Vorrei tornare, ancora una volta, su alcuni aspetti dell’idea di sviluppo sostenibile. In primo luogo, sul suo carattere di approccio analitico che si basa sulla connessione fra dimensione sociale, economica, ambientale e culturale. In secondo luogo, sul suo carattere di idea normativa che si basa sulla nozione di qualità della vita e di di-gnità delle persone, chiunque siano e ovunque siano. Sono convinto che la qualità di vita delle persone abbia più di una dimensione e richieda un approccio intrinsecamente pluralisti-co. In questo senso preciso, esami-nando la dinamica delle ricerche sulla sostenibilità, siamo indotti a riconoscerne i molti volti. Nella mia esperienza di direzione scientifica di Laboratorio Expo di Fondazione Fel-trinelli e nella redazione della Carta di Milano, il carat-tere multidiscipli-na-re e sistemico della sostenibilità è emerso con forza. “Tutto nel mondo è intima-mente connesso”, ci sug-gerisce nella Lau-dato sì Papa Francesco. Ed è naturale, in propo-sito, richia-mare ancora una volta l’attenzione sui contributi in-fluenti di Jeffrey D. Sachs che dirige ora per le Nazioni unite il network delle soluzioni di svilup-po sostenibile. Sappiamo che l’idea di sviluppo sostenibile risale almeno al celebre Rapporto della Commis-sione Bruntland del 1987. Nel rap-porto Bruntland la sostenibilità ri-guardava il livello di benessere delle persone su un orizzonte temporale esteso: è sostenibile lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle futu-re generazioni di soddisfare i propri. L’idea stessa di sostenibilità è stata approfondita nel tempo con l’introduzione di una pluralità di di-mensioni e di indicatori. Basta pen-sare agli esiti del Summit sulla Terra di Rio (1992), al Summit dell’Onu sullo sviluppo sostenibile di Johan-nesburg (2002), in cui si individuano le connessioni fra dimensioni econo-miche, sociali e ambientali; al Rio più Venti (2012) in cui l’Assemblea ge-nerale dell’Onu preserva e arricchi-sce l’approccio multidimensionale alla sostenibilità per “The Future We want”, sino alla definizione dei di-ciassette obiettivi di Sviluppo soste-nibile nel settembre 2015, avviata nel 2012 da Ban-Ki Moon con il network per le soluzioni di sviluppo sostenibile. E si consideri, d’altra parte, come a partire dagli anni No-vanta del secolo scorso, la ricerca sulla questione della qualità di vita
per persone assuma come fonda-mentale una prospettiva incentrata sulle essenziale varietà delle sue dimensioni. Basti pensare, in propo-sito, ai lavori pionieristici di Amartya Sen, al classico The Quality of Life (1993), curato da Sen e Martha Nus-s b a u m , a l l e i d e e c e n t r a l i dell’approccio delle capacità, all’adozione di un paniere di criteri valutativi e di indicatori dello sviluppo come sviluppo umano, al centro di UNDP. Su questo sfondo si definisce oggi un complesso profilo di attività di ricerca, formazione ed educazione che cooperino nel tempo, nel mondo, sul sentiero ramificato dello sviluppo sostenibile. È naturale pensare al ruolo di istituzioni accademiche e di centri di ricerca nei diversi ambiti dello sviluppo sostenibile. E certa-mente, a questo livello di higher edu-cation, si deve generare una rete che faccia sistema sia dal punto di vista della ricerca sia dal punto di vista dell’alta formazione. Come ho soste-nuto più volte, è decisivo lavorare
insieme, connet-tendo i differenti percorsi e proget-ti di ricerca e for-mazione in una vera e propria agenda per lo sviluppo sosteni-bile. Tuttavia, ciò su cui vorrei ri-c h i a m a r e l’attenzione ha a che vedere con un differente livel-lo di educazione: quello che, a par t i re da l le scuole primarie, coinvolge bambi-ne e bambini. Sono convinto che una cultura
delle sviluppo sostenibile si alimenta e si consolida a partire dalle prime fasi dell’apprendimento. Per questo, è prioritario coinvolgere il mondo della scuola e assegnargli un ruolo di spicco nei percorsi educativi orientati agli obiettivi di sviluppo sostenibile. La mia convinzione si avvale dell’esperienza che abbiamo fatto, come Laboratorio Expo e Carta di Milano, con la Carta di Milano dei bambini che è stata diffusa nel giu-gno 2015. Con una modesta propo-sta di metodo: per un’educazione primaria è bene avvalersi di una die-ta non monotona di modi in cui bam-bine e bambini apprendono, com-prendono e avvalorano gli obiettivi della sostenibilità dai molti volti. La grammatica della sostenibilità si av-vale tanto di ragioni quanto di emo-zioni e, quindi, di motivazioni.Per questo, come esergo della Carta di Milano dei bambini, avevamo citato alcuni versi di un poeta, Gianni Ro-dari, rivolti ai bambini e al loro modo di sentire che cosa si prova a vivere con tanti altri in un mondo che deve uscire dalle trappole di una crescita insostenibile e iniqua. “Quanto pesa una lacrima?/ Dipende:/ la lacrima di un bambino capriccioso/ pesa meno del vento,/ quella di un bambino affamato/ pesa più di tutta la terra.”
Numero centoundici Marzo 2016
DISTRIBUZIONE GRATUITA www.socratealcaffe.it
la Feltrinelli a Pavia,
in via XX Settembre 21.
Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30
L’editoriale
di Salvatore Veca
QUANTO PESA
UNA LACRIMA?
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
GIORGIO FORNI
Pagine 6-7-8
Pier Vittorio Chierico
PAGINE 4-5
Marcello Pirro
Un bestiario (laccato e dorato)
Il mito dell’innovazione
distruttiva
Luisa Lavelli
PAGINA 2
PASSEGGIATE URBANISTICHE … ovvero Volare con i piedi a terra
Patrizia Cucco
PAGINA 3
SPORTELLO DONNA SPORTELLO DONNA INCUBATORE D’IMPRESAINCUBATORE D’IMPRESA
START UP/INNOVAZIONE/CREATIVITÀ
Non cercare lavoro, crealo PAVIA, via Mentana 51
[email protected] - 366 2554736
Il giornale di Socrate al caffè
Direttore Salvatore Veca - Direttore responsabile Sisto Capra Editore Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”
(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)
Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia
0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected] Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia
Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia
Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 2
L’articolo Disruption Machine. When the Gospel of Innovation gets wrong di Jill Lepore, Ph.D. of History, University of Harvard, apparso sulla rivista “The New Yorker” il 23 giugno 2014, suscitò all’epoca un acceso dibattito accademico fra i sostenitori dell’innovazione e altri che ritenevano che fosse arrivato il momento di un necessario rethinking the innovation craze. Ogni epoca – scriveva la studiosa - ha la sua teoria di crescita e declino: il XVIII secolo abbraccia l’idea del progresso, il XIX l’evoluzione, il XX la crescita, il XXI l’innovazione. Joseph Schumpeter (1883-1950), economista austriaco, usò la parola innovazione con il significato di portare nuovi prodotti sul mercato e teorizzò la creazione di altri, unica via a una crescita sostenibile. Clayton Christensen, professore alla Harvard Business School, erede del pensiero schumpeteriano, e teorico del ciclo e sviluppo economico, pubblicò nel 1997 un testo, divenuto sacro, The Innovator’s Dilemma. When new Technologies cause great Firms to fail, sostenendo che aziende ben consolidate nel tempo fallivano non a causa di manager incapaci, ma perché riluttanti ad abbracciare nuove tecnologie nel timore che avrebbero potuto minare il loro modello di business e non potessero più dominare il mercato. Distruggere il passato per far spazio al nuovo è sempre stata l’essenza delle economie di mercato. Oggigiorno, però, la parola disruption è diventata un vangelo (disrupt or be disrupted). La teoria della distruzione - afferma Jill Lepore - è stata oggetto di scarsa critica, in parte perché l’analisi di un fenomeno ha tempi lunghi e non può essere mai rapida, in parte perché i disruptors prendono in giro coloro che sollevano dubbi: “un dibattito noioso, che non porta a nulla di significativo, vecchiume”, come se criticare il cambiamento radicale di cui siamo testimoni fosse screditare il cambiamento stesso. Paul Krugman, premio Nobel 2008 per l’economia, professore al MIT e a Princeton, scriveva : “ .. negli scambi commerciali come nella concorrenza fra imprese, è tutto da dimostrare che a guadagnare siano quelli che gettano il passato nella pattumiera e inventano nuove cose. La Germania investe nella qualità e non tira fuori dal cilindro prodotti sempre nuovi. Ecco un pensiero rivoluzionario: forse invece di preoccuparci delle innovazioni di rottura faremmo meglio a dedicare più sforzi a fare bene qualunque cosa facciamo” (“New York Times”, 16 giugno 2014). Andrew Leonard (su Solon) racconta che i tecnocrati della Silicon Valley non sono stati molto contenti dell’articolo di Jill Lepore, la loro irritazione ci aiuta forse a capire come tutta questa battage pubblicitaria sull’innovazione di rottura è nata: rende seducente il business e raffigura i nerd eroi del giorno.
La nozione che la storia sia la storia del miglioramento delle condizioni economiche di prosperità e benessere dell’umanità ha dominato la visione occidentale per secoli. Ora la parola “progresso” è stata sostituita da “innovazione”, una buzzword, un insieme di novelty, invenzione, creatività, originalità, e cominciamo a chiederci se il potenziale dirompente di prodotti sempre nuovi, di app, di gadget
elettronici, di startup, produrrà una crescita economica, una stabilità finanziaria, posti di lavoro. La storia insegna che gli aggiustamenti sono sempre stati lenti, difficili, complessi. Evgeny Morozov, politologo, sociologo e studioso di media, autore dei best seller “Ingenuità della rete” e “Internet non salverà il mondo”, in un articolo pubblicato su “La Lettura” scriveva : “L’infatuazione per l’innovazione è solo un modo per nascondere una politica seria nei confronti della tecnologia, una politica che sia indipendente dai piani infrastrutturali e commerciali di Silicon Valley e dei suoi equivalenti e sia in grado di produrre benefici sociali maggiori di quelli portati dalle automobili volanti e dalle pillole della longevità”. L’atmosfera dell’Inghilterra nel periodo della rivoluzione industriale è stata similmente un’atmosfera di contrasti. Molte voci si levarono a criticare i nuovi sviluppi in termini e negli accenti di una solida e antica Inghilterra. Tra tutte queste, due furono le più importanti: Burke e Cobbet. Essi attaccarono la nuova Inghilterra e dalla loro opera presero avvio potenti tradizioni di critica della nuova democrazia e del nuovo industrialismo a difesa della tradizione storica contro l’astrattismo antistorico del presente . Erano lì a cercare di imparare e registrare i fatti, riconoscendo la complessità e la difficoltà delle vicende umane, riservando le frecce più acuminate a
tutti gli schemi di rinnovamento totale e di ricostruzione radicale . Sia la rivoluzione industriale sia la successiva ebbero le loro vittime, persone che persero il lavoro a causa di invenzioni che cambiarono il mondo : il telaio meccanico di E. Cartwirght, la lampadina di T. Edison, l’automobile di R.Benz . Tuttavia, crearono nuove opportunità di lavoro in sostituzione dei vecchi mestieri. È tutto da vedere se la rivoluzione digitale e l’automazione
porteranno alla creazione di una
massiccia quantità di posti di lavoro e a una distribuzione equa della ricchezza. Una possibile eclissi del lavoro potrebbe diventare una forza sociale distruttiva, mentre la ricchezza tenderebbe a diventare sempre più concentrata nelle mani di pochi, i nuovi padroni, un’egemonia economica. Jaron Lanier, computer scientist, in Who Owns the Future? (2013) scriveva: “gli unici a guadagnarci sono le piattaforme tecnologiche, i siren servers, i winners-take-all che diventeranno sempre più potenti in ogni parte del mondo, a scapito di un graduale declino del ceto medio”. Due ricercatori del MIT, Eric Bryolfson e Andrew McAfee , in Race against the Machine (2011) sostenevano : “Non esiste una legge in economia che possa affermare che tutti, o perlomeno la maggior parte, potranno automaticamente beneficiare del progresso tecnologico”. Il saggio provocò un dibattito caustico fra gli economisti, attirando subito l’attenzione dei giornalisti che cominciarono a chiedersi se fossimo entrati in una “disoccupazione tecnologica” . Come non mai si sono aperti divari così abissali nei salari fra skilled workers e non, fra possessori di capitale e i lavoratori. Thomas Picketty, professore all’Ecole d’economie de Paris nel saggio Disugualianze (2014) scriveva: “la teoria del capitale umano dice semplicemente che il lavoro non è un’entità omogenea, e che individui differenti per ogni sorta di ragioni sono caratterizzati da diversi livelli di capitale umano, cioè da capacità differenziali di
contribuire alla produzione di beni e servizi domandati dal consumatore. La teoria del capitale umano è indispensabile per capire le disuguaglianze dei salari e ineguaglianza del capitale umano”. Il MIT ha analizzato il cambiamento della natura dei posti di lavoro classificandoli in manuali o cognitivi, di routine o complessi. Le imprese tendono o a sostituire i lavori di routine con robot che hanno costi di produttività minori, non sollevano
problemi, non fanno assenze,
non discutono sulla paga, sono innocui. In contrapposizione è in forte crescita la domanda di high skilled workers e di lavoratori con low skill, low productivity e low wage. Ne consegue che l’economia della conoscenza premierà coloro che sanno padroneggiare i nuovi strumenti informatici a completamento delle funzioni intellettuali e penalizzerà i lavoratori di bassa skillfulness, di serie B, che già soffrono della concorrenza di lavoratori di paesi low cost. Potremmo porre fine a questa depressione solo se riusciremo a trovare la lucidità e volontà politica necessarie. Diversamente i Governi andrebbero incontro a una serie di gravi problemi che, alla lunga, potrebbero sfilacciare il tessuto sociale, spingendo a soluzioni estremiste. James K. Galbraight, Professore di economia alla University of Texas, Austin, sosteneva nel suo saggio The end of Normal (2014) che non ci sarà un ritorno alla normalità di crescita del passato. Quattro fattori (metaforicamente i quattro Cavalieri dell’Apocalisse ), lo impediscono: i costi delle risorse energetiche; l’inutilità della forza militare globale che non garantisce energia a basso costo; le conseguenze della rivoluzione digitale sull’occupazione e il fallimento di regole ed etica del settore finanziario. L’instabilità economica è da ritenersi il new normal: “ We have become very large, very complex, very efficient and therefore very fragile”. L’innovazione distruttiva, un’idea che ebbe origine nell’area del business e negli studi specializzati di economia viene oggigiorno applicata ad arene i cui valori e fini sono lontani dall’area degli affari fra cui l’educazione e gli studi universitari. “The Economist”, a metà del 2014 ha dedicato un ampio servizio sulle
cause e le necessità di reinventare le università del futuro, un rivolgimento culturale profondo dovuto a tre forze concomitanti: i costi elevati di gestione delle università; il mutamento del mercato del lavoro (la laurea non è più il sicuro biglietto di entrata a professioni ben retribuite); tecnologie avanzate e automazione hanno e continueranno ad avere un impatto determinante nel gioco domanda/offerta di posti di lavoro (nuove figure professionali si affacciano sul mercato globale). In tanta necessitate la terza forza di rottura è la disruptive technology. In una serie di conversazioni The Experimentation Heart of the Universities’ Future tenutesi nel gennaio dell’anno scorso alla Georgetown University of Washington, Susan Hockfield, former President del Mit e neurobiologa, affermava che “il cervello umano è incline, all’inizio, a rifiutare ogni cambiamento e non sarà un compito facile tentare di reinventare l’università del futuro. Non ci si deve, però, dimenticare che il core dell’università è la scoperta, l’innovazione e la capacità di sperimentare nuove tecnologie. È una pia illusione pensare che studenti born digital, born mobile accettino di continuare ad avere lo stesso modello di insegnamento che hanno avuto i loro coetanei per centinaia d’anni”. È una realtà di cui si deve essere consapevoli e riconoscere il potenziale delle nuove tecnologie. Inoltre, si sta delineando nella comunità scientifica l’assunto che un uso sensato delle tecnologie promuove un apprendimento laboratoriale e attivo. Gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che lavorare su schermi interattivi eserciti sia il pensiero induttivo sia il ragionamento ipotetico deduttivo. La maggior parte delle università e datori di lavoro ritiene tuttora i corsi on line come qualcosa di aggiuntivo ai corsi tradizionali di laurea, piuttosto che una sostituzione. Di certo le università tradizionali hanno qualche carta vincente in tasca: gli studenti imparano a dibattere face-to-face con i docenti, acquisiscono una dialettica e un pensiero critico maggiore, creano rapporti umani con i professori e compagni di corso, i territori dove sono ubicate le università traggono benefici economici dalla presenza e dal movimento di persone. In alternativa, i corsi MOOC (Massive Open On line Courses) offrono agli studenti la stessa possibilità di ascoltare lezioni di professori star di alto livello, di ottenere una laurea e una certificazione con abbattimento di costi e indebitamento, annullamento delle categorie spazio-tempo - puoi studiare dove e quando vuoi -, permettono a un vasto pubblico del pianeta di accedere ai percorsi universitari. L’esperienza digitale potrebbe combinare i due aspetti: tradizione e rinnovamento in un sistema di blended learning già attivo in alcune università americane e italiane. È pur vero, però, che la povertà informativa, il digital divide, scava tuttora un divario profondo in termini culturali e scientifici fra cittadini web del pianeta e non, che deve essere colmato. Concludendo, l’innovazione distruttiva è meno controllabile di quanto i wizard di Silicon Valley sperino e più inquietante e sconvolgente di quanto si pensi per le evidenti ripercussioni nel tessuto democratico e socio-economico.
Luisa Lavelli
Pagina 3 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016
Pavia, come molte città
italiane, è profondamente
segnata dalla crisi che ha
determinato il blocco di
tutti i processi di
riqualificazione.
Servirebbero quindi delle
visioni del futuro su cui la
città, nel suo insieme, possa
riconoscersi per impostare
un percorso di
rigenerazione. Questo processo di sintesi è
difficoltoso perché molti sono gli
ostacoli; siano essi di carattere
economico o, più spesso,
psicologico. Come architetti, si
riconosce che dialogare con la
situazione che si è concretizzata
in questi anni richiede una
revisione del ruolo del
progettista. Tale revisione deve
partire sia dagli strumenti, in
modo da analizzare il presente,
sia dalla necessità di ridefinire il
campo di azione professionale.
La sfida proposta è saper
guardare alla città che crediamo
di conoscere bene, per
individuare nuovi modi per
interpretarla e nuove strategie per
rigenerarla.
Le passeggiate urbanistiche sono
espedienti per cercare di vedere
la città sotto una luce diversa e
immaginare nuove possibilità e
nuove soluzioni. Ai relatori
verrà chiesto di esplorare Pavia
con l’aiuto di alcuni colleghi
della commissione Urbanistica.
Sulla base della loro
esplorazione, delle
considerazioni dei nostri colleghi
e della loro esperienza
professionale, i relatori ci
proporranno la loro visione della
città.
Questa iniziativa è utile per tutti i
cittadini che sono curiosi di
guardare alla città e alle sue
caratteristiche sulla scorta del
racconto di un gruppo di studiosi
che la vedono per la prima volta
e la descrivono alla luce delle
loro esperienze professionali,
inoltre essere la vetrina per
potersi esprimere e dar vita a
idee illuminate. Daremo quattro
input su cui riflettere per
valorizzare la città e trovare
nuova linfa vitale.
La crisi di risorse determina
scelte obbligate di riduzione,
accorpamento e alienazione delle
strutture pubbliche: è
fondamentale ripensare
complessivamente al sistema del
welfare urbano e al complesso
ruolo che esso svolge nella città.
La gestione dei servizi pubblici
richiede infatti un ingente
investimento di risorse ma
genera a sua volta un’economia
che va molto al di là degli addetti
impiegati nelle varie attività e
spesso determina in maniera
sensibile la capacità attrattiva di
un sistema urbano. Il rapporto di
Pavia con i suoi servizi -
l’Università, il Policlinico San
Matteo e gli altri poli sanitari -
sono da sempre un’eccellenza
della città e un forte elemento di
attrazione; si dovrebbe pensare a
una ulteriore valorizzazione in
grado di stimolare la nascita di
nuove iniziative economiche:
questo è il punto di partenza
della prima conferenza
“L’economia del welfare”, a cura
di Luca Imberti e Aldo Lorini.
Riflettendo sulla situazione
attuale dello stato di
manutenzione della nostra città si
deduce che la sfida dei prossimi
anni riguarderà il recupero di un
numero consistente di manufatti
di qualità eterogenea, per i quali
dovranno essere messi a punto
nuovi criteri di ristrutturazione e
anche nuove strategie per
garantire la sostenibilità degli
interventi. Potrebbe essere
prezioso ristudiare come è stata
costruita la città storica dove il
recupero e il riuso dei materiali e
delle strutture era la norma, e
immaginare che la sostenibilità
economica degli interventi possa
essere raggiunta trovando il
modo di sostituire, almeno
parzialmente, i valori della
rendita con i risparmi derivanti
dalla riqualificazione energetica.
La classe professionale dovrebbe
essere consapevole che la
rigenerazione a scala urbana
implica la capacità sia di
allargare le proprie competenze
agli aspetti energetici degli
edifici, sia di rielaborare nuove
metodologie per la
riqualificazione dell’esistente: su
queste riflessioni Marco Tosca e
Corrado Longa introdurranno la
seconda conferenza su Pavia con
argomento “Le energie della
città”.
Pavia è un sistema che andrebbe
analizzato a più scale e da più
punti di vista, sia come sistema
urbano a misura d’uomo che
come ecosistema nel rapporto
uomo-natura. Michele Brunello e
Massimo Giuliani valuteranno e
presenteranno “La città e servizi
ecosistemici”: la città è sorgente
di pressioni, che superano spesso
i confini urbani e generano
impatti sia al suo interno che sul
territorio. Il sistema ambientale,
inteso come la rete di ambiti non
edificati (parchi, aree ad uso
agricolo), diventa quindi il filtro
delle pressioni antropiche e di
fatto assume sempre maggior
valore nel benessere della città,
fornendo importanti apporti di
servizio alla collettività. Diventa
quindi importante individuare e
quantificare, in termini fisici ed
economici, “servizi ecosistemici”
che l’ambiente è in grado di
offrire e mettere a punto strategie
per migliorarne l’efficienza.
L’obiettivo della valutazione è
restituire una mappatura delle
diverse funzioni che il sistema
non urbanizzato svolge allo stato
di fatto, individuando le
eventuali criticità e le
opportunità che potranno essere
valorizzate all’interno di un
progetto urbano complessivo.
Spesso città e ambiente si sono
evoluti in forme integrate,
creando veri e propri sistemi
ecotecnologici, come ad esempio
le marcite, i sistemi irrigui, i
canali artificiali quali i navigli
che, creati dall’uomo, sono
altamente adattati ai sistemi
naturali.
I nuovi piani, che hanno come
strategia di fondo l’aumento
della sostenibilità ambientale,
non possono fare a meno di
studiare questi grandi sistemi
ereditati dal passato pre-
industriale che possono svolgere,
ancora oggi, una funzione
ambientale strategica per
garantire la sostenibilità degli
insediamenti.
La lettura della mappa di un
piano regolatore inoltre
trasferisce inevitabilmente
un’idea funzionalista della città:
la città della residenza, la città
della produzione, la città del
commercio, la città dei servizi.
Forme, luoghi e abitanti sono
indagati, ma sempre in forma
analitica. Manca però l’analisi
dell’interazione tra forme, luoghi
e abitanti. A volte perché viene
considerata una problematica
esterna alla disciplina, spesso
perché viene classificata tra gli
elementi da approfondire durante
le fasi di attuazione del Piano.
Gli strumenti urbanistici ci
danno quindi molte informazioni
nell’analisi delle singole parti,
ma ci dicono poco o nulla delle
interazioni che si generano tra
forme, luoghi e abitanti.
Questo tipo di cecità poteva
essere considerato un peccato
veniale quando ci si occupava
dell’espansione della città, ma
diventa una grave mancanza per i
Piani che hanno come obiettivo
la rigenerazione urbana.
Il rischio è che la scala di valori
che gli architetti condividono in
tema di qualità dei luoghi, valori
formali e spaziali, sia molto poco
universale. Di tutto ciò ci
parleranno il pedagogista
Amilcare Acerbi e l’architetto
Roberto Alessio nella quarta
conferenza intitolata “Forme,
luoghi, abitanti”.
Questo percorso, che si
dislocherà fisicamente in più
punti della città e
ideologicamente all’interno e
all’esterno di essa, ci condurrà a
una conversazione finale
condotta dall’architetto Stefano
Boeri in interazione con i
relatori che l’hanno preceduto, al
fine di trovare strategie e
politiche per la rigenerazione
urbana sostenibile che ci
mostreranno una possibile
“Prossima Città”.
Un percorso per scoprire
le potenzialità della città.
Un ciclo
di conferenze e dibattiti
pensate come
VOLARE
CON I PIEDI
A TERRA
Arch. Patrizia Cucco Commissione Urbanistica e Giovani
Ordine degli architetti pianificatori paesaggisti e conservatori della provincia di pavia
È attivo il sito www.passeggiateurbanistiche.eu
su cui verranno inseriti
tutti gli eventi e i
documenti legati
all’iniziativa e dove sono
indicati gli eventuali
contatti per ricevere
informazioni.
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 4
In occasione del 90° dell’inaugurazione della prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO e dell’idroscalo di Pavia, avvenuta il 1° aprile del 1926 a Pavia, il Club Vogatori Pavesi decise, alla fine dello scorso anno, di ricordare l’evento pubblicando una strenna natalizia dedicata all’argomento. Il libro è un nuovo esempio di storia aeronautica locale di grande interesse, che offre piccoli ma importanti contributi in vari settori. La storia dell’aviazione a Pavia è raccontata partendo dal più leggero dell’aria e dai tanti voli pionieristici che si sono svolti sul territorio provinciale. Seguono i capitoli dedicati alla Grande Guerra con la biografia dell’asso pavese Alessandro Buzio e il racconto dell’avventura vissuta dagli universitari pavesi dell’ASUP e il loro ruolo nella nascita del volo a vela in Italia. Nelle pagine successive altre biografie di piloti locali e la cronaca di numerosi eventi aviatori accaduti tra le due guerre completano questa prima trattazione. La parte finale e più lunga del libro è dedicata alla prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO, inaugurata il 1° aprile 1926 a Pavia, e agli idrovolanti della SISA che ammaravano sul Ticino avendo come base l’idroscalo di Pavia. Ed è con la storia di questo fabbricato, ancora esistente ma degradato, che si chiude il libro. Tra il 14 e il 17 aprile 2016, a novant’anni dall’apertura della linea, il Club Vogatori Pavesi presenterà alla cittadinanza la seconda fase della rievocazione storica con un programma che in questi giorni è in via di definizione. Fondamentale sarà il ruolo dell’Aero Club di Como, curatore dell’omonimo Idroscalo internazionale, che con i suoi idrovolanti sarà presente a Pavia durante la giornata conclusiva.
LA FINE DEL DIRIGIBILE F.1
A PAVIA L’ing. Enrico Forlanini aveva manifestato da tempo il desiderio di guidare il suo dirigibile F.1 (Leonardo da Vinci) a Pavia, forse
solo per rendere omaggio all’illustre fratello medico Carlo. Questa storia inizia alle ore 13:15 di martedì 1° febbraio 1910, quando il dirigibile Leonardo da Vinci uscì dall’hangar di Crescenzago con la prua rivolta
verso Pavia. Quando il dirigibile fu alle porte di Pavia l’orologio segnava pochi minuti dopo le 14:00. All’altezza delle prime case del rione di San Giuseppe improvvisamente si vide il dirigibile arrestare la sua corsa,
dondolare placidamente e poi scendere lento e maestoso in un
campo. I primi a giungere sul posto ebbero subito la notizia dell’irreparabile: un motorino secondario si era
improvvisamente guastato, il dirigibile era diventato ingovernabile, ecco il perché del forzato atterraggio. Sfortuna volle che durante questa manovra, mentre il dirigibile si stava adagiando sul campo, un
improvviso colpo di vento lo fece ondeggiare mandandolo a urtare contro i rami spogli di un albero. La parte superiore dell’involucro di seta si lacerò per un buon palmo e l’idrogeno cominciò a sfuggire dall’ovale. L’intenzione
dell’ing. Enrico Forlanini era quella di riparare i guasti al motore e tamponare la falla all’involucro per poi riprendere nella stessa serata il viaggio. Sarebbe bastata una scala
qualsiasi per raggiungere lo strappo e turare la falla, ma quando la scala giunse dopo due ore, già 1500 metri cubi d’idrogeno erano sfuggiti dall’involucro. La perdita del gas spinse Forlanini a prendere la
decisione estrema: smontare il dirigibile e trasportarlo in treno a Crescenzago. Occorsero due buone giornate di lavoro per smontare il dirigibile che non avrebbe più volato … mentre già
si stava pensando al ben più
grande successore, l’F. 2, battezzato poi Città di Milano.
UN AEREO SORVOLA
PER LA PRIMA VOLTA PAVIA La scarsa conoscenza del territorio italiano da parte del pilota svizzero Enrico Cobioni e l’incognita della nebbia suggerirono a Gianni Caproni e agli organizzatori del raid aereo
Vizzola Ticino-Aviano di modificare il piano di volo. Il corso del fiume Ticino fino alla confluenza con il Po sarebbe stato la rotta da seguire a bassa quota. Il Grande fiume avrebbe poi condotto il pilota sino al delta.
Raggiunto il mare, il nuovo monomotore Ca.12 con motore Anzani da 50 CV avrebbe seguito la costa dell’Adriatico per poi risalire il corso del Tagliamento
fino a Pordenone e quindi raggiungere Aviano. Grazie a questo cambiamento di rotta,
Pavia fu sorvolata per la prima volta da un aeroplano. La mattina del 16 aprile 1912 il pilota Cobioni decollò puntuale alle ore 5:40 dall’aeroporto di Vizzola Ticino. Come previsto dal piano di volo, l’aviatore seguì meticolosamente
il corso del Ticino, ansa dopo ansa, per transitare nel cielo di Pavia alle ore 6:30 a una altezza di circa 300 metri. I testimoni raccontarono di aver udito distintamente il rombo del motore
e di aver veduto il monoplano sorvolare Pavia solo per pochi attimi. Il commissario locale del Touring Club Italiano, avv. Giacomo Franchi, telegrafò alla Scuola Caproni confermando il passaggio del velivolo da Pavia e
così tutti gli altri osservatori dislocati nei vari punti di controllo posti lungo il Po a Casalmaggiore, Guastalla, Borgoforte, Ostiglia, Revere, Ficarolo, Ferrara e Adria. In quest’ultima località alle ore 9:40, dopo aver percorso 449
km. alla velocità media di 112 km/h, il pilota fu costretto ad atterrare in mezzo ai campi a causa di un eccessivo consumo del carburante, dovuto probabilmente al maltempo. Il
raid si rivelò comunque il volo più lungo senza tappe mai effettuato in Italia.
IL GRAN PREMIO DEI LAGHI
FA TAPPA A PAVIA Nei primi giorni dell’ottobre 1913 sui muri della nostra città comparvero dei manifesti che annunciavano il passaggio da
Pavia di una gara internazionale di idroaeroplani: Il Gran Premio
dei Laghi. La gara si basava essenzialmente su prove di abilità e destrezza da compiersi sul lago di Como, mentre un circuito di 370 km avrebbe messo a dura prova la resistenza degli aerei. Due le tappe previste. La prima il
6 ottobre: Como, Villa d’Este, Cadenabbia, Lecco, Lodi, Pizzighettone, Piacenza, Pavia (220 km circa); la seconda tappa il 7 ottobre: Pavia, Pallanza, Varese, Como (140 km circa).
Erano circa le dieci del 6 ottobre 1913 quando a Pavia, annunciati da un lontano ronzio, si avvistarono dei punti neri. Gli spettatori erano tutti con il naso all’insù, strizzavano gli occhi per focalizzare meglio le sagome,
spuntavano centinaia di indici per indicare le macchine volanti. Prima appena percettibile, dopo pochi attimi si poteva distinguere chiaramente la sagoma degli apparecchi che si inseguivano a qualche centinaio di metri l’uno
dall’altro. A poca distanza dal Confluente, il primo (il francese Chemet su monoplano Borel) si abbassò sfiorando l’acqua, infine si posò come una farfalla scivolando delicatamente sopra la
superficie argentea del fiume.
Dopo alcuni minuti l’attenzione si spostò sul secondo (il tedesco
Hirth su monoplano Albatros) e il terzo
apparecchio (il francese Morane su monoplano di sua costruzione), che ammararono felicemente uno dopo l’altro. Gli idrovolanti furono prontamente
rimorchiati dai pontoni del Genio nell’ampio bacino d’acqua alla confluenza del Naviglio Pavese con il Ticino. Dopo un’attesa di quasi un’ora apparve il quarto
e, purtroppo, ultimo concorrente dei quindici previsti. Era Fischer su biplano Farman (ore 11 e 10 minuti), che fece passare agli spettatori
qualche istante di
angoscia.
NASCE LA SEZIONE
VOLO A VELA
DELL’A.S.U.P. Forse un pizzico di follia ispirò alcuni universitari pavesi appartenenti all’A.S.U.P. (Associazione Studenti
Universitari Pavesi) che nel 1923 costituirono in città il gruppo volovelista. I giovani ticinesi avevano già dimostrato un certo interesse e qualche
passione per il volo a vela, ma la circostanza che determinò la costituzione del nucleo fu la pubblicazione del bando per la partecipazione al
Concorso internazionale di volo senza motore, che si sarebbe svolto nell’estate 1924, organizzato dalla Lega Aerea Nazionale in collaborazione
con la Gazzetta dello Sport. I giovani studenti dell’Ateneo pavese, in particolare i piloti Franco Segré, Ettore Cattaneo, Emanuele Cambilargiu furono sì i pionieri del volo a vela, ma
soprattutto i primi italiani che
conquistarono alcuni primati in
questa disciplina sportiva con gli alianti Goliardia e Febo Paglierini prima e con il G.P. 1 (dedicato a Giovanni Pirelli) poi. Gli studenti,
più che altro laureandi o neolaureati in medicina, erano dotati di grande entusiasmo, buona volontà e tanta voglia di
fare, ma non possedevano alcuna
esperienza nel settore del volo a vela
ALCUNI PILOTI PAVESI ...
I FRATELLI OPPIZZI, DUE PIONIERI
DELL’AERONAUTICA La città di Pavia può vantare tra i
suoi cittadini - caso più unico che raro - due fratelli pionieri dell’
Aeronautica: Piero e Edoardo Oppizzi. In Italia sono
considerati pionieri dell’Aeronautica coloro
che hanno acquisito il Brevetto di volo entro il 2 agosto 1914. I due giovani appartenenti a una facoltosa famiglia di avvocati e notai,
erano i figli dell’avvocato Giovanni, Segretario Generale del San Matteo. Frequentarono da giovanissimi
l’Accademia militare di Modena per poi essere entrambi destinati al 4° Reggimento Bersaglieri con il grado di sottotenenti.
La passione per il volo
li coinvolse non ancora trentenni e, come tanti altri militari di fanteria, chiesero di essere destinati al
Battaglione Aviatori. Sino al conseguimento del Brevetto di volo, la loro vita militare fu pressoché la medesima, poi le esigenze di servizio li
separarono. Dopo la prima esperienza aviatoria, solo Piero intraprese la carriera militare nell’Aeronautica,
mentre Edoardo trascorse un’esistenza più tranquilla, sempre in ambito militare.
UN TRAGICO DESTINO
PER ENRICO PETRELLA Nel settembre 1920 giunse a Mogadiscio il primo nucleo
distaccato dall’Aviazione dell’Eritrea al comando del
tenente pilota pavese Enrico Petrella: ne faceva parte dodici militari di truppa con il materiale per allestire i primi ricoveri. Il giovane, come tanti altri ragazzi della sua età, aveva concepito la
guerra e l’azione militare come
una grande avventura. Dopo un breve periodo di inattività a causa di una ferita di guerra, agli inizi del 1918 si arruolò nel Battaglione Scuola Aviatori e
frequentò il corso di pilotaggio sul campo di San Giusto a Pisa. In
alcune sue lettere Enrico racconta con grande semplicità, quasi con l’entusiasmo di un fanciullo, i suoi safari africani e la curiosità che destava tra le popolazioni indigene mentre volava con il suo apparecchio. Pare che lo
chiamassero tenente uccello. Erano più che altro voli di ricognizione quelli richiesti agli aviatori, nessun duello epico con il nemico, ma quasi esclusivamente monotoni sorvoli degli ondulati territori somali e
poi tante esercitazioni… Fu proprio nel corso di un’esercitazione aerea che Enrico Petrella perse la vita insieme al motorista civile Francesco Anselmo di Trapani,
probabilmente a causa di un
guasto al motore.
L’ASSO DELL’AERONAUTICA
ALESSANDRO BUZIO Statura 1,66 metri, capelli biondi e lisci, occhi celesti, colorito roseo, lentiggini sul viso: così sul foglio matricolare viene descritto Alessandro Buzio, l’unico pavese che può fregiarsi del titolo di asso dell’aviazione della Grande guerra
con cinque aerei abbattuti. Dei cinque aerei abbattuti da Buzio, uno non fu possibile identificarlo, tre erano dei Brandenburg C.1, mentre l’ultimo fu un Aviatik D.I. Diplomato in ragioneria, appassionato di nuoto, ciclismo e
moto, nel 1913 frequentò il corso allievi ufficiali di complemento nel 1° Reggimento Genio per poi essere assegnato nel 1914 al 5° Reggimento Genio come sottotenente. Nel mese di maggio
1915 Alessandro chiese di essere trasferito alla Direzione Tecnica dell’Aviazione e dal mese successivo fece parte come allievo del Battaglione Scuole Aviatori. Il 7 dicembre 1915 gli fu conferito il brevetto di pilota
militare, al quale fece seguito una breve esperienza come istruttore di volo. Il 24 aprile 1916 il biondo pavese fu assegnato alla neo costituita 75a Squadriglia dotata di velivoli Nieuport 11 di stanza a
Verona.
LA LINEA AEREA
TRIESTE-VENEZIA-PAVIA-TORINO L’esercizio della linea fu concesso alla S.I.S.A. (Società Italiana
Servizi Aerei) per la durata di dieci anni. La frequenza dei
viaggi, prima trisettimanale, diventò ben presto giornaliera. La copertura dell’intero tragitto di 575 chilometri era calcolata in 3 ore e 45 minuti di volo effettivo (senza scalo), ma il tempo impiegato in rifornimenti, sbarco
e imbarco dei passeggeri durante le soste intermedie di Venezia e Pavia portava il tempo totale a 4 ore e 30 minuti. Numeri degni della massima considerazione, perché la ferrovia impiegava un tempo tre volte maggiore per
compiere l’identico percorso. A Torino e a Pavia le stazioni di ricovero apparecchi erano sopraelevate sul pelo dell’acqua del fiume (mediante robusti piloni in cemento armato) e dotate di
scivolo con rotaie.
Oggi il fatiscente capannone su palafitta che sorge all’estremità orientale del Lungo Ticino Sforza di Pavia è sconosciuto a buona parte dei pavesi e con il trascorrere degli anni è diventato uno dei tanti misteri della nostra città. Questo edificio, quasi un sito di archeologia industriale, è ormai abbandonato da tempo e versa in stato di evidente degrado. Esso costituiva lo scalo dalla linea aerea per accogliere idrovolanti e passeggeri in transito, da cui il nome di idroscalo, anche se a Pavia è ancora chiamato semplicemente l’aeroporto.
GLI IDROVOLANTI
IN SERVIZIO SULLA LINEA
TRIESTE-TORINO A Pavia gli apparecchi ammaravano a valle del Ponte coperto, mentre passeggeri, merci e carico postale diretti a
Milano erano trasportati via terra con automezzi della compagnia aerea. Agli idrovolanti Cant. 10 ter e Cant. 22 fu affidato il compito di garantire il trasporto dei passeggeri e delle merci sulla linea aerea Trieste-Torino. Nel
corso dei primi due anni di esercizio delle linee commerciali SISA furono impiegati solo i Cant. 10 ter. Si trattava di un idrovolante civile biplano a scafo centrale monomotore: lo scafo centrale garantiva il
sostentamento idrostatico, mentre sotto le ali inferiori vi
erano dei piccoli galleggianti per la stabilità trasversale. Contava due persone di equipaggio e poteva trasportare quattro passeggeri. Dal 1928 furono messi in linea anche i più generosi Cant. 22, che
condivisero con i più piccoli predecessori l’attività della compagnia aerea di Trieste. Per i non addetti ai lavori, questo esemplare d’idrovolante era facilmente riconoscibile dal Cant. 10 ter prima di tutto per la mole e
poi per i tre motori interamente carenati disposti sui rispettivi castelli tra le ali. Il Cant. 22 era definito un idrovolante biplano trimotore a scafo centrale. Poteva trasportare nove-dieci passeggeri.
L’INAUGURAZIONE Nei primi mesi del 1926 la frequenza dei sorvoli sul Ticino era aumentata e le manovre di avvicinamento degli idrovolanti a
Pavia s’intensificarono. Spesso, tra lo stupore e la meraviglia dei passanti, i Cant. 10 si abbassavano con cautela (non era ancora in funzione la sirena di avviso per le imbarcazioni) e ammaravano delicatamente
contro corrente con la prua rivolta verso il Ponte coperto. Si capiva da questo intensificarsi dei voli di prova che l’inaugurazione era ormai imminente. Effettuato il collaudo definitivo del 27 marzo 1926, giunse la notizia tanto
attesa: giovedì 1° aprile 1926 sarebbe stato il giorno inaugurale della Trieste-Venezia-Pavia-Torino. Una decisione non esente da critiche e battute ironiche sulla data scelta per la manifestazione,
proprio quella che la tradizione vuole dedicata alle burle e agli scherzi. Tanto è vero che quando giunse la notizia dell’imminente visita di Benito Mussolini, in un primo tempo gli organizzatori dubitarono dell’autenticità della
notizia considerandola un “pesce d’aprile”! L’inaugurazione era stata così organizzata: due idrovolanti Cant. 10 ter verniciati color argento sarebbero partiti da
Trieste e altri due da Torino. Le due coppie, provenienti da
direzioni opposte, avrebbero fatto scalo a Pavia, dove si sarebbe svolta la cerimonia ufficiale alla presenza del Capo del Governo.
Seguono alcuni brani e-stratti dal libro
Ali e motori nei cieli pavesi,
il loro testo è stato
adattato e ridotto per questa particolare
circostanza. Le immagini pubblicate
provengono dalla collezione privata
di Pietro Ferrari, dalla collezione privata
Morani Erba, dall’Archivio Fotografico
IPSREC, dall’Archivio dell’Aero Club di Como,
dall’Archivio personale di Giovanni Oppizzi,
dall’Archivio Ufficio
Storico Stato Maggiore Aeronautica di Roma.
cm 21x25 - pp. 256 - Prezzo di copertina: € 20,00 In vendita presso Librerie di Pavia: Delfino, De Bernardi e CLU
Librerie di Voghera: Ticinum e Bottazzi - Editrice PIME
Il Leonardo da Vinci (F.1) sorvola il
ponte della ferrovia sul Naviglio Pavese a nord di Pavia, 1910
Un aeroplano sorvola Pavia per la prima volta. È il monoplano Caproni Ca 12 di Enrico Cobioni, 1912
Il pontone del Reggimento Genio di Pavia si avvicina
all’idroplano di Morone per rimorchiarlo a riva mentre un altro apparecchio ammara sul Ticino, 1913
Il volto sorridente dell’aviatore pavese Edoardo Oppizzi
L’aviatore pavese Piero Oppizzi accanto al re d’Italia Vittorio Emanuele III, 1917
Il sottotenente aviatore Enrico
Petrella del 12° Reggimento Bersaglieri, 1916
Pagina 5 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016
VIA DARSENA, SERGIO MAGGI (PISY)
In occasione del 90° dell’inaugurazione della prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO e dell’idroscalo di Pavia, avvenuta il 1° aprile del 1926 a Pavia, il Club Vogatori Pavesi decise, alla fine dello scorso anno, di ricordare l’evento pubblicando una strenna natalizia dedicata all’argomento. Il libro è un nuovo esempio di storia aeronautica locale di grande interesse, che offre piccoli ma importanti contributi in vari settori. La storia dell’aviazione a Pavia è raccontata partendo dal più leggero dell’aria e dai tanti voli pionieristici che si sono svolti sul territorio provinciale. Seguono i capitoli dedicati alla Grande Guerra con la biografia dell’asso pavese Alessandro Buzio e il racconto dell’avventura vissuta dagli universitari pavesi dell’ASUP e il loro ruolo nella nascita del volo a vela in Italia. Nelle pagine successive altre biografie di piloti locali e la cronaca di numerosi eventi aviatori accaduti tra le due guerre completano questa prima trattazione. La parte finale e più lunga del libro è dedicata alla prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO, inaugurata il 1° aprile 1926 a Pavia, e agli idrovolanti della SISA che ammaravano sul Ticino avendo come base l’idroscalo di Pavia. Ed è con la storia di questo fabbricato, ancora esistente ma degradato, che si chiude il libro. Tra il 14 e il 17 aprile 2016, a novant’anni dall’apertura della linea, il Club Vogatori Pavesi presenterà alla cittadinanza la seconda fase della rievocazione storica con un programma che in questi giorni è in via di definizione. Fondamentale sarà il ruolo dell’Aero Club di Como, curatore dell’omonimo Idroscalo internazionale, che con i suoi idrovolanti sarà presente a Pavia durante la giornata conclusiva.
LA FINE DEL DIRIGIBILE F.1
A PAVIA L’ing. Enrico Forlanini aveva manifestato da tempo il desiderio di guidare il suo dirigibile F.1 (Leonardo da Vinci) a Pavia, forse
solo per rendere omaggio all’illustre fratello medico Carlo. Questa storia inizia alle ore 13:15 di martedì 1° febbraio 1910, quando il dirigibile Leonardo da Vinci uscì dall’hangar di Crescenzago con la prua rivolta
verso Pavia. Quando il dirigibile fu alle porte di Pavia l’orologio segnava pochi minuti dopo le 14:00. All’altezza delle prime case del rione di San Giuseppe improvvisamente si vide il dirigibile arrestare la sua corsa,
dondolare placidamente e poi scendere lento e maestoso in un
campo. I primi a giungere sul posto ebbero subito la notizia dell’irreparabile: un motorino secondario si era
improvvisamente guastato, il dirigibile era diventato ingovernabile, ecco il perché del forzato atterraggio. Sfortuna volle che durante questa manovra, mentre il dirigibile si stava adagiando sul campo, un
improvviso colpo di vento lo fece ondeggiare mandandolo a urtare contro i rami spogli di un albero. La parte superiore dell’involucro di seta si lacerò per un buon palmo e l’idrogeno cominciò a sfuggire dall’ovale. L’intenzione
dell’ing. Enrico Forlanini era quella di riparare i guasti al motore e tamponare la falla all’involucro per poi riprendere nella stessa serata il viaggio. Sarebbe bastata una scala
qualsiasi per raggiungere lo strappo e turare la falla, ma quando la scala giunse dopo due ore, già 1500 metri cubi d’idrogeno erano sfuggiti dall’involucro. La perdita del gas spinse Forlanini a prendere la
decisione estrema: smontare il dirigibile e trasportarlo in treno a Crescenzago. Occorsero due buone giornate di lavoro per smontare il dirigibile che non avrebbe più volato … mentre già
si stava pensando al ben più
grande successore, l’F. 2, battezzato poi Città di Milano.
UN AEREO SORVOLA
PER LA PRIMA VOLTA PAVIA La scarsa conoscenza del territorio italiano da parte del pilota svizzero Enrico Cobioni e l’incognita della nebbia suggerirono a Gianni Caproni e agli organizzatori del raid aereo
Vizzola Ticino-Aviano di modificare il piano di volo. Il corso del fiume Ticino fino alla confluenza con il Po sarebbe stato la rotta da seguire a bassa quota. Il Grande fiume avrebbe poi condotto il pilota sino al delta.
Raggiunto il mare, il nuovo monomotore Ca.12 con motore Anzani da 50 CV avrebbe seguito la costa dell’Adriatico per poi risalire il corso del Tagliamento
fino a Pordenone e quindi raggiungere Aviano. Grazie a questo cambiamento di rotta,
Pavia fu sorvolata per la prima volta da un aeroplano. La mattina del 16 aprile 1912 il pilota Cobioni decollò puntuale alle ore 5:40 dall’aeroporto di Vizzola Ticino. Come previsto dal piano di volo, l’aviatore seguì meticolosamente
il corso del Ticino, ansa dopo ansa, per transitare nel cielo di Pavia alle ore 6:30 a una altezza di circa 300 metri. I testimoni raccontarono di aver udito distintamente il rombo del motore
e di aver veduto il monoplano sorvolare Pavia solo per pochi attimi. Il commissario locale del Touring Club Italiano, avv. Giacomo Franchi, telegrafò alla Scuola Caproni confermando il passaggio del velivolo da Pavia e
così tutti gli altri osservatori dislocati nei vari punti di controllo posti lungo il Po a Casalmaggiore, Guastalla, Borgoforte, Ostiglia, Revere, Ficarolo, Ferrara e Adria. In quest’ultima località alle ore 9:40, dopo aver percorso 449
km. alla velocità media di 112 km/h, il pilota fu costretto ad atterrare in mezzo ai campi a causa di un eccessivo consumo del carburante, dovuto probabilmente al maltempo. Il
raid si rivelò comunque il volo più lungo senza tappe mai effettuato in Italia.
IL GRAN PREMIO DEI LAGHI
FA TAPPA A PAVIA Nei primi giorni dell’ottobre 1913 sui muri della nostra città comparvero dei manifesti che annunciavano il passaggio da
Pavia di una gara internazionale di idroaeroplani: Il Gran Premio
dei Laghi. La gara si basava essenzialmente su prove di abilità e destrezza da compiersi sul lago di Como, mentre un circuito di 370 km avrebbe messo a dura prova la resistenza degli aerei. Due le tappe previste. La prima il
6 ottobre: Como, Villa d’Este, Cadenabbia, Lecco, Lodi, Pizzighettone, Piacenza, Pavia (220 km circa); la seconda tappa il 7 ottobre: Pavia, Pallanza, Varese, Como (140 km circa).
Erano circa le dieci del 6 ottobre 1913 quando a Pavia, annunciati da un lontano ronzio, si avvistarono dei punti neri. Gli spettatori erano tutti con il naso all’insù, strizzavano gli occhi per focalizzare meglio le sagome,
spuntavano centinaia di indici per indicare le macchine volanti. Prima appena percettibile, dopo pochi attimi si poteva distinguere chiaramente la sagoma degli apparecchi che si inseguivano a qualche centinaio di metri l’uno
dall’altro. A poca distanza dal Confluente, il primo (il francese Chemet su monoplano Borel) si abbassò sfiorando l’acqua, infine si posò come una farfalla scivolando delicatamente sopra la
superficie argentea del fiume.
Dopo alcuni minuti l’attenzione si spostò sul secondo (il tedesco
Hirth su monoplano Albatros) e il terzo
apparecchio (il francese Morane su monoplano di sua costruzione), che ammararono felicemente uno dopo l’altro. Gli idrovolanti furono prontamente
rimorchiati dai pontoni del Genio nell’ampio bacino d’acqua alla confluenza del Naviglio Pavese con il Ticino. Dopo un’attesa di quasi un’ora apparve il quarto
e, purtroppo, ultimo concorrente dei quindici previsti. Era Fischer su biplano Farman (ore 11 e 10 minuti), che fece passare agli spettatori
qualche istante di
angoscia.
NASCE LA SEZIONE
VOLO A VELA
DELL’A.S.U.P. Forse un pizzico di follia ispirò alcuni universitari pavesi appartenenti all’A.S.U.P. (Associazione Studenti
Universitari Pavesi) che nel 1923 costituirono in città il gruppo volovelista. I giovani ticinesi avevano già dimostrato un certo interesse e qualche
passione per il volo a vela, ma la circostanza che determinò la costituzione del nucleo fu la pubblicazione del bando per la partecipazione al
Concorso internazionale di volo senza motore, che si sarebbe svolto nell’estate 1924, organizzato dalla Lega Aerea Nazionale in collaborazione
con la Gazzetta dello Sport. I giovani studenti dell’Ateneo pavese, in particolare i piloti Franco Segré, Ettore Cattaneo, Emanuele Cambilargiu furono sì i pionieri del volo a vela, ma
soprattutto i primi italiani che
conquistarono alcuni primati in
questa disciplina sportiva con gli alianti Goliardia e Febo Paglierini prima e con il G.P. 1 (dedicato a Giovanni Pirelli) poi. Gli studenti,
più che altro laureandi o neolaureati in medicina, erano dotati di grande entusiasmo, buona volontà e tanta voglia di
fare, ma non possedevano alcuna
esperienza nel settore del volo a vela
ALCUNI PILOTI PAVESI ...
I FRATELLI OPPIZZI, DUE PIONIERI
DELL’AERONAUTICA La città di Pavia può vantare tra i
suoi cittadini - caso più unico che raro - due fratelli pionieri dell’
Aeronautica: Piero e Edoardo Oppizzi. In Italia sono
considerati pionieri dell’Aeronautica coloro
che hanno acquisito il Brevetto di volo entro il 2 agosto 1914. I due giovani appartenenti a una facoltosa famiglia di avvocati e notai,
erano i figli dell’avvocato Giovanni, Segretario Generale del San Matteo. Frequentarono da giovanissimi
l’Accademia militare di Modena per poi essere entrambi destinati al 4° Reggimento Bersaglieri con il grado di sottotenenti.
La passione per il volo
li coinvolse non ancora trentenni e, come tanti altri militari di fanteria, chiesero di essere destinati al
Battaglione Aviatori. Sino al conseguimento del Brevetto di volo, la loro vita militare fu pressoché la medesima, poi le esigenze di servizio li
separarono. Dopo la prima esperienza aviatoria, solo Piero intraprese la carriera militare nell’Aeronautica,
mentre Edoardo trascorse un’esistenza più tranquilla, sempre in ambito militare.
UN TRAGICO DESTINO
PER ENRICO PETRELLA Nel settembre 1920 giunse a Mogadiscio il primo nucleo
distaccato dall’Aviazione dell’Eritrea al comando del
tenente pilota pavese Enrico Petrella: ne faceva parte dodici militari di truppa con il materiale per allestire i primi ricoveri. Il giovane, come tanti altri ragazzi della sua età, aveva concepito la
guerra e l’azione militare come
una grande avventura. Dopo un breve periodo di inattività a causa di una ferita di guerra, agli inizi del 1918 si arruolò nel Battaglione Scuola Aviatori e
frequentò il corso di pilotaggio sul campo di San Giusto a Pisa. In
alcune sue lettere Enrico racconta con grande semplicità, quasi con l’entusiasmo di un fanciullo, i suoi safari africani e la curiosità che destava tra le popolazioni indigene mentre volava con il suo apparecchio. Pare che lo
chiamassero tenente uccello. Erano più che altro voli di ricognizione quelli richiesti agli aviatori, nessun duello epico con il nemico, ma quasi esclusivamente monotoni sorvoli degli ondulati territori somali e
poi tante esercitazioni… Fu proprio nel corso di un’esercitazione aerea che Enrico Petrella perse la vita insieme al motorista civile Francesco Anselmo di Trapani,
probabilmente a causa di un
guasto al motore.
L’ASSO DELL’AERONAUTICA
ALESSANDRO BUZIO Statura 1,66 metri, capelli biondi e lisci, occhi celesti, colorito roseo, lentiggini sul viso: così sul foglio matricolare viene descritto Alessandro Buzio, l’unico pavese che può fregiarsi del titolo di asso dell’aviazione della Grande guerra
con cinque aerei abbattuti. Dei cinque aerei abbattuti da Buzio, uno non fu possibile identificarlo, tre erano dei Brandenburg C.1, mentre l’ultimo fu un Aviatik D.I. Diplomato in ragioneria, appassionato di nuoto, ciclismo e
moto, nel 1913 frequentò il corso allievi ufficiali di complemento nel 1° Reggimento Genio per poi essere assegnato nel 1914 al 5° Reggimento Genio come sottotenente. Nel mese di maggio
1915 Alessandro chiese di essere trasferito alla Direzione Tecnica dell’Aviazione e dal mese successivo fece parte come allievo del Battaglione Scuole Aviatori. Il 7 dicembre 1915 gli fu conferito il brevetto di pilota
militare, al quale fece seguito una breve esperienza come istruttore di volo. Il 24 aprile 1916 il biondo pavese fu assegnato alla neo costituita 75a Squadriglia dotata di velivoli Nieuport 11 di stanza a
Verona.
LA LINEA AEREA
TRIESTE-VENEZIA-PAVIA-TORINO L’esercizio della linea fu concesso alla S.I.S.A. (Società Italiana
Servizi Aerei) per la durata di dieci anni. La frequenza dei
viaggi, prima trisettimanale, diventò ben presto giornaliera. La copertura dell’intero tragitto di 575 chilometri era calcolata in 3 ore e 45 minuti di volo effettivo (senza scalo), ma il tempo impiegato in rifornimenti, sbarco
e imbarco dei passeggeri durante le soste intermedie di Venezia e Pavia portava il tempo totale a 4 ore e 30 minuti. Numeri degni della massima considerazione, perché la ferrovia impiegava un tempo tre volte maggiore per
compiere l’identico percorso. A Torino e a Pavia le stazioni di ricovero apparecchi erano sopraelevate sul pelo dell’acqua del fiume (mediante robusti piloni in cemento armato) e dotate di
scivolo con rotaie.
Oggi il fatiscente capannone su palafitta che sorge all’estremità orientale del Lungo Ticino Sforza di Pavia è sconosciuto a buona parte dei pavesi e con il trascorrere degli anni è diventato uno dei tanti misteri della nostra città. Questo edificio, quasi un sito di archeologia industriale, è ormai abbandonato da tempo e versa in stato di evidente degrado. Esso costituiva lo scalo dalla linea aerea per accogliere idrovolanti e passeggeri in transito, da cui il nome di idroscalo, anche se a Pavia è ancora chiamato semplicemente l’aeroporto.
GLI IDROVOLANTI
IN SERVIZIO SULLA LINEA
TRIESTE-TORINO A Pavia gli apparecchi ammaravano a valle del Ponte coperto, mentre passeggeri, merci e carico postale diretti a
Milano erano trasportati via terra con automezzi della compagnia aerea. Agli idrovolanti Cant. 10 ter e Cant. 22 fu affidato il compito di garantire il trasporto dei passeggeri e delle merci sulla linea aerea Trieste-Torino. Nel
corso dei primi due anni di esercizio delle linee commerciali SISA furono impiegati solo i Cant. 10 ter. Si trattava di un idrovolante civile biplano a scafo centrale monomotore: lo scafo centrale garantiva il
sostentamento idrostatico, mentre sotto le ali inferiori vi
erano dei piccoli galleggianti per la stabilità trasversale. Contava due persone di equipaggio e poteva trasportare quattro passeggeri. Dal 1928 furono messi in linea anche i più generosi Cant. 22, che
condivisero con i più piccoli predecessori l’attività della compagnia aerea di Trieste. Per i non addetti ai lavori, questo esemplare d’idrovolante era facilmente riconoscibile dal Cant. 10 ter prima di tutto per la mole e
poi per i tre motori interamente carenati disposti sui rispettivi castelli tra le ali. Il Cant. 22 era definito un idrovolante biplano trimotore a scafo centrale. Poteva trasportare nove-dieci passeggeri.
L’INAUGURAZIONE Nei primi mesi del 1926 la frequenza dei sorvoli sul Ticino era aumentata e le manovre di avvicinamento degli idrovolanti a
Pavia s’intensificarono. Spesso, tra lo stupore e la meraviglia dei passanti, i Cant. 10 si abbassavano con cautela (non era ancora in funzione la sirena di avviso per le imbarcazioni) e ammaravano delicatamente
contro corrente con la prua rivolta verso il Ponte coperto. Si capiva da questo intensificarsi dei voli di prova che l’inaugurazione era ormai imminente. Effettuato il collaudo definitivo del 27 marzo 1926, giunse la notizia tanto
attesa: giovedì 1° aprile 1926 sarebbe stato il giorno inaugurale della Trieste-Venezia-Pavia-Torino. Una decisione non esente da critiche e battute ironiche sulla data scelta per la manifestazione,
proprio quella che la tradizione vuole dedicata alle burle e agli scherzi. Tanto è vero che quando giunse la notizia dell’imminente visita di Benito Mussolini, in un primo tempo gli organizzatori dubitarono dell’autenticità della
notizia considerandola un “pesce d’aprile”! L’inaugurazione era stata così organizzata: due idrovolanti Cant. 10 ter verniciati color argento sarebbero partiti da
Trieste e altri due da Torino. Le due coppie, provenienti da
direzioni opposte, avrebbero fatto scalo a Pavia, dove si sarebbe svolta la cerimonia ufficiale alla presenza del Capo del Governo.
cm 21x25 - pp. 256 - Prezzo di copertina: € 20,00 In vendita presso Librerie di Pavia: Delfino, De Bernardi e CLU
Librerie di Voghera: Ticinum e Bottazzi - Editrice PIME
Il pontone del Reggimento Genio di Pavia si avvicina
all’idroplano di Morone per rimorchiarlo a riva mentre un altro apparecchio ammara sul Ticino, 1913
Il biplano Nieuport 11 (matricola Ni 1763) pilotato da Alessandro Buzio, 1916
Cartolina postale
della sezione volo a vela dell’A.S.U.P.
Cartolina postale emessa il giorno dell’inaugurazione della prima linea aerea commerciale italiana, 1926
Il sottotenente aviatore Enrico
Petrella del 12° Reggimento Bersaglieri, 1916
A sinistra Una bella immagine dell’idroscalo di Pavia con due idrovolanti ormeggiati. A sinistra il Cant. 22 I-AAOX San Sebastiano, immatricolato nel luglio 1930 e radiato nel 1937; a destra il Cant. 10 I-OLTA, il primo della serie di questo tipo di velivoli. Immatricolato nell’agosto 1925,
fu radiato nel 1930. La foto è sicuramente del 1930
A destra L’inaugurazione: una imponente e disciplinata folla attende l’arrivo del duce Benito Mussolini, 1926
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 6
MARCELLO PIRRO
Fu questa la singolare
visione, attraverso le
vetrate di una galleria
d’arte che affacciava
su di un rio, dietro
il Gran Teatro La Fenice,
che mi introdusse (forse
erano i primi anni
Settanta) al multiforme
lavoro di Marcello Pirro. Personaggio, appunto, dalle molte
sfaccettature; pugliese di
Apricena del Gargano, ma
emigrato per amore a Venezia.
Poeta amico di poeti. Artista
poliedrico amico di artisti, ma
soprattutto di artigiani. Con i
quali, da pari a pari, democratica-
mente collaborava per la
realizzazione delle sue opere. Con
i falegnami dello squero (il
cantiere delle gondole), con i
fabbri (Calle dei Fabbri è dietro la
casa che abitò nei pressi di Cà
Foscari), con i doratori e con i
laccatori, depositari delle antiche
abilità della Venezia dei Dogi.
Con gli stampatori (Fiorenzo
Fallani fra tutti, che Marcello mi
presentò un giorno mentre era
intento a numerare e firmare una
tiratura di acqueforti, contempora-
neamente a una seconda di strane
serigrafie vellutate). Con i
tipografi che componevano a
caratteri bodoniani le sue liriche,
a fianco del testo manoscritto
spesso illustrato dai suoi uccelli
del paradiso in volo o da
fantasiosi personaggi. Un piccolo
uomo vulcanico, massiccio di
corporatura («sono figlio di
contadini e cavapietre»), con la
risata contagiosa dei malinconici
e il viso rubizzo. Non solo per la
bora della laguna o il vento di
maestrale abituali tra campi e
campielli; anche per una
piacevole ma insistita
frequentazione di bacari e
hostarie, sempre pronto tra una
sigaretta e l’altra (tabacco giallo
francese delle Gauloises) a offrire
cicchetti di prosecco o di spritz
triestini, abitudine del lungo
soggiorno sotto il Castello di San
Giusto durante il tempo della
naia.
(a pagina 7)
Giorgio Forni
Coleottero Formicone Mantide
Cigno
Caro Pablo Gru In amore
(laccato e dorato)
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
Pagina 7 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016
Da Trieste portò nel cuore le
liriche di Slataper, il profumo e
spesso la lingua dei versi di Saba
e Pasolini e la memoria di Svevo.
Insomma un crogiuolo ribollente
di sangue terrone e di pensiero
mitteleuropeo.
A Venezia trovò Fabia, bionda e
dolcissima, con cui ebbe due figli
che conobbi tenerelli, prima che il
matrimonio naufragasse. La cosa
aumentò il tasso alcolico di
Marcello, ma non fermò la sua
creatività. Tra Spilimbergo e
Ravenna a fare mosaici e a tenere
corsi alle accademie; a Bologna
con Pagliarani e Dalla, di cui
divenne una quasi già invecchiata
controfigura.
A Milano con Raboni e
Morandini. Tavolo fisso al
Giamaica di Brera, già “in grana”
nei primi sessanta per una abilità
grafica sorprendente messa a
frutto con il nascente new
advertising.
Dissipatore del suo denaro per
progetti tanto ambiziosi quanto
elitari. Riviste di arti visive e
letteratura (che chiudevano dopo
pochi numeri, “La Città” che
Pirro diresse e compilò dal
febbraio al dicembre ‘64), ma
illustrate da lavori originali di
“colleghi” quali Vedova e Guidi,
Cadorin e Tancredi, Romagnoni e
Dova, Manzoni e Pascali, figure
iconiche del realismo esistenziale
e della nascente arte concettuale.
Trasversale nelle amicizie e nelle
correnti artistiche, pensiero libero
donchisciottesco, ovviamente
senza rapporti stabili e strutturati
con galleristi. E di riflesso con il
mercato. Vita da bohème e da
maudit nei tempi di magra, da
mecenate sostenitore di colleghi
in difficoltà in quelle di vacche
grasse. Sempre generoso di sé e di
quanto avesse.
Un bel personaggio insomma,
difficile da inquadrare, con scarso
controllo, ma capace di costruire
relazioni come mai altri io abbia
visto. Sempre sopra le righe e
costantemente, negli ultimi anni
in particolare, sempre più deluso
(o disilluso) nelle sue battaglie
con i mulini a vento.
Meglio di me lo potranno
descrivere i testi di Giovanni
Raboni (in alto, la riproduzione),
Luciano Morandini e Felice
Chilanti, tratti da un prezioso
libro giornale del 1977.
Vogliamo però ricordarlo come
storici amici e sostenitori del suo
lavoro artistico, ricordandolo
proprio con le immagini di quel
bestiario-pollaio-bacheca
antropologica e zoo domestico
fatto di forche e badili, zappe e
vomeri contadini.
Saldati a costruire coleotteri
ingigantiti dai colori più
splendenti di quelli in natura, con
le antenne e le elitre
pericolosamente appuntite perché
terminali di forconi da fieno.
(da pagina 6)
(a pagina 8)
… Il mistero di quel ragazzo
così legato alla sua terra ...
e nello stesso tempo così europeo ...
Carlo Marx Il suicidio del cigno
Il mio cuore per gli altri
Il riccio. Omaggio a Tancredi
Viva l’Italia Luna rossa
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 8
Anche con la serie dei “Narcisi”,
fantastici ovali in tondino di ferro
a incorniciare personaggi surreali
e metafisici. Pirro fu anche
intrigato dal teatro e dal balletto,
forse… per le colazioni con
Picasso ai tavoli della trattoria
veneziana “La Colomba”, o “alla
Madonna” o “da Montin”,
all’angolo di casa sua. Molte di
queste opere sono custodite ed
esposte in alcune sale del castello
di Sartirana. Bozzetti per il
“Lago dei cigni” preparati con
badili dorati capovolti a simulare
il dorso del cigno con il collo
formato dal dolfin (ferro di prua
rastremato delle gondole
veneziane), ma anche solidi
geometrici, ruotanti in cornici
simili a quelle dei narcisi, con
all’interno sfere metalliche.
Proposti per un balletto di
Maurice Bejart dedicato ai
tamburi da pioggia thailandesi. I
ballerini danzando sulla scena
avrebbero provocato,
muovendoli, rumori ad evocare
le prime gocce monsoniche.
Vibrazioni e “rumori” tipici della
musica sperimentale degli anni
sessanta. Nono, Cage,
Stockhausen: tutti personaggi che
a Venezia erano di casa e… suoi
conoscenti.
Dagli anni Ottanta felicemente
organizzammo mostre di
Marcello Pirro ai Musei Civici di
Pavia e ai collegi universitari
Castiglioni e Cairoli, ai castelli di
Vigevano e di Abbiategrasso. In
permanenza, come dicevamo, a
Sartirana.
Una cosa mi preme ancora
ricordare. Lo splendido e
sconosciuto grande mosaico
(particolare in foto) realizzato
con i sassi del Ticino che Pirro,
durante il suo soggiorno a Pavia,
donò alla città. Costruito (e
imprigionato perché troppo
grande) nella sala del Consiglio
di Quartiere di San Pietro.
A quasi otto anni dalla
scomparsa lo vogliamo ricordare
con le immagini di molti suoi
lavori che ci apprestiamo a
portare alla Farnesina negli spazi
per l’arte contemporanea del
Ministero Affari Esteri e in
autunno al Museo Etnografico di
Lubiana.
Giorgio Forni
(da pagina 7)
Mostre a Pavia, Vigevano, Abbiategrasso
La permanente a Sartirana
Presto alla Farnesina; in autunno a Lubiana