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Zolfo di Sicilia L’oro del diavolo

Zolfo di Sicilia Loro del diavolo. Risalgono al II – III secolo d.C. i primi reperti archeologici che testimoniano lestrazione dello zolfo in Sicilia

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Zolfo di Sicilia

L’oro del diavolo

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• Risalgono al II – III secolo d.C. i primi reperti archeologici che testimoniano l’estrazione dello zolfo in Sicilia. Si tratta di “Tegulae mancipum sulphuris” (“Tegola degli appaltatori di zolfo”) rinvenute nel territorio di Agrigento o di Milena (Caltanissetta) che presentano un’incisione che va da destra verso sinistra. Queste tegole venivano poste nei contenitori in cui si raccoglieva lo zolfo fuso, affinché i pani di zolfo portassero impresso il nome della miniera o del proprietario.La tegola rinvenuta in contrada Aquilia, nel territorio di Milena, reca a rilievo la scritta “EX PRAEDIS M. AURELI COMMODIAN” (“Dalle proprietà di Marco Aurelio Commodiano”). Gli usi dello zolfo nell’antichità furono descritti dallo storico romano Plinio il Vecchio. Nella sua opera “Naturalis Historia”, viene fatta menzione dell’utilizzo dello zolfo in campo medico, per preparare rimedi e unguenti, nell’arte tessile, nell’industria dei vetri e in ambito rituale, per la cerimonie sacre di purificazione.

• Fino al XVII secolo la bassa domanda di zolfo è soddisfatta, soprattutto, dalle solfatare vulcaniche. Le poche zolfare esistenti all’epoca erano differenti dalle miniere odierne. 

• L’estrazione del minerale avveniva in superficie o in scavi di limitata profondità, simili a delle trincee, in corrispondenza di affioramenti di rocce ricche di minerale.In siciliano, le solfare si chiamano pirreri, cioè a dire cave (di pietra), perché appunto in origine esse erano vere e proprie cave di minerale di solfo, limitate in estensione e in profondità, che si lavoravano spesso quasi a cielo scoperto e che si abbandonavano appena presentavano pericolo di crollamento, per aprirne altre in luogo vicino.

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• 2 - Rivoluzione industriale ed incremento attività mineraria (1730 - 1830)• Dal XVIII secolo lo sviluppo chimico-industriale aumentò la domanda di zolfo. Si scoprì

infatti nel 1736 un nuovo metodo per la preparazione dell’acido solforico, di cui si fa ampio uso nell’industria tessile e farmaceutica, a partire dallo zolfo.Un ulteriore beneficio all’attività mineraria di zolfo giunse dalla scoperta del metodo Le Blanc (1787) per la fabbricazione in scala industriale della soda.Vennero aperte nuove miniere di zolfo, seppure in numero limitato Nel 1808 l’abolizione dei diritti di monopolio regio sul sottosuolo diede impulso all’attività mineraria. Dall’epoca romana sino a questa data la miniera scoperte nei feudi divenivano proprietà dei sovrani, i quali assoggettavano i proprietari terrieri, autorizzati all’apertura di una miniera, al pagamento della decima sulla produzione. Quest’uso, che si è perpetuato fino ai primi anni del XIX secolo, dovette produrre un malcontento generale nei proprietari nel periodo in cui la produzione mineraria aumentò. Cosicché Ferdinando di Borbone emanò un decreto (8 ottobre 1808) con il quale abolì l’obbligo della decima, unificò la proprietà della superficie a quella del sottosuolo e diede la possibilità di apertura di una miniera esclusivamente al proprietario della corrispondente superficie, dietro il pagamento di una regalia di L. 127,50.

E con la facoltà di apertura della miniera, tacitamente si concedeva al proprietario del suolo ogni diritto, senza contropartita di alcun dovere, né verso lo Stato stesso, né verso la massa di operai che, spinta dal bisogno, s’accalcava dinanzi agli imbocchi delle gallerie a chiedere lavoro.

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•Il numero delle miniere di zolfo dovette aumentare. Vennero infatti, emanate in quegli anni (1809-1811-1813) delle disposizioni di legge per la tutela della vegetazione, circostante la miniera, dai danni dell’anidride solforosa; quest’ultima prodotta nella fusione del minerale di zolfo.Nel 1822 l’abate Francesco Ferrara, nel libro “Guida dei viaggiatori per la Sicilia”, scrisse: "La Sicilia abbonda di miniere di salgemma e molto più di quelle di solfo, sostanza che forma una considerabile parte dello interno delle sue terre.Nel territorio di Girgenti le miniere di solfo sono così abbondanti che si dice in tutto il territorio trovarsene una in ogni sito nel quale si discava, ma questo minerale combustibile è anche in estrema copia in tutti quasi i luoghi dell’Isola di qua e di la del fiume Salso."

Intorno a quegli anni lo zolfo, e suoi derivati, si affermarono come uno dei componenti di base dell’industria chimica mondiale.L’applicazione della macchina a vapore ai processi industriali ed ai trasporti determinarono, specialmente in Inghilterra, un forte aumento delle attività produttive e conseguentemente un’alta domanda di minerali di base, tra cui lo zolfo.Lo zolfo venne utilizzato per la produzione di esplosivi e fiammiferi. Il suo principale derivato, l’acido solforico, venne utilizzato per la preparazione di altri acidi, di solfati, di medicinali, dello zucchero, del vetro, di vernici e disinfettanti.

•Lo zolfo e l’acido solforico raggiunsero nel XIX secolo un ruolo paragonabile oggigiorno a quello del petrolio.

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• 3 - Produzione di zolfo nei primi anni del XIX secolo (1830 - 1840)• Tra il 1830 ed il 1835 il numero dei cantari di zolfo, prodotti in Sicilia, quasi raddoppiò, passando

da 350.000 a oltre 660.000.L’intera produzione di zolfo venne destinata all’esportazione, per cui nel 1835 i principali acquirenti furono i paesi maggiormente industrializzati: Gran Bretagna (325.793 cantari) e Francia (262.774). La restante quantità di zolfo siciliano venne richiesta dagli Stati Uniti e da una decina di altri paesi europei Risalgono a questo periodo i primi documenti ufficiali sull’apertura delle principali miniere del bacino zolfifero di Caltanissetta.A tale proposito sono molto interessanti i dati riportati nella “Statistica generale delle zolfare in Sicilia”, redatta nel 1839. Dal documento si ricavano l’ubicazione, i proprietari, gli esercenti e la produzione di ciascuna zolfara.

L’elevato numero delle miniere (407 di cui 193 nella provincia di Caltanissetta e 170 in quella agrigentina) connesso all’eccessivo ottimismo dei produttori determinarono notevoli giacenze di zolfo. Tutto ciò venne aggravato dallo strettocontrollo dei prezzi commerciali da parte di operatori esteri.

A controllare e gestire il commercio dello zolfo siciliano verso i mercati europei erano essenzialmente i mercanti inglesi, da decenni presenti nella realtà isolana. Il transito da una produzione con destinazione pressoché esclusivamente locale ad una produzione legata ai flussi della domanda dei mercati nordeuropei rendeva i produttori locali deboli e legati, senza soluzioni alternative, ai mercanti inglesi, oltre ad alcuni francesi; erano costoro a controllare autonomamente i flussi commerciali, determinando contestualmente le variazioni dei prezzi.

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•Si ebbe allora la prima crisi di sovrapproduzione manifestata da un rovinoso crollo del prezzo medio dello zolfo, che passò dalle 208 lire del 1833 alle 85 lire del 1837.

Il governo borbonico istituì un monopolio di vendita dello zolfo “che regolamentasse la produzione solfifera, al fine di evitare la sovrapproduzione ed il conseguente crollo dei prezzi”. Nel 1838 venne, così, approvata la società francese “Compagnie des soufres de Sicilie”, rappresentata da Amato Taix ed Arsenio Aycard. La “Taix-Aycard” assicurò l’acquisto di prestabilite quantità di zolfo a prezzi determinati.Il principio del conferimento della produzione ad una apposita organizzazione di vendita, che trovava allora la sua prima applicazione, resterà poi basilare nelle successive vicende dell’industria zolfifera. Questo ha però portato a considerare preminente per lo sviluppo dell’industria, la politica di mercato, ed a trascurare del tutto, anche perché estranea all’organizzazione commerciale, la tecnologia produttiva.Le vicende, quindi, che ricorrono nella storia dello zolfo, sono l’andamento della domanda e dell’offerta con le conseguenti ripercussioni sui prezzi; la più o meno accorta determinazione dei medesimi, il volume delle giacenze in relazione al prezzo ed al mercato; gli interventi per rimediare a ricorrenti situazioni di crisi.

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• Il blocco della quota di produzione, associato al prevedibile divieto di apertura di nuove miniere, provocò un forte aumento dei prezzi dello zolfo nel mercato estero. Le industrie inglesi, le quali erano le maggiori importatrici di zolfo, protestarono energicamente chiedendo l’intervento del governo britannico.

 

Ad intervenire non fu solamente la diplomazia inglese ma la stessa flotta britannica che, nella primavera del 1840, avviava una corposa azione dimostrativa innanzi al porto di Napoli. L’intervento riscosse un indubbio successo se il re delle Due Sicilie si vide costretto a disdettare il contratto e a pagare alla compagnia Taix-Aycard un cospicuo indennizzo.

Nonostante i grandi interessi commerciali, le miniere di zolfo rimasero per lungo tempo legate al mondo arcaico dei feudatari e soffrendo la mancanza di innovazione tecnologica.

A metà dell’Ottocento le miniere in attività in Sicilia erano 300 ed occupavano 16.000 minatori. Soltanto 4 miniere erano munite di macchine a vapore per l’estrazione del minerale e l’eduzione delle acque, mentre altre 10 miniere disponevano di maneggio a cavalli, sicché da ben 286 miniere, la cui profondità media era di circa 60 metri dagli imbocchi a giorno,l’estrazione veniva praticata col trasporto a spalla effettuato da circa 10.000 operai, di cui 3.500 di età inferiore ai 14 anni.

Il coesistere di sistemi di lavoro del tutto primitivi e di precarie condizioni tecniche dell’industria erano determinate, in larga parte, da vincoli di gestione, tra proprietari ed esercenti, di antico stampo feudale.

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• “Le zone minerarie legate alla proprietà di superficie, erano in gran parte estremamente suddivise” per cui non si poteva sfruttare il filone di zolfo in miniera razionale ed efficiente; “la loro concessione in gabella era di durata limitata, in media nove anni; l’estaglio percepito dal proprietario raggiungeva in molti casi il 30% della produzione”. A tutto ciò si aggiungeva “la segnalata scarsezza di mezzi della maggior parte degli esercenti, ai quali fra l’altro correva l’obbligo, allo scadere della gabella, di lasciare al proprietario gli impianti costruiti”.

A testimonianza delle tecnologie arcaiche esistenti nelle miniere di quegli anni, vi era il metodo di fusione dello zolfo dellacalcarella. Per separare lo zolfo dal resto del minerale stratto (ganga) si bruciavano dei piccoli cumuli di minerale, adagiati in un fosso costruito a piano inclinato e dal diametro di 1 – 2 metri. Lo zolfo fuso, che rappresentava una piccola parte di quello contenuto nel cumulo iniziale (30 – 40 % di tenore), colava lungo il piano e fuoriusciva da un’apertura chiamata “foro della morte”. I restanti due terzi dello zolfo si volatilizzavano sotto forma di anidride solforosa, con grave danno degli operai e delle colture circostanti. La raccolta dello zolfo veniva completata in meno di ventiquattrore, da cui il vantaggio della rapidità con i danni però della scarsa produzione e dell’inquinamento.

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• Intorno al 1840, nel settore chimico terminò il monopolio dello zolfo nella produzione di acido solforico, a causa dell’introduzione dell’uso delle piriti per la produzione dell’acido.

•Tuttavia la domanda di zolfo, da parte dei paesi esteri, crebbe rapidamente poiché il minerale, polverizzato e mescolato con acqua, divenne l’unico rimedio efficace ad una malattia dei vigneti (l’oidium) propagatasi in tutta Europa. L’utilizzo dello zolfo nella coltivazione dei vigneti europei diventò un’operazione consueta per molti decenni, tanto da assorbire, alla fine del XIX secolo, quasi la metà della produzione dello zolfo siciliano.

• Si registrò, quindi, un forte aumento della produzione agevolata, anche, dall’introduzione del calcarone nella procedura di fusione dello zolfo, in sostituzione delle calcarelle. I calcaroni, che dal 1851 cominciarono a diffondersi nella maggior parte delle miniere, sono costruzioni di forma cilindrica, con pavimento a piano inclinato (10-15 gradi) di diametro tra i dieci ed i venti metri circondato da un muro alto circa cinque metri.

• Un muro di gesso separava il calcarone dalla camera antistante, nella quale l’arditore (operaio specializzato nella fusione dello zolfo), dopo alcune settimane dall’accensione e per un periodo lungo anche tre mesi, provvedeva ad aprire il foro della “morte” ed a suddividere la colata di zolfo fuso in degli appositi contenitori tronco – piramidali detti “gavite”.

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• Questi forni erano capaci di contenere, compresa la sopraelevazione conica, duemila metri cubi di minerale, i quali venivano ricoperti da una “camicia” di “ginisi” (rosticcio, minerale di scarto derivato dalla fusione dello zolfo) e attraversato da alcuni sfiatatoi.

•Il metodo di fusione del calcarone aumentò il tenore di zolfo fuso, diminuendo l’emissione di anidride solforosa ad un terzo dello zolfo contenuto nel minerale.

•Alla miniera Trabonella rimangono visibili, ancora oggi, nell’area degli antichi impianti, due lunghe batterie di calcaroni nelle quali si distingue, per il buono stato di conservazione, un colossale calderone con spalle in blocchi di pietra e foro della “morte” ancora intatti. Nella parte sottostante i forni, alcuni calcaroni conservano le gallerie di ingresso, alla camera dell’arditore, composte da archi con blocchi di pietra lavorati.

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• Con l’unità d’Italia il sistema solfifero siciliano visse importanti innovazioni rimanendo comunque legato agli antichi problemi riguardanti i modi ed i rapporti di produzione.

• Il Ministro di agricoltura e commercio nel primo ministero Ricasoli, Filippo Cordova, originario della provincia nissena, istituì nell’ottobre 1861 una “Giunta per il miglioramento della coltivazione delle miniere di zolfo e dell’industria solfifera”, composta da rappresentanti di grandi proprietari terrieri siciliani, docenti universitari e da tecnici minerari. I lavori della Giunta si basarono sul resoconto delle ispezioni alle zolfare siciliane eseguite da Felice Giordano, ispettore delle miniere, anch’esso componente della Giunta. Giordano denunciò metodi antiquati di escavazione e spese eccessive per il trasporto dello zolfo dalle miniere ai porti. Questa valutazione venne recepita dalla Giunta che, pur evitando di discutere l’arretratezza dei rapporti di produzione in quanto espressione degli interessi dei proprietari minerari, propose al ministero interventi innovativi:

• istituzione del Corpo delle Miniere siciliano, con sede a Caltanissetta;• istituzione di una Scuola per capi minatori affidata all’ingegnere piemontese Mottura,

con sede a Caltanissetta;• realizzazione della carta geologica dell’area zolfifera siciliana.• La richiesta, in ambito politico nazionale, di ammodernamento dei sistemi di trasporto

dello zolfo spiega le forti pressioni che, alcuni anni dopo, vennero esercitate per la costruzione della rete ferroviaria verso l’interno dell’isola.

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• 6 - Il sistema dei trasporti dello zolfo. La ferrovia (1860 - 1890)• Nel decennio post-unitario iniziò la costruzione delle rete ferroviaria siciliana. Ad eccezione della

linea ionica, i tronchi ferroviari siciliani seguirono la dislocazione degli insediamenti solfiferi , tra luoghi di produzione, raffinazione e commercio. Questo collegamento tra ferrovie e zolfare si verificò, anche, nelle attività di alcuni costruttori di linee ferrate come, ad esempio, nelle famiglie inglesi Trewella e Sarauw, da sempre impegnate nell’amministrazione di zolfare.

•Sino al 1870 le due linee Palermo – Lercara e Catania – Leonforte “posero le zolfare delle province di Palermo e Catania in una posizione privilegiata rispetto le altre esistenti nelle aree interne”. Negli anni settanta l’aspirazione ad ottenere il controllo commerciale delle aree solfifere interne portò ad uno scontro durissimo tra le città costiere orientali, insieme a Girgenti, e Palermo. Il motivo pratico del contendere fu il collegamento delle linee progettate Palermo – Porto Empedocle e Catania – Licata. Sebbene i favori del governo centrale ricadettero sui tracciati proposti dalle elites politiche palermitane, le scelte definitive sancirono “il ruolo emergente del porto di Catania e delle contigue attività di raffinazione”. I fronti catanesi ed agrigentini ebbero dalla loro parte l’economicità e la fattibilità tecnica dei tracciati realizzati, insieme al maggiore dinamismo dei ceti commerciali ed imprenditoriali della città etnea, riuscendo a prevalere sui politici palermitani che rivendicarono i privilegi dell’antica capitale.

Ne furono prova i dati relativi al movimento dello zolfo nelle stazioni nel 1885: Catania–116.700 tonnellate, Porto Empedocle–103.228 T, Licata – 58.746 T, Termini Imerese – 11.343 T, Palermo – 5.780 T .

"Il solfo viene attualmente trasportato nei tre versanti dell’Est (Catania), dell’Ovest (Porto Empedocle e Licata) e del Nord (Palermo e Termini). Dalle stazioni comprese fra Caltanissetta, Porto Empedocle e Licata si spedisce quasi sempre in questi porti; dalle stazioni situate tra Villarosa e Catania si spedisce quasi sempre in questa città, e solo dalla stazione Imera, intermedia, si spedisce ora all’uno ora all’altro versante. Nel versante Nord concorre soltanto la stazione di Lercara; dalle altre stazioni della linea Lercara – Girgenti si spedisce per Porto Empedocle." (Gatto M., Cenni sulla storia delle zolfare in Sicilia)

•Le zone minerarie non attraversate dalle linee ferroviarie rimasero, comunque, legate a condizioni arcaiche del trasporto dello zolfo.

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•"I comuni che non risentono il beneficio delle linee ferroviarie sono: Favara, Naro, Palma M.°, Raffadali, S. Angelo Muxaro, Butera, Terranova, Montallegro, Girgenti in parte, Cattolica, Cianciana, Bivona e Siculiana. Eccettuati i solfi di Palma, Cattolica e Siculiana, che giungono ai porti principali per via di mare, in barche o piccoli battelli, tutti gli altri sono trasportati con carri o con muli secondo le condizioni della viabilità". (Gatto M., Cenni sulla storia delle zolfare in Sicilia)

"Le ferrovie si confermarono un economia esterna capace di influire positivamente sul commercio minerario per la riduzione dei costi di trasporto. Ciò fu tanto più vero per le miniere vicino alle stazioni e per quelle più grandi che impiegarono notevoli risorse finanziarie per l’allacciamento diretto con le ferrovie tramite tramvie e teleferiche. Ma il problema principale continuò ad essere l’arretratezza dei rapporti di produzione […]. I tentativi dei Trewella-Sarauw di attuare l’ammodernamento degli impianti in alcune miniere, ottenere affitti più lunghi, abbattere la controproducente separazione tra attività estrattive e di raffinazione, furono troppo isolati e circoscritti […]". (Canciulo G., Ferrovie e commercio zolfifero)

Negli anni successivi all’unità nazionale si ebbe un forte aumento della produzione, di molto superiore al consumo, con il verificarsi di attività speculative degli intermediari.Si passò dalle 150.000 tonnellate di zolfo prodotto nel 1860, alle 326.657 T del 1886. La sproporzione tra produzione ed effettiva domanda portò ad avere, nel 1886, 400.000 tonnellate di zolfo in deposito. Questa, ennesima, crisi di sovrapproduzione portò ad ungrave ribasso dei prezzi dello zolfo.

•Nonostante i risvolti mondiali dello zolfo siciliano, l’organizzazione imprenditoriale locale perpetuò i suoi sistemi di produzione desueti ed irrazionali

.

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• "[…] lo zolfo siciliano costituiva la principale o una delle principali ricchezze minerarie italiane, ed era una autentica riserva del mondo. […] Fra il 1860 e il 1890 lo zolfo estratto in provincia di Caltanissetta, e nelle altre province contermini, rappresentava un supporto fondamentale del rapporto dell’Italia con il mercato internazionale. Allora la bilancia commerciale italiana aveva assai bisogno di valuta pregiata che facilitasse la crescita industriale del paese, e gran parte di questa valuta veniva fornita appunto dall’industria siciliana dello zolfo. Ma pur con quelle circostanze favorevoli le innovazioni tecnologiche come pure le modificazioni della organizzazione produttiva per incapacità, per mancanza di capitali, per inesperienza imprenditoriale, ma anche per errato calcolo economico (lo sfruttamento sic et simpliciter del lavoro umano rendeva di più che la costosa e non sempre promettente introduzione di nuove macchine), […] vennero sistematicamente scartate". (Renda F., Ferrovie e commercio zolfifero)

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• Gli industriali inglesi interessati alla produzione ed al commercio dello zolfo e preoccupati dalla discesa dei prezzi, avanzarono delle proposte di riassetto commerciale. Nel 1896 si giunse alla costituzione della “Anglo – Sicilian Sulphur Company” su iniziativa di Ignazio Florio ed imprenditori inglesi.

•"[…] la compagnia […] si assicurò, ad un prezzo determinato, contro pagamento alla consegna, circa la metà della produzione siciliana. Era anche prevista, ma in maniera del tutto inapplicabile, la possibilità di frenare la produzione. Il Governo, dal canto suo, abolì il dazio di esportazione e tutte le tasse dirette e indirette gravanti sulla produzione e sul commercio solfifero. Unico prelevamento, quello di una lira su ogni tonnellata di zolfo esportato.[…] Un più facile accesso al credito consentì ai produttori più avveduti di attuare qualche miglioramento delle attrezzature". (Lo zolfo in Italia, atti del Convegno Nazionale dello zolfo, Ente Zolfi Italiani, 1961). Si riuscì a stabilizzare i prezzi dello zolfo e le grandi miniere migliorarono gli impianti grazie, anche, all’arrivo di tecnici e borghesia imprenditoriale provenienti dal nord dell’Italia.La quasi totalità dei vecchi impianti, oggigiorno visibili in parte nelle zolfare situate a nord-est di Caltanissetta, risalgono infatti a quel periodo storico.

Miniera Trabonella. La miniera venne affittata all’imprenditore lombardo Gedeone Nuvolari (zio del famoso Tazio) nel 1897 con la direzione dell’ingegnere Mezzena.Degli impianti ancor oggi visibili, i seguenti vennero realizzati in quegli anni: il camino del riflusso Nuvolari (1898), elegante costruzione in pietra di sabucina e mattoni di terracotta; alcune “abitazioni” degli operai, consistenti in baracche in muratura ad unica elevazione; la tramvia a cavalli (1898) che collegava la miniera alla stazione Imera, riconoscibile oggi, in lunghi tratti, per il sedime ferroviario; due grandi sestiglie di forni Gill (inizio del XX secolo), con ancora i fori per la carica del minerale ed i camini di sfiato. In posizione centrale rispetto agli impianti appena descritti, svetta la palazzina della direzione, risalente alla seconda metà del XIX secolo, a tre elevazioni.

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•Miniera Gessolungo. La sezione Maurelli della miniera venne affidata al veronese ing. Travaglia nel 1893. Nei primi anni del ‘900 e sino al 1919 le varie sezioni vennero unificate e gestite da un unico esercente: l’ing. Giacomo Fiocchi, originario di Milano.Gli edifici dell’epoca rimasti visibili sono: il castelletto di estrazione del pozzo Fiocchi (1912) e l’attigua sala argano. Il castelletto del pozzo Fiocchi è uno degli ultimi castelletti in muratura ancora in piedi, che venne dotato, negli anni ’50, di una lanterna in cemento armato. Nel castelletto si ritrovano ancora le molette, le funi e le gabbie.

Miniera Iuncio-Testasecca. All’inizio del XX secolo la miniera, proprietà del conte Ignazio Testasecca, venne affidata al padovano ing. Putti. Gli unici edifici della miniera attualmente conservati sono le strutture di servizio agli impianti del pozzo, oggi non più esistente, e la palazzina della direzione. Quest’ultima, risalente ai primi anni del ‘900, è composta da tre elevazioni con motivi di chiara ispirazione liberty e con una torre di avvistamento nel lato principale, che ne costituisce la quarta elevazione.

Miniera Saponaro. Della zolfara, proprietà alla fine del XIX secolo del conte Ignazio Testasecca, rimane un solo, ma caratteristico, impianto risalente agli anni tra ‘800 e ‘900.Si tratta dei resti di alcune quadriglie di forni Gill, posizionate sul fianco di una collina, costituite da muri basamentali con blocchi di sabucina, con la bocca d’ingresso ai forni, e da alti ed eleganti camini in mattoni di terracotta.

Miniera Stretto – Giordano. Gli unici edifici ancora esistenti della zolfara vennero costruiti durante gli ultimi anni del XIX secolo. Intorno al 1886 la miniera risultò gestita da Robert Trewella; noto imprenditore inglese attivo nella costruzione di tronchi ferroviari, nella amministrazione delle zolfare e nel commercio dello zolfo. Durante la sua gestione sorsero due caseggiati in muratura, probabilmente destinati a magazzino, e l’edificio principale della miniera.Quest’ultimo, oggi ridotto a rudere, è un blocco a pianta rettangolare, a due elevazioni con copertura a doppia falda. Al piano terreno vi sono delle grandi aperture con archi a tutto sesto, da cui si accede ai depositi. Il piano superiore venne, invece, adibito ad uffici.

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• 8 - L'inizio del declino nel XX secolo (1900 - 1906)• La stabile politica commerciale della Compagnia Anglo-Sicula connessa ai miglioramenti

tecnologici delle zolfare ebbero effetti positivi sulla produzione mineraria. Il 1901 fu, infatti, l’anno di massima produzione ed occupazione, in assoluto, delle zolfare siciliane: 537.543 tonnellate di zolfo prodotto con 38.922 operai.

"Nel 1901 si raggiunse la massima attività del settore zolfifero Siciliano. […] si ottennero 538.000 tonnellate di zolfo, produzione mai raggiunta nel tempo; rappresentò in quell’anno il 95% della produzione nazionale; l’84% dello zolfo prodotto in Sicilia pari a tonnellate 472.000 venne acquistato da 30 Paesi dell’Europa, dell’America, dell’Asia e dell’Africa per un valore di L. 52.000.000 di allora corrispondenti al 61% del valore totale di tutta la produzione mineraria del Regno.La meccanizzazione raggiunse un alto livello con ben 119 macchine a vapore e 12 maneggi a cavalli. Il numero delle miniere in attività raggiunse il numero di 886, con una occupazione di 39.000 operai […].[…] ancora ben 6.400 carusi di età inferiore ai quindici anni erano adibiti al massacrante trasporto a spalla del minerale dai fondali delle miniere alla superficie". (Zurli M., Luci ed ombre di miniera) La favorevole situazione per lo zolfo siciliano si protrasse sino al 1906, anno in cui la “Anglo – Sicilian Sulphur Company” cessò la propria attività avendo avvertito per tempo i pericoli derivanti dalla scoperta negli Stati Uniti d’America di un nuovo metodo di estrazione dello zolfo (il metodo “Frasch”).

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• Tale metodologia d’estrazione, non applicabile nel bacino zolfifero siciliano a causa di differenti conformazioni geologiche del sottosuolo, abbassò notevolmente i costi dello zolfo americano rendendo non più competitive economicamente le zolfare siciliane. La tecnica di estrazione americana fu totalmente diversa da quella utilizzata in Italia; non occorreva, infatti, impiegare migliaia di minatori nelle viscere della terra per scavare interminabili gallerie sotterranee.

Il metodo Frasch, che mise in crisi l’intera economia solfifera italiana, si distingue nettamente dai metodi tradizionali per l’estrazione dello zolfo in quanto si basava su una tecnologia che consentiva, in un unico ciclo di operazioni l’estrazione e la fusione del minerale con dei valori di purezza del prodotto non ottenibili altrimenti senza ricorrere alla raffinazione. Il processo consiste nella intercettazione a mezzo di trivellazioni meccaniche della vena solfifera a profondità variabili, nella fusione in loco per mezzo di acqua e vapore acqueo ad alta temperatura e al trasporto del minerale in superficie mentre permane lo stato di fusione. Per ottenere questo procedimento occorre trivellare il terreno con fori di diametro variabile fino alla profondità del giacimento. Quindi vengono calati dei tubi fino al tetto del giacimento; all’interno di questa camicia metallica vengono calati ulteriori tre tubi che vengono posizionati a profondità diverse nel giacimento. Viene introdotta acqua bollente a pressione e lo zolfo, che si liquefa a 116 gradi centigradi, si raccoglie in basso e quindi penetra nello spazio del tubo intermedio dove viene aspirato verso la superficie. All’esterno lo zolfo viene raccolto in appositi vasconi e quindi successivamente solidificato in contenitori di deposito (vat). (Zurli M., Luci ed ombre di miniera)

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• 9 - La crisi a cavallo della prima guerra mondiale (1906 - 1930)• La perdita siciliana del monopolio dello zolfo spinse i produttori siciliani a ricercare

un accordo con l’Union Sulphur americana per la spartizione dei mercati.

"Si propose di non più esportare in USA la produzione siciliana; da parte loro gli USA non avrebbero dovuto inviare zolfo in Europa. Un accordo di questo genere non poteva essere valido se non impegnativo per tutti i produttori siciliani […].E poiché non appariva realizzabile una volontaria adesione di tutti ad un organismo rappresentativo, fu da più parti richiesto un provvedimento che imponesse l’unione: nacque così la legge 15 luglio 1906, n. 333, istitutiva del “Consorzio Obbligatorio per l’Industria Zolfifera Siciliana”". (Lo zolfo in Italia, atti del Convegno Nazionale dello zolfo, Ente Zolfi Italiani, 1961)

"Nel 1906, sotto l’incalzare della crisi determinata dai prezzi dello zolfo statunitense, prevalse la scelta di formare il consorzio obbligatorio dei produttori che finì per essere un cartello di vendita piuttosto che un trust di produzione". (Zolfare in Sicilia, Legambiente-Salvalarte Sicilia, Palermo 2004) 

• A partire dal 1906 la produzione di zolfo andò sensibilmente assottigliandosi,scendendo al di sotto delle 400.000 tonnellate nel giro di pochi anni, contro le 536.782 tonnellate del 1905.

•Frattanto molte piccole miniere inadeguate tecnologicamente, raggiunsero il livello acquifero e dovettero cessare le attività estrattive.

•Il numero degli operai diminuì, rimanendo sempre inferiore alle 30.000 unità, contro i 38.922 operai del 1901.

•Tutto ciò favorì la massiccia emigrazione transoceanica anche dalle aree minerarie della Sicilia, che sino a quel periodo non erano state interessate da tale fenomeno differentemente dalle province ad antica emigrazione, come Palermo e Messina.

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• Gli accordi con l’Union Sulphur americana vennero meno allo scoppio della prima guerra mondiale, a causa dell’aumento della richiesta di zolfo per scopi bellici che consentì lo smercio di tutta la produzione zolfifera mondiale. Il fenomeno si aggravò “anche per le difficoltà di approvvigionamento dei materiali occorrenti per l’attività mineraria e per la chiamata alle armi dei lavoratori”.Il 1917 fu un anno negativo per l’attività zolfifera siciliana: la produzione di zolfo scese a 183.159 tonnellate, più che dimezzata rispetto a dieci anni prima, mentre il numero di operai risultò, per la prima volta dal 1878, inferiore alle 10.000 unità (9.857).

In tale periodo di grave difficoltà economica delle zolfare mancò, ovviamente, del tutto ogni tentativo di miglioramento tecnologico degli impianti. Unica eccezione fu la miniera Trabonella, una delle maggiori zolfare della Sicilia. Questa miniera, rimasta chiusa dal 1911 al 1914 per un grave incidente minerario, passò in gabella alla ditta D’Oro – Lo Pinto – Cortese nel 1914, sostituendo la vecchia ditta esercente Nuvolari. Nel 1916 si decise di spostare l’attività d’estrazione intorno ad un nuovo pozzo, situato ad Ovest e più a monte della vecchia zolfara, detto anche pozzo D’Oro, che raggiunse la profondità di metri 280.Parte del castelletto metallico del pozzo D’Oro è ancora visibile, mentre l’imbocco del pozzo è sigillato da un blocco in muratura.Nel 1918 il governo centrale prorogò il Consorzio obbligatorio di vendita per un dodicennio ed emanò dei provvedimenti destinati ad agevolare la concessione di mutui e sovvenzioni agli esercenti, nel tentativo di migliorare le sorti dell’attività mineraria.

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• Nonostante gli accordi economici stipulati dal Consorzio Obbligatorio, lo zolfo siciliano, totalmente esportato all’estero, non riusciva a reggere la spietata concorrenza dell’industria americana. Ciò venne aggravato dall’impossibilità di trasformare lo zolfo in altre materie prime in prossimità dei luoghi di produzione, a causa dell’inesistenza in Sicilia di stabilimenti industriali di trasformazione. Tale utilizzazione avrebbe evitato allo zolfo siciliano la via obbligata dell’esportazione.Il numero delle miniere attive continuò a diminuire costantemente sebbene la produzione di zolfo ed il numero di operai si mantenne pressoché stabile sino all’inizio della seconda guerra mondiale, seppure con numeri ben lontani da quelli di inizio secolo.

"Le persistenze della crisi del mercato internazionale determinarono il disimpegno del capitalismo settentrionale mentre sopravvivevano, duri a morire, i residui feudali". (Zolfare in Sicilia, Legambiente-Salvalarte Sicilia, Palermo 2004)

In quegli anni, in cui molte miniere videro cambiare i propri esercenti, la mafia cominciò a mostrare interesse per la gestione di alcune zolfare. Non a caso è documentata la presenza del capo mafia don Calogero Vizzini nelle gestione della miniera Gessolungo dal 1919 al 1954, e della miniera Gibellini, sita fra Montedoro e Racalmuto, intorno agli anni ’50.Il Regio Decreto 29 luglio 1927, n. 1443, reintrodusse la demanialità dei sottosuoli minerari cercando, seppure in ritardo, di trasformare il regime feudale di proprietà. La proprietà delle miniere passò allo Stato, più precisamente al Corpo Nazionale delle Miniere, dipendente dal Ministero dell’Industria.Tuttavia il carattere della legge fu più formale che sostanziale. Infatti, nella miniera Trabonella, alla proprietà del barone Morillo si sostituì la concessione perpetua della S.A.M.T. (Società Anonima Miniere Trabonella), amministrata dal barone stesso. Anche alla miniera Gessolungo gli esercenti antecedenti al 1927 rimasero alla guida della zolfara, uniti sotto il nome di Società Anonima Miniere Gessolungo.

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• L’Industria zolfifera siciliana trasse un irrisorio beneficio, in termini di zolfo prodotto, da tale applicazione della legge.Risalgono al 1931 due planimetrie delle aree minerarie situate a nord-est di Caltanissetta e della singola miniera Trabonella, realizzata dall’Istituto Georafico Militare.Nella planimetria in scala 1:25000 la dislocazione delle varie miniere ripercorre il maggiore filone zolfifero nisseno, a forma di grande “Omega”, descritto dagli insigni geologi dell’Ottocento (Mottura, Parodi, Baldacci, Travaglia, Gatto); alle sue estremità le zolfare Giangiana (Gessolungo) e Giumentaro. Sono visibili gli antichi percorsi di connessione tra le miniere e la linea tranviaria che collegava la miniera Trabonella con la stazione ferroviaria Imera.La planimetria in scala 1:5000, relativa alla sola miniera Trabonella, mostra la dislocazione degli impianti esterni della zolfara. All’estremità occidentale, il pozzo D’Oro attorno al quale si costruirono gli impianti moderni a partire dagli anni ’50, abbandonando gradualmente la sezione Luzzatti. Sono anche rappresentati le lunghe batterie di calcaroni e forni Gill ed i vasti accumuli di rosticcio, che ancora oggi conferiscono alla zona una particolare morfologia.

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• 10 - La crisi nel periodo della seconda guerra mondiale (1930 - 1950)• Dopo la liquidazione del “Consorzio Obbligatorio per l’Industria Zolfifera Siciliana” nel

1932, la maggior parte dei produttori chiese nuovamente l’intervento dello Stato. Ebbe così vita, con il R.D. 11 dicembre 1933, n. 1699, “l’Ufficio per la Vendita dello zolfo italiano”, con sede in Roma.

L’ufficio riunì così, per la prima volta, in un unico organismo commerciale, tutti i produttori italiani, assicurando loro un ricavo minimo sugli zolfi prodotti.Con ciò l’industria potè fruire di un periodo di relativa tranquillità, anche se i ricavi risultarono appena sufficienti a coprire le sole spese indispensabili di esercizio. L’Ufficio Vendita venne trasformato, nel 1940, in Ente Zolfi Italiano (E.Z.I.), ed in questo furono accentrate tutte le attività di carattere commerciale, tecnico-industriale e di assistenza sociale riguardante il settore solfifero. All’E.Z.I. fu conferito il monopolio del commercio interno ed estero dello zolfo italiano. Ebbe anche i compiti di incoraggiare studi e ricerche per trovare nuovi campi di lavoro e nuovi metodi di trattamento del minerale.

"[…] il nuovo Ente, anche per le limitate disponibilità finanziarie concessegli dalla legge istitutiva, ben poco potè fare a favore dell’industria solfifera. Aggiungasi che il passaggio della guerra nell’Isola ed il permanere a lungo in Italia del fronte di operazione resero del tutto precari i vincoli con i produttori, ciscuno alle prese con le rovine prodotte dalla guerra alla propria miniera". (Lo zolfo in Italia, atti del Convegno Nazionale dello zolfo, Ente Zolfi Italiani, 1961)

Nel 1950 venne costruita una centrale operativa dell’E.Z.I. a Caltanissetta, in contrada Terrapelata, in corrispondenza della nascita del villaggio operaio S. Barbara. La serie di edifici, ancora oggi esistenti ma abbandonati, era costituita da uffici tecnici, laboratori, magazzini e officine in cui lavorarono decine di geologi, chimici e periti minerari provenienti dal norditalia e dalla stessa Caltanissetta.

Durante il secondo periodo bellico molte miniere dovettero chiudere per le frequenti mancanze di energia elettrica con i conseguenti allagamenti delle gallerie interne. L’attività mineraria ebbe un crollo verticale. Nel 1944 la produzione di zolfo ed il numero di opeari raggiunsero il minimo storico dall’inizio del XIX secolo: 32.841 tonnellate di zolfo prodotto (208.896 nel 1940) e 4786 operai (14.043 nel 1940).Alcune zolfare subirono, oltretutto, bombardamenti e mitragliamenti, dagli eserciti stranieri, con gravi danni alle strutture.

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• 11- Ripresa produttiva con la guerra di Corea (1951 - 1959)• Alla fine degli eventi bellici, le riserve mondiali di zolfo, impoverite da un lungo conflitto mondiale

(ricordiamo che lo zolfo fu un componente principale degli esplosivi bellici), e l’industria estrattiva americana non riuscirono a soddisfare la forte domanda generale di zolfo.Nonostante i danni causati alle miniere dalla guerra, l’attività estrattiva riprese con un ritmo sostenuto, spesso a discapito della sicurezza delle maestranze.Un forte impulso alla produzione di zolfo arrivò, anche dallo scoppio della guerra di Corea (1951). "Evidentemente, nel clima internazionale del tempo, di forte contrapposizione fra i due blocchi militari politici e ideologici avversi […], la prospettiva non era solo la guerra di Corea, ma il suo assai probabile allargamento ad latre aree del pianeta.In quelle condizioni, il mercato mondiale divenne tutto ad un tratto un grande affamato di zolfo, materia prima della industria di guerra. In conseguenza non solo i prezzi salirono alle stelle: non si pose più pertanto il problema dei costi, anche altissimi. Ma il governo italiano, al fine di incrementare comunque la produzione, intervenne con apposita legge, la legge del 12 agosto 1951, stanziando 9 miliardi che poi furono portati a 16 […], onde ottenere l’incremento produttivo fino a 500 mila tonnellate di zolfo annue". (Economia e società nell’area dello zolfo, secoli XIX-XX, S. Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1989)

Così il principale dichiarato scopo di aumentare la produzione […] è risultato ben presto inattuale di fronte all’imperativo di ridurre il costo di estrazione2.

Alcune miniere, soprattuto le più estese, poterono beneficiare di ingenti investimenti per impianti di una certa rilevanza, sino al 1959.Gran parte degli impianti moderni delle zolfare risalgono a quel decennio e sono ancora oggi visibili; interessanti non per il valore storico inesistente ma per la mole e l’alta tecnologia dei macchinari che testimoniano l'introduzione della "flottazione".

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• 12 - Le miniere soffocate dal clientelismo (1960 - 1970)• Finito il periodo della guerra di Corea la domanda di zolfo diminuì drasticamente, mettendo in

crisi il settore minerario siciliano. Lo zolfo era prodotto a costi proibitivi, circa sei volte rispetto a quello ottenuto negli Stati Uniti dalla distillazione frazionata del petrolio (scoperta successivamente al metodo “Frasch”).La produzione italiana di zolfo, coincidente totalmente con quella siciliana dopo la chiusura di tutte le zolfare di Romagna e Marche, rappresentò nella bilancia mondiale meno del 2%. I dati di produzione furono inferiori alle 100.000 tonnellate, con valori simili a quelli di inizio ottocento; ciò nonostante le zolfare siciliane rappresentavano in quegli anni una grande realtà industriale in cui lavoravano 7.200 operai.Con il passaggio delle competenze del settore solfifero siciliano alla Regione, fu varato un Piano di Riorganizzazione quinquennale (L.R. 13 marzo 1959, n. 4). "Tale legge richiedeva, da parte degli esercenti, la presentazione di un progetto quinquennale di ristrutturazione della miniera le cui spese sarebbero state, inizialmente, a totale carico della Regione. Il finanziamento sarebbe stato erogato man mano che fossero stati approvati dal Corpo Regionale delle Miniere, gli stati di avanzamento. Le somme sarebbero state restituite alla Regione siciliana alla fine del quinto anno, una volta che fosse stata avviata la ripresa dell’attività economica zolfifera. Tutte le miniere dovevano ricostituirsi in società per azioni ed impegnarsi a mantenere occupati un certo numero di dipendenti e pagarli regolarmente a fine mese. Insomma, sembrava una buona legge. Purtroppo, come tutte le cose che sembrano di facile realizzazione, si verificò in seguito qualche cosa di anomalo. Per prima cosa, nei consigli di amministrazione cominciarono a entrare alcuni personaggi politici ambigui, di scarsa competenza nel “buon amministrare”. Possedevano, solo, l’abilità di fare bieco clientelismo.[…] Dei lavori veri e propri che rispettassero il programma originario neanche l’ombra! In quegli anni si consumò certamente il vero dramma delle miniere e, naturalmente, dello stesso minatore". (Zurli M., Luci ed ombre di miniera, Edizione Lussografica, Caltanissetta 1997)

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• Al termine dei cinque anni previsti dal Piano di Riorganizzazione, la maggior parte dei concessionari di zolfare risultarono inadempienti. La Regione Siciliana, a partire dal 20 ottobre 1964, revocò le singole concessioni ai privati per affidarle all’Ente Minerario Siciliano, prima, e alla SO.CHI.MI.SI. (Società Chimica Mineraria Siciliana a copertura pubblica), dal 1967.Dal secondo dopoguerra tanti zolfatai lottarono per il passaggio della miniera alla gestione pubblica rivendicando condizioni di lavoro accettabili, la cessazione della mentalità feudale nella gestione delle miniere, la verticalizzazione del settore minerario con un ciclo di produzione e di trasformazione chimica dello zolfo nel territorio siciliano.Purtroppo le decisioni politiche nascosero ben altre finalità.

"[…] a distanza di appena un anno dall’acquisizione delle miniere da parte dell’EMS, tutto si sovvertì, sotto gli occhi increduli di tutti. […] La verità era ben altra. Occorreva riciclare dirigenti trombati in avventure politiche passate che non potevano essere lasciati in mezzo ad una strada. Occorreva trasformare l’EMS in un grosso carrozzone politico senza futuro, clientelare ed assistenziale." (Zurli M., Luci ed ombre di miniera, Edizione Lussografica, Caltanissetta 1997)

Negli anni successivi molte zolfare furono chiuse; all’inizio degli anni ’70 erano rimaste attive in Sicilia soltanto dodici miniere. Imponenti lavori di ammodernamento interessarono gli impianti delle miniere a gestione regionale, senza che ciò potesse impedire il graduale disfacimento del settore solfifero.

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• 13 - Crisi finale e dismissione del settore solfifero siciliano (1970 - 1989)• Con la legge regionale 6 giugno 1975, n. 42, venne decretata la chiusura di alcune miniere.

Rimasero aperte soltanto quattro zolfare.• I sotterranei della miniera Trabonella furono sigillati il 3 dicembre 1975. Solo l’impianto di

flottazione rimase in attività, con minerale proveniente da altra miniera.L’unica miniera attiva nell’estrazione del minerale, all’interno del bacino solfifero a nord-est di Caltanissetta, fu la Gessolungo-Iuncio Tumminelli.Nei primi anni ’80 gli ultimi due impianti vennero costruiti all’interno della miniera Trabonella: si tratta degli impianti di purificazione e di ventilazione dello zolfo.Il primo impianto è ospitato in un capannone in cemento armato prefabbricato, adiacente l’impianto di flottazione. Nell’impianto di purificazione veniva trattato il concentrato di flottazione per l’eliminazione del suo contenuto in acqua, mediamente del 10 %, e della ganga ancora presente, per essere portato al tenore 99-100 % in zolfo. Il minerale arricchito, mediante un nastro trasportatore, veniva inviato al piazzale esterno. Il successivo impianto di ventilazione, che si trova nei pressi dell’uscita secondaria della miniera,produceva zolfi ventilati per l’agricoltura. L’impianto è ospitato in un edificio prefabbricato, di fronte ai silos del concentrato di flottazione e del concentrato purificato dai quali veniva inviato il minerale tramite un nastro trasportatore, ed è ancora in buono stato di conservazione. Attraverso i reparti essiccazione e macinazione, veniva prodotto e confezionato il ventilato di zolfo, utilizzato in agricoltura.Adiacenti all’impianto di ventilazione si trovano i depositi degli stok di zolfi ventilati. Sul piazzale esistono, ancor oggi, parti di alcune varietà di prodotti finiti di zolfo. Dinanzi l’uscita secondaria della miniera è collocata la bilancia a “bilico” per la pesatura dei camion.

Nel 1988 la Regione Siciliana, con la L.R. 8 novembre 1988 n. 34, decretò la dismissione del settore solfifero con la chiusura definitiva di tutti gli impianti.I pozzi Fiocchi, Maurelli e Tumminelli sono stati chiusi il 23 gennaio del 1990."L’E.M.S., a completamento della sua pessima e irresponsabile amministrazione, non fece nulla per salvaguardare almeno i macchinari e le attrezzature, lasciandole nell’incuria generale, contravvenendo anche a quanto stabilito dalla legge regionale 34/1988 che all’articolo 8 recita: “L’E.M.S. […] provvederà alla chiusura delle miniere di zolfo […] curando il recupero dei beni e delle attrezzature utilmente asportabili.” (Zurli M., Luci ed ombre di miniera, Edizione Lussografica, Caltanissetta 1997)

“Così furono spenti luci e riflettori su un’intera parte di storia” economica, sociale ed industriale della Sicilia.

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•  Carusi• Descritti in tanti romanzi e novelle di autori famosi, sfruttati e maltrattati da un sistema che non ammetteva pietà,

i carusi erano ragazzini, "picciriddi di 7 - 8 anni che aiutavano la famiglia a ''buscare' un pezzo di pane. Molti di loro a quei tempi venivano venduti ai Capi partita per cento o duecento lire e il padre non poteva più riaverli, fino a quando non restituiva i soldi ricevuti."

• Il termine siciliano carusi letteralmente significa "ragazzi" e deriva dall'espressione latina carens usu che significa "mancante d'esperienza".

Il fenomeno del lavoro minorile è stato a lungo diffuso in tutta Italia: nello specifico, il termine caruso era riferito ai minorenni del meridione d'Italia, dopo l'unità.I Carusi erano elementi essenziali in tale sistema di lavoro: sotto tale nome andavano compresi non solo i ragazzi, ma anche gente invecchiata in quel mestiere; il loro compito consisteva nel trasportare all'esterno il materiale estratto nelle viscere della terra, in un'epoca in cui si sconoscevano gli ascensori meccanici o non si avevano le capacità economiche per impiantarli. Essi possono essere considerati addirittura come gli schiavi dell'industria zolfifera, la cui attività era pesantissima e sicuramente non adatta alla tenera età. Erano infatti adoperati anche dei ragazzi dell'età di sei anni e fu salutato come un portento il provvedimento legislativo n. 3657 dell'undici febbraio 1886 che vietava l'impiego di ragazzi se non avessero compiuto il decimo anno di età e se non fossero stati di sana costituzione fisica da accertarsi mediante visita medica. Giuseppe Pitrè in "Usi e costumi del popolo siciliano" ci parla anche dell'impiego di caruse, solitamente nei lavori di riempimento dei calcheroni, ma si é riscontrata tale consuetudine in pochi centri zolfiferi, tra cui Cianciana, donde appunto l'autore ne ebbe notizia.  L'orario di lavoro poteva arrivare a sedici ore giornaliere e i poveri sfruttati potevano subire maltrattamenti e punizioni corporali se accusati di furto (il più delle volte la colpevolezza era inesistente), o di scarso rendimento.

•Il superiore diretto dei carusi era il picconiere; dopo che questi aveva preparato il carico, i carusi lo mettevano dentro sacchi di tela molto robusti o più spesso in cesti di vimini di forma conica, gli "stirriaturi". Adattandosi su una spalla un cuscino riempito di paglia con una correggia alle punte, che essi facevano passare sulla fronte per farlo restare fermo, vi poggiavano sopra il carico e, disponendosi in fila indiana, cominciavano l'ascesa attraverso le scale senza fine, così strette da non permettere il passaggio simultaneo di due persone. Il primo della fila portava la lucerna di creta a olio sulla fronte, uncinandola alla corda che sosteneva il cuscino. Il carico era costituito da circa cinquanta chilogrammi di minerale, come un sacco di cemento; e' quindi immaginabile l'enorme fatica cui erano sottoposti quegli esili corpicini, molto spesso malnutriti.Nudi o quasi, muniti di un gonnellino cinto alla vita, essi vennero rappresentati da scrittori che visitarono le zolfare, tra cui Luigi Pirandello che ce ne da una suggestiva descrizione nella novella "Ciaula scopre la luna".

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• Iniziata la marcia per portare il minerale all'esterno "spaddafori" cioè a spalla, essi si fermavano ogni tanto per riprendere fiato. La discesa avveniva invece lentamente per il rammarico di dover abbandonare la chiara luce per immergersi nuovamente nell'oscurità e per la paura che provavano nei confronti del picconiere, che, essendo pagato a cottimo, li accoglieva con parolacce o addirittura li percuoteva a calci e a pugni pensando che avesse impiegato troppo tempo per il trasporto; il suo potere sul caruso era infatti molto grande. Pagando ai genitori di questo qualche centinaio di lire, il che  prendeva il nome di "succursu muortu", egli assumeva sotto la sua direzione il ragazzo, cui forniva il cibo, consistente in pane di segale, in qualche pezzo di formaggio e nel "cucinatu", costituito dalla cosiddetta pasta alla "carrittiera", cioé bianca o con olio e aglio, oppure condito con sugo fatto alla buona o con i prodotti tipici della stagione: in primavera per esempio erano molto usate le fave verdi, i cosiddetti' "faviani".Succedeva spesso che i genitori del caruso accettassero il "succursu muortu" da un altro picconiere, e si rifiutassero di restituire al primo la somma ricevuta, provocando così delle liti con conseguenze talvolta dolorose. Spesso dei carusi ceduti si perdevano letteralmente le traccie al punto che in varie tragedie in miniera dove essi perivano spesso i carusi estratti morti non avevano neanche un nome. Emblematico a riguardo il cimitero dei minatori morti nella tragedia di Gessolungo nel 1881 dove sono sepolti 9 carusi senza nome.

E' facile comprendere in quali condizioni fisiche e morali crescessero questi ragazzi. Spesso era dato vedere dei corpi sbilenchi, con le gambe ad angolo per l'abitudine a camminare sotto gravi pesi; le ginocchia di una grossezza eccezionale, la pancia rigonfia, fenomeno dovuto alla malaria e combattuta con mezzi empirici, sconoscendosi il chinino, cioé inghiottendo grani di pepe o infusi fatti con legno cassio.Moralmente questi ragazzi venivano su in condizioni ancora più spaventose; abbrutiti per non avere conosciuto le gioie dell'infanzia spensierata, avendo vissuto in luoghi in cui facilmente potevano svilupparsi gli istinti più bestiali, privi di una benché minima educazione scolastica e immersi nel più totale analfabetismo.

• Il racconto di Giovanni Verga, Rosso Malpelo, descrive accuratamente le condizioni di vita dei carusi di miniera .

Solo alla metà del XX secolo questa situazione di sfruttamento si attenuerà per cessare negli anni fra il 1967 ed il 1970. Nei processi effettuati negli anni cinquanta sono emerse testimonianze raccapriccianti contro gli sfruttatori.

Anche il racconto Ciàula scopre la luna  in Novelle per un anno di Pirandello tratta la storia di un caruso di miniera, che per la prima volta vede la luna nella notte, di cui aveva sempre avuto paura.

Il primo film del regista siciliano Aurelio Grimaldi intitolato La discesa di Aclà a Floristella analizzava proprio l'allucinante vita di un povero caruso, sfruttato e abusato nella miniera di Floristella.

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• 1 – Diffusione della formazione gessoso-solfifera in Sicilia.• Il più alto sviluppo della formazione gessoso-solfifera è raggiunta in Sicilia, nelle province di Caltanissetta, Enna

ed Agrigento. Qui ricorrono i più ricchi strati produttivi, i più estesi che sono stati più diffusamente coltivati negli ultimi due secoli.La Sicilia, per la sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo, è la regione dove la serie gessoso solfifera affiora più estesamente (oltre 1.000 km2, pari al 4% del suo territorio) e nella successione più completa. I caratteri generali della formazione mio-pliocenica non differiscono sostanzialmente da quelli che essa rappresenta nelle altre regioni italiane. Consta di un pacchetto di strati concordanti, talvolta inclinati, affetti da numerose fagliie.

•2 – Genesi della formazione gessoso-solfifera.

• La sua genesi è spiegata con la temporanea chiusura dello Stretto di Gibilterra per l'avvicinamento della Spagna all'Africa. Circa 5 milioni di anni fa, infatti, la soglia di Gibilterra (attuale stretto di Gibilterra) rappresentava un diaframma che separava le acque dell'Oceano Atlantico dal bacino Mediterraneo.

•Nel Miocene superiore (Messiniano) quasi tutta l'area del Mediterraneo fu interessata da una radicale variazione ambientale, risultato di cambiamenti climatici e della creazione di una soglia tettonica che tagliò completamente i rapporti tra il Mediterraneo e l'Oceano Atlantico, promuovendo la deposizione di potenti spessori di sedimenti evaporitici. L'evoluzione seguita dal bacino portò ben presto ad una situazione caratterizzata da condizioni critiche: la temperatura e la concentrazione delle acque del Mediterraneo aumentarono considerevolmente. Questo evento è noto in letteratura come "crisi di salinità". Il clima estremamente arido e la mancanza di adeguati apporti idrici portò il Mediterraneo a perdere le sue caratteristiche di mare aperto e lo trasformò in una serie di bacini a carattere lagunare. In questo contesto si ha la deposizione della serie evaporitica che presenta spessori differenti nelle varie aree di deposizione. I terreni pre-solfiferi del Miocene medio-alto sono costituiti da rocce sedimentario-detritiche che si depositarono in seguito al sollevamento con erosione di vaste aree della Sicilia, nel corso di un evento tettonico compressivo verificatesi nel Tortoniano.

• Si tratta di sedimenti terrigeni, in gran parte di ambiente fluvio-deltizio, nei quali si intercalano depositi di natura argillosa, analoghi ai flussi gravitativi che si realizzarono in ambiente sottomarino.

• Durante il Messiniano, nei vari ambienti lagunari, venutisi a creare durante la fase di isolamento, le acque evaporavano fortemente per cui le sostanze nelle acque stagnanti precipitarono sul fondo dello stesso a seguito del raggiunto grado di saturazione e in relazione alla propria solubilità. Infatti precipitarono per primi i sali meno solubili e successivamente quelli più solubili. per cui la serie evaporitica risulta essere formata da un insieme di livelli salini.

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• Dal punto di vista stratigrafico i termini succedutisi alla deposizione, dal basso verso l'alto sono:1) tripoli – 2) calcare di base – 3) gessi.

• Il Tripoli è un sedimento posto di solito nella parte basale della formazione gessoso-solfifera ed è costituito prevalentemente da diatomee e radiolari, ricche di sostanza organica, associate a livelli di argille marnose più o meno carbonatiche. Questi sedimenti si rinvengono quasi sempre sotto il Calcare di base. Solo in rari casi si assiste al contatto diretto, verso l'alto, con i gessi evaporitici, per mancanza del termine carbonatico.

• I Calcari di base evaporitici sono dei sedimenti carbonatici stratigraficamente sovrapposti alle diatomiti ed alle marne calcaree del complesso tripolaceo. Si tratta di un deposito evaporitico costituito da calcari sottilmente laminati di colore bianco o grigio molto chiaro, con irregolari vuoti interni contenenti sali. Lo zolfo si trova abbondante nei calcari di base. La sua presenza ha dato origine a controverse teorie sulla sua genesi. Le teorie più accreditate sono:A) trasformazione dei gessi, per l’azione di solfobatteri e acque di circolazione sotterranee, in zolfo puro ed acqua;B) presenza di idrocarburi molto ricchi di zolfo, che sfuggiti alle rocce magazzino, migrarono verso l'alto. Questi idrocarburi nella risalita subirono un processo di semifiltrazione da parte dei gessi che trattennero lo zolfo. La parte oleosa rimase attaccata al Tripoli. Tale ipotesi (detta naftogenica) sembra avvalorata dalla presenza di gas metano riscontrata durante le fasi di estrazione dello zolfo.Gli strati coltivati in Sicilia avevano un tenore medio di zolfo variabile dal 15 al 20%. La ganga, che in essi s'accompagna allo zolfo, è costituita da calcare marnoso, da gesso o da marne più o meno argillose. Lo zolfo è alle volte disperso uniformemente entro la roccia, altre volte in lenticelle, in noduli o sacche. Raramente è cristallizzato e più diffusamente granulare.

• I Gessi depositatesi sul calcare di base sono per la gran parte rappresentati dal tipo "balatino", costituiti da una alternanza di straterelli di gessi microcristallini (selenite) e veli di argilla.

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• All'interno dei termini della serie solfifera, nei bacini più isolati di altri e per le condizioni di forte evaporazione, hanno permesso la formazione di enormi accumuli di sali (detti domi salini) che dal punto di vista chimico sono rappresentati da sali di sodio e di potassio. La sedimentazione dei sali è avvenuta in continuità con i gessi secondo le leggi della solubilità. Si hanno infatti, dall'alto verso il basso, i seguenti termini:1) salgemma – 2) kainite – 3)silvite – 4)carnallite – 5)bishofite – 6) sali di bromo e iodio.Nel Pliocene inferiore fenomeni tettonici provocarono l'abbassamento della soglia di Gibilterra, ristabilendo le condizioni iniziali di mare profondo ed aperto rimettendo il mare Mediterraneo in comunicazione con l'Oceano Atlantico . In queste condizioni si ha la deposizione dei trubi o marne (roccia sedimentaria costituita da calcare ed argilla mescolati).La fine del processo evaporitico è contrassegnata dalla deposizione di sedimenti calcareo marnosi (Trubi) ricchissimi di microforaminiferi e rappresentativi della parte basale del Pliocene. Questi sedimenti indicano un ritorno a condizioni di mare aperto, in seguito alla normalizzazione dei rapporti idrici tra l'Oceano Atlantico ed il mar Mediterraneo.I Trubi rappresentano l'inizio del Pliocene, questi sedimenti si sono depositati durante una fase di trasgressione per effetto della quale il dominio marino si riestese in aree che precedentemente erano venute a trovarsi in emersione o in condizione di acque poco profonde, a causa dell'evento evaporitico del Messiniano. Questi Trubi di colore biancastro appaiono sovrapposti sui calcari evaporitici o sui gessi.Da questo momento in poi si assisterà ad una graduale tendenza all'emersione del bacino, evidenziata dalla deposizione di sedimenti. L’intera successione sedimentaria, sin qui descritta, rappresenta un intervallo temporale che dal Miocene superiore arriva al Pliocene inferiore (da 6,9 a 5 milioni di anni fa). Essa comprende nel suo insieme depositi detritici (prevalentemente di natura argillosa e marnosa) e sedimenti evaporitici (formazione gessoso-solfifera).

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• I picconieri o "pirriatura" estirpavano il minerale e lo mandavano fuori dalla miniera. Il loro compenso era a giornata o secondo la quantità di zolfo estratto; il turno di lavoro era di otto ore e alcuni, per guadagnare di più, facevano "la duppia", cioè aumentavano le ore di lavoro.

• Le giornate lavorative in un mese variavano da venti a venticinque, essendo giorni di riposo la domenica, i giorni festivi nonché quelli in cui il lavoro era reso impossibile da guasti e riparazioni agli impianti.

• Nelle ore di lavoro essi stavano quasi completamente nudi per il caldo delle gallerie sotterranee.• Giuseppe Pitré, nel volume primo degli "Usi e costumi del popolo siciliano", si sofferma a parlare

delle tristi condizioni dei picconieri dei suoi tempi, dei quali egli descrive lo stato di abbrutimentocon pennellate quanto mai vive, riportando un saggio delle terribili imprecazioni che questi infelici oppressi dalla fatica lanciavano contro tutto e contro tutti. Espressioni tipiche d'altri tempi e di condizioni ambientali e sociali completamente diverse dalle nostre, di cui a titolo d'esempio se ne ricorda qualcuna.Maliditta me matri ca mi crià!Porcu lu parrinu ca mi vattià!

• Cristu era megliu ca mi faciva porcu, almenu all'annu mi scannavanu, la pigliava `nsacchetta e moria!

• Gli spesalori o "spisalora", lavoravano nell'interno della miniera e avevano l'incarico di eseguire tutte le riparazioni necessarie, gli abbattimenti dei materiali sterili nonché le opere necessarie alla circolazione dell'aria nelle gallerie.

• I fabbri o "masci firrara", erano indispensabili in ogni miniera, giacchè dovevano riparare gli strumenti di lavoro dei picconieri, degli arditori e di altre categorie di lavoratori, nonché i vagoni per il trasporto del minerale. Essi erano retribuiti a giornata o secondo l'entità del lavoro compiuto.

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• I riempitori o "inchitura" curavano la fusione del minerale; infatti questa dipendeva dall'esatto riempimento dei calcheroni e dei forni che avveniva mettendo il materiale più grosso in basso e quello più minuto in alto fino a formare un cono. Erano cottimisti e quindi pagati secondo il numero di vagoni impostati, e dalle somme ricevute dovevano detrarre l'importo per pagare i carusi, che li aiutavano nel riempimento e nello svuotamento degli impianti di fusione.

• Gli arditori o "arditura" erano i veri arbitri della produzione. Essiguidavano e assistevano la fusione, cercando di ottenere una buona solidificazione, garanzia di qualità dello zolfo. Erano direttamente sorvegliati dal capomastro e dai periti minerari che gli impartivano delle direttive per scongiurare una cattiva produzione. La loro attività era continua, dovendo badare a più calcheroni in fusione contemporaneamente sia di notte che di giorno. Il pagamento era proporzionato alla quantità di balate estratte dalla fusione.

• Essi erano riconoscibili anche in paese perché avevano i calzoni spruzzati di zolfo nel suo caratteristico colore giallo. Erano espertissimi nel modellare statuine di ogni tipo, facendo colare lo zolfo liquido sulle forme di gesso o di cemento costruite da loro stessi. Davano inoltre prova di virtuosismo a quanti visitavano per la prima volta la miniera, immergendo la mano, preventivamente bagnata con acqua fresca, nello zolfo bollente e ritirandola illesa, giacchè il minerale a contatto con l'acqua si raffredda e si solidifica.

• Ma alcune volte riportavano terribili scottature dovute al loro stato di ubriachezza; talvolta si addormentavano in tali condizioni, mentre il minerale si spandeva sul terreno andando perduto. Ciò segnava inevitabilmente la sospensione dal lavoro o addirittura il licenziamento. Egli beveva il vino soprattutto per sfuggire alle difficoltà respiratorie dovute alle continue inalazioni di fumo, da cui l'espressione tipica, comune ad altre categorie di zolfatari: "Viviri vinu é nicissariu ppi sarbari la cascia di lu piettu".

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• I vagonieri o "vagunara" erano dei carusi prossimi a divenire picconieri, dai sedici ai vent'anni; il loro lavoro consisteva nellospingere i vagoni sulle rotaie, per trasportare il minerale ai luoghi di scarico; il pagamento era proporzionato al numero di vagoni che trasportavano. Questa attività era meno pesante di quella del picconiere o del caruso; infatti la maggior fatica si aveva soltanto per rimettere sulle rotaie il vagone che accidentalmente era "scarruzzatu" cioè ne era venuto fuori.

•I ricevitori o "ricivitura" erano operai che stavano all'ingresso e al basso del pozzo o dei piani inclinati per ricevere i vagoni pieni o scarichi e manovrarli per intodurli o estrarli dalle gabbie. In ogni pozzo o piano inclinato lavoravano due alla volta, l'uno alla bocca del pozzo, l'altro alla fine della galleria che immetteva al pozzo. I marchieri o "marchera" avevano l'incarico di annotare su tabelle apposite il numero dei vagoni che ciascuna partita mandava fuori, deducendo ciò dal segno apposto sui vagoni, consistente in un piccolo biglietto appiccicato con creta impastata. La loro paga, nonché il tenore di vita, erano superiori rispetto alle altre categorie fin qui considerate.

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• Ero arrivato in Sicilia, esattamente nella città di Caltanissetta da Passignano sul Trasimeno in provincia di Perugia, nel mese di settembre del 1952. Avevo lasciato la verde Umbria e il bellissimo lago, dopo aver trascorso, li, la Fine di quella estate. Nel lungo viaggio in treno, mano mano che la vegetazione cambiava colore, scendendo verso sud, cercavo nella mente cosa mi aspettava in quella allora lontana terra di Sicilia. Conoscevo anche se marginalmente, la storia delle miniere di zolfo. Non conoscevo, però, il modo di lavorare dei minatori e i loro usi. Presi servizio in qualità di dirigente alla miniera Juncio Tumminelli, distante circa dieci chilometri dalla città. L'impatto con quel mondo mi lasciò alquanto perplesso. I minatori del primo turno che arrivavano alle 6,45 sul posto cli lavoro percorrendo a piedi il tragitto, sembravano già stanchi prima ancora di affrontare il turno in sotterraneo di otto ore.

• Furono sufficienti pochi giorni per rendermi conto di quanto faticoso e pericoloso fosse il lavoro e pesantemente sfruttato il minatore. Tra loro quello che mi colpì più di tutti fu il così nominato dagli altri «surfarara» «Menicu ’u caruso».

• Ed è proprio di lui che il mio scritto racconta.• Domenico Nobiluomo detto «Menico» non era più un carusu, a dispetto del suo appellativo. Era arrivato all'età di quarant'anni, però, ne dimostrava una trentina in più. A

vederlo gli si davano almeno settant'anni. Era conosciuto da tutti come «ù carusu», per antonomasia. Così magro da  potergli contare le ossa, aveva una gobba alla spalla destra che, rispetto alla sinistra, era più alta circa venti centimetri; inoltre, la sua scapola destra era spostata posteriormente, rispetto al baricentro, di almeno altri venti centimetri. ll suo volto era, sempre, di colorito pallido e smorto. Da bambino, Menico non aveva fatto altro che il mestiere di «caruso».

• Ebbene, Menico mi raccontò che all’età di otto anni, quando fu portato in  miniera per la prima volta a lavorare, non conobbe che il sacco di tela olona carico di zolfo da trasportare sulle spalle, caricatogli dal manovale che lo aveva riempito.

• Per anni e anni durò questa vita. Menico era addetto alla squadra di manutenzione del riflusso (il riflusso era il ritorno dell'aria che, dalle gallerie sotterranee, usciva verso l’esterno.) «ll caruso» era colui il quale doveva trasportare a spalla lo zolfo dai fondali della galleria (detta discenderia o calatura), con un sacco di olona. Il binario, difatti, sul quale doveva essere posto il vagone non riusciva ad arrivare a quella profondità. Menico, dal sotteraneo, arrivava all'esterno dopo aver percorso cinquecento metri in salita, su per una scala a gradino rovescio con il sacco sulle spalle, carico di materiale sterile. La galleria del riflusso aveva una pendenza del 50% e, a volte, anche del 60%; era molto ripida, pericolosa da scendere, resa viscida e scivolosa dalla forte umidità che penetrava dall'estemo nel sottosuolo.

• La salita era terribile, considerato che il sacco da trasportare pesava fino a cinquanta chili. Era un inferno per quel povero uomo che, così come era ridotto, aveva perduto le sembianze di essere umano. Su e giù per interminabili dodici ore al giorno, in quanto non era disponibile altro personale da adibire a quel lavoro.

• Era difatti molto difficile organizzare una squadra; ecco perché coloro i quali erano adibiti a ciò coprivano almeno dodici ore dell’intera giornata lavorativa. Certe mattine capitava che l’operato svolto il giorno precedente veniva distrutto a causa dei vapori caldo-umidi che provocano il distacco dei Iastroni di argilla delle pareti e, anche, del tetto della galleria.

• E per Menico ricominciava il calvario.• La sera, dopo le massacranti dodici ore di lavoro, la squadra passava dall°ufficio. I motivi erano due: il primo, per bere un bicchiere di vino che, a fine turno, era a

disposizione di chi lo desiderasse; il secondo, per la speranza che, a quell'ora, qualche camion carico di zolfo, salisse in città e potesse dare un passaggio ai minatori, magari prendendo Posto anche allo scoperto seduto sopra lo zolfo, il che era meglio di dover percorrere tutta quella strada a piedi. lo persi i contatti con Menico nel l968, quando, per una legge regionale gli ultra cinquantenni vennero collocati in pensione obbligatoria. Per molti anni non lo vidi più.

• Alcuni anni dopo, una domenica mattina, passando davanti alla Cattedrale della mia citta, mi sembrò di riconoscere una persona che, seduta a terra, con la mano tesa, chiedeva l'elemosina. Mi avvicinai per guardarlo bene. Era Menico! Aveva una folta barba bianca, capelli lunghi e, addosso, un cappottaccio uso e sporco. Mi rivolsi a lui tutto d'un fiato e gli chiesi:

• «Menico che fai qua? Chi è vossia?» mi rispose. «Futtitinne Menico, rispondimi: che fai qua? Perché sei qua?» Non sono sicuro se Menico mi riconobbe. Forse si forse no. Ad un tratto, prima che io potessi aggiungere altro, scoppiò in un pianto dirotto. Ammise che era costretto a chiedere l`elemosina in quanto la sua pensione non arrivava a centosettantamila lire al mese.

• Eravamo nel 1972 e qualche anno dopo, Menico se ne andò a fare riposare le sue martoriate ossa, per sempre.• Le miniere di zolfo in Sicilia già dal 1985 sono, ormai, tutte chiuse. Un ventennio di gestione regionale (Ente Minerario Siciliano 1964-1985) è stato sufficiente, a causa di

politici e dirigenti inventati, a cancellare tutto un passato di intenso e importante lavoro che aveva portato per due secoli le miniere di zolfo di Sicilia prime nel mondo nella occupazione, nel numero delle stesse in attività e nella produzione. Il mondo intero conosceva la Sicilia per questo prestigioso motivo. Menico è stato tra quelli che hanno contribuito al raggiungimento di questo importante traguardo.

• l’Ente Minerario, però, non ha tenuto conto del grande sacrificio di questi uomini veri, in quanto nel 1968 ha buttato fuori tutti gli ultra cinquantenni, cioè i veri minatori, con una misera liquidazione e una pensione da fame.

• Ha lasciato, però, ampio spazio a galoppini politici e portaborse inutili assunti dai nuovi padroni, i quali hanno in seguito beneficiato, senza produrre mai neppure un chilo di zolfo, di leggi che hanno consentito di vivere in condizioni di privilegio.

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• Tutto quello che era di bello, caratteristico e genuino, non esiste più. La vita stessa dei minatori che rappresentava, in quel periodo, sotto il profilo socioeconomico, culturale e storico una grande importante categoria, è finita.

• Menico, ad esempio, aveva la sua residenza al quartiere «Angeli» della città di Caltanissetta. Un quartiere caratterizzato dalla presenza massiccia dei «surfarara». Li, non appena imboccavi la discesa che iniziava alla «Badia» per finire nel piazzale del Cimitero «Angeli», per le vie già sentivi l’odore dell’anidride solforosa e del «petirro» delle canne fumarie dei fomi Gill. Se, poi, percorrevi il dedalo dei vicoli del quartiere, venivi preso dalle belle canzoni trasmesse alla radio che, ad ogni angolo, cambiavano a seconda delle famiglie che vi abitavano.

• E, che dire delle decine di «figuredde» collocate e ben tenute dai minatori devoti ognuno al proprio Santo? Ti capitava, anche, di vedere qualche bella ragazza acqua e sapone intenta a stendere al sole la biancheria sui lunghi fili attaccati da balcone a balcone.

• Insomma, una vera vita serena e affrontata in modo diverso da oggi, tanto da dare un senso più reale al trascorrere della giornata. Non parliamo, poi, dell'impegno che ognuno aveva per le varie feste, come per il Corpus Domini, giorni nei quali tutto il quartiere diventava un giardino.

• Molti erano gli altarini «consati» (allestiti) pieni di fiori in attesa della processione. L'attesa per la Settimana Santa, poi, era spasmodica. l minatori ci tenevano a che il loro gruppo statuario risultasse il migliore. E, allora, anche fra loro era una gara, in quanto la miniera Trabonella, la Gessolungo, la Tumminelli, la Saponaro e la Testasecca ne avevano una ciascuno. E, infine, gli «zitamenti» (fidanzamenti). Le lunghe serenate con chitarre e mandolino; «u firriatu» (giro attorno la stanza) con dolci, mandorle e pistacchio offerti agli invitati.

• Un mondo vero, un mondo reale, un mondo pulito che per sempre se ne è andato.• E Menico era una testimonianza di quel mondo scomparso. Altro non è rimasto che il ricordo, dentro il cuore, di coloro i quali hanno vissuto e amato, malgrado tutto, quell’irripetibile periodo di

grande produttività che ha lasciato una traccia indelebile nel mercato del lavoro e nella cultura del Paese.• Accadde un giorno del mese di agosto, quando la maggior parte delle persone trascorrono fuori le loro vacanze, che io durante uno dei miei soliti giri mattutini in auto, raggiunsi la grande

vallata delle miniere che si divarica nello stretto Juncio. Lì le miniere (Gessolungo, Tumminelli, Testasecca e altre, erano collegate tra loro attraverso i sotterranei. Più avanti, verso la strada che conduce al fiume Salso, sul lato sinistro, seduto su un «pataccone» di pietra Sabbucina, ho rivisto ad un tratto Menico che nonostante il sole cocente, mi sembrava rilassato e pronto al dialogo. L’ho rivisto avvolto da una nube celeste. Non indossava più quel cappottaccio sporco come quel giorno, tanti anni fa, davanti la Cattedrale. Anche le deformità fisiche che lo avevano segnato erano scomparse. Era sereno, pronto a dirmi qualcosa.

• Accanto a quel «pataccone» dove sedeva Menico esiste, tutt'ora, quello che rimane di un vecchio Cimitero, cioè un muraglione diroccato, dove il 12 novembre 1881 , a causa dello scoppio di grisoù nella vecchia miniera Gessolungo, sezione Calafato, persero la vita 65 minatori: 49 di essi giacciono lì sepolti, dove appunto Menico, quel mattino, si era seduto. Mi fermai e avvicinatomi gli chiesi cosa facesse, li, con quel caldo insopportabile. Con grande calma e serenità mi rispose che, dove era lui, non faceva più né caldo né freddo e che aveva scelto proprio quel posto per fare un po’ di compagnia ai suoi amici «carusi», lì sepolti e da tutti abbandonati, Nello stato in cui si trovava «u campusantiddu», chiamato così dai «viddani» (contadini) dei terreni vicini, soltanto chi conosceva la storia poteva capire che si trattasse di un cimitero, e Menico la storia se la ricordava perché, cosi, proseguì: <«Quando mio padre, negli anni venti, mi mandò a travagliare a la pirrera, (a lavorare in miniera) ogni tanto venivo proprio qui dove sono adesso, e questo luogo mi pareva un giardino, ed era tutto recintato con la <<ferrata» (ringhiera); c'era una bella croce e una lapide che ricordava tutti quei poveri disgraziati. Tra questi c'erano tanti «carusi» che «carriavano sulfaru» sulle spalle, dalla mattina alla sera, come ho fatto io per tanti anni. Picciriddi di 78 anni che aiutavano la famiglia a «buscare» un pezzo cli pane. Molti di loro a quei tempi venivano venduti ai Capipartita per cento duecento lire e il padre non poteva più riaverli fino a quando non restituiva i soldi ricevuti. Quanto dolore, quanti sacrifici. E, adesso, eccoli quà, dimenticati da tutti!» «Ho capito Menico, tu sei arrabbiato perché nessuno pensa più a loro» dissi io. «Arrabbiato e dir poco» mi redarguì Menico, «perché non riesco proprio a capire come si possa fare a dimenticare tanti poveri cristiani ‘nta sta’ vallata arida che ancora evapora surfaru, dopo che loro sono morti per fare più riccu stù paisi. lo ho «travagliato» (lavorato) tanto ‘nna mè vita, ho avuto  una pensione da fame, però mi reputo fortunato rispetto ai miei amici «carusi» che dormono ‘cca ssutta (qua sotto). A mmia (a me) ogni tanto qualcuno mi porta anche un fiore, ma a questi? E, allora, sape socca ci dicu? (sa cosa gli dico): che se questa è la civiltà modena, da povero cristiano che sono, mi viene la vergogna per voi altri `ca vi sintite allittrati (lettetati). lo non me ne vado di cca, fino a quando i «carusi» che sono ‘dda ssutta (la sotto) non li vedo sorridere. Ccà ci sono picciriddi (bambini) che, nella loro breve vita, non hanno mai avuto un giocattolo, non hanno conosciuto l’allegria della scuola, il sapore della primavera, la lietezza di vedere venir giù dal cielo la neve. Se ne sono andati tutti, in quel tragico mattino, senza nemmeno aver potuto chiedere aiuto al proprio padre e neppure ricevere l'ultimo addolorato abbraccio della madre. In ventuno ve ne siete andati miei amici «carusi»! Da oggi, qui, siamo ventidue. lo, che come voi, ho provato la fatica di «carriare» (trasportare) sulle spalle materiale e surfaru e ho dato, come voi, a questi che si sentono persone civili la possibilità di vivere meglio nel progresso, non vi lascio soli, tanto, da dove sono io, come ho già detto, né il sole col suo calore e neppure il freddo, né il giorno e neppure la notti fanno paura. lo sono con voi. E se non fosse che, da qui, tutto quanto esiste laggiù diventa piccolo, e tutti quanti diventano piccoli, vorrei gridare ad alta voce delle frasi che, soltanto da dove sono io, non si possono pronunciare. Mi limiterò soltanto a far sentire, ad ognuno che da qui si trova a passare: Vergogna.

• Vergogna... VERGOGNA! Riposate in pace «CARUSI».• RlPOSATE IN PACE!»• La visione svani, d’un tratto, e fui investito, di nuovo, da una vampata di calore, tipica del vento caldo e secco della torrida estate siciliana. Sentivo un peso nel cuore come quel sacco di zolfo

sulle spalle di un carusu. La coscienza s'era fatta visione e aveva preso voce. E Menico, da allora, lo sento parlare nella coscienza di tanti amministratori dalle vacue e inutili promesse.•  • Racconto di Mario e Laura Zurli tratto da "Racconti di miniera, storie vere di gente di zolfara", Edizioni Lussografica

3° classificato, Premio Letterario Nazionale 2000 - Città di Cassino (FR)

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• La Vallata degli Eroi

• Quarantanove piccole crocimano pietosa in memoria ha adagiato,s’ergono bianche in un lembo di terratal come fosse un sacrario di guerra.Nove ne scorgo ancor più minutecome virgulti in un campo di granoche non germoglia quand’è primaveraperché di pietra son fior di zolfara.

• Non hanno un nome quei nove carusi, quei nove angeli venduti e sfruttati!Son croci semplici di marmo biancoa rimembrar quei gigli di campo.Nessuno chiese dei nove carusi,scoprir temevano quel patto iniquo,lacrime amare furon versateda quelle madri infelici e dannate.

• Dormono ora sulla collinaquei nove piccoli fiori recisi;eroi falciati da morte precoceche sol invocano un’umile prece.Nove le piccole croci bianchesì come braccia protese al cielo,germogli eterni in un campo di granoa ricordar sacrificio non vano.

•Carmela D’Amico, 1 luglio 2011

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• (SCN)« ...Scìnninu, nudi, ‘mmezzu li lurddumadi li scalazzi ‘nfunnu allavancati;e, ccomu a li pirreri s'accustuma,vannu priannu: Gesùzzu, piatati!...Ma ddoppu, essennu sutta lu smaceddu,grìdanu, vastimiannu a la canina,ca macari “ddu Cristu” l'abbannuna... »(IT)« ...Scendono, nudi, in mezzo alla sporciziacadendo in fondo dalle scalacce;e, mentre si avvicinano agli spietratorivanno pregando: Gesù mio, pietà!...Ma dopo, essendo sotto quello sfracello,gridano, bestemmiando come cani,che anche “quel Cristo” li abbandona... »