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Vivere le Alpi II° Infrastrutture nel territorio Quaderni della Fondazione - 41 Cahiersde l aFon dation-41

Vivere le Alpi II° Infrastrutture nel territorio Quaderni della … Vista del portale sud della galleria G1 – Bressanone ... 39. cambiamenti e continuità nella società valdostana

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Vivere le Alpi II°Infrastrutture nel territorio

Quaderni della Fondazione - 41 Cahiers de l a Fon dation - 41

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In copertinaVista generale dei due cannocchiali © Alexa Rainer

In quarta di copertina Vista del portale sud della galleria G1 – Bressanone (fotografo Leonhard Angerer)

Vivere le Alpi II°Infrastrutture nel territorio

Quaderni della Fondazione - 41 Cahiers de l a Fon dation - 41

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In copertinaVista generale dei due cannocchiali © Alexa Rainer

In quarta di copertina Vista del portale sud della galleria G1 – Bressanone (fotografo Leonhard Angerer)

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Enti fondatoriCensis

Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale

Comune di CourmayeurRegione Autonoma

Valle d’Aosta

Via dei Bagni, 1511013 Courmayeur,

Valle d’AostaTel. (0165) 846498 - Fax (0165) 845919

www.fondazionecourmayeur.itE-mail: [email protected]

C. F. 91016910076

Il volume è anche disponibile su www.fondazionecourmayeur.it

Enti fondatoriCensis

Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale

Comune di CourmayeurRegione Autonoma

Valle d’Aosta

Via dei Bagni, 1511013 Courmayeur,

Valle d’AostaTel. (0165) 846498 - Fax (0165) 845919

www.fondazionecourmayeur.itE-mail: [email protected]

C. F. 91016910076

Il volume è anche disponibile su www.fondazionecourmayeur.it

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PUBBLICAZIONI DELLA FONDAZIONE COURMAYEUR MONT BLANCPUBLICATIONS DE LA FONDATION COURMAYEUR MONT BLANC

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III

ANNALI___________________________________________________________________

1. annali della fondazione courmayeur anno 1992

2. annali della fondazione courmayeur anno 1993

3. annali della fondazione courmayeur anno 1994

4. annali della fondazione courmayeur anno 1995

5. annali della fondazione courmayeur anno 1996

6. annali della fondazione courmayeur anno 1997

7. annali della fondazione courmayeur anno 1998

8. annali della fondazione courmayeur anno 1999

9. annali della fondazione courmayeur anno 2000

10. annali della fondazione courmayeur anno 2001

11. annali della fondazione courmayeur anno 2002

12. annali della fondazione courmayeur anno 2003

13. annali della fondazione courmayeur anno 2004

14. annali della fondazione courmayeur anno 2005

15. annali della fondazione courmayeur anno 2006

16. annali della fondazione courmayeur anno 2007

17. annali della fondazione courmayeur anno 2008

18. annali della fondazione courmayeur anno 2009

19. annali della fondazione courmayeur anno 2010

20. annali della fondazione courmayeur anno 2011

21. annali della fondazione courmayeur anno 2012

22. annali della fondazione courmayeur anno 2013

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IV

COLLANA “MONTAGNA RISCHIO E RESPONSABILITÀ”___________________________________________________________________

1. una ricognizione generale dei problemi

2. le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina

3. i limiti della responsabilità del maestro di sci e della guida

4. la responsabilità dell’ente pubblico

5. la responsabilità dell’alpinista, dello sciatore e del soccorso alpino

6. la via assicurativa

7. codice della montagna - le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina

8. code de la montagne - le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina francese

9. codigo de los pirineos - le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina spagnola

10. codice della montagna - 1994-2004 il punto sulla legislazione, la giurisprudenza, la dottrina

11. il punto sulla legislazione, la giurisprudenza e la dottrina 1994 - 2004 (Atti del Convegno)

12. giornate della prevenzione e del soccorso in montagna

13. codice svizzero della montagna. le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina svizzera

14. giornate della prevenzione e del soccorso in montagna su “comunicazione e montagna”

15. codice austriaco della montagna. le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina austriaca

16. giornate della prevenzione e del soccorso in montagna su “educare e rieducare alla montagna”

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17. cd - codici della montagna - le indicazioni della legislazione, della giurisprudenza e della dottrina italiana, francese, spagnola,

svizzera e austriaca

18. giornate della prevenzione e del soccorso in montagna su “domaines skiables e sci fuori pista”

19. la responsabilità dell’ente pubblico e degli amministratori nella gestione del territorio e dei rischi naturali in montagna

20. du piolet à internet. applicazioni transfrontaliere di telemedicina in montagna

21. du piolet à internet. applications transfrontalières de télémédicine en montagne

22. rischi derivanti dall’evoluzione dell’ambiente di alta montagna

23. montagna, rischio e assicurazione

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VI

QUADERNI__________________________________________________________________

1. minoranze, culturalismo cultura della mondialità

2. il target famiglia

3. les alpages: hier, aujourd’hui, demain - l’entretien du paysage montagnard: une approche transfrontalière

4. memorie e identità: prospettive nei percorsi del mutamento

5. l’inafferrabile élite

6. sistema scolastico: pluralismo culturale e processi di globalizzazione economica e tecnologica

7. le nuove tecnologie dell’informazione

8. architettura nel paesaggio risorsa per il turismo? - 1°

9. architettura nel paesaggio risorsa per il turismo? - 2°

10. locale e globale. differenze culturali e contesti educativi nella complessità dei mondi contemporanei

11. i ghiacciai quali evidenziatori delle variazioni climatiche

12. droit international et protection des regions de montagne/ international law and protection of mountain areas - 1°

13. developpement durable des regions de montagne - les perspectives juridiques à partir de rio et johannesburg/sustainable development of mountain areas - legal perspectives beyond rio and johannesburg - 2°

14. culture e conflitto

15. costruire a cervinia… e altrove/construire à cervinia…. et ailleurs

16. la residenza e le politiche urbanistiche in area alpina

17. architettura moderna alpina: i rifugi/architecture moderne alpine: les refuges - 1°

18. ricordando laurent ferretti

19. architettura moderna alpina: i campi di golf

20. architettura moderna alpina: i rifugi/architecture moderne alpine: les refuges - 2°

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VII

21. i servizi socio-sanitari nelle aree di montagna: il caso della comunità montana valdigne-mont blanc - ricerca su “sistemi regionali e sistemi locali di welfare: un’analisi di scenario nella comunità montana valdigne-mont blanc”

22. il turismo diffuso in montagna, quali prospettive?

23. architettura dei servizi in montagna - 1°

24. agricoltura e turismo: quali le possibili integrazioni? ricerca su “integrazione tra agricoltura e gli altri settori dell’economia di montagna nella comunità montana valdigne-mont blanc”

25. il turismo accessibile nelle località di montagna - 1°

26. la specificità dell’architettura in montagna

27. la sicurezza economica nell’età anziana: strumenti, attori, rischi e possibili garanzie

28. l’architettura dei servizi in montagna - 2°

29. un turismo per tutti - 2°

30. architettura e sviluppo alpino

31. turismo accessibile in montagna - 3°

32. economia di montagna: collaborazione tra agricoltura e altri settori / économie de montagne: coopérations entre agricolture et autres secteurs

33. architettura e turismo. strutture ricettive e servizi

34. forti e castelli. architettura, patrimonio, cultura e sviluppo

35. turismo accessibile in montagna - 4°

36. turismo accessibile in montagna - 5°

37. l’agricoltura di montagna e gli oneri burocratici

38. vivere le alpi 1°. architettura e agricoltura

39. cambiamenti e continuità nella società valdostana. rapporto sulla situazione sociale della valle d’aosta

40. turismo, salute e benessere in montagna

41. vivere le alpi ii° - infrastrutture nel territorio

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ORGANI DELLA FONDAZIONELES ORGANES DE LA FONDATION

CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE

Giuseppe DE RITA, presidente; Camilla BERIA di ARGENTINE, vice presidente; Alex FOUDON; Roberto RUFFIER; Alberto VARALLO

COMITATO SCIENTIFICO

Lodovico PASSERIN d’ENTRÈVES presidente; Enrico FILIPPI, vice presidente; Alberto ALESSANDRI; Marco BALDI; Stefania BARIATTI; Guido BRIGNONE; Ludovico COLOMBATI; Mario DEAGLIO; Pierluigi DELLA VALLE; Stefano DISTILLI; Gianluca FERRERO; Waldemaro FLICK; Franzo GRANDE STEVENS; Andrea LUCÀ; Jean-Claude MOCHET; Federico MOLINO; Paolo MONTALENTI; Mario NOTARI; Giuseppe NEBBIA; Guido NEPPI MODONA; Lukas PLATTNER; Livia POMODORO; Giuseppe ROMA; Ezio ROPPOLO; Giuseppe SENA; Camillo VENESIO; Adriana VIÉRIN

COMITATO di REVISIONE

Giuseppe PIAGGIO, presidente; René BENZO, Pierluigi DELLA VALLE; Jean-Claude FAVRE, supplente

Elise CHAMPVILLAIR, segretario generale

Barbara SCARPARI, assistente del Presidente

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Vivere le Alpi II°Infrastrutture nel territorio

IncontroL’architettura del mondo.

Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggiAosta, 18 ottobre 2013

ConvegnoInfrastrutture nel territorio

Aosta, 19 ottobre 2013

IncontroWerner Tscholl.

Attraversare le montagneAosta, 20 marzo 2014

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Cura redazionale di Camilla Beria di Argentine

Si ringrazia per la collaborazione la dott.ssa Elise Champvillair

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INDICE

IncontroL’ARCHITETTURA DEL MONDO. INFRASTRUTTURE, MOBILITÀ NUOVI PAESAGGIGiuseppe Nebbia, Sergio Togni, Alberto Ferlenga , Giacomo Polin, Sandro Sapia ...................................................................................... pag. 9

ConvegnoINFRASTRUTTURE NEL TERRITORIO

SalutiCamilla Beria di Argentine .......................................................... pag. 31Sergio Togni ........................................................................................ pag. 32Aurelio Marguerettaz .................................................................. pag. 34

Relazioni introduttiveFrancesca Chiorino, Introduce e modera ..................................... pag. 39

Esperienze in Valle d’AostaFrancesca Chiorino ......................................................................... pag. 39

La mobilità in Valle d’AostaAntonio Pollano .............................................................................. pag. 40

La passerella sull’orrido di Pré-Saint-DidierMarco Fiou .......................................................................................... pag. 47

Prima Sessione - Esperienze, testimonianze e progettiFrancesca Chiorino, Modera.......................................................... pag. 55

Italia, Provincia autonoma di Trento, Val di Fiemme. Progetto di sviluppo integrato Altopiano e Passo di LavazéLoredana Ponticelli e Cesare Micheletti .............................. pag. 56

Italia, Provincia autonoma di Bolzano, Bressanone Sotto-Sopra - Circonvallazione di BressanoneMatteo Scagnol ................................................................................ pag. 62

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Austria, Regione del Vorarlberg, St. GallenkirchLa natura come strumento del design sperimentale, due esempi: Grasjoch - Gaislachkogl, 3.040 mJohann Obermoser ............................................................................ pag. 66

Italia, Provincia di Bergamo, Luzzana. Percorsi e soste all’interno del Parco del Gigante e VorticeGualtiero Oberti .............................................................................. pag. 71

Seconda Sessione - Tavola RotondaMarco Mulazzani, Modera ............................................................ pag. 77

Johann Obermoser, Matteo Scagnol, Cesare Micheletti, Gualtiero Oberti, Loredana Ponticelli, Sandro Sapia

IncontroWERNER TSCHOLL. ATTRAVERSARE LE MONTAGNE

Saluti Giuseppe Nebbia ................................................................................. pag. 87Sergio Togni ........................................................................................ pag. 88Aurelio Marguerettaz .................................................................. pag. 90

Il progetto di riqualificazione della strada del Passo Rombo-Timmelsjoch, Alto Adige -TiroloMarco Mulazzani ............................................................................ pag. 92Werner Tscholl ................................................................................ pag. 93

DibattitoMarco Mulazzani, Modera ............................................................ pag. 103

Werner Tscholl, Sergio Togni, Augusta Vittoria Cerutti, Paolo Giordano, Luca Gibello, Oliviero Péaquin

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Incontro

L’ARCHITETTURA DEL MONDO. INFRASTRUTTURE, MOBILITÀ, NUOVI PAESAGGI

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Introduce e moderaBeppe Nebbiapresidente dell’Osservatorio sul sistema montagna “Laurent Ferretti” della Fondazione Courmayeur Mont Blanc

Buona sera a tutti ed un ringraziamento a quanti avranno la pazienza di ascoltarci.Con la presentazione del volume L’architettura del mondo. Infrastrutture, mo-

bilità, nuovi paesaggi continua la serie di iniziative promosse dall’Osservatorio sul sistema montagna “Laurent Ferretti” della Fondazione Courmayeur e dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori della Valle d’Aosta, iniziati-ve che si raggruppano sotto il titolo Vivere le Alpi, infrastrutture nel territorio.

Con qualche difficoltà, specie finanziaria, l’Osservatorio sta dando attuazione al programma triennale Vivere le Alpi avviato l’anno scorso e di cui si è riusciti a per-petuare la formula che distingue due fasi: prima la presentazione di un libro e poi, il giorno successivo, l’illustrazione di esperienze concrete.

Con l’impegno della dott.sa Camilla Beria, che ringrazio, siamo riusciti a rispet-tare la tradizione di fornire in tempo per il nuovo convegno gli atti degli incontri e dei convegni precedenti.

Con piacere constatiamo che i nostri incontri assumono sempre maggiori notorie-tà e competenza, tanto da diventare un classico riferimento, oltre che per i colleghi, anche per iniziative di valutazione e classificazione di edifici di elevato valore archi-tettonico in Valle d’Aosta.

Per potenziare a tal fine le attività dell’Osservatorio sarà necessario disporre di una biblioteca specialistica e di spazi per lo studio e la documentazione a disposizio-ne di chiunque sia interessato agli argomenti trattati.

Per evidenti limitazioni finanziarie la biblioteca sarà basata su lasciti o su acquisti di volumi concernenti temi giuridici, economici e sociali, relativi alla Valle d’Aosta, alla montagna, all’architettura, per un totale presunto di circa 3000 volumi. Saranno ovviamente gradite donazioni di opere concernenti le finalità dell’Osservatorio.

Il parlare di biblioteca ci porta alla pubblicazione che viene presentata e che con dovizia di descrizioni ed illustrazioni pone in evidenza il ruolo e le ricadute delle infrastrutture sul territorio e sul paesaggio.

Del termine “infrastruttura” il libro dà due definizioni che sinteticamente espri-mono il concetto: “insieme di elementi materiali ed immateriali che garantisco-no il buon funzionamento di un sistema più generale” successivamente precisato in:”insieme di impianti pubblici e di beni materiali al servizio della collettività che non producono direttamente reddito ma costituiscono la base per lo sviluppo econo-mico e sociale di un paese”.

Il volume raccoglie un’ampia serie di contributi che affrontano il tema delle infra-strutture da diversi punti di vista: dell’architetto, dell’urbanista, dell’ingegnere, dello storico, del fotografo, del critico cinematografico, del geografo, ecc..

Nella presentazione a Milano della mostra L’architettura del mondo. Infrastruttu-re, mobilità, nuovi paesaggi, di cui il libro costituisce catalogo, Claudio De Albertis,

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Presidente della Triennale di Milano, rileva che “….la competività e lo sviluppo dell’Italia hanno a che fare proprio con la sua dotazione infrastrutturale ….” che presuppone di “…. riprendere l’abitudine, un tempo tutta italiana, di coniugare in-frastrutture e qualità estetica, interventi e paesaggio, di considerare, sin dalla fase della progettazione, funzioni che possono costituire un valore aggiunto a quello pu-ramente d’uso di una infrastruttura”

Un interesse particolare riscuote per noi il riferimento al “nuovo regionalismo” in relazione al fatto di trovarsi, nella presentazione di uno studio che ha per rife-rimento il mondo intero, in una regione che rivendica le differenze piuttosto che le omologazioni.

Anche in Valle d’Aosta l’incidenza delle infrastrutture è rilevante sia per il carat-tere montuoso del territorio che per la dimensione notevole di molte di esse, come l’autostrada, i trafori, i grandi impianti idroelettrici con vasti bacini di accumulo, i grandi elettrodotti, gli impianti di arroccamento, i sistemi di paravalanghe. Ma non sono solo la dimensione elevata caratterizza le infrastrutture, ma anche la diffusione sul territorio di interventi ripetitivi a creare una rete quali le strade locali, i canali di irrigazione, la rete elettrica, le centraline ad acqua fluente, le scuole pubbliche, ecc.

Lascio ad Alberto Ferlenga, che ringrazio sin d’ora e a cui esprimo le congratula-zioni per la recente nomina a curatore del settore architettura della Triennale di Milano e curatore della mostra, il compito di illustrare gli indirizzi ed i contenuti del volume.

Prima di passare la parola al presidente dell’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori della Valle d’Aosta, Sergio Togni, lo ringrazio per la col-laborazione prestata al fine dell’organizzazione del convegno, ed estendo il ringra-ziamento a tutti coloro che si sono adoperati per la buona riuscita dell’iniziativa, in particolare lo staff della Fondazione.

Un ringraziamento particolare rivolgo ai due moderatori Francesca Chiorino e Marco Mulazzani per il contributo culturale portato all’iniziativa e la pazienza dimo-strata a fronte delle sollecitazioni cui sono stati sottoposti.

Un ringraziamento ancor più particolare esprimo agli autori delle opere presenta-te per aver aderito al nostro invito.

Sergio Tognipresidente dell’Ordine Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Valle d’Aosta

Grazie a tutti e buonasera.Il tema delle infrastrutture è un tema a noi caro come architetti. Normalmente, noi

non siamo coinvolti nella progettazione delle infrastrutture, ma molto spesso esse ci vedono impegnati dal punto di vista estetico e paesaggistico, quindi, di fatto, abbia-mo anche una competenza e una responsabilità nei confronti di opere che vanno a caratterizzare il paesaggio e che contribuiscono a creare il bello, che è una necessità di tutti i cittadini.

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Come ogni anno, ci ritroviamo qui insieme. Siamo molto contenti come Ordine di riuscire a organizzare annualmente questo evento.

Anzitutto sono doverosi i ringraziamenti alla Commissione Cultura dell’Ordine presieduta da Michele Saulle e a Sandro Sapia, che ne continua l’opera nel nuovo Consiglio, dopo aver contribuito al lavoro preparatorio come ex Presidente.

Molto spesso, quando parliamo di infrastrutture nel territorio, la prima idea che ci viene alla mente è un’idea di negatività. Sarà perché siamo abituati a considerare concetti come la valutazione d’impatto ambientale e l’inserimento in un territorio vergine, sarà perché abitiamo in una regione con una componente naturale molto evi-dente, noi pensiamo subito ad aspetti di imponenza o di invadenza, a traumi, cesure, impatti... La ferrovia che taglia in due la valle, l’autostrada che si vede da ovunque si guardi la valle centrale. Io, invece, penso che le infrastrutture possano anche essere belle. La bellezza c’è in tutto. Ci sono persone che collezionano bottiglie o bicchieri, che trovano la bellezza nei tovaglioli o nelle auto. È evidente che anche nelle infra-strutture ci può essere bellezza e che quindi esse non siano una componente negativa; anzi, esse possono essere una componente che rende orgogliosi di appartenere a quel territorio, soprattutto quando sono belle.

Può sembrare che lo dica per portare l’acqua al nostro mulino, ma molto spesso, dove c’è una bella infrastruttura, dietro c’è un architetto. Non è un caso che anche a questo tavolo siedano quattro architetti.

Ci sono infrastrutture bellissime. Penso, per esempio, a una struttura ferroviaria come il Trenino Rosso del Bernina o alla Statale dello Stelvio. Secondo me, non si può pensare allo Stelvio senza pensare alla Strada Statale, sempre molto fotografata proprio per un susseguirsi di tornanti che è un segno dell’opera dell’uomo dal fasci-no ineguagliabile. Penso ancora agli interventi più recenti di Calatrava nella zona di Reggio Emilia: quando si viaggia da Milano a Bologna, Reggio Emilia è l’unica città che appare, perché di Modena non ci accorgiamo, di Parma forse un po’ perché si vede la Barilla, mentre Reggio Emilia, con la stazione dell’alta velocità di Calatrava e i tre ponti, ha acquistato un valore diverso. La prima volta che ho percorso l’Auto-strada del Brennero, il guardrail in cor-ten mi è sembrato una piccola raffinatezza che nobilita anche una cosa di per se brutta come una normale autostrada, sulla nostra A5 però mi dispiace che abbiamo perso le siepi tra Quincinetto e Torino a favore del guardrail, anche se per questioni di sicurezza.

Considerare l’importanza della bellezza di un’infrastruttura è un dovere nei con-fronti dei cittadini e quindi io credo che si debba avere il coraggio di realizzare infrastrutture più belle. Io invito sempre chi deve progettare delle infrastrutture a inserire nel team anche l’architetto e il paesaggista, oltre all’ingegnere, che di solito si occupa di infrastrutture come progettista in senso stretto.

In Valle d’Aosta, purtroppo, abbiamo avuto delle occasioni mancate. Penso al viadotto Montbardon piuttosto che al Ponte sul Buthier, che potevano essere degli esempi sulla cui base provare a creare qualcosa di buono che rimanesse nel nostro paesaggio. Altri esempi sono più positivi, per esempio i caselli di Aosta o quelli di Pont-Saint-Martin e Verrès, che hanno una componente di design abbastanza im-

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portante. Anche le stesse passerelle del Bourg di Montjovet piuttosto che quella di Gressan sono un esempio di come dei ponti possano trasformarsi in qualcosa di inte-ressante. Quindi in Italia e Valle d’Aosta qualcosa stiamo facendo.

Io mi auguro che in futuro non succeda ciò che è già successo. E qui il pensiero va alle impattanti centrali termoelettriche dell’ENEL che ha dovuto rivestire l’architetto De Lucchi. Cioè, gli architetti vengono sempre chiamati a riparare le cose, ma io spero che in futuro sempre di più le cose le si faccia nascere con una buona progetta-zione, perché le cose nate con una buona progettazione poi sono un bene comune, a maggior ragione le infrastrutture, che sono sotto gli occhi di tutti.

IL MONDO DELL’ARCHITETTURA E L’ARCHITETTURA DEL MONDO*

Alberto FerlengaUniversità Iuav di Venezia, curatore della mostra“L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi”

Mentre i movimenti virtuali che intrecciano le loro reti invisibili a scala globale (immagine 2, pag. 116) producono effetti ancora difficili da decifrare, l’impatto delle infrastrutture materiali che organizzano gli spostamenti di merci e persone cresce costantemente in forza e visibilità (immagine 3, pag. 116)

Nel loro complesso, le infrastrutture legate al movimento, da sempre indifferenti a confini e geografie politiche, non solo aumentano con il moltiplicarsi di migrazio-ni, spostamenti, interconnessioni che caratterizza la nostra contemporaneità ma, di questa, forniscono anche l’immagine più rappresentativa. Se, in questo mondo in continuo addensamento, la ricerca di elementi d’ordine fosse ancora un obiettivo perseguibile, certamente ad esse bisognerebbe pensare come occasioni imprescindi-bili, grazie alla loro scala e alla coincidenza con le attività umane più diffuse. Inne-state nella superficie della terra come i nervi, le vene e le arterie nel corpo umano, le reti stradali, elettriche, fluviali, costituiscono, proprio a partire dal ruolo che svolgo-no, la parte più evidente dell’Architettura del Mondo abitato.

Lo sviluppo delle infrastrutture appartiene ad una storia antica tanto che alcuni dei maggiori imperi del passato, quello romano o quello Inca ad esempio, devono proprio alla capacità di realizzarle il fatto di aver potuto dominare sterminati ter-ritori, assicurando accessibilità a confini lontani e veloci trasferimenti di notizie, eserciti e merci.

All’origine, i materiali e spesso anche le forme che contraddistinguevano le ar-chitetture tecniche di questo tipo non si discostavano troppo da quelli con cui veniva-

* Immagini 1-16, pagg. 115-127.

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no edificati monumenti o fortificazioni. A riprova di ciò si pensi a come, in fondo, un anfiteatro romano possa essere immaginato come un segmento curvato di acquedotto e come le strutture militari o urbane dell’impero inca derivassero direttamente dai terrazzamenti che organizzavano le coltivazioni o il controllo delle acque.

È solo in tempi più vicini a noi, soprattutto nel corso del XIX secolo, che fer-rovie, ponti, ascensori trovano nel ferro il materiale che più li rappresenta inco-minciando a differenziare nettamente la loro immagine da quella delle altre com-ponenti urbane. Nel Novecento, poi, in questo fondamentale settore della costru-zione umana, accade un fatto nuovo. Da fenomeno curioso e destinato a pochi, le infrastrutture del movimento diventano lo strumento attraverso cui trova risposta la voglia di spostamento delle grandi masse la cui dilagante presenza, dalla guerra al turismo, caratterizza lo scenario del secolo. Un secondo incontro che si determi-na è quello con l’architettura moderna, che inizia a competere, in questo settore, con l’ingegneria, tradizionale interprete di questi simboli della modernità. Stazioni, porti, strade iniziano ad essere considerate, per le funzioni che svolgono, non solo parti fondamentali della città moderna, ma anche potenziali protagonisti di un ri-volgimento estetico che ha nella loro rude espressività e duttilità il punto di forza. Una straordinaria anticipazione di ciò sono le avveniristiche costruzioni di Antonio Sant’Elia. Nei pochi anni della sua vita (1988-1916), l’architetto comasco ha saputo immaginare intrecci tra funzioni differenti che erano, in quegli anni, di là da venire rappresentandoli in forme all’apparenza avveniristiche ma che denunciano, se guar-date con attenzione, la stretta parentela con architetture esistenti, dalle vetrate delle centrali ottocentesche ai bow window dei villini eclettici. In effetti, considerando il campo delle infrastrutture, i più visionari tra gli architetti moderni danno il meglio di sé non tanto nell’invenzione di scenari fantascientifici ma piuttosto nell’interpre-tazione di ciò che già esiste. Due esempi per tutti: il piano per Rio de Janeiro (1929) e il Plan Obus per Algeri (1931) di Le Corbusier. Entrambi, sebbene non realizzati, costituiscono una geniale pre-visione del ruolo che alcune infrastrutture avrebbero potuto svolgere in città sempre più colossali. Di anticipazioni del genere la storia del Novecento è piena e la loro presenza attribuisce a quel secolo una vitalità la cui influenza va ben al di là della sua fine cronologica. Se questo vale per l’intero seco-lo, alcune vicende dimostrano, al suo interno, un’attualità particolare che le sottrae alla condizione di documento o di semplice memoria e ne fa materiali utili anche agli architetti del nostro tempo.

Appartengono a questa “famiglia” le stazioni di Helsinki di Eliel Saarinen (1904-14) e di Stoccarda di Paul Bonatz (1911-28). La loro importanza sta nell’aver tramu-tato la tradizionale stazione ottocentesca in una struttura complessa dentro la quale, insieme con l’espletamento efficiente delle funzioni primarie, si sviluppa un’inedita natura urbana che trasforma i loro interni in sequenze di piazze coperte, vie, scalinate che rompono il confine con il resto della città per fondersi con essa.

Ma, ancora di più, hanno il valore di esempi ancora utili le stazioni della me-tropolitana di Mosca (1936-46) affidate ai migliori architetti e artisti del tempo perché ne declinassero una seconda natura di musei e gallerie d’arte. Oppure le

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straordinarie chiuse tedesche di Bonatz lungo il Neckar (1933) sottratte alla pura tecnica idraulica e restituite al paesaggio come efficace elemento di ricongiungi-mento tra il fiume e l’ambiente che lo circonda. Dentro il secolo, poi, svolge un ruolo di particolare importanza, in questo ambito, il mai abbastanza citato lungo-fiume di Jože Plecnik a Lubiana (1920-30) (immagine 4, pag. 117) che riesce a ricreare un centro tramite la geniale trasformazione in chiave urbana di sponde, letti, ponti, chiuse. Più recentemente, tra gli anni ‘50 e gli ‘80 lo svizzero Rino Tami, con l’autostrada del Canton Ticino, ha dimostrato come imboccature di tun-nel, muri di contenimento, viadotti, prese d’aria, si possano trasformare in altret-tante occasioni di valorizzazione paesaggistica senza particolari aggravi di costo ai danni dell’intervento puramente infrastrutturale. Se l’incontro tra l’architettura e questo particolare aspetto della tecnica ha riguardato tutto il mondo avanzato, la modernità architettonica italiana si è segnalata per una particolare capacità espressiva. Si sono misurati con questi temi architetti come De Finetti, Samonà, De Carlo, Sottsass, Gregotti, Rossi, Purini e molti altri dimostrando in più occasioni come coniugare infrastrutture, storia, architettura e paesaggio possa trasferire a città e territori una ricchezza che moltiplica quella prodotta dalla semplice declinazione di funzioni pur importanti in un paese come il nostro. Anche se la storia di quei progetti è, per gran parte, una storia di occasioni perdute essa ha contribuito ad attribuire una “specificità” riconosciuta all’architettura italiana. Specificità che proprio nella capacità di connettere architettura, struttura e contesto ha avuto il suo centro e che, se restiamo al campo stretto delle infrastrutture, ha conosciuto un’ancor più puntuale e concreta testimonianza nelle realizzazioni di ingegneri quali Nervi, Zorzi, Morandi, Musmeci, Favini, che hanno affermato, a partire dagli anni ‘50 del Novecento, una superiorità tutta italiana destinata, inspiegabilmente, a dissolversi già alle soglie de-gli anni ‘70 (immagine 5, pag. 118).

Dopo gli anni della fama nel mondo, lo scenario italiano è oggi articolato e di-scontinuo e tornerò tra poco su alcuni suoi elementi di interesse. Bisogna però ricor-dare, prima, fino a che punto il manifestarsi di alcuni cambiamenti, già nel corso del Novecento, abbia iniziato a modificare il quadro degli interventi di tipo infrastruttu-rale. Mi riferisco, ad esempio, alla produzione, in varie parti del mondo, di progetti che oggi definiremmo “globali” e che, a differenza di quanto crediamo, non sono stati appannaggio esclusivo degli anni più recenti. La principale delle loro caratteri-stiche è che ampliano il già vasto campo di riferimento. Il loro territorio non è più, infatti, costituito da una regione o da una singola area geografica ma da interi stati, da interi continenti e, in prospettiva, dall’intero mondo abitato.

Come dicevo, anche se siamo portati a credere che l’”agire globale” sia una pre-rogativa della nostra epoca progetti come Atlantropa, (1926) di Herman Sörgel, che prevedeva l’abbassamento complessivo del livello del mare Mediterraneo per il recu-pero di terra ed energia, (immagine 6, pag. 119) o Ecumenopolis (1963) di Doxiadis che preconizzava la nascita di città-mondo, (immagine 7, pag. 120) dimostrano che la tendenza al “pensare in grande” ha attraversato anche il secolo passato e che non si è trattato di utopie bensì di progetti concreti che hanno avuto parziale riscontro

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negli interventi per il recupero delle acque dei grandi laghi africani, per Atlantropa, e nella progettazione di Islamabad da parte di Doxiadis, per Ecumenopolis, ma anche il merito di anticipare temi quali il peso dei cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse, l’approvvigionamento energetico. Anche in questo caso, l’interesse alla scala ampia presenta una continuità che giunge sino a noi, magari passando dalle sterminate realizzazioni di barriere vegetali, americane o sovietiche, degli anni ‘30 e ‘40 (immagine 8, pag. 120) rivolte al controllo dei venti e alla difesa dell’agricol-tura. È fuor di dubbio, a questo proposito, che i grandi progetti della prima metà del Novecento abbiano fortemente influenzato la nascita di opere, questi sì recenti, quali il Great River Program (1983) libico per la cattura dell’acqua contenuta nella gran-de riserva presente sotto il Sahara, Desertec (2003) per l’uso globale delle energie rinnovabili, il tunnel di Bering (in corso di progettazione) che stravolgerà gli spo-stamenti nel mondo e le ciclopiche ma eco-compatibili green belt africane o cinesi (immagine 9, pag. 121) già in fase avanzata di realizzazione e destinate a bloccare l’avanzata della sabbia dei deserti.

Ma oggi sappiamo, che in questo settore e in questa nostra complessa contem-poraneità, le scelte non sono mai a senso unico. Se la scala colossale si afferma nei deserti africani o della Mongolia, se alcune megalopoli hanno avviato immense opere di infrastrutturazione, è pur vero che analoga efficacia affermano interventi di scala opposta che puntano l’attenzione su di una serie di temi, “complementari” e di scala minore. Dentro questa categoria, il riuso dei cicli infrastrutturali esauriti, ad esempio, presenta enormi potenzialità organizzative e espressive come insegna, in modo esemplare, il recupero della High line di New York (2006) o, con meno clamore, la trasformazione dei sottopassi di Seul (2010) (immagine 10, pag. 122) o lo smontaggio dei viadotti obsoleti di Montreal (2013). Ma opportunità almeno pari sono quelle legate allo sviluppo delle infrastrutture leggere che mostrano di saper fronteggiare meglio di altre la dimensione urbana: le recenti funicolari di Rio o Me-dellin, le scale di Lima (immagine 11, pag. 123), la Ruta del peregrino in Messico. Il mondo, oggi più che mai, funziona a scale d’intervento o d’uso molto diverse e se, da un lato, le grandi opere infrastrutturali recenti sono adeguate alle dimensioni dei fenomeni in atto, dall’altro tendono a restituire forme di omologazione simili a quelle esistenti in altri settori. Per contro, una nuova generazione di infrastrutture minori sembrerebbe più adatta a declinare differenze, ad essere, per sua natura, più attenta a ciò che le circonda. A questa “famiglia” di opere appartiene l’interessante catalogo di passerelle pedonali, ponti leggeri, punti di sosta, stazioni minori ecc. che le riviste internazionali mostrano ormai di continuo e il cui unico rischio è quello di assuefarsi alla pratica di una maniera architettonica che produce soluzioni identiche in ogni parte del mondo (immagine 12, pag. 124).

L’Italia di oggi si muove, come in ogni ambito, a passi alterni. Non mancano operazioni interessanti, come la nuova metropolitana di Napoli (immagine 13, pag. 125) che sembra aver ripreso, dopo 70 anni, l’insegnamento di quella moscovita, o grandi scommesse come il MOSE di Venezia, e neppure piccole operazioni, di riuso o ex-novo, che in punti rilevanti del paesaggio italiano dimostrano le potenzialità di

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un buon progetto (immagine 14, pag. 126) e (immagine 15, pag. 126). Quello che manca è la fiducia da parte di chi governa città e territori, nel ruolo che infrastrut-ture opportunamente declinate potrebbero svolgere nell’opera di valorizzazione del nostro territorio. Oggi in Italia, a vario titolo, le infrastrutture potrebbero fornire una straordinaria opportunità. Sia quelle da fare, che non potranno più essere pensate in modo indifferente rispetto al contesto urbano e geografico che le accoglierà, sia quelle esistenti e per buona parte dismesse che richiedono un intervento di rivitaliz-zazione su cui potrebbero formarsi le ultime generazioni di architetti e ingegneri.

Oggi, in questo paese così condizionato dalla sua geografia e, per questo, più di altri dipendente dalle infrastrutture che servono ad attutirne gli effetti, sarebbe necessario ragionare su molte cose. Per esempio su come strutture che per anni hanno funzionato come barriere – le autostrade, le tangenziali, ecc. – possano guardare attorno a sé con maggiore attenzione rispetto al passato. Se lo facessero, scoprirebbero di essere contigue ad altre infrastrutture con cui non riescono a dialogare, di sfiorare monumenti o paesaggi straordinari con cui non comunicano e che invece, a partire da un semplice contatto e da una discreta permeabilità, potrebbero trasformarsi in occasioni economiche, turistiche, conoscitive. Baste-rebbe, in effetti, poco perché si guardasse a questo insieme di cose da fare e da ripensare come ad una grande occasione di rinnovamento, abbandonando la pra-tica perversa della neutralità territoriale, degli appalti al ribasso, della separazio-ne tra architettura ed ingegneria, per concentrarsi sul doppio valore che, fin dai tempi degli Uffizi del Vasari a Firenze, straordinario esempio di edificio-strada-ponte l’architettura italiana ha dimostrato potersi attribuire ad una infrastruttura di servizio pensata, fin dall’inizio, come occasione di arricchimento urbano o paesaggistico. Basterebbe poco per puntare l’attenzione sui 6000 Km. di percorsi ferroviari dismessi, sulle centinaia di porti e canali in disuso, sulle nuove opere da fare, sulla necessità di sviluppare forme di infrastrutturazione lenta, sul rap-porto di scambio tra paesaggio e opere tecniche; quel poco richiede, però, l’uso di una cultura e un’attitudine differenti da quelle che attualmente presiedono alla realizzazione delle opere infrastrutturali. Non servono più discipline chiuse ma scambio e dialogo, non più opposizione sociale ma condivisione e ricerca del consenso, non più mono-funzionalità, spreco energetico, indifferenza ambienta-le ma multi-funzionalità, autosufficienza energetica, rispetto del paesaggio. Solo così ciò che ha contribuito a lungo a dar forma al vecchio mondo può diventare il volano di una qualità da immettere in territori e città comunque nuovi, forse me-glio funzionanti rispetto al passato ma non per questo necessariamente migliori (immagine 16, pag. 127).

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SITE SPECIFIC*

Giacomo Polinarchitetto

Mettiamoci alla guida, entriamo in autostrada e percorriamo la rete che dagli anni cinquanta del secolo scorso ha innervato l’Italia: una penisola che non ha solo stra-ordinari caratteri morfologici propri (uno stivale bagnato da 4 mari e chiuso dalla ca-tena montuosa più alta e importante d’Europa, ma anche, appoggiata delicatamente o violentemente sopra, una storia senza pari) per fare un viaggio tra le opere (ponti, viadotti, gallerie) dei progettisti di un’epoca d’oro dell’ingegneria e del lavoro ita-liani, quella degli anni cinquanta e sessanta e dell’Autostrada del Sole; i grandi tagli coevi di Lucio Fontana o le tormentate superfici telluriche di Burri, gli spezzoni ce-lebri o dimenticati di quel cinema italiano che subito colse la novità dell’autostrada come metafora del viaggio, facendone uno dei punti di osservazione privilegiati sul miracolo economico, come indispensabili contrappunti iconografici.

Le autostrade sono, insieme forse solo alla televisione, il principale medium per una percezione collettiva del nostro essere abitanti di questo paese, e documentano la tradizione ingegneristica italiana rappresentandola nel suo intersecarsi al paesaggio: un viaggio attraverso il grande web nazionale.

Focalizzeremo lo sguardo su un sistema viario lungo seimilacinquecento chilo-metri, sui suoi innumerevoli riflessi nella geografia, nell’economia e nel costume. Come per un’opera d’arte o di un’architettura, intendiamo analizzare in dettaglio le tecniche e le forme, e mettere in luce gli effetti dell’impresa infrastrutturale sul contesto territoriale.

Un lavoro che coinvolge molte discipline (topografia, arte, architettura, ingegne-ria, fotografia, letteratura, cinema) e che vuole illustrare una storia ormai lunga e glo-riosa, stimolarne la conoscenza e invitare, come dice Antoine Picon, a “riconciliarsi con il paesaggio delle infrastrutture”.

Quali conseguenze ha prodotto il sistema autostradale italiano sulla nostra percezio-ne del paesaggio e sulla stessa identità nazionale? Quello che è stato definito il paysage de la vitesse è certamente parte di uno spazio comune e di un riferimento identitario.

Il valore e il peso culturale che le autostrade hanno avuto, e continuano ad avere, per il nostro paese, impongono uno sguardo attento ai manufatti, ai progetti, alle tecniche di realizzazione e soprattutto alle trasformazioni indotte sulle campagne e sulle città, per tracciare un inedito punto di vista sul territorio italiano, seguendo il tracciato della nostra storia più recente.

È un’occasione per approfondire importanti aspetti della vita collettiva e quo-tidiana: la motorizzazione di massa, i fenomeni di innovazione, l’immaginario del viaggio, l’industria del turismo, i trasporti, il commercio.

* Immagini 1-17, pagg. 128-139.

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Le immagini evocative di alcuni tra i più famosi fotografi italiani, che hanno ri-tratto la delicata integrazione tra natura e tecnologia lungo tutta la penisola, testimo-niano diverse stagioni della nostra storia e fissano in modo indelebile l’evoluzione dei costumi. L’autostrada italiana lega indissolubilmente lo sguardo sul paesaggio con quello dal paesaggio, narrato ampiamente anche da molta nostra letteratura, in testi che hanno raccontato le storie della nostra vita “in movimento”, del rapporto tra il paesaggio fisico e il paesaggio interiore, in un crogiolo di spunti, di riflessioni, di invettive e di sogni.

L’autostrada dunque come “opera d’arte” meritevole anche, per alcuni tratti si-gnificativi, di tutela, attraverso tecniche di conservazione/sostituzione appropriata; un monumento della nostra modernità a scala territoriale di cui la collettività nazio-nale si deve ormai riappropriare come di un bene culturale.

L’autostrada italiana fa parte, nel bene e anche nel meno bene, del paesaggio nazionale, e se la caratteristica principale di quest’ultimo è di essere caratterizza-to dalla coesistenza in un’unica cornice di piani percettivi diversi, il primo piano, lo scenario, lo sfondo lontano, come nella grande tradizione pittorica e vedutistica italiana, è proprio l’esistenza di un’infrastruttura di scavalcamento territoriale come l’autostrada che ci permette di “entrare” nel paesaggio, e di costruirci scorci indivi-duali, privilegiando ogni volta punti di vista e obbiettivi diversi, mutevoli al variare della direzione, della velocità, della presenza della luce o dell’ombra.

L’autostrada come teatro di una rappresentazione il cui palcoscenico è il paesag-gio naturale o antropizzato, ma anche come un film che scorre sempre diverso di fronte e attorno a noi. “Le autostrade”, secondo Marc Augè, “fanno vedere paesaggi a volte quasi aerei, molto diversi da quelli che può cogliere il viaggiatore che per-corre le strade statali e provinciali. Con esse si è passati dal film intimista ai grandi orizzonti del western”.

Non solo, gli stessi manufatti autostradali a loro volta sono entrati a pieno titolo a far parte del paesaggio, poiché ormai ne percepiamo la presenza all’interno di disparati scenari al pari delle altre opere dell’ingegno umano, i castelli, i borghi, le dighe, i porti.

Così come, secondo Marguerite Yourcenar, “il molo feconda il golfo”, allo stes-so modo un’autostrada ben costruita feconda, dovrebbe fecondare, il paesaggio che l’accoglie. È davvero un grande tema di architettura, questo, e le migliaia di chi-lometri di carreggiate a due e a tre corsie presenti sul nostro territorio stanno a te-stimoniarlo, talvolta con discrezione e talaltra con aggressività, ma quasi sempre esprimendo quello spirito di necessità che connota la migliore ingegneria italiana.

Con ciò si intende, prima di tutto, sottolineare l’inestricabile rapporto che lega, in Italia, geografia e storia. Si potrebbe sostenere che la geografia del nostro paese non sarebbe la stessa senza il contributo della storia, dell’incessante e, dobbia-mo dire, eccellente lavorio che quest’ultima ha operato sul corpo del territorio, modellando e trasformando montagne, colline, coste, pianure, attraverso la sua antropizzazione.

D’altra parte, neanche la storia d’Italia forse sarebbe stata la stessa senza la pre-

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senza di un paesaggio come quello italiano, con due isole e una penisola poste al centro del mar Mediterraneo, che sotto cieli luminosi trascorre dai larici delle Alpi agli olivi dell’Appennino agli agrumi della costa mediterranea.

Il paesaggio italiano è la somma di questi due elementi, ed il paesaggio dell’auto-strada italiana li incorpora in più di 6.500 chilometri di corsie autostradali, migliaia di gallerie, di ponti e di viadotti, centinaia di caselli di esazione, alcuni dei quali abbracciano fino a venticinque corsie; vogliamo indagare e “fotografare” il risultato, ancora provvisorio, di questa dialettica non sempre pacifica, che è entrata a far parte del nostro immaginario collettivo.

Ma che cos’è in realtà un’autostrada? Prima ancora di essere un formidabile pun-to di vista sul paesaggio, e di essere essa stessa elemento del paesaggio, l’autostrada è un nastro d’asfalto senza discontinuità, posato più o meno delicatamente a terra, o appoggiato alla sommità di viadotti più o meno vertiginosi, o ancora scavato in gallerie più o meno lunghe e profonde, ma invariabilmente tracciato in modo da mantenere una pendenza massima non superiore al 3,50%, e raggi di curvatura molto ampi. Un nastro continuo, come un fiume che si insinua nelle pieghe dell’orografia, che però provoca discontinuità nella viabilità secondaria che incontra, costringendo le altre strade ad adattarsi al suo passaggio, con sovrappassi che la scavalcano, e in generale prevalendo sui tracciati preesistenti, sia nelle zone già densamente urbaniz-zate o infrastrutturate, sia nelle zone ancora disabitate.

Da questo punto di vista è l’analisi delle sezioni stradali a permetterci di misurare la maggiore o minore appropriatezza dei tracciati nell’inserirsi dentro la tormentata orografia dello Stivale, e anche, indirettamente, nella trama storica degli elementi na-turali e dei tracciati agricoli; l’autostrada è sì un taglio netto in una trama, ma la sua sezione trasversale, che è usualmente larga da 30 fino a 40 metri, fatta da trincee, ri-levati, viadotti, gallerie, sovrappassi e sottopassi, e ancora svincoli, caselli, barriere, bretelle, tangenziali, incontra boschi, fiumi, laghi, il mare, e li trasforma, separandoli in maniera irreversibile, ma dando un ordine e una direzione (anzi, due) allo spazio geografico, allo stesso modo del vallo di Adriano e di tutti i grandi manufatti a scala territoriale della storia, che sono comunque imparagonabili per dimensione anche solo con un singolo tratto di Autostrada del sole.

Il confronto con la Francia, ad esempio, è istruttivo: grandi spazi, bassa densità, là il paesaggio è per la gran parte dolcemente ondulato, e l’autostrada, limitandosi ad adagiarsi pigramente alle ondulazioni coltivate, sembra isolata. Il viaggio è qua-si monotono, forse perché l’autostrada non si trova mai a dover combattere con il paesaggio, per il proprio inserimento, e quasi mai entra in risonanza con l’elemento naturale o antropico: cioè non ambisce come in Italia a quello “spirito di necessità” che la fa scattare come principale presenza ambientale.

Il tracciato di un’autostrada è infatti un atto fortemente (verrebbe da dire violen-temente) fondativo, che ha sempre comunque l’effetto di riorientare, o riallineare, i paesaggi che attraversa. Per questo motivo si può parlare, sul piano territoriale, di un “prima” e di un “dopo” l’autostrada.

Casi emblematici sono certi tratti autostradali periurbani, dove, accanto agli antichi

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edifici lambiti dal passaggio della nuova arteria che testimoniano con il proprio orien-tamento la passata relazione con il contesto agricolo o semplicemente con l’asse elio-termico, vediamo sfilare da entrambi i lati le nuove costruzioni, capannoni o magazzini o sedi di aziende, tutti ugualmente allineati con l’affaccio principale e la relativa inse-gna rivolti alla vista di chi guida, come nella tradizione delle botteghe con affaccio su strada, ma del tutto indifferenti all’orientamento dei terreni retrostanti.

Si è detto capannoni per brevità, ma cosa si vede davvero lungo il viaggio? Ca-pannoni, sedi aziendali, centri direzionali, alberghi, centri commerciali, outlet, par-cheggi, aree di servizio, scali merci, sfasciacarrozze, depositi, autotrasporti, logisti-ca, impianti, utilities.

Se aggiungiamo che tale decisivo rivolgimento nei criteri insediativi circostanti indotto dalla presenza dell’autostrada porta con sé una serie di altre conseguenze, come la disseminazione di barriere, muri di contenimento, parapetti, reti, guard-rail, cartelli segnaletici e cartelloni pubblicitari, ci rendiamo conto di quanto impattante sia questa infrastruttura, e di quanto importante possa essere il controllo progettuale e il disegno di dettaglio.

Ma va anche detto che ciò che sta ai margini delle autostrade, in Italia, è spesso purtroppo anche più impattante, un paesaggio artificiale, questo sì, che ha cambiato i connotati alle “belle contrade”, a quel territorio magico che ha prodotto da un lato la cosiddetta “Los Angeles veneta”, che ha troppo di tutto, e dall’altro lo spopolamento degli Appennini, la nostra spina dorsale, che ha plasticamente mostrato la validità della nota metafora di Manlio Rossi Doria sulla polpa e l’osso.

Nelle immagini “geografiche” dal satellite in scala 1:25.000, le autostrade ap-paiono come lunghi nastri distesi sull’altimetria della Terra, in modo non dissimile da come appaiono le grandi strade consolari romane che le hanno sostanzialmente precedute venti secoli fa.

È nel 1956 che viene stipulata la convenzione tra l’ANAS e la Società Autostrade per la costruzione e l’esercizio dell’autostrada Milano-Roma-Napoli; oggi si calcola che sull’A1 a Reggio Emilia passino in media 250.000 veicoli al giorno: su questi dati si calcola il bacino della stazione dell’alta velocità ferroviaria in costruzione affianco, che ha il compito di promuovere l’intermodalità, in uno scambio reciproca-mente proficuo con l’autostrada.

Sono stati cinquant’anni di un primato italiano che, dapprima con echi eroici, ammirati e studiati a livello internazionale, e oggi di grande innovazione tecnologica applicata, ha avuto la sua grande epopea nella costruzione della rete autostradale in Italia, dai grandi trafori alpini ai grandi porti del bacino mediterraneo, dai grandi raccordi anulari e tangenziali attorno alle città, alla infotelematica che punteggia i tracciati informando in tempo reale gli utenti e garantendo le condizioni minime di sicurezza del traffico.

Paul Virilio, in una mostra molto bella di qualche anno fa, Terre Natale. Ailleurs commence ici, si è chiesto: la strada è il passato o il futuro? Tenendo a mente la ta-bula viaria romana, la rete di strade consolari dell’impero, pensiamo che la domanda potrebbe valere per tutti i paesi europei, e così brevemente visiteremo il panorama co-

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struttivo di paesi a noi vicini e lontani geograficamente, dalla Svizzera agli Stati Uniti, ma vicinissimi per le influenze esercitate dai rispettivi modelli tecnici e culturali.

Se è vero infatti che storicamente il primato autostradale è italiano, tanto da aver noi coniato il termine che le designa internazionalmente, sono pacifiche le influenze sul nostro background esercitate negli anni trenta dal modello tedesco, quei paesaggi alla De Chirico disegnati da Paul Bonatz per le autobahn del Reich, e poi negli anni cinquanta dalle highways d’oltreoceano, attentamente studiate sia dal punto di vista strettamente tecnico che da quello più ampiamente sociologico.

Le tecniche come patrimonio di un Paese che Vittorio Valletta definì “uno stra-ordinario granaio meccanico”, e che Tullia Iori rintraccia nella per molti versi arretrata ma vitalissima impresa edilizia e infrastrutturale nazionale della secon-da metà del novecento, che reinventa i procedimenti di costruzione attraverso il carattere artigianale del cantiere del cemento armato oltre che lo studio avanzato delle teorie strutturali.

La prima metà del secolo breve, invece, aveva visto un primato italiano soprattut-to per merito del conte Piero Puricelli, che aveva ideato e realizzato il primo esempio di autostrada nel mondo unendo lungimiranza e pragmatismo, come titolare della Società Anonima Puricelli, Strade e Cave, dalla quale deriverà l’Italstrade s.p.a.

Tra il 1924 e il 1935 vengono tracciate e rese operative oltre alla Milano-Laghi, la Milano-Bergamo, la Napoli-Pompei, la Roma-Ostia, la Bergamo-Brescia, la Milano-Torino, la Padova-Venezia, la Firenze-Mare, la Genova-Serravalle. La rete autostra-dale italiana è tracciata nei suoi nuclei essenziali sul terreno e nella storia, ma è ormai anche codificata, normata, gestita, e tende a sostituire la rete ferroviaria in una sfida che, col senno di poi, avrebbe potuto essere governata in modo più equilibrato e reciprocamente vantaggioso.

La creatività progettuale e costruttiva applicata al problema di una viabilità mo-derna, ma calata su di un paesaggio talmente vario e caratteristico, da farne un para-digma europeo: questa è la sfida che le autostrade pongono in pieno miracolo econo-mico alla comunità nazionale.

Enrico Menduni ha molto ben descritto quella temperie, tra reti infrastrutturali in formazione – i metanodotti, le stazioni di servizio, il nuovo “loisir di matrice tipica-mente americana”, la stessa nascente televisione e Giorgio Amendola che metteva in guardia “noi non ci faremo incantare dalla civiltà dei frigoriferi e dei televisori”.

Sono gli anni in cui Guido Piovene compie un viaggio di ricognizione attraverso “un Paese in preda ad un furioso modernismo ritardatario” (“mentre viaggiavo la situazione mi cambiava alle spalle”), gli anni in cui Agip, Fiat, Pirelli e Italcementi danno vita ad un potente consorzio privato per la costruzione dell’Autostrada del Sole, gli anni in cui l’ingegner Arrigo Lora Totino, ancora una volta con il tipico mix italiano di visionarietà ed intraprendenza tecnico-commerciale, costruisce contro ogni previsione, e anche per conto dei francesi, (che si affidano a lui ed al supporto industriale della gloriosa Ceretti & Tanfani) le tre vertiginose tratte di cabinovia che scavalcano il massiccio del Monte Bianco, da Courmayeur a Chamonix; gli anni in cui la Olivetti pone le basi, oltre che per tutte le altre sue “avventure” produttive e

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sociali, per quella cultura informatica che genera ancora oggi un primato italiano con la tecnologia di telecontrollo.

Alla fine degli anni cinquanta l’Italia è quella che Jean Gottmann qualifica come territorio crocevia, dove l’ibridazione delle culture, delle tecniche, e delle pratiche artigianali, trova nei lunghi trafori e negli snelli viadotti, tra arditezze ingegneristiche e morbidezze ambientali, la conferma che le autostrade sono i monumenti territoriali della modernità.

Siamo d’accordo: questa esperienza alla lunga vincente è, e soprattutto è stata ai suoi inizi, fortissimamente debitrice dell’american way of driving, dei modelli –hi-ghways, freeways, parkways – che la fotografia, la letteratura e il cinema – ancora loro – andavano proponendo: ma nel caso italiano con un surplus di spessore geogra-fico, antropologico, culturale da renderlo paradigmatico, fino allo shock dell’embar-go petrolifero dei primi anni settanta, quando la rete autostradale italiana è la terza al mondo, dopo Usa e Germania..

Si affievolisce allora la fiamma dell’ingegno strutturale, costruttivo, di quella par-simonia di mezzi e di tecniche ribaltata in sottigliezza ed arditezza, che trova nel paesaggio italiano il grembo da cui nascono manufatti “poveri ma belli”.

Antonio Rapaggi, in “Il paesaggio dell’autostrada italiana” (Roma 2011) ha scrit-to pagine assai interessanti su questa estetica “povera”, tipicamente italiana e tipi-camente postbellica, dove la materia viene plasmata dall’artifex, e poi dal tempo, in vista di obbiettivi funzionali e non a causa di prefigurazioni retoriche: un’arte con-creta (concrete è anche il nome dal calcestruzzo armato in inglese), dove la speciale relazione tra spazio e materia si solidifica, vista dall’autostrada, come un museo a cielo aperto: dove il cemento armato è a vista. È questa certamente la cifra più inte-ressante di questo fenomeno, al di là, o ben prima, delle successive letture pop, o in chiave di land art, della rete autostradale italiana.

Così come Alberto Saibene nello stesso libro ha approfondito il ruolo delle au-tostrade nell’immaginario letterario e cinematografico, così ricco di spunti anche rispetto allo schema interpretativo inclusione/esclusione che vede le autostrade come vettore di sviluppo e come volano della modernità; dal Sorpasso (1962) a Pane e tulipani (1999), dalla Bella di Lodi (1964) all’Ingorgo (1978), per non parlare di Fel-lini o di Francesco Rosi, “l’autostrada è sempre accesa”, (Fausto Paravidino, Texas). Del resto, l’autostrada è un film a colori…

Anche nella letteratura di questi ultimi cinquant’anni si potrebbe dire che le autostrade risultino se non sexy, certo altamente suggestive; occupano un posto di prima fila nel paesaggio come teatro, come ci ha insegnato a considerarlo Eugenio Turri, mentre la storia del paesaggio agrario italiano, scritta nel 1960 da Emilio Sereni, non contemplava ancora la vera e propria rivoluzione percettiva operata dalla presenza delle ampie corsie asfaltate nelle campagne e attraverso i fiumi, dalla interruzione violenta dei segni costitutivi delle coltivazioni spesso derivate dalla centuriatio romana, né ancor prima erano nemmeno immaginate nel Voyage en Italie di Goethe. L’Italia come palinsesto storico-geografico era letta ancora senza l’ausilio delle autostrade.

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In questo viaggio per punti, giacché altrimenti non si sarebbe potuto fare che un atlante borgesiano più grande e più vasto dello stesso territorio percorso, i punti sono comunque esemplificativi di uno spazio caleidoscopico, che forse solo una sorta di grande blob può riuscire a restituirci in tutta la sua interezza, come in una galoppata in sella ad un cavallo alato.

Se una strada, ogni strada, serve a collegare due punti distanti, attraversando e modificando per sempre il paesaggio e soprattutto la nostra percezione di esso, l’au-tostrada lo fa secondo tracciati tesi e diretti come il volo delle rondini, in quella sorta di visione a volo d’uccello che è il sogno del geografo o del mistico; trasformando un percorso in un “volo”, in quella “spettacolarizzazione del mondo” di cui parla Marc Augè.

Le opere d’arte che compongono un’autostrada italiana sono, al contrario, un invito a “sentire il tempo”, nel senso descritto in Paysage et ruines proprio da Augè. I lunghi viadotti delle autostrade nel paesaggio italiano sono come brevi aforismi di una mastodontica infrastruttura, aerei ma solidi punti di sutura tra i tracciati altime-trici e planimetrici circostanti.

Esemplare il caso di Genova, dove attorno al Polcevera si intersecano problemi di viabilità, di demolizione, di restauro. La stessa variante di valico sull’A1, una volta realizzata, permetterà per la prima volta di godere di un nuovo view point, e di una percezione non distratta, sull’antico viadotto Poggettone, uno dei capolavori di questa rassegna.

Queste hanno tutta l’evidenza di opere necessarie, incarnano cioè senza fronzoli quello spirito di necessità che è il lievito di tutta la grande ingegneria italiana. Se è vero che “il paesaggio è lo spazio descritto da un uomo ad altri uomini”, gli autori di questi manufatti, tanti se comprendiamo le maestranze, sono gli autori di un raccon-to che ha i tempi della velocità, offrendo lo spettacolo del tempo nelle sue diverse profondità.

Chi viaggia, secondo traiettorie che abbiamo avvicinato a quelle delle rondini, in vista di paesaggi cangianti, come in un film, definisce, forse anche inconsciamente, configurazioni narrative, come ci ha insegnato Paul Ricoeur. Non necessariamente esotiche, anzi probabilmente a base di fave e pecorino, o di polenta e stufato: ma “il risultato è sempre un paesaggio, cioè la riunione di temporalità diverse”.

Sandro Sapiaarchitetto

Faccio subito una domanda provocatoria.Vorrei chiedere, visti i filmati: quanti anni mancano in questo Paese per arrivare

al 1956? Cerco di essere un po’ più preciso.In virtù anche dell’ultima diapositiva dove erano elencate le potenzialità di alcune

infrastrutture, viste le esigenze attuali, io credo che vi siano tantissime possibilità di recupero di energia, quindi di riutilizzo e di consolidamento del territorio, nel senso

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che oggi, come nel 1956, c’è una forte esigenza di infrastrutture, infrastrutture non intese come nuove costruzioni o cementificazioni, intese come recupero e tutela del patrimonio paesaggistico, perché comunque ormai emerge che il nostro territorio, con i terremoti e gli aspetti idrogeologici che esistono, ha delle forti debolezze.

Nel 1956, un’Italia forse più povera di quella di oggi comunque ha avuto quello spirito ottimistico che l’ha portata a rilanciarsi e a collegarsi in modo positivo. È chiaro che noi avvertiamo in questi anni una depressione assoluta a tutti i livelli, pur avendo grosse potenzialità. Ci sarebbe tanto da fare. Che cosa manca, adesso, per accendere la scintilla? I problemi sappiamo quali sono, ne sentiamo parlare tutti i giorni, però alla fine bisogna pur partire. Io credo che le infrastrutture siano ancora una volta il trampolino di lancio.

Secondo voi che avete fatto dei bellissimi interventi, che rispecchiano quello che è stato fatto, ci possono essere i presupposti per ripartire secondo le nuove esigenze? Lo chiedo proprio sulla base dell’ultima diapositiva in cui si elencano delle poten-zialità e delle idee.

Alberto Ferlenga

Guardando il filmato presentato da Giacomo Polin, si possono notare molte cose interessanti. Intanto, ma è ovvio, che l’autostrada del Sole, che abbiamo visto agli inizi della sua vita, era concepita soprattutto per un uso da Sud a Nord e ha funzio-nato per molti anni soprattutto in questo senso, coincidendo la sua costruzione con un momento di fortissima immigrazione verso le aree industriali di Torino e Milano. Anche per questo il percorrerla, a tappe come era uso vista la lunghezza e la velocità delle automobili, coincise, per molti, con lo scoprire un paese in gran parte scono-sciuto, protetto com’era dalla sua impervia geografia. Bisogna però ricordare che anche se i tecnici che progettarono la strada, come ricorda il film, vollero aggiornarsi visitando negli Stati Uniti le realizzazioni più recenti in questo settore, in realtà, le prime autostrade moderne vennero costruite proprio in Italia a partire dalla Milano-Laghi del ‘26 a cui seguì, pochi mesi dopo, il tratto Milano-Bergamo della Serenis-sima. Esisteva quindi una tradizione tutta italiana, precedente alle grandi strutture americane o tedesche, e questa tradizione in gran parte si è persa. E non è un caso che insieme a lei si sia persa anche la grande ingegneria italiana di cui abbiamo parlato e che trovava proprio nella progettazione e costruzione di infrastrutture il suo punto di forza. Forse allora l’impoverimento della progettazione e della produzione, in Italia, in questo ambito, non è solo una questione di economia mutata ma qualcosa di più grave. È un problema di cultura, innanzitutto, perché solo così può essere spiegata la sparizione repentina di un patrimonio tecnico di estrema rilevanza. Volendo essere ottimisti, si potrebbe dire (ed è anche un po’ il motivo per cui abbiamo realizzato la mostra di cui ho parlato) che i patrimoni culturali che riguardano l’architettura o l’ingegneria, le città o i territori, non scompaiono mai del tutto. Possono però veni-re dimenticati, questo sì, per questo abbiamo voluto, in Triennale, ricordare alcune

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vicende, non come rievocazione storica ma per dimostrare come si trattasse di un materiale ancora vivo e utile.

Alla fine della mostra e del libro che ne è derivato abbiamo presentato una sorta di decalogo (in realtà i punti erano dodici). Un elenco di questioni che giudicavamo im-portanti come punto di partenza per un cambiamento di quadro e di atteggiamento. Ad esempio, alcuni punti ricordano che, pur avendo questo Paese un grande bisogno di nuove opere infrastrutturali, è forse più nel campo dell’esistente che si offrono interessanti possibilità d’azione. Il problema non riguarda solo le infrastrutture, ma in questo campo è particolarmente evidente. Ho citato nella presentazione i 6.000 chilometri di linee ferroviarie dismesse, ma ad essi si potrebbero sommare le mi-gliaia di chilometri di gallerie, di strade, di ponti, di canali nelle stesse condizioni; le centinaia di chilometri quadri di aree portuali abbandonate, ecc. Si tratta di un enor-me patrimonio la cui demolizione richiederebbe una grandissima spesa – e spesso non avrebbe un gran senso farlo – che invece, come molti casi fuori dal nostro paese dimostrano, potrebbe essere, con poco, riportato in funzione magari collocandolo in un contesto d’uso diverso da quello originario. L’abbandono, in Italia, ha delle caratteristiche particolari, così com’è particolare il nostro territorio. Quasi sempre le strutture che ne sono coinvolte sono contigue ad una speciale qualità paesaggistica. Direi di più, spesso si trovano strettamente intrecciate con essa. E dal momento che la bellezza attribuita al paesaggio italiano non è mai stata determinata solo da una successione di punti fissi (monumenti, scorci ecc.) ma è sempre il risultato di una somma di relazioni il rapporto che si crea fra infrastrutture, architetture e paesaggio è sempre, anche in caso di abbandono, un rapporto “attivo”. Se questo è vero, ne deriva che riattivare questo sistema di relazioni, tramite progetti di riuso consapevoli delle opportunità in gioco potrebbe costituire, in un paesaggio come quello italiano, una grandissima occasione sulla quale impegnare generazioni di giovani architetti.

Alla fine della mostra abbiamo fatto realizzare un grande modello. Esso rappre-senta, schematicamente, il tratto della A4 compreso tra Milano e Venezia. Si tratta, come si sa, dell’autostrada più frequentata d’Italia (è percorsa da più di un milione di persone al giorno). Ai suoi lati abbiamo segnalato, altrettanto schematicamente, quanto di interessante poteva essere trovato entro la distanza di quattrocento metri. Ebbene, la lista è stupefacente: ci sono ben quattro ville del Palladio, tra cui la più famosa, “La Rotonda” – quasi impossibile da trovare se si esce dall’autostrada –, ci sono castelli, aree faunistiche, musei, campi di battaglia storici e molto altro. C’è di tutto in questa specie di sezione sul paesaggio e sulla storia italiani. A questa semplice considerazione illustrata abbiamo accostato alcuni esempi come le opere di Bernard Lassus realizzate attorno agli anni ‘80 lungo le autostrade francesi e che dimostrano come l’accessibilità ad aree di interesse (e in Francia ce ne sono molte meno che in Italia), direttamente dalle piazzole di sosta possa costituire uno straordinario com-plemento all’uso puramente tecnico dell’autostrada. Il paragone con quanto non si fa in Italia e invece si potrebbe fare con ben altra dovizia di occasioni e con poco sforzo credo risultasse evidente. Sarebbe sufficiente una banalissima opera di razionalizza-zione delle aree di servizio o di sosta per rendere accessibile uno straordinario parco

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di beni culturali (ma un discorso analogo si potrebbe fare riguardo all’accessibilità di infrastrutture contigue come aeroporti o stazioni) trasformando quella che oggi è una barriera trasversalmente invalicabile in un’occasione di conoscenza e di scam-bio “lento” con il territorio circostante. Tra le opere autostradali italiane dobbiamo tornare all’Autostrada del Sole per trovare una certa attenzione al paesaggio. Come in parte raccontava il filmato che abbiamo visto nella collocazione degli autogrill e delle aree di sosta si proponeva una fruizione quantomeno contemplativa, che per lo meno dimostra come l’idea che si potesse sfruttare in senso turistico l’infrastruttura come una sorta di macchina della visione, ancor prima di raggiungere le mete vere e proprie, era ben presente ai progettisti.

Anche per l’autostrada del Brennero, in anni successivi, si sarebbe tentato qual-cosa di simile. Si citavano poco fa i suo guard-rail in COR-TEN. Beh, si trattava dell’unica parte sopravvissuta di un complesso progetto di ……Porcinai, il più gran-de paesaggista italiano, che implicava, anche in questo caso, la possibilità di rendere permeabile l’autostrada, visivamente e non solo.

Il campo di lavoro che riguarda l’adeguamento o il riuso delle infrastrutture esistenti è dunque sterminato ma molte cose, oggi, andrebbero cambiate nell’ap-proccio progettuale a questo tema. Si pensi, ad esempio, allo spinoso nodo del consenso, considerato in Italia, nel migliore dei casi, come qualcosa da conqui-starsi a cose fatte. È fin troppo evidente, e le vicende della TAV lo dimostrano, che cercare di ottenere il consenso “a cose fatte” porta inevitabilmente a irrigidi-menti e blocchi che ritardano qualunque genere di opera, giusta o sbagliata che sia. Ancora una volta, bisogna citare altre nazioni per avere suggerimenti, come la Francia o la Svizzera dove la condivisione delle scelte infrastrutturali con la popolazione che ne subisce il peso è regolata da precisi protocolli e considerata cosa scontata.

Quello che si può dire, per concludere, è che in questo ambito dobbiamo tornare a riflettere sulla necessità di produrre un valore aggiunto che si sommi a quello pu-ramente funzionale dell’infrastruttura e che si riversi su tutto ciò che le sta attorno. Il che, però, implica, dal punto di vista tecnico, la necessità di affrontare la loro pro-gettazione e realizzazione con ottiche diverse dal passato. Anche l’uso delle stesse modalità può produrre effetti diversi se il punto di vista non è più quello di produrre un bene comune. Per esempio, noi oggi addebitiamo al frazionamento degli appalti la causa di un’evidente scarsa qualità e dissonanza dei diversi tratti stradali o fer-roviari. In effetti, ciò è particolarmente visibile nelle nuove opere che, per inciso, non dialogano tra loro anche quando scorrono a poche decine di metri le une dalle altre. Lo dimostrano le soluzioni diverse date agli stessi problemi, l’uso di materia-li e tecniche sempre diversi, ecc., ecc. Il tutto è indubbiamente condizionato dagli appalti frazionati e al massimo ribasso ma non era inevitabile che si producesse un tale effetto come, una volta di più, l’Autostrada del Sole sta a dimostrare. Per la sua costruzione si diede corso a centinaia di appalti per dare lavoro a imprese diverse e favorire uniformemente i territori attraversati, ma in questo caso la pratica della suddivisione ha determinato una sorta di concorrenza al rialzo che ha portato im-

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prese e comuni ad accaparrarsi gli ingegneri migliori, a compiere le opere nel modo più spettacolare e perfetto, come se si trattasse di mostrare una perizia collettiva, un sapere antico. Questo è stato fatto nel 1956, nel nostro Paese, in un tempo che oggi sembra lontanissimo e non certo perché abbiamo migliorato, nel frattempo, le nostre capacità di intervento in questo settore, almeno per quanto riguarda le implicazioni paesaggistiche delle grandi opere. Per concludere veramente, si può dire, ed è questo un discorso generale, che noi abbiamo una certa tendenza a cancellare la memoria storica in nome di una certa, e malintesa, idea di futuro ma forse, oltre che a rivolger-ci ad altri paesi per imparare, dovremmo anche tornare a guardare a quando eravamo noi ad insegnare agli altri.

Sandro Sapia

Quindi quanti anni mancano al 1956?

Alberto Ferlenga

Non si sa!

Sandro Sapia

Ma c’era anche lungimiranza nel frazionamento degli appalti, c’era lungimi-ranza nel sapere a chi ci si doveva rivolgere, perché l’apparato imprenditoriale e delle costruzioni dell’epoca era di imprese medio-piccole, quindi comunque attraverso gli appalti si era in grado di far lavorare le maestranze del Paese senza rivolgersi altrove.

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Convegno

VIVERE LE ALPI.INFRASTRUTTURE NEL TERRITORIO

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SALUTI

Camilla Beria di Argentinevice presidente della Fondazione Courmayeur Mont Blanc

Buongiorno. Il dottor Passerin d’Entrèves non può essere presente, rappresento, quindi, io la Fondazione Courmayeur.

Sono lieta di dare il benvenuto, a nome del Consiglio di Amministrazione e del Comitato Scientifico della Fondazione Courmayeur Mont Blanc, ai partecipanti al Convegno “Vivere le Alpi - Infrastrutture nel territorio”.

L’Osservatorio sul sistema montagna “Laurent Ferretti”, avviato dalla Fondazio-ne Courmayeur nel 1994, è impegnato a favorire, in piena coerenza con lo Statuto, il confronto di idee sui problemi della montagna con il contributo dei migliori specia-listi e con il coinvolgimento delle realtà locali.

Nel corso di questi anni si sono realizzati programmi pluriennali di ricerca su temi relativi all’architettura, all’agricoltura, al turismo e ai servizi sociali di mon-tagna. Abbiamo cercato di sviluppare attività multidisciplinari con un’ottica tran-sfrontaliera.

Il programma pluriennale di ricerca Architettura moderna alpina ha coinvolto architetti provenienti dalle diverse regioni alpine, accademici e rappresentanti di enti e Associazioni della Savoia, dell’Università di Ginevra e del Ticino. Un accordo di collaborazione con l’Ordine degli architetti, pianificatori di Aosta, è stato sottoscrit-to, a partire dall’anno 2008, per sviluppare, congiuntamente, delle iniziative. Impor-tante è la collaborazione, attivata a partire dall’anno scorso, con il professor Marco Mulazzani e l’architetto Francesca Chiorino. Quattordici sono i Quaderni della Fon-dazione pubblicati su tale argomento, con lo scopo di mettere a disposizione della comunità scientifica e degli operatori il materiale elaborato.

Il Comitato scientifico della Fondazione Courmayeur ha discusso in questi ultimi anni la strategia attinente allo sviluppo del programma pluriennale di ricerca Architet-tura moderna alpina. È emersa, in particolare, la volontà di meglio articolare, con un impegno pluriennale, i contenuti della programmazione.

Alla luce di quanto discusso e deliberato, anche in sede di Consiglio di Ammini-strazione, ha preso avvio, nell’ottobre 2012, il progetto triennale Vivere le Alpi, con l’obiettivo di svolgere una riflessione organica sulle relazioni tra architettura, comu-nità e ambiente su tre specifici argomenti: Lavorare, Muoversi e Vivere nelle Alpi.

Nello specifico, il primo ciclo di attività, relativo a Lavorare, è stato sviluppato con il Convegno Vivere le Alpi - Architettura e Agricoltura, tenutosi il 13 ottobre 2012, e con l’Incontro Vivere le Alpi - Architetture e paesaggi del vino, svoltosi il 12 aprile 2013. Oggi prende avvio il secondo ciclo di attività, relativo al tema del Muoversi. Segnalo che tale argomento verrà approfondito, anche, con un incontro in programma nella primavera 2014. Nell’autunno 2014 prenderà, poi, avvio il terzo ciclo di attività, concernente il tema dell’Abitare.

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Anche le pubblicazioni della Fondazione tengono traccia di tale organizzazione, passando da documento annuale dei convegni a report delle attività svolte per cia-scun dei tre cicli previsti.

Segnalo, inoltre, che il Convegno odierno è stato accreditato ai fini della forma-zione professionale continua, per la prima volta, a seguito della recente normativa, dall’Ordine degli architetti e dal Collegio regionale geometri e geometri laureati della Valle d’Aosta. Sono numerose le iniziative promosse dalla Fondazione Courmayeur Mont Blanc accreditate dagli ordini professionali (avvocati, commercialisti, geologi) ed è costante il contatto con tali professionisti.

La Fondazione attiva da sempre anche un contatto diretto con le istituzioni sco-lastiche valdostane e mi rallegro di scorgere spesso, tra il pubblico presente in sala, i volti dei professionisti di domani. È con piacere che saluto, oggi, gli alunni della classe IIA ed il professor Paolo Verdoia dell’Istituzione scolastica di istruzione tec-nica di Aosta.

Ringrazio lo staff della Fondazione Courmayeur, l’Ordine degli architetti, il pro-fessor Marco Mulazzani e l’architetto Francesca Chiorino per la fattiva collaborazio-ne nell’organizzazione del Convegno odierno.

Passo ora la parola al Presidente dell’Ordine degli Architetti Sergio Togni.

Sergio Tognipresidente dell’Ordine Architetti, pianificatori, Paesaggisti e Conservatoridella Valle d’Aosta

Buongiorno a tutti.Sono molto contento che siate presenti così numerosi, perché quella di oggi comun-

que è una giornata importante; importante perché parliamo di architettura, parliamo di paesaggio, parliamo di un tema che ci è molto caro, ma anche perché stiamo iniziando una nuova fase come architetti, quella della formazione continua. Questo Convegno garantirà anche a noi qualche credito formativo. Dovremo comunque abituarci ai cal-coli di quella che può essere una formazione legata a un certo numero di crediti, a un certo numero di ore, anche se non credo che lo scopo per cui voi siete qui oggi sia questo. Secondo me, voi siete qui oggi perché vi muove un certo tipo di passione, una passione che tutti noi leghiamo alla nostra professione, una passione che ci vuole attori attivi all’interno della società come progettisti, nella fattispecie, del paesaggio.

Quest’anno sono molto contento che il tema sia il paesaggio; un tema bellissimo, che ci è caro perché tutti noi, quando attraversiamo dei posti o quando attraversia-mo la stessa nostra valle, ci soffermiamo a guardare quello che è bello e quello che è brutto, a volte manifestando delle critiche. Ovviamente, come addetti ai lavori, spesso facciamo i puntigliosi su che cosa si sarebbe potuto fare di meglio o di più. È evidente che in questi giorni noi viviamo un certo tipo di crisi, che ci porta anche a provare, a volte, un po’ di sconforto. Io sono convinto che momenti come questi debbano aiutarci ad avere ottimismo; un ottimismo che ci arriverà dai nostri relatori,

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i quali ci mostreranno delle cose interessanti e belle, delle trasformazioni, cioè come con un’attenta progettazione si possano portare delle positività nella società.

Ringrazio tutte le Autorità presenti, il Comandante dei Carabinieri, l’Assesso-re, il vicepresidente della Fondazione, ma ringrazio soprattutto voi per la vostra presenza, per la presenza tangibile dell’Ordine degli Architetti, che si chiama ap-punto Ordine Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Metto l’accento sulla parola “paesaggisti” perché rischia sempre di essere dimenticata. La nostra responsabilità nella trasformazione di un paesaggio è una responsabilità che nelle splendide relazioni di ieri del professor Ferlenga e dell’architetto Polin è stata resa molto evidente. Noi abbiamo visto negli anni ‘50, quando le persone erano più po-vere di quanto non siamo noi adesso con l’attuale crisi, come gli ingegneri Nervi e Morandi e gli architetti Samonà e Sottsass lavorassero sul paesaggio. Le opere e le infrastrutture non erano solo funzionali, erano anche belle. Viadotti bellissimi, ponti fantastici... Oggi come oggi, si rischia di appiattirsi su aspetti meramente funzionali e burocratici. Probabilmente manca la cultura, però qualche esempio c’è. L’anno scorso sono stato a Mont Saint-Michel e ho visto indicata chiaramente su un pannello la figura del paesaggista. Cioè, in Francia non esiste la possibilità che venga realizzata un’opera pubblica importante senza la figura del paesaggista, dell’architetto paesaggista.

Noi sappiamo che al nostro Ordine ci si può iscrivere come paesaggista con va-rie classi di laurea, anche con la laurea in agronomia paesaggistica, con la laurea in ingegneria edile e architettura, ma l’architetto (io rappresento questa categoria) contiene di più in sé le competenze proprie del paesaggista, che ha delle grosse re-sponsabilità e che molto spesso viene dimenticato. Noi spesso ci scordiamo che il bello è importante, è importante per tutti, perché il bello mette ottimismo, il bello dà fiducia nel futuro.

Noi abbiamo degli esempi che ho già citato ieri, per cui cercherò di non ripetermi troppo, ma, ad esempio, a Reggio Emilia è stata fatta un’operazione che hanno visto tutti, cioè: quando si passa sulla A1, si vedono i ponti e la stazione di Calatrava, che sono un segnale preciso di un luogo e che trasmettono una positività, per cui non si ha la sensazione di passare attraverso un niente come può essere una periferia. Il problema qual è? È che normalmente ci si dimentica degli insegnamenti di Kevin Lynch, cioè il maestro dei paesaggisti che ha portato molto avanti la teoria del pae-saggio. Lynch ci ha insegnato che i canali visivi sono quelli importanti, cioè il punto da cui fruiamo del paesaggio: il paesaggio va sempre visto e analizzato dal punto di fruizione e le autostrade e le strade sono dei canali visivi importantissimi.

Io ho in mente un esempio: l’autostrada della Valle d’Aosta, la circonvallazione di Aosta e la Tangenziale Sud. Lì c’era un retro dove chiaramente si potevano accumu-lare dei capannoni... Addirittura io ricordo che quando ero piccolo c’erano degli orti urbani, da quelle parti. Oggi quello è diventato un fronte. Perché? Perché è diventato un canale di fruizione visiva, è diventato un canale attraverso cui ci giudicano mi-lioni di persone che passano su quell’autostrada, persone che non si fermeranno mai in valle, che però ci giudicano, giudicano la città di Aosta per quello che vedono da

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quell’arteria. Noi abbiamo l’obbligo di pensare a queste cose, di migliorare i paesag-gi di cui fruiamo da quei canali visivi.

Abbiamo anche degli esempi positivi. Basti pensare all’area della Grand-Place di Pollein, piuttosto che alla zona di Gressan: quando si passa di lì, lungo l’autostra-da, si vede del verde, si vede sempre della gente che corre, si vede la passerella di attraversamento della Dora, che comunque è un buon esempio di architettura e inge-gneria, un buon esempio di infrastrutture al servizio delle persone e del paesaggio.

Quindi il mio augurio è innanzitutto questo: che si punti di più sul progetto e sui progettisti, che non ci si dimentichi, di fronte alla scusa della crisi, che le cose vanno fatte bene, perché quando c’erano molti meno soldi, quando i miei genitori erano piccoli e faticavano sulle montagne, c’era già un’attenzione al bello, si vi-veva con poco ma c’era un’attenzione al bello. La mia speranza è che tutti voi che siete qui oggi, che vedrete delle belle opere, riusciate ad assimilare una procedura, un’idea, un’idea dell’ordine, un’idea del paesaggio. Noi di tutto ciò dobbiamo essere latori presso la società e i cittadini, che sono i nostri veri destinatari, perché noi lavoriamo per loro.

Camilla Beria di Argentine

Grazie all’architetto Togni.La parola adesso all’assessore Aurelio Marguerettaz, che ringrazio per la sua pre-

senza.

Aurelio Marguerettazassessore al Turismo, Sport, Commercio e Trasporti della Regione Autonoma Valle d’Aosta

Buongiorno a tutti. Grazie dell’invito.Porgo i saluti miei e del governo regionale.Sono qui per esprimere tutto l’apprezzamento per l’attività che viene svolta con

grande attenzione da parte della Fondazione Courmayeur, così come dall’Ordine degli Architetti.

Gli argomenti che oggi analizzerete sono argomenti che in modo importante coin-volgono anche l’Assessorato che ho l’onore di presiedere. Infatti, mentre sentivo le introduzioni degli amici che mi hanno preceduto, mi venivano in mente alcune considerazioni. Ovviamente voi parlate del bello, parlate di programmazione. Dob-biamo tenere conto che questi sono concetti molto complessi e anche decisamente mutevoli, perché trattiamo di sensibilità e perché sappiamo che non c’è un bello assoluto. Il bello cambia nel tempo, ma soprattutto cambiano le esigenze.

L’anno scorso o due anni fa ero a Capri, dove c’è una bellissima strada che por-ta al mare, la via Krupp, con una serie di tornanti e di muraglioni, un’opera molto

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importante. In quell’occasione io mi ponevo proprio questa domanda: oggi ce la lascerebbero fare? Oggi noi andiamo lì e diciamo “guarda che capolavoro”. Ma prova a progettarla oggi, con tutta una serie di vincoli, con il solito “Comitato del no” che esiste sempre. Adesso io non voglio essere troppo provocatore, ma l’anno scorso noi abbiamo festeggiato i cinquant’anni della caduta del diaframma del Tra-foro del Monte Bianco e lì si sono esaltati i tempi di progettazione e realizzazione, in momenti in cui non c’erano sicuramente gli strumenti di oggi. Già solo per fare i rilievi erano state assoldate delle guide e si erano seguiti dei percorsi in alta quota. Oggi noi saremmo nelle condizioni di farlo, quel tunnel, negli stessi tempi? Queste sono domande che noi ci poniamo. Cioè, oggi noi ci troviamo ad affrontare (ovviamente parlo da politico) delle polemiche, dei ragionamenti che hanno una base scientifica, che hanno visto a monte degli approfondimenti? O si tratta solo di considerazioni di pancia?

Voi parlate di mobilità. Bellissimo! Io ho spostato due fermate di autobus (poi ci sarà l’ingegner Pollano che parlerà della nostra mobilità). Le fermate di partenza e arrivo erano identiche, erano state modificate solo due fermate intermedie. Media-mente, secondo i rilievi delle salite e delle discese, salivano, a voler esagerare, dieci persone al giorno. Bene, mi hanno portato un elenco di firme di quattrocento perso-ne, dicendo che la cosa era inaccettabile. Noi, come politici, come soggetti decisori, abbiamo sul tavolo quattrocento firme, perché oggi una firma non si nega a nessuno. Ecco perché sono molto contento del fatto che si voglia passare del tempo ad appro-fondire l’argomento. Questo per dare degli elementi che siano elementi oggettivi, che non siano semplicemente umorali o politici, perché in questo momento bisogna fare una politica di antagonismo. È così per tutti gli argomenti.

Mi pare che la vostra giornata sia concentrata soprattutto sulle piccole infrastrut-ture, ma siccome c’è un altro appuntamento nel 2014, in quell’occasione ci sarà tutto il tempo per approfondire argomenti importanti che mi interessano molto. Ferrovie, aeroporti, autostrade... Argomenti di cui sicuramente vale la pena parlare. Ma mi pare che voi oggi vi concentriate più sulle infrastrutture “dolci”.

Vorrei brevemente parlavi di due percorsi che riguardano una realtà che con una certa manifestazione abbiamo esaltato, ovvero l’Alta Via n. 1 e l’Alta Via n. 2, cioè due percorsi di alta quota che con il Tor des Géants hanno avuto veramente un’esplo-sione. Questo lo dico perché l’Alta Via n. 1 e l’Alta Via n. 2 non sono una novità, sono dei percorsi che hanno visto decenni di lavoro da parte dell’Assessorato. Se fino a quattro anni fa voi andavate su Google e digitavate “Alte Vie”, trovavate le Alte Vie della Valle d’Aosta in quinta o sesta pagina. Essere in quinta o sesta pagina vuol dire non esserci, perché nessuno arriva fino a lì. Ovviamente, con il Tor des Géants in tanti momenti eravamo in prima posizione. Prima ci precedevano le Alte Vie del-la Liguria, sicuramente molto belle, ma sicuramente non al nostro livello. Quindi quell’infrastruttura che da un lato fisicamente esisteva, dal punto di vista della frui-zione aveva ancora tanto da dire.

C’è poi un progetto che stiamo costruendo, che abbiamo inserito nella nostra programmazione (e credo che anche in questo caso gli architetti possano fare tan-

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to) e che per adesso abbiamo chiamato “Bassa Via della Valle d’Aosta”. Abbiamo definito un percorso di media valle, quindi un anello di trecento chilometri che so-stanzialmente ricorda quello di alta quota, fatto per essere percorso tutto l’anno, sviluppato preferibilmente a quote basse e in zone esposte al sole, in modo tale da avere un percorso sempre fruibile. Qui abbiamo delle potenzialità incredibili perché possiamo realizzare la Bassa Via enogastronomica che attraversa aziende agricole, vigneti, colture; possiamo realizzare la Bassa Via dei luoghi di interesse architetto-nico (i castelli), la Bassa Via della fede con tutta una serie di cappelle e di chiese, la Bassa Via dei paesaggi... La Bassa Via in autunno è totalmente diversa dalla Bassa Via in primavera. Anche qui, abbiamo potenzialità incredibili, sia dal punto di vista sportivo per coloro che vogliono macinare chilometri, sia per coloro che hanno un interesse di tipo artistico o culturale. La Bassa Via è un’infrastruttura che già esiste, attraverso una rete di strade poderali, di sentieri... La Bassa Via si sviluppa meglio nella zona dell’Adret, anche perché nell’Envers, al di là di alcune zone in alta Valle, ci sono pochi sentieri di collegamento tra una valle e l’altra, e abbiamo delle difficol-tà. Si tratta però di un’iniziativa straordinaria, considerando le infrastrutture su cui oggi è possibile lavorare.

Noi abbiamo già della documentazione importante e l’abbiamo inviata a tutti i Comuni, in modo tale che prendano conoscenza di quella che è la nostra ipotesi. Dall’anello che noi abbiamo definito possono nascere appendici, possono nascere varianti che andranno a implementare il catalogo. Questa potrà essere una grande occasione per noi, ma potrà essere una grande occasione anche per voi che siete i soggetti che possono darci una grande mano a costruire un prodotto che può favorire lo sviluppo della nostra regione.

Buon lavoro.

Camilla Beria di Argentine

Grazie all’assessore Marguerettaz, che ci ha dato delle notizie interessanti, alme-no per noi che amiamo la Valle d’Aosta. Devo dire che il Tor des Géants ormai ha la capacità di coprire tutto il mondo, perché su tutti i giornali del mondo se ne parla. Quindi,... complimenti!

Adesso chiamerei al tavolo l’architetto Chiorino, l’ingegner Pollano e l’ingegner Fiou per le relazioni introduttive.

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RELAZIONI INTRODUTTIVE

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Introduce e moderaFrancesca Chiorino architetto; Casabella

Un breve cenno a Vivere le Alpi, di cui già conoscete l’impegno triennale e la scansione cronologica. Ora che gli Atti del precedente convegno sono stati pubbli-cati, Marco Mulazzani e io esprimiamo la nostra soddisfazione per gli interventi dell’anno passato, architetti carismatici e progetti di qualità hanno caratterizzato gli incontri che auspichiamo possano avere dato un contributo al mondo della professio-ne. Per Architettura e Agricoltura erano presenti Marco Contini, Andreas Frauscher, Laurent Saurer, Markus Scherer, Werner Tscholl, i quali hanno illustrato progetti a scale diverse, che hanno saputo dialogare con il territorio, instaurando un rapporto con l’ambiente e dando un contributo all’architettura per il lavoro dell’uomo. In effetti, poiché l’anno passato il fulcro era proprio l’architettura a servizio dell’agri-coltura e dell’allevamento, i progetti presentati dovevano dare risposte pertinenti in un ambito in cui è poco appropriato eccedere con la decorazione e con i materiali, è vietato l’orpello e in qualche modo si cerca di fare economia a tutti i livelli. Auspi-chiamo che sia rimasta traccia del contributo che questi architetti hanno portato da diverse regioni, in ambiti perlopiù alpini, così che esista una base condivisa da cui partire per i ragionamenti che faremo oggi e l’anno venturo.

Non vorrei dilungarmi, però, in quanto si è intrapresa con l’Assessore Aurelio Marguerettaz una via valdostana, un approfondimento locale su quello che qui sta accadendo e di cui siamo curiosi di conoscere i risvolti. Darei quindi subito la paro-la ad Antonio Pollano del Dipartimento Trasporti dell’Assessorato al Turismo, che potrà meglio introdurci a quelle che sono le esperienze nel campo specifico della mobilità in Valle d’Aosta.

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ESPERIENZE IN VALLE D’AOSTA.LA MOBIILITÀ IN VALLE D’AOSTA

Antonio PollanoDipartimento Trasporti, Assessorato al Turismo, Sport, Commercio e Trasporti della Regione Autonoma Valle d’Aosta

Buongiorno a tutti.Io oggi vi parlerò della mobilità in Valle d’Aosta con un occhio di riguardo anche

per quanto riguarda le infrastrutture, che sono un anello fondamentale per quando ci si deve spostare utilizzando un mezzo proprio o mezzi pubblici, o comunque quando si deve cambiare la propria posizione.

Accennerò brevemente al contesto in cui ci muoviamo e a come è organizzata la Valle d’Aosta, poi punterò agli aspetti peculiari, a volte anche critici, ahinoi, della nostra realtà per quanto riguarda i vari settori dei trasporti.

Non mi dilungo in quanto la maggior parte di noi conosce la Valle d’Aosta. La Valle d’Aosta è una regione di montagna con un’orografia difficile e problemi nella stagione invernale per via delle condizioni climatiche, che per spostarsi non sono ottimali. Neve, gelo e a volte anche pioggia negli anni passati hanno provocato danni anche infrastrutturali importanti.

Alcuni punti vanno ricordati, quando si parla del nostro territorio. Cioè, abbiamo una vallata centrale dalla quale si diparte una serie di valli laterali, per cui il sistema non è complicatissimo dal punto di vista trasportistico, rispetto a una regione come può essere il Piemonte dove c’è una rete di collegamenti che si intersecano e si distri-buiscono sul territorio; anche noi, però, abbiamo delle caratteristiche che complica-no un po’ il sistema della mobilità. Abbiamo un centro principale, Aosta, che con la Plaine d’Aoste vede la concentrazione di un numero rilevante di abitanti, ma anche di punti di interesse come istituzioni, scuole, servizi terziari, che quindi attirano, so-prattutto in certe fasce orarie, flussi importanti in entrata in direzione di Aosta, flussi che poi invertono direzione in tempi successivi, ma con un andamento non costan-te, come vedremo dopo, il che genera dei picchi rilevanti e quindi dei carichi sulla rete, soprattutto viaria, ma anche del trasporto pubblico, in determinate fasce orarie, mentre in altre fasce orarie il sistema, che è dimensionato per i picchi, risulta troppo ampiamente dimensionato. Purtroppo, però, la mobilità delle persone ha andamenti legati essenzialmente al lavoro e alla scuola. A questa realtà si aggiunge la mobilità turistica, in una regione come la nostra dove il turismo è la ricchezza principale con un numero di addetti considerevole. A questi flussi di mobilità si sommano anche i flussi turistici, che anch’essi hanno delle caratteristiche particolari: si concentrano in determinati giorni della settimana e in determinati periodi dell’anno; inoltre, uno sciatore con al seguito un’attrezzatura pesante e ingombrante, per esempio, raramen-te è disposto a prendere un mezzo pubblico, preferisce utilizzare il mezzo privato, che è più comodo e gli consente più flessibilità negli spostamenti, ma fino a un certo

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limite, perché poi, quando si arriva all’intasamento della rete viaria, il mezzo privato paga il conto della comodità di cui si vorrebbe sempre godere.

Sul fondovalle, poi, sono distribuiti altri poli minori rispetto ad Aosta e anche questi, in scala nettamente ridotta, rappresentano dei poli di attrazione per le attività lavorative e di studio, mentre i poli turistici si trovano generalmente sulla testata delle vallate, quindi in alta montagna.

Come vi dicevo, l’andamento dei flussi di mobilità nell’arco della giornata è di questo tipo: c’è un picco molto forte al mattino, mentre i flussi inversi si distribuisco-no in altri due picchi, che quindi, anche dal punto di vista infrastrutturale, caricano il sistema in maniera non omogenea e non ottimale, per cui bisogna fare le strade in modo che riescano ad assorbire i picchi di traffico (questo idealmente), bisogna fare i parcheggi, che però poi vengono sfruttati non uniformemente. Tutto ciò porta dal punto di vista dei costi, ma anche dell’impegno del territorio e del suo sfruttamento, a un assetto probabilmente non ottimale, però è quello che origina dalla vita di tutti i giorni delle persone.

Prima accennavo al settore turistico, che è importante per la Valle d’Aosta e che ha delle caratteristiche specifiche. Sovente si fa il confronto con il Nord-Est d’Italia, con l’Alto Adige, che ha caratteristiche molto simili alle nostre, simili ma anche diverse. Da noi sono presenti tre grandi poli urbani, tipicamente i capoluoghi di regione del Nord-Ovest, cioè Milano, Torino e Genova, che innescano un pendola-rismo turistico soprattutto in inverno, il che non agevola la fruizione del territorio perché ci si ritrova ad avere le infrastrutture impegnate al massimo nei weekend. Parliamo delle infrastrutture per la pratica dello sci, essenzialmente, ma anche delle infrastrutture che vivono dello sci, quindi delle strutture ricettive, alberghi e seconde case, della ristorazione, di tutte le attività commerciali collegate anche alle attività dei professionisti degli sport sulla neve. Abbiamo i weekend con flussi importanti di turisti, mentre nel resto della settimana i numeri calano di molto. Questa è una ca-ratteristica che ci distingue dal Nord-Est italiano e che sicuramente non ci favorisce, perché abbiamo dei sistemi che devono lavorare al massimo in certi periodi e che poi sono sottoutilizzati, però è stato necessario pensarli e realizzarli per soddisfare le punte massime di domanda. Questo deriva anche dal fatto che la tradizione in Valle d’Aosta è di un turismo di un certo tipo, nel senso che nei decenni passati si è puntato alla realizzazione più di seconde case che non di strutture di tipo alberghiero, quindi abbiamo tanti “letti freddi” poco utilizzati, cioè tanti letti a disposizione, ma una percentuale di riempimento non elevata, perché abbiamo un numero sproporzionato di seconde case rispetto alle strutture alberghiere. Questo aspetto ci distingue dal Nord-Est italiano, dove si è cercato di sbilanciare il rapporto a favore dell’ospitalità alberghiera e quindi dell’utilizzo di un turismo distribuito su un periodo un po’ più ampio, cioè si è puntato di più sulla settimana bianca piuttosto che su un turismo mordi e fuggi, soprattutto nei weekend. Quindi si caratterizza in maniera diversa anche il nostro territorio, che vede appunto una presenza importante di seconde case, che però non vengono utilizzate appieno, mentre il numero di posti letto alberghieri probabilmente oggi è insufficiente per convertire il sistema a un utilizzo fondato più

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sulle settimane bianche che non sui weekend, per cui si innescano i problemi di cui vi dicevo prima. Basti pensare che la sola Zermatt ha un numero di posti letto alber-ghieri che si avvicina al totale di quelli presenti in tutta la Valle d’Aosta. Questo lo si nota anche se si va a sciare durante la settimana in un stazione sciistica valdostana: le persone in pista sono poche, mentre, se si va a sciare durante la settimana a Zermatt, si nota una netta differenza, cioè ci sono molte più persone in pista. Questo consente uno sfruttamento migliore delle infrastrutture in generale.

Dietro tutto ciò c’è anche un problema di tipo culturale, perché l’italiano è inna-morato della propria macchina e non ama molto sfruttare i sistemi di trasporto pub-blico, che sicuramente sono meno comodi, però sappiamo che alla fine, da un punto di vista di sistema, se si esagera nella direzione del mezzo di trasporto privato, in certe realtà si arriva al collasso. La Tangenziale di Milano è un esempio, cioè ormai non ci sono più finestre libere in cui si possa sperare che non si creino code, perché i flussi di traffico sono importantissimi e questo ha conseguenze notevoli in termini di inquinamento, incidenti, perdite di tempo per stare in coda o per cercare un parcheg-gio. Si sono quindi messe in atto delle iniziative, oltre che per cercare di cambiare la mentalità e gli usi delle persone, per attuare delle politiche di disincentivazione, per esempio attraverso le zone blu, cioè nel centro delle città si cerca di scoraggiare la sosta delle auto con il parcheggio a pagamento, a volte applicando delle tariffe im-portanti (anche due euro all’ora, nelle grandi città). A questo punto, però, si verifica un’altra situazione: le persone che hanno la necessità di effettuare una sosta lunga, per esempio per tutto l’arco della giornata, tendono a parcheggiare nelle aree appena al di fuori delle zone blu, andando a saturare non più le aree centrali ma quelle che formano la corona attorno alle zone blu. Un esempio è il parcheggio intorno alla telecabina Aosta/Pila: visto che la zona blu in Aosta si sta sempre di più estendendo, molte persone che hanno necessità di parcheggiare tutto il giorno lasciano lì l’auto, tant’è che da due anni la società di gestione dell’impianto a fune è costretta, nella fascia del primo mattino, a interdire il parcheggio a chi non utilizza la telecabina per andare a sciare a Pila, per evitare che il parcheggio venga saturato da chi viene ad Aosta a lavorare. Quindi si innescano dei fenomeni un po’ strani.

Questa estate, a causa dell’indisponibilità del piazzale all’imbocco della strada per la Val Ferret per il rischio di una frana incombente, è stato deciso di non chiudere la strada, essendo venuto meno lo spazio dove lasciare l’auto a disposizione dei tu-risti che devono prendere la navetta. Sono poi state fatte delle interviste alle persone e si è creato un fronte diviso più o meno a metà: una metà era contentissima di poter utilizzare la propria macchina e parcheggiarla più o meno dove capitava lungo la val-lata perché lo riteneva più comodo e non le importava più di tanto intasare o quasi la vallata, una metà era assolutamente contraria a questa apertura forzata, tra virgolette. Quindi anche dal punto di vista culturale siamo ancora lontani da un utilizzo il più sostenibile possibile dei sistemi di trasporto.

Passo adesso ad analizzare brevemente i tre grandi settori della mobilità per eviden-ziare alcune specificità e alcune criticità che da noi si rilevano in maniera particolare: il settore del trasporto su gomma, quello degli impianti a fune e quello delle ferrovie.

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Per quanto riguarda il trasporto su gomma, l’Assessore prima ha parlato di un episodio, che però non è isolato, che mette in evidenza le caratteristiche del nostro sistema di trasporti. Noi abbiamo una rete stradale molto capillare, ben gestita, con un sistema di trasporto su gomma che è sicuramente efficace per raggiungere presso-ché tutte le località, avendo una certa flessibilità di adattamento alle necessità. Infatti, negli ultimi anni abbiamo rilevato, soprattutto da quando sono scomparsi i buoni benzina, un aumento rilevante dell’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico, che si è ancora più accentuato con l’avvento della crisi, perché il mezzo privato è comunque più costoso da gestire, però, per quanto riguarda la rete viaria, noi che gestiamo il trasporto pubblico ci rendiamo conto che sovente manca una programmazione urba-nistica dei nuovi insediamenti, perché il sistema di trasporto pubblico arriva sempre per ultimo. Dopo aver realizzato un nuovo polo di attrazione, una nuova scuola, un nuovo centro uffici, ad esempio una nuova unità operativa della Usl, riceviamo sem-pre la richiesta di far arrivare i trasporti pubblici fino a quel nuovo insediamento. Il più delle volte ci riusciamo, ma a volte non ci riusciamo, perché in questo modo i costi per il trasporto pubblico crescono e perché magari non si è pensato, quando si è deciso di posizionare un certo insediamento in una certa zona, a come alla fine la gente ci arriva. Col mezzo privato... Ci mancherebbe! Le strade ci sono sempre. L’u-tilizzo del mezzo pubblico, invece, a volte non è considerato. Soprattutto quando si progetta o si pianifica una variante stradale, si dice “okay, il mezzo pubblico percorre questa nuova strada”, senza pensare che il vecchio tracciato che viene abbandonato serviva tutta una serie di utenti. Questo è un tormentone che ricorre. Noi ci sentiamo sempre un po’ costretti a rincorrere le esigenze di altri, che danno per scontato che alla fine il sistema del trasporto pubblico si adegua, ma questo, soprattutto di questi tempi in cui le risorse si contraggono, diventa sempre meno possibile; anche modi-ficare gli orari diventa un problema sempre più difficilmente gestibile. Un esempio per tutti: anni fa, con l’introduzione dell’autonomia scolastica, i vari istituti scolastici potevano decidere gli orari delle lezioni in piena autonomia, per cui poi ci trovava-mo magari in certi comuni con orari di uscita ed entrata degli studenti o di rientri pomeridiani assolutamente diversi fra loro, ma per ogni piccolo gruppo di studenti di ciascun istituto si sperava di poter avere in un lasso ragionevole di tempo un mezzo pubblico dedicato, il che però moltiplicava a dismisura i servizi. Un po’ alla volta si è riusciti a canalizzare e a uniformare gli orari in modo da avere un servizio unico che copra le esigenze di tanti studenti. Si tratta di un mondo un po’ particolare che ha le proprie regole. Sovente ci viene chiesto: ma come mai alle dieci del mattino girano tutti questi autobus vuoti? È vero, alle dieci del mattino la domanda di mobi-lità scende molto, il sistema però ha le proprie regole, che sono difficili da scardinare o modificare. Pensiamo al contratto collettivo nazionale di lavoro del settore: non si può chiedere a un autista di lavorare dalle 7 alle 9 del mattino, liberarlo fino alle 12, farlo lavorare dalle 12 alle 14, liberarlo nella fascia di metà pomeriggio e dalle 16 alle 19, nel momento di punta, richiamarlo in servizio. Questo non è consentito. Il contratto ha certe regole, per cui si fanno i turni di guida, che devono essere con-tinui, però questo comporta probabilmente dei sovradimensionamenti nei servizi,

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perché alle 10 del mattino sono pochissime le persone che si spostano, forse di più in ambito urbano, ma nelle vallate laterali chi deve scendere per andare al lavoro o a scuola sicuramente l’ha già fatto e a metà giornata è difficile che le persone debbano andare in qualche posto. Queste sono delle rigidità che penalizzano il sistema, non ne ottimizzano sicuramente il rendimento, però noi dobbiamo rispondere, quando giu-stamente le persone ci fanno delle osservazioni ovvie, tipo: guardate che sull’autobus che viene nella mia vallata alle dieci e mezza del mattino c’è forse una persona, un pensionato e nessun altro. Non si potrebbe ottimizzare il servizio? Certo. Ma per fare ciò bisogna intervenire anche su molti altri meccanismi che a volte sono al di fuori della nostra portata.

Un settore che dal punto di vista delle infrastrutture ha complessità ancora su-periori è il settore del trasporto ferroviario. Il sistema ferroviario valdostano è mol-to semplice: c’è un’unica linea che percorre la valle centrale per quasi tutta la sua lunghezza; però è un sistema molto vecchio, ha più di un secolo. Anche il materiale rotabile è datato. Le politiche dei trasporti in Italia, nei decenni passati, non hanno privilegiato il sistema di trasporto ferroviario. Basti pensare a come si viaggia sulle ferrovie in Svizzera e a come si trasportano le merci. Noi siamo quasi agli anti-podi rispetto alle scelte che si potevano fare nei decenni passati dal punto di vista strategico per infrastrutturare il territorio e spostare persone e merci. Noi quindi ci ritroviamo con un sistema poco performante, a binario semplice e che si guasta so-vente. Basta anche solo che una porta di un convoglio non si chiuda e il convoglio non può entrare in servizio per ovvie ragioni di sicurezza. Anche l’infrastruttura è molto vecchia ed è sovente fonte di guasti; per esempio, un passaggio a livello che non si chiude obbliga il treno a compiere un attraversamento a velocità ridottissima, a cinque chilometri all’ora, ma questo crea una perturbazione in tutto il sistema di trasporti ferroviario, perché c’è un binario unico e i treni si possono incrociare solo in determinate stazioni. Quindi, abbiamo delle criticità notevoli. Poi andiamo sempre a rimorchio rispetto a una dorsale ben più importante, la Torino-Milano, sulla quale noi ci innestiamo a Chivasso. Quindi, il treno che va da Aosta a Torino, se è in ritar-do e perde la sua finestra temporale per inserirsi nel flusso tra Torino e Milano, deve aspettare che ci sia un’altra finestra temporale per inserirsi sulla linea. In teoria, il sistema è stato pensato correttamente, finché funziona tutto bene, ma raramente va sempre tutto perfettamente bene, c’è sempre qualche piccolo ritardo, a volte anche qualche grande ritardo, addirittura delle soppressioni, se un treno ha un guasto grave. Poi va detto che la nostra ferrovia dipende dalle Società del Gruppo Ferrovie dello Stato, l’infrastruttura da Rete Ferroviaria Italiana, i treni da Trenitalia. I centri di de-cisione non sono ad Aosta, sono a Torino e Roma. È quindi un interlocutore difficile, quello col quale non sempre, anzi, raramente si riesce ad ottenere ciò che si vuole, perché ci sono tanti condizionamenti che derivano dall’esterno, in un settore che ha una regolamentazione molto articolata che rende tutto molto rigido.

L’infrastruttura è pesante e per intervenire su di essa servono risorse finanziarie molto importanti, oltre a tempi estremamente lunghi per ottenere dei risultati tangi-bili. La Regione negli anni passati ha stipulato degli accordi di programma quadro

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per cercare di intervenire sulla rete, eliminando dei passaggi a livello e risistemando delle stazioni. Certo è che gli interventi che potrebbero cambiare il volto dell’infra-struttura richiedono risorse dell’ordine delle centinaia di milioni di euro.

Un caso che non dovrebbe fare scuola perché si è rivelato disastroso è quello della Regione, che ha cercato di ridurre di una decina di minuti i tempi di percorrenza sulla tratta Aosta/Torino. Negli anni si era portata avanti una realizzazione infrastrutturale (che aveva anche ottenuto dei finanziamenti) per bypassare la stazione di Chivasso (poco meno di due chilometri di ferrovia in aperta campagna), in modo da evitare l’ingresso di alcuni treni diretti nella stazione di Chivasso. L’idea era partita nel 2005 e la progettazione era stata avviata un paio di anni dopo. Siamo nel 2013 e nulla è stato fatto, perché l’opposizione della comunità di Chivasso e del Canavese, temendo di vedersi sottrarre alcuni treni in transito nella propria stazione, ha impedito la rea-lizzazione di alcunché. Questo a dimostrazione del fatto che intervenire su infrastrut-ture che hanno un pesante impatto sul territorio diventa sempre più difficile, perché nessuno vuole che certe opere vengano realizzate a casa propria.

In queste ultime settimane c’è stato un dibattito abbastanza forte sull’elettrifica-zione della tratta Ivrea-Aosta e sulla soluzione dei treni bimodali. Viste le complessi-tà, i tempi, le incertezze e l’esplosione dei costi che una simile operazione comporta, alla fine si è scelto di dotarsi di treni di un certo tipo, in modo da non infilarsi in un tunnel, oscuro e tenebroso, di cui non si conosce assolutamente la lunghezza. Tanto per darvi due dati, per la “lunetta” di Chivasso, quotata nel progetto iniziale 12 mi-lioni, siamo arrivati dopo otto anni di incertezze a un costo presunto che sfiora i 40 milioni, ma non arriveremo mai alla sua realizzazione. Le infrastrutture nel sistema dei trasporti, quindi, quando sono pesantemente impattanti, diventano sempre più un anello debole, a parte il problema di individuare i finanziamenti, cosa di questi tempi sempre più difficile, soprattutto perché parliamo di importi estremamente pesanti per le finanze di una regione piccola come la Valle d’Aosta, ma anche per il bilancio del-lo Stato, che convoglia le proprie risorse laddove ci sono ritorni maggiori in termini di concentrazione della popolazione.

Per quanto riguarda gli impianti a fune, si sta cercando di ridurne il numero e di smantellare quelli obsoleti per ottimizzare la gestione degli stessi, anche per avere un minore impatto sul territorio e per ridurre i costi di gestione.

Un caso che sicuramente gli architetti valdostani conosceranno è quello delle Nuove Funivie del Monte Bianco, un’infrastruttura importante, che ha un target dal punto di vista turistico internazionale, che quindi si vuole proporre come prodotto star in grado di attrarre flussi turistici internazionali di ampio respiro. Così come per Zermatt con la cremagliera che porta sul Gornergrat, dove ci sono scenari che possono costituire un elemento di appeal per il turista asiatico, per esempio, il quale, nella sua vacanza di un paio di settimane, può ritenere che valga la pena di andare in Valle d’Aosta e di usufruire di una meraviglia tecnologica che è stata inserita nel paesaggio in maniera sicuramente molto positiva.

Accenno rapidamente all’aeroporto, che è un’infrastruttura puntuale più concen-trata e che quindi impatta meno sul territorio. L’infrastruttura è quasi ultimata. Se

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non fossimo incappati in uno dei tanti fallimenti di imprese appaltatrici che sempre più si verificano in questo periodo di crisi, saremmo già alla conclusione dell’opera. L’aeroporto è stato pensato per attrarre flussi turistici di medio raggio, perché ormai il numero dei turisti italiani che si recano in Valle d’Aosta sta diminuendo (vero-similmente perché gli italiani risentono in maniera importante della crisi), mentre stanno crescendo le presenze straniere, che quindi aiutano a mantenere il bilancio turistico perlomeno in pareggio. Certo è che i turisti che bisogna andare a intercettare arrivano da aree geografiche più lontane e quindi bisogna offrire loro dei sistemi di trasporto il più possibile rapidi e confortevoli, che consentano loro di ottimizzare il tempo delle vacanze.

Forse mi sono dilungato un po’ troppo. Ringrazio comunque per l’attenzione.

Francesca Chiorino

Cedo ora la parola a Marco Fiou, che ci presenta la passerella sull’orrido di Pré-Saint-Didier.

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ESPERIENZE IN VALLE D’AOSTALA PASSERELLA SULL’ORRIDO DI PRÉ-SAINT-DIDIER*

Marco Fiouingegnere, Studio tecnico Ceriani-Fiou

Il Comune di Pré-Saint-Didier, interessato ad una valorizzazione e fruizione tu-ristica dell’orrido, ha incaricato il sottoscritto di realizzare un percorso panoramico.

Per meglio capire l’opera realizzata ripercorriamo insieme gli obiettivi che ci si è dati per la realizzazione dell’opera, e lo svolgimento dei lavori.

Non potendo il Comune di Pré-Saint-Didier riaprire l’accesso all’orrido dal basso, in quanto il livello di pericolo di caduta massi e di sicurezza dei visitatori all’interno dell’orrido non era più accettabile, si era ipotizzato di percorrere il pendio a lato dell’orrido, tra la strada statale e l’orrido stesso, in modo da raggiungere dei punti di visibilità interessanti e piacevoli dell’orrido. Si era studiato quindi un percorso che, partendo dalla zona termale, seguisse il pendio e lungo la salita raggiungesse il ciglio dell’orrido con scorci differenti su tre punti panoramici, in modo da poter dare una visione dinamica dall’alto della zona.

Successivamente a questa prima ipotesi di percorso ulteriori problematiche di sicurezza e di stabilità geologica del sito hanno forzato un nuovo approccio dell’in-tervento, infatti questa soluzione accompagnava i visitatori lungo il sentiero rag-giungendo il ciglio dell’orrido in alcuni punti panoramici, dove si accentuavano i problemi geologici di stabilità e di caduta, quindi bisognava allungare notevolmente le zone recintate e potenziare eccessivamente i consolidamenti.

Si sono quindi analizzati di nuovo percorsi più sicuri con l’obbiettivo di riuscire ad accedere ad interessanti panoramiche dell’orrido cercando di contenere i possibili consolidamenti (con successivi costi di manutenzione) e le zone con rischio di cadu-ta (con eccessiva necessita di recinzioni), l’ottimizzazione dell’intervento ha modi-ficato in parte il percorso del sentiero che, rimanendo nel bosco lungo la salita, non si avvicini troppo alla parete verticale ed arrivando nella sommità in un unico punto panoramico, soddisfi una gradevole visibilità sia dell’abitato di Pré-Saint-Didier con lo scorcio della catena del Bianco che dell’interno dell’orrido.

L’area panoramica è stata localizzata vicino al Parco Avventura attuale, nei pressi delle carrucole per l’attraversamento sportivo dell’orrido che il Parco propone ai suoi visitatori. Da questo punto di vista si ottiene lo stesso obiettivo che si otteneva con le altre precedenti localizzazioni.

Ovviamente, per riuscire a portare a termine efficacemente e in piena sicurezza l’intervento, sono stati necessari sia ulteriori approfondimenti geologici che la revi-sione della struttura, la quale non doveva essere piccola e incollata alla parete, ma

* Immagini 1-10, pagg. 143-151.

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doveva avere un ancoraggio più arretrato ed un del percorso prolungato verso l’ester-no con una costruzione completamente artificiale.

Per avere la certezza della localizzazione, si sono eseguite verifiche della visuale calandosi con delle guide e scattando delle foto dai punti presunti di localizzazione della struttura. L’esigenza era quella di avere visibilità sia dell’orrido in tutto il suo percorso, da monte con le splendide pozze del torrente sino all’uscita con il ponte ro-mano nei pressi delle terme, che di tutto il conoide a valle dove è localizzato l’abitato di Pré-Saint-Didier con ovviamente sullo sfondo la catena del Bianco.

Con l’aiuto dei colleghi architetti Andrea Favre e François Peaquin, dell’in-gegnere Gianluca Guglielmetti e del geologo Mario Ravello, che ringrazio per la preziosa collaborazione, si è ideata una struttura efficace, efficiente ed anche pia-cevole, cercando di non appesantire troppo l’ambiente naturale. La realizzazione in acciaio doveva essere leggera, strallata in modo da essere molto trasparente e allungata verso l’orrido di soli dodici metri, quanto basta per raggiungere un punto da cui avere un’ottima visuale con una percezione aerea del luogo, pur rimanendo con i piedi della struttura in una zona sufficientemente stabile. Altrettanto impor-tante è stato anche il percorso sentieristico che, partendo da Pré-Saint-Didier per raggiungere il Parco Avventura, risale il pendio con opere rispettose dell’area bo-scata con scalinate in legno, recinzioni e consolidamenti del versante. È nata quin-di una proposta di una soluzione architettonica che l’Amministrazione Comunale ha gradito e sostenuto.

Naturalmente, tra la soluzione iniziale architettonica (immagine 1, pag. 143), l’in-gegnerizzazione e l’esecuzione dell’opera (io mi sono occupato soprattutto dell’in-gegnerizzazione ed esecuzione), ci sono sempre degli aggiustamenti importanti, in quanto alla fine le opere devono essere eseguibili con il giusto compromesso tra praticità e fantasia.

In seguito all’approccio architettonico, è stato redatto un primo dimensionamen-to della passerella in acciaio per valutarne i costi, la tipologia delle fondazioni ed i materiali da scegliere (operazioni necessarie per affrontare tutte le problematiche dell’appalto, e per garantire una certezza di costo ed esecuzione delle opere).

Si sono quindi iniziati i lavori con la realizzazione del percorso in salita con la sua messa in sicurezza che, per percorsi che vedono un certo flusso di utenza, non può derogare da un certo livello qualitativo. Sono stati necessari interventi mediamente importanti per migliorare le condizioni del pendio, che è piuttosto ripido, interventi di consolidamento roccioso, di costruzione di piccoli muretti a secco e di conteni-mento del pendio. Si sono posizionate parecchie recinzioni, la cui funzione spesso è quella di dare la percezione di zone inaccessibili all’utente. Sono state realizzate delle gradinate e si è cercato di utilizzare del materiale che si integri al meglio con il paesaggio presente (immagini 2-3, pag. 144-145).

La realizzazione della passerella panoramica ha richiesto un varco nell’area bo-scata dove sono stati effettuali rilievi approfonditi e dettagliati per posizionare cor-rettamente le fondazioni che devono sorreggere carichi importanti.

Nella realizzazione l’aspetto geologico è stato fondamentale, dove si sono avute

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parecchie “sorprese”. Si era ipotizzato di trovare una debole copertura sulla roccia in sommità, sul ciglio dell’orrido, invece proprio nella zona individuata come ottimale per la visibilità era presente una grossa bancata di materiale sciolto, che ha aumen-tato le difficoltà costruttive. Si è dovuto, infatti, approfondire gli scavi e ripulire il ciglio roccioso, prima di localizzare la fondazione vera e propria.

In seguito alla realizzazione di una prima piattaforma di sottofondazione sul ci-glio roccioso tale da avere un piano di lavoro adeguato (ci si è sempre mantenuti in condizioni con ampi margini di sicurezza) sono stati tracciati ed eseguiti 45 micropa-li da 12 metri, con diverse inclinazioni per meglio assorbire i carichi e per consolida-re il ciglio dell’ammasso roccioso destinato all’ancoraggio (immagine 4, pag. 146).

La realizzazione di dieci tiranti da circa 25m garantisce uno stabile ancoraggio agli stralli che sostengono la struttura metallica (immagine 5, pag. 147). Questi ti-ranti, che hanno una prima parte in terreno sciolto e poi si ancorano nell’ammasso roccioso per una quindicina di metri, non hanno dato particolari problemi esecutivi, se non quelli di un tracciamento molto preciso, in quanto tutta la struttura realizzata su misura richiede precisi angoli di uscita dei tiranti e posizioni che non possono scostarsi troppo dall’ambito concordato. Anche la struttura, aperta a ventaglio sul davanti, crea sulla fondazione l’incrocio di tutti i tiranti che vanno l’uno verso l’altro, per cui si è dovuto procedere con estrema cautela e precisione per far sì che un tirante non andasse a tagliare il tirante successivo. Terminata la posa dei tiranti e riverificata la loro localizzazione definitiva con estrema precisione si sono posizionate tutte le piastre di ancoraggio dei puntoni in fondazione.

A fondazione completata, il progetto è stato tutto revisionato, per adeguarsi all’ef-fettiva forma della fondazione, che ha subìto adattamenti esecutivi, infatti durante la realizzazione il tirante deve venire un po’ più in qua, il micropalo deve andare un po’ più in là, la roccia buona è un metro più avanti o più indietro. La forma effettiva con dettaglio millimetrico è stata quindi di nuovo rilevata, in quanto tutti gli elementi metallici dovevano essere su misura e non potevano essere mandati in produzione, se non dopo la verifica della fondazione stessa. Questa operazione di riadattamento, in cui c’è stata una rivalutazione della misura di ogni elemento, del carico e di tutto il resto con una seconda riprogettazione degli elementi, ha portato necessariamente ad un allungamento dei tempi di esecuzione dei lavori, dal 2012 siamo slittati al 2013, però tutto è stato fatto nell’ottica di una corretta sequenza che si doveva per forza avere durante i lavori per ridurre gli imprevisti. Sono stati necessari anche i dimensionamenti nel dettaglio di tutti i nodi e stralli con misure precise dei capicorda eseguiti in fabbrica e testati successivamente per i carichi richiesti.

Guardando un’immagine della sezione tipo (immagine 6, pag. 148) abbiamo un elemento verticale strallato con uno orizzontale che sorregge il camminamento di circa un metro e ottanta. La struttura è composta da un camminamento che permette ai visitatori di godere del paesaggio camminando con continuità sul percorso sen-tieristico, una piattaforma completamente calpestabile avrebbe portato ad avere una struttura estremamente pesante, con la soluzione realizzata invece siamo riusciti a mantenere la struttura piuttosto esile e trasparente.

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Le operazioni di posa della struttura sono iniziate con un importante premontag-gio al di fuori della zona acclive di difficile accesso (immagine 7, pag. 149), dove la struttura è stata già preassemblata in porzioni notevoli, in quanto siamo riusciti a realizzare un buon accesso alla zona di esecuzione della fondazione che ci ha per-messo di avvicinarci con dei mezzi pesanti trasportando anche dei carichi notevoli. L’esecutore è, infatti, riuscito ad utilizzare l’Autogru sino al ciglio dell’area di posa permettendo un montaggio sia in piena sicurezza che con notevole rapidità. Il mon-taggio aereo è durato solo alcuni giorni.

Vediamo nelle immagini (immagini 8-9, pag. 150) alcune fasi aree del montag-gio, che non hanno dato particolari problemi grazie agli approfondimenti in fase di progettazione e di riverifica delle misure che pur allungando i tempi di esecuzione garantiscono l’eliminazione di antipatiche e rischiose modifiche ed aggiustamenti in fase di posa. Al termine del montaggio della struttura sono stati completati i collega-menti strallo-tirante con gli allineamenti e la tesatura definitiva a circa 30-35 tonn. per i cinque tiranti superiori e 15 tonn. per i tiranti inferiori, l’operazione viene ter-minata, essendo questi tiranti di tipo permanente, con la posa della protezione delle fruste di tesatura (nel tempo è possibile intervenire nella verifica ed eventuale rite-satura). La passerella attualmente non è ancora stata completata, però siamo ormai alle fasi finali di collaudo (immagine 10, pag. 151). La struttura è stata sottoposta a dei cicli di carico percorrendo il camminamento con due carriole a motore da circa due tonnellate e mezza l’una, sono state individuate varie condizioni di carico e sono state posizionate 35 mire di rilievo, per ogni condizione di carico è stato eseguito un rilievo, in modo tale da avere delle misurazioni di tutta la deformazione della strut-tura ed eventualmente ritoccare le tesature degli stralli. In realtà, la preregolazione già fatta è stata più che sufficiente e soddisfacente, abbiamo, infatti, monitorato dei movimenti di circa un centimetro e mezzo con degli assestamenti di pochi millime-tri, quindi attualmente non saranno necessarie ulteriori regolazioni.

Il percorso sentieristico è di livello medio-basso proprio per permetterne una fru-izione di una tipologia di visitatori molto ampia e in varie condizioni stagionali, in effetti, si parte dalle Terme e si raggiunge il Parco Avventura con una passeggiata di 35 minuti per un dislivello di circa 200m. Probabilmente il suo utilizzo sarà notevole, se si pensa che già solo il Parco Avventura quest’estate ha visto dai cinquemila ai seimila ospiti utilizzare i suoi percorsi con le carrucole ed ipotizzando che per ogni utente che utilizza le carrucole ci siano uno od addirittura due accompagnatori, i visitatori che in un anno potrebbero utilizzare la passerella potrebbero attestarsi dai 10.000 ai 15.000.

L’opera è nata sulla base di un’idea di leggerezza, essenzialità ed estrema fun-zionalità. Io ho un approccio piuttosto ingegneristico alla progettazione e penso che, se le opere proposte sono funzionali e semplici, se non sono troppo appesantite da finiture, sono anche nella maggior parte dei casi ben integrate nel paesaggio. Ini-zialmente si era ipotizzata una struttura con l’utilizzo di parecchi materiali (legno, acciaio, vetro, ecc.), ma in seguito ad approfondimenti si è optato per un intervento dove la vera protagonista non fosse l’opera eseguita ma il paesaggio che circonda-

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va il visitatore. La passeggiata sulla passerella deve generare una sensazione aerea di immersione nel paesaggio circostante senza catturare e dirottare l’attenzione del visitatore su dettagli particolari del manufatto. Si è optato per una struttura com-pletamente in acciaio zincato che non richiede alcun tipo di manutenzione da parte dell’Amministrazione, se non saltuaria, nel senso che tra cinquant’anni la passerella sarà ancora come la vediamo ora. Obiettivo importante, questo, non solo per chi la dovrà gestire ma anche per il decoro del territorio, considerando inoltre anche i lun-ghi periodi di chiusura nella stagione invernale. È quindi necessario per le strutture esterne utilizzare materiali che non si degradino troppo in fretta nel tempo.

Le valutazioni economiche sono un altro parametro fondamentale che influenza in maniera determinante le scelte progettuali ed esecutive, è stato fatto nel caso in oggetto uno sforzo per cercare di contenere i costi dell’intervento, che ha portato a 228.000 euro il costo per l’esecuzione del percorso sentieristico e a 433.000 euro il costo per l’esecuzione della passerella.

Francesca Chiorino

Ringrazio Antonio Pollano e Marco Fiou per questo spaccato valdostano, che ha toccato anche scale diverse e quindi è risultato particolarmente esaustivo.

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Prima Sessione

ESPERIENZE, TESTIMONIANZE E PROGETTI

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Francesca Chiorino

Entriamo ora nel vivo del Convegno con la prima sessione: Esperienze, testi-monianze e progetti. Vi raccontiamo brevemente quali sono le scelte alla base dei progetti extra-valdostani che abbiamo selezionato. Innanzitutto vi è una considera-zione di tipo geografico, nella convinzione, come già è stato l’anno passato, che sia utile portare delle esperienze non necessariamente vicine, anzi, in parte lontane. Quest’anno particolare risalto è dato alle province autonome con due interventi, uno riguardante la provincia autonoma di Bolzano e uno riguardante la provincia autonoma di Trento, oltre a un progetto italiano e a un progetto austriaco. In se-condo piano si pone la questione, comunque importante, della scala. È stata una nostra precisa volontà, quella di indagare dei progetti a scale diverse che possano dare suggestioni di differente tipo, pur avendo ben presente il fatto che in Valle d’Aosta affrontare questioni legate a grandi hub infrastrutturali, piuttosto che pro-getti aeroportuali o di trasporto su acqua, non fosse pertinente. Pertanto, si è scelto innanzitutto di indagare puntuali interventi di valorizzazione del territorio quale quello che abbiamo appena visto o quello che vedremo più tardi nel Parco del Gi-gante, piuttosto che l’intervento realizzato in Austria relativo al trasporto su fune, tema in effetti attualissimo per la Valle d’Aosta e in generale per i territori alpini in cui le funivie devono risolvere questioni tecnologico-costruttive e al tempo stesso rapportarsi al paesaggio.

Inoltre, come piattaforma di partenza, analizzeremo un intervento di sviluppo integrato su scala molto ampia, che ci permetterà di fare il punto su una situazione complessa che riguarda non solo le infrastrutture ma anche interventi puntuali sul territorio in luoghi di estremo fascino ambientale quale è, per esempio, la Val di Fiemme. In ultima battuta e per ricollegarci brevemente a quello che è successo ieri sera, analizzeremo un intervento riguardante un’infrastruttura per il trasporto su gomma, cioè la Circonvallazione di Bressanone.

Approfitto per fare un brevissimo inciso sulla presentazione avvenuta ieri del vo-lume curato da Alberto Ferlenga: “L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi”. Ringraziamo ancora Alberto Ferlenga e Giacomo Polin, i quali ci hanno dato uno spaccato utile e interessantissimo della situazione generale delle infrastrutture nel mondo globale, delle tendenze, di quanto sta accadendo oggi e di quanto è accaduto nella storia, con una riflessione che dà una lettura molto positiva, molto entusiasmante del nostro Paese qual era negli anni ‘50, durante la costruzione dell’Autostrada del Sole. L’analisi di interventi di grande respiro di architetti e in-gegneri italiani che hanno dato un contributo importante al nostro Paese negli anni ‘50 e ‘60 ha permesso di avviare una riflessione su quali possano essere oggi gli interventi che un architetto o un ingegnere può attuare nel nostro Paese per dare un valore aggiunto alla progettazione delle infrastrutture.

Noi pensiamo che il fil rouge che tiene unite le varie esperienze, come già è av-venuto l’anno passato, sia sicuramente il territorio, il paesaggio, la capacità degli architetti di dialogare, di rendersi pienamente conto delle peculiarità non soltanto

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storiche, non soltanto culturali, ma anche in molti casi naturalistiche dell’ambiente in cui realizzano i loro interventi.

Chiamerei quindi Loredana Ponticelli e Cesare Micheletti dello studio “A²_stu-dio_projects for and researches into the Alpine space”, uno studio che si occupa, a partire dagli anni ‘90 a Trento, in modo molto puntuale non soltanto di progettazione architettonica, ma anche dello sviluppo sostenibile delle regioni montane. La loro attività professionale si accompagna dunque a un’approfondita attività di ricerca, che senz’altro fa loro onore.

Siamo curiosi di entrare nel merito del vostro progetto per la Val di Fiemme.

ITALIA, PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, VAL DI FIEMME.PROGETTO DI SVILUPPO INTEGRATO

ALTOPIANO E PASSO DI LAVAZÉ*Comune di Varena, Val di Fiemme

Loredana Ponticelli e Cesare Michelettiarchitetti e paesaggisti, A²studio_projects for and researches into the Alpine space

Il progetto si occupa della riorganizzazione di uno storico insediamento turistico d’alta quota posto sull’altipiano di Lavazè, il passo dolomitico che collega la Val di Fiemme con la Val d’Ega e Bolzano (immagine 1, pag. 152).

Il progetto segue un modello di sviluppo sostenibile basato sui notevoli valori na-turali dell’area (importanti aree umide incluse nella rete Natura 2000, il sito Dolomiti UNESCO, un lago alpino e la pecceta di Pinus cembra L. più meridionale d’Europa) e su principi di pianificazione integrata (partecipazione e negoziazione, connectivity conservation, riordino delle infrastrutture, riqualificazione architettonica ed energeti-ca degli edifici esistenti, sistemi di mobilità integrata) (immagine 2, pag. 153).

Altopiano e passo di LavazéCaratteri paesaggistici

Collocato al confine tra il Trentino ed il Sudtirolo, il passo di Lavazé (1.820 m/slm) è un’area caratterizzata da importanti valori paesaggistici e da una storica tra-dizione turistica (la prima struttura venne costruita da T. Christomannos – il primo “tour operator” delle Dolomiti – agli inizi del ‘900), ma che versa oggi in uno stato di progressivo declino (immagine 3, pag. 153).

* Immagini 1-15, pagg. 152-163.

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Tuttora relativamente poco conosciuto nonostante l’indubbia amenità dei luoghi, l’altopiano si estende nel cuore delle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità, tra i due com-ponent site del Bletterbach e del gruppo Latemar - Catinaccio - Sciliar, ed offre una com-pleta sequenza di paesaggi culturali, sia alpini che dolomitici (immagini 4, 5, pagg. 154).

Infatti, il passo è frequentato dall’uomo sin dalla preistoria ed è tuttora utilizzato come pascolo d’alpeggio (vi sono due malghe attive), motivo per cui è sempre stato collegato funzionalmente con gli insediamenti di fondovalle. I boschi, i pascoli, le praterie d’alta quota e le numerose infrastrutture rurali che costituiscono gli elemen-ti della sua landscape diversity, sono ancora amministrati da una delle più antiche istituzioni per la gestione dei beni collettivi esistente nell’arco alpino (la Magnifica Comunità di Fiemme, fondata oltre 900 anni fa, nel 1111) (immagine 6, pag. 155). Questa istituzione corrisponde ad un ente socio-economico autonomo, basato sul principio che i beni comuni sono indivisibili ed inalienabili. Di fatto il suo principale interesse è il mantenimento e la gestione (in una parola la riproducibilità) delle risor-se naturali che simbolicamente rappresentano la Comunità stessa. Per questa ragio-ne, i confini della proprietà collettiva corrispondono spesso agli ecosistemi esistenti.

Dal punto di vista turistico, l’area offre attualmente una considerevole gamma di possibilità per l’outdoor recreation, sia durante la stagione estiva (escursionismo, edu-cazione ambientale, mountain biking e nordic walking), sia in quella invernale (sci nor-dico, campo scuola sci alpino, snow park) (immagne 7, pag. 156). Tuttavia l’intensità dei flussi del traffico di valico (una media di circa 1.000 veicoli giornalieri) costituisce un forte elemento detrattore ed una delle principali cause di perdita di appeal.

Il progetto LavazéObiettivi

Il progetto Lavazé è una strategia di rigenerazione paesaggistica che segue un modello innovativo, basato sulla pianificazione sostenibile, sulla conservazione at-tiva degli ecosistemi, su sistemi di mobilità integrata di tipo pubblico/privato (car free area, skibus ibridi, ecc.), e sull’uso di energie rinnovabili (biomassa, geotermia, solare). Obiettivo del progetto è creare un modello turistico fortemente identitario, attraverso interventi di governance del paesaggio, di rigenerazione ed interconnes-sione degli spazi aperti e di reinterpretazione delle matrici culturali locali.

La pianificazione è basata sulle relazioni di complementarietà tra le risorse dell’habitat naturale (idrologia, geomorfologia e soprassuoli) e quelle dell’habitat antropico (uso del suolo, tipologia dell’insediamento, spazi collettivi e rete stradale), per ridurre la frammentazione ambientale e per sviluppare filiere corte.

Il progetto vuole inoltre essere un esempio operativo per la riduzione degli effetti della mobilità sui passi dolomitici, interrando la parte di strada che attraversa l’abi-tato e corre lungo il lago.

Il principale risultato atteso dagli interventi sulla rete infrastrutturale è il ripristino della continuità paesaggistica, che permetta di connettere anche ecologicamente il Sito

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Natura 2000 ed i component site delle Dolomiti UNESCO, nonché il ripristino della contiguità ecologico-idrologica, che esiste tra il lago Lavazé e la torbiera d’alta quota.

Per fare ciò, la strategia progettuale è basata su tre principi di pianificazione del paesaggio:• connectivity conservation• reciprocità e condivisione• negoziazione

Tecniche di pianificazione del paesaggioConnectivity conservation

L’approccio della connectivity conservation, promosso da IUCN / WCPA [IUCN, 2008], è un metodo di pianificazione basato sullo stabilire interrelazioni fra aree naturali identificate, attraverso varie tipologie di connessioni funzionali come: corri-doi paesaggistici, corridoi lineari e corridoi discontinui (stepping-stones) [Worboys, Francis and Lockwood, 2010]. Lo scopo è mitigare gli effetti della frammentazione ambientale delle specie, delle comunità biologiche, degli ecosistemi e dei processi ecologici [Bennett, 2004]. Si tratta quindi di un metodo che non si focalizza partico-larmente sulla conservazione di alcune ristrette aree protette (aree cuore) ma che si fa carico della gestione delle aree connettive circostanti (aree cuscinetto).

Reciprocità e condivisione

Ponendo in relazione paesaggio e comunità locale, il progetto Lavazé si appoggia a principi contrattuali ispirati alle antiche regole di amministrazione della proprietà collettiva, reinterpretati in chiave contemporanea: autonomia amministrativa e di re-golamenti, condivisione, reciprocità e gestione collettiva. Il processo partecipativo attraverso il quale sono state condivise le regole di trasformazione per la realizzazio-ne gli interventi, include chiunque abbia responsabilità gestionali nell’area (Comune amministrativo, Magnifica Comunità di Fiemme, consorzio piste da sci, allevatori e conduttori delle malghe, operatori turistici ed associazioni culturali). Le azioni di questo progetto, condivise e fatte proprie da ciascuno dei soggetti coinvolti, sono state sottoscritte in un accordo di programma – Programma Integrato di Interventi per la Riqualificazione Ambientale di Lavazé – su cui è basata la costituzione di uno specifico consorzio gestionale.

Negoziazione

Infine, il progetto è fondato sulla negoziazione. Infatti, l’eccesso di specializza-zione nell’economia turistica rischia di indebolire il forte legame, fisico e mentale,

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che determina il senso di appartenenza al territorio. Se quest’area iniziasse ad essere vissuta solo in funzione turistica, essa cesserebbe di avere valore di per sé.

Il tema principale della negoziazione è quindi trovare il punto di equilibrio fra due diversi sistemi di valore: da una parte la landscape diversity come prodotto dell’inte-razione tra natura e cultura locale e dall’altra il turismo come prodotto di una cultura globale. Al momento questi due mondi non sono separabili. Con il concetto di nego-ziazione il progetto vuole considerare la landscape diversity come il bene comune di una determinata comunità e vuole agire sul turismo come veicolo della specificità locale piuttosto che come strumento di omologazione.

Azioni ed interventi

Il Programma Integrato di Intervento basa la sua strategia sulla integrazione di azioni di tipo gestionale e di riordino infrastrutturale ed insediativo. Le previsioni re-lative al sistema insediativo di Lavazé sono organizzate in tematismi che riguardano le principali problematiche di Lavazé (immagini 8, 9, pagg. 157-158).

Paesaggio - la riqualificazione paesaggistica è ottenuta direttamente grazie agli interventi su ambiente, mobilità, agricoltura, insediamento, infrastrutture sportive (immagini10, 11, pag. 159).

Ambiente - interventi sulle risorse naturali primarie con effetti di sistema:• ottimizzazione del ciclo dell’acqua sia in termini quantitativi (rifacimento del

sistema acquedottistico per uso potabile e per garantire il minimo afflusso vi-tale del lago), sia in termini qualitativi (collettore circumlacuale e impianto di depurazione per evitare l’eutrofizzazione delle acque del lago);

• ottimizzazione dell’impiego delle risorse naturali locali per la produzione di energia termica ed elettrica (teleriscaldamento a biomasse e impianti geotermia / fotovoltaici).

Outdoor recreation - riorganizzazione del sistema piste/impianti che sfrutti le caratteristiche naturali dei luoghi evitando le infruttuose commistioni attuali

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• realizzazione di percorsi guidati, segnaletica dedicata e ricollocamento dell’area ludico-didattica per il periodo estivo;

• adattamento della viabilità forestale esistente come percorsi attrezzati per mountain bike, cavallo, ciaspole, nordic walking, sleddog ecc.;

• riorganizzazione ed ampliamento del sistema delle piste per lo sci di fondo me-diante un bypass (immagine 12, pag. 160);

• realizzazione di una zona di partenza in forma di “arena naturale”, realizzata tramite il modellamento dei rilevati artificiali che fungono sia da gradinata che da mascheramento del parcheggio;

• realizzazione di un nuovo impianto per l’innevamento programmato;• previsione di pista da sci alpino ed allontanamento dell’attuale campo scuola dal-

le fasce ambientalmente sensibili.

Mobilità - revisione integrale del sistema della viabilità sia per quanto riguarda gli accessi che il traffico di attraversamento:• previsione di bypass della viabilità principale per togliere il traffico passante,

pendolare e turistico e garantire la continuità ecologica e paesaggistica dell’alto-piano in senso longitudinale;

• riorganizzazione del sistema della sosta, sia pubblica che pertinenziale (alber-ghiera), per lo spostamento dei parcheggi dalla fascia lago e ricollocazione me-diante soluzioni – semi-interrate (immagine13, pag. 161) ed a raso (immagine 14, pag. 162) – integrate nel paesaggio;

• realizzazione area attrezzata sosta camper;• ipotesi di sistemi alternativi di trasporto pubblico per l’attraversamento longitu-

dinale dell’altopiano in direzione est-ovest mediante collegamenti in forma di people-mover, minibus ibridi, shuttle a fuel cell.

Agricoltura• incentivi per il recupero e la valorizzazione delle malghe e delle stalle;• reperimento di nuove aree per il pascolo;• realizzazione del centro forestale per la valorizzazione del cirmolo (Pinus cem-

bra).

Insediamento - incentivazione urbanistica per interventi di riqualificazione am-bientale, paesaggistica, energetica e funzionale:• interventi sulle strutture edilizie con ipotesi di riqualificazione, accorpamento,

ampliamento, rimozione e ricostruzione in altro luogo dei volumi esistenti;• previsione di nuovi edifici solo se rispondenti a criteri di bioarchitettura ed ener-

geticamente “passivi”;• riconfigurazione della fascia lago e degli spazi di relazione riscattati dai parcheg-

gi (piazza davanti agli alberghi e percorso lungo lago) (immagine 15, pag.163).

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Cronologia sintetica

Il progetto è stato avviato nel 2006 su richiesta dell’Amministrazione comunale di Varena (TN). Sulla base degli obiettivi individuati (rigenerazione paesaggistica, conservazione attiva degli ecosistemi, sistemi di mobilità integrata pubblico/privato, autosufficienza energetica) il processo si distingue in due fasi.

2006-2008 (fase propedeutica):• definizione e comprensione delle problematiche d’area• delimitazione della zona di intervento e individuazione dell’area d’influenza• correzioni e modifiche alla pianificazione provinciale per rendere raggiungibili

gli obiettivi (Piano Urbanistico Provinciale 2008, pianificazione aree protette del-la Rete Natura 2000, Piano stralcio della mobilità di Fiemme)

• integrazione e definizione dello strumento di pianificazione locale (PRG Varena, Progetto Integrato di Intervento)

2009-2011 (fase progettuale):• condivisione del quadro conoscitivo • avvio della vera e propria pianificazione integrata e concertazione con gli sta-

keholder• sviluppo progettuale degli scenari condivisi di trasformazione • definizione degli interventi prioritari (infrastrutture per i Mondiali di Sci Nordico

Fiemme 2013)• perfezionamento della strumentazione urbanistica e 1° adozione del Programma

Integrato di Intervento• avvio della progettazione esecutiva degli interventi infrastrutturali (parcheggi,

aree attrezzate, piste da sci nordico e innevamento programmato)

Il 2012 è stato impegnato per l’approvazione della pianificazione e l’acquisizione di tutte le autorizzazioni necessarie per le progettazioni esecutive. Dal 2013 il Pro-gramma Integrato di Intervento è pienamente operativo ed alcuni lavori sono già stati realizzati.

Riferimenti

Bennett, G., 2004. Integrating Biodiversity Conservation and Sustainable Use. Lessons Learned From Ecological Networks. Cambridge: IUCN Publications Ser-vices Unit

IUCN, 2008. Barcelona World Conservation Congress. Connectivity Conserva-tion Resolution

Worboys, G., Francis, W.L., Lockwood, M., 2010. Connectivity Conservation Management. A global guide. London: Earthscan

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Francesca Chiorino

Grazie a Loredana Ponticelli e Cesare Micheletti. Penso che ci sarà modo di ap-profondire durante la Tavola rotonda le questioni legate ai finanziamenti. Senz’altro è di estremo interesse capire come funzionano i vari processi e procedimenti, con quali strumenti ci si può avvicinare all’ottenimento di finanziamenti. La ricucitura ambientale, la ricucitura quasi topografica che ci hanno mostrato con un progetto così complesso e vasto, che veramente tiene insieme un intero brano di paesaggio, è un utile sfondo in cui collocare gli interventi successivi.

Chiamerei adesso Matteo Scagnol, di Modus Architects, che ci illustrerà il proget-to per la Circonvallazione di Bressanone.

Matteo Scagnol e Sandy Attia, che sono professionalmente uniti fin dal 2000 in Modus Architects, che ha sede a Bressanone, hanno al loro attivo numerosi incarichi privati e pubblici; in particolare, segnaliamo nel 2009 la centrale di te-leriscaldamento e lo skatepark a Bressanone e ultimamente, nel 2012/2013, la Damiani-Holz a Bressanone, l’Asilo di Bolzano e la casa e atelier per un artista sempre a Bolzano.

ITALIA, PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO, BRESSANONE. SOTTO-SOPRA - CIRCONVALLAZIONE DI BRESSANONE*

Matteo Scagnolarchitetto, MoDus Architects Sandy Attia Matteo Scagnol

Affrontare il tema delle infrastrutture in montagna o perlomeno nel contesto al-pino significa confrontarsi continuamente con l’aspetto verticale, caratteristico e costitutivo di queste regioni. Tale confronto deriva inevitabilmente dalla verticalità stessa delle montagne e degli insediamenti posti sempre su livelli crescenti, metten-do quindi in risalto l’aspetto visivo dei collegamenti. La verticale è quindi il cardine del semplice rapporto continuo tra il “sotto” e il “sopra”; tema, questo, che abbiamo approfondito e sviluppato in diversi progetti e realizzazioni di interventi infrastrut-turali, ovvero il tema dell’”infra” dell’infrastruttura, cioè fra il “sopra” e il “sotto”, che nelle regioni montuose è molto più caratteristico, del sistema dell’”infra” fra un punto e l’altro delle zone pianeggianti.

L’anno scorso, nel salire a piedi per raggiungere il Rifugio Ponte di Ghiaccio a 2.500 metri (avendo noi vinto il concorso per la sua nuova costruzione), con grande sorpresa ho incontrato sulle pendici delle montagne una forma primigenia di infrastrut-tura, potrei quasi chiamarla l’atto costitutivo dell’infrastruttura, ovvero la creazione

* Immagini 1-20, pagg. 164-179.

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di rapporti sociali con collegamenti fisici; questa idea semplicissima e complessa al tempo stesso è stata pensata e realizzata da un magnifico costruttore: la marmotta.

La marmotta, una di tante, costruisce nel “sotto-terra” un mondo infinito di gallerie e percorsi, un network completo che costituisce una società, una struttura urbana sottostante. Questa relazione fisica, continua con la marmotta che emerge dal foro della tana nel “sopra-terra”, trasfigurandosi nella splendida forma-figura di una sentinella, che emette sibili e richiami, forma eterea dell’infrastruttura. Ho quindi compreso appieno questo aspetto del “sotto-sopra”, cardine della predi-sposizione che abbiamo avuto nel pensare o nel modificare alcune infrastrutture elaborate da ingegneri.

Per delineare brevemente come il concetto del “sotto - sopra” ha caratterizzato le nostre scelte progettuali, presento innanzitutto tre progetti di minor dimensione, ma di forte impatto espressivo per poi presentare l’intervento più complesso della Circonvallazione di Bressanone.

Il primo progetto è il sottopasso pedonale dell’autostrada A22 posto esattamente sul confine di stato al Passo del Brennero. La richiesta della Società Autostradale A22 era di progettare il collegamento tra i due lati dell’autostrada a servizio di un nuovo edificio ricettivo. Il tema posto è quindi un semplice sottopassaggio dove il “sotto” deve emergere nel “sopra” con due volumi, due figure, in fondo due specie di marmot-te. Non vuole essere un gioco di parole, ma in fondo questi due volumi che contengono solo scale e ascensori divengono espressione figurativa di due sentinelle, sono quasi delle porte, o una sorta di leve del flipper, attraverso le quali le macchine scorrono. I due volumi subiscono la dinamica del movimento nella forma che si piega e si arro-tonda. Più interessante dell’aspetto formale di queste due figure, che potrebbero essere disegnate in modi incredibilmente diversi, è la parte sottostante, la parte interrata.

Il sottopasso non segue la logica efficiente del percorso più breve, ma si svolge in diagonale rispetto all’asse dell’autostrada, restringendosi nel punto mediano e dilatan-dosi nella zona delle uscite, come fosse scavato per ottenere non solo un passaggio, ma anche uno spazio di vita e di rappresentazione con la possibilità di alloggiare mo-stre temporanee e una permanente sulla storia della A22. Ai fianchi del percorso, si attestano delle “tane” nella forma e dimensione dei piloni dell’autostrada stessa. Si voleva quindi far esperire al passante l’aspetto dimensionale dei piloni dei cavalcavia in un rapporto fisico in negativo di queste enormi infrastrutture. In queste camere vi saranno un brulicare di suoni e di interviste che con l’artista Stefano Bernardi, stiamo registrando da Amburgo fino alla Sicilia. I diversi dialetti che attraversano l’Europa si raccoglieranno in queste stanze a metà del corridoio autostradale nord-sud. Nello spazio di collegamento un sintetizzatore trasformerà i rumori registrati in esterno del passaggio dei veicoli in un suono continuo di frequenza diversa secondo l’intensità del traffico. L’infrastruttura dà voce a se stessa; diviene uno spazio espositivo e di pensiero.

Il tema del “sotto-sopra” ovvero di quello che scorre sottoterra e che poi emer-ge improvvisamente lo abbiamo affrontato in un’altra infrastruttura, una centrale di teleriscaldamento. L’azienda Municipalizzata di Bressanone da anni sta portando avanti un programma molto ambizioso di riduzione dell’inquinamento da combu-

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stibili fossili emesso dalle caldaie private, realizzando centrali di cogenerazione a servizio della comunità. Queste piccole centrali producono energia elettrica e con-seguentemente acqua calda che viene immessa in rete per il riscaldamento e l’acqua calda sanitaria. Per ridurre le dispersioni di calore, le centrali non possono essere troppo distanti dalle utenze e quindi divengono parte della struttura urbana consoli-data. Il risvolto interessante di questo tema è quello del “non visto”, ovvero di una complessa rete totalmente sotterranea che collega le centrali in continuità e queste con le diverse utenze. La rete emerge nelle centrali, anche queste come delle mar-motte, che invece di sibili lanciano vapore nell’aria identificando la loro funzione. L’azienda municipalizzata si è posta il problema di assecondare queste strutture dal carattere prettamente tecnico al sistema di edifici urbani; la loro progettazione non poteva avere solo qualità tecniche, ma doveva assumere un decoro urbano e quindi si è rivolta agli architetti.

L’area scelta per la struttura era baricentrica rispetto alla rete di distribuzione, collocata nei pressi di un plesso scolastico, vicino agli argini del fiume Isarco. Il progetto eseguito dai tecnici dell’azienda era un semplice manufatto prefabbricato.

Senza modificare sostanzialmente la distribuzione interna della tecnica, abbiamo trasformato l’aspetto della scatola funzionale investendolo di nuovo carattere espres-sivo, ma soprattutto donando all’edificio una nuova funzione sulla sua copertura, uno skate-park. Il concetto dell’edificio è molto semplice: un blocco che si adegua alle restrizioni dell’area, una rete di protezione dai profili irregolari che lo cinge e la luce perimetrale che in modo effimero lo illumina di notte facendo parlare l’architettura la lingua dell’energia.

In seguito a questo intervento, l’Azienda Municipalizzata ci ha coinvolti in un altro progetto per implementare la rete del teleriscaldamento, al fine di ottimizzare il rendimento delle centrali, che producono calore anche di notte, realizzando delle enormi cisterne di raccolta dell’acqua calda prodotta in esubero. I tecnici dell’a-zienda avevano previsto di predisporre le cisterne di 15 metri di altezza in linea, come dei bravi soldatini. La nostra proposta è stata invece di raggrupparli nella forma libera dei vasi di Alvar Aalto. Le cisterne così raccolte e protette da una cor-tina polilobata metallica, sprofondano in parte nel terreno, emergendo attraverso un anello quadrato in cemento faccia a vista, quanto la vicina chiesa degli anni ‘70 realizzata da Othmar Barth.

Il rapporto tra “sotto” e “sopra” riappare fortemente in questo progetto, così come il fascino dimensionale delle infrastrutture, ovvero la possibilità di lavorare con elementi dalle dimensioni enormi, che di per sé hanno un valore espressivo straordinario.

Rimanendo sul tema dimensionale, coniugare i circa dieci chilometri della cir-convallazione tra Bressanone e Varna in pochi concetti unificatori è stato il tema fondamentale del nostro intervento, su un progetto delineato dagli studi di ingegneria stradale, che da anni avevano sviluppato i tracciati e le gallerie.

Per contenere gli innumerevoli interventi, quali i portali delle gallerie, le uscite di sicurezza, i muri di contenimento, le barriere antirumore, gli edifici di servizio, gli impianti tecnici di ventilazione, la segnaletica ecc. abbiamo stabilito due semplici

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equazioni: tutti gli elementi sotterranei che fuoriuscivano dalla terra dovevano essere comandati dalla naturalità della curva, mentre le strutture fuori terra dovevano essere disegnate dalla linea spezzata. Un principio molto semplice, che però ci ha permesso di affrontare l’eterogeneità degli interventi e l’enorme dimensione lungo la quale questi si sviluppano. A monte di tale concetto vi è una considerazione sulla condi-zione orografica della conca di Bressanone, che determina il suo stato di ristrettezza degli spazi, di prossimità e di densità edilizia. Gli interventi sulla nuova circonvalla-zione dovevano quindi entrare in sintonia con tali ristrettezze minimizzando l’impat-to ambientale delle opere fuori terra, armonizzando queste ultime al contesto e infine congiungere in un’unica soluzione di continuità i tratti dei due comuni. Anche l’at-tenuazione del livello di emissione acustica è stata presa in considerazione vista la presenza di numerosi paesi posti sulle pendici laterali che avrebbero subito notevol-mente l’impatto sonoro e visivo del nuovo intervento, dato che queste infrastrutture incidono con la loro forte presenza distanze molto grandi in particolare nelle zone dove comanda la verticale, più che l’orizzontale. Sono stati utilizzati tre materiali, il cemento faccia a vista e il porebeton per i portali, l’acciaio cor-ten per i giganteschi camini e il legno per le barriere acustiche, rivisitando e trasformando un elemento standard con l’aggiunta di tavole verticali dal ritmo sincopato. In questo caso l’infra-struttura dalle dimensioni enormi parla il linguaggio dei materiali, naturalizzandosi e concretizzandosi in forme inusuali non appena dal “sotto” appare nel “sopra”.

Francesca Chiorino

Ringraziamo Matteo Scagnol per l’intervento di grande stimolo e utilità. È stato interessante vedere un percorso stradale così studiato, così attentamente considerato nei suoi dettagli estetici e funzionali.

Chiamiamo ora Johann Obermoser dello Studio Obermoser Architektur, che pre-senterà un esempio all’interno della regione del Vorarlberg di un complesso impianto a fune a tre differenti altitudini. Le stazioni della funivia vengono risolte con mate-riali e forme differenti a seconda della situazione paesaggistica in cui i vari volumi dell’impianto sono collocati, elementi che devono quindi essere declinati al paesag-gio circostante.

Johann Obermoser ha uno studio ad Innsbruck avviato da tempo e vanta numerosi incarichi sia privati che pubblici.

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AUSTRIA, REGIONE DEL VORARLBERG, ST. GALLENKIRCH.LA NATURA COME STRUMENTO DEL DESIGN SPERIMENTALE,

DUE ESEMPI: GRASJOCH - GAISLACHKOGL, 3.040 m*

Johann Obermoserarchitetto, Obermoser architektur

Montafon e Ötztal

Due valli nella parte occidentale dell’Austria. Due valli meta di un forte turismo invernale. Due valli accumunate da un problema: il trasporto individuale.

Entrambe le valli hanno il vantaggio che la testata della valle viene chiusa in inverno impedendo il transito in questa stagione. D’altro canto, però, rimane comun-que il traffico individuale creato dai locali che si spostano al loro interno.

Montafon

Obermoser arch-omo zt gmbh, il nostro studio di architettura, è stato incaricato dalle ferrovie montane del Montafon di elaborare un masterplan per questa valle mettendo in evidenza le caratteristiche dei suoi tre comuni principali: Schruns, St. Gallenkirch e Gaschurn. Ben presto è risultato chiaro che la lacuna principale fosse legata allo sviluppo storico della valle, caratterizzato da una contrapposizione tra due etnie: quella dei Retoromanzi e quella dei Walser. Infatti, nel corso degli anni erano sorti due comprensori sciistici separati che non potevano essere raggiunti senza mez-zi di trasporto individuali o pubblici.

Dopo vari sopralluoghi nei comuni di Schruns, St. Gallenkirch e Gaschurn, ab-biamo analizzato le strutture ricettive di ciascuna località. Ci siamo resi subito conto che per ridurre il traffico sarebbe bastato collegare i due comprensori sciistici. Inol-tre, siamo giunti alla conclusione che le linee ferroviarie esistenti in queste zone e nei pressi delle loro piste da sci avrebbero dovuto collegare meglio il centro dei paesi. La linea che portava solo fino a Schruns avrebbe dovuto proseguire fino a St. Gal-lenkirch. Sulla base dei nostri studi, volevamo che St. Gallenkirch diventasse il punto di partenza per i due comprensori sciistici di Hochjoch e Silvretta-Nova.

Dopo che l’intero progetto è stato elaborato e presentato agli organi competenti delle ferrovie montane del Montafon, è stata avviata la costruzione di una linea fer-roviaria che collegava i comprensori di Hochjoch e Silvretta-Nova; St. Gallenkirch sarebbe diventato il nuovo nodo ferroviario.

A tal fine è stato creato un treno-navetta sul Grasjoch che ha dato vita a un com-

* Immagini 1-16, pagg. 180-188.

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prensorio sciistico da sogno. Esiste, inoltre, un’altra linea ferroviaria che collega il Grasjoch a Hochalpila e quindi al comprensorio di Hochjoch e a Schruns.

Grazie a questo intervento è possibile andare e tornare da Gaschurn e Schruns passando da St. Gallenkirch anche con gli sci. L’attuazione di questa misura, che faceva parte di un pacchetto d’interventi da noi proposti, ha rappresentato un primo, utile contributo alla riduzione del traffico.

L’aspetto architettonico è stato influenzato in maniera considerevole dalle condi-zioni del luogo. Le diverse conformazioni topografiche sono determinanti per la pia-nificazione, tanto più quando si tratta di realizzare una linea ferroviaria in montagna. Ad esempio, è stato necessario elaborare tre progetti completamente diversi per le tre stazioni Tal, Mitte e Berg (a valle, intermedia e montana). Ogni luogo ha richiesto un linguaggio architettonico a sé.

La stazione a valle della ferrovia del Grasjoch (immagini da 1 a 4, pagg. 180-181) si trova proprio sotto a una linea di alta tensione e, per questo, sono state pre-viste delle rigorose misure di protezione antincendio. Il desiderio dei passeggeri di viaggiare più comodamente in treno comporta immancabilmente la necessità di co-struire stazioni sempre più grandi. Inoltre, i nuovi sistemi di circolazione richiedono binari lunghi. Ciò fa sì che i volumi non possano più essere nascosti, ma diventino parte del paesaggio e dell’insediamento circostante. Per soddisfare queste esigenze abbiamo optato per una struttura monolitica allungata in cemento armato. Il deposito delle cabine è stato allestito sotto il parcheggio. Il collegamento tra i due elementi costruttivi è rappresentato da un pilastro di calcestruzzo obliquo che aggetta verso il basso. Un’ampia vetrata offre un sorprendente scorcio sui componenti tecnici della ferrovia e, a fine servizio, permette di osservare come le cabine vengono riportate nelle loro posizioni di parcheggio. L’edificio, contraddistinto da linee nette, si adagia naturalmente sul terreno. Abbiamo evitato volutamente di inserire attici o scossa-line per lasciare che l’acqua e la neve scorressero sulle facciate e velocizzassero il processo d’invecchiamento. Si è già formata, infatti, una patina naturale lasciata dai depositi delle intemperie sulla superficie omogenea in calcestruzzo che sottolinea in maniera discreta il legame tra l’edificio e il luogo in cui si trova, integrandolo sempre di più nell’ambiente circostante.

Il sistema d’illuminazione accentua la laboriosità delle ferrovie mettendo in evi-denza i binari e i componenti tecnici. L’edificio, invece, resta celato interamente dall’oscurità e si integra armoniosamente con il territorio.

Anche la stazione intermedia sul Grasjoch (immagini da 5 a 10, pagg. 182-184) ha rappresentato un’altra sfida appassionante. Dal punto di vista topografico, essa è collocata in uno spazio pianeggiante alla fine di due piste da sci. A differenza della stazione a valle, qui la spianata si estende in tutte le direzioni e offre ai viaggiatori una veduta mozzafiato sulle catene montuose circostanti. Per questa ragione la sta-zione intermedia è stata concepita come un complesso incastonato nel territorio e in piena armonia con esso. La configurazione è determinata dal fatto che si tratta di una stazione di passaggio che presenta due binari, uno per treni diretti al Grasjoch e

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uno per quelli verso Hochalpila e la stazione a valle. La struttura in acciaio dell’edi-ficio, rivestita da una sottile lamina, sembra sorgere dal terreno. La leggerezza della membrana e la luce che si riflette su di essa ne annullano il volume. Anche qui il deposito delle cabine si trova sottoterra. Soltanto il muro di cinta lungo il tracciato delle cabine è visibile e ciò comporta una riduzione del volume ottico. Nella stazione si percepisce la leggerezza unica dell’involucro dell’edificio. Nonostante i dubbi di tutti gli scettici rispetto alla costruzione a membrana, la nostra aspirazione di offrire la maggior trasparenza possibile ha trovato la sua piena realizzazione in questo pro-getto. Il panorama montano si svela ai visitatori già dall’interno della stazione e così i nuovi arrivati vengono formalmente accolti in questo luogo. Questo sistema ha, quindi, permesso di rendere il paesaggio circostante visibile sin dal proprio arrivo. Nessun altro sistema costruttivo avrebbe permesso di conciliare la volontà di otte-nere la maggior trasparenza possibile e la necessità di protezione dal clima alpino di alta quota garantendo un effetto così grandioso. La stazione assume un fascino par-ticolare in diversi momenti del giorno. Al sorgere del sole, essa entra in sinergia con l’ambiente circostante quando la luce si insinua delicatamente attraverso l’involucro e mette in evidenza gli elementi tecnici creando un complesso gioco di luci e ombre. In inverno la neve e il ghiaccio danno vita a un’immagine ancora diversa. Quando i vari strati di neve che si depositano sulla membrana vengono colpiti di piatto dai rag-gi del sole, si irradia una luce diffusa che dà l’impressione di trovarsi all’interno di un cristallo di ghiaccio. Quando, verso sera, la stazione viene avvolta dalla nebbia, lo spazio assume un aspetto quasi mistico e quando cala il silenzio, l’edificio trasmette un senso di armonia e di sintonia con la natura. Dall’esterno la stazione appare rico-perta quasi completamente dalla neve e diventa parte integrante del paesaggio, della natura e di tutto ciò che la circonda.

La piazza antistante alla stazione intermedia è incorniciata da uno scheletro di cemento armato che definisce gli accessi alla stazione, al negozio di articoli sportivi, al pronto soccorso e al ristorante di prossima costruzione. Anche da questa prospet-tiva si può dire che si sia riusciti nell’intento di inserire e integrare il più possibile la stazione nel paesaggio circostante. A differenza della stazione, costruita con ma-teriali tecnici, per il ristorante che sorgerà nella stazione intermedia sono stati pri-vilegiati materiali locali più caldi come il legno e la pietra naturale che dovrebbero incoraggiare i visitatori a fermarsi. Naturalmente l’alpeggio preesistente a forma di cubo è stato mantenuto e la stazione è rimasta parte della Cooperativa dei malgari di Hochalpila (Hochalpila-Almgenossenschaft). Le due piste si congiungono sul tetto (dove si trovano delle sdraio, un bar, ecc.) di modo che, praticamente, è possibile sciare sopra alla stazione.

La stazione montana del Grasjoch (immagine 11, pag. 185) si basa su un concetto estetico: una lastra di calcestruzzo è stata inserita orizzontalmente nella montagna e, insieme alle rocce presenti naturalmente, costituisce un supporto per i componenti tecnici ferroviari, la banchina e i locali di servizio. La costruzione è più racchiusa possibile per compensare la posizione esposta in alta montagna e non è visibile dalla

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parte posteriore della valle. Nel costruire la stazione si è tenuto conto scrupolosa-mente del terreno esistente per preservarlo il più possibile. Dopo un anno, la facciata, inizialmente aperta, è stata chiusa perché l’interno dell’edificio era spesso invaso dalla neve. Pur trattandosi di una stazione di alta montagna, l’edificio era un po’ troppo inserito nella natura secondo i gestori.

Come si è visto dopo la messa in servizio degli impianti, il nostro concetto di pianificazione territoriale ha avuto delle ripercussioni sulla regione del Montafon. Il nostro intervento mirato nella natura con la creazione di un collegamento ferro-viario ha permesso di ridurre considerevolmente il trasporto individuale nella valle. Tuttavia, la situazione del traffico nei fine settimana è ancora insoddisfacente. Molti turisti utilizzano la propria auto se si recano nelle stazioni di sci per un solo giorno incrementando il transito nei comuni della zona.

La Ötztal

A Sölden nella Ötztal in Tirolo si è verificata una situazione completamente di-versa. Qui doveva sorgere una ferrovia dal centro del paese al ghiacciaio. In questo caso il nostro studio di architettura è stato incaricato di realizzare le due sezioni sul Gaislachkogl. L’incarico di progettazione fu assegnato originariamente nell’ambito di una gara per l’appalto della costruzione di una linea ferroviaria nel centro del pa-ese che, però, non fu mai realizzata.

Tuttavia, la linea ferroviaria già esistente sul Gaislachkogl è stata rimossa e al suo posto noi abbiamo progettato una nuova ferrovia con una capacità maggiore. I considerevoli spazi previsti per la stazione a valle (immagini 12 e 13, pagg. 186) e le dimensioni ridotte del terreno disponibile hanno reso necessarie delle soluzioni estremamente innovative. Poiché si trattava di rimodernare una linea ferroviaria già esistente, il piano terra è stato in larga parte riutilizzato. Il nuovo piano di salita è stato collocato al di sopra, e i passaggi pedonali sotterranei sono stati utilizzati come collegamenti al garage sotterraneo. Anche in questo caso il nostro progetto prevede una struttura in acciaio rivestita da un involucro trasparente. A seconda della luce e delle ore del giorno, la facciata permette a tutti di intravedere le varie attività che si svolgono all’interno della stazione e sentirsene partecipi. Per ragioni di spazio, il de-posito delle cabine è stato collocato sopra la stazione e, in questo modo, le complesse operazioni di funzionamento sono visibili da parte di turisti e passanti. Le operazio-ni di parcheggio che si svolgono la sera quando le cabine “vanno a dormire” sono messe in risalto anche dall’illuminazione in modo che, a fine giornata, gli sciatori possano assistere allo spettacolo dai bar circostanti.

Se nella stazione a valle il progetto era incentrato sull’inserimento di una costru-zione di grandi dimensioni nel centro del paese, nella stazione montana (immagini da 14 a 16, pagg. 187-188) la vicinanza della vetta del Gaislachkogl ha rappresentato una grande sfida. La stazione, collocata a 3.040 m di altitudine, si appoggia da un lato al monte e dall’altro si affaccia, coraggiosa e fiera, sul ciglio delle sue ripide pendici.

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La costruzione filigranata a costole ricorda la leggerezza e l’eleganza senza tempo di un’immensa molla a spirale divisa nel senso della lunghezza. Le sue parti, ben ferme e ancorate, si aggrappano al terreno friabile e sembrano ondeggiare con leggerezza circondate da un paesaggio meraviglioso. Appena scesi dal treno si gode già di un pa-norama mozzafiato sulla valle sottostante e su uno scenario insolito. Il viaggiatore che lascia questa stazione di alta quota viene colpito profondamente dalla vista dell’im-ponente paesaggio alpino ai suoi piedi. Egli può percepire e assorbire attraverso tutti i suoi sensi la magia e l’unicità di questo luogo. La spettacolare struttura con il suo sot-tilissimo involucro impedisce che la stazione sia schiacciata sotto il peso della neve.

Tuttavia, la sfida principale che abbiamo incontrato dal punto di vista tecnico nel gestire un cantiere a 3.040 m di quota era costituita dal permafrost, uno strato di se-dimenti e rocce congelate durante tutto l’anno che quindi restano solide e resistenti. Questo delicato equilibrio può essere turbato dal surriscaldamento globale, dai raggi del sole e, non ultimo, dal calore irradiato dagli edifici. Le conseguenze del possibile scivolamento del terreno erano dimostrate dalle crepe presenti nella vecchia stazione montana, una parte della quale si era addirittura staccata dal resto. Per evitare che ciò si ripetesse era assolutamente necessario prendere provvedimenti. A tal fine, si è scelto di collocare la stazione montana sul versante nord della vetta per sfruttare l’ombreggiatura naturale delle rocce. Inoltre, nelle fondamenta sono state costruite delle speciali camere che, da un lato, vengono raffreddate con un ricircolo d’aria naturale e, dall’altro, dispongono di appositi meccanismi di bilanciamento che per-mettono di spostarle anche di un metro. Dopo due anni di utilizzo, abbiamo costatato che il permafrost attorno alla stazione montana non si era ritirato. Ciò significa che la tecnica di ventilazione ha effettivamente influito positivamente sull’ambiente cir-costante e che quindi può essere utilizzata per altri progetti in futuro.

Proprio come nel Montafon anche nella Ötztal si voleva ridurre il più possibile l’utilizzo di mezzi di trasporto personali. In questa valle serve un intervento che per-metta di accedere al ghiacciaio Tiefenbach visto che attualmente i turisti si spostano da Sölden ai parcheggi del ghiacciaio con la loro auto o con un bus. In futuro esisterà una linea ferroviaria dalla stazione montana del Gaislachkogl agli impianti di risalita del ghiacciaio. Così si spera di ottenere una drastica riduzione del traffico a Sölden.

Il nostro ultimo progetto in alta quota è prossimo all’inaugurazione e sarà con-cluso a dicembre: si tratta di un ristorante che si trova proprio accanto alla stazione montana sul Gaislachkogl e che sostituisce completamente la vecchia stazione mon-tana e la sua gastronomia. Nel progettare il nuovo ristorante in vetta ci siamo lasciati ispirare dallo spettacolare panorama a 360° in cima al Gaislachkogl. Un edificio-scultura in vetro a forma di blocchi di ghiaccio impilati offre una visibilità a tutto campo sul ghiacciaio e sulle montagne. L’edificio ha delle parti molto aggettanti e i suoi tetti sono sfruttati come solarium, dove i viaggiatori possono fare una sosta. Il tetto dell’Ice-Q è collegato alla vetta del Gaislachkogl attraverso un ponte sospeso ed è un punto panoramico liberamente accessibile a tutti. A causa della posizione esposta nel delicato terreno in permafrost, le fondamenta sono costituite soltanto da tre appoggi per mantenerle di dimensioni ridotte. All’interno dell’edificio dominano

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i materiali locali: la pietra naturale del ghiacciaio, e il legno massello per i mobili e i rivestimenti di pareti, suolo e soffitto. Delle tende flessibili antiabbaglianti creano una doppia facciata che serve a recuperare il calore e a isolare dal freddo esterno. Per rendere l’edificio più sostenibile, l’energia termica aspirata viene stoccata in grosse cisterne e utilizzata per il riscaldamento a pavimento grazie a un sistema di recupero del calore. Anche l’acqua di fusione e quella piovana vengono raccolte e utilizzate per vari scopi nel ristorante.

Francesca Chiorino Ringrazio Johann Obermoser e chiamo subito Gualtiero Oberti, che presenterà

una serie di percorsi e soste all’interno del Parco del Gigante.Gualtiero Oberti risiede e lavora in provincia di Bergamo, si occupa spesso di

progettazione in contesti pubblici e di relazione. Ha realizzato diverse piazze, ri-cordiamo in particolare piazza Angelo Maj a Schilpario, piazza Codussi a Lenna e piazza Libertà a Spirano tutte in provincia di Bergamo.

ITALIA, PROVINCIA DI BERGAMO, LUZZANA.PERCORSI E SOSTE ALL’INTERNO DEL PARCO DEL GIGANTE

E VORTICE*

Gualtiero Obertiarchitetto

IL PARCO DEL GIGANTE

Dati progettoprogetto e direzione lavori Gualtiero Oberticollaboratori Marco Gottini e Marco Sana strutture Evelino Facchinetticommittente Amministrazione comunale di Luzzanaopere edili e stradali Avanzini Costruzioni Srl, Bienno Bscarpenterie metalliche Cosmet Srl, Clusone Bgcronologia progetto 2010 - realizzazione 2010 - 2012localizzazione Luzzana Bg

* Immagini 1-12, pagg. 189-198.

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Il Parco del Gigante si trova in provincia di Bergamo, lungo il corso terminale del Bragazzo, in prossimità del suo sbocco nel Cherio. È un’area non rigorosamente delimitata, più un auspicio che un’entità territoriale ben definita, sicuramente il ri-conoscimento di un luogo caratterizzato da una particolare valenza antropica e am-bientale. Si tratta di una gola scavata nella roccia calcarea dal torrente da cui prende il nome, arricchita da una piccola cascata e da due pozze di acqua limpida e coperta da una macchia arborea autoctona. Dall’alto domina il Gigante, un altorilievo scol-pito nella pietra nel 1840 da un giovane Giosuè Meli. Un’opera forte e generosa, un esercizio accademico da inquadrare nel filone artistico del Meraviglioso e del Colos-sale, del fuori scala che annulla ogni distanza disciplinare tra scultura e ambiente: prodotto di una fabulazione capace di elevare la “finitudine” a mito.

L’intervento ha restituito un piccolo parco che avvolge il visitatore in un plenum ambientale di colori, suoni e profumi non usuali, permeato da chiari-scuri e rifrazioni, brume e condense capaci di infondere percezioni spiazzanti che preannunciano l’in-contro con piccole architetture dal significato incerto e contrastante. La delicata trama di natura antropica sovrascritta al contesto ambientale suscita, così, nell’osservatore analogie intellettuali e immaginative.

L’ingresso al parco è definito da un grande rettangolo aureo pavimentato in ghia-ietto spezzato e delimitato da siepi di carpini (immagine 1, pag. 189). A terra un contorno in legno definisce geometricamente l’area e la eleva a qualità di luogo. Uno spazio che si propone da pari al cospetto del contesto ambientale. Un manifesto di intenti, una presenza umana e razionale alle porte di un magma ambientale che dà la misura di ciò che si troverà oltre. All’interno del parco, elementi che somigliano a una cosa ma che si rivelano destinati a svolgere funzioni che questa cosa non potreb-be accogliere. Il tutto per creare uno spaesamento, un’incertezza, un dubbio su ciò che è reale e ciò che si percepisce come realtà. Ecco allora un volume verde di edera, una piccola, moderna ars topiaria, che oltre la sottile superficie vegetale (immagine 2, pag. 190) si fa ferro, struttura e ponte (immagine 3, pag. 191); una lunga e retti-linea scala in masselli di larice che emerge dal pendio e che, dal luogo aureo all’in-gresso del parco, invita a salire verso la luce. Su tutto domina l’enorme fossile di un animale invertebrato che, come il Gigante, riemerge a fatica dalla roccia e diviene luogo di incontro e palcoscenico sulla valle: una poliforma piattaforma in acciaio corten realizzata per accogliere, a metà della salita di via Costa, chi giunge a visitare il monumento (immagini 4, 5, 6, 7 e 8, pagg. 192-195) Quasi una forma organica in metallo calandrato che omaggia e abbraccia la scultura romantica. Al termine del parco, in prossimità della piccola cascata, ci appare un volume pieno e assoluto, di colore rubino, che sembra nascere, atto vitale dell’uomo, da una macchia vigorosa e spontanea (immagine 9, pag. 196). Una sensazione visiva che si sfalda man mano ci si avvicina, un fantasma platonico che si decostruisce in piani (immagine 10, pag. 196) per scavalcare le pozze d’acqua colore smeraldo. Un’opera con la quale l’uo-mo, utilizzando il comune linguaggio della matematica, cerca un dialogo da pari con la natura (immagine 11, pag. 197), ma anche una vanitas (immagine 12, pag. 198) con la quale, consapevole del suo essere transitorio, afferma la propria sconfitta.

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VORTICE

Dati progetto

progetto e direzione lavori Gualtiero Oberti, Attilio Stocchicon Dimitri Chatzipetros, Laura Crespi, David Moriggia, Enrico Pratocollaboratori Sara De Serio, Massimo Di Mauro, Marco Gottini, Giulia Maculan, Emanuela Marini, Mauro Mazzali, Alberto Pressiani, Paola Rota, Marco Sana strutture Evelino Facchinetticommittente Amministrazione comunale di Vaprio d’Addaimpresa appaltatrice Cosbotek Srl, Desio Mbcarpenterie metalliche Cosmet Srl, Clusone Bg cronologia progetto 2012 - realizzazione 2012 - 2013localizzazione Vaprio d’Adda Mi

Il progetto, steso in collaborazione con l’amico Attilio Stocchi, è stato studiato per collegare il centro di antica formazione di Vaprio, situato al di sopra di un ter-razzamento lungo la sponda destra dell’Adda, e la strada alzaia, più in basso, che costeggia il fiume correndo tra questo e il naviglio della Martesana (immagini 1 - 2, pagg. 199-200). L’intervento si articola in due parti distinte: una scala a coclide che si evolve in progressione aurea, sinuosa e organica, e una passerella rettilinea e inorganica. Due elementi solo apparentemente contrapposti, ma generati da una concezione matematica comune (immagini 3 - 5, pagg. 201-202).

L’opera, oltre agli evidenti benefici funzionali dovuti al collegamento tra due realtà dissimili, quella urbana e quella naturale, costruisce un nuovo spazio a misura della ric-ca e nobile storia passata. Leonardo, ospite in Villa Melzi, qui studiò i vortici generati dalla corrente del fiume mentre due secoli dopo Gaspar van Wittel, prima, e Bernardo Bellotto (immagine 6, pag. 203), poi, dipinsero i magnifici panorami dei borghi di Canonica e di Vaprio, inquadrandoli dalle ville e dalle sponde dell’Adda. Così la passe-rella che si prolunga a sbalzo sul fiume, in ricordo delle celebri vedute settecentesche, ricrea la possibilità per il paese di Vaprio di osservarsi dall’esterno e divenire panorama di se stesso, mentre la scala a vortice, costruita concettualmente all’interno dei solidi platonici (immagine 7, pag. 204), rende omaggio agli studi sui poliedri e sulle turbo-lenze (immagine 8 pag. 205) che Leonardo fece negli anni in cui qui soggiornò.

Gualtiero Oberti (Bergamo 1955) si è laureato in architettura nel 1981 al Politecnico di Milano dove, dal 1982 al 2002 ha svolto attività di ricerca e di insegnamento sviluppando temi relativi alla conservazione e al progetto del nuovo in ambito monumentale. Dagli anni Ottanta svolge attività professionale principalmente nel campo della progettazione architet-tonica e ambientale e del restauro monumentale.

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La formazione universitaria e la successiva attività di ricerca e di insegnamento condizio-nano tutta la sua opera. L’ascolto del contesto, storico o ambientale che sia, diventa costante pratica di lavoro. Un approccio quasi maieutico alla progettazione nel tentativo di manifesta-re latenze, desideri e illusioni.

Tra le sue opere più note ricordiamo gli interventi di conservazione e riuso dell’Abbazia di Fontanella di Sotto il Monte - Giovanni XXIII (2001) e del Castello di Solza (2005), con Roberto Facchetti, e, con Attilio Stocchi, la riqualificazione di Piazza Codussi (2000), Piazza Libertà a Spirano (2002) e Piazza Castello a Castel Rozzone.

Nel 2012 per la riqualificazione a Parco dell’ex Area Teorema a Lumezzane ha ricevuto, con Attilio Stocchi, la Menzione d’Onore del Premio Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana.

Francesca Chiorino

Ringrazio Gualtiero Oberti, al quale chiedo di rimanere al tavolo con noi.Passiamo subito alla Tavola rotonda, che sarà moderata da Marco Mulazzani.

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Seconda Sessione

TAVOLA ROTONDA

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ModeraMarco MulazzaniUniversità degli Studi di Ferrara; “Casabella”

Sono molto contento dei lavori che hanno presentato i nostri amici e del contribu-to da loro portato al Convegno. Quest’anno le esperienze sono molto diverse – una scelta fatta consapevolmente –, però mi sembra che si possano estrarre da queste diverse esperienze temi comuni e alcune questioni su cui vi chiedo, in questa Tavola rotonda, un giro di opinioni.

Mi sembra innanzitutto che i diversi progetti evidenzino un approccio importan-te: l’attenzione e la capacità di lettura dei problemi su scala ampia, non limitandosi alla realizzazione di uno o più “oggetti”. Mi sembra che a questo approccio comune si possano aggiungere altre due questioni complementari ma non secondarie, sulle quali vorrei le vostre considerazioni.

Prima questione: la collocazione geografica dell’opera. Francesca Chiorino ha osservato che le province autonome “la fanno da padrone”, e ciò è vero per due dei casi presentati. La domanda dunque, per i progetti nel Trentino e in Alto Adige, è: in che modo l’autonomia della provincia e la conseguente possibilità di intervenire sul sistema di norme e di vincoli possono veramente favorire il progetto. La dimostra-zione, al contrario, sembra essere il vincolo posto, in una condizione non autonoma, su uno scarico fognario, che Gualtiero Oberti ha dovuto subire e assorbire. Nessuno riuscirà a convincermi che un segno storico di quel paesaggio sia lo scolmatore che Oberti ha dovuto conservare solo perché la Sovraintendenza lo ha imposto. Una cosa del genere, immagino, non esiste laddove c’è un’autonomia della Sovrintendenza invece di un automatismo nell’applicazione di vincoli.

Seconda questione: la partecipazione di – e la negoziazione tra – diversi attori al progetto. Tra questi è certamente importante il committente, sia pubblico sia privato; gli utenti; i tecnici tra i quali l’architetto, figura, mi sembra, potenzialmente impor-tantissima in progetti come quelli presentati oggi, per la sua capacità di diventare “protagonista” tra i diversi attori.

Entrambe questioni che riguardano la metodologia da seguire nel progetto. A tal proposito mi ha colpito Marco Fiou quando ha detto, a proposito della passerella di Pré-Saint-Didier, che si parte da un progetto, ma poi bisogna fare le verifiche di cal-colo perché il progetto non sta in piedi. E l’osservazione opposta di Matteo Scagnol, secondo il quale spesso gli architetti devono sistemare i progetti degli ingegneri. Invece la realtà, che tutti hanno riconosciuto, è che sin dall’inizio del progetto, quale che sia la scala, quale che sia la visione, bisogna cominciare assieme.

Su tali questioni chiedo le vostre considerazioni.

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Johann Obermoser

Un’architettura coerente lavora con i fattori esistenti ed acquista un senso nel contesto nel quale è situata.

Un’architettura degna d’interesse si viene a creare ogni volta che ci si spinga al limite di utilizzo delle risorse a disposizione.

La sfida più grande per gli architetti consiste nella creazione di un’architettura semplice e funzionale.

Parte integrante del processo di pianificazione è il gruppo progettuale composto da architetti, ingegneri civili, ingegneri di fisica edile e di consulenza tecnica, insie-me a tanti altri.

Attualmente in Austria, e più specificatamente nel Nord Tirolo, la situazione è tale per cui, dopo aver vinto un concorso, l’architetto perde progressivamente la sua influenza.

La funzione del progettista viene sostanzialmente impiegata per ottenere una den-sità urbanistica maggiore a quella disponibile e per snellire la gestione di processi burocratici di appalto.

Se il progetto poi decolla all’architetto si fa capire che le sue alte aspirazioni pro-gettuali sono solo causa di spese supplementari e di sforzi superflui.

Per questa ragione sempre più imprenditori e periti edili assumono la gestione dei progetti, semplificando però le idee progettuali originali a tal punto da alienare irreparabilmente l’idea originaria.

Più complesso è un progetto e più gli aspetti commerciali spingono a limitare l’architetto nel suo processo creativo a vantaggio di soluzioni banali.

Per fortuna fino ad ora i progetti a piccola scala sono un altro capitolo, per man-tenere un livello qualitativo è però essenziale che l’architetto sia coinvolto fino al termine della fase progettuale e ne possa curare ogni dettaglio.

Matteo Scagnol

Relativamente alla questione posta sulla libertà d’azione per chi opera in regioni autonome non credo che sia dovuto solamente all’autonomia. Le opere infrastruttu-rali sono decisioni prettamente politiche, e le visioni politiche possono essere pre-senti sia nelle ragioni autonome che in quelle a statuto ordinario. I nostri interventi nascono principalmente da un indirizzo politico, nel senso che c’è una volontà molto chiara, sia dell’azienda municipalizzata, sia della provincia, di non incorrere in uno scontro con la cittadinanza, consapevoli che le infrastrutture più di ogni altra opera hanno un forte impatto, sia di immagine che sociale. La centrale di teleriscaldamento poteva essere il semplice scatolone prefabbricato, o le cisterne potevano rimanere dei bei soldatini con l’isolazione in vista. Si è capito che se avessero fatto questo tipo di operazione, avrebbero avuto addosso tutta la popolazione, quindi si sono posti il pro-blema di chiamare un architetto che potesse risolvere con delicatezza tale compito.

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Anche in termini economici la questione non è determinate, visto che gli interventi da noi sostenuti sono costati solo il 4% in più di quello previsto, ma è una questione legata prettamente ad un atteggiamento di volontà politica che forse nelle regioni autonome, per orgoglio, viene portato avanti con forza e coraggio.

Sul secondo punto posto, ovvero la negoziazione nella procedura progettuale tra architetto e ingegnere, credo che la questione sia da spostare sul problema di fondo che l’infrastruttura è ormai considerata una questione di standardizzazione. Si è or-mai assunto che le questioni ingegneristiche, infrastrutturali, statiche, hanno a che fare solamente con la standardizzazione. Mi chiedo, come mai la classe degli inge-gneri (lo dico senza voler offendere nessuno) ha perso quella grandissima capacità che aveva fino agli anni ‘50 e ‘60 di rendere unico qualsiasi cavalcavia o ponte, di rendere unico qualsiasi elemento infrastrutturale? Questo ritorno al fascino dell’ope-ra unica, dove il segno non solo formale, ma soprattutto dell’esecutore è forte accade ora nel design, l’artigianato viene rivalutato come valore aggiunto, contro il sistema seriale di produzione. Bene l’etica del lavoro è anche questo, donare la possibilità che questo sforzo immenso sia unico e anche nelle opere infrastrutturali lasciare il segno della mano dell’uomo.

Infine, vorrei aggiungere un’ultima considerazione a fronte di quanto presentato questa mattina. Sono molto critico sull’uso e abuso del termine “paesaggio”, molte volte preso come condizione ideale e idilliaca, la condizione di perfezione assoluta alla quale l’uomo deve tendere perché se n’è troppo distanziato compromettendolo. Io credo invece che nei nostri luoghi il paesaggio è l’infrastruttura. Quest’ossimoro è la relazione fortissima tra l’uomo e la natura, tra razionale e irrazionale; l’equilibrio tra oggetto e paesaggio. Tale equilibrio deve essere il punto fondamentale dell’agire; quando ho visto la passerella di Pré-Saint-Didier, che ha richiesto uno sforzo iper-bolico per essere retta, mi sono chiesto: perché fare questo sforzo disumano e anche impattante per solo guardare giù e su? A volte l’infrastruttura _ paesaggio è così forte da non richiedere altro da noi.

Marco Mulazzani

Matteo Scagnol ha parlato del paesaggio come infrastruttura e una definizione analoga è stata data da Loredana Ponticelli e Cesare Micheletti; a me sembra appro-priato chiamare il paesaggio infrastruttura e indicare l’intervento che noi facciamo, utilizzando la definizione degli ingegneri di una volta, come opera d’arte al servi-zio dell’infrastruttura. In tal modo mi pare si ricompongono sia il problema di un manufatto collocato in un determinato luogo sia l’intervento di un’infrastruttura di movimento veloce come una strada di circonvallazione.

Che cosa ne pensano Ponticelli e Micheletti?

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Cesare Micheletti

È esattamente questo. Il nostro rovesciamento del punto di partenza non si basa sulla fiducia nel fatto che il paesaggio è qualcosa che in qualche modo “salva” e autoorganizza. Anzi, la questione è proprio la necessità di cogliere le relazioni che si instaurano fra gli “oggetti” che compongono il paesaggio, il quale ha delle regole, ha un metodo, ha degli elementi che possono essere collegati fra loro; relazioni che possono e devono essere costruite, che non sono date per scontate, che cioè non esi-stono a prescindere. Tutte queste relazioni sono relazioni costruite.

Noi vi abbiamo mostrato come un lago alimenta una torbiera, ma sia il lago che la torbiera sono di formazione relativamente recente: il lago è un’”invenzione”, nel senso che esisteva un avvallamento che in primavera si riempiva d’acqua. Uno dei primi “villeggianti”del passo ha sbarrato lo sfioro trasformando la buca in un lago, realizzando qualcosa che avrebbe attirato in maniera più evidente l’attenzione del turista. Questo primo intervento ha generato una serie di effetti direttamente voluti (maggiore amenità, costruzione di un “topos” turistico), ma anche involontari (inse-diamento di una specie endemica, maggiore interdipendenza ecologica).

Quindi il ragionamento che noi facciamo è esattamente questo: le azioni con cui cerchiamo di ricucire delle relazioni poi portano alla costruzione, in maniera autono-ma e indipendente da quella che è la nostra volontà, di una serie di ulteriori elementi, provocando effetti a cascata. Il problema che noi ci poniamo continuamente è quello di essere consapevoli delle ricadute che certi interventi generano, senza sottovalutare il tema della forma che questi interventi devono avere, ma soprattutto stando attenti che questi interventi abbiano una valenza sistemica e che non si risolvano semplice-mente con una prova di forza o un esercizio di decoro. Da questo punto di vista, il ruolo di sintesi fra attività di ingegnerizzazione, più che di standardizzazione del pro-getto, e attività di organizzazione del progetto stesso, intesa in senso ampio, diventa centrale. Così si recupera non solo la centralità dell’architetto o dell’architettura, ma soprattutto la centralità del progetto. Questa è la parte essenziale. Dopo di che, ci si deve chiedere quanto conti l’autonomia del progetto, cioè quanto conti la possibilità di modificare le condizioni di contorno.

Sarà forse per mia formazione/deformazione, ma io ritengo che i nostri progetti siano come delle funzioni che variano a seconda delle condizioni al contorno. Molto spesso il contorno che abbiamo è dato e non possiamo modificarlo, altre volte sì. La questione è che le modifiche che vengono imposte agiscono sul progetto che verrà realizzato e viceversa. Certe modifiche non sono sotto il nostro controllo e allora interviene la capacità del progetto di trasformare condizioni che sono vincolistiche.

Il fatto di dovere mantenere lo scolmatore fognario, il fatto di avere un vincolo di inedificabilità intorno al lago per una larghezza di cento metri implicano di conse-guenza l’apparente impossibilità di intervenire.

È in questo senso che si evidenzia il ruolo e la forza che il progetto può avere nel-la modifica dei vincoli al contorno, anche quando questi sono di carattere normativo.

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Gualtiero Oberti

La mia riflessione esula dalle precedenti, in quanto gli interventi che abbiamo presentato, le passerelle e la piattaforma del Parco del Gigante di Luzzana e la passerella e la scala di Vaprio, sono piccole architetture puntuali che svolgono una sola e precisa funzione e che, mediante il linguaggio uniformante della matema-tica, cercano di tessere un dialogo con il paesaggio: un approccio profondamente umano nei confronti di una natura comunque trionfante. È ovvio che i vincoli esterni che informano il progetto sono numerosi e multiformi. Un vincolo può essere di carattere economico – legato alla disponibilità finanziaria dell’ente che promuove l’opera –, può essere politico – legato cioè ad una percezione politica, appunto, della funzione pubblica e che definisce a monte la natura dell’opera da realizzare –, può essere di carattere paesaggistico, pertanto definito nel dettaglio da un funzionario che spesso non ha sensibilità né dispone di pratica progettuale, e che sposa una disciplina mentale che nasce da una malintesa pratica di tutela che impedisce di vedere in uno scolmatore fognario (come nel caso di Vaprio), per il solo fatto che ha più di mezzo secolo di vita, un elemento cui si può rinunciare superando una distorta concezione di positivismo storicistico per cui tutto ciò che esiste vale in quanto esistente.

Al contrario, non percepisco come un elemento limitante i vincoli tecnici e dimensionali, in quanto il mio lavoro, al di là di quanto presentato oggi, ha spesso affrontato interventi di riqualificazione di architetture e di spazi aperti esistenti che, nella consapevolezza della necessità di creare un dialogo tra conservazione e innovazione, hanno richiesto interventi minimi e fortemente caratterizzanti. Quan-do lavori al restauro di un castello, hai pochissimi oggetti da progettare ex-novo e quegli oggetti possono diventare delle piccole architetture in se stesse concluse che rispondono solo ad un’idea di progetto unitaria e legante. Quando si interviene su una piazza, la parte strutturale e il contributo ingegneristico sono minimali. Devo dire che nel caso di Luzzana abbiamo avuto la fortuna di rapportarci con un sin-daco architetto che ha condiviso le finalità del progetto fin dall’inizio lasciandoci un’ampia libertà espressiva. Bisogna anche dire che la nostra tanto vituperata nor-mativa sui lavori pubblici prevede che all’interno del gruppo di progettazione sia l’architetto a doversi far carico delle attività di supervisione e di coordinamento. Per partecipare ai bandi di progettazione, viene, infatti, favorita la formazione di gruppi omogenei nei quali siano presenti lo strutturista, l’impiantista, il geologo e, soprattutto, l’architetto progettista. Quindi, l’auspicato lavoro di gruppo a cui si accennava è ormai insito, se vogliamo trovare un aspetto positivo, nella normativa nazionale, perché oggi si parte in gruppo e si arriva in gruppo, con il vantaggio che l’intervento vede generalmente la presenza di un coordinatore architetto, mai il contrario. Non mi è mai successo di dover intervenire a posteriori o successiva-mente alla realizzazione di un’opera per sistemare o abbellire: piuttosto, e per mia fortuna, mi è sempre accaduto il contrario.

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Marco Mulazzani

Come si ricordava nella presentazione di ieri pomeriggio, è l’architetto che nel ‘900 prende il posto dell’ingegnere nella lettura dell’infrastruttura

Loredana Ponticelli

In genere, in un’autonomia amministrativa locale, il decisore politico esercita un discreto potere e quindi questa opportunità può essere utilizzata in qualsiasi in-tervento, in qualsiasi opera, in qualsiasi progetto. Per quanto mi riguarda, il fatto di lavorare a fianco dell’amministratore o del politico e di aiutarlo a prendere una de-cisione (perché sostanzialmente è così) ha cambiato completamente il mio punto di vista, nel mio ruolo di progettista. In questo senso, la condivisione e la negoziazione che si instaurano con le parti sociali diventano fondamentali, laddove – di fronte a un progetto territoriale importante – si sa che il pericolo più grande è che il tutto riman-ga solo un sogno sulla carta e non si realizzi, per quanto la pianificazione urbanistica sia ben fatta.

Quindi ci sono due aspetti: da un lato, bisogna fare in modo che le scelte poi si concretizzino, dall’altro bisogna trovare le risorse perché i vari interventi poi vedano effettivamente la luce.

In questo senso: il progetto è un aiuto a prendere una decisione e quindi il ruolo del progettista diventa anche molto più importante, molto più interessante ed efficace sia a livello di produzione di “nuovi” territori per sentirsi parte di un progetto che va oltre noi stessi e che viene fatto “proprio” della comunità. Questa è la soddisfazione più grande, per quanto mi riguarda.

Marco Mulazzani

Era proprio questo che intendevo dire introducendo i temi della collocazione ge-ografica del progetto e del ruolo dell’architetto, in termini di capacità di negoziare e coinvolgere i diversi attori.

A proposito di “coinvolgimento” e di “comunità” chiedo se vi sono domande o considerazioni da parte del pubblico presente.

Sandro Sapia

Io volevo sottolineare il problema della standardizzazione, del progetto e del ri-scontro all’ingegnerizzazione...

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Matteo Scagnol

Sul discorso della standardizzazione posso solo ribadire che è una problema-tica fondamentale in Italia, ma più che a livello progettuale lo è nel campo della produzione di elementi finiti o semilavorati nell’edilizia e in particolare per quello che concerne le opere infrastrutturali. Le aziende produttrici dovrebbero investire di più sia nella ricerca della qualità sia in soluzioni di alto livello estetico. Questo l’ho riscontrato anche nel campo delle costruzioni di legno: se si riesce a stimolare un’azienda a ripensare la sua produzione e le soluzioni tecniche, questa riesce ad ampliare incredibilmente lo spettro qualitativo.

Parlando di paesaggio, mi pare che si debba essere molto precisi nell’uso che si fa, perché la parola “paesaggio” si può riferire al paesaggio del Palladio come al paesaggio montano, o a quello agricolo. Il paesaggio è divenuto un termine utiliz-zato come fosse un gran pentolone nel quale possiamo buttarci dentro di tutto e che confonde i termini della questione posta. Come detto il paesaggio è l’infrastruttura, soprattutto nelle aree fortemente antropizzate, il più delle volte compromesse.

Marco Mulazzani

L’esempio che Loredana Ponticelli e Cesare Micheletti hanno portato è proprio quello di un paesaggio che aveva e ha tuttora delle parti incontaminate. Non vedo il rischio di ingenerare confusione considerando il paesaggio come l’infrastruttura su cui intervenire attraverso delle opere d’arte e di servizio; così facendo si suggerisce una visione, un modo di guardare le cose, una chiave di lettura che va sostanziata attraverso tutti gli strumenti dell’indagine e del progetto.

Loredana Ponticelli

Si tratta di una provocazione. Di solito il tema si pone in termini di infrastruttura nel paesaggio oppure di infrastruttura e paesaggio, come se fossero due termini di-stinti. Nel caso del Passo di Lavazé, si tratta proprio di un ribaltamento concettuale, vale a dire: il paesaggio è già un’infra-struttura. Ma ovviamente di definizioni del paesaggio ne possiamo dare a migliaia, ciascuno avrà la propria.

Quindi si tratta più di uno stimolo ad usare una certa chiave di lettura per affron-tare il tema progettuale anche da un altro punto di vista.

Marco Mulazzani

Vi propongo in queste considerazioni conclusive di “scendere di scala”. Oggi ab-biamo visto presentare manufatti e oggetti – solo nel caso di Ponticelli e Micheletti

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ancora allo stato di progetto, negli altri realizzati – caratterizzati da linguaggi e ma-teriali differenti, e con riferimenti a un immaginario figurativo diverso, dunque anche con una certa componente soggettiva. Mi ha colpito ad esempio, nella presentazione di Matteo Scagnol, il richiamo al comportamento della marmotta per fissare una regola: una scelta arbitraria però legata in qualche modo alla volontà di far emergere delle forme potenzialmente latenti nel carattere del luogo, in questo caso infrastrut-turato, dove si deve intervenire.

Nel caso della passerella e del Parco del Gigante di Gualtiero Oberti il progetto si è sviluppato su concetti più astratti, però sempre muovendo da una suggestione proveniente dal luogo. Nelle stazioni di Johann Obermoser troviamo un linguaggio completamente diverso, altri materiali e soluzioni – penso ad esempio all’utilizzo della plastica, della pellicola leggerissima per rivestire la massa della stazione e farla “scomparire” nel paesaggio. Insomma, abbiamo potuto apprezzare costruzioni nel paesaggio il cui fondamento non è quello della mimesi o del nascondimento e nep-pure dell’utilizzo di questo o quel materiale – il vituperato cemento armato, che invece è stato utilizzato. I manufatti che abbiamo visto sono però l’esito di un rigo-roso processo progettuale e, poi, di una grande qualità costruttiva ed esecutiva. Forse è su questa considerazione che possiamo chiudere l’incontro di oggi, ovvero sulla necessaria qualità delle opere che si realizzano nel territorio e che vanno a definire il paesaggio che percepiamo.

Ringrazio tutti i partecipanti, la Fondazione Courmayeur che ci ha ospitato e tutti coloro che sono intervenuti. Vi attendiamo al prossimo appuntamento del 2014, quando presenteremo la strada del Passo del Rombo, le opere d’arte e di servizio e le architetture realizzate per questa infrastruttura paesaggistica da Werner Tscholl.

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Incontro

WERNER TSCHOLL. ATTRAVERSARE LE MONTAGNE

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Aosta, Sala conferenze, Biblioteca regionale

via Torre del Lebbroso, 2

Giovedì 20 marzo 2014, ore 18.00

Ordine degli Architetti

Pianificatori, Paesaggisti

e Conservatori della Regione Autonoma

Valle d’Aosta

Ordre des Architectes

Aménagistes, Paysagistes

et Conservateurs

de la Région Autonome

Vallée d’Aoste

INCONTRO

Werner Tscholl. Attraversare le montagne

PROGRAMMAAosta, Sala conferenze, Biblioteca regionaleGiovedì 20 marzo 2014, ore 18.00Saluti• Lodovico Passerin d’entrèves, presidente del Comitato scientifico della Fondazione

Courmayeur Mont Blanc• sergio togni, presidente dell’Ordine Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

della Valle d’Aosta• aureLio Marguerettaz, assessore Turismo, Sport, Commercio e Trasporti della Regione

Autonoma Valle d’Aosta

Il progetto di riqualificazione della strada del Passo Rombo-Timmelsjoch, Alto Adige-Tirolo• Marco MuLazzani, Università degli Studi di Ferrara; “Casabella”• Werner tschoLL, architetto

Segreterie scientifiche e organizzativeFondazione Courmayeur Mont BlancVia dei Bagni, 15 – 11013 Courmayeur Mont Blanc, Valle d’Aosta

Tel. +39/0165 846 498 – Fax +39/0165 845 919

E-mail: [email protected] – www.fondazionecourmayeur.itOrdine Architetti, Pianificatori, Paesaggisti

e Conservatori della Valle d’AostaVia Frutaz, 1 – 11100 Aosta – Tel. +39/0165 261 987

E-mail: [email protected] – www.ordinearchitettivda.org

L’evento è stato accreditato ai fini della formazione professionale continua degli architetti: 3 crediti formativi

(in attesa di conferma dal C.N.A.P.P.C.), a fronte della partecipazione completa all’evento.

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SALUTI

Introduce e moderaBeppe Nebbiapresidente dell’Osservatorio sul sistema montagna “Laurent Ferretti” della Fondazione Courmayeur Mont Blanc

Autorità, Signore e Signori,sono lieto di dare il benvenuto, a nome del Consiglio di Amministrazione e del

Comitato Scientifico della Fondazione Courmayeur Mont Blanc, ai partecipanti all’Incontro Vivere le Alpi - Werner Tscholl. Attraversare le montagne.

Porto i saluti del dottor Passerin d’Entrèves, presidente del Comitato scientifico, il quale, per sopraggiunti ed improrogabili impegni, non può essere oggi presente.

L’Iniziativa odierna, che apre le attività della Fondazione per l’anno 2014, si in-serisce nel fortunato programma pluriennale di ricerca Architettura moderna alpina, avviato nel 1999 con la Conferenza dibattito su Architettura nel paesaggio, risorsa per il turismo. Numerosi i temi affrontati nel corso degli anni, con il coinvolgimen-to di architetti, accademici e rappresentanti di enti e associazioni provenienti dal-le diverse regioni alpine. Ricordo, inoltre, l’accordo di collaborazione siglato con l’Ordine degli architetti di Aosta, sottoscritto nel 2008 e confermato negli anni, per l’organizzazione congiunta di iniziative nell’ambito di tale programma pluriennale di ricerca. Segnalo che, ad oggi, la collana Quaderni della Fondazione conta la pub-blicazione di ben 14 volumi riguardanti l’architettura.

Il Comitato scientifico della Fondazione ha discusso in questi ultimi anni la stra-tegia attinente allo sviluppo del programma pluriennale di ricerca Architettura mo-derna alpina. È emersa, in particolare, la volontà di meglio articolare, con un impe-gno pluriennale, i contenuti della programmazione.

Alla luce di quanto discusso e deliberato, anche in sede di Consiglio di Ammini-strazione, ha preso avvio, nell’ottobre 2012, il progetto triennale Vivere le Alpi, con l’obiettivo di svolgere una riflessione organica sulle relazioni tra architettura, comu-nità e ambiente su tre specifici argomenti: Lavorare, Muoversi e Vivere nelle Alpi.

Nello specifico, il primo ciclo di attività, relativo a Lavorare, è stato sviluppato con il Convegno Vivere le Alpi - Architettura e Agricoltura, tenutosi il 13 ottobre 2012, e con l’Incontro Vivere le Alpi - Architetture e paesaggi del vino, svoltosi il 12 aprile 2013. Nell’ottobre 2013 ha preso avvio il secondo ciclo di attività, relativo al tema del Muoversi con l’Incontro L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi ed il Convegno Vivere le Alpi - Infrastrutture nel territorio.

L’Incontro odierno costituisce un ulteriore approfondimento del tema del Muo-versi, mediante la presentazione del progetto di riqualificazione della strada del Pas-so Rombo (Timmelsjoch), tra Hochgurgl (Tirolo, Austria) e Moso in Val Passiria (Alto Adige, Italia) a cura dell’architetto Werner Tscholl.

Ricordo che l’Iniziativa odierna è stata accreditata dall’Ordine Architetti ai fini

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della formazione professionale continua, saluto i numerosi colleghi presenti in sala. Sono numerose le iniziative promosse dalla Fondazione accreditate dagli ordini pro-fessionali (architetti, geometri, avvocati, commercialisti) ed è costante il contatto con tali professionisti.

Segnalo sin d’ora che nell’autunno 2014 prenderà, poi, avvio il terzo ciclo di attività, concernente il tema dell’Abitare. Stiamo già lavorando, in collaborazione con l’Ordine architetti e con i supervisori scientifici Marco Mulazzani e Francesca Chiorino, all’organizzazione scientifica di tale iniziativa.

Ringrazio l’Ordine degli architetti, il professor Marco Mulazzani e l’architetto Francesca Chiorino per la fattiva collaborazione nell’organizzazione dell’Incontro odierno e passo la parola al Presidente Togni.

Sergio Tognipresidente dell’Ordine Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Valle d’Aosta

Ringrazio tutte le persone che sono qui oggi, tra le quali molti colleghi. Ringrazio le Autorità presenti, Assessori, Sindaci, il Comandante dei Carabinieri, le Autorità militari.

Nell’ambito della formazione continua permanente, abbiamo creato questa col-laborazione con la Fondazione Courmayeur in uno spirito a cui l’Ordine non si deve sottrarre: lo spirito di promozione della cultura.

In Valle d’Aosta non vi sono particolari associazioni che si occupino di diffonde-re la cultura dell’architettura alpina contemporanea e della cultura architettonica in generale e quindi questo è un preciso dovere dell’Ordine, che l’Ordine si è assunto con una Commissione Cultura a cui partecipano tanti colleghi, una Commissione che ha molto successo, che lavora parecchio e che dimostra come effettivamente tutti noi, fin dal giorno della nostra laurea, non ci siamo dimenticati di un principio essenziale che abbiamo imparato sui banchi di studio e nelle aule universitarie: l’amore per l’architettura.

L’amore per l’architettura io ritengo che ci porti anche ad avere un preciso senso di responsabilità, sia quando progettiamo, sia quando ci occupiamo di enti come l’Ordine degli architetti.

È quindi con piacere e con grande senso di responsabilità che noi portiamo avanti iniziative in collaborazione con la Fondazione Courmayeur. Io vorrei sottolineare proprio questo aspetto: dobbiamo veramente credere che quanto stiamo facendo con la Fondazione Courmayeur non è una serie di eventi casuali, cioè di eventi occasio-nali di convegno per la presentazione di un progetto, ma è qualcosa che si inserisce in un processo culturale più profondo.

I Quaderni che vengono prodotti dalla Fondazione sono sui tavoli di molti degli architetti che operano in ambito alpino e sicuramente su tutti i tavoli di coloro i quali stanno studiando l’evoluzione dell’architettura contemporanea alpina. È chiaro che questa collaborazione ad alti livelli che abbiamo impostato con il professor Mulaz-

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zani e l’architetto Chiorino (che, ricordo, sono caporedattori per Mondadori-Electa della rivista Casabella) è una collaborazione preziosissima, è una collaborazione quasi unica anche nel contesto degli Ordini alpini, tant’è che proprio con questo sforzo che stiamo facendo, credendo nella missione culturale che ha l’Ordine, sotto la cornice del grande evento che si è svolto la scorsa settimana a Padova con l’inau-gurazione della mostra retrospettiva su Renzo Piano, abbiamo siglato un accordo con altri cinque Ordini con territorio interamente alpino. Questo accordo è stato promos-so dal nostro Ordine e ha trovato immediatamente accoglienza proprio per la credibi-lità che l’Ordine (anche prima che io ne fossi il Presidente, ovviamente) ha costruito in questi anni; credibilità a cui ha dato un fattivo aiuto la Fondazione Courmayeur.

Vorrei quindi dire a tutti voi che anche in un momento come l’attuale in cui ef-fettivamente c’è poco lavoro, in cui si lotta per i bandi e per avere delle regole certe, l’orgoglio di essere architetti e comunque di essere i promotori sul posto, nella no-stra regione, della cultura dell’architettura, è un orgoglio che dobbiamo sempre ben conservare e che noi abbiamo sempre ben presente anche come Consiglio Direttivo.

L’argomento che andiamo a trattare riguarda le infrastrutture. Le infrastrutture vengono dimenticate un po’ da tutti, tant’è che molto spesso non sono coerenti con il paesaggio. Renzo Piano ha detto due cose molto interessanti, nella lectio magistralis che ha tenuto a Padova. Uno: che non riesce a capire bene, nonostante abbia più di settant’anni di vita, quale sia la differenza tra ingegnere e architetto, perché effettiva-mente una persona come Piano che progetta in una maniera molto tecnologica vive la progettazione molto al confine. Questa differenza tra ingegnere e architetto anche nelle infrastrutture alpine dovrebbe un po’ fondersi, nel senso che le infrastrutture, anche le strade, i ponti, necessitano di una pluralità di competenze, cioè ci vuole veramente uno sforzo importante da parte di tutti affinché queste infrastrutture si inseriscano in maniera coerente nel territorio. Infatti, un altro elemento ha segnato la conferenza che Piano ha tenuto: la coerenza di fondo. Sia quando si progetta un’an-tenna, sia quando si progetta una diga, sia quando si progetta una strada, una casa o qualcosa di più vicino a noi come un albergo, un centro congressi, un’abitazione, ecc., bisogna avere una coerenza di fondo, una coerenza che è importante coltivare anche attraverso momenti formativi come questo.

Non vi tedio ulteriormente e lascio la parola all’Assessore Marguerettaz.Grazie.

Beppe Nebbia

Prima di dare la parola all’Assessore, vorrei ricordare che la Fondazione Courma-yeur e l’Ordine degli architetti hanno in opera uno studio per ampliare le competenze e le attività da compiere assieme. Questo sarà tanto più possibile quanto più ci sa-ranno quelle disponibilità finanziarie (questo è il tasto dolente) che sappiamo essere difficilmente reperibili. Quindi, augurandomi che sia possibile questo ampliamento di attività, passo la parola all’Assessore Marguerettaz.

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Aurelio Marguerettazassessore Turismo, Sport, Commercio e Trasporti della Regione Autonoma Valle d’Aosta

Ringrazio la Fondazione Courmayeur e l’Ordine degli architetti per aver voluto invitarmi. Porto il saluto del Presidente della Regione e di tutto il Consiglio regionale.

Mi scuso per il ritardo, che però mi permette di fare due considerazioni che vo-glio condividere con voi, perché sono stato bloccato in una trattativa estenuante con i sindacati che rappresentano il mondo del trasporto, tema che un po’ si collega con il nostro argomento. Ovviamente lì parliamo non tanto di infrastrutture quanto di servizi pubblici e di risorse che sono sempre più ristrette. Anche in questo ambito bisogna prendere delle decisioni molto importanti, perché, o mettiamo i pullman e i servizi laddove ci sono le persone e quindi dimentichiamo tutta una serie di terri-tori marginali perché abbiamo delle utenze che sono decisamente modeste, oppure facciamo una gestione oculata che ci porta a dare un servizio minimo che consenta ai territori di non essere abbandonati. Questo per dire che vanno cercati dei compro-messi e che le strade in montagna hanno un significato se interveniamo su di esse in maniera oculata.

Anche proprio per corrispondere al mio vissuto professionale, quello del com-mercialista, vorrei dire che quando parliamo di investimenti e di infrastrutture non facciamo un discorso di cassa, facciamo un discorso di medio e lungo termine, quin-di dobbiamo dimostrare che gli investimenti che facciamo hanno dei ritorni nel tem-po. Questa è la scommessa anche degli architetti: fare le cose in un determinato modo può generare un valore aggiunto. Ed è proprio su questo tema che dobbiamo convincere il nostro interlocutore: fare un investimento in un certo modo, affinché questo investimento sia capace di produrre nel tempo un ritorno. Realizzare una stra-da in un certo modo (e oggi sentiremo quello che è stato fatto) genererà negli anni a venire un ritorno: passiamo da un concetto, anche banalizzato, di spesa a quello di investimento. E questo vale per qualsiasi argomento.

Ieri abbiamo festeggiato il cinquantesimo del Traforo del Gran San Bernardo, ma il giorno precedente abbiamo avuto una riunione su un argomento che attiene alla sfera turistica. Abbiamo discusso del ruolo che la nostra Regione può avere nel campo del turismo congressuale, avendo intercettato dei fondi nazionali nell’ambito di un progetto in cui la Regione capofila è la Toscana. Certo promuovere dei congres-si è sicuramente positivo, ma l’attività congressuale è molto specifica, è quasi una scienza esatta, perché bisogna avere delle culture e delle professionalità convergenti. Nel giro di ventiquattro, quarantotto ore, bisogna definire un programma che preveda tutta una serie di servizi. Rispetto a questo tema, però, con esperti del settore a livello nazionale siamo arrivati alla conclusione, abbastanza prevedibile, che, se abbiamo la speranza di avere un futuro nel turismo congressuale, è per ciò che vediamo fuori dalla finestra e dietro la finestra.

Infatti, non saranno le sale, non sarà la tecnologia, non sarà neanche, da un certo punto di vista, un collegamento trasportistico efficace ed efficiente che farà la dif-

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ferenza. La periferia di Milano dispone di trasporti efficientissimi, sale, tecnologie, banda larga, eppure non si fanno lì i congressi. Perché questo? Che cosa si cerca? L’esperto ha definito la nostra realtà “inconsueta”, nell’accezione positiva del ter-mine, nel senso cioè che la considera un punto di forza. Ovviamente, però, bisogna stressare questo concetto realizzando iniziative che gli altri non si aspettano.

Da un lato, abbiamo una natura straordinaria, che rappresenta un punto di forza (il Monte Bianco, il Cervino, il Gran Paradiso, il Monte Rosa) che altri non hanno, ma anche le infrastrutture e le iniziative che facciamo devono avere dei tratti di ori-ginalità che possano essere motivo di sviluppo. Rispetto a questo, io sono sempre molto attento, ma (ed è stato detto molto bene nella presentazione) il ragionamento non è semplicemente estetico; paradossalmente, dobbiamo fare dei discorsi molto meno nobili e molto più pratici, più riconducibili a teorie economiche. Dobbiamo far capire che l’originalità ha in sé anche un valore economico e offre la possibilità di sperare nel futuro. In Consiglio regionale è un continuo cahier de doléances: ci vogliono più risorse per la sanità, per l’agricoltura, per la cultura…, la richiesta è infinita. Ma ciò che veramente potrà fare la differenza per convincere gli altri sarà investire in questo settore perché questo settore, se non ci farà uscire dalla crisi, ci farà avere delle speranze.

Io sono molto contento perché la Fondazione Courmayeur e l’Ordine degli ar-chitetti nella precedente riunione hanno raccolto il mio invito per il progetto “Bassa Via”, che noi abbiamo inserito nella programmazione europea 2014/2020. Abbiamo fatto un ragionamento trasversale, perché non si tratta solo di turismo, si tratta di cultura, di ambiente... E qui desidero veramente ringraziare l’Ordine degli architetti per la disponibilità.

Quindi, se oggi (e ringrazio per la loro presenza gli autorevoli relatori), nell’am-bito della presentazione del progetto di riqualificazione del Passo Rombo, emerge-ranno suggestioni che potranno esserci utili, sarà veramente un grande piacere.

Vi auguro un buon seminario.

Beppe Nebbia

Ringrazio l’Assessore Aurelio Marguerettaz per i suoi suggerimenti ed i suoi stimoli.Chiedo a Marco Mulazzani e a Werner Tscholl di venire a illustrare il lavoro che

è stato preparato.

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IL PROGETTO DI RIQUALIFICAZIONE DELLA STRADA DEL PASSO ROMBO-TIMMELSJOCH, ALTO ADIGE-TIROLO

Marco MulazzaniUniversità degli studi di Ferrara, “Casabella”

Buona sera a tutti.Vorrei iniziare la mia presentazione dell’architetto Werner Tscholl raccogliendo

alcune considerazioni dell’Assessore Aurelio Marguerettaz.Quando abbiamo iniziato, due anni fa, la collaborazione con la Fondazione

Courmayeur e con l’Ordine degli architetti, abbiamo preso molto sul serio la speci-ficità della Valle – un luogo che allora non conoscevamo, ma che abbiamo un poco imparato a conoscere in questo periodo – e abbiamo scelto con cura i temi su cui im-perniare gli incontri ai quali voi avete partecipato (e, spero, parteciperete) tra quelli che ci sembravano importanti nella vita di questa Comunità. Di conseguenza, abbia-mo scelto con altrettanta cura gli architetti invitati di volta in volta a presentare il loro lavoro, cercando esempi rispondenti a quanto l’architettura ha sempre fatto per molti secoli: contribuire alla trasformazione, allo sviluppo e, attraverso queste azioni, alla conservazione del territorio.

Forse non dovrei essere io a dirlo, tuttavia degli incontri che si sono sin qui svolti sono soddisfatto. Io non costruisco architetture ma in un certo senso anch’io “proget-to”; e sono contento degli esiti di questo particolare progetto in cui sono stato coin-volto. Per questo ringrazio la Fondazione Courmayeur e l’Ordine degli architetti che hanno promosso e sostenuto questi convegni – un’iniziativa che noi, qui, rilanciamo, perché vogliamo andare avanti, vogliamo fare ancora di più e meglio; vogliamo, come diceva Beppe Nebbia collaborare ancora di più con le Amministrazioni per condividere il nostro progetto e svilupparlo ulteriormente.

Vi ricordo che il Convegno dello scorso ottobre 2013 aveva visto la partecipazione di quattro architetti che hanno lavorato sul tema delle infrastrutture, su scale diverse e in modi differenti, confrontandosi con la grande varietà di casi che nei diversi territori si presentano e ai quali è necessario rispondere. Per questo, a integrazione di quell’in-contro abbiamo pensato di invitare Werner Tscholl per presentare un’esperienza affat-to particolare: il rafforzamento del significato e dell’interpretazione di una strada – la strada del Passo Rombo – che ha una ricca storia di via di collegamento tra due regio-ni, tra territori diversi. Un’infrastruttura che è una realtà, le esistenti opere d’arte e di servizio della strada, ma che ha bisogno di essere più valorizzata – una problematica analoga, mi sembra, richiamata dall’Assessore Marguerettaz quando affermava che oggi non è sufficiente avere dei buoni servizi per convincere le persone a organizzare un convegno in un luogo piuttosto che in un altro: perché se il luogo è brutto, oppure se è uguale a qualsiasi altro, perché le persone dovrebbero andarci?

Werner Tscholl presenterà tra poco il progetto del Passo Rombo. Io vorrei in-trodurre il suo racconto con alcune considerazioni. Nel lavoro di Tscholl c’è una

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visione, per riprendere quello che diceva Sergio Togni, sostanzialmente unitaria. Con ciò non intendo una ricomposizione di figure professionali specifiche quali sono l’in-gegnere e l’architetto, bensì la visione unitaria di un intervento in cui è necessario dispiegare una serie di strumenti propri di diverse discipline. E una di queste disci-pline è l’architettura.

Anche se Tscholl qualche volta userà per i suoi progetti la definizione di “scultu-ra architettonica” (e su questo potremo poi discutere), per me lui ha fatto in questo caso una “architettura” che va intesa come la “punta di un iceberg” – ciò che si vede, ciò in cui si cristallizza il significato più profondo dei luoghi che la strada del Passo attraversa. I piccoli padiglioni che Werner chiama sculture io li chiamo “architettu-re parlanti”, nel senso che hanno una grandissima eloquenza e materializzano nei luoghi in cui sono stati realizzati il significato profondo del paesaggio che la strada attraversa; però questi padiglioni, queste architetture, sono solo la parte che emerge, che rende percepibile e visibile un lavoro che è frutto di lungimiranza, investimento, volontà di celebrare un’opera dell’uomo importante come una strada di passo. Un’o-perazione resa possibile dalla collaborazione di due entità amministrative che hanno fatto la scelta precisa di investire denaro in un’opera che celebra – in senso positivo, non vacuo – il lavoro di trasformazione e valorizzazione del territorio.

Concludo questa breve introduzione sottolineando l’importanza sempre più evi-dente del ruolo assolto dagli architetti e dagli ingegneri; è importante la competenza acquisita da queste figure professionali capaci di comporre in una sintesi i diversi specialismi che opere complesse come quelle che oggi si costruiscono richiedono; una competenza che sappia cogliere il senso profondo di un luogo. Il concetto di pa-esaggio, lo sappiamo, richiede la nostra partecipazione attiva di percettori e fruitori; al tempo stesso però alcuni luoghi hanno caratteri propri latenti – talvolta evidenti – e che devono essere colti e tradotti attraverso il lavoro dell’architetto e dell’ingegnere.

Werner Tscholl è un architetto fortunato perché opera in un luogo con una forte identità; ed è un architetto bravo perché sa approfittare di questa condizione. Tutto il suo lavoro – il progetto di un edificio o di una residenza unifamiliare, la rivitaliz-zazione di un edificio antico o la strada del Passo Rombo, con le sue “architetture parlanti” – dimostra una capacità di leggere i caratteri profondi di un luogo e di re-stituirli attraverso l’architettura.

Werner Tscholl*architetto

Buonasera a tutti. Ringrazio la Fondazione e l’Ordine.Mi devo scusare del mio italiano, come ho già fatto l’altra volta. Da allora non

è migliorato. Io sono di madrelingua tedesca, però spero di riuscire a presentarvi il lavoro che abbiamo fatto in modo che si possa capire le nostre intenzioni.

* Immagini 1-20, pagg. 209-226.

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L’avventura per la riqualificazione della strada alpina del Passo Rombo-Tim-melsjoch per noi è iniziata nel 2006 su iniziativa della Provincia Autonoma di Bol-zano. La Provincia Autonoma di Bolzano voleva chiedere un pedaggio su tutte le strade alpine e su tutti i passi del nostro territorio, quindi c’è stata una discussione politica su come realizzare questo scopo. Si può dire che finora la Provincia non è riuscita ad avere pedaggi sugli altri passi; forse il Passo Rombo era un caso speciale. Siccome la strada dal versante austriaco è una strada privata e c’era già un pedaggio, però solo fino al confine austriaco, si pensava fosse facile aumentare di qualche euro questo pedaggio; infatti, è stato aumentato di tre euro, poi assegnati alla Provincia Autonoma dall’ente di riscossione privato austriaco. Parliamo di bei soldi, 300.000, 350.000 euro all’anno, che si è deciso di spendere per la riqualificazione della strada.

E così è cominciata per noi l’avventura.La Provincia Autonoma di Bolzano ha chiesto a un ingegnere uno studio di fatti-

bilità per la strada, ma per fortuna noi in Alto Adige abbiamo all’Edilizia l’architetto March che da tempo si occupa della materia ed è lui, con i concorsi iniziati venti, trent’anni fa, a far sì che l’architettura in Alto Adige abbia un certo ruolo anche in ambito italiano. È stata sua l’idea di non prendere solo un ingegnere, il quale avreb-be speso solo per la sicurezza e per interventi di ampliamento e asfaltatura della strada, mentre, come ha detto anche l’Assessore, i soldi devono essere spesi come investimento per il futuro, perché si sa che tutti gli anni, essendo la strada una strada d’altura, c’è sempre qualcosa che crolla o l’asfalto che si rompe.

I soldi vanno spesi anche come investimento affinché la gente che la percorre possa avere qualcosa in più, al di là della sicurezza della strada.

Vi mostro alcune immagini di come abbiamo trovato il passo quando siamo arri-vati la prima volta.

La strada del Rombo è una strada che non si percorre spesso. Io c’ero stato una volta da bambino, quindi anche per me quello era un terreno sconosciuto, però devo dire che il luogo mi ha affascinato sin dal primo momento, quando ci sono andato per il mio lavoro, perché il paesaggio è spettacolare. Tutto è scultura: i ghiacciai, le cime delle montagne, i prati verdi. Dovunque si guarda, si resta incantati.

Vediamo delle immagini della strada con i suoi tornanti sia d’estate che d’inver-no. Il Passo Rombo è aperto da metà giugno a fine ottobre, dipende dal tempo, però noi abbiamo visto durante i lavori che anche d’estate può esserci la neve.

La strada si apre a giugno, con tantissima neve; quest’anno si aprirà anche più tardi perché c’è troppa neve. Anche i lavori di manutenzione da fare, quindi, ogni anno sono notevoli.

Siccome siamo stati invitati come architetti ad assistere l’ingegnere, insieme all’ingegnere abbiamo cercato di ragionare, sulla base dello studio di fattibilità, su come riqualificare la strada, ragionando all’inizio su quello che c’era. Abbiamo quin-di realizzato un catalogo di quello che c’era e di quello che si poteva ottenere, di quello che bisognava sostituire facendo delle valutazioni.

Si può dire che fin dall’inizio la strada è stata costruita bene. La strada è stata iniziata negli anni ‘50 e finita nel ‘59 (infatti nel 2009 se ne è festeggiato il cinquan-

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tenario). Tutto è sempre stato fatto con grande cura. Blocchi con fughe orizzontali fatte bene... A un certo punto, con il crollo dei muri, gli stessi sono stati sostituiti attraverso una serie di interventi che io non so chi può avere ordinato, ma noi abbia-mo trovato dappertutto blocchi ciclopici che non c’entravano nulla con la strada del Rombo, opere o anche muri con piastrelle appiccicate... E colori completamente sba-gliati, un blu che non c’entrava nulla con il paesaggio esistente. Quindi, era tempo di intervenire non solo come ingegneri, ma anche come architetti.

Logicamente c’erano anche rischi per la sicurezza.Abbiamo quindi realizzato un catalogo di quello che c’era.Anche i guard-rail erano un po’ in acciaio, un po’ in cemento, rotti e non rotti, alti

e non alti. Tutte le aggiunte che sono state fatte dopo il ‘59 sono state delle aggiunte sbagliate, non credo per mancanza di soldi, ma perché nessuno ci pensava. Ogni anno c’era qualcuno che faceva quello che voleva senza che nessuno intervenisse.

La Provincia ha pensato ad un catalogo in modo che ogni anno, quando c’è da ri-parare un muro, da rifare un guard-rail o da costruire un parcheggio, le ditte possono intervenire seguendo questo catalogo come fosse una specie di capitolato, perché le ditte cambiano, una volta vince una ditta, una volta vince l’altra, però il capitolato è sempre lo stesso e quindi chi interviene lo deve seguire.

I tunnel, in pratica, erano dei fori nella montagna dove in parte scendeva l’ac-qua, in parte c’era del cemento, in parte della roccia, senza illuminazione e senza marcature, quindi abbastanza pericolosi non solo per i motociclisti ma anche per le macchine. C’era tutto un insieme di aspetti negativi che caratterizzavano la strada.

Vediamo lo stesso Passo del Rombo con tutte le baracche. Siccome il confine non esiste più, sono rimaste le baracche, sono rimasti dei parcheggi selvaggi, senza alcun ordine. Quindi, una cosa abbastanza triste.

Non parliamo della segnaletica. Sembra proprio una selva.Logicamente c’erano degli interventi che bisognava fare in termini di sicurezza.

Alcune curve erano veramente troppo strette, tanto che i pullman non riuscivano neanche a passare, quindi andavano allargate. C’era da mettere in sicurezza la roccia.

Abbiamo quindi proposto un catalogo per tutti questi lavori da fare. Alcune rocce erano in condizioni abbastanza buone, altre stavano per crollare. Anche i muri in cemento fatti negli anni ‘60 e ‘70 stavano per crollare. Abbiamo fatto una lista delle priorità e abbiamo inserito una prima priorità, una seconda priorità e una terza pri-orità. La sicurezza naturalmente era la prima priorità, nel senso che tutti i muri che stavano per crollare dovevano essere sostituiti; la seconda era l’estetica, una volta avuti i soldi per riparare gli altri muri. La terza priorità riguarda i muri che sono an-cora sicuri e che logicamente rimane per ultima.

Quindi il progetto non è realizzabile in un anno, ci vorranno forse dieci anni, da ora in poi o dal 2009 in poi, man mano che ci sono i soldi.

Da un certo punto in poi, dove praticamente non c’è più il bosco e la strada è proprio in montagna, la cosa diventa ancora più complicata, per cui abbiamo deciso di usare come materiale solo il cemento.

Lavori di asfaltatura, demolizione di tutti gli edifici, sostituzione dei muri lungo

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le strade, ripristino delle scarpate... Questo ci è sembrato molto più naturale dei muri che oggi contengono il terreno.

Abbiamo proposto un concetto di riqualificazione partendo da un presupposto: come avete visto nella prima immagine, quando si arriva in alto, al Passo, c’è un tono di marrone della montagna che domina tutto e quindi noi, non volendo con i nostri interventi disturbare il paesaggio, abbiamo pensato a questo marrone come al colore con cui intervenire, un colore che si adatta alla montagna e che forse solo al secondo sguardo potrebbe risultare evidente all’osservatore.

Un altro presupposto che bisogna assolutamente considerare è l’uso della ghiaia del posto, senza intervenire con colori sbagliati. Abbiamo quindi pensato al cemento colorato, logicamente con una lavorazione resistente al gelo. Per i nuovi muri, come i primi muri fatti a blocchi, abbiamo pensato a delle fughe sempre orizzontali e all’uso di nuovo del cemento. Quindi grandi blocchi in cemento, sempre realizzati con i cas-seri, quelli normali da 250 per 50, con fughe orizzontali che si abbinano bene ai muri esistenti. Eventualmente, dove i muri in sassi sono di una certa qualità, possono ri-manere, ma nel catalogo è prevista la sostituzione di tutti i muri o la realizzazione di nuovi muri in cemento marrone. Abbiamo definito in un piccolo progetto la realizza-zione di questi muri sempre in formato 250 per 50, con fughe orizzontali e verticali.

Abbiamo anche fatto delle prove in ditta per vedere se la cosa funziona o è fatti-bile anche in termini di costo. Il concetto di roccia lo abbiamo proposto realizzando i casseri con pannelli in truciolato OSB, in modo da avere non una superficie liscia di cemento ma una superficie un po’ ruvida che sembra quasi una roccia.

Anche per il guard-rail abbiamo proposto lo stesso materiale, in modo da usare da un certo punto del Passo in poi sempre la stessa figura e lo stesso materiale, in modo da inserire, quindi, in tutto il territorio un unico materiale.

Per i parcheggi la stessa cosa.Altro tema importante: i tunnel. Abbiamo proposto una cosa che ci è sembrata la

più economica: l’utilizzo del cemento a spruzzo dove la roccia non è sicura, retroil-luminando questo cemento a spruzzo con una luce led nascosta e trasformando così i tunnel in gallerie di luce. Cioè: si parte a Merano con il giallo chiaro e si continua con i diversi colori dal sole, poi, man mano che si sale attraverso il bosco, si passa ai toni del verde e del marrone, fino ad arrivare alla roccia; alla fine, la luce sarà azzurra e blu come i ghiacciai. Con questa luce artificiale nascosta si crea un qualcosa di un po’ surrealistico. Cioè, percorrere questi tunnel dovrebbe diventare una specie di avventura.

Vediamo l’immagine di uno dei tunnel come potrebbe essere. Sembra una galle-ria di ghiaccio.

La parte che finora è stata eseguita è nata da un altro concetto che noi abbiamo in-trodotto. Cioè, abbiamo detto che solo ristrutturare la strada, solo realizzare dei muri e una bella asfaltatura non significa sicuramente creare un valore aggiunto, quindi abbiamo introdotto delle stazioni da installare in diversi punti del Passo, in modo da mostrare alla gente anche la storia del Passo e dare delle informazioni attraverso degli infopoint, per esempio a Moso o anche a Obergurl, in Austria, dove la gente

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può informarsi sugli hotel dove pernottare ed anche sulla strada... Però chi arriva al Passo non è obbligato a entrare in queste stazioni; se vuole, ne può usufruire. Questo concetto, approvato anche per la parte austriaca, è stato trasfuso in un progetto inter-nazionale tra Austria e Italia.

Intanto dal 2008 al 2010 sono state realizzate cinque stazioni.Noi siamo partiti dal presupposto che bisogna utilizzare dei temi inerenti proprio

al luogo, quindi non solo dare informazioni, ma far diventare il tutto un’avventura, dare un’emozione, per cui devono esserci dei riferimenti al paesaggio e alla topogra-fia. Guardare con il binocolo il pendio, la caduta dei sassi, il ghiacciaio, le valanghe, fotografare le cornici o il Contrabbandiere... Marco Mulazzani non è tanto d’accor-do, ma io parlo di “scultura”, perché penso che l’architettura da sola non riesca a corrispondere bene a quello che troviamo in simili luoghi. Al Passo c’è architettura (capanne di legno, un ristorante e altri edifici), però è troppo debole per corrisponde-re alla situazione. Quindi, noi parliamo di “archi-sculture”.

Per esempio, uno dei padiglioni nasce dalla forma dei sassi presenti nella zona, come binocoli, cornici, cornici per una foto, ghiacciai, sassi che cadono, valanghe. Questa era l’idea che volevamo portare avanti.

Vi mostro alcune immagini che abbiamo proposto come idea in fase di studio di fattibilità per affrontare il tema dei padiglioni.

Quelli che vediamo sono tutti elementi scultorei. I sassi che cadono li abbiamo riproposti con dei blocchi di cemento che abbiamo non dico nascosto, che però non tutti vedono quando arrivano. In diverse parti ci sono anche dei blocchi di cemento che sembra che cadano dalla montagna... O delle scritte, dei punti da guardare.

Vediamo le cinque stazioni che abbiamo deciso di realizzare insieme alla Provin-cia e alla Timmelsjoch Hochalpenstraße per la parte austriaca.

La prima stazione è stata realizzata a Moso ed è diventata un infopoint, dove la strada inizia in territorio italiano. Un altro infopoint è a Obergurl. Ci sono poi la sta-zione Contrabbandiere e la stazione Telescopio. In cima al Passo abbiamo pensato di collocare il Museo del Passo per celebrare i cinquant’anni della strada.

Parto con l’edificio dei Granati.Come ho detto, abbiamo preso le forme della natura del luogo. I Granati si ispirano

a formazioni geologiche che in Val Passiria si trovano molto spesso. Noi quindi non ab-biamo fatto niente, abbiamo copiato queste formazioni trasformandole in architettura.

Vediamo il progetto finito: i due Granati sul pendio sopra il paese di Moso, uno realizzato in cemento, l’altro in vetro; uno è l’infopoint dove si illustra la storia di Moso e della Val Passiria, oltre a informare su qualche avvenimento che si svolge nella valle. Dal dirupo si può guardare tutta la valle. Il Granati in vetro di notte è retroilluminato con dei led e quindi è un punto luce sulla valle veramente importante per il paese di Moso; lo si vede già da lontano ed è veramente bello, quando è tutto buio e c’è questa luce rossa sul pendio...

Dal Granati in vetro si guarda il paese. Chi non soffre di vertigini può andare fuori. La struttura è tutta aperta, solo i primi setti sono chiusi con dei vetri.

Vediamo una foto del punto che comincia ad essere illuminato. È un punto di

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riferimento perché si incrociano le due valli. Si vede veramente da molto lontano, anche di notte.

Anche per l’interno abbiamo scelto lo stesso tema. Tutte le strutture sono in ce-mento realizzato con pannelli in truciolato OSB marrone. Abbiamo inserito un colo-re che si adatta a quello che vogliamo raccontare, in questo caso la storia dei Granati, quindi il rosso, con tutte le informazioni serigrafate su vetro in rosso.

All’inizio si danno anche delle informazioni sulla strada e su come continuare l’avventura e informazioni sulla valle.

La stazione Telescopio è a metà tra Moso e il Passo. Qui il tema era quel-lo dell’andare su e dell’andare giù. Quindi, ci sono due “telescopi”, di cui uno guarda verso la valle, mentre l’altro guarda in alto verso il ghiacciaio. Ci sono dei gradini su cui sedersi o stare in piedi e guardare giù nella valle oppure verso il ghiacciaio. I due “telescopi” sono su una piccola collina e sono delle cornici in cemento, però è proprio questa cornice che invoglia la gente ad andare a vedere. Si è lì e si vede un paesaggio straordinario, però allo stesso tempo non lo si vede, tanto è bello, cioè non si è presenti, non si capisce neanche che cosa si vede; restringendo la visione in una cornice, si comincia a capire veramente questo paesaggio splendido proprio come in una foto. Quando facciamo una foto, noi vediamo solo il dettaglio che vogliamo fotografare e non vediamo più il resto, quindi siamo costretti a guardare il dettaglio. Noi abbiamo cercato di fare questo con il “telescopio” e ci sembra che funzioni.

Un’altra stazione costruita sul versante austriaco è la stazione Contrabbandie-re. Logicamente la storia del Passo è anche la storia dei contrabbandieri di alcol e di sigarette. Sin dal Medioevo, ma anche prima, la strada del Passo Rombo era una delle strade alpine più frequentate perché portava dall’Austria direttamente a Castel Tirolo, quindi, era una strada abbastanza frequentata ma importante per i contrabbandieri. Anche questa storia abbiamo voluto raccontarla con una stazione. Abbiamo pensato a un blocco enorme di cemento forato all’interno con solo un ingresso che ha la forma del contrabbandiere, cioè uno entra attraverso questo buco in questo grande sasso che sembra caduto dalla montagna e dall’al-tra parte, in diagonale, può di nuovo uscire. Di nuovo raccontiamo la storia del contrabbandiere con diversi temi. Abbiamo usato il colore nero per il vetro. Sic-come non c’è corrente, dal tetto abbiamo illuminato con luce naturale, lasciando dei setti in vetro sul tetto non visibili dall’esterno, quindi le pareti in vetro sono retroilluminate e diventano uno spazio non buio, che però da un po’ il senso dell’avventura. Si entra e si esce dall’altra parte di nuovo attraverso la forma del contrabbandiere.

La prima stazione dalla parte austriaca è anch’essa un info-point, prima di andare sul Passo, ed è costituita da un grande aggetto a sbalzo sopra la valle. L’intenzione è di portare la gente su questo aggetto ad esplorare non solo la valle ma tutta la zona intorno. All’interno si racconta, anche qui, la storia del posto e si danno già delle informazioni ai viaggiatori per arrivare fino al Passo.

Le strutture sono aperte tutto il giorno, non c’è niente da pagare, per cui chi vuole

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può usufruirne e chi non ne ha voglia può anche non fermarsi. L’aggetto è di tredici metri, con vetri informativi su che cosa si vede quando si attraversa la passerella.

Infine, l’ultima stazione è stata realizzata proprio sul confine in cima al passo. Si vede il passo ancora con le baracche, che poi sono state eliminate. Proprio sul punto più alto, sul confine, è stato realizzato il Museo del Passo. Anche qui per i primi schizzi ci si è ispirati alla natura, alle rocce e ai ghiacciai, al bianco e al nero, a forme un po’ sfaccettate riproposte in modo architettonico. L’idea era di far sparire il confine, di fondare il Museo sulla parte austriaca con l’aggetto verso l’Italia, per far capire che non c’è più alcun confine. L’interno l’abbiamo realizzato ispirandoci alle stalagmiti o alle stalattiti.

Anche qui vediamo una specie di cannocchiale. Si entra da una parte della strut-tura che è chiusa sui lati, si entra in Austria e si guarda verso l’Italia.

Vediamo un plastico.Costruire in simili zone è abbastanza complicato, perché, come ho detto prima,

può capitare che nevichi anche in piena estate, poi c’è vento e c’è poco tempo per costruire. Infatti, le opere sono state costruite tra giugno e ottobre.

Vediamo il risultato finale dell’aggetto sul Passo, fondato nella parte austriaca e rivolto verso l’Italia.

Come ho fatto anche ieri, vi racconto brevemente di alcune nostre esperienze.Voi sapete meglio di me che in Italia non è così facile ottenere tutte le concessio-

ni, c’è sempre un sacco di carte che bisogna preparare, mentre in Austria è tutto più facile. Per noi questa è stata la prima esperienza di lavoro in Austria, quindi siamo rimasti sorpresi. Io sono andato in Comune a Sölden un’unica volta perché pensavo di dovermi presentare e dire chi ero e cosa stavo per fare. Quella è stata l’unica volta che ho visto il Sindaco, poi l’ho incontrato all’inaugurazione; tutto il resto è avvenu-to attraverso pdf, senza grandi storie. Non parlo solo della concessione, parlo anche dell’abitabilità. Quindi, non ho visto più nessuno ed è stato tutto abbastanza facile. Devo dire però che anche in Italia il Sindaco di Moso ci ha sostenuto e ha fatto in modo che qualche iter burocratico ci fosse risparmiato.

Tutto ci sembrava troppo facile. Infatti, non abbiamo neanche pensato che in Au-stria ci sono delle regole da rispettare quando si costruisce e ci sono dei confini, per cui abbiamo deciso di costruire la nostra struttura sul confine dalla parte austriaca con l’aggetto verso l’Italia e in Austria hanno approvato il progetto, in Italia hanno approvato il progetto, però, a costruzione quasi finita, abbiamo visto atterrare due elicotteri neri dai quali sono uscite delle persone ben vestite che ci hanno detto: così non si può fare, voi non potete costruire sul confine, dovete rispettare le distanze. Io ero abbastanza preoccupato che mi portassero via... Ma loro erano del Genio Milita-re di Firenze e sono stati veramente molto gentili, ci hanno solo chiesto di dargli tutte le informazioni, tutti i disegni. Poi si è fatto in modo di cambiare il confine, che una volta era dritto e adesso ha un naso di cinque metri che contorna il nostro edificio. Quindi, devo dire che anche in questo caso in Italia, se c’è la buona volontà di tutti, le cose possono essere molto più semplici di come di solito sono.

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DIBATTITO

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Marco Mulazzani

Werner, il “naso” di cui hai parlato: nel territorio dell’Austria o in quello italiano?

Werner Tscholl

In Italia. Praticamente ci hanno tolto... Però io avevo veramente paura che mi portassero via.

Magari vediamo ancora qualche immagine del museo, anche con tempi diversi, con la nebbia, con la neve.

L’aggetto di 16 metri è stato abbastanza difficile da realizzare anche da parte degli ingegneri.

Vi mostro un’immagine che fa capire quali erano le nostre intenzioni. Cioè, guar-dando le montagne, ci sembra che la struttura stia bene anche in un ambiente alpino, anche se, a dire la verità, quando io sono arrivato la prima volta al Passo ho pensato che sarebbe stato impossibile costruire in quei luoghi; però, se si riesce a fare le cose bene, si può anche costruire in luoghi dove sembra impossibile costruire.

All’interno abbiamo dei vetri bianchi e le foto serigrafate degli anni ‘50, quando sono iniziati i lavori di costruzione della strada. Quindi, abbiamo due facciate in vetro retroilluminate.

Chi ha lavorato negli anni 50 ha lavorato a mano, quando era ancora più difficile costruire delle opere.

Infine, vediamo l’interno del museo e qualche immagine serale e notturna.

Marco Mulazzani

Werner Tscholl ci ha fatto vedere quasi tutto di questo progetto, ma non i disegni delle casseforme per realizzare il museo. Lo ricordo perché non ci sono, in quest’edi-ficio, angoli ortogonali, e disegnare le casseforme è stato un bell’impegno… e questo è un aspetto che riguarda il ben costruire.

Werner Tscholl

Non l’ho fatto vedere perché mi sembra che alla fine debba essere l’opera a par-lare di se stessa.

Oggi ho fatto vedere qualcosa di più perché Marco mi ha costretto, ma di solito faccio vedere solo un’immagine, perché io non penso che l’architettura sia un’arte come il dipingere o il disegnare, l’architettura è un qualcosa che si vede sul posto. Si possono fare i più bei disegni, ma se poi alla fine le cose non funzionano, è inutile fare dei disegni. Infatti, noi di solito in cantiere non portiamo neanche i disegni, cioè

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disegniamo tutto in dettaglio... Per esempio, l’edificio che abbiamo appena visto è complicatissimo da realizzare, senza nessun angolo a 90 gradi, senza angoli retti e dove tutto è storto, per cui per ogni parete abbiamo dovuto fare un progetto esecuti-vo perfettamente definito, però questa cosa non si deve vedere. Alla fine il risultato deve sembrare semplice e quindi lo sforzo che si è comunque fatto non deve essere visibile.

Marco Mulazzani

Sono d’accordo quando dici che di fronte a un’opera non si deve vedere lo sforzo fatto e che il risultato deve apparire semplice. Questo è ciò che chiamiamo sprez-zatura, una qualità sia del comportamento sia dell’architettura; però credo che sia bene raccontare. Anche se questa sera c’è un pubblico di specialisti, di cultori e di persone interessate all’architettura, è utile far capire che costruire bene, realizzare una buona opera, richiede impegno e cura, richiede conoscenza e padronanza delle tecniche. Come hai detto tu giustamente, non è sufficiente disegnare, “inventare” una figura o una forma… poi c’è tutto il processo che porta all’edificio realizzato, che è così perché è ben fatto. Invece ci sono molte architetture, firmate da architetti famosi (possiamo nominarli o no, non importa) che non sono ben fatte.

Domanda dalla sala

Perché non sono ben fatte?

Marco Mulazzani

Perché il ben fatto e la buona cura riguardano anche la concezione del progetto, che non può fondarsi solo sulla gratuità del gesto. Qualche tempo fa ho visitato un grande cantiere a Milano e ho fotografato un balcone inclinato di una torre residen-ziale che finisce casualmente – come molti altri balconi – proprio a metà della fine-stra di un appartamento… Una cosa del genere non è ben fatta, non è ben pensata, è il risultato incontrollato di “gesti” che non hanno nessuna radice, nessun senso e spesso opere del genere non sono neanche ben eseguite.

Al contrario, il lavoro di Tscholl si fonda su un presupposto e si svolge entro una cornice che è quella di un intervento che cambia, trasforma, potenzia un territorio. Si tratta opere non solo ben costruite ma anche, figurativamente, non imposte ma semmai “estratte” dal paesaggio. Tscholl lo spiega quando dice che ciò che il suo sguardo vede sono le montagne, i prati, etc.; poi c’è il processo di trasformazione di ciò che lo sguardo “trova” – che suggerisce un’idea – in architettura. C’è dunque un luogo, un ambiente, una natura; e un’architettura che non entra in competizione ma

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nemmeno è sopraffatta dalla natura. Perché in luoghi come questo la natura esprime caratteri selvaggi ed estremi, e mette continuamente a rischio il lavoro degli uomini, distruggendo strade, asfalto, muri e le opere che gli uomini costruiscono! Per resiste-re a questo tipo di confronto bisogna saper fare bene le cose. Da ciò la mia insistenza per approfondire il racconto e spiegare questo progetto.

Io spero che ci siano molte domande, considerazioni e osservazioni del pubblico prima di concludere questo incontro

Sergio Togni

Ne approfitto per rompere un po’ il ghiaccio.Noi abbiamo visto che l’opera di Tscholl ha un notevole valore aggiunto che è

dato dall’ingegno creativo. C’è un progetto specifico, un progetto contemporaneo che non scopiazza il vecchio, che non è vernacolare, che veramente rappresenta un avanzamento culturale, però io farei una domanda un po’ più terra a terra, da tecnico a tecnico: gli aspetti ad esempio dell’omologazione, le difficoltà anche per i guard-rail... A volte ci si scontra con questi problemi. Per esempio, il problema del vanda-lismo l’avete considerato?

Werner Tscholl

Come ho detto anche prima, questo ragionamento di Marco noi l’abbiamo fatto. Ci sembrava quasi impossibile costruire in luoghi simili, perché in una natura così fantastica è difficile per l’uomo riuscire a fare qualcosa che possa competere con tanta grandezza. Questa era forse la sfida più importante per noi: riuscire, con gli sforzi e con i metodi che noi abbiamo adottato, usando un materiale che ricordi la montagna, usando i colori giusti, a costruire in quei luoghi.

Sergio TogniE sull’omologazione dei guardrail?

Werner Tscholl

Devo dire che abbiamo utilizzato il cemento anche perché abbiamo pensato a questi aspetti, però non c’è vandalismo. La strada è aperta da quattro anni, c’è un sac-co di gente che viene a visitare anche solo le sculture e chi non veniva mai al Passo adesso ci viene per vedere queste opere. Quindi, anche per la Provincia Autonoma di Bolzano e la Timmenlsioch Hochalpenstraße c’è un notevole aumento di denaro che può essere reinvestito sempre in interventi per la strada. Devo dire che fino adesso

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non abbiamo riscontrato forme di vandalismo. Sembra che le cose vengano accettate e non solo accettate; c’era anche la paura che magari venissero accettate solo dai tecnici, dagli architetti, invece penso che anche la gente comune che non ha niente a che fare con l’architettura vada a visitare le strutture, che piacciono, perché c’è poca gente che dice che non vanno bene, che stonano. Per esempio, anche i miei vicini di casa o anche persone del mio paese, che non hanno niente a che fare con l’architettu-ra e che di solito criticano le mie cose, mi dicono: siamo andati al Passo del Rombo, abbiamo visto le tue cose e sono bellissime. Sembra abbastanza strano. Non so come funzioni o perché, ma è così.

Augusta Vittoria Ceruttigià docente di geografia dell’ambiente all’Università della Valle d’Aosta

Volevo sapere qual è la quota più alta dove avete costruito. Sarà sui 2.300 o 2.500, non so.

Werner Tscholl

2509.

Augusta Vittoria Cerutti

Quali difficoltà ha posto l’ambiente climatico a quelle quote per quanto riguarda l’impasto del cemento, cioè proprio la lavorazione dei materiali da costruzione? Per-ché ovviamente costruire in quota non è come costruire a Milano!

Werner Tscholl

Devo dire che è stato tutto abbastanza facile. Le ditte che hanno vinto gli appalti erano ditte specializzate e noi già prima di partire con questa avventura abbiamo fatto diversi impasti, diverse prove di come doveva essere il cemento, per avere proprio un capitolato speciale perfetto su come doveva essere l’impasto e la granulometria. Tutto questo è stato definito prima di cominciare con delle ditte specializzate, con dei tecnici che ci hanno aiutato a formulare il capitolato, con l’indicazione di tutti gli additivi necessari. Con quell’impasto, quella ricetta, diciamo, abbiamo potuto dire alle ditte... Poi per le ditte è stato come costruire a Milano, l’unico inconveniente è che a 2.500 metri di quota c’è il vento, c’è la neve, c’è freddo, c’è caldo. Le difficoltà ci sono state più che altro per i lavoratori, non per l’impasto del cemento.

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Augusta Vittoria Cerutti

Per assicurare la resistenza dei manufatti nel tempo, a fronte delle escursioni ter-miche fortissime che ci sono a 2.500 metri, avete messo in atto particolari accortezze nella scelta e nella utilizzazione dei materiali da costruzione?

Werner Tscholl

Anche lì abbiamo fatto delle prove, logicamente in laboratorio, perché sia la Provin-cia che la Timmenlscioch Hochalpenstraße ci hanno chiesto che il cemento resistesse al-meno per un po’ di anni. È stata fatta una simulazione in laboratorio e sembra che la cosa funzioni. D’altra parte, c’è anche da dire che noi non pensiamo che quei “sassi” o come li vogliamo chiamare rimangano lì sempre uguali, però questa è anche la nostra idea, cioè che cambino nel tempo; è logico che non devono dissolversi, però ci sarà il muschio, ci sarà qualche riga... Questo è proprio voluto, perché noi pensiamo che l’architettura debba poter invecchiare, non possiamo pretendere che l’architettura rimanga lì come la costru-iamo. Anche una chiesa gotica oggi non è più come l’originale, però forse per questo è bella, o una chiesa romanica, perché restano i segni del tempo. Questo cerchiamo di farlo anche con le nostre architetture. Per esempio, il Granati a Moso forse fra dieci, venti, cinquant’anni, sarà come un sasso naturale, con il muschio sopra, quindi si presenterà al primo sguardo come una massa naturale e solo guardandolo più attentamente si vedrà che è costruito in cemento. Questo è voluto. L’opera non si deve dissolvere, ma penso che con le prove che abbiamo fatto in laboratorio questo sia garantito. Poi non si sa mai. Devo dire che anche la qualità con cui sono state realizzate le opere è abbastanza elevata per tutte le complessità che si sono incontrate, perché non è che abbiamo potuto scegliere la ditta migliore del mondo, come sempre capita. Il Museo del Passo era sicuramente una sfida anche per la ditta. Però, parliamo di gente giovane, che ci ha messo tutto il cuore e alla fine è riuscita nell’intento. Questo lo vedo spesso: più complicata diventa una cosa, più la gente, soprattutto se è giovane, fa uno sforzo maggiore di quando realizza qualcosa di normale, perché uno sa già tutto, quando realizza una cosa normale. Quando uno deve fare qualcosa che non ha mai fatto, magari ci mette ancora più cuore e riesce a fare anche delle cose che all’inizio pensava che fossero irrealizzabili.

Paolo Giordanoarchitetto

Io vorrei chiederle due cose.In primis, apparentemente le sue sembrano opere venute in maniera “spontanea”

e invece suppongo che il referente, cioè la Provincia Autonoma, la controparte, abbia avuto una funzione. Cioè, il lavoro finale sarà stato frutto di una mediazione, proba-bilmente. O lei ha avuto carta bianca su tutta la linea?

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Seconda domanda: siccome parliamo di interventi che in qualche maniera, inne-gabilmente, confinano con l’arte, con quale metodo vi siete trattenuti dal far sconfi-nare il vostro lavoro in un gesto, mantenendovi all’interno dei binari di un’architet-tura apparentemente “modesta”, per non dire più controllata?

Werner Tscholl

Alla prima domanda rispondo: carta bianca. Cioè, loro non ci hanno detto nien-te, ci hanno detto che c’era un ingegnere e questo ingegnere doveva trovare un architetto, perché è compito dell’ingegnere trovare l’architetto. Questo ingegnere poteva scegliere un altro e invece ha scelto noi. Nient’altro. Poi loro si aspettava-no delle idee. Non si parlava di padiglioni, non si parlava di stazioni, si parlava di strada. Noi abbiamo detto: non basta la strada, deve esserci qualcosa anche di architettura. Questo è stato accettato sin dall’inizio, la prima volta che ci siamo incontrati. Anche la Timmelsjoch ha subito capito. Poi per l’Austria io sono stato scelto perché avevo fatto delle proposte in Alto Adige che per loro andavano bene e allora hanno scelto me, perché inizialmente l’idea è nata solo in Alto Adige. Quindi: carta bianca.

Alla seconda domanda rispondo come rispondo sempre: io non so che cosa sto facendo, le cose mi vengono in mente e le faccio. Basta. Poi alla fine si può discutere tanto. La prima volta che io sono andato al Passo, sono tornato la sera e il giorno dopo le opere erano lì. Basta, finito.

Marco Mulazzani

Vorrei aggiungere qualcosa alla risposta di Tscholl. Ieri sera eravamo a Varese, a Villa Panza di Biumo, e abbiamo visto insieme una serie di opere meravigliose di Turrell. Tu negli ultimi progetti lavori molto con la luce, però non credo che ti sia mai venuto mente di essere un altro Turrell. Lui crea le sue istallazioni nella condi-zione di perfetta “inutilità”: sono opere meravigliose. Io però trovo una differenza sostanziale con le tue “architetture”: sono opere che hanno un uso, una funzione, un significato che spesso l’opera d’arte non ha né cerca.

Per quanto riguarda le forme: io sono convinto che nel lavoro di Tscholl non ci siano forme arbitrarie. Ci sono alcuni progetti che muovono da suggestioni iniziali, che provengono dal primo incontro con il luogo o con il tema; poi c’è un proces-so necessario di elaborazione in cui le idee si confrontano con “ciò che la realtà vuole dall’opera”; e la “realtà” per un’opera di architettura è anche e soprattutto la “costruzione”.

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Luca Gibellopresidente dell’Associazione Cantieri d’alta quota

La mia, più che una domanda, è una considerazione. Le stazioni sono opere in-teressanti che sicuramente funzionano nella misura in cui si collocano lungo una strada a pedaggio, ovvero una strada particolare che ha bisogno di una certa valoriz-zazione; tuttavia mi preoccupano un po’ se riprodotte lungo le varie strade alpine, qua e là come una sorta di sprawl, in ossequio agli imperativi dell’immagine: la ma-chine à voir, l’objet à réaction poétique. Invece, ho molto apprezzato il discorso dei piccolissimi interventi, quelli che magari in pochi noteranno. Lì ci sono gli elementi per definire delle linee guida per sistemare anche le strade che abbiamo dietro casa, le mulattiere, i terrazzamenti, perché non è che possiamo pensare di sistemare tutto attraverso il gesto eclatante. In quegli interventi, molto più umili, vedo moltissimo valore aggiunto e un fertile terreno per il lavoro del progettista, per le amministrazio-ni pubbliche, perché lì veramente c’è il territorio da sistemare, al di là della straordi-narietà della singola stazione.

Marco Mulazzani

Io ho insistito affinché Tscholl mostrasse tutta la parte che viene “prima” dell’architettura in quanto costituisce un piano “regolatore”, un sistema norma-tivo i cui effetti ancora non si vedono ma si vedranno nel futuro. E certamente anche a questo pensavo – ai piccoli quasi invisibili interventi che Luca Gibello ha richiamato – quando dicevo che questo atteggiamento virtuoso che prevede una trasformazione, una riqualificazione sul lungo periodo, è da prendere come esempio. Dopo di che sono convinto che nessuno, men che meno Tscholl, pensi di “ripetere” questo o quel padiglione e di collocarlo in un altro contesto. A con-ferma di ciò: in un piccolo padiglione coevo al progetto di Passo Rombo, ovvero il garage per l’atelier di Jörg Hofer a Lasa, Tscholl non riprende quelle forme bensì ripropone affinandola una tecnica esecutiva che consente di ottenere super-fici omogenee in cemento in condizioni di realizzazione abbastanza complicate. Io non credo che a Tscholl interessino i “gesti”, bensì le architetture – una buona architettura, qualcosa da sempre “necessario”. Io credo che questo siano i padi-glioni che sono stati realizzati nel paesaggio del Passo. All’opposto: ricordiamo le prime immagini delle baracche sul passo, a segnare il confine. Che miseria! Un “paesaggio” non solo disordinato ma insignificante… oppure pensiamo, in quei luoghi, un belvedere fatto con quattro assi di legno. Io credo che il lavoro di Wer-ner Tscholl abbia restituito significato a “oggetti” – postazioni d’informazione, di sosta, belvedere – che altrimenti non ne avrebbero. Perché hanno quella forma? Lui l’ha spiegato quando dice, ad esempio, che “inquadra” un pezzo di questo paesaggio meraviglioso... Tu sorridi, ma...

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Luca Gibello

Sorrido perché Werner Tscholl stesso ha detto: la gente è stupida, non se ne accor-ge. La gente invece se ne accorge; non c’è dunque bisogno di realizzare una cornice perché la gente vada lì a scattarsi la fotografia.

Marco Mulazzani

Álvaro Siza ama raccontare una storia divertente e forse istruttiva: quando qual-cuno gli ha chiesto “perché hai progettato una casa che ha una vista bellissima solo con una finestrella piccola da una parte?”, ha risposto: “da ragazzo ho passato un’in-tera estate in convalescenza sotto il portico della casa di famiglia, a guardare un paesaggio bellissimo e alla fine non ne potevo più”. Però questo “artificio” è parte dell’architettura. Infine: il Passo nasce attraverso una trasformazione. Abbiamo visto com’è stato costruito, negli anni Cinquanta del secolo scorso: pochi mezzi e il duro lavoro degli uomini… un’impresa epica. Anche da questo punto di vista ritengo che “l’architettura” sia necessaria alla celebrazione del Passo.

Oliviero Péaquinarchitetto

Io vorrei cambiare discorso, se posso. Mi piacerebbe capire come si sviluppa il suo processo mentale quando progetta, cioè se lei ha qualcuno con cui si confronta o se si confronta solo con se stesso, quando concepisce le sue opere. A parte il confron-to iniziale con il committente ovvio. Anche se la cosa può far sorridere e apparire eccessivamente filosofica, credo che ognuno di noi abbia qualcuno in particolare con cui ama confrontarsi, o si confronti abitualmente, al fine di raggiungere i propri obiettivi o realizzare le proprie opere come in questo caso …. (moglie o compagna/o a parte naturalmente).

Werner Tscholl

No, non c’è confronto. Io torno a casa, mi viene in mente un’idea e se nessuno ha niente in contrario, la realizzo

Oliviero Péaquin

Se chiede a qualcuno dello studio o se il processo mentale è solo suo.

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Werner TschollLo faccio vedere a mia moglie. Se lei dice di sì... Va bene.Per rispondere anche a Luca Gibello, non era nelle intenzioni della Provincia,

quando ha redatto gli studi di fattibilità, riprodurre le stesse cose. Per questo, parlando ancora di carta bianca, gli ingegneri che sono stati incaricati potevano scegliersi i loro architetti. Per esempio, per il Passo dello Stelvio, dove non sono ancora iniziati i lavori, l’ingegnere ha scelto lo studio norvegese Snøhetta, che ha fatto una cosa diversa da quella che ho fatto io, un intervento completamente diverso. Lì non ci saranno delle stazioni, saranno fatti degli interventi completa-mente diversi, però si vede che il concetto torna. Se si prendesse me anche per il Passo dello Stelvio, io non andrei bene perché avrei troppo in mente il Passo Rombo, invece Snøhetta parte da zero e fa delle cose completamente diverse, belle come... Poi magari andrete a vedere anche quelle opere. Così sarà per altri passi, se il progetto in futuro andrà avanti. Speriamo, perché adesso March va in pensione. Vedremo chi verrà.

Marco Mulazzani

Avremmo voluto invitare questa sera anche l’architetto March perché – incon-testabilmente – è una personalità che negli ultimi vent’anni in Alto Adige ha avuto un ruolo molto importante nella crescita e nella diffusione dell’architettura come tema di interesse pubblico. March ha svolto il suo lavoro con intelligenza dentro l’Ufficio Opere Pubbliche della Provincia e ha trovato una sponda nell’istituzione che ha dichiarato: l’architettura contemporanea è qualcosa di importante per noi. Chi ha preso questa posizione ha poi operato di conseguenza utilizzando strumenti diversi – la diffusione dell’istituto dei concorsi e, in generale, con un forte con-trollo e impulso alle opere pubbliche. In altre parole: c’è una persona in un luogo che rappresenta la committenza pubblica e che ha svolto un ruolo come interlo-cutore del mondo della professione; anche prendendo la decisione di dare “carta bianca”, come ha detto Tscholl, conoscendo però la qualità degli architetti ai quali concedeva questa libertà. Qualche anno fa la provincia di Bolzano ha pubblicato un volume di 500 pagine intitolato “La Provincia all’opera”. Documenta le 500 opere pubbliche – architetture di servizio e infrastrutture – promosse e realizzate dalla Provincia nell’arco di vent’anni. È un libro per più versi interessante. Perché dà concreta testimonianza dell’impegno dell’Ente pubblico che diviene, in questo modo, esempio anche per i privati – al punto che, come già molte volte è accadu-to, bandiscono anch’essi consultazioni a inviti quando devono realizzare nuove costruzioni. Poi è interessante per il panorama di esperienze che offre, da cui si coglie la diffusione dei linguaggi della contemporaneità nella cultura architettoni-ca dell’Alto Adige ma si possono individuare anche alcuni “fili rossi” nel lavoro di architetti che seguono con costanza una propria linea di ricerca. Tscholl è, per me tra questi; non l’unico ma uno dei più coerenti nel percorso compiuto in quasi tre

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decenni di attività. E questo fatto ha anche a che vedere, come in altre occasioni abbiamo osservato, con le sue molte capacità, la più importante delle quali credo sia quella di comprendere e interpretare i caratteri del territorio in cui vive e opera. L’Alto Adige è una terra di confine e nella sua storia è stata ed è luogo di conflitti e chiusure, ma anche di intrecci e aperture. Molti positivi cambiamenti sono avve-nuti laddove si sono affermate queste ultime tendenze.

Grazie a Werner Tscholl per questa serata e per la generosità con cui ha racconta-to il suo progetto; grazie a tutti voi e arrivederci al prossimo incontro.

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Immagini

Incontro

L’ARCHITETTURA DEL MONDO. INFRASTRUTTURE, MOBILITÀ, NUOVI PAESAGGI

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ALBERTO FERLENGA

1.Sala iniziale della mostra “L’architettura del Mondo”, Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi, Triennale di Milano, 9 ottobre 2012-10 febbraio 2013, a cura di A. Ferlenga© Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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2.Mappa delle connessioni Facebook© Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

3. Mappa delle principali connessioni di trasporto nel mondo globale© Chiara Cavalieri

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4.Jože Plecnik, lungofiume di Lubiana, 1920-30 © Andrea Iorio

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5.Silvano Zorzi, Lucio Lonardo, Sabatino Procaccia, ponte sul torrente Sfalassà, autostrada Salerno Reggio Calabria, 1968-1972 © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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6.Herman Sörgel, Ataltropa, 1926© Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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7.Constantinos Doxiadis, Ecumenopolis, 1960© Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

8. Piano per il controllo della Natura, 1930-1940, USSR © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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9.Barriere contro l’avanzamento delle sabbie in Cina© Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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10. Seoul, recupero dei sottopassi pedonali © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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11.Scale gialle per i barrios informales di Lima © Alessandro Bonadio

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12. RO&AD architecten, ponte pedonale Moses, Halsteren © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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13.Dominique Perrault, render della Nuova stazione della Metropolitana di Napoli a Piazza Garibaldi © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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14.-15.3S Studio, recupero della ferrovia dismessa di Albisola Superiore © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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16.Copertina del catalogo della mostra “L’architettura del Mondo” © Catalogo della Mostra “L’Architettura del Mondo”

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GIACOMO POLIN

1.Viadotto, Autostrada A15, località Pontremoli (©2011 Google-image ©2011 European Space Imaging)

2.Lucio Fontana, Concetto Spaziale, Attesa, 1967 – Idropittura su tela e cornice in legno laccato, 180,5 x 140 cm, Zurigo, Kunsthaus Zurich

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3.Acquedotto romano di Pont du Gard, a Vers Pont du Gard, Francia, I sec. d.C.

4.Silvano Zorzi, Viadotto sul torrente Teccio, Autostrada Torino-Savona, 1974

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5.Cantiere del Ponte sull’Arno, autostrada del Sole, 1962

6.Giuseppe Uncini, Primo cementarmato, 1958, cemento e ferro, 121 x 96, Collezione dell’artista, courtesy Galleria Fumagalli, Bergamo

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7.Pieghevole illustrativo delle aree di servizio nel tratto autostradale Bologna-Firenze

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8.Ing. Riccardo Morandi, Viadotto sul Polcevera a Genova, 1967

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9.Le Corbusier, Piano per Rio de Janeiro, 1929

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10.Locandina del film di Roberto Rossellini, Viaggio in Italia, 1954

11.Copertina n. 1 della rivista “Quattroruote”, per gentile concessione di Editoriale Domus S.p.A., proprietaria del copyright

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12.Gabriele Basilico, Rotaliana, Trento, 2003

13.Gabriele Basilico, Reggio Calabria, Stretto di Messina

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14.Kevin Lynch, The View from the Road, 1964

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15.Fausto Melotti, Composizione astratta – Scultura n.15, 1966, 69,5(h) x 67,5(b) x 8(p) cm, gesso, Galleria d’Arte Moderna Torinosu concessione della Fondazione Torino Musei

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16.Autogrill di Seriate, Autostrada A4, foto di Olivo Barbieri, 2002

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17.Olivo Barbieri, l’Autostrada del Sole nel tratto Bologna-Firenze, 2002

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