N ote e discussioni
Interventi su “Stato e industria nella ricostruzione”di L. Cafagna - F. Caffè - G. Quazza - M . Salvati
Pubblichiamo il testo del dibattito tenuto per iniziativa dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza sul volume di Mariuccia Salvati Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano (1944-1949), (Milano, Feltrinelli, Insml, 1982, pp. XX-475, lire 30.000).Il dibattito è stato preceduto da una presentazione del presidente dell’Istituto Enzo Forcella
Luciano CafagnaForse siamo alla vigilia di una seconda “riconquista cristiana”, dopo quella lanciata da Pio XII in vista della fine della seconda guerra mondiale. Chissà se anche stavolta l’Italia finirà con l’essere il paese d’elezione di tale evento, come fu per la prima. In tal caso ci troveremmo in presenza di una continuità ininterrotta, poiché, a differenza che in altri paesi, la dominazione politica cristiana, da noi, non ha subito, finora, cesure. Vi sono altre analogie da formulare? La prima “riconquista” seguiva a un ciclo crisi generale - guerra e si abbinava a una fase di ricostruzione, a un problema di ricostruzione. Anche la “seconda” potrebbe collocarsi, in fondo, dopo un ciclo crisi-guerre parziali-semi guerre civili, in rapporto a una fase, a un intento di “ricostruzione”.
Inscriverei il voluminoso lavoro della Salvati essenzialmente nella letteratura storiografica relativa alla “riconquista cristiana” in Italia, più ancora che a quella sulla politica economica della ricostruzione. Il sottotitolo, in fondo, (“Alle origini del potere democristiano”) è il vero titolo del libro, il vero oggetto di esso, e il
titolo, invece, Stato e industria nella ricostruzione, può considerarsi piuttosto alla stregua di un sottotitolo. Con questo, naturalmente, non voglio affatto dire che la Salvati si intenda più di politologia che di economia, poiché, anzi, si tratta di un caso quasi eccezionale di piena padronanza, da parte di uno storico, dei termini concreti dei problemi economici, anche i più tecnici. Si deve particolarmente apprezzare la cautela con cui sono formulate ipotesi in merito alla motivazione di decisioni e comportamenti e la buona aderenza ai percorsi del possibile che, soprattutto nelle analisi di dettaglio, caratterizza i giudizi, i quali, come si sa, contengono sempre un pizzico di “controfattualità” (il problema, in realtà, è di dosaggio). Cè, insomma, in tutto il libro, una fredda capacità di distinguere la realtà dalle buone intenzioni che mancava spesso nel clima culturale dei tempi in cui questo tipo di ricerche cominciò a fiorire (e cioè gli anni successivi al Sessantotto), quando chi appariva sospetto di lasciarsi irretire in quel che veniva chiamato Inesistente” si attirava facilmente il disprezzo che si riserverebbe a un’aquila senza ali o a un leone senza denti.
Non c’è, dunque, più politologia che economia, in questo libro. Ma vi è forse la traccia, vi sono gli indizi di un percorso di ricerca che ha probabilmente portato l’autrice a definire sempre più i problemi con i quali aveva a che fare in termini politologici.
Al centro del lavoro della Salvati c’è quello che lei chiama il “problema storiografico del 1947”. In che consiste questo problema? La Salvati ci dice che in quel momento di svolta
“Italia contemporanea”, marzo 1983, fase. 150
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che ha interessato già tanti studiosi, “l’evento storico più significativo non è tanto il fatto che il partito democristiano abbia abbandonato la via delle riforme per asservirsi alla Confindu- stria [...] quanto piuttosto il contrario: perché e come il mondo imprenditoriale, deciso a giocare la carta della non collaborazione, abbia dovuto infine accettare il sistema dei partiti quale quadro vincolante di una azione che fino a quel momento aveva rifiutato il compromesso con le forze politiche” (p. 179). Avviene cioè a un certo punto - nel 1947, appunto - come una sconcertante autonegazione della ideologia che la Salvati chiama, seguendo altri studiosi del periodo, il “privatismo”. Cosa è questo “privatismo”? Non è una visione semplicemepte capitalistica o, meglio ancora, non comunista, della prospettiva della economia italiana degli anni futuri, l’ovvia opzione, cioè, di tutti coloro che non erano comunisti. No, si tratta di una sorta di accanito radicalismo antistatalista, di una forte e persistente ostilità e diffidenza alla assunzione di compiti da parte dello Stato in economia, e forse anche qualcosa di più, di una ostilità alla politica e alle decisioni centrali, fino al limite, si potrebbe dire, di un atteggiamento di disobbedienza civile. È un atteggiamento pratico, più che teorico, anche se si allea con la teoria dei dottrinari, si maschera dietro quella. È pratico perché non traccia nette distinzioni e confini, e se una decisione conviene, non ne guarda la natura dottrinale, la prende e la accetta, salvo a non addolcire per niente la polemica di fondo, a non inquadrare affatto la decisione conveniente (si tratti di una parziale liberalizzazione nell’impiego delle valute ricavate dall’esportazione o di un finanziamento agevolato) come l'indizio di una politica che sarebbe possibile sottoscrivere. Per questo ha un senso cercare una definizione come “privatismo”, in luogo di una etichetta dottrinale, come liberalismo o simili.
Dunque, al di là dei grandi e appariscenti dilemmi di principio che si agitano nei discorsi e negli articoli di giornali - tipo pubblico/privato, pianificazione,/laissezfaire, liberalismo/pro
tezionismo - c’è qualcosa d’altro, di più complicato che deve essere compreso e dipanato, guardando direttamente nella selva degli accadimenti. Dove, bisogna dirlo, c’è un po’ il rischio di perdersi, in mezzo alla marea di documenti di esperti, verbali di governo, risoluzioni di partito e articoli di giornale, perché come è stato più volte notato (e lo ricorda di recente un memorialista-storico dei nostri tempi, Henry Kissinger), quando si scrive di epoche remote il problema consiste nel riuscire a trovare una quantità sufficiente di documenti, ma quando si lavora su epoche recenti il problema è, invece, quello di non farsene sommergere.
Devo dire che Mariuccia Salvati, traversando la giungla, riesce a rimanere sempre in arcioni, senza lasciarsi atterrare da liane, trappole o altre insidie, usando un metodo di esposizione a due binari, lungo il primo dei quali corrono i grandi temi della ricostruzione - i problemi finanziari, anzitutto, nelle loro molteplici espressioni, e quelli dei rapporti economici internazionali (aiuti e politica commerciale) - mentre lungo l’altro c’è la tormentata riflessione volta a individuare le posizioni di interesse, le motivazioni dei comportamenti, la logica - in ultima analisi - politica delle situazioni che via via si creano. Questo secondo binario un po’ si intreccia con l’altro, annotando intorno agli eventi, un po’ si slarga in proprie ed esclusive corsie, come nelle introduzioni che precedono le tre parti del lavoro.
I grandi protagonisti della riflessione, in questo libro, sono due: il mondo imprenditoriale e il partito cristiano. Gli altri - che pure non sono poco importanti - restano un po’ nello sfondo: così per i sindacati, così per il partito comunista e per le sinistre in genere. È giusto che sia così? Se si bada alle forze che hanno determinato principalmente il corso successivo degli avvenimenti sembra giusto: il concorso degli altri è stato più condizionante che determinante. Le sinistre, del resto, non possono neanche considerarsi sconfìtte, in quegli anni, perché non volevano, nei fatti vincere: né imporre un regime comunista, perché le condizioni e i vincoli
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internazionali non consentivano o non indicavano questo obiettivo, né affermare una leadership di tipo socialdemocratico perché questa veniva considerata, nella maggioranza della sinistra, una soluzione opportunistica e ripugnante. La presenza delle sinistre, in questo scenario, si esercita soprattutto in quanto essa è presente nella mente dei veri protagonisti. E se ho ben capito il pensiero della Salvati, secondo lei, anche questa presenzafantasmatica sarebbe meno importante di quanto si sia per lo più pensato. Quali alternative reali, dunque, si agitavano nel magmatico scenario degù anni 1945-47 e come si pervenne alla solidificazione di quel magma nella ricomposizione fra mondo della economia e mondo della politica nel 1947, attraverso la legittimazione della Democrazia cristiana?
La Salvati parla di prospettiva liberista, di prospettiva neogiolittiana, e di fallimento di queste. Di cosa si tratta, in sostanza? Si tratta della possibilità, se è corretto esprimersi così, che nella società civile, tradizionalmente intesa come luogo di forze economiche e economico- sociali (posizioni di interesse, cioè, non create dallo Stato e dalla politica) si formasse un equilibrio tale da consentire un normale svolgimento della vita democratica, secondo la scelta di ordinamento politico che veniva imposta dalle nuove condizioni intemazionali. Un equilibrio, cioè, in certo senso autosufficiente, rispetto al quale la parte delle forze politiche potesse risultare accessoria, meramente accessoria e lubrificativa. Importa poco, a questo punto, stabilire quanto liberismo, quanto protezionismo potessero e dovessero entrare in tale assetto: almeno dal mio punto di vista, qui la ditinzione passa fra assunzione di un dato equilibrio di forze economiche e sociali, con quelle eventuali coperture che decisioni o orientamenti politici generali possono dare quasi come una routine che sancisca quegli equilibri, e, invece, un lavoro di invenzione quotidiana, una mediazione continua dalle molte facce, che tutto l’equilibrio del paese faccia passare, pratica- mente senza residui, attraverso l’azione
politica.L’atteggiamento privatistico (nel senso che
ho ricordato prima, di diffidenza radicale verso la presenza politica in economia) era un atteggiamento di stampo sostanzialmente negativo, non implicava “modelli” (per usare un termine che ricorre nel libro come sinonimo di “progetto” “visione” “prospettiva”) di sorta. Era al massimo la premessa di ogni modello del tipo che la Salvati chiama “liberista” o “neogiolit- tiano” o simili ma non li implicava necessariamente. Che cosa rifiutava questo atteggiamento “privatistico”? In realtà, secondo me, rifiutava la mancanza di governo. Qui forse divergo dalla Salvati, o mi esprimo in un modo, comunque, piuttosto diverso da lei. Io credo che il mondo imprenditoriale (e qui già si fa un’astrazione, si assume un “tipo” che non è neanche una media) si sentisse soprattutto orfano del fascismo e considerasse con inquietudine la possibilità stessa di un governo democratico. La paura del comuniSmo era solo una delle forme possibili (magari la più precisa, forse quella che le simboleggiava tutte) di questa inquietudine, di questa sfiducia. Il governo democratico era, in tale ottica: (a) incapacità di controllo del caos, a cominciare da quello monetario; (b) capitolazione di fronte a spinte ideologiche e sociali eversive o squilibranti; (c) minaccia continua di decisioni arbitrarie e “punitive”.
Se si accetta questa chiave - che qui per brevità ho schematizzato - si comprende meglio come si sia potuti arrivare, nel 1947, a una svolta nell’orientamento di quello che possiamo chiamare sommariamente il mondo della economia o il mondo imprenditoriale nei confronti della politica, quale viene ora mallevado- rizzata dalla Democrazia cristiana. Cosa è accaduto, infatti? Primo: è stata adottata una grande scelta, drastica, in campo monetariocreditizio. Più di tutte le sottigliezze degli economisti, nel valutare la portata di scelte del genere (si capisce, in presenza di un certo tipo di opinione pubblica, qui occorre sempre specificare e qualificare) bisogna badare alla capacità
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che scelte di questo tipo possono avere, in date circostanze, ripeto, nel determinare rispetto e crescita di prestigio per un governo. Secondo: è stata fatta una grande scelta di schieramento, la De si è liberata della collaborazione delle sinistre. Nel quadro delle aspettative non è per niente una cosa da poco: come segnale è fortissimo. Terzo: una serie di spauracchi, che erano diventati simboli sia di tutto l’arbitrio possibile che della incapacità di decidere alcunché, tipo il cambio della moneta e la patrimoniale, vengono accantonati definitivamente.
Sarebbe già abbastanza. Ma se si pensa che a tutto questo si accompagna quella sorta di grande cresima dorata che è il Piano Marshall, il consolidamento di una nuova prospettiva appare completo. C è finalmente una nuova leadership, alla quale ci si può affidare, e che può surrogare quella fascista. Si capisce che a questo punto cadono anche una prospettiva liberistico-conflittualistica o una prospettiva giolittiana. Cadono senza però che nessuno, o quasi, versi lacrime. In questo senso, e solo come metafora, accetterei la formula che la Salvati mutua da Basso di un “totalitarismo” democristiano. Coloro che accettano la politica prima rifiutata (che era il rifiuto, sia pure, mascherato o rimosso della democrazia) accettano una nuova e dimostrata capacità e delegano al partito cristiano le modalità di esercizio dell’e- quilibrio sociale, non le contrattano per niente: il mondo delle imprese non dà vita o forza a un suo proprio partito di appoggio, ma autonomo, per esempio a un solido partito liberale. Si rimette alla Democrazia cristiana. E questa eserciterà costruendo un mosaico di interessi politici con gli ingredienti di un dirigismo (quello fascista) in frantumi come insieme ma singolarmente intatti e nel vuoto di equilibri sociali autonomi.
Federico Caffè
Il volume è il risultato, a mio avviso estrema- mente valido, di uno sforzo di documentazione laboriosissimo, di una obiettività esemplare e di una ricca messe di stimoli per ulteriori ap
profondimenti.Lo spoglio sistematico dei fondi dell’Archi
vio di Stato, oltre che della pubblicistica dell’epoca, risulta talmente importante che non può non indurre, per l’ennesima volta, a deplorare l’oscurità in cui si continua a lasciare il paese su aspetti importanti delle sue vicende storiche. E ciò avviene sia con la mancata apertura degli archivi (come nel caso deU’Iri), sia nel caso che gli archivi siano resi accessibili solo a studiosi privilegiati, anziché alla generalità dei seri studiosi, come dovrebbe essere.
Quando ho parlato di obiettività, ho inteso riferirmi alla capacità dell’autrice di evitare di giudicare gli uomini sulla base dei cliché cristallizzati che se ne siano fatti. Ricorderete con quanta efficacia, sul piano letterario, Pirandello abbia indicato questa tendenza a fissare un personaggio soltanto per aspetti criticabili del suo operato. Ebbene, l’autrice sfugge a questo comportamento.
Non solo personaggi di maggior rilievo, come Gronchi, ma anche figure relativamente minori come (Zampilli o Mentasti, ci dimostrano 1’esistenza di esponenti della Democrazia cristiana, non in dissenso con De Gasperi, come la sinistra dossettiana, ma che si distinguono per franchezza di posizioni e di linguaggio, con una visione chiara e aggiornata delle esigenze del paese.
Di qui l’incentivo a ulteriori ricerche: in un’epoca in cui si perde tempo a scrivere la biografia di Starace, mi pare che varrebbe la pena di riconsiderare in modo specifico non i personaggi, ma anche le istituzioni dell’epoca in esame. L’autrice ci ha mostrato come sia utile (anche se talvolta imbarazzante, come nel caso della pubblicazione di documenti di personaggi ancora viventi) esaminare il materiale originario del Cir. Mi sembra, in ogni caso, che sia materia per ulteriore studio.
Detto questo, per poter proseguire, mi trovo costretto a riferirmi ad un ammonimento espresso da Alberto Caracciolo in uno dei suoi lucidi articoli, quello cioè di non essere auto- biografici, ossia, sembra di capire, presuntuosi.
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Sperando di non incorrere in un simile addebito, vorrei fornire alcune testimonianze, precisare alcuni punti e avanzare alcune riflessioni personali, suscitate dal ripensamento, sulla scorta del libro, di vicende a suo tempo vissute e sofferte.
Il volume dà ampio rilievo, dato il periodo esaminato, alla fase dei primi aiuti, in cui ebbe una notevole funzione la delegazione tecnica di Washington. Questa delegazione fu diretta dal- l’ingegner Cesare Sacerdoti, che aveva una reputazione internazionale come ingegnere navale e che era stato colpito a suo tempo dai provvedimenti razziali. La serenità del suo ritorno, come di quello di tanti professori universitari, la saggezza con cui affrontò tutte le vicissitudini legate alla direzione di quella delegazione, sono parte dei miei ricordi, della mia esperienza vissuta. Sono ricordi che rafforzano e dovrebbero far comprendere il mio completo dissenso rispetto a coloro che non vogliono tener conto di quanto sia pericoloso, in qualsiasi forma - in associazioni, sulla stampa, nei dibattiti - dare alimento ad atteggiamenti antisemiti.
Un’altra testimonianza riguarda la burocrazia. Nel testo, sono ricordate figure eccezionali, come l’ingegner Vicentini, che ha ricostruito la nostra rete elettrica, l’ingegner Greco, che ha ricostruito la nostra rete portuale, come in genere il corpo degli ingegneri che hanno ricostruito la rete ferroviaria. Sono personaggi che ho avuto modo di conoscere da vicino, attraverso chi dalla burocrazia derivava, come Meuccio Ruini, che forse nel libro non riceve il rilievo che meritava, per il ruolo che egli effettivamente svolse nella ricostruzione. Ricordare ciò, mi fa pensare che criticare la burocrazia è un modo indiretto di non criticare chi dovrebbe guidare la burocrazia. La responsabilità è sempre dei ministri, non dei burocrati, e va sottolineata la validità della burocrazia di allora e - ritengo - anche di oggi.
Vorrei sottolineare inoltre due punti. Uno è una qualificazione, l’altro una semplice curiosità. Nell’esaminare l’atteggiamento degli Usa nel
periodo della ricostruzione, il volume si appoggia sulle opere e gli scritti dei Kolko. Ora, a me sembrano troppo pervasi di ideologia. Finisce così per diventare soverchiante il peso delle beghe, delle piccinerie, della pressione degli interessi costituiti. E finisce per perdersi di vista che, nel delineare le istituzioni della cooperazione intemazionale postbellica, ci furono anche dei grandi ideali. Come non tener conto che qualcosa di idealmente più elevato si era sostituito alla grettezza delle riparazioni imposte alla fine della prima guerra mondiale? Vedere tutto in funzione degli interessi materiali, dimenticare che le idee contano di per sé e non come sovrastrutture di interessi costituiti, è una visione del mondo, di chiara impronta keyne- siana, da cui non riesco a distaccarmi.
Il secondo punto è piuttosto una curiosità, giustificata dalla minuzia veramente esemplare della ricerca, e riguarda la mancata menzione di Henry Tasca, che al contrario ebbe una funzione notevole. Occupava una stanza del direttorio della Banca d’Italia, sopraintendeva a tutto ciò che riguardava le relazioni finanziarie nel nostro paese. Data la compiutezza dello spoglio della Salvati, il fatto che egli non figuri affatto, mi induce a pensare che molte carte non siano disponibili in Italia e che per molti aspetti, occorra ricorrere agli archivi americani.
Quanto alle considerazioni personali tratte dalla lettura, ci sono alcuni punti che mi portano a vedere le cose in modo alquanto diverso. L’autrice parla di apparente vittoria del liberismo, che la Democrazia cristiana utilizza, ma soltanto per affermare la propria egemonia e per aprirsi il cammino verso quella che poi si è finito per designare come l’appropriazione dello Stato. Vi è anche, da parte dell’autrice, un nobile tentativo di rivalutazione del “nuovo corso” di Morandi, che di fatto ebbe solo un valore ideale, non una incidenza pratica. A me sembra che la vittoria del liberismo non fu apparente, ma sostanziale, nel senso che molti centri di potere economico, specie in campo bancario, sono sempre rimasti in mano di esponenti legati a concezioni di un liberalismo
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tradizionale ed antiquato. La De era ovviamente moderata e interclassista, ma ebbe anche una più chiara consapevolezza delle esigenze delFintervento pubblico nell’economia e seppe farsi interprete di esigenze sociali che erano effettive e che solo con una certa superficialità si etichettano come clientelismo ed assistenzialismo. Le degenerazioni vi furono, ma vi fu anche consapevolezza dei problemi reali.
NeH’egemonia c’è, dunque, anche il riflesso di una carenza di iniziative e di progettualità da parte delle sinistre, che si desume dal libro, ma trova conferma soprattutto nei fatti. Sia prima del 1947, sia nel periodo successivo considerato dal volume, i vincoli politici non precludevano la possibilità di portare avanti un discorso sulle riforme. In realtà, il vero moderatismo lo troviamo, a mio avviso, proprio nel comportamento delle sinistre. La preoccupazione di legittimarsi come forza politica non eversiva ha portato, a suo tempo, alla moderazione salariale che ha consentito di corrispondere all’imperativo di “ricostruire innanzi tutto”, ma senza poter influire in alcun modo sulle modalità della ricostruzione e senza attenuare in nessun modo le carenze strutturali del paese.
In sostanza, non mi pare che 1’affermarsi della egemonia della De debba farci dimenticare le responsabilità delle altre forze politiche che, con azioni ed omissioni, in fondo ne agevolarono il disegno. Non ci sono forze politiche prive di responsabilità se, dalla grande bonaccia delle Antille, siamo giunti agli odierni giorni tempestosi che, nel rimettere in discussione le istituzioni, nate negli anni così sagacemente esplorati dalla nostra autrice, non riescono a nascondere aspirazioni sostanzialmente di stampo autoritario da non sottovalutare, ma da considerare con vigile preoccupazione.
Guido Quazza
A differenza di chi mi ha ora preceduto, la discussione di questo libro ha per me il significato della prosecuzione di un lavoro condotto nel quadro d’una ricerca comune, la ricerca che l’Istituto nazionale per la storia del movimento
di liberazione in Italia porta avanti da molti anni con un lavoro collettivo sul tema del peso che la resistenza ha avuto nella continuità o nella rottura tra l’Italia del fascismo e l’Italia della repubblica e, in particolare, sui modi di ricostituzione del blocco dominante dopo la crisi 1943-45. Non altro che questo può essere, dunque, il senso del mio intervento: vedere in quale modo questo volume si colleghi al grande dibattito sul secondo dopoguerra che ha attraversato gli anni sessanta e settanta, in quale misura confermi cose che noi conosciamo e in quali punti invece innovi, aggiunga contributi.
La stessa Mariuccia Salvati non elude la questione del rapporto fra continuità e rottura (o rotture), rileva ripetutamente come il problema del secondo dopoguerra non possa essere affrontato se non risalendo all’indietro, fino al processo di formazione dell’Italia unita, sot- tolinea> infine come sia importante studiare il rapporto fra i movimenti sociali e le istituzioni. Questi nodi problematici vengono in piena luce fin dall’inizio e percorrono l’intero lavoro, ma - è un primo elemento interessante - sono accompagnati dall’affermazione molto netta sulla necessità di recuperare la “piccola storia politica”, le particolari scelte d’ogni giorno: esse - dice l’autrice - sono essenziali perché “imbrigliano” le grandi scelte. È un modo per riproporre la storia événementielle? Sì e no, credo. Sì, nel senso dell’influenza del sistema politicoistituzionale sul processo economico e sul conflitto di classe. No, nella misura in cui quest’osservazione, offrendo speranze alla capacità del singolo di influire anche di poco, di pochissimo, sugli avvenimenti storici, restituisce la dimensione umana della vicenda storica, e dunque ripropone la storia come storia della libertà e non del fato. Fa piacere aggiungere che c’è un’eco autobiografica in questa asserzione dell’autrice e d’una autobiografia che è quella della parte più matura della generazione che ha vissuto in maniera particolare l’ultimo quindicennio, a partire dal Sessantotto. Di là dall’aspetto autobiografico, che indubbiamente dovrebbe essere utilizzato per una storia dello sviluppo
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della coscienza storiografica del nostro paese, resta tuttavia il fatto che come in generale, così nella vicenda studiata, la libertà dell’uomo subisce condizionamenti molto stretti. Tutto il libro, nel suo svolgersi, dimostra come le scelte quotidiane abbiano spazi molto ristretti; di più, forse nessuna analisi ha documentato in maniera più seria come nel processo storico di quegli anni gli automatismi siano stati estremamente importanti, e indubbiamente è difficile che non vi siano automatismi quando il quadro delle forze in gioco è un quadro non solo nazionale ma internazionale, e un quadro che ha dietro di sé secoli di storia. Che le variabili siano molte non toglie che esse sono necessitate dal particolare tipo del loro rapporto reciproco a muoversi in una certa direzione. È fin troppo chiaro che quest’osservazione ci riporta questioni che chi fa il mestiere dello storico sente come questioni proprie, come questioni del proprio modulo di conoscenza e della propria coscienza: in primis, a un ritornello che è stato tante volte usato contro chi tentava di uscire da una storiografia ridotta strumento politico contingente da coloro che, in riferimento al dibattito storiografico sul secondo dopoguerra, ripetevano, con molta faccia tosta, se permettete, che quel dibattito era un dibattito ideologico nel momento stesso in cui facevano storia sacra o storiografia di partito.
Il volume di Mariuccia Salvati dimostra che anche per il nostro dopoguerra, così come per avvenimenti della portata della Rivoluzione francese o del Quarantotto risorgimentale, già i primi storici, in genere i più politicizzati, propongono le interpretazioni essenziali. In seguito esse si depurano di elementi contingenti e ritornano arricchite da una documentazione molto maggiore e da una più attenta arti- colazione.
Se dal terreno delle osservazioni storiografi- che generali, ci spostiamo ai problemi, pur sempre generali, della “transizione” fra Resistenza e ricostruzione, il volume offre materia ad altre considerazioni interessanti.
Mariuccia Salvati afferma con molta nettez
za che le novità istituzionali del 1945 sono essenzialmente due: la ripresa delle dialettica sindacale e la riapertura dell’Italia al commercio internazionale. Io credo che andrebbe aggiunto un elemento che nel libro della Salvati ricorre molto spesso, ma ricorre come se viaggiasse in maniera separata dai primi due: il ritorno a un sistema pluri-partitico, o - più esattamente - al sistema dei partiti. Se così è, ecco che la questione della continuità o rottura ritorna in termini meno generici. La prima constatazione in proposito, molto malinconica, è che l’attacco a posizioni sostenute in passato da alcuni di noi è caduto, ed ora si ammette quello che nel 1976-79, il triennio della cosiddetta solidarietà o unità nazionale, era considerato come non solo errato, ma anche sacrilego, verso i partiti e soprattutto i partiti di sinistra. Le grandi novità sociali degli anni cinquanta e sessanta trovano dati di partenza nel coinvolgimento di tutte le forze sociali negli anni della Resistenza, ma sono un fatto successivo al periodo trattato dalla Salvati. L’analisi amplissima e puntuale condotta nel libro conferma la innegabilità della continuità dello Stato, che un saggio fondamentale di Claudio Pavone di recente conferma.
La continuità dello Stato non è affrontata, ovviamente, da Mariuccia Salvati per quel che riguarda le istituzioni militari o la magistratura o gli organi dell’ordine pubblico, temi fonda- mentali ma laterali rispetto a un’indagine che è sostanzialmente di storia economica. È vista invece sotto il profilo dell’apparato economico con un tipo di documentazione il quale è emanazione diretta della burocrazia ministeriale (documenti della Presidenza del Consiglio e dei ministeri economici). Tanto più colpisce che anche nei settori dove il controllo del blocco di potere è reso meno facile dalla varietà e imprevedibilità del mercato e dove l’identificazione degli organi di comando con il sistema fascista è più stretto, tanto più - dicevo - colpisce come la continuità sia così forte da battere persino le istanze liberistiche e come sia continuità di persone e di idee capace per la sua permanenza (lo
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osservava già Chabod molti anni fa), di imporsi largamente alle decisioni dei politici. Al merito di aver fornito molti elementi su questo aspetto della continuità (s’intende, come linea tendenziale relativa non assoluta) questo libro aggiunge l’opportunità di suggerire, per parte nostra, indicazioni per ricerche future. Una di queste è certo lo studio del ceto burocratico italiano prima del 1945 e dopo il 1945. È uno studio che va condotto attraverso tutta una serie di biografie e di documentazioni capaci di illuminarci meglio sulle persone, sugli individui in quanto tali, sul loro modo di rapportarsi alla realtà, sulla loro preparazione culturale, sulle loro concezioni fondamentali (della famiglia, del lavoro, della società). È del resto quello che alcuni di noi hanno tentato di fare in anni passati per il Seicento e Settecento e che l’Istituto per la storia del movimento di liberazione ha in cantiere, anzi in stato di avanzamento molto promettente, con uno schedario biobibliografico sul personale dirigente di ogni settore della vita politica economica e sociale italiana tra guerra e dopo guerra e con un seminario italo-francese che si terrà a Roma nell’aprile 1983.
Dal libro risulta poi, accanto alla continuità della burocrazia, la continuità poco meno ferrea della “classe economica”, per usare un termine che compare nel libro e che forse non è del tutto corretto. Nello schedario ora citato la precedenza è stata data alla dirigenza economica, e ne viene una dimostrazione esauriente pur con variazioni e articolazioni parziali.
Aggiungerei per mio conto ancora almeno un’osservazione. Mariuccia Salvati sembra dare per scontato che la “classe politica” sia completamente nuova, ma anche su questo avrei dei dubbi. Intanto, sappiamo che nell’Italia meridionale già nella seconda metà del 1944 i Cln erano ormai formati in larga parte da elementi provenienti dalla classe politica del ventennio fascista (si veda ora il fondamentale volume diG. De Luna sul Pda). È perciò necessario valutare il peso quantitativo e qualitativo di costoro nel quadro generale della classe politica italiana. Inoltre, c’è il problema della classe dirigente
amministrativa locale: è difficile negare che il peso del vecchio personale fu in quegli anni fortissimo. Ricerche sono, è vero, necessarie, ma quanto sappiamo è già sufficiente a non dimenticare quanto questo abbia contato in particolare per i problemi dell’economia. Dal libro emerge il primo avviarsi dei meccanismi che poi porteranno a uno scambio inestricabile di personaggi chiave fra enti locali e capi dell’industria pubblica, e non solo di quella. Quando essi non sono gli stessi del passato - ed è raro - hanno però un tipo di cultura amministrativa che è identica a quella del passato, sebbene spesso siano nomi famosi della Resistenza. Anche qui - lo dico per inciso - noi troviamo quella ambiguità del processo storico italiano che, per lo sforzo di alcuni di noi, è stata sottolineata sia nel grande dibattito sul fascismo sia nelle ricerche specifiche condotte sulla storia della resistenza.
La presenza di questi tre tipi di continuità (burocratica, economica e, sia pure in misura molto minore, della classe politica) basta a fare definitivamente giustizia di tesi come quella della “rivoluzione antifascista”, sostenuta in anni passati da Giorgio Amendola. Noi dobbiamo usare il termine di “rivoluzione” con grande prudenza.
Utilizzare il termine di “rivoluzione antifascista” quando sull’Italia del 1945 e degli anni seguenti pesa un tasso di continuità così forte è, oltre che audace sul piano scientifico, anche falsificante sul piano della formazione della coscienza politica degli italiani.
Alla delineazione più sfumata e sottile d’un grande tema, come quello al quale ho fatto cenno, Mariuccia Salvati offre poi molti elementi di vario ordine e peso, sui quali purtroppo il tempo non mi consente di soffermarmi.
Mi limiterò a citare a esempio, la contrapposizione fra associazionismo, inteso come associazionismo delle forze economiche soprattutto degli industriali e partiti di massa. La contrapposizione reale non è tanto nelle scelte di politica economica quanto nel rapporto fra il “pubblico” e il “privato”, considerando i partiti di
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massa come il “pubblico”, accanto allo Stato, e il “privato” come l’associazionismo industriale. Io accetto come giuste le considerazioni della Salvati su questo, e le segnalo al lettore, con una sola precisazione. Se è vero che nel 1945 nasce il sistema dei partiti, è anche vero che non possiamo farci delle illusioni sulla natura realmente di massa dei partiti di allora. Anche oggi, dopo tanti anni, c’è da avere dei dubbi su questo punto, ma certamente allora si trattava di partiti di massa in fieri, a meno che non consideriamo “partiti di massa” semplicemente quelli che riescono a raccogliere un numero di voti molto alto. Mi pare che il termine “partiti di massa” per avere un senso politico (anche il fascista era un partito di massa!), deve essere preso in senso qualitativo. Sono veri partiti di massa quelli nei quali la circolazione delle discussioni e l’assunzione delle decisioni finali coinvolge tutta la “massa” degli iscritti, e non solo dall’alto verso il basso ma anche dal basso verso l’alto. Ora, se è vero, come è vero che i partiti di allora non erano - in questo senso più preciso - partiti di massa, essendo dominati da determinate oligarchie (così come, per alcuni versi, anche i sindacati), il rapporto fra partiti e associazioni va un pochino rivisto. I partiti erano un po’ meno il “pubblico”. Quanto alle associazioni degli industriali, alle associazioni delle grandi forze economiche, esse pure avevano una struttura verticale, dall’alto al basso, e forse perciò erano un po’ più il “privato”, e sia pure-un privato sui generis. Vero, ed è un risultato importante del libro, che si andò imponendo un nuovo “modello” di intrecci tra pubblico e privato, ma altrettanto che i partiti e le associazioni trovano perciò dalle rispettive strutture verticali una maggiore facilità di rapporto e di eventuale accordo o, almeno, di manovrabilità del rapporto e di eventuale accordo.
Questa non è un’osservazione secondaria, a mio avviso, perché ci immette in una realtà che forzatamente in questo libro non poteva essere affrontata (ed è del resto una realtà che Mariuccia Salvati conosce molto bene e su cui si è
soffermata in altri suoi lavori). Una realtà sulla quale se le decisioni sono prese ancora una volta soprattutto dai vertici, pesano forze che non sono racchiudibili tutte nei partiti o nelle associazioni. Su di essa, e al di là o attraverso partiti e associazioni intervengono giornalmente milioni di uomini, con una lotta che va dai campi alle fabbriche e alle scuole e coinvolge addirittura categorie come i funzionari statali (personalmente ho ancora vivo il ricordo del primo sciopero degli statali, che sembrò davvero una rottura violenta con il passato). Per questa via, insomma, dobbiamo uscire dal campo della sola “organizzazione”, e, pur controllando sempre il grado della “spontaneità”, dobbiamo guardare al “sociale”.
Se è meno vero di quanto da taluni è stato detto, che questo incide direttamente e subito sulle decisioni, però non va trascurato: ne abbiamo - se posso aggiungerlo di sfuggita - una controprova nel presente, che è una fase di restaurazione nella quale la scarsa forza e incidenza dei movimenti di massa apre il campo a decisioni che nessuno più controlla e a un distacco fra le istituzioni e il paese reale quale non si era mai visto in passato.
Consentitemi ancora di passare ad altre considerazioni relative a una questione che forse non era mai stata affrontata con tanta chiarezza come in questo libro, e cioè il rapporto reale fra le forze economiche (soprattutto gli industriali del Nord, che sono il gruppo più influente) e la Democrazia cristiana.
La polemica sul produttivismo, ad esempio, è affrontata con molta attenzione e intelligenza, per il fatto che essa, più ancora delle innovazioni tecnologiche, si trova nel 1944-49, al centro delle pressioni e delle scelte che gli industriali fanno.
La Democrazia cristiana recepisce solo in parte il produttivismo: qui si apre, credo, il capitolo che dal punto di vista dello storico generale è il più interessante, perché fa capire come mai il partito della Democrazia cristiana riesca a radicarsi e a diventare un partito che sembra ormai immortale nella storia del nostro
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paese. Il produttivismo, cioè, non è che uno dei tanti elementi che entrano nel gioco della mediazione pragmatica che la Democrazia cristiana persegue - quella tesa al mantenimento, in certi casi al ricupero della vecchia gerarchia sociale (si pensi a Sceiba antioperaio, a Togni industrialista, ai “mediatori” del Sud, per esempio) - e dal libro della Salvati risulta compiutamente come questa mediazione politica nasca da una considerazione della società italiana assai più ampia e lungimirante di quella degli industriali. Il libro fa solo cenni sulle ragioni di ciò. Mi sembra doveroso, in questa sede, invitare, come in tante altre occasioni, a riflettere quanto dietro le scelte della Democrazia cristiana (che in verità nel giro di pochi anni convergeranno poi con quelle degli industriali in una sorta di neogiolittismo) stia la realtà della campagna, in una Italia che è ancora agricolo-industriale, che nel 1945 ha il 49 per cento della forza-lavoro formata da contadini e che vive di una “cultura” su cui pesa soprattutto la cultura della Chiesa. Si tratta di questioni generali, ma di questioni che incidono sul tema centrale del libro. Un grande assente di questa ricerca è la Chiesa. Non lo dico come osservazione critica - la cosa si spiega con ovvie ragioni di scelta tematica - ma proprio da questa assenza noi dobbiamo partire per cercare di capire che cosa stava dietro gli atteggiamenti della Chiesa (peraltro anch’essa divisa, almeno in parte, sotto il trono di Pio XII) e come essi abbiano influito sulle scelte della Democrazia cristiana.
È forse vero che talora, in passato, alcuni hanno esagerato l’importanza dell’appoggio della Chiesa rispetto ai risultati conseguiti dalla Democrazia cristiana, ma non dobbiamo neppure esagerare in senso contrario. Non dobbiamo, in altri termini, accentuare troppo l’importanza della confluenza della Democrazia cristiana con le forze più importanti e potenti dell’industria, e dimenticare il ruolo di un certo tipo di cultura della Chiesa. Se, come si è detto, il recupero della continuità con la vecchia gerarchia sociale e con la vecchia cultura italiana è
al centro dell’ideologia dell’anti-comunismo che la Democrazia cristiana persegue, tutto questo non si può spiegare senza riferirsi alla presenza della Chiesa. Né, del resto, si può applicare agli uomini politici cattolici un metro che prescinda dalla fede cattolica o - più esattamente - dal rapporto con la Chiesa, dall’obbedienza alla Chiesa. In questo senso credo che molte delle scelte fatte in quegli anni postliberazione derivino da una concrescenza politica della Democrazia cristiana con la Chiesa. Con un interscambio delle reciproche esperienze Democrazia cristiana e Chiesa vengono convincendosi che occorre adottare un certo tipo di mediazione politica, e da questo punto di vista la svolta del 1947, l’avvicinamento degli industriali alla Democrazia cristiana e l’abbandono della cosiddetta “politica dell’attesa” non offrono più alcun motivo di stupore: nel momento in cui c’è la garanzia americana, nel momento in cui c’è la cacciata delle sinistre dal governo, il riavvicinamento si offre, anzi si impone quasi di per sé, e si impone soprattutto perché gli industriali hanno la prova provata che la Democrazia cristiana difende un campo che è il campo in cui essi si muovono meglio e vogliono muoversi.
Tutto questo verrà riconfermato dopo, negli anni cinquanta, quando c’è la piena sconfitta del movimento operaio. A questo punto il problema delle campagne ritorna, e ritorna fortissimo. Abbiamo fatto anche noi, nell’Istituto nazionale, degli studi già in questo senso (penso alla ricerca di Guido Crainz o ad altre ricerce in corso); noi dobbiamo assolutamente cercare di cogliere meglio questo problema, cioè il modo in cui si pone il dilemma fra scelte industriali e scelte dell’agricoltura. Su questo piano possiamo dimenticare che parecchi anni dopo, col boom economico e con gli anni successivi ad esso, noi abbiamo certo una indubbia vittoria deH’industrialismo coniugato con il consumismo, ma abbiamo però anche una “contadiniz- zazione” delle città? Non dobbiamo dimenticarlo se vogliamo capire l’Italia degli anni sessanta e settanta, l’Italia degli scioperi di Torino
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del 1962, e in generale il nuovo tipo di lotta operaia che si afferma dentro e fuori dalle fabbriche. Non dobbiamo cioè dimenticare che c’è un grande processo che attraversa le città, c’è un tipo di cultura contadina che invade la città italiana: questa non è quindi la vera vittoriosa nella lotta fra città e campagna, o perlomeno non è quella che vince indiscriminatamente.
Sul problema della mediazione politica direi che Mariuccia Salvati ha dato un esempio interessante, e forse definitivo, del meccanismo che la caratterizza, e semmai io non sono completamente d’accordo sull’uso di termini come “attività” e “passività”. Non è tanto questione di “attività” e “passività”, mi sembra: si può essere attivissimi, ad esempio nel compiere una mediazione, ma al tempo stesso passivi perché la mediazione è intesa e svolta come adeguazione plastica, come “adesività” alla realtà esterna. La differenza è fra mediazione e mediazione. Sappiamo che la mediazione è al centro dell’a- gire politico, ma la mediazione vera, quella che conta al fine dell’avanzamento, è quella che ha un suo progetto, una sua linea direttiva: è la mediazione di Camillo Cavour, non quella di Agostino Depretis. Con la Democrazia cristiana noi abbiamo invece una mediazione alla Depretis, naturalmente molto più raffinata, anche perché da parte di chi è più forte ed è più consapevole della sua reale forza.
Da questo punto di vista il problema della mediazione si collega a quello del rapporto fra Stato e società civile in Italia. A me sembra - ed è una domanda che farei alla Salvati - che nel libro ci sia un po’ un’oscillazione: in alcune parti si parla di integrazione fra società civile e politica, in altre si parla addirittura di occupazione dello Stato come prius da parte della Democrazia cristiana. A me non pare che la conquista della società civile da parte della Democrazia cristiana sia avvenuta dopo l’occupazione dello Stato: la Democrazia cristiana aveva già un retroterra fortissimo nella società civile, e proprio per questo essa riesce vittoriosa.
Si tratta a mio avviso di definire meglio
questo rapporto: in qualche punto si dice che in sostanza quella che comanda alla politica è la società, in altri punti - inversamente - si dice che è la politica a comandare alla società.
Qui ci si può collegare a un altro grosso problema, che ci ha angustiato negli anni scorsi e che non è scomparso dal dibattito italiano: il problema cioè deÜ’“autonomia del politico”. Io credo che occorrerebbe prendere il toro per le corna e mettersi d’accordo su ciò che si intende quando si usa questo termine. Se per “autonomia del politico” s’intende la mediazione alla Cavour, còme dicevo prima, allora usiamo pure questo termine, sebbene e comunque entro limiti estremamente ristretti. Se invece per “autonomia del politico” si intende l’azione della Democrazia cristiana, cioè la mediazione come accettazione di un certo tipo di rapporti di forze, allora che “autonomia del politico” è mai quella? Attraverso una concezione di questo tipo possono passare teorie le quali anche nell’agire pratico quotidiano ci danno presto o tardi grandi delusioni.
Qui si dovrebbe aprire il discorso sul ruolo e le responsabilità della sinistra, ed è stato osservato da chi è intervenuto prima di me che effettivamente nel libro questo ruolo non è preso sufficientemente in esame (è più presente invece la considerazione del sindacato, nell’ultima parte del volume). Io direi che su questo tema diventa davvero centrale il discorso sulla “legittimazione” svolto anni fa su Giovane Critica da Luciano Cafagna, discorso che alcuni di noi hanno poi ripreso: diventa centrale cioè il modo con il quale il Partito comunista si propone di reimmettersi in un paese in cui il comuniSmo era il male, l’Anticristo. Questa è veramente la chiave per capire certi atteggiamenti, per capire l’incapacità della sinistra (quando era al governo e dopo, come forza di opposizione) di promuovere una mediazione che non fosse mediazione passiva. A questo punto ritornano, ad esempio, le osservazioni acute che Mariuccia Salvati fa sull’idea dello Stato di marca terzintemazionalista o, meglio stalinista, che aveva Togliatti. Io mi soffermerei in parti
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colare sull’idea della neutralità dell’apparato dello stato: idea che in qualche modo, e forse paradossalmente è di tipo stalinista. Un’idea che fa un curioso effetto in questi anni, un’idea però dalla quale la sinistra, nella grande crisi che attraversa, dovrebbe ricominciare la propria riflessione.
Molte altre osservazioni ci sono in realtà suggerite dal libro che stiamo esaminando. Fra esse, ancora, quelle che riguardano la sollecitazione di un intervento americano da parte della Democrazia cristiana e di altri uomini politici italiani, socialdemocratici in primo luogo. Mariuccia Salvati riprende spunti di Collotti, di Ellwood e di altri e fa valutazioni tutte da sottoscrivere perché ci offrono, meglio che in ricerche passate, l’immagine della pressione del- l’imperialismo americano, da una parte, ma dall’altra di una convergente sollecitazione e richiesta di garanzia proveniente dall’Italia. Molto indovinatemi sembrano poi le pagine su Gronchi, Dossetti, Fanfani: mi limito a dire che qui la strada dell’integralismo e di quello che la Salvati chiama suggestione di Maier-cor- poratismo, converge con l’interclassismo e riporta ancora una volta al discorso della Chiesa, cioè a un campo che, come ho detto, dovrebbe essere larghissimamente approfondito da altri studi.
Concluderei dicendo che a mio avviso questo libro ha un’importanza grande nella rielaborazione storiografica italiana non solo perché nasce da una conoscenza della bibliografia intemazionale non frequente fra i nostri studiosi, ma anche perché è l’indice del passaggio a una fase della storiografia dell’Italia contemporanea nella quale si comincia a cercare di rendere più concreti e precisi i riferimenti alla storia quotidiana, e quindi a collocare l'événementiel in rapporto alle valutazioni generali. Questa fase ne apre anche una terza, quella che auspicavo poc’anzi quando avvertivo che si sta passando dai documenti sulla politica economica dei grandi potentati industriali e finanziari o sulla politica economica dei governi ad una indagine più microstorica nella quale balzano
in luce nelle loro caratteristiche le dramatis personae medie e minori e le vicende di singole aziende di varia grandezza e natura. Quando questa terza fase sarà avviata, si potrà fare quel salto dalla storia politico-economica generale alla storia sociale e globale che è stata la speranza di alcuni di noi quando affrontavamo epoche più antiche della vicenda nazionale e intemazionale.
Mariuccia Salvati
Vorrei iniziare questa replica prendendo spunto dall’accenno di Guido Quazza all’“autobio- grafismo generazionale”: un atteggiamento che spiega nell’impostazione del libro la difesa di una storia “quotidiana” fatta di piccole scelte di contro a un quadro consolidato di condizionamenti fortissimi. D’accordo nel richiamo, me ne servo nel tentativo di delineare e ripercorrere in questa sede un tracciato che nel libro è più praticato che teorizzato.
Effettivamente la ricerca è nata, aH’interno di un programma più vasto e completo dell’Istituto, da una volontà di verifica di un asse interpretativo molto sentito ancora a metà degli anni settanta circa una contrapposizione ritenuta insanabile (per gli anni quaranta e non solo) tra società e istituzioni politiche, tra movimenti di massa e verticismo decisionale. Secondo questa ipotesi i condizionamenti di un quadro economico e intemazionale eccessivamente rigido erano compensati dal molo storico delle aggregazioni sociali e dalla loro autonomia dentro e fuori gli schemi di rappresentanza sanciti dal regime repubblicano. E rimasto qualcosa dell’impostazione iniziale nel libro di cui si discute? Apparentemente ben poco: in primo luogo perché in questa ricerca i protagonisti principali sono due (lo Stato e gli industriali), ciò che comporta per questo stesso fatto una ricostruzione forzatamente riduttiva del terzo protagonista evocato nel sottotitolo, il “potere democristiano” (il quale, come ha appena ricordato Quazza, trovava i suoi appigli, nel suo espandersi nella società civile, in primo luogo nel sostegno della Chiesa). Mancano
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cioè o almeno vi compaiono solo indirettamente i movimenti di massa e i loro rappresentanti in quanto portatori di un disegno alternativo: mancano, tuttavia, come ha rilevato Luciano Cafagna, non solo per volontà deH’autrice, ma perché quel disegno alla luce dei fatti prescelti (in questo caso la prassi di governo) non figurava nell’area vincente dello “scambio politico” così come si veniva precisando nel corso della ricostruzione.
In secondo luogo, rispetto alle aspettative iniziali, i risultati dello scambio non appaiono così predeterminati da una “oggettiva” convergenza di interessi tra burocrazia statale e partiti conservatori, tra mondo economico nazionale e contesto internazionale. Anzi, col proseguire della ricerca è emersa la necessità di verificare la rigidità dei condizionamenti non solo in rapporto ai movimenti di massa ma all’interno stesso dell’area vincente: in termini di tempi, motivazioni, modalità che caratterizzano le risposte diverse dei gruppi di pressione di fronte a un’innovazione reale che è percepita come politica ancor prima che economica (e qui mi riconosco appieno nell’osservazione di Cafagna circa un fulcro sostanzialmente politologico di questo libro).
Lo stesso protagonista delle spiegazioni rigide causali - gli Stati Uniti - appariva mosso, nei suoi rapporti con l’Europa e l’Italia in particolare, da evidenti spinte contraddittorie una volta che si scomponeva il progetto espansivo americano nei suoi protagonisti concreti (le forze armate, i tecnici dell’Unrra, gli economisti dell’Erp) tutti dotati di un potere “persuasivo” specifico ma anche di spiegazioni ideologiche altrettanto cogenti e spesso differenziate anche se racchiuse nel comune piano espansivo.
Il problema non si poneva del resto diversa- mente per la rigidità del quadro economico, frutto apparentemente dello spontaneo adeguarsi alla razionalità vincente del sistema da parte dei ceti interessati alla sua conservazione. La garanzia di un solido adeguamento risiedeva - secondo l’ipotesi iniziale - nella coincidenza tra razionalità dei fini individuali (i gruppi di
pressione) e razionalità del sistema nel suo complesso. Tuttavia, stabilito che alla fine le due razionalità coincidono diventava cruciale sapere: a) che cosa succede prima, all’interno del campo prescelto, b) come reagiscono i diversi gruppi di pressione, dotati di una visione diversa della razionalità dei propri fini, di fronte all’innovazione imposta dai movimenti sociali. La domanda diventava allora non solo chi resiste all’innovazione e chi opera la continuità (una volta acquisita quella battaglia storiografica) ma come si trasmette l’innovazione.
Nel corso della ricerca ero colpita dal fatto che non solo tecnici “nuovi” spesso aderivano a metodi di governo ben poco innovativi, ma che vere e proprie innovazioni (come la liberalizzazione degli scambi e del mercato del lavoro, per limitarci all’area economica) venivano gestite da burocrati che avevano ovviamente costruito la loro carriera sotto il fascismo. Di qui la difficoltà di stabilire ciò che è nuovo e ciò che non lo è, dal punto di vista degli esiti successivi: e se ricercare il mutamento è compito precipuo dello storico, in questo caso l’innovazione si è spesso riscontrata in chi non la teorizzava. È il caso appunto della Democrazia cristiana nei suoi rapporti con lo Stato.
All’interno quindi di un quadro internazionale e economico-sociale di cui emergeva il mutamento, acquistavano sempre più rilievo le cadenze strettamente politiche perché era attraverso di esse che il partito democristiano costruiva la propria presenza nel paese e a questo ruolo crescente uniformava il modello statale di gestione dell’economia. Il regime democristiano, a mio parere, nasce con molta lentezza e può affermarsi solo dopo aver sconfitto le possibili strade alternative (in particolare quella liberale) che in modo diverso - oltre a farsi portavoce di aree sociali ben precise - ipotizzavano una distinzione tra Stato e società civile, tra amministrazione e governo, tra governo e opposizione.
Le posizioni di Gronchi al ministero dell’Industria nel 1946, per esempio, sono lontanissime da quelle di Togni nel ’48 e più vicine non a
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caso a quelle del suo successore Morandi. Eppure tanto Gronchi che Togni sono uomini politici democristiani, forganigramma del dicastero è ovviamente immutato così come d’altra parte altrettanto stabile dopo il 1945 è il quadro dell’associazionismo padronale. Eppure Gronchi è praticamente travolto al grido di “lesa democrazia” (accusa che si abbatterà con analoga furia su Morandi), di pretesa autonomia dell’intervento statale sul libero mercato, mentre Togni sembra inserirsi in un meccanismo perfettamente lubrificato. La spiegazione - ha appena osservato Cafagna - sta nella visione che gli industriali nutrono nel primo biennio della ricostruzione del governo democratico quale governo debole. Come avviene tuttavia - si sono domandati gli stessi protagonisti delle alleanze governative, soprattutto a sinistra - che governi che hanno saputo affrontare difficoltà e scelte non di breve respiro (Caffè ha proprio in questa sede ricordato figure di tecnici e politici che hanno avviato a soluzione situazioni drammatiche dal punto di vista dell’approvvigionamento, degli scambi intemazionali, della ricostruzione materiale, della stabilità monetaria) siano considerati “deboli”? E come non ricordare che anche in Francia la IV Repubblica, nonostante il Piano Monnet e altre non irrilevanti realizzazioni sul terreno del welfare, cadrà senza rimpianti per la sua pretesa “debolezza”?
Una prima spiegazione nel caso italiano risiede nella sfiducia che il mondo economico più influente nutre preventivamente e solidalmente nei confronti di qualsiasi alleanza politica che si mostri aperta ai partiti di sinistra e sensibile a pressioni sociali. Questo è il motivo per cui, a mio parere, va debitamente rivalutato e collocato nel quadro delle premesse della svolta demo- cristiana del maggio 1947 il molo svolto dalla presenza di Morandi al ministero dell’Industria nel coagulare non solo aspettative sociali ma uomini politici, dentro e fuori la De, disposti a misurarsi con il governo dell’economia prima ancora che con le richieste dei partiti. Non è un caso, io credo, che negli anni della ricostruzione
il mondo industriale si senta rappresentato da una figura come Angelo Costa il quale con tutta evidenza poggia il suo potere - e il suo mandato nei confronti del governo - non tanto sui titoli di proprietà personali, ma sul suo molo di professionista “sindacale”, portavoce esemplare di una concordanza padronale prevalentemente imperniata sul terreno dello scontro con i lavoratori. Le cose infatti cambieranno (salvo ripercorrere nei momenti di accresciuto potere della classe operaia gli stessi passi) quando con l’emergere a livello nazionale e intemazionale di grandi imprese industriali in una prospettiva di espansione, il mondo industriale procederà a scavalcare questa linea di accordo puntando, nei rapporti con il governo, a intese settoriali in vista di piani di sviluppo. Di nuovo - come si vede - compare una spiegazione che sottolinea fortemente lo Stato dei rapporti di forza politici tra classi sociali contrapposte. Credo tuttavia che mano a mano che ci si sposta avanti negli anni del secondo dopoguerra la risonanza dello scontro politico si articoli e arricchisca particolarmente nel rapporto tra industriali e Stato.
La diffidenza industriale nei confronti dei governi cosiddetti deboli si manifesta infatti, non solo in quanto solidarismo fondato su premesse ideologiche dettate dalla resistenza al mondo del lavoro, ma in una pratica concreta di rapporti quotidiani con i singoli uffici statali. La rottura operata dalla presenza di uomini politici “nuovi” non si esprime (è il caso certamente di Gronchi) in magniloquenti piani complessivi, ma in complesse inversioni di tendenza a livello del continuo lavorio di negoziazione che contraddistingue ad esempio l’operato di ministeri come quello dell’Industria, del Commercio Estero o, in misura diversa, del Lavoro. In questi ministeri l’azione amministrativa consiste in costanti rapporti (tramite commissioni miste) tra uffici e sindacati professionali: uno scambio tanto più frequente quanto più importante è l’intervento economico e finanziario dello Stato. Gli uffici ministeriali hanno bisogno di questi rapporti (se non altro
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per ottenere quell’informazione che loro manca già a livello statistico) e gli uffici industriali hanno bisogno di quelli ministeriali soprattutto quando (è il caso del 1947) la domanda del mercato cede e la funzione statale di regolamentazione e finanziamento si fa più interessante. In sostanza - è stato osservato in una società democratica complessa in cui lo Stato occupa uno spazio economico e sociale sempre più ampio, le direzioni generali dei ministeri si avviano a svolgere un ruolo di “rappresentanza latente” degli interessi. A loro volta questi dicasteri si fanno portavoce dei gruppi di interesse presso il ministero del Tesoro. Se, come nel caso della presenza di un comunista alle Finanze, questo ministero pretende di farsi rappresentante dei gruppi sociali economicamente non favoriti, il governo risulta inevitabilmente “debole”, cioè non coerente, succube di istanze sociali non mediate dal quadro politico codificato.
In tal caso i singoli ministeri abbandonano (nel caso le abbiano mai avute) le loro velleità interventiste e si fanno sede di incontro e di raccordo tra interessi spesso contrastanti espressi dalle parti sociali organizzate; inoltre il ministro e i suoi collaboratori si sforzano di muoversi all’interno del campo di interessi di cui il dicastero è espressione in sede governativa (al ministero dell’Industria non deve riguardare la sorte dei lavoratori perché quella rientra nei compiti del ministero del Lavoro, e così via). In questa parcellizzazione della spinta globale al rinnovamento espressa dai movimenti sociali si esprime magistralmente la cultura democristiana e l’influenza - come ha ricordato Quazza - della cultura cattolica.
La scelta del maggio 1947 consente in primo luogo un ristabilimento dei canali di raccordo tra Stato e società civile fondato su una prassi di negoziazione che passa non tra fronti contrapposti ma tra funzioni omogenee nell’amministrazione e nei gruppi di pressione. La contrattazione esisteva prima, come esiste dopo il 1947: ciò che cambia è l’area dello scambio, “finalmente” depurata da una domanda spuria
priva di legittimazione politica e soprattutto amministrativa.
La garanzia di un governo forte - cioè integrato negli interessi forti del paese - nasce dall’abbandono consapevole da parte democristiana di qualsiasi velleità di ritorno all’alleanza con i partiti di massa, pena la sopravvivenza stessa del partito al timone degli equilibri politici del paese. E questa operazione è condotta, come ho più volte ricordato nel libro, confinando gli altri partiti nel limbo di una rappresentanza “di parte” rispetto alla quale la De può continuare a fregiarsi del titolo di partito popolare, partito di un popolo che senza distinzioni di classe chiede tutela, attraverso la De, allo Stato il quale, sempre attraverso la De, la concede in cambio di consenso elettorale.
L’immagine che ne risulta dello stato repubblicano è segnata, forse in maniera indelebile (nel senso che i canali attivati potrebbero essere difficilmente utilizzati a fini non di tutela) dall’impronta democristiana a partire dalla svolta del 1947. Credo che ulteriori ricerche, soprattutto in chiave comparata (si pensi alla ben diversa sorte del Mrp in Francia), potrebbero utilmente soffermarsi su due tratti specifici del radicarsi De nello Stato. Il primo è l’oc- cupazione-creazione, di fronte a un corpo burocratico non del tutto fidato - di entj collaterali usati come veri e propri strumenti di raccolta del consenso per il partito. Questo presupponeva non solo la rete di sostegno della Chiesa ma il saldo puntello del controllo finanziario dello Stato. Sarebbe azzardato vedere in questo doppio binario percorso dalla De (dentro e fuori lo stato) la premessa del suo adeguarsi al modello italiano di gestione mista dell’economia? Poiché non si possono sostituire i quadri dirigenti della burocrazia, è più semplice creare “posti” nuovi in cui i quadri “nuovi” possano operare una politica ben più spregiudicata di quella regolata dal codice di diritto pubblico. Si tratterebbe in sostanza di approfondire non solo il rapporto tra centro e periferia locale nell’organismo De (e quindi il ruolo che appare predominante del sostegno ecclesiastico alla
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periferia) ma il rapporto del tipo centro/periferia dentro la stessa amministrazione statale, tra singoli dicasteri, comitati interministeriali, enti a partecipazione statale. Nell’uno e nell’altro caso ritengo comunque che il controllo del Tesoro fosse cruciale per dare sostanza ai rapporti di forza, per quei meccanismi di “rappresentanza latente” degli interessi cui ho prima accennato.
Ciò che consente al fondo - e questo è il secondo tratto cui volevo accennare - l’emergere di questo singolare intreccio è il costituirsi della De come serbatoio principale dei quadri dirigenti politici del paese o almeno della loro legittimazione. Come si opera infatti il ricambio del ceto politico? Attraverso il partito de
mocristiano che in quanto partito può usare la nomina politica con una spregiudicatezza superiore al ricorso francese al pantouflage. Non vi è alcuno spazio al di fuori: né in un ricambio tra governo e opposizione (lo spoil system) né in una struttura pubblica di formazione dei quadri (l’Ena francese).
Si tratta naturalmente ancora di spunti per possibili ricerche future. A partire però da una constatazione: lo Stato in Italia è stato non solo “occupato” dal partito democristiano, ma - in un singolare incrocio tra richiami all’interclassismo cattolico e prassi politico-burocratica da società complessa - è stato rifondato e “modellato” da quel partito che non a caso sembra possederne da solo le chiavi di accesso.
Note suralimentazione nell’Italia giolittianadi Paolo Sorcinelli
In un suo scritto del 1964 Benedetto Barberi individua “nell’analisi dei grandi aggregati dello sviluppo economico (reddito nazionale e consumi privati) quattro periodi osserva- zionali. Il primo [...] dagli anni immediatamente successivi all’Unità fin verso la fine del secolo, il secondo dalla fine del secolo allo scoppio della prima guerra mondiale, il terzo quello compreso fra le due guerre, e, infine, il quarto tuttora in atto”. Ebbene, se nel primo dei periodi citati il reddito nazionale e i consumi privati hanno un tasso di sviluppo del 4,6 per mille, nel periodo seguente tale tasso arriva al 21 per mille, con “un netto movimento tendenziale verso i gruppi di consumo che caratterizzano più elevate condizioni di vita” della collettività1.
Ma l’affermazione di Barberi è senz’altro troppo ottimistica o quanto meno meccanicamente applicata a realtà molto diverse tra loro, poiché se nel 1913 “il reddito pro-capite del triangolo industriale si colloca fra i redditi intermedi” del panorama europeo, “quello del sud-Italia è persino inferiore al reddito procapite della Spagna”2, con le conseguenti implicazioni sui corrispondenti consumi. Anche Riccardo Bachi, in un volume della collina italiana della “Storia economica e sociale della guerra mondiale”, edito nel 1926, scrive: “Fra i
caratteri generalmente riconosciuti alla popolazione italiana è quello della sobrietà, della grande esiguità dei consumi alimentari. Il tenore di vita, specialmente per la classe operaia, tanto urbana quanto campagnola, già assai basso all’epoca della fondazione del Regno, dopo qualche cenno di parziale miglioria o di stasi, declinò sensibilmente lungo l’ultima parte dell’Ottocento in coincidenza con la gravissima depressione economica:; la discesa del tenore di vita della popolazione si è protratta ancora lungo qualche tempo, anche quando era superata già la fase di più acuta crisi; un certo movimento ascendente, assai ineguale, si è delineato poi lungo i primi anni del Novecento con il presentarsi di un marcato miglioramento nella situazione economica del paese e di una larga ripresa nel movimento degli affari”3.
Giorgio Porisini, pur datando un accrescimento dei consumi alimentari nelle campagne dal 1905-1910, lo collega ai vari gradi della strutturazione agronomica e produttiva. Se infatti in alcune aree dell’Italia settentrionale la trasformazione alimentare avviene grazie a un rinnovato assetto dell’agricoltura (esclusione del mais dalle rotazioni agrarie, sviluppo della bieticoltura e dell’industria indotta, delle foraggere, della zootecnia e dell’industria del latte) e
1 Benedetto Barberi, I consumi nel primo secolo dell’Unità d ’Italia, 1861-1960, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 24-26.2 Vera Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell'età giolittiana, Bologna, il Mulino, 1978, p. 207.3 Riccardo Bachi, L ’alimentazione e la politica annonaria in Italia, Bari, Laterza, 1926, p. 3.
“Italia contemporanea”, marzo 1983, fase. 150
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a più ampie e incisive forme di associazione e di lotta del proletariato rurale4, per altre aree, non investite da significativi mutamenti strutturali, il miglioramento alimentare (si vedrà in seguito in che termini) può essere registrato come fenomeno meccanicamente indotto dalla emigrazione e dalla relativa riduzione delle sacche di improduttività. Così come parimenti si potrebbe avanzare l’ipotesi che congiuntamente ad altri fattori (aperture al mercato intemazionale, accresciute importazioni) le perdite demografiche causate direttamente e indirettamente dalla prima guerra mondiale abbiano concorso ad impedire ripercussioni troppo negative sull’alimentazione degù anni 1919-.1922 e a recuperare quasi immediatamente i livelli prebellici. Non si deve infatti sottovalutare o addirittura non prendere in considerazione il fatto che se dal 1876 al 1890 gli espatri erano stati meno di due milioni e mezzo, dal 1890 al 1910, cioè in concomitanza con il decollo industriale italiano e comunque con la ripresa economica del periodo giolittiano, sono quasi nove milioni gli italiani che espatriano definitivamente o temporaneamente in cerca di lavoro e di questi il 54 per cento proviene dalle regioni centro-meridionali. Altri quattro milioni compiono la stessa operazione nel decennio 1911- 1920 (57 per cento dal centro-sud)5, a cui si aggiungono le cifre imprecisate dei caduti della “grande guerra” (600.000?), la mortalità civile per conseguenze indirette del conflitto (274.000 solo per la spagnola) e infine circa un milione e mezzo di nati in meno dal 1915 al 1919 rispetto alla media annua del 1911-19136.
Aymard parla per l’Europa dal Trecento al Novecento di due fondamentali tappe alimen
tari; la prima basata sulla variazione di un apporto calorico globale all’interno di regimi alimentari che mantengono costanti alcuni alimenti base: caratteristico il passaggio nelle diete più povere dai cereali inferiori, tradizionali al costume europeo, al mais, importato dopo il Seicento dalle Americhe. La seconda basata su un’effettiva trasformazione strutturale degli elementi nutritivi, cioè il passaggio da un regime alimentare imperniato sui cereali a uno in cui le proteine e i grassi sono forniti da sostanze animali. In Francia la prima fase avrebbe occupato tutto l’Ottocento e solo dopo il 1890 grassi e prodotti animali avrebbero rivoluzionato sostanzialmente i valori nutritivi. Anche in Inghilterra il processo avrebbe seguito lo stesso percorso e solo alla fine dell’Ottocento “il miglioramento degli scambi intemazionali e dei circuiti commerciali [...] permettono di mettere a disposizione delle masse urbane accresciute quantità di carne, di latte e latticini, di frutta e di legumi freschi”7.
In realtà, se proviamo a confrontare i consumi di carne, vino e zucchero in cinque grandi città italiane fra il 1860 e il 1912, si osserva che solo a Milano si ha un aumento generalizzato: per la carne del 24 per cento, per il vino del 23 per cento e per lo zucchero del 12 per cento. A Torino l’aumento è rilevabile soltanto per la carne e il vino, rispettivamente del 5 e del 33 per cento, mentre il consumo di zucchero diminuisce dell’ 11 per cento. A Roma diminuiscono i quantitativi pro capite di came (-11 per cento) e di vino (-7,6 per cento) e aumenta invece la quota di zucchero (+5 per cento). A Napoli, per cui mancano i dati della carne, si ha un decremento sia nel vino (-44 per cento) che
4 Giorgio Porisini, Agricoltura, alimentazione e condizioni sanitarie. Prime ricerche sulla pellagra in Italia dal 1880 al 1940. in “Quaderni di storia economica e sociale”, 1979, n. 3.5 Ercole Sori, L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, 11 Mulino, 1980, capitolo II.6 Massimo Livi Bacci, La trasformazione demografica delle società europee, Torino, Loescher, 1977, pp. 269-276. Per la spagnola v. inoltre G. Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Bari, 1925, pp. 260-263; Richard Collier, La malattia che atterrì il mondo. Testimonianze fra cronaca e storia, Milano, Mursia, 1980.7 Maurice Aymard, Puor l’histoire de l’alimentation; quelques remarques de méthode, in “Annales E.S.C.”, 1975, n. 2-3, p. 438; Cecile Dauphin, Pierette Pezerat, Les consommations populaires dans la seconde m oitié du X I X e siècle à travers les monographies de l’école de Le Play, in “Annales E.S.C.”, 1975, n. 2-3, pp. 537-552.
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nello zucchero (-17 per cento); a Palermo infine di fronte al leggero incremento nei consumi di carne e zucchero, il consumo del vino scende del 13 per cento.
Per le sue stesse caratteristiche di parziale isolamento commerciale e arretratezza produttiva l’Italia risente in minor misura delle trasformazioni alimentari riscontrabili invece in Francia e in Inghilterra; runico indice certo di un miglioramento dietetico generalizzato a livello di masse popolari è dato da un maggior consumo di grano in confronto al granoturco8.
In effetti l’incremento registrato nel consumo di frumento, dei legumi, della segala e dell’orzo fra il 1900 e il 1913 non è verificabile per nessuna altra voce alimentare. Fatto 100 il consumo medio per abitante del 1888-1889, l’indice del consumo di grano sale a 130 nel 1906-1910 e a 138 per il 1911-1913, in concomitanza con la forte progressione delle importazioni che da 6,6 milioni di quintali del 1896-1900 passano a 10,2 milioni nel 1900-1905 e a 13,8 milioni di quintali nel 1911-19139.
Contemporaneamente dunque al positivo ciclo economico di portata mondiale, anche in Italia si innalzano i consumi, ma nel senso che “dal pane di granturco si passa, in ben larga misura, al pane di grano” e il fenomeno del resto viene messo in evidenza anche confrontando le abitudini dei contadini nel 1909 con quelle descritte attorno agli anni settanta e ottanta dalla stessa memorialistica dell’epoca. Il dottor Luigi Nicoletti a proposito dei mezzadri di Pergola nelle Marche annota un genere di vita “non poco migliorato” anche se però “sempre ben triste”. “Non si usa più la ghianda, meno casi assolutamente eccezionali” e di fronte al ricorso abituale al pane di mais o “di una
mistura di grano, granturco e fava [...] si mangia anche pane di frumento”; si può ricorrere con una maggiore frequenza a “pasta fatta in casa con farina di grano e condita con lardo”. In definitiva, comunque, “la carne [continua ad essere] riservata per le grandi occasioni e non sempre anche ciò è possibile. Le frutta fresche, gli ortaggi, le erbe cotte, qualche volta un po’ di formaggio o di carne salata sono ciò che generalmente, ma non sempre, si mangia col pane in uno dei due pasti in cui non si ha la polenta o la minestra, poiché quando si ha una di queste non si ha altro cibo, ed al massimo si mangia solo pane”10.
Di “miglioramento non trascurabile, sebbene non grande” si parla anche per l’Abruzzo e il Molise, dove “il consumo del granturco è andato diminuendo, ed alla pizza malcotta e poco salata, si va sostituendo man mano, special- mente nella stagione estiva, il pane di frumento; i maccheroni e in genere le paste alimentari, un tempo quasi esclusi dai pasti dei contadini e riservati anche fra i più agiati nei giorni di grandi feste, vanno entrando ora fra i consumi ordinari [almeno] durante l’estate e specialmente nei periodi di lavori più faticosi”. Pane e legumi sono alla base dell’alimentazione pugliese, che appare ora “meno parca [...] in paesi ad antica emigrazione, in cui i bilanci dei contadini, sono spesso ingrossati dai guadagni che essi fanno con l’emigrazione periodica in America”. Anche in Campania il pane di frumento ha sostituito il pane di meliga e sempre dall’Inchiesta parlamentare del 1907-1909 si sottolinea come in Calabria “il pane di castagne e di lupini ormai non è che un ricordo e la carne, il formaggio e il pesce salato allietano più di frequente il desco del contadino”11.
8 II concetto di questo relativo miglioramento viene evidenziato anche in Renato Giannetti, Aldo Rustichini, Consumi operai e salari negli anni venti in Italia, in “Movimento operaio e socialista”, 1978, pp. 347-372.9 Giorgio Porisini, Produzione e produttività del frum ento in Italia durante l'età giolittiana, in “Quaderni storici”, 1970, n. 14, pp. 512-513.10 L. Nicoletti, L ’emigrazione dal comune di Pergola in relazione a quella degli altri comuni della Provincia di Pesaro- Urbino, Roma, 1909, p.77.11 Le testimonianze sono tratte rispettivamente dagli A tti dell’inchiesta parlamentare sulle condizoni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, Roma 1907-1911, voli. II, III, IV, V. Cfr. anche Antonio Prampolini, Agricoltura e società rurale nel Mezzogiorno agli inizi de! '900, vol. I, Milano, Angeli, 1981.
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Edmond Grimer, Arrigo Serpieri e Angelo Pugliese dimostrano altrettanto incremento di consumi per contadini e operai generici della Lom bardia12, mentre Riccardo Bachi individua e mette in risalto le cause che di volta in volta hanno reso possibile il “balzo” alimentare (testimoniato anche dal fatto che sempre più frequentemente “la preparazione del pane avviene con ricorso al fornaio e risultato tecnico migliore” rispetto alla cottura casalinga): gli aumenti salariali, il movimento migratorio e le rimesse, la destinazione di alcuni componenti delle famiglie rurali al lavoro di fabbrica13.
Ma se “la razione di pane misura nei popoli le condizioni di mediocre benessere alimentare”, è il consumo della carne e del latte, come sottolinea Giglioli, “che palesa quel benessere che meglio mantiene le più attive forme delle energie umane”, dove invece in Italia fin dai primi anni dell’Unità, il consumo di carne è uno dei più bassi d’Europa, con marcate diversità regionali e con punte di alto consumo nelle aree comprendenti grossi agglomerati urbani14. Nel periodo 1876-1879 il Lazio, dove la presenza della capitale politica con gli apparati governativi e burocratici innalza le cifre, il consumo pro capite di carne è di 29 chilogrammi all’anno, contro i 12/13 chili del Piemonte, Liguria, Emilia, Toscana e Sardegna; leggermente inferiore in Lombardia e nel Veneto, ancora più basso neH’Umbria e nelle Marche (7/11 kg), fino a raggiungere il minimum nella “regione adriati
ca meridionale”, in Sicilia, con appena 5 kg pro capite15. Naturalmente c’è da notare che per “consumo di carne” si intendono carni bovine, carni suine e ovine e che ogni area presenta una peculiarità rispondente alla configurazione agronomica e produttiva16, anche se “i dati statistici molto generali [...] sono insufficienti per confrontare le vere condizioni dell’alimentazione carnea” e pertanto occorrerebbe un confronto fra i consumi individuali nei “centri popolosi” e fra le popolazioni rurali. “Si vedrebbe allora [...] come, specialmente in Italia, l’alimentazione carnea sia privilegio delle città”17 naturalmente sempre in termini relativi poiché da un lato il “privilegio” si evince dal confronto con zone rurali in cui quasi l’80 per cento della popolazione non mangia mai carne, dall’altro poiché occorrerà distinguere le differenze fra i diversi strati sociali urbani e fra città e città. Inoltre, se esistono le fonti per quantificare i consumi carnei, queste non permettono una collocazione organica e diacronica dei dati essendo troppe le disparità e i criteri di rilevazione. Dai Materiali per l’etnologia di Raseri, alle pagine dell 'Inchiesta del 1886; dalle Statistiche della macellazione del 1903 e del 1908, agli studi di Raseri del 1906 e di Emilio Fava del 1912 si passa da consumi medi individuali che oscillano tra gli 11 e i 21 o i 13 chilogrammi annui: la contraddittorietà nasce appunto dai vari criteri di rilevazione adottati. La stessa rilevazione daziaria si scontra con la presenza di comuni aperti e comuni chiusi, con la natura
12 v. Edmondo Griiner, Studi sulle condizoni deI contadino in Lombardia; abitazioni rurali, condizioni economiche e di lavoro, alimentazione, in “Annuario 1st. Agraria A. Ponti”, voli. IV-VII (1901-1902, 1905-1906); Arrigo Serpieri, // contratto agrario e le condizioni dei contadini nell’A ho Milanese, M ilano, Società U manitaria, 1910; A. Pugliese, // bilancio alimentare di 51 famiglie operaie milanesi, Milano, Società Umanitaria, 1914. Inoltre per un quadro d’assieme delle inchieste e della letteratura alimentare dall’Unità agli inizi degli anni cinquanta, Stefano Somogyi, Cento anni di bilancifamiliari in Italia, 1857-1956, in “Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli II, 1959, pp. 129-132, Id., L ’alimentazione nell’Italia unita, in “Storia d’Italia”, vol V, t.I, Torino, Einaudi, 1973.13 R. Bachi, L’alimentazione e la politica annonaria, cit., pp. 18-21. Inoltre, v. Piero Bevilacqua, Emigrazione transoceanica e mutamenti dell’alimentazione contadina calabrese fra Otto e Novecento, in “Quaderni storici”, 1981, n. 47.14 I. Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia, Portici, 1903, pp. 607 sgg.15 Ministero dell’Interno, Inchiesta sulle condizioni igienico-sanitarie nei consumi de! Regno, Roma, 1886, pp. CXVII-CXX.16 Gabriel Desert, Viande et poisson dans l’alimentation des Français au milieu du X I X e siècle, in “Annales E.S.C.", 1975, n. 2-3, p. 529.17 I. Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia, cit. pp. 610-611.
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dell’appalto, pubblico o privato, con l’alta quota di macellazione clandestina di ovini e suini, con il consumo non quantificabile di conigli, pollame e cacciagione, alimenti gestiti a livello familiare e all’infuori del mercato; variano poi i canoni nel fissare il peso medio degli animali e la stessa quantità di carne macellata, tenendo conto ora del peso vivo, ora del peso morto; l’indagine del 1908 ordinata dalla Direzione generale di statistica prende infine in esame soltanto i consumi carnei di 346 centri urbani18.
Ciò che con sicurezza si può ricavare da questi aggregati statistici è da un lato un’estrema variazione nei consumi da città a città (da 61 kg annui pro capite a Milano a 20 di Trani nel 1910)19 dall’altro le testimonianze che le popolazioni rurali continuano essenzialmente a fare uso di carni suine, mentre gli strati urbani più deboli ripiegano sulle “qualità di scarto” della macellazione bovina (frattaglie e battifo- glio). 135 grammi di carne “tagliuzzati e mescolati” in 90 grammi di pasta, 100 grammi di verdura e legumi, 3 grammi di lardo e 800 grammi di acqua - così come figura composta la razione di minestra distribuita all’inizio del Novecento nelle cucine economiche di Bergamo - provengono dalla testa e dai piedi di manzo20. Nel circondario di Lanusei, negli anni che precedono la prima guerra mondiale, si fa uso di carne nei giorni feriali soltanto quando avviene uno sgarrettamento di bovini “oppure
quando muore di malattia qualche capo di bestiame”21 e lo stesso quadro vale per la campagna fermana, dove i contadini da sempre mangiano carne soltanto quando qualche bue o pecora “muore intempestivamente per motivi suoi”22. Infine nel quartiere romano del Testaccio, nel 1912, consumare carne significa preparare un brodo per 6/8 persone sfruttando la testa di un bue23.
D’altronde anche considerando i dati ufficiali dei consumi pro capite di origine animale e di origine vegetale si vede che i primi nbn subiscono - nel periodo in questione - particolari impennate: rappresentano infatti il 27/33 per cento nel lasso di tempo 1866-1880, il 37/ 41 per cento nel ventennio successivo e, anche a voler considerare l’incidenza negativa del periodo bellico, si attestano attorno al 35 per cento nel ventennio 1900-192024.
Nel 1914 la Csir (Commissione Scientifique Internationale du Ravitaillement), valutando “che 75 grammi per giorno e per uomo medio rappresentassero un minimum desiderabile necessario per ogni paese”, prendeva atto che in Italia la razione giornaliera di materie grasse nel periodo 1909-1913 era di 9 grammi inferiore al minimum. In Germania l’eccedenza era valutata in 51 grammi, in 45 in Inghilterra e in 11 in Francia. Così la percentuale calorica derivante da sostanze di origine animale rappresentava il 12,32 per cento in Italia, il 26,59 per cento in
18 E. Raseri, Materiali per l’etnologia italiana raccolti per cura della Società Italiana di Antropologia ed Etnologia, in “Annali di Statistica”, serie 2a, voi. V ili, 1879; Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei Comuni del Regno, Roma, 1886; Statistica della macellazione degli animali e sul consumo della carne nel Regno per l’anno 1903, Roma, 1906; Statistica sulla macellazione degli animali e sul consumo della carne nel 1908 nei comuni capoluoghi di provincia e nei comuni aventi una popolazione agglomerata non inferiore ai 10 mila abitanti, Roma, 1910; E. Raseri, Sul consumo alimentare di carne da macello in Italia, in “ Rivista d’igiene e sanità pubblica”, 1906; E. Fava, Il consumo carneo e l’abbattimento dei giovani vitelli in rapporto alla crisi delle carni, in “Giornale della Reale Società Nazionale Veterinaria”, 16 novembre 1912.19 M. Balestrieri, I consumi alimentari della popolazione italiana dal 1910 crì 1921, in “Biblioteca del Metron”, Padova, 1922, n. 4, pp. 61-85.20 A. De Brun, Le cucine economiche, in “Biblioteca di ragioneria applicata”, 1914, pp. 19-22.21 N. Villa Santa, Le condizioni economiche di un circondario della Sardegna, Lanusei, Torino, 1914, cit. in R. Bachi, L ’alimentazione, cit., pp. 20-21.22 M. Collier, Galletti De Cadilhac, La nostra casa sull’Adriatico, Londra, 1886 (trad. it. Ancona 1981, p. 33).23 D. Orano, Come vive il popolo di Roma. Saggio demografico sul quartiere Testaccio, Pescara, 1912, pp. 429-430.24 B. Barberi, / consumi nel primo secolo dell’Unità d ’Italia, cit., p. 134 (mia elaborazione).
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Francia, il 32,79 in Germania e il 35,54 per cento in Inghilterra25.
Il fatto che l’Italia consumi poca carne rispetto ai valori europei e invece esporti carne, lardo, strutto, pollame per quasi 60 milioni di lire ancora nel 1913 ed importi “pesce conservato e simili forme di alimento carneo meno pregiato”26, chiarisce molto bene certe forme di economia domestica del proletariato urbano e rurale. Al mercato si vendono uova e pollame e al mercato si comprano stoccafissi, baccalà e aringhe che “costituiscono appunto una parte
importante dell’alimentazione della gente più povera”27.
Per questa larga parte della popolazione il quadretto di una famiglia intenta ad insaporire il pane per la cena con un’aringa appesa sotto il camino, o il detto popolare: “se un povero mangia una gallina o è malato il povero o è malata la gallina”, rimangono drammatica- mente attuali nelle aree rurali più arretrate fino ad anni recenti, proponendo nella sostanza e nella continuità il problema del cibo quotidiano. Paolo Sorcinelli
25 G. Zingali, Alimentazione-Consumi-Bilanci di famiglia, in “Trattato elementare di statistica” diretto da Corrado Gini, vol. IV-V: Milano, Statistica economica italiana, 1933, pp. 9, 13, 18-20.26 L’osservazione sembrerebbe valida sia per il periodo a cavallo tra Otto e Novecento, sia per gli anni prebellici, come risulta rispettivamente in I. Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia, cit., p. 610 e in R. Bachi, L ’economia italiana alla vigilia della guerra, Roma, 1918, pp. 6, 27.27 1. Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia, cit., p. 632.