolori. grauia quisquis uulnera patiente et aequo mutus animo pertulit, referre potuit: ira quae tegitur nocet; professa perdunt odia uindictae locum. Me. Leuis est dolor, qui capere consilium potest 155 et clepere sese: magna non latitant mala. libet ire contra. Nvt. Siste furialem impetum, alumna: uix te tacita defendit quies. Me. Fortuna fortes metuit, ignauos premit.

Ma cosa avrebbe dovuto fare il mio Giasone? Ormai, decidono gli altri per lui. Non pi padrone di se stesso. Certo, avrebbe dovuto almeno offrire il suo fiero petto allarma omicida! Ma cosa mi fai dire, o mio folle rancore! Non cos! Non cos! Sii pi buona! Se ce la fa, viva, tutto mio come sempre! Altrimenti, viva pure, ma si ricordi sempre di me e tenga sempre a cuore quello che gli ho dato.

E tutta colpa di Creonte: lo strapotere dello scettro gli fa sciogliere le unioni coniugali, gli fa sottrarre i figli a chi li ha messi al mondo, gli fa spezzare un legame di coppia reso ancor pi saldo dal pegno di una prole. Addosso a lui, ora! Solo lui deve scontare il fio! non ha scampo! Seppellir la reggia sotto un alto tumulo di cenere. La parte pi alta, nera per il fumo e avvolta dalle fiamme, la si vedr dal Capo Mala, quello che costringe le navi a una lenta virata. Nutrice Sta zitta, ti prego!Soffoca i tuoi lamenti nel segreto del tuo dolore. Solo chi, standosene muto, capace di subire le ferite pi gravi con sopportazione ed equilibrio, poi pu restituirle. Fa veramente male lira, dopo che la si tenuta nascosta; lodio, quando si manifesta apertamente, allora s che si lascia sfuggire loccasione della vendetta.

Medea Solo quando un dolore lieve, ancora capace di ragionare e di starsene rintanato; le sciagure quando sono grandi, invece, non ce la fanno a rimanere nascoste. Lunico piacere allora quello di andare allassalto.

Nutrice Sei diventata una furia! Frena il tuo impeto, miapiccola! gi molto se il controllo dei tuoi gesti edella tua voce riesce a proteggerti!

Medea La fortuna ha fifa dei forti, mentre schiaccia i deboli.

Nvt. Tunc est probanda, si locum uirtus habet. Me. Numquam potest non esse uirtuti locus. Nvt. Spes nulla rebus monstrat adflictis uiam. Me. Qui nil potest sperare, desperet nihil. Nvt. Abiere Colchi, coniugis nulla est fides nihilque superest opibus e tantis tibi. Me. Medea superest: hic mare et terras uides ferrumque et ignes et deos et fulmina. Nvt. Rex est timendus. Me. Rex meus fuerat pater. Nvt. Non metuis arma? Me. Sint licet terra edita. Nvt. Moriere.Me.Cupio.Nvt.Profuge.Me. Paenituit fugae. Nvt. MedeaMe. Fiam. Nvt. Mater es. Me. Cui sim uide. Nvt. Profugere dubitas? Me. Fugiam, at ulciscar prius.

Nutrice Vuoi metterla alla prova? Devi allora trovare loccasione giusta per il tuo ardire.

Medea C mai un momento, in cui non si possa dar spazio allardire? Nutrice

Siamo alla disfatta totale: nemmeno un barlume di speranza che possa indicare una via duscita!

Medea Ah, s! Non c pi nulla da sperare? E allora non c nemmeno nulla da disperare.

Nutrice Rifletti! Quelli della Colchide? se sono andati tutti! Il matrimonio con tuo marito? Non esiste pi! Le tue ricchezze? Erano davvero enormi: ora non ti rimasto pi nulla!

Medea Rimane viva, per, Medea! Lei tutto: il mare e le terre, il ferro e il fuoco, gli dei e i fulmini.

Nutrice Ma tu devi avere paura di un re!

Medea Anche mio padre era un re!

Nutrice E non hai paura delle armate?

Medea No! Anche se fossero quelle partorite dalla

terra! Nutrice

Ma tu, lo sai che morirai? Medea

E il mio pi grande desiderio! Nutrice

Vattene, prendi la fuga! Medea

Sono gi fuggita una volta: e mi sono pentita! Nutrice

Medea! Medea

Non lo sono pi! Ma lo ridiventer! Nutrice

Sei una madre! Sai? Medea

Eh, gi! Si visto per chi lo sono!

Nvt. Vindex sequetur. Me. Forsan inueniam moras. Nvt. Compesce uerba, parce iam, demens, minis animosque minue: tempori aptari decet. Me. Fortuna opes auferre, non animum potest. Sed cuius ictu regius cardo strepit? ipse est Pelasgo tumidus imperio Creo. Seneca, epist. 36,6 In mores fortuna ius non habet. Hos disponat ut quam tranquillissimus ille animus ad perfectum veniat, qui nec ablatum sibi quicquam sentit nec adiectum, sed in eodem habitu est quomodocumque res cedunt; cui sive adgeruntur vulgaria bona, supra res suas eminet, sive aliquid ex istis vel omnia casus excussit, minor non fit. Creo Medea, Colchi noxium Aeetae genus, nondum meis exportat e regnis pedem? 180 molitur aliquid: nota fraus, nota est manus. cui parcet illa quemue securum sinet? SENECA Phaedra, 559sgg Sed dux malorum femina: haec scelerum artifex obsedit animos, huius incestae stupris fumant tot urbes, bella tot gentes gerunt et uersa ab imo regna tot populos premunt. sileantur aliae: sola coniunx Aegei, Medea, reddet feminas dirum genus. abolere propere pessimam ferro luem equidem parabam: precibus euicit gener. concessa uita est, liberet fines metu abeatque tuta.fert gradum contra ferox minaxque nostros propius affatus petit. Orazio ars poetica 119sgg. aut famam sequere aut sibi convenientia finge

Nutrice Fuggi! Che aspetti?

Medea S che fuggir! Prima per mi devo vendicare!

Nutrice Poi per ti inseguiranno per fartela pagare!

Medea Non ti preoccupare! So come intralciarli.

Nutrice Clmati, basta con le parole! Sei fuori di te:

metti un freno alle tue minacce! attenua la tua aggressivit! conviene sapersi adattare alle circostanze! Medea

Le ricchezze, quelle s che la fortuna pu portarle via, ma il coraggio no!

Cosa sento? C qualcuno che bussa e la porta della reggia cigola. E lui, Creonte, in persona. Guardalo! Il potere sui greci lo ha reso completamente tronfio.

CREONTE Medea, figlia di Eeta, rovina del re della Colchide, non ha ancora portato il suo piede fuori della mia terra? Trama qualcosa, allora! Chi non conosce i suoi inganni, chi non conosce le sue azioni? Risparmier mai qualcuno? Lo lascer mai andare senza timori? Io, per parte mia, ero gi pronto a cancellare in tutta fretta con la violenza questa dannatissima peste: stato mio genero a farmi cedere, con le sue preghiere! Bene! Ha ottenuto salva la vita, ma che ci liberi da ogni paura! non le faremo nulla! Ma se ne vada via! Ecco, mi sta venendo incontro, ha lo sguardo torvo, gravido di minacce; fa cenno di volersi avvicinare per parlare con me.

scriptor. honoratum si forte reponis Achillem, inpiger, iracundus, inexorabilis, acer iura neget sibi nata, nihil non adroget armis. sit Medea ferox invictaque, flebilis Ino, perfidus Ixion, Io vaga, tristis Orestes. Arcete, famuli, tactu et accessu procul, iubete sileat. regium imperium pati aliquando discat. Vade ueloci uia 190 monstrumque saeuum horribile iamdudum auehe. Me. Quod crimen aut quae culpa multatur fuga? Cr. Quae causa pellat, innocens mulier rogat. Me. Si iudicas, cognosce, si regnas, iube. Cr. Aequum atque iniquum regis imperium feras. Me. Iniqua numquam regna perpetuo manent. Cr. I, querere Colchis. Me. Redeo: qui auexit, ferat. Cr. Vox constituto sera decreto uenit. Me. Qui statuit aliquid parte inaudita altera, aequum licet statuerit, haud aequus fuit. Cr. Auditus a te Pelia supplicium tulit? sed fare, causae detur egregiae locus.

Servi, tenetemela lontano! nessun contatto! Lontano! -ho detto. Guai se si avvicina! Se ne stia zitta: un ordine! Una volta tanto impari ad accettare lordine di un re. Vattene, su, di corsa! Era ora che te ne andassi via con tutta la tua cattiveria: sei un mostro, spietato, tremendo! Via, porta via tutto! MEDEA Lesilio! Perch? Di quale misfatto o di quale colpa mi vuoi punire? CREONTE Sentila, linnocente! Questa donna mi chiede il motivo della sua espulsione! MEDEA Da giudice, devi indagare! Da re, ti basta ordinare! CREONTE Tu devi sottostare allordine del re, giusto o ingiusto che sia! MEDEA Lo dovresti sapere: i regni basati sullingiustizia non vivono mai a lungo! CREONTE Ah, s! Che aspetti? Va! Va a cercare conforto dai Colchi! MEDEA Ci torno, da loro! A un patto: che mi accompagni chi mi ha portato via di l. CREONTE Una volta emesso il decreto, ogni commento giunge tardi! MEDEA Tu hai sentenziato senza sentire laltra parte: chi agisce cos, anche se ha deciso cose giuste, si comporta da ingiusto. CREONTE Ma, -dimmi- forse che Pelia stato da te sentito, prima di andare incontro alla morte?

Cicerone, de inventione I, 106 Conquestio est oratio auditorum misericordiam captans. in hac primum animum auditoris mitem et misericordem conficere oportet, quo facilius conquestione commoveri possit. id locis communibus efficere oportebit, per quos fortunae vis in omnes et hominum infirmitas ostenditur; qua oratione habita graviter et sententiose maxime demittitur animus hominum et ad misericordiam conparatur, cum in alieno malo suam infirmitatem considerabit. deinde primus locus est misericordiae, per quem, quibus in bonis fuerint et nunc [per quem] quibus in malis sint, ostenditur. secundus, qui in tempora tribuitur, per quem, quibus in malis fuerint et sint et futuri sint, demonstratur. tertius, per quem unum quodque deploratur incommodum, ut in morte filii pueritiae delectatio, amor, spes, solatium, educatio et, si qua simili in genere quolibet de incommodo per conquestionem dici poterunt. quartus, per quem res turpes et humiles et inliberales proferentur et indigna aetate, genere, fortuna pristina, honore, beneficiis, quae passi perpessurive sint. quintus, per quem omnia ante oculos singillatim incommoda ponuntur, ut videatur is, qui audit, videre et re quoque ipsa, quasi assit, non verbis solum ad misericordiam ducatur. sextus, per quem praeter spem in miseriis demonstratur esse, et, cum aliquid exspectaret, non modo id non adeptus esse, sed in summas miserias incidisse. septimus, per quem ad ipsos, qui audiunt, [similem in causam] convertimus et petimus, ut de suis liberis aut parentibus aut aliquo, qui illis carus debeat esse, nos cum videant, recordentur. octavus, per quem aliquid dicitur esse factum, quod non oportuerit, aut non factum, quod oportuerit, hoc modo: 'non affui, non vidi, non postremam vocem eius audivi, non extremum spiritum eius excepi.' item: 'inimicorum in manibus mortuus est, hostili in terra turpiter iacuit insepultus, a feris diu vexatus, communi quoque honore in morte caruit.' nonus, per quem oratio ad mutas et expertes animi res referetur, ut si ad equum, domum, vestem sermonem alicuius accommodes, quibus animus eorum, qui audiunt et aliquem dilexerunt, vehementer commovetur. decimus, per quem inopia, infirmitas, solitudo demonstratur. undecimus, per quem liberorum aut parentum aut sui corporis sepeliundi aut alicuius eiusmodi rei commendatio fit. duodecimus, per quem disiunctio deploratur ab aliquo, cum diducaris ab eo, quicum libentissime vixeris, ut a parente filio, a fratre familiari. tertius decimus, per quem cum indignatione conquerimur, quod ab iis, a quibus minime conveniat, male tractemur, propinquis, amicis, quibus benigne fecerimus, quos adiutores fore putarimus, aut a quibus indignum [est], [ut] servis, libertis, clientibus,

Comunque parla! Sar una nobile causa la tua: recita la tua parte! Me. Difficile quam sit animum ab ira flectere iam concitatum quamque regale hoc putet sceptris superbas quisquis admouit manus, qua coepit ire, regia didici mea. quamuis enim sim clade miseranda obruta, expulsa supplex sola deserta, undique afflicta, quondam nobili fulsi patre auoque clarum Sole deduxi genus. 210 quodcumque placidis flexibus Phasis rigat Pontusque quidquid Scythicus a tergo uidet, palustribus qua maria dulcescunt aquis, armata peltis quidquid exterret cohors inclusa ripis uidua Thermodontiis, hoc omne noster genitor imperio regit. generosa, felix, decore regali potens fulsi: petebant tunc meos thalamos proci, qui nunc petuntur. rapida fortuna ac leuis praecepsque regno eripuit, exilio dedit. confide regnis, cum leuis magnas opes huc ferat et illuc casushoc reges habent magnificum et ingens, nulla quod rapiat dies: prodesse miseris, supplices fido lare protegere. Solum hoc Colchico regno extuli, 225decus illud ingens Graeciae et florem inclitum, praesidia Achiuae gentis et prolem deum seruasse memet. munus est Orpheus meum, qui saxa cantu mulcet et siluas trahit, geminumque munus Castor et Pollux meum est satique Borea quique trans Pontum quoque summota Lynceus lumine immisso uidet, omnesque Minyae: nam ducum taceo ducem, pro quo nihil debetur: hunc nulli imputo; uobis reuexi ceteros, unum mihi. 235 Incesse nunc et cuncta flagitia ingere: fatebor; obici crimen hoc solum potest, Argo reuersa. uirgini placeat pudor paterque placeat: tota cum ducibus ruet Pelasga tellus, hic tuus primum gener tauri ferocis ore flagranti occidet. [fortuna causam quae uolet nostram premat, non paenitet seruasse tot regum decus] quodcumque culpa praemium ex omni tuli, hoc est penes te. si placet, damna ream; 245sed redde crimen. sum nocens, fateor, Creo: talem sciebas esse, cum genua attigi

supplicibus. quartus decimus, qui per obsecrationem sumitur; in quo orantur modo illi, qui audiunt, humili et supplici oratione, ut misereantur. quintus decimus, per quem non nostras, sed eorum, qui cari nobis debent esse, fortunas conqueri nos demonstramus. sextus decimus, per quem animum nostrum in alios misericordem esse ostendimus et tamen amplum et excelsum et patientem incommodorum esse et futurum esse, si quid acciderit, demonstramus. nam saepe virtus et magnificentia, in quo gravitas et auctoritas est, plus proficit ad misericordiam commovendam quam humilitas et obsecratio. commotis autem animis diutius in conquestione morari non oportebit. quemadmodum enim dixit rhetor Apollonius, 'lacrima nihil citius arescit.' Me. Difficile quam sit animum ab ira flectere iam concitatum quamque regale hoc putet sceptris superbas quisquis admouit manus, qua coepit ire, regia didici mea. quamuis enim sim clade miseranda obruta, expulsa supplex sola deserta, undique afflicta, quondam nobili fulsi patre auoque clarum Sole deduxi genus. 210 quodcumque placidis flexibus Phasis rigat Pontusque quidquid Scythicus a tergo uidet, palustribus qua maria dulcescunt aquis, armata peltis quidquid exterret cohors inclusa ripis uidua Thermodontiis, hoc omne noster genitor imperio regit. generosa, felix, decore regali potens fulsi: petebant tunc meos thalamos proci, qui nunc petuntur. rapida fortuna ac leuis praecepsque regno eripuit, exilio dedit. confide regnis, cum leuis magnas opes huc ferat et illuc casushoc reges habent magnificum et ingens, nulla quod rapiat dies: prodesse miseris, supplices fido lare protegere. Solum hoc Colchico regno extuli, 225 decus illud ingens Graeciae et florem inclitum, praesidia Achiuae gentis et prolem deum seruasse memet. munus est Orpheus meum, qui saxa cantu mulcet et siluas trahit,

fidemque supplex praesidis dextra peti; terra hac miseriis angulum et sedem rogo latebrasque uiles: urbe si pelli placet, detur remotus aliquis in regnis locus. MEDEA Lo so da tempo, lho imparato alla mia reggia: basta che uno impugni lo scettro di re ed cos difficile distogliere il suo animo dallira, cos com difficile che receda da una strada gi intrapresa. E vero, sono stata travolta da una miserabile sventura; sto provando lesilio, lumiliazione del supplice, la solitudine, labbandono, gli attacchi dogni parte; un tempo per andavo fiera della nobilt di mio padre e mi vantavo della luminosa discendenza dal Sole, mio avo. Il mio regno? Tutta quella terra che il fiume Fasi attraversa con le sue morbide anse, tutto il territorio a settentrione del mare degli Sciti, laddove il mare smorza la sua salinit nelle acque della palude, tutta la regione, su cui incombe la paura della schiera delle Amazzoni che, racchiusa fra le rive del Termodonte, fa a meno degli uomini e fa uso di scudi mezzolunati: su tutta questa zona si estendeva limpero di mio padre. Splendevo un tempo: ero nobile, fortunata, resa potente dalla dignit di casa reale. Allora una serie di pretendenti aspirava a sposarmi; ora sono loro ad essere corteggiati. La sorte improvvisa e volubile mi ha fatto precipitare: mi ha tolto il regno e mi ha assegnato lesilio. Il regno? attento a fidarti! Non vedi? La sorte, impalpabile e sfuggente, pur sempre capace di sbatterti di qua e di l, anche se sei potente! Un solo vero potere hanno i re, un potere grandioso ed enorme; un potere che nessun giorno arriver a portare via: aiutare i miserabili, dare un asilo sicuro a chi chiede piet. E proprio questo, solo questo, che io mi

geminumque munus Castor et Pollux meum est satique Borea quique trans Pontum quoque summota Lynceus lumine immisso uidet, omnesque Minyae: nam ducum taceo ducem, pro quo nihil debetur: hunc nulli imputo; uobis reuexi ceteros, unum mihi. 235 Incesse nunc et cuncta flagitia ingere: fatebor; obici crimen hoc solum potest, Argo reuersa. uirgini placeat pudor paterque placeat: tota cum ducibus ruet Pelasga tellus, hic tuus primum gener tauri ferocis ore flagranti occidet. [fortuna causam quae uolet nostram premat, non paenitet seruasse tot regum decus] quodcumque culpa praemium ex omni tuli, hoc est penes te. si placet, damna ream; 245 sed redde crimen. sum nocens, fateor, Creo: talem sciebas esse, cum genua attigi fidemque supplex praesidis dextra peti; terra hac miseriis angulum et sedem rogo latebrasque uiles: urbe si pelli placet, detur remotus aliquis in regnis locus.

sono portata dietro dal regno della Colchide: quei giovani, straordinario orgoglio della Grecia, il fior fiore della nobilt, i paladini della popolazione argiva, stirpe di dei, quei giovani, io, sono stata io a salvarli! E un mio regalo Orfeo, laedo che intenerisce i sassi con il canto, che si tira dietro le foreste. E Castore e Polluce? Quei gemelli sono un regalo mio! E i figli di Borea? E Linceo, capace di lanciare il suo sguardo al di l del mare e di vedere anche le cose pi remote? E i Minii, tutti insieme? Come vedi non nomino il capo dei capi: nulla mi dovuto per averlo salvato; non lo metto in conto a nessuno! Per voi ho riportato indietro gli altri; questo solo lho riportato per me. Infierisci ora, addossami tutti i reati pi turpi: sono pronta a confessare: c un solo crimine che mi si pu rinfacciare. Quale? Questo: il ritorno della nave Argo. Poni che io, ragazza, avessi optato per il pudore, avessi optato per mio padre: la terra dei Pelasgi sarebbe sprofondata con tutti i suoi eroi; per primo tuo genero sarebbe caduto: non ce lavrebbe fatta con i feroci tori che spiravano fuoco dalle narici. Che la sorte, a suo piacimento, schiacci me e le mie ragioni! Mai, nessun pentimento per aver salvato lorgoglio di tanti reami! Ci sar un premio per me da tutta questa colpa? S e sei tu a disporne! Decidi pure! Condannami per la mia colpa, ma restituiscimi loggetto del misfatto. Ho fatto del male, Creonte. Lo so e lo ammetto. Tu lo sapevi benissimo, quando ti strinsi le ginocchia, quando supplice ho chiesto asilo alla tua mano protettrice. Una sola la mia richiesta in seguito alla mia sventura: rimanere in questa terra, avere un piccolo angolo di terra per me, avere una sede stabile, magari anche una modesta grotta dove nascondermi. .

Corso di Letteratura Latina (a.a. 2013-2014)

La matrona di Efeso (Petron. CX,6-CXIII,3)

Dalla teatralit al teatro***

***Per questa parte del programma richiesta la traduzione dei passi evidenziati con asterischi; tutti gli altri brani sintendano funzionali al commento. G. E. Lessing, Hamburgische Dramaturgie, 36. Stck [...] manche drollige und dem Ansehen nach wirklich komische Erzhlung in der dramatischen Form darber verunglcken mssen. Zum Exempel, Die Matrone von Ephesus. Man kennt dieses beiende Mrchen, und es ist unstreitig die bitterste Satire, die jemals gegen den weiblichen Leichtsinn gemacht worden. Man hat es dem Petron tausendmal nacherzhlt; und da es selbst in der schlechtesten Kopie noch immer gefiel, so glaubte man, da es ein ebenso glcklicher Stoff auch fr das Theater sein msse. Houdar de la Motte und andere machten den Versuch; aber ich berufe mich auf jedes feinere Gefhl, wie dieser Versuch ausgefallen. Der Charakter der Matrone, der in der Erzhlung ein nicht unangenehmes hhnisches Lcheln ber die Vermessenheit der ehelichen Liebe erweckt, wird in dem Drama ekel und hlich.

molti racconti divertenti, e allapparenza veramente comici, hanno fallito nella loro forma drammatica. Per esempio, la Matrona di Efeso. Tutti conoscono questa favola mordace, senza dubbio la satira pi amara che mai sia stata indirizzata contro la leggerezza femminile. Dopo Petronio se ne sono fatte mille imitazioni, e poich continuava a piacere anche nella peggiore di esse, si creduto che avrebbe potuto fornire una trama altrettanto felice per unopera teatrale. Houdar de la Motte e altri vi si provarono: ma faccio appello alle persone di gusto per giudicare come sia riuscito questo tentativo. Il personaggio della matrona, che nel racconto suscita un piacevole sorriso di compatimento sulle illusioni dellamor coniugale, ispira - in teatro - disgusto e orrore. I mezzi di convinzione che il soldato adopera nei confronti di lei non sono qui cos sottili, insistenti e vittoriosi come noi ce li raffiguriamo nel racconto.

Wir finden hier die berredungen, deren sich der Soldat gegen sie bedienet, bei weitem nicht so fein und dringend und siegend, als wir sie uns dort vorstellen. Dort bilden wir uns ein empfindliches Weibchen ein, dem es mit seinem Schmerze wirklich ernst ist, das aber den Versuchungen und ihrem Temperamente unterliegt; ihre Schwche dnkt uns die Schwche des ganzen Geschlechts zu sein; wir fassen also keinen besondern Ha gegen sie; was sie tut, glauben wir, wrde ungefhr jede Frau getan haben; selbst ihren Einfall, den lebendigen Liebhaber vermittelst des toten Mannes zu retten, glauben wir ihr, des Sinnreichen und der Besonnenheit wegen, verzeihen zu mssen; oder vielmehr eben das Sinnreiche dieses Einfalls bringt uns auf die Vermutung, da er wohl auch nur ein bloer Zusatz des hmischen Erzhlers sei, der sein Mrchen gern mit einer recht giftigen Spitze schlieen wollte. Aber in dem Drama findet diese Vermutung nicht statt; was wir dort nur hren, da es geschehen sei, sehen wir hier wirklich geschehen; woran wir dort noch zweifeln knnen, davon berzeugt uns unser eigener Sinn hier zu unwidersprechlich; bei der bloen Mglichkeit ergtzte uns das Sinnreiche der Tat, bei ihrer Wirklichkeit sehen wir blo ihre Schwrze; der Einfall vergngte unsern Witz, aber die Ausfhrung des Einfalls emprt unsere ganze Empfindlichkeit; wir wenden der Bhne den Rcken und sagen mit dem Lykas beim Petron, auch ohne uns in dem besondern Falle des Lykas zu befinden: Si justus imperator fuisset, debuit patrisfamiliae corpus in monimentum referre, mulierem adfigere cruci. Und diese Strafe scheinet sie uns um so viel mehr zu verdienen, je weniger Kunst der Dichter bei ihrer Verfhrung angewendet; denn wir verdammen sodann in ihr nicht das schwache Weib berhaupt, sondern ein vorzglich leichtsinniges, lderliches Weibsstck insbesondere. Kurz, die

L noi ci immaginiamo una donnetta sensibile, che prende il proprio dolore sul serio, ma soggiace alle tentazioni e al proprio temperamento: la sua ci pare la debolezza di tutto il gentil sesso, e perci non proviamo nessuna particolare avversione nei confronti di lei; quello che ella fa pensiamo lo avrebbe fatto ogni altra donna. Persino la trovata di salvare lamante vivo per mezzo del marito morto, crediamo di dovergliela perdonare per ci che ha di ingegnoso e originale; o, piuttosto, proprio lingegnosit della trovata ci fa sospettare che si tratti di una semplice aggiunta del maligno autore, deciso a concludere il racconto con una punta velenosa. Ma nel dramma non c posto per questa congettura: ci che l udiamo soltanto essere accaduto qui lo vediamo accadere realmente. Quello che l potevamo ancora dubitare, qui non potrebbe essere messo minimamente in dubbio per la testimonianza irrefutabile dei nostri stessi sensi; in presenza della mera possibilit, ci piaceva il carattere ingegnoso della trovata, mentre, in presenza del fatto reale, ne vediamo soltanto la perversit; essa solleticava il nostro spirito, ma la sua attuazione pratica rivolta tutta la nostra sensibilit. Voltiamo le spalle al palcoscenico e diciamo con il Lycos [sic!] di Petronio: Si justus imperator fuisset, debuit patris familiae corpus in monumentum referre, mulierem adfigere cruci. E ci pare che tanto pi ella merita questa punizione, quanta meno arte dispiega il poeta nella scena della seduzione: giacch noi non condanniamo in lei la donna debole in generale, ma una donna determinata, eccessivamente leggera e libertina. In breve, per trasportare la favola di Petronio in

Petronische Fabel glcklich auf das Theater zu bringen, mte sie den nmlichen Ausgang behalten, und auch nicht behalten; mte die Matrone so weit gehen, und auch nicht so weit gehen.

teatro, bisognerebbe che avesse e non avesse il medesimo scioglimento, che la matrona arrivasse cos lontano e nello stesso tempo non ci arrivasse.

***Petron. CX,6-CXIII,3*** [CX,6] | Ceterum Eumolpos, et periclitantium advocatus et praesentis concordiae auctor, ne sileret sine fabulis hilaritas, multa in muliebrem levitatem coepit iactare: [7] quam facile adamarent, quam cito etiam filiorum obliviscerentur, nullamque esse feminam tam pudicam, quae non peregrina libidine usque ad furorem averteretur. [8] nec se tragoedias veteres curare aut nomina saeculis nota, sed rem sua memoria factam, quam expositurum se esse, si vellemus audire. conversis igitur omnium in se vultibus auribusque sic orsus est: [CXI] matrona quaedam Ephesi tam notae erat pudicitiae, ut vicinarum quoque gentium feminas ad spectaculum sui evocaret. [2] haec ergo cum virum extulisset, non contenta vulgari more funus passis prosequi crinibus aut nudatum pectus in conspectu frequentiae plangere, in conditorium etiam prosecuta est defunctum, positumque in hypogaeo Graeco more corpus custodire ac flere totis noctibus diebusque coepit. [3] sic afflictantem se ac mortem inedia persequentem non parentes potuerunt abducere, non propinqui; magistratus ultimo repulsi abierunt, complorataque singularis exempli femina ab omnibus quintum iam diem sine alimento trahebat. [4] assidebat aegrae fidissima ancilla, simulque et lacrimas commodabat lugenti et quotienscumque defecerat positum in monumento lumen renovabat. [5] una igitur in tota civitate fabula erat, solum illud affulsisse verum pudicitiae amorisque exemplum omnis ordinis homines confitebantur, cum interim imperator provinciae latrones iussit crucibus affigi secundum illam casulam, in qua recens cadaver matrona deflebat. [6] proxima ergo nocte cum miles, qui cruces asservabat ne quis ad sepulturam corpus detraheret, notasset sibi [et] lumen inter monumenta clarius fulgens et gemitum lugentis audisset, vitio gentis humanae concupiit scire quis aut quid faceret. [7] descendit igitur in conditorium, visaque pulcherrima muliebre primo quasi quodam monstro infernisque imaginibus turbatus substitit. [8] deinde ut et corpus iacentis conspexit et lacrimas consideravit faciemque unguibus sectam, ratus scilicet id quod erat, desiderium extincti non posse feminam pati, attulit in monumentum cenulam suam coepit hortari lugentem ne perseveraret in dolore supervacuo ac nihil profuturo gemitu pectus diduceret: omnium eundem esse exitum [sed] et idem domicilium, et cetera quibus exulceratae mentes ad sanitatem revocantur. [9] at illa ignota consolatione percossa laceravit vehementius pectus ruptosque crines super corpus iacentis imposuit. [10] non recessit tamen miles, sed eadem exhortatione temptavit dare mulierculae cibum, donec ancilla vini [certum ab eo] odore corrupta primum ipsa porrexit ad humanitatem invitantis victam manum, deinde refecta potione et cibo expugnare dominae pertinaciam coepit et [11] quid proderit inquit hoc tibi, si soluta inedia fueris, si te vivam sepelieris, si antequam fata poscant, indemnatum spiritum effuderis? [12] id cinerem aut manes credis sentire sepultos? vis tu reviviscere? vis discusso muliebri errore, quam diu licuerit, lucis commodis frui? Ipsum te iacentis corpus admonere debet ut vivas. [13] nemo invitus audit, cum cogitur aut cibum sumere aut vivere. itaque mulier aliquot dierum abstinentia sicca passa est frangi pertinaciam suam, nec minus avide replevit se cibo quam ancilla quae prior victa est. [CXII] ceterum scitis quid plerumque soleat temptare humanam satietatem. quibus blanditiis impetraverat miles ut matrona vellet vivere, isdem etiam pudicitiam eius

aggressus est. [2] nec deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur, conciliante gratiam ancilla ac subinde dicente: placitone etiam pugnabis amori? [nec venit in mentem, quorum consederis arvis?] quid diutius moror? ne hanc quidam partem corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit. [3] iacuerunt ergo una non tantum illa nocte qua nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus, ut quisquis ex notis ignotisque ad monumentum venisset, putaret expirasse super corpus viri pudicissimam uxorem. [4] ceterum delectatus miles et forma mulieris et secreto, quicquid boni per facultates poterat coemebat et prima statim nocte in monumentum ferebat. [5] itaque unius cruciarii parentes ut viderunt laxatam custodiam, detraxere nocte pendentem supremoque mandaverunt officio. [6] at miles circumscriptus dum desidet, ut postero die vidit unam sine cadavere crucem, veritus supplicium, mulieri quid accidisset exponit: nec se expectaturum iudicis sententiam, sed gladio ius dicturum ignaviae suae. commodaret modo illa perituro locum et fatale conditorium familiari ac viro faceret. [7] mulier non minus misericors quam pudica nec istud inquit dii sinant, ut eodem tempore duorum mihi carissimorum hominum duo funera spectem. malo mortuum impendere quam vivum occidere. [8] secundum hanc orationem iubet ex arca corpus mariti sui tolli atque illi quae vacabat cruci affigi. usus est miles ingenio prudentissimae feminae, posteroque die populus miratus est qua ratione mortuus isset in crucem. [CXIII] | risu excepere fabulam nautae, [et] erubescente non mediocriter Tryphaena vultumque suum super cervicem Gitonis amabiliter ponente. [2] at non Lichas risit, sed iratum commovens caput si iustus inquit imperator fuisset, debuit patris familiare corpus in monumentum referre, mulierem affiggere cruci.

I Ad Petron. CX,6-8

1) Diom. gramm. I,3,487,11 sgg. Keil Tragoedia est heroicae fortunae in adversis conprehensio, a Teophrasto ita definita est tragw/diva ejsti;n hJrwi>kh'" tuvch" perivstasi". 2) Diom. gramm. I, 3,488,3 sgg. Keil Comoedia est privatae civilisque fortunae sine periculo vitae conprehensio, apud Graecos ita definita, kwmw/diva ejsti;n ijdiwtikw'n pragmavtwn ajkivnduno" periochv. 3) ***Diom. gramm. I,3,488,14 sgg. Keil*** comoedia a tragoedia differt, quod in tragoedia introducuntur heroes duces reges, in comoedia humiles atque privatae in illa luctus exilia caedes, in hac amores, virginum raptus. 4) Evanth. de com. 4,2,21,9 sgg. Wessner inter tragoediam autem et comoediam cum multa tum inprimis hoc distat, quod in comoedia mediocres fortunae hominum, parvi impetus periculorum laetique sunt exitus actionum, at in tragoedia omnia contra, ingentes personae, magni timores, exitus funesti habentur. 5) Evanth. de com. 5,2,23,1 sgg. Wessner comoediae [] ajpo; th'" kwmh'", hoc est ab actu vitae hominum, qui in vicis habitant ob mediocritatem fortunarum, non in aulis regiis, ut sunt personae tragicae. 6) Iuv. 6,634-638 fingimus haec altum Satura sumente coturnum scilicet, et finem egressi legemque priorum grande Sophocleo carmen bacchamur hiatu, montibus ignotum Rutulis caeloque Latino? nos utinam vani! Sed clamat Pontia []. 7) Ov. trist. 2,361-384 denique conposui teneros non solus amores: conposito poenas solus amore dedi. quid, nisi cum multo Venerem confundere uino,

praecepit lyrici Teia Musa senis? Lesbia quid docuit Sappho, nisi amare puellas?

tuta tamen Sappho, tutus et ille fuit. nec tibi, Battiade, nocuit, quod saepe legenti

delicias versu fassus es ipse tuas. fabula iucundi nulla est sine amore Menandri,

et solet hic pueris uirginibus que legi. Ilias ipsa quid est, nisi turpis adultera, de qua

inter amatorem pugna virumque fuit? quid prius est illic flamma Briseidos, ut que

fecerit iratos rapta puella duces? aut quid Odyssea est nisi femina propter amorem,

dum vir abest, multis una petita procis? quis nisi Maeonides Venerem Martemque ligatos

narrat, in obsceno corpora prensa toro? unde nisi indicio magni sciremus Homeri

hospitis igne duas incaluisse deas? omne genus scripti gravitate tragoedia vincit:

haec quoque materiam semper amoris habet. numquid in Hippolyto nisi caecae flamma novercae?

nobilis est Canace fratris amore soror. [...] tempore deficiar, tragicos si persequar ignes,

vix que meus capiat nomina nuda liber. est et in obscenos commixta tragoedia risus,

multaque praeteriti verba pudoris habet, nec nocet auctori, mollem qui fecit Achillem,

infregisse suis fortia facta modis. iunxit Aristides Milesia crimina se cum,

pulsus Aristides nec tamen urbe sua est. [...] vertit Aristiden Sisenna, nec obfuit illi

historiae turpes inseruisse iocos. [...] nempe - nec invideo - tot de scribentibus unus,

quem sua perdiderit Musa, repertus ego! quid si scripsissem mimos obscena iocantes,

qui semper uetiti crimen amoris habent, in quibus adsidue cultus procedit adulter,

uerba que dat stulto callida nupta viro? nubilis hos virgo matrona que uir que puer que

spectat, et ex magna parte senatus adest. nec satis incestis temerari vocibus aures:

adsuescunt oculi multa pudenda pati; cumque fefellit amans aliqua novitate maritum,

plauditur et magno palma favore datur. quod que minus prodest, scaena est lucrosa poetae,

tanta que non paruo crimina praetor emit. inspice ludorum sumptus, Auguste, tuorum:

empta tibi magno talia multa leges. haec tu spectasti spectandaque saepe dedisti maiestas adeo comis ubique tua est - luminibusque tuis, totus quibus utitur orbis,

scaenica vidisti lentus adulteria. [...] et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor

contulit in Tyrios arma virumque toros.

8) Od. 1,55-57 , ,Sua figlia [scil. di Atlante] trattiene [Odisseo] che, infelice, geme; ma sempre con parole dolci e carezzevoli lei lo ammalia, perch lui dimentichi Itaca. 9) Od. 10,235-236 [],. Mescol nel pane farmaci funesti, perch lui dimenticasse del tutto la terra patria. 10) Od. 15,19-23 ,,.Sai bene qual lanimo che pulsa nel petto di donna; vuole s accrescere il patrimonio di chi la sposa, ma non ha pi memoria n chiede pi n dei suoi precedenti figli, n del caro legittimo sposo, una volta che questi sia defunto. 11) Sapph. 16,5-12 Voigt pav]gcu deu[mare" suvneton povhsai p]avnti t[o]u't, aj ga;r povlu perskevqoisa kavllo" [ajnq]rwvpwn !Elevna [to;]n a[ndra tovn [per a[r]iston kall[ivpoi]se[ba " Troiv>an plevoi[sa] kwujd[e; pa]i'do" oujde; fivlwn to[k]hvwn pav[mpan] ejmnavsq, ajlla; paravgagau[tan Kuvpri" e[rai]san Chiunque pu capirlo facilmente: colei che superava di molto tutti i mortali per bellezza, Elena, abbandon lo sposo il pi eccellente degli uomini e fugg a Troia per mare. Dimentic la figlia, dimentic i cari genitori. Fu Afrodite a sviarla. 12) Iuv. 6,85-87; 111-112 immemor illa domus et coniugis atque sororis nil patriae indulsit, plorantesque improba natos [] reliquit. [] hoc pueris patriaeque, hoc praetulit illa sorori atque viro. 13) Oct. 258-261 [domum] pressit Venus furore miserae dura genetricis meae, quae nupta demens nupsit incesta face, oblita nostri, coniugis, legum immemor. 14) Verg. georg. 3,245-246 tempore non alio catulorum oblita leaena saevior erravit campis

II Ad Petron. CX,8-CXI,3 ss.

1) Verg. Aen. 2,1-2 Conticuere omnes intentique ora tenebant. inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto. 2) Cic. Phil. 3,15 Aricina mater. Trallianam aut Ephesiam putes dicere. 3) Serv. ad Aen. 9,215 E MATRIBVS e nobilibus; nam matres non nisi nobiles dicimus: unde et matronae dictae sunt. 4) Plaut. Cas. 585-586 Non matronarum officiumst, sed meretricium, / viris alienis, mi vir, subblandirier. 5) Plaut. Most. 190 Matronae, non meretriciumst unum inservire amantem. 6) Petron. 126,10-11 viderint matronae, quae flagellorum vestigia osculantur; ego etiam si ancilla sum, numquam tamen nisi in equestribus sedeo'. 11 mirari equidem tam discordem libidinem coepi atque inter monstra numerare, quod ancilla haberet matronae superbiam et matrona ancillae humilitatem. 7) Dig. 50,16,242,3 Viduam non solum eam, quae aliquando nupta fuisset, sed eam quoque mulierem quae virum non habuisset, appellari ait Labeo: quia vidua sic dicta est quasi vecors, vesanus, qui sine corde aut sanitate esset: similiter viduam dictam esse sine duitate. 8) Don. ad Ter. Andr. 117 EFFERTVR efferri proprie dicuntur cadavera mortuorum. 9) Don. ad Ter. Andr. 109 Collacrimat, qui alienis lacrimis suas commodat. 10) Serv. ad Verg. Aen. 11,59 59. HAEC VBI DEFLEVIT hoc est postquam haec cum lacrimis dixit; 'flere' enim est cum voce lacrimare. 11) Serv. ad Verg. Aen. 11,211 sane 'maerere' est cum silentio dolere, 'flere' ubertim lacrimas demittere, 'plorare' cum voce flere, 'plangere' cum aliquibus dictis miserabilibus pectus et faciem tundere, 'lugere' etiam cum habitus mutatione.

Petron. 111,2 PASSIS CRINIBUS 12) Petron. 54,2 ipse Trimalchio cum graviter ingemuisset superque bracchium tamquam laesum incubuisset, concurrere medici, et inter primos Fortunata crinibus passis cum scypho, miseramque se atque infelicem proclamavit. 13) ***Verg. Aen. 1,479-481*** interea ad templum non aequae Palladis ibant crinibus Iliades passis peplumque ferebant, suppliciter tristes et tunsae pectora palmis: [Verg. Aen. 2,403-404 ecce trahebatur passis Priameia virgo crinibus a templo Cassandra] 14) Verg. Aen. 3,65 et circum Iliades crinem de more solutae. 15) Serv. ad Verg. Aen. 3,65 CRINEM DE MORE aut de more gentis, ut etiam in Aegypto est: aut certe de more plangentium. 16) Verg. Aen. 11,35 et maestum Iliades crinem de more solutae. 17) Tib. Claud. ad Verg. Aen. 11,35 Troianae matres infelicem iuvenem plena miseratione plangebant crinibus passis. 18) Sen. Troa. 84-85 solvite crinem; per colla fluant maesta capilli. 19) Sen. Troa. 99-101 solvimus omnes lacerum multo funere crinem; coma demissa est libera. Petron. 111,2 NUDATUM PECTUS 20) ***Sen. Troa. 87 ss.; 106*** paret exertos turba lacertos; veste remissa substringe sinus uteroque tenus pateant artus. Cui coniugio pectora velas, captive pudor? Cingat tunicas palla solutas, vacet ad crebri verbera planctus furibunda manus placet hic habitus, placet: agnosco Troada turbam. 106 iam nuda vocant pectora dextras.

Petron. 111,2 PLANGERE 21) Sen. Troa. 64 ss. 64 ferite palmis pectora et planctus date; 79 sgg. ite ad planctus, / miseramque leva, regina, manum; 108 sgg. Rhoetea sonent litora planctus [...] saevite manus: / pulsu pectus tundite vasto; 410 miserumque tunsae pectus; 902 planctus et gemitus sonet. 22) Quint. inst. 11,3,123 scaenicum est pectus caedere. Petron. 111,9 RUPTOSQUE CRINES 23) Sen. Troa. 409; 800 409 laceratis comas; 800 lacerosque crines. Petron. 111,8 FACIEMQUE UNGUIBUS SECTAM 24) Cic. leg. 2,59,64 Mulieres genas ne radunto. 25) Serv. ad Verg. Aen. 12,606 moris fuit [[apud veteres]] ut ante rogos [[regum]] humanus sanguis effunderetur, vel captivorum vel gladiatorum: quorum si forte copia non fuisset, laniantes genas suum effundebant cruorem, ut rogis illa imago restitueretur. Tamen sciendum, cautum lege duodecim tabularum, ne mulieres carperent faciem, his verbis mulier faciem ne carpito. [VARIA ET DETESTABILIA GENERA LUGENDI] 26) ***Cic. Tusc. 3,26,61 ss.*** Sed ad hanc opinionem magni mali cum illa etiam opinio accessit oportere, rectum esse, ad officium pertinere ferre illud aegre quod acciderit, tum denique efficitur illa gravis aegritudinis perturbatio. ex hac opinione sunt illa varia et detestabilia genera lugendi: paedores, muliebres lacerationes genarum, pectoris feminum capitis percussiones; hinc ille Agamemno Homericus et idem Accianus 'scindens dolore identidem intonsam comam'; in quo facetum illud Bionis, perinde stultissimum regem in luctu capillum sibi evellere, quasi calvitio maeror levaretur. 27)