BETEIDE
“ Narrami, o musa, dell'eroe multiforme, che tanto vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell'animo suo, per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni .”
Omero, Odissea
Ed ecco l'uomo ricco d'astuzie, Odisseo politropo, intento a sacrificare i cento buoi pingui alla glaucopide Atena, che tanto lo aveva giovato nel compimento del suo viaggio. Ma, mentre nell' αγορά maestosa itacese egli con il bronzo affilato rosso di sangue si sporcava le mani e dispensava l'ecatombe, tergeva lacrime e il suo cuore si straziava al pensiero del povero Telemaco: Poseidone enosìctono infatti, adirato per l'accecamento del figlio suo Polifemo, aveva privato della luce l'Ulisside cavandogli i bulbi oculari e lasciando spoglie le orbite. Lacrime amare inumidivano la pelle morbida dei buoi, dapprima lacerati da Odisseo, dove la carne era più tenera mentre le membra fuoriuscivano dagli animali possenti. L'accorto Odisseo già bramava vendetta per Telemaco gagliardo, pertanto invocò la dea Atena. Dal recinto dei denti volavano sfuggenti parole: "O, Pallade Atena, ascoltami, tu che Delfi proteggi e sopra Atene regni sovrana, se mai ti ho bruciato cosce pingui accoglimi all'Olimpo e fammi sedere vicino a te, cui devo il mio νόστος." La dea occhiazzurra rispose: "Paziente chiaro Odisseo, per quanto sia grande il mio affetto per te e ti abbia accompagnato lungo il tuo ritorno verso Itaca,
adesso mi chiedi troppo: fammi consultare il padre nostro Cronide per esaudire o negare la tua richiesta." La Pallade Atena così implorò Zeus che addensa le nubi e domandò ansiosa la convocazione del concilio mentre il cuore suo scalpitava. Così Zeus egìoco indisse un concilio per discutere della sorte del
mortale." Amata Atena, giá una volta acconsentii al suo ritorno, sai anche tu che non è bene violare le leggi che l'Olimpo ci impone; ma riporto alla mente quando Odisseo presso le navi argive sacrificava vittime e onorava gli dei nella vasta terra di Troia e allora sì mi fu gradito il divino eroe che supera per senno i mortali. Quindi accetto la sua richiesta." Così disse e mandò l'Arghifonte Hermes dal lungimirante uomo. Sull'Olimpo tutto era adornato a festa, una τραπεζα imbandita di nettare, ambrosia e cibo per il mangiatore di pane; vi era un meraviglioso συμπόσια al quale prendevano parte tutti gli dei: Zeus sedeva tra tutti i suoi figli mentre celebrava l'ospite desiderato; Era, stante dirimpetto al marito, discuteva con Hermes delle colpe che gli uomini spesso attribuiscono agli dei; Poseidone a capotavola prendeva posto e sguardi bui scambiava con Odisseo, il quale si accomodava dalla
parte apposta del tavolo. Il padrone dei mari aveva posato incurante il suo tridente ornato d’oro, inconsapevole dell'inganno che tra i commensali stava avvenendo.Zeus indiceva un brindisi per onorare il pasto gradito al palato che veniva consumato; nel mentre, Odisseo –accorto- aveva rubato fuggitivo il tridente poichè era riuscito a distogliere l'attenzione da sé per rivendicare il dolore del figlio. Ma quando Pallade Atena scoprì il misfatto del mortale, si adirò per la violazione delle leggi dell'ospitalitá e apostrofò l'uomo che tanto aveva giovato nel compimento del suo viaggio:" Stolto Odisseo, così conosci Poseidone? Certo non ti curi delle conseguenze delle tue azioni, mai avresti dovuto permetterti di compiere un gesto così oltraggioso. Mi rincresce dirti che sono da te ormai delusa ."Odisseo allora rispose alla meravigliosa donna:" Ti supplico, dea, mai nè uomo né donna una tale creatura divina i miei occhi hanno veduto: ti guardo e mi stupisco. Così, o guerriera, dinnanzi a te resto incantato, ti ammiro. Perdonami per il misfatto che ho recato a Poseidone, ma ora ti spiego: un grande dolore mi ha portato a compiere ciò, l'afflizione che un padre prova nel vedere il proprio figlio soffrire supera ogni limite umano." Proprio per questo Atena comprese e decise di appoggiare, seppur in parte, il piano ideato da Odisseo.Pertanto la glaucopide procurò al mortale un vantaggioso φαρμακον, domandatole da Odisseo, indispensabile per il compimento della sua vendetta nei confronti di Poseidone. Esso infatti aveva il potere di rendere possibile la respirazione persino nel profondo degli abissi. L'acqua salata sfiorava il suo corpo immersosi ormai nel mar Egeo, scendeva senza sosta verso il fondale dove migliaia di creature vagavano verso l'ignoto, come Odisseo aveva fatto in passato diretto a Itaca. Fluttuava nell'oceano immenso e sconfinato, un brivido di collera lo percorreva, adirato per le sventure arrecate da Poseidone enosictono; percepiva sulla pelle un senso di potere: nessuno mai l'avrebbe trattenuto nel suo intento ancora sconosciuto ad Atena e a tutti gli altri dei. Scendeva verso il più profondo dei mari, nel blu intenso incontrava esseri dalle forme e dai colori svariati e aveva occhi rapiti dai mille coralli che riempivano il paesaggio marino. E mentre rimaneva affascinato da tanta bellezza, improvvisamente, dinnanzi a lui, apparve un animale dai dodici tentacoli; sei occhi lo fissavano con sguardo tenebroso. Il mostro era pronto ad ostacolare il suo tragitto: "Ascoltami attentamente, risolvi l'enigma e potrai fare di me ciò che vorrai, ma, se così non farai, diventerai la mia cena: ce l'hanno tutti e nessuno può perderla. Cos'è?"La creatura godeva nel vedere l'insignificante mortale in difficoltà, come già era accaduto a tanti altri sventurati prima di lui, e rideva al pensiero che l'uomo potesse anche solo minimamente avvicinarsi alla soluzione del dilemma: immaginava di pregustare la sua appetitosa cena. Il mostro marino ignorava peró la vera identità del mortale, inconsapevole della sua astuzia e della sua μετις. Ed ecco che l'uomo ricco d'astuzie lo sorprese rispondendo: " Tu non conosci il mio nome, ma io conosco la risposta alla tua domanda; non fu saggia la decisione di rischiare la tua vita senza conoscere l'avversario che ti é innanzi, stolto! L'ombra é ció che tutti hanno ma che nessuno puó perdere ed è ciò che rimarrà di te!". Estrasse così dal balteo il medesimo tridente del sommo Poseidone e lo trafisse dove la pelle era più tenera attraverso il morbido collo; lacerata la carne, strappò il cuore che pulsava un’ultima volta; le mani erano impregnate di rosso sangue, mentre il corpo, ormai privo di vita, si lasciava cadere straziato verso il fondale marino.
E, mentre nuotava nel più profondo dei mari, scorse una grotta imponente, vi entrò e udì una voce soave, gli pareva di sentire quella di una sirena. Occhi ammalianti, di un azzurro intenso, incrociavano lo sguardo di Odisseo e lui ne rimaneva affascinato; qualsiasi uomo ne sarebbe stato stregato, ma non un eroe come lui. Una donna dalla nera chioma gli venne incontro, essendosi accorta dell'arrivo di un ospite inaspettato. Egli appariva splendido agli occhi della donna poiché Atena lo aveva reso simile ad un dio. Inginocchiandosi le disse alate parole: "Donna, io so chi tu sei: Anfitrite, ninfa dei mari, bellezza incantevole, beati tre volte il marito Poseidone, i figli Tritone, Rode, Cimoplea e Bentesicima e le tue sorelle. Ti porgo in dono il cuore della belva che uccisi in tuo onore, infatti lo offro a te affinchè tu mi accolga nella tua dimora. Ti prego di rispettare i vincoli di ospitalità e porgermi aiuto".Anfitrite, meravigliata dal fascino dell'uomo, rispose:" Straniero, svela il tuo nome e cosa ti porta nel grande oceano; ospite tu sei e ti ricevo al mio banchetto: serviti di ciò che l'ancella offre" . E lui:" Odisseo porto come nome e Atena giova il mio viaggio perché io possa avventurarmi e conoscere nuove genti" così mentì l'accorto, non svelò infatti il vero motivo per cui era giunto alla grotta della ninfa. Dopo aver gustato ciò che Anfitrite gli aveva offerto, l'ancella portò giare colme di rosso vino, inebriante; Odisseo trasse in inganno la donna facendole bere gran parte della bevanda che si trovava nel vaso. Allora la ninfa si addormentò. Finalmente il mortale poteva mettere in atto il suo fatale tranello: con una potenza infinita le cavò gli occhi d'un azzurro intenso con le possenti mani, mentre lei urlava parole atroci tendando di ribellarsi alla forza bruta: "Infimo, che Zeus maledica te, la tua famiglia e la tua gente. Un dolore terrificante mi affligge. I vincoli di ospitalità mi avevi chiesto di seguire e così io feci, ma tu, ospite ingrato, mai avresti dovuto compiere un tale misfatto". Il mortale, dopo aver ascoltato le strazianti parole, impugnò il tridente che aveva prima rubato al marito della donna e trafisse violentemente il suo sinuoso corpo uccidendola. Lui fuggiasco scappò immediatamente senza curarsi del corpo di Anfitrite esanime e, dopo un lungo viaggio di ritorno, riemerse dal mare. Finalmente dopo tanto tempo ritornò a camminare sulla terra ferma e a respirare aria. I piedi bagnati calpestavano sabbia dorata e l’ἠ baciava la sua pelle ancora umida.Intanto nell'Olimpo Hermes giá aveva annunciato la morte di Anfitrite, moglie di Poseidone, per mano di Odisseo; pertanto, il dio dei mari, venuta a sapere la struggente notizia, si adirò profondamente in cuore, la sua anima era straziata dal dolore. Il possente dio pianse dunque lacrime amare di disperazione; ne versò così tante da inumidire il terreno provocando una terribile disgrazia: una voragine che portò gli dei a sprofondare nel tartaro, precicpizio all’interno del quale sostavano per nove giorni le anime malvagie.Odisseo μεν godeva nel vedere il πανθεον scendere verso gli inferi, δε si tormentava nel notare che anche Atena stava precpitando.
Arrivato ad Itaca, vide l'amata moglie che lo attendeva con nostalgia e nuovamente ne rimase incantato come la prima volta; un abbraccio profondo li riunì e un bacio passionale sigillò il loro amore. Poi scorse Telemaco, privo della vista, e un brivido di gioia invase sia il padre che il figlio, il quale riconobbe immediatamente la voce paterna. Odisseo estrasse quindi un cofanetto il quale conteneva un dono prezioso per il figlio: ammalianti occhi d'un azzurro intenso, quelli che aveva sottratto ad Anfitrite; glieli pose nelle cavità delle orbite spoglie donando nuovamente il privilegio della vista a Telemaco. Ο μυθος δελοι οτι το βουλεσθαι το δυνεσθαι εστι.
Consonni MaddalenaCorbellini BeatriceGullà GiuliaLucchi Camilla
SOL LUCET OMNIBUSUna pallida brezza aveva inseguito le dita rosate dell'Aurora, quella mattina, quando le navi di Odisseo erano approdate alla città ciconia di Ismara. In quel momento, mentre il giorno soffocava nell'abbraccio selvaggio della notte, gli itacesi dissipavano le ultime reliquie della cittadella saccheggiata. L'eroe osservava, dal posto d'onore degli ospiti, l'umile capanna dentro cui aveva fatto irruzione e davanti alla quale si era impietosito.Pietà per il vecchio dalle carni tremolanti e le ossa scricchiolanti i cui occhi opachi tradivano una riconoscenza per aver risparmiato moglie e figlio tale da sembrar ossequio. Maro si sedette davanti a lui, le bende sacerdotali ormai consunte ed ingiallite, eppure scrupolosamente custodite. Era stato il timore nei confronti di Febo Apollo, al cui cospetto era già reo della devastazione di una sua città sacra, a indurre Odisseo a risparmiare un suo così fervente servitore? Stava a cercando di reificare il perdono, di redimersi attraverso la pietà? L'anziano sacerdote inspirò stancamente, mentre la moglie entrava nella grezza stanza vacillando e trascinando una pesante giara dal cui interno giungeva un tiepido gorgoglio. Una manina cerea e emaciata scostò le logore vesti della madre e un minuto bambino si affacciò trepidamente da dietro le sue gambe. I suoi occhi acquosi esitavano fra la gratitudine del padre e l'ostile rabbia e paura della donna. «Dobbiamo ritenerci amnistiati dagli dei- esordì il sacerdote sorridendo- se un siffatto eroe, re addirittura, ha deciso di graziarci in tal modo. O straniero ed ospite, magnanimo Odisseo, lascia
che ti tratteniamo ancora fra questi arredi, di modo che, ristorato da un pasto e dal vino, tu possa ripartire rifornito di viveri. Sei la riprova che il divino signore Apollo Liceo è partecipe delle nostre sventure e ci assisteste dal celeste Parnaso. Ma ora, ospite, lascia che ti diletti con un racconto che lo
vede protagonista: un aedo mi insegnò tali parole. Ascoltami, e il dio ti sarà propizio.
«Febo Apollo si materializzò davanti ad uno dei suoi templi preferiti, il tempio per cui era noto anche con l'epiteto "Timbreo". Non poteva rimandare l'aurora ancora per molto, forse aveva solo pochi minuti prima che l'alba imminente lo richiamasse al dovere. Aveva chiesto a sua sorella Artemide di dilungarsi quanto le fosse possibile nel cielo notturno e lei, stranamente, lo aveva assecondato, rimproverandolo solo con un sospiro sconsolato. Perciò la Luna stava tramontando solo in quel momento, e gli
impalpabili raggi che, obliqui, riuscivano a insinuarsi nel santuario rimbalzavano sul marmo bianco come sulla superficie di uno specchio d'acqua. I sacri serpenti del dio scivolavano frusciando, sinuosi e silenziosi, ai piedi dell'altare.Squame verdi, denti scintillanti , guizzi rossi, sibili, sussurri primitivi che parevano la voce del rimorso. E due figure umane dormivano beate, cullate dalla danza flessuosa dei rettili che, accarezzandoli, li purificavano. Cosa mai poteva esserci da purificare in due bambini addormentati?Due gemelli, due figli di re, come lo erano stati Febo e Artemide. Il dio raggiunse l'ara con movenze così armoniose e cadenzate che pareva stesse danzando, vi si appoggiò sopra e richiamò a sé i propri serpenti per non spaventare i bambini.Chi mai poteva essere così sventato da lasciare due principi incustoditi, sia pur in un tempio, sia pur in un suo tempio?Avvolto in un corto chitone di stoffa incorporea ed impalpabile, immerso nella sommessa ed evanescente luminescenza lunare, poteva sembrare solo un'apparizione. Un'apparizione, ecco quello che fu per Cassandra. Apollo apparso nello sfolgorio dei raggi, così come si sarebbe abituata a vederlo da quel momento in avanti. Fu la prima a svegliarsi, la prima a scorgere la figura celestiale dell'Arciere che si stagliava ai piedi del suo maestoso e imponente simulacro.Fra i due, solo la statua aveva un volto umano. Apollo non si mosse. Guardava la stupenda bambina dai ricci bruni ancora adagiata sul marmo gelido come gli uomini assistono alla schiusa di un uovo da cui non sanno che creatura nascerà.Cassandra si sarebbe messa a tremare, se solo avesse conosciuto abbastanza il mondo da interpretare il significato dello sguardo del dio. Ma fino ad allora era stata cresciuta da figlia di re, con l'orgoglio di una principessa, la fierezza nel portamento e l'alterigia nello sguardo. Al tempo era ancora la figlia favorita di re Priamo, non si era piegata davanti a nessuno, se non in adorazione davanti a suo padre. Aveva sempre riverberato la fiamma della dinastia Dardanide, amata dal suo popolo perché venerata dai fratelli. Non sapeva ancora, come non sapeva Apollo, che quello stesso popolo e quegli stessi fratelli l'avrebbero rinnegata.[Abbassa lo sguardo davanti al tuo dio, Cassandra. Abbassalo.]Ma gli occhi castani della giovane troiana rimanevano incatenati, fermi e palpitanti, soavi e duri insieme, in quelli del color del sole di Apollo che, ironicamente, trovava quella meravigliosa contraddizione più provocatoria del suo sguardo ostinato. Cassandra sentì il gemello muoversi contro la sua schiena e una mano della stessa dimensione della propria le tirò la stoffa candida e stropicciata del chitone. « Eleno, » sussurrò la bambina scuotendo trafelata il fratellino assonnato « Eleno, Eleno, guarda». [Guardalo. Non privarti della visione di un dio.]« Brilla come le lucciole del nostro boschetto.» rispose lui, aprendo appena gli occhi acquosi, traboccanti di una spensieratezza che forse gli dei avevano destinato ad entrambi i gemelli, ma che a Cassandra era stata precocemente preclusa.
La giovane figlia di Priamo sarebbe volentieri rimasta a contemplare il dio fino a quando il dovere non lo avesse richiamato a splendere nel cielo, ma quando il suo sguardo si rivolse nuovamente verso l'altare, dell'empirea apparizione di Febo non erano rimasti che i due serpente guizzanti. Lo strillo di Ecuba squarciò la tersa immobilità del tempio. Cassandra capì che Apollo aveva percepito, con il suo udito vigile e raffinato, il sobbalzare del carro reale sulla strada dissestata e che aveva deciso di celarsi alla madre. Frastornata dalle urla della regina, quasi delusa per il brusco ritorno alla dimensione terrena, la bambina non comprese il motivo di tanta agitazione finché non si accorse che i sacri serpenti, prima inibiti dalla presenza del dio, si erano lentamente avvicinati a colei che aveva suscitato tale interesse nel loro padrone. Sentì il flebile pianto di Eleno, spaventato alla vista dei rettili, e il nitrito infastidito dei cavalli quando Ecuba, scendendo affannata dal carro, corse per i gradini del tempio e scacciò i serpenti. [Come se Apollo avesse davvero potuto lasciare che venisse fatto del male a due bambini in un suo tempio.]Il dio non poté non avvertire una punta di irritazione pizzicare il proprio sensibile orgoglio per questa mancanza di fiducia e anche, constatò contrariato, perché la regina non aveva rivolto una sola occhiata al santuario per accertarsi delle sue condizioni dopo i festeggiamenti per il genetliaco di Priamo. Si acquattò meglio dietro una delle imponenti colonne del tempio, il che fu completamente superfluo dato che si era reso invisibile ai mortali, e continuò ad osservare la scena. Ecuba sospinse i figli verso il carro e impartì qualche distratta istruzione all'auriga. Cassandra non aveva battuto ciglio per tutto il tempo, al contrario di Eleno che, attaccato al peplo della madre, stava ancora piagnucolando.Il dio sospirò e si diresse a grandi passi verso il boschetto che circondava il tempio di Apollo Timbreo per andare a recuperare i suoi serpenti, rifugiatisi in un cespuglio. Quando si voltò indietro prima di scomparire all'ombra delle scure fronde, Cassandra stava ancora guardando nel punto in cui l'aveva scorto l'ultima volta.
C'era stato un momento in cui Cassandra aveva pensato che non Apollo non si sarebbe più mostrato. Non si sarebbe certamente stupita, in fondo gli dei elargivano visite ai mortali sotto le proprie reali spoglie con la stessa assiduità della pioggia nel deserto del Sahara, all'epoca non ancora scoperto.I loro incontri avvenivano sempre dopo il tramonto, Apollo non aveva mai trascurato il proprio dovere divino per lei, nonostante da piccola le avessero narrato molte volte storie di passioni talmente ardenti da far negligere agli dei i propri obblighi. Quando capitava che gli aedi cantassero questi miti dopo l'episodio del tempio, Cassandra si alzava dal tavolo del simposio e stizzita si allontanava, con lo sguardo fiero ed incredibilmente adulto. Poco alla volta, in seguito, si era rassegnata alla spietata evidenza che il Sole avrebbe brillato sempre per tutti. Momenti sacri viveva con Apollo alla luce di poche fiaccole nella notte, attimi inviolabili come il sacrificio delle vittime sull'altare.Forse le stanze della principessa avevano un'aura numinosa che intimoriva tutti gli abitanti della reggia, servi e reali, poiché nessuno aveva mai osato irromperne all'interno.
Forse era lo stesso Febo a tenerli lontani, Cassandra non si era mai interrogata a tal proposito: per lei, nelle sue convinzioni vertiginose e suggestionate, Eleno, l'unico altro a cui il dio si era mostrato, credeva che l'apparizione fosse frutto di estrosi e visionari sogni puerili. «È una sacerdotessa di Apollo.» la giustificavano genitori e fratelli quando non si presentava ai banchetti. Nel palazzo di Priamo quelle parole divennero una cantilena, una nenia innaturale che si mescolava ai canti delle nutrici per cullare i bambini che continuamente nascevano.«È pazza.» si erano giustificati in seguito se la voce del dio decideva di parlare attraverso la sacerdotessa in presenza di ospiti. Le risate dei bambini cresciuti si trasformarono sempre più in sorrisi di scuse. Una principessa che profetizzava la caduta della propria città in tempo di guerra era sicuramente folle. Non si poteva redimere un pazzo.A Cassandra cosa importava?Lei ed Eleno avevano smesso di essere gemelli quel giorno nel tempio. Come avrebbero potuto continuare a sentirsi tali? Eleno considerava solo una chimera trasognata la visione del dio al cui servizio Cassandra si era consacrata. Ogni volta che il dio si recava a visitarla, tutti i giorni, per la verità, il corpo di Febo Apollo aveva quel bagliore diafano che a lungo le aveva fatto pensare che fosse stato scolpito nella luce pura. Adorava affondare le mani in quei capelli ricci e fluidi come nettare, scompigliare deliziata la chioma bionda per verificare se i frammenti di luce che rimanevano aggrovigliati fra le ciocche bionde del dio sarebbero scivolati a terra in una pioggia d'oro. Eppure più dell'amore divino del dio del Sole aveva voluto, quasi preteso, quel dono che Apollo non avrebbe mai potuto negarle [e lei lo sapeva, lo sapeva da quando, ancora bambina, si lasciava prendere sulle ginocchia mentre il dio la guardava con la stessa tenerezza dolorosamente umana che le aveva brevemente riservato Priamo.]«Gli dei non concedono facoltà di tale portata a chiunque, mia profetessa. Ti conferisco il dono della Profezia, l'arte celestiale per eccellenza, ti concedo l'accesso alla mia essenza più genuina. Ciò equivale ad amore eterno per me. Cassandra, promettimi che mi amerai sempre.»La fanciulla non aveva realizzato la portata della promessa, oppressa, accecata dalla nuova vista che attraverso specchi incrinati le rivelava realtà distorte, velleità frammentarie che edificavano il suo mondo di apparenze dietro il velo della verità.[Ah, Cassandra, come se non sapessi fin dal primo momento che l'amore che ti chiede non è la sacra venerazione a cui ti sei votata!]Il nome di Apollo era sempre accompagnato dal suono della lira, nella testa della figlia di Priamo risuonava sempre la melodia che il dio stava suonando quando lei entrò nella propria stanza e lo trovò lì, seduto a terra, con la stoffa incorporea del chitone che si spiegazzava indolentemente sul corpo eburneo del giovane dio. Cassandra sorrise [tutti sorridevano quando lo vedevano] e i suoi bei boccoli bruni le molleggiarono sulle esili spalle. Continuò a sorridere, negando che fosse giunto il giorno in cui Apollo avrebbe reclamato l'amore che non aveva potuto chiedere ad una bambina finché non si rese conto di quanto la Vista l'avesse accecata. «Ti ricordi ciò che mi hai promesso, mia profetessa?» Cassandra crollò in ginocchio e cominciò a implorare, ma era lui l'unico dio che aveva da pregare, voltò la testa per non vedere la delusione, talmente irata da sembrare quasi umana, che
adombrava lo sguardo del dio. Inquisì gli occhi di Apollo alla ricerca di una sfumatura dell'antico calore, ma scorse solo i riflessi duri e tetri dei lapislazzuli nelle sue iridi. Eppure continuò a sperare, quando lo vide avvicinarsi, che stesse cercando di perdonarla.Febo giunse così vicino al suo viso che Cassandra quasi riuscì ad udire la risata beffarda e sovrumana della vendetta del dio mischiata al suo fiato gelido. Un bacio, uno solo, poteva anche concederglielo. Ma lo sputo fu così inaspettato e tagliente che la vista le si annebbiò di quelle lacrime che d'allora in avanti non avrebbe potuto evitare.Ghigni opalescenti rilucevano al lucore di timide fiammelle, denti perlacei affilati come zanne. Quando Apollo le parlò per l'ultima volta, la sua voce riesumava l'ira degli dei dimenticati nel Tartaro, lo sguardo palpitante di un piacere feroce e sconvolgente.«Io ti maledico, Cassandra. Che nessuno creda mai ai tuoi oracoli.»E il dio scomparve in una vampata che spense i ceri della camera e rapì l'ultima scintilla di calore della profetessa, lasciandola a singhiozzare, nel tentativo di lavare via, con le lacrime che le bagnavano le labbra, l'onta della promessa frantumata. Da quel giorno i templi divennero tuguri. Nel suo vaticinare di fiamme e di eredi e di eroi, i fratelli erano caduti uno ad uno per le strade spazzate da venti di tomba.Da allora Sole, sempre Sole, Febo sadicamente onnipotente nel cielo opaco, offuscato dai fumi delle pire funerarie. Anche la notte dopo che Troia era bruciata, sarebbe sorto dietro alle ceneri della rocca come la città non avrebbe fatto.
Il Sole di Micene era lo stesso che l'aveva accarezzata a Troia. Quando Cassandra lo vide per l'ultima volta, era intriso e grondante di quel sangue con cui tingeva il cielo al tramonto. Era già giunto il tramonto? Le pareva che la notte si fosse appena conclusa.Forse... forse era la sua vista ad essere caliginosa di sangue. »
Così Maro terminò il suo racconto, il bambino ormai addormentato dal suono cadenzato delle sue parole. Il volto di Odisseo, in parte rischiarato dalla luna, in parte adombrato da riflessi di presentimenti e sospetti, verteva a espressioni diverse. Ma fu una scintilla di sincera e perita ammirazione quella che accalorò la sua voce: «Devono averti istruito le Muse, maestro ti è stato il Apollo ispiratore. Narrami ancora del dio.»
«I boccioli dei fiori del giardino si stavano schiudendo in quel momento, dopo il sonno notturno, a poco a poco, come socchiudendo gli occhi per non rimanere abbagliati dal Sole, eppure anelando di vederlo a costo di incenerirsi all'istante. E splendeva, Apollo, brillava in quel momento come ogni giorno faceva nel cielo tanto distante.Lì, nel mezzo del prato fiorito, Febo rubava colore a tutto ciò che lo circondava, pareva che frammenti di luce gli fossero rimasti aggrovigliati fra i capelli ricci, che gli cadevano fluidi sulle spalle come l'acqua delle limpide sorgenti vegliate dalle sue amate ninfe.Gigli e fiori bianchi nascevano intorno ai suoi piedi nudi, sui suoi passi, pudici, acerbi, timidi di comparire di fronte al Dio. Animali di ogni genere si affacciavano alla radura, facevano capitolino dalle loro tane, incerti ma irresistibilmente affascinati, mostrandosi con un timore quasi reverenziale. Fili d'erba si attorcigliavano intorno alle caviglie di Apollo, forse tentando di trattenerlo, e piante di alloro protendevano i rami nella sua direzione, quasi volessero cingerlo, come se Dafne cercasse di perdonarlo, o di farsi perdonare.Apollo si spostava incerto di pochi passi, sembrava brancolasse, in prossimità di quel laghetto limpido e gelido. Cigni bianchi si stavano avvicinando a lui, non intimoriti come gli altri animali, ma superbi, eleganti, regali, come lo era stato lui.Apollo si chiese come avesse potuto sceglierli come animali sacri: fra tutte le creature che proteggeva, nessuna, in quel momento, gli era più estranea dei cigni, puri, liliali, incorrotti come lui non era mai stato. Un dio non poteva essere immacolato. L'onnipotenza non conosceva innocenza. Riguardo alla morte di Giacinto non era meno colpevole di Zefiro, il principe era rimasto vittima dell'amore capriccioso e volubile degli dei. Un amore divorante, eppure effimero come la vita che gli era stata tolta. La sua luce abbagliante aveva incenerito un'anima mortale. Il corpo del principe spartano giaceva su un tappeto di gigli candidi, che illuminavano la lieve sfumatura ambrata della sua pelle, in riva al lago. Il braccio era piegato in una posa innaturale, le dita eburnee che tanto aveva amato sentire sul suo corpo sfioravano appena l'acqua del lago, increspandone la superficie in un succedersi di cerchi concentrici. Apollo si inginocchiò accanto al corpo dell'amato, rimase a contemplarlo a lungo, passandogli le dita sottili e affusolate fra i capelli quasi corvini e sulle gote, restituendo loro con le sue carezze il colore perso. Sulla tempia, rossa e vivida come il dolore del dio lucente, spiccava la mortale ferita che l'aveva ucciso. Febo aveva fermato il sangue, ripulito e ricucito il taglio, cosicché ora poteva addirittura passare inosservato. La bellezza del suo principe era equiparabile a quella di un fiore raro, sembrava forgiata per essere amata da un dio. Possedeva un'armonia di lineamenti destinata a diventare arte nelle mani del dio Musagete.Avrebbe voluto baciarlo, ma non osava per paura di contaminarlo, sporcarlo con la sua colpa. E intanto boccioli nuovi seguitavano a sorgere dal terreno intorno a Giacinto, lambivano la sua pelle, come reclamandolo a loro, fra quanto di più genuino vi fosse al mondo.Il dio prese la lira fra le mani raffinate e marmoree, chiuse gli occhi e suonò la disperazione, suonò la sofferenza, suonò il lutto. Lacrime che parevano il distillato del puro strazio scendevano lungo le
gote di Apollo, ma erano poche, come se si sentissero colpevoli di incidere con il dolore il volto celestiale del Sole.Quando Febo riaprì gli occhi, le iridi avevano rapito il colore dall'acqua limpida e gelida del lago. Davanti a lui, fra i boccioli candidi, svettava un nuovo fiore, scarlatto e vivido di colore, coltivato dal pianto di un dio, nutrito dalla luce divina del Sole in persona. »
L'Aurora si aveva appena iniziato a levarsi dal giaciglio notturno, ancora assonnata, e il suo risveglio faceva arrossire di gioia gli angoli più bassi del cielo. Le sue rosee dita strangolavano l'ultimo spasmo della notte morente. Ma al risveglio del cielo si accompagnavano le ingiuriose e venefiche voci delle Erinni, cori di sussurri perseguitavano i fautori di una strage iniqua. Le dee si avvicinavano, Odisseo poteva udire il fruscio dei loro passi, oltre il bosco sacro. Si avvicinano, nelle vesti degli armati abitanti di Isamara li costrinsero in fuga.
Nicotra Rita Nadir
NELLA TELA DI ARACNEMi stavo accingendo ad uscire dall’Ade: quell’incredibile esperienza aveva lasciato tracce indelebili nel mio cuore . Tiresia mi si avvicinò immediatamente e, titubante perché sicuro che mi avrebbe sconvolto, mi disse che nel mio futuro vedeva nero. Pur colpito da questa sconvolgente rivelazione, cercai di non farmi condizionare dal mio destino, così tornai dai miei compagni e partimmo. Ma appena cominciammo a scorgere felici la nostra Itaca, Poseidone scosse la terra con il suo tridente e scatenò una terribile tempesta. Io ordinai tempestivamente ai miei compagni di ammainare le vele e di mettere in mare i remi. Loro eseguirono con prontezza i miei ordini, ma la corrente ruppe immediatamente i remi. Il vento era contrario, perciò non potevamo usare la vela. Eravamo totalmente in balia della corrente che ci trascinava via, sempre più lontano da Itaca e dal nostro sogno di ritornare in patria. La tempesta si placò solo due giorni dopo, nel cuore della notte. Dovevamo trovare un luogo dove attraccare. Subito. Arrivammo ad un’isola di cui ignoravamo l’esistenza. Legammo subito una gomena ad un albero presso la foce di un fiume. Tagliammo la legna e prendemmo dalla stiva della carne e del formaggio che ci erano stati offerti da Circe. Accendemmo perciò un fuoco per poter cuocere la carne, poi, affamati, la divorammo con il formaggio. Dopo aver consumato il pasto e avere spento il fuoco ci addormentammo, finalmente non più in balìa delle onde. Il giorno dopo ci svegliammo presto e i miei compagni si misero a cacciare per rimediare alla scarsità di viveri nella stiva. Pronti per andarcene, ci accorgemmo purtroppo di una falla sullo scafo della nave. Era impossibile metterci in mare in quelle condizioni, perciò i miei compagni più esperti iniziarono a riparare l’imbarcazione, mentre io ne approfittai per esplorare l’isola, un paradiso meraviglioso caratterizzato da luci e profumi ineguagliabili rispetto alla mia petrosa Itaca. La foresta di pini che si estendeva di fronte a me era incredibile: altissima anche se non particolarmente fitta. Chiamai i miei compagni e riferii loro che avevo intenzione di addentrarmi nella parte più interna dell’isola. Loro, timorosi, mi supplicarono, dissero che non volevano venire, ma io, spinto dalla mia sete di conoscenza, non li ascoltai e scelsi i tre più valorosi perché mi accompagnassero. Dopo esserci inoltrati nel fitto della foresta udimmo un canto così meraviglioso che credetti che le muse stessero cantando per noi. Seguimmo quelle voci melodiose e ci trovammo davanti a una grotta: entrammo e trovammo una donna che filava: i suoi occhi erano neri, come una notte senza stelle, i suoi capelli bruni avevano lo stesso colore del tronco degli alberi e la sua pelle sembrava ghiaccio. Era molto bella, ma la parte inferiore del suo corpo tradì la sua vera natura: sembrava un centauro, come Chirone, ma le zampe erano quelle di un ragno. Un mio compagno urlò, mi girai per zittirlo, ma mi accorsi che l’ingresso della caverna era stato bloccato da una ragnatela. La donna si accorse di noi e si avvicinò; io terrorizzato pregai tutti gli dei, ma lei si diresse verso uno dei miei compagni e lo uccise, poi afferrò il corpo e se ne andò. Era quasi sparita alla nostra vista quando improvvisamente si girò e ci fece segno di seguirla. L a seguimmo dentro quella che sembrava una cucina; lei mise il cadavere su un letto di paglia.Cautamente, decisi di parlare: “Mia signora, noi siamo eroi di nobile stirpe, veniamo a implorare la tua benevolenza. Concedimi l’onore di sapere quale sia il nome di una creatura stupenda come te!”. “Il mio nome è Aracne” sibilò con voce ripugnante.
“Aracne, il suono del tuo nome pare una poesia. Il tuo cuore non può che essere generoso. Ti supplico come non ho mai supplicato neanche gli dei, lasciaci andare, la mia sposa mi aspetta a casa: è destino che io la veda”. Il mostro sembrò pensarci su. ” E sia” annuncio lei con freddezza, e mi si gelò il sangue nelle vene, intuendo che non era finita lì “Ma i tuoi compagni resteranno qui e tu giacerai con me questa notte”. I due uomini rimasti guardarono il cadavere e sbiancarono in volto. Io provai a dirle qualcosa per farla desistere dai suoi propositi, ma lei non mi ascoltava. Per non essere ucciso fui costretto a trascorrere la notte con lei, così come quella dopo e quella dopo ancora. Ovviamente non mi lasciò partire, né concedette ai miei due compagni di tornare alla nave e di salpare immediatamente con gli altri superstiti. Passarono tre mesi, poi Aracne scoprì che la dea che l’aveva maledetta, Atena, era la mia protettrice. Furiosa, tentò di uccidermi, ma io riuscii a ferirla colpendola con un coltello a una zampa. Tentai di fuggire, ma mi ero dimenticato della ragnatela all’ingresso. Aracne mi raggiunse con il pugnale e in quel momento mi venne un’idea: mi posizionai davanti alla ragnatela e mi spostai solo quando lei mi si avventò contro. Il pugnale rimase incastrato e squarciò la ragnatela da un lato; lei mise gli occhi su di me con uno sguardo omicida, pronta al contrattacco. Io ebbi appena la forza di spostarmi dall’altra parte e per poco non venni colpito dal pugnale, tale era la sua velocità, ma il piano aveva funzionato: la ragnatela era lacerata in due punti e non mi fu difficile strapparla completamente. Appena la ragnatela fu lacerata, vidi due figure fuggire verso la nave e capii che erano i miei compagni sopravvissuti. Aracne, però, fu più veloce: uccise il secondo, che era inciampato, e colpì il primo a una gamba. Io allora lo caricai sulle mie spalle e lo portai fin sulla nave; solo allora mi accorsi che il mostro non ci aveva seguiti. I miei compagni, vedendomi correre, misero in acqua i remi nuovi e, dopo averci caricato a bordo, ripartirono verso Itaca. L’ultima ricordo che ho di quell’isola è la voce di Aracne che mi maledice, ma le sue parole si persero nel vento come l’acqua di un fiume che si tuffa nel mare. Piangemmo molto e per molti giorni i compagni morti e tutto il tempo perso, ma in cuor mio sapevo che cosa la Moira stava preparando per noi: sarebbero tutti morti in un modo o in un altro, ad uno ad uno, come le foglie degli alberi in autunno.
Saldarini Simone
ODISSEO , I GALLI
E NUBICUCULIAEra un giorno come tanti in quell’immenso mare. Odisseo si era ormai rassegnato alla sua tremenda situazione. Una nave ,però, stava passando da quelle parti: quella dei potenti Galli, storici rivali del popolo Romano. Il loro capo si rivolse al figlio di Laerte: ”O naufrago ,vedo e comprendo la tua difficile situazione. Ti offro infatti una vantaggiosa soluzione: se riuscirai a
condurci alla meravigliosa città sulle nubi ,potrai far parte del nostro equipaggio: avrai un tetto sulla testa, cibo e nuove vesti pulite. L’astuto Odisseo accettò immediatamente l’offerta, ma nella mente aveva già pronto il piano: avrebbe condotto i Celti con l’inganno verso Itaca, e, con la scusa di scaricare le merci, sarebbe fuggito verso la sua reggia, per riabbracciare la sua amata moglie Penelope. Allora Ulisse simile a un dio cominciò a dare indicazioni per la terra di Laerte. Nel frattempo Poseidone
lo Scuotiterra, irato con Odisseo per l'accecamento del figlio Polifemo, vide che l'eroe stava navigando in direzione di Itaca: scatenò una tremenda tempesta con il suo tridente, e radunò le nuvole per provocare un temporale. La nave si distrusse, e tutto l'equipaggio naufragò. Finirono così su un'isola nell'ombelico del mare: essa era composta di rocce rossicce ed era spoglia di piante di qualsiasi genere; spiccava solo un'alta montagna, ricoperta sulla cima da soffici ed argentee nubi. I poveri uomini, sopravvissuti al naufragio, decisero di andare a cercare un tempio per ringraziare gli dei della loro sorte compiendo un sacrificio, ma, non avendo buoi o animali a disposizione, decisero che avrebbero sacrificato Odisseo, poiché era l'ultimo arrivato ed anche l'ultimo nelle gerarchie di quell'equipaggio. Lo legarono perciò con delle corde e partirono verso la cima della montagna, poiché era probabile ci fosse un tempio: non era raro trovare templi o santuari sulle cime di montagne, perché gli antichi erano convinti che una posizione sopraelevata potesse permettere un contatto più diretto con l’Olimpo.
Dopo ore ed ore di cammino, arrivarono sulla cima: lì non trovarono templi o santuari, ma addirittura un’intera città: Nubicuculia. Subito due uomini andarono incontro all'equipaggio e chiesero: "Che cosa cercate ,o viandanti, qui a Nubicuculia? “ "Cercavamo un rifugio e ospitalità,
e, se possibile, anche un tempio per fare un sacrificio agli dei: abbiamo avuto una sorte favorevole e intendiamo rendergli grazie".
Ma gli uomini risposero: "Voi qui non troverete nulla di ciò che cercate: questa non è una città atta a fare beneficenza" . Chiamarono perciò un imponente stormo di uccelli che scagliò giù dalla montagna i galli e Odisseo. Si ritrovarono dall'altro lato dell'isola e, siccome prima di partire avevano lasciato viveri e oggetti sull' altra sponda, decisero di circumnavigare l'isola a nuoto. Ma lo scuotiterra voleva ostacolare Ulisse, non permettendogli di tornare facilmente a casa: scatenò un violento terremoto, che a sua volta causò un maremoto dalle onde gigantesche. I naufraghi decisero quindi di rifugiarsi in una grotta sulla riva, spaventati dal nuovo terremoto.Entrarono nella spelonca e trovarono altri uomini, già precedentemente naufragati e in seguito cacciati da Nubicuculia. Uno di loro si alzò e disse: "Anche a voi è toccata la nostra stessa sorte? Siete stati respinti nel vostro tentativo di entrare nella magnifica città sulle nubi? Beh, non siete i primi, e credo che non sarete neanche gli ultimi."; subito il re dei galli raccontò la loro vicenda, e lo stesso fecero gli altri calunniatori. Dopo il drammatico racconto, uno degli uomini prese la parola: "Perché non ci alleiamo e conquistiamo la città?" "Sembra una buon idea "disse il re gallico. Odisseo a quel punto prese parola ed espose un piano per conquistare la città: uno di loro avrebbe distratto i due re, attirando il temibile stormo di corvi, mentre gli altri compagni, aggirando la città, priva di guardie, avrebbero catturato gli uccelli con delle reti da pesca. A quel punto i re, rimasti senza difese, avrebbero potuto essere facilmente sconfitti. Il piano fu messo in pratica: Odisseo, sfruttando la sua capacità oratoria, chiamò i due re fuori dalla città, con la scusa di cercare un rifugio sicuro, e articolò un lungo discorso sul fatto che la Moira era adirata con lui; i due re, senza indugio, fecero il fischio di richiamo per attirare lo stormo, in modo che cacciasse il viandante. Ma, nel frattempo ,i calunniatori avevano prima attirato poi catturato lo stormo di corvi con delle reti da pesca: i re si trovarono spiazzati dal mancato arrivo dei volatili e cominciarono a rassegnarsi al proprio destino. Arrivarono anche i compagni di Odisseo puntando le spade, e i sovrani si videro costretti ad arrendersi .Spartite le ricchezze tra i calunniatori e i galli, questi ultimi decisero di ripartire per la Gallia con Odisseo, mentre i calunniatori restarono a governare Nubicuculia,dopo aver gettato nelle segrete i precedenti sovrani. Odisseo, forte del fatto che il suo ruolo era stato determinante nella sconfitta del nemico, chiese ai galli di essere lasciato a Itaca, poiché riteneva di meritar una ricompensa per il suo geniale piano, e i galli acconsentirono. Partirono perciò alla volta di Itaca: Odisseo era pazzo di gioia all’idea di poter finalmente tornare a casa, nella sua amata Itaca, dalla sua amata Penelope. Ma i Galli, con un disonesto inganno, lo riportarono all'isoletta da cui era partito. Uno smacco temporaneo per il nostro Odisseo, che, attraverso la sua astuzia e la sua politropia, sarebbe sicuramente riuscito a cavarsela, come di fronte ad ogni avversità, anche questa volta. Ma questa…è un’altra storia.
Mazzoccato Damiano
Porro Luca
EMOZIONI SENZA VOCEDa lungo tempo ormai Ermes Argifonte seguiva le avventure dell' abile Odisseo, eroe dalle mille astuzie. Sin dalla vicenda nell'altro di Polifemo, il messaggero alato, figlio di Zeus, provava una profonda stima nei confronti dell'accorto re. Ermes ψυχοπομπος aveva fornito ad Odisseo
numerosi aiuti nel corso del suo lungo viaggio. L’abile oratore, in un giorno di cielo terso, nel quale i raggi del sole accarezzavano tiepidamente la sua candida pelle, si imbattè nella temibile Isola dei Ciclopi. Forse erano state le Moire, tessitrici di sorti, a condurlo in quel luogo inospitale tanto amato quanto odiato. Ermes, dopo aver portato a termine per l'ennesima volta il suo compito di messaggero degli dei, appena sfiorato il suolo dell'isola, venne attratto da una voce profonda e armoniosa. Un brivido percorse la schiena del Dio, che si sentì invaso da un sentimento di terrore ed eccitazione. Trovó la fonte di quella voce tanto familiare quanto estranea e la paura lo attanaglió quando si rese conto che tale suono proveniva da un luogo così terrificante:
la caverna di un ciclope. Attraverso uno spiraglio che dava sull'interno dell'antro scorse finalmente la sorgente di tale richiamo. Era Odisseo, il multiforme, che stava discutendo con uno dei figli del Dio del Mare, Polifemo. Il mostro dall'unico occhio afferrò tre dei compagni dell'eroe e li ingurgitò brutalmente, come un leone montano sbrana le proprie prede indifese. Il Dio rimase sconvolto dalla cattiveria che dimostrava il ciclope, tanto da decidere di fuggire. Per il resto della giornata continuò a rammentare Odisseo. Il ricordo di ciò che aveva visto lo torturava, lo sconvolgeva. Comprese infine di essere terribilmente preoccupato per il magnifico eroe, temeva per la sua salvezza. Quindi decise di tornare nel luogo maledetto. Appena arrivato trovò la caverna nuovamente bloccata dall'enorme masso. Riprese perciò ad osservare gli avvenimenti all'interno dell'antro attraverso lo spiraglio . In quel momento Odisseo stava parlando con voce suadente ed ipnotica al gigante mostruoso, che sembrava irrimediabilmente ubriaco. Il Dio ascoltò ciò che Odisseo stava raccontando e rimase profondamente affascinato. Il modo in cui l'eroe si esprimeva, le parole accurate e il tono ammaliante con cui l’abilissimo oratore dava prova delle sue doti retoriche resero Odisseo un maestro di eloquenza agli occhi di Hermes. Il Dio rimase a lungo ad osservare la scena che si stava svolgendo all'interno
dell'antro affascinato e spaventato. Improvvisamente, non appena il ciclope cadde addormentato, Odisseo e i suoi compagni appuntirono un grande ramo secco di quercia e lo resero incandescente bruciandone la punta sull' enorme fuoco crepitante al centro della grotta. Subito il bastone ardente venne conficcato
brutalmente nell'occhio del ciclope, il quale inizió a gridare in preda al dolore.
Il dio era sconvolto dalla brutalità di quell'uomo, fino a pochi momenti prima così affascinante, ma anche ammaliato dall'astuzia che tale umano era riuscito a dimostrare. In preda al terrore Hermes se ne andó, viaggiando velocemente attraverso il cielo notturno costellato di astri luminescenti.Fu costretto a vedere troppe volte la candida luna rincorrere il sole Iperione nella volta celeste prima di imbattersi nuovamente in Odisseo. Avvenne sull'isola dei Feaci il tanto atteso incontro. Hermes, tornando all'Olimpo, sentì nuovamente quella magica voce che lo condusse a seguirla e a trovarne l'origine. Era nuovamente il suo adorato eroe Greco, ma questa volta stava narrando le sue avventure terrificanti. Odisseo raccontava. Il pubblico ascoltava, ammaliato e magnetizzato, tali terribili storie. E sopra gli ascoltatori, ben nascosto da un pilastro marmoreo che svettava verso il cielo, il Dio Hermes si smarriva stregato in quella miriade di parole e di avventure. Riviveva con Odisseo la sventura nell'isola dei Lotofagi, rivedeva di fronte a se' l'immensa schiera di animali che popolavano l'esterno della casa di Circe. Un brivido risaliva placido lungo la schiera, vertebra dopo
vertebra, fino ad arrivare alla punta dei capelli dorati ed irradiarsi inesorabile nei nervi del suo corpo fragile. Una lacrima fredda scese improvvisamente dagli occhi vitrei di Odisseo, rigò il suo volto, solcato dai segni del tempo, percorse lentamente la sua guancia scavata, sfiorò le sue labbra secche e impazienti, fino a scendere sul suo mento pronunciato e abbandonarsi nell'aria pesante del caldo estivo. Migliaia di lacrime calde scendevano rapide dai suoi occhi limpidi e, nonostante Odisseo cercasse di nasconderle, persino Hermes dall'alto della sua colonna riusciva a vederle e a seguirne il tragitto intricato.
Sentendo tutti quei racconti il dio era rimasto esterrefatto e sentiva una sensazione mai provata prima crescere lenta e pacata e sobbollire nel suo petto, come fuoco ardente. Mai aveva visto nè sentito parlare di un uomo con tali capacità, un eroe coraggioso e astuto. Sembrava impossibile che un essere umano, cosí triste e sperduto, potesse essere così abile fino ad eguagliare, se non addirittura a superare, un dio stesso. La stima si trasformó in amore quel giorno. Un amore
senza futuro, un amore basato sulle storie e sui racconti, nessun rapporto ancora, nessuna parola scambiata, nessun sorriso condiviso, un amore platonico di un dio onnipotente per un misero uomo. Ermes decise di rimanere sull'isola fino alla partenza di Odisseo, per osservarlo e per avere il tempo di decidere il da farsi. Prese forma umana, in modo da potersi mostrare ad altri, trasformandosi in un ragazzo splendido, simile ad Achille massacratore: aveva lunghi capelli biondi che scendevano fino alle spalle e vicino ai lobi delle orecchie formavano dei piccoli boccoli ambrati, due gemme smeraldine, al posto degli occhi, brillavano tenacemente con un'aurea divina, il naso aveva tratti perfetti, così come le labbra scarlatte e carnose.L'uomo era piuttosto alto e muscoloso, con lunghi fasci di tendini che scattavano ad ogni suo movimento. Per qualche giorno si finse un collaboratore dei Feaci, incaricato da Alcinoo di aiutare gli abitanti di Itaca a preparare il necessario per affrontare il viaggio di ritorno. Spiò ogni movimento di Odisseo: come muoveva le mani callose quando lavorava, il modo in cui si strofinava il mento bruno quando rifletteva, come strizzava gli occhi olivastri intrisi di nostalgia quando ripensava alla sua città amata, a sua moglie, a suo figlio e al suo cane. L’eroe e il dio dialogarono più e più volte nel corso di quelle giornate assolate, discussero di navi possenti, parlarono di venti, ricordarono la propria patria natia, e il dio dovette aguzzare l’ingegno per non far trapelare la propria identità e i propri sentimenti. Il giorno prima della partenza degli Achei, Ermes decise che l’ora era ormai giunta. Sul
far della sera, quando il tramonto tingeva con le sue dita il cielo, donandogli sfumature crocee, celesti e blu come la notte profonda, il dio cercò Odisseo e, quando lo trovò, lo condusse in
un posto isolato, di fronte al mare limpido. Appena furono soli il dio iniziò a parlare ad Odisseo: << Mio caro amico, ormai è giunta l’ora che le tue vele lascino questa terra sconosciuta, e ritornino ad assaporare il vento di Itaca. Il mio cuore serba nel profondo il desiderio di parlarti, di rivelarti ciò che sto provando, chi sono realmente, ma è pieno anche di timore. Timore che tu, o mio caro, possa non accettare ciò che desidero, poiché troppo innamorato di tua moglie.>> L’eroe, nel sentire queste parole, provò sconcerto e timore, poiché lui e quel giovane ragazzo si conoscevano da meno di sette lune. << O amico mio, sciogli i nodi che legano il tuo cuore>> rispose << e liberati del peso che affligge la tua anima. Nessun amore può impedirti di rivelare ciò che ritieni giusto io sappia.>>. Sentendosi finalmente libero, il dio si mostrò per quello che era, senza timore, paura, tensione. Si mostrò a quell’uomo così retto ed astuto come il dio che era. Per un momento si domandò come si sarebbero comportati gli altri dei in una situazione come
quella. Capì che probabilmente si sarebbero precipitati con violenza nella vita dell’amato, senza mantenere nessuna forma di rispetto nei confronti di quell’umano. Lui aveva deciso di trattare Odisseo con una deferenza riservata solamente ai propri simili. Credeva, infatti, che l’amore dovesse andare oltre l’orgoglio e la vanità, nonostante le differenze presenti tra i due amanti.
Lentamente i suoi lunghi capelli color dell’oro si accorciarono, tornando ricciuti e ramati. I suoi occhi smeraldini rimasero tali, conservando quell’aurea magica e divina che li caratterizzavano. La statura diminuì visibilmente, ma la muscolatura rimase molto accentuata. L’elmo e i sandali alati tornarono a troneggiare sul suo corpo, mentre una lunga veste candida copriva parte del suo petto glabro e circondava i
suoi fianchi. Il caduceo ricomparve nelle sue mani delicate, conferendogli una maggiore autorità e facendo comprendere ad Odisseo che realmente si trovava alla presenza del dio Ermes.
L’uomo si sentì impotente per qualche secondo e, colto dal timore, si prostrò di fronte al dio inginocchiandosi e chinando il capo. Dentro di sé provava una forte paura, ma il suo animo era attanagliato dal dubbio: quali emozioni provava una tale divinità nei suoi confronti?
Immediatamente il dio parlò:<< Odisseo, uomo dalle mille astuzie, sei molto rispettoso verso di me, ma ti prego, alzati. Sarei io a dovermi inginocchiare alla tua presenza. Sei sopravvissuto a vent’anni di tragedie terrificanti, sei un uomo di estremo coraggio ed ingegno. Da molto tempo ti osservo, amato Odisseo.>> Quella parola fece sussultare il cuore dell’eroe, che sentiva un forte tumulto crescere nel suo petto. << E sono tante le emozioni che provo per te. Ma una sovrasta tutte le altre: l’amore. Ebbene sì, mio caro eroe, il mio cuore è pieno di amore per te. Questa sentimento così meraviglioso cresce di giorno in giorno, avvampando ogni parte del mio corpo, e riducendomi schiavo. Quindi ti prego Odisseo di venire con me, di seguirmi, e di trascorrere il resto della tua vita al mio fianco>>.
L’eroe Acheo si sentì travolto da quelle parole, come se fossero una miriade di cavalli al galoppo che scappano da predatori feroci. Non seppe cosa rispondere, solamente due parole uscirono involontarie dalla sua bocca socchiusa: << Non posso>>. All’udire ciò, il dio si sentì distrutto: tutto ciò che aveva sperato, il destino che a lungo aveva sognato al fianco di Odisseo, erano improvvisamente diventati frutto della sua immaginazione. L’eroe non ricambiava il suo amore, e capì che non l’avrebbe mai amato senza che lui fosse intervenuto. Così , preso da un impeto di follia e rancore, stregò Odisseo per farlo innamorare di lui, per avere finalmente ciò che desiderava.
Il re di Itaca si voltò improvvisamente verso di lui e si fissarono a lungo intensamente, per infiniti secondi, scanditi solamente dallo sciabordio ritmico delle onde e dallo stridio acuto di alcuni uccelli in lontananza.Gli occhi smeraldini di Ermes incontrarono quelli olivastri di Odisseo, per un tempo immensamente lungo, quantificabile solamente da Xρονος. L’emozione addensava l’aria, rendendola più leggera e più grave allo stesso tempo. Eρως, l’amore incondizionato, l’amore involontario, l’amore vero era presente tra quei due uomini in quegli attimi così intensi. Erano immobili l’uno di fronte all’altro, fino a quando Ermes avanzò lentamente, con passo incerto, lasciando cadere il Caduceo. Si ritrovarono faccia a faccia, i due nasi erano a pochi attimi di distanza, gli occhi più vicini che mai, le labbra si stavano sfiorando, le bocche erano premute l’una sull’altra. Si stavano baciando, su quella spiaggia, dove fino a poche ore prima moltissimi marinai fremevano nella preparazione della partenza. Baciando Odisseo, Ermes si sentì invaso da una sensazione mista di emozione e… rimorso. Tutto ciò a cui aveva pensato poco prima riguardo l’importanza del rispetto reciproco l’aveva rinnegato con quel bacio. Quel gesto era spontaneo solamente da parte sua. Non stava carezzando le labbra di Odisseo, ma solamente quelle del proprio incantesimo. Questo pensiero gli fece aprire gli occhi, lo costrinse ad allontanarsi dall’uomo che amava, a ritrasformarsi nel giovane dai lunghi capelli biondi, a disincantare l’eroe, e a cancellare dalla sua memoria tutto ciò di cui avevano parlato. Ermes si intrufolò nella selva a fianco della spiaggia, si sedette sopra un ceppo di un salice appena tagliato e scoppiò in lacrime. Pianse amaramente per ore, solo, nel bosco, sentendo il rumore delle onde non poco distanti, che segnavano il ritmo dei suoi singhiozzi.Odisseo, nel frattempo, era rimasto sulla spiaggia tutto solo, senza sapere con certezza il motivo per il quale si trovasse lì.Quando l’ora della partenza si fece vicina, Ermes decise di ritrasformarsi in se stesso, di alzarsi in
volo e di seguire la nave Achea sino ad Itaca, per assicurarsi che il suo amato arrivasse sano e salvo da colei che amava. Si fece forza, respirò profondamente e partì. E con lui la nave.
Il dio si promise che avrebbe portato per sempre nel cuore il ricordo di quel dolce bacio maledetto e del suo amato eroe dalla grande abilità oratoria. Da quel giorno il dio fece tutto il possibile affinchè Odisseo e Penelope potessero stare insieme. L’amore vero, l’amore puro è questo: saper comprendere quando è il momento di farsi da parte e lasciare che l’amato sia felice, anche se in questa felicità non si è compresi. Ermes imparò questa morale con la storia che oggi noi vi abbiamo raccontato, e che, speriamo, vi possa aver insegnato ad amare, magari anche con un’emozione senza voce.
Bruno Viviana
Fattori Sofia Gaia
Marzorati Anna Lisa
Περί ονειρατος ή γράμματος ;Le onde impetuose, mosse dal potente Poseidone, travolsero la solida zattera facendola ruotare; Odisseo cadde lontano dal timone e l'albero si ruppe a metà. A lungo rimase sommerso, non riuscendo a riemergere a causa della potente forza delle correnti terribili. Alcune ore dopo l'eroe si risvegliò fradicio e privo di vesti sulla riva di un'ignota isola: non sapeva ancora che cosa lo attendeva. Appena comprese ciò che era accaduto, iniziò ad avvertire quel senso di incontrollabile curiosità che non sempre lo aveva portato a situazioni favorevoli, e cominciò ad osservare ciò che lo circondava. Subito notò una serie di particolari a lui familiari che gli ricordavano la sua amata Itaca. All'improvviso sentì il cuore riempirsi e quel sentimento di nostalgia , quell’inguaribile nostos per le sue radici piano piano svanire; si avvicinò il più veloce possibile a quella che sembrava la sua reggia, ma qualcosa lo bloccò: Euriclea, la sua anziana nutrice, stava lavando i panni vicino ad un pozzo; Odisseo la riconobbe subito e la raggiunse. La donna, inizialmente, si spaventò, ma, vedendolo in difficoltà, gli prestò aiuto: gli concesse il dono, preziosissimo per gli antichi, dell'ospitalità e lo condusse per vie segrete fino al palazzo. Cominciò a lavarlo. Improvvisamente le sue mani rugose e vissute incontrarono una cicatrice. La riconobbe palpandola, subito. Sconvolta lasciò andare il piede di quell’ospite misterioso. Dentro il lebete cadde la gamba e risuonò il bronzo. Il suo cuore ormai stanco si riempì di angoscia e di gioia, calde e riconoscenti lacrime rigarono il suo volto, la voce uscì rotta dalla commozione. Sorridendo disse ad Odisseo: "O mio re, sei tu, cara creatura! E io stolta non ti ho riconosciuto se non dopo aver toccato il tuo ginocchio!". "Balia, è passato molto tempo dalla mia partenza, ma ora sono qui. Dimmi cosa è accaduto nella mia amata terra "rispose l’eroe. "Caro padrone, nulla è cambiato, a parte il tuo amatissimo figlio, ormai diventato un uomo”. Queste parole lo rasserenarono conferendogli rinnovato coraggio. Così Odisseo, una volta vestito, si sentì pronto a rivedere, finalmente, dopo tanti travagli, la sua famiglia; si diresse perciò verso la sala principale. Appena lo vide, Penelope riconobbe in lui il marito rimpianto e tanto atteso e, piangendo, gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo e baciandogli il cap. Col cuore sciolto disse :" Odisseo, marito caro, il mio animo aveva sempre timore nel petto che qualche mortale venisse a riferirmi il tuo mancato ritorno, ed ora sei qui, tra le mie braccia. Nulla mi è mai sembrato così irreale e così meraviglioso".Forse, caro eroe, era davvero tutto irreale!Giunse Telemaco, appena tornato dalla caccia, che, assistendo a quella scena tanto incomprensibile ai suoi occhi, chiese perplesso: "Madre, chi è costui? È forse un tuo pretendente?E se fosse così, perché ha le tue candide braccia al collo?Solo a mio padre avresti dovuto rivolgerti con tanta passione!". Penelope e Odisseo intrecciarono i loro sguardi e sorridendo l'uomo rispose :"Telemaco, figlio mio, ti sembrerà strano il mio ritorno improvviso, ma sono stato trattenuto da molte avventure e sventure. Il mio cuore non ha mai subito tale dolore come nel non vederti crescere, ma ora sono qui, pronto a rimediare al tempo perduto." "Padre, anche in cuor mio regna la malinconia per la tua lunga assenza nei miei anni più spensierati e delicati; ma ora sei qui. Solo questo conta". Colto dalla profonda emozione di quel momento tanto atteso e immaginato per anni, solo allora l'eroe si accorse della presenza del cane Argo, suo fedele amico. Era tutto tornato come prima, finalmente.
Penelope si rivolse al marito: "Seguimi, caro Odisseo, voglio mostrarti qualcosa". Usciti dalla reggia si recarono presso un'altra dimora; la sposa riprese il suo discorso:" Ti ricordi chi vive in questo palazzo?". Odisseo, con le lacrime agli occhi, annuì e si avviò all'interno, ma qualcosa lo bloccò: la madre Anticlea era di fronte a lui. Inizialmente il suo cuore si riempì di felicità, ma uno strano sospetto si insinuò nella sua mente: come faceva ad essere viva se aveva visto la sua anima nell'Ade?La sua mente cominciò a porsi innumerevoli domande : " Era tornata sulla terra?", "Quella era davvero Itaca?", "Era solo un sogno?" .Decise di scavare a fondo in questo mistero mantenendo però un’ingenuità di facciata nei confronti dei falsi parenti, così, sorridendo, rispose alla cara madre :" Da quanto tempo! Avevo così tanta paura di non rivederti, madre!” . Provò così a scoprire qualcosa interagendo con la falsa madre, ma purtroppo ciò non bastò .Passarono giorni e notti, e la preoccupazione continuava a crescere all'interno del cuore del politropo Odisseo, la paura inondava come un fiume in piena il suo corpo: e se non ci fosse via di uscita? Ma questo non era possibile per un uomo astuto come Odisseo, doveva trovare una soluzione ,a tutti i costi.Così una notte, sfuggendo agli eidolon, si recò all'unico tempio di Itaca dedicato ad Atena, l'unica dea che lo aveva sempre protetto ed aiutato."O Pallade Atena, tu che hai sempre vegliato sulla mia persona ,dove sei ora? Cosa sta succedendo? Perché sono qui?" così si rivolse a lei l'eroe con una voce flebile .Dopo poco una donna, che pareva appartenere ad un alto ceto sociale, comparve dietro di lui e iniziò a parlargli : “ Eccomi, caro Odisseo, sono la Glaucopide Atena, pronta ad aiutarti: Avrei voluto presentarmi a te prima, ma il perfido scuotitore di terre e acque mi ha tenuta prigioniera affinché non potessi salvarti". L'eroe Deluso e amareggiato, l’eroe rispose:" Sapevo che in qualche modo si sarebbe ancora vendicato.
Questa non è la mia patria e questi non sono i miei cari, vero? O stolto me, come ho fatto a non accorgermene prima? Quale via posso prendere per andarmene?"La dea disse:" Sono solo degli eidolon che eseguono gli ordini del potente re del mare. Purtroppo non posso ricondurti in patria, ma posso consigliarti una via di uscita: durante la notte recati nelle varie stanze dove essi dormono, porta con te un pugnale cosparso di verbena: questa pianta farà in modo che i tuoi falsi parenti si dissolvano lasciando al loro posto il nulla. L'unico luogo dove puoi trovarla è la palude ai confini dell' isola, ma a questo ci penserò io. Ora tu va', ed illudili di non sapere niente". Tornato alla reggia, l'eroe, chiudendosi nella propria stanza, pianificò l'attacco che lo avrebbe riportato in patria.
Il giorno seguente, svegliato dalla luce abbagliante del sole, trovò ai piedi del letto una boccettina contenente della verbena. Deciso a vendicarsi, intrise il pugnale della sostanza letale per gli eidolon e attese la fatidica notte.Finalmente l’oscurità giunse come un manto nero e Odisseo, più convinto che mai, si recò nelle stanze e compì il gesto mortale, senza pietà: l'unica cosa che voleva era riabbracciare la sua vera famiglia, nella sua vera terra; questa volta Poseidone non glielo avrebbe impedito.Così, in men che non si dica, appena le creature del nemico marino scomparvero, lui raccolse tutto il necessario e si imbarcò, nella speranza di raggiungere la sua città e le persone che amava, le persone per le quali continuava a lottare contro il destino, contro gli dei, contro le avversità, contro il rischio di una morte imminente, in ogni momento. Vivere per loro. Morire per loro. Solo questo contava per Odisseo, l’uomo ricco di astuzie.
Caslini Lucrezia
Orofino Alessandra
Lipani Ilaria
NAUFRAGO DELLA FOLLIA
Lo studio era pervaso da una luce pigra e intorpidita dal gelo invernale che filtrava pallida e stentata dalle enormi finestre del raffinato bovindo. Il giovane era sdraiato languidamente su una chaise-longue porpora, costante immutabile delle sale degli psichiatri; i ricci capelli bruni erano sparpagliati scomposti sul poggiatesta, mentre gli occhi verdi, in quel momento quasi vitrei, fissavano fuori dalla finestra. Ulisse stava cercando di concentrarsi sul rumore del traffico che imperversava per le strade, unica effimera possibilità di distrazione dagli imminenti pensieri che gli affollavano la mente. Tuttavia, gli risultava estremamente difficile ignorare lo psichiatra che sedeva, rigido e serio, a pochi metri da lui. La costituzione dell'uomo era talmente massiccia e ciclopica da impedirgli completamente la vista della porta di ebano alle sue spalle, situazione che non faceva che accrescere il senso di claustrofobia che lo assaliva sempre durante le sedute. Ulisse lo scrutò di sbieco e lo vide lisciarsi la camicia elegante, in ridicolo contrasto con i selvaggi capelli che gli ricadevano sulla fronte, celando l'occhio destro. A distanza di tre sedute, Ulisse non aveva ancora capito perché fosse immancabilmente costretto a frequentare quei settimanali supplizi.« Le dispiace se vado a guardare i suoi libri?»« Le dispiace se prendo appunti?»Ulisse reclinò la testa distrattamente la testa, un gesto indecifrabile, si alzò e si diresse verso la libreria: volumi di psicologia si alternavano a numerosi tomi di botanica. Aveva già notato in passato la passione del dottore per quest'ultima disciplina: lo studio era costellato di piante di ogni genere, curate con notevole meticolosità.Sfiorò con lo sguardo tutti gli scaffali, fino a quando i suoi occhi vennero attrattati da un libro dalla copertina blu e il titolo scritto in caratteri dorati: Ὀδύσσεια. Istintivamente, si alzò in punta di piedi, allungò il braccio e prese fra le mani il libro, accarezzandone il dorso con le dita delicatamente. Con la coda dell'occhio intravide lo psichiatra bloccato, la penna sospesa a mezz'aria, in attesa della sua prossima mossa. Credeva forse che non riuscisse a leggere il titolo? Stando ben attento a non pungersi con una delle affilate spine del cactus accanto alla libreria, Ulisse tornò a sedersi sul lettino porpora, con il suo solito passo rigido e strascicato. « Scelta interessante. Come mai si è sentito particolarmente attratto da questo libro?» Era curioso osservare qualche segno di interesse in un soggetto apatico come Ulisse. « Invece cosa la spinge a farmi questo tipo di domande? O a mettere un libro di epica tra altri di botanica e psicologia? Mi piacerebbe sapere se lei è in grado di leggere il titolo in greco, invece di domandarsi se ci riesco io.» Ulisse si sistemò meglio sul lettino, cercando di assumere una posa scomposta e spontanea. «Provi a interrogare se stesso come interroga me. Non è semplice, vero?» perseverò sporgendosi dalla chaise-longue. Lo psichiatra sospirò pacato, massaggiandosi una tempia con la mano e sorrise in modo accondiscendente al paziente. Non era insolito, da parte dei malati psichiatrici, ed in particolare quelli soggetti al trattamento coatto e forzato, rifiutare diagnosi, patologia e quindi anche ogni cura. Lo stesso dottore aveva saputo fin dall'inizio della terapia che quello di Ulisse non sarebbe stato un caso facile.
Il giovane, in risposta a quei pensieri, gli restituì uno sguardo algido e distratto. « Mi dica, perché pensa di essere qui?» Ulisse indugiò: « Esclusivamente per arbitrio di mio padre: mi crede pazzo, come lei, d'altronde.»Lo sguardo dei due cadde sull'orologio appeso alla parete e si accorsero che la seduta era finita. Il giovane si alzò e sollevò l'Odissea, mostrandola allo psichiatra.« Potrei portare a casa il libro per qualche giorno, dottore? Almeno fino alla prossima seduta?»« Certamente. Ma solo se lei in cambio rifletterà sul perché il libro abbia catturato la sua attenzione così repentinamente.» controbatté inclinando il capo « Do ut des.»Ulisse stava già uscendo dalla stanza, ma, mentre richiudeva la porta dietro di sé, il suo sguardo dardeggiò per l'ultima volta all'interno, in tempo per vedere lo psichiatra accarezzare teneramente un'acerba piantina che teneva, dalla prima seduta, sulla scrivania.Può accadere che le Moire filino due volte lo stesso destino? Ulisse si richiuse alle spalle la porta dell'edificio, adorna di orpellature dipinte con patinata vernice verde. Aveva rimandato la restituzione dell'Odissea allo psichiatra per ben due sedute, discolpandosi con la scusa di non essere ancora riuscito a finirla. Chi crederebbe mai che un pazzo possa leggere da solo un poema greco? Sapeva ciò che dicevano. Inutili millantamenti.Sul suo volto era ancora dipinta quella smorfia di cordiale supponenza che sempre persiste fra chi è costretto a farsi aiutare e chi invece tenta di alleviarlo da una sorte ingrata. Mentre camminava in mezzo alla strada, incurante degli acuti clacson che trafiggevano la superficie della sua bolla di pensieri che, vividi e squillanti, incrinavano la sua mente, un vago e insistente fastidio si stava insinuando in lui.Cercava di ignorare i sempre più insistenti bisbigli alle sue spalle, tentando di convincersi che le madri non stringessero i propri figli sempre più saldamente, allontanandosi o imboccando le stradine più interne, a causa sua. Come poteva immaginare con che aspetto apparisse agli altri? Un essere curvo, disarmonico nei movimenti, che procedeva con gli occhi bassi, strascicandosi apaticamente, come fosse esiliato dal mondo. Il volto appariva solcato dallo sforzo di disciplinare idee e inquietudini che stentavano a sgorgare dalla massa informe delle sue riflessioni. Tutto ciò stava prendendo andatura e dimensioni di una travagliata Odissea della quale i passanti giudicavano solo l'apparenza. Si accorse che stava accelerando il passo, nel tentativo di allontanarsi il più possibile dallo studio psichiatrico, isola maledetta a cui continuava a riapprodare, naufrago, come Odisseo che, avveduto ed insieme avventato, aveva disseppellito la tomba dei compagni da un destino macabro e altrimenti latente. D'altronde, poteva lo psichiatra essere la speculare immagine del raccapricciante Polifemo, grottesco, selvaggio e incivile come quel caricaturale medico, che, invasivo, pretendeva di scavare nel suo inconscio recandogli tanti tormenti quanti quelli dei compagni di Odisseo, deviscerati e divorati dal mostro? Avevano in comune anche una sviscerata passione per creature viventi sicuramente diverse dagli umani, poco differiva fra pecore e piante.
Pensieri e allucinazioni comparivano, si affollavano e poi si eclissavano come le isole stregate dell'astuto eroe, spesso sfuggivano precoci, irraggiungibili per due volte di seguito al pari della fatidica Ogigia. Una voce si levò improvvisamente: i fiati delle inesorabili Erinni persecutrici. « Ha bisogno di aiuto? Si sente bene?» Ulisse voltò la testa e sfregò la guancia contro l'asfalto. Era caduto? Sollevando gli occhi scorse il ragazzo con cui si era scontrato che lo osservava apprensivo, preoccupato dai tempi di risposta innaturalmente prolissi. Aveva l'impressione di essere sopraggiunto in un universo di Lotofagi. Cercavano di convertirlo ad un mondo marcescente, corrotto, in cui tutti torcevano in follia ogni forma di personalità atipica.Ulisse si guardò allo specchio: le pupille visibilmente dilatate parevano divorare tutto il verde dell'iride. Non avrebbe mai creduto che avrebbe accettato la sua malattia, che si sarebbe fatto curare con dei farmaci. Il ritorno dalla follia alla realtà era stato repentino: un fulmineo affioramento alla superficie dopo una vita di apnea. Era emerso da un'inestricabile nebbia di terre maledette e incantante, ma, infine, era tornato alla sua limpida e petrosa Itaca.
Chinaglia Anna
Lietti AnnaNicotra Rita Nadir
“Caelum non animum mutant qui trans mare currunt”
Non mutano il loro animo, ma solo il cielo coloro che attraversano il mare
Quanti mari attraverseremo…quanti cieli diversi vedremo sopra di noi…alla ricerca della nostra “Itaca”…