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Page 1: Friedrich Nietzsche - Nietzsche Contra Wagner

NIETZSCHE CONTRA WAGNER Documenti di uno psicologo

1889

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Traduzione condotta sull'originale tedesco «Nietzsche contra Wagner», in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vi, 3. Walter de Gruyter, Berlin - New York, 1969. Traduzione di Mirella Ulivieri

Per I'«Introduzione» a questo saggio, si faccia riferimento aH'«Introduzione» di Italo Alighiero Chiusano a «Richard Wagner a Bayreuth», contenuta nel primo volume di questa edizione.

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Prefazione

I capitoli che seguono sono tutti scelti, non senza attenzione, dai miei scritti precedenti — alcuni risalgono al 1877 —, chiariti forse qua e là, e so­prattutto abbreviati. Letti uno dopo l'altro, non lasceranno alcun dubbio né su Richard Wagner né su di me: noi siamo antipodi. Essi faranno capire anche altre cose: per esempio che questo è un saggio per psicologi, non per Tedeschi... Ho lettori ovunque, a Vienna, a Pietroburgo, a Copenaghen e a Stoccolma, a Parigi, New York — non li ho in Germania, la pianura d'Europa... E avrei forse da dire una parola all'orecchio anche ai signori Italiani, che amo tanto quanto... Quosque tandem, Crispi... Triple Allian-ce: con il «Reich» un popolo intelligente farà sempre e soltanto una mesai­llance...

Friedrich Nietzsche

Torino, Natale 1888

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Dove ammiro Credo che spesso gli artisti non sappiano quel che loro riesce meglio: so­

no troppo vanitosi per saperlo. Il loro animo è rivolto a qualcosa di più su-perbo.cne non sembrino essere quelle pianticelle che, nuove, strane e belle, in reale perfezione, sanno crescere sul loro terreno. A quanto di buono è prodotto dal loro orto e dalla loro vigna guardano con sprezzante noncu­ranza; amore e perspicacia in essi non sono di pari livello. Ecco un musici­sta che più di ogni altro è maestro nel trar suoni dal regno delle anime do­lorose, oppresse, martoriate, e nel dar voce anche alla muta miseria. Nes­suno lo uguaglia nei colori del tardo autunno, nella felicità indescrivibil­mente toccante di un ultimo, ultimissimo, brevissimo godere; se trovare un suono per quelle quietamente inquietanti mezzanotti dell'anima, in cui causa ed effetto sembrano essersi perduti e a ogni istante qualcosa può sor­gere «dal nulla». Più felicemente di ogni altro egli crea dal più remoto fon­do del destino umano e per così dire dalla sua coppa svuotata, dove le goc­ce più aspre e ripugnanti formano alla fine un dolceamaro miscuglio con quelle più soavi. Conosce quello stanco arrancare dell'anima che non sa più saltare e volare, anzi nemmeno più camminare; ha lo sguardo schivo del dolore occulto, della comprensione senza conforto, del congedo senza confessione; anzi, come Orfeo di ogni segreta miseria egli è più grande di chiunque altro che finora sembrava inesprimibile e persino indegna di essa — per esempio le ciniche rivolte di cui solo è capace chi più soffre, e così pure molte piccolissime e microscopiche cose dell'anima, le squame per co­sì dire, della sua natura anfibia — egli è anzi il maestro del piccolissimo. Ma non vuole esserlo! Il suo carattere ama invece le grandi pareti e gli ardi­ti affreschi!... Gli sfugge che il suo spirito ha un altro gusto e un'altra pro­pensione — un'ottica antitetica — e più di ogni altra cosa ama starsene quietamente negli angoli di casa in rovina: lì, nascosto, nascosto a se stes­so, dipinge i suoi veri capolavori, che sono tutti molto brevi, spesso di una sola battuta, — soltanto là egli diventa squisito, grande e perfetto, forse unico. — Wagner è un uomo che ha profondamente sofferto — questa è la sua superiorità sugli altri musicisti. — Ammiro Wagner ovunque egli metta in musica se stesso. —

Dove faccio obiezioni

Ciò non significa che io ritenga sana questa musica, meno che mai pro­prio là dove essa parla di Wagner. Le mie obiezioni alla musica di Wagner sono obiezioni fisiologiche: a che scopo camuffarle ancora sotto formule estetiche? L'estetica già non è altro che una fisiologia applicata. — Il mio «fatto», il mio «petit fait vrai» è che non respiro più con facilità, quando questa musica comincia ad agire su di me; è che subito il mio piede si adira

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e si rivolta contro di essa: ha bisogno di cadenza, di danza, di marcia — sulla danza imperiale di Wagner non potrebbe marciare nemmeno il giova­ne imperatore tedesco —, esige dalla musica soprattutto le delizie riposte in un bell' andare, in un bell'incedere, in un bel danzare. Ma non protesta an­che il mio stomaco? il mio cuore? la mia circolazione sanguigna? non si turbano le mie viscere? Non divento improvvisamente rauco?... Per ascol­tare Wagner ho bisogno di pastilles Gérandel... E così mi chiedo: che cosa vuole effettivamente tutto il mio corpo dalla musica in genere? Giacché l'anima non esiste... Credo che voglia un alleggerimento: come se tutte le funzioni animali dovessero venir accelerate da ritmi lievi, arditi, distesi, si­curi di sé; come se la vita ferrea, la vita plumbea dovesse perdere la sua pe­santezza ad opera di melodie dorate, delicate, simili a olio. La mia malin­conia vuol riposare negli anfratti e negli abissi della perfezione: per questo ho bisogno di musica. Ma Wagner fa ammalare. — Che cosa importa a me del teatro? Che cosa mi importano gli spasimi delle sue estasi «morali» di cui il popolo — e chi non è «pòpolo»! — si compiace? E tutta la ciurmerla mimica dell'attore! — Io sono, lo si vede, di natura essenzialmente antitea­trale, nel fondo del mio animo nutro per il teatro, quest'arte di massa par excellence, il profondo disprezzo che oggi nella mia considerazione... sino a un non-più-rivederci; insuccesso — allora drizzo le orecchie e comincio a stimare... Ma Wagner all'opposto fu — accanto al Wagner che ha scritto la musica più elitaria che esista — essenzialmente anche uomo di teatro e attore, il mimomane più entusiasta che forse sia mai esistito, anche come musicista... E, tra parentesi, se la teoria di Wagner è stata che «il dramma è il fine, la musica sempre e soltanto un mezzo» —, la sua prassi invece fu che «l'atteggiamento è il fine, il dramma, anche la musica, è sempre e sol­tanto il suo strumento». La musica come mezzo per illustrare, potenziare, interiorizzare il gesto drammatico e l'evidenza istrionica; e il dramma wa­gneriano soltanto un'occasione per molti atteggiamenti interessanti! — Ol­tre a tutti gli altri istinti, egli possedeva in tutto e per tutto gli istinti di co­mando di un grande attore: e come ho già detto, anche come musicista. — Lo chiarii una volta, non senza fatica, a un wagneriano pur sang — chia­rezza e wagneriano! non dico altro. Ci furono motivi per aggiungere anco­ra «sia dunque un po' più sincero con se stesso! non siamo mica a Baye-ruth. A Bayreuth si è sinceri solo come massa; come individui si mente, si mente a se stessi. Ci si lascia a casa, quando si va a Bayreuth, si rinuncia al proprio diritto di parola e di scelta, al proprio gusto, persino al proprio co­raggio, quale lo si possiede e lo si esercita tra le quattro pareti di casa pro­pria contro Dio e contro il mondo. Nessuno porta in teatro i sensi più fini della propria arte, meno di tutti l'artista che lavora per il teatro, — manca la solitudine, niente che sia perfetto tollera testimoni... A teatro si diventa popolo, mandria, donna, fariseo, bestia elettorale, membro di patronato, idiota — wagneriano: qui anche la coscienza più personale soggiace alla li­vellatrice magia del gran numero, qui governa il vicino, qui si diventa un vicino...».

Intermezzo

— Dico ancora una parola per le orecchie più raffinate: quel che io pro­priamente voglio dalla musica. Che sia serena e profonda come un pome­riggio d'ottobre. Che sia bizzarra, sfrenata, delicata, una piccola femmina dolce di abiezione e di grazia... Non ammetterò mai che un Tedesco possa sapere che cos'è la musica. Quelli che vengon definiti musicisti tedeschi, i

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più grandi innanzitutto, sono stranieri: Slavi, Croati, Italiani, Olandesi — oppure Ebrei; altrimenti sono Tedeschi della razza forte, Tedeschi estinti, come Heinrich Schùltz, Bach e Hàndel. Io stesso sono sempre polacco ab­bastanza per cedere il resto della musica in cambio di Chopin: faccio ecce­zione, in base a tre motivi, per l'idillio di Sigfrido di Wagner, forse anche per Liszt, il quale ha sugli altri musicisti il vantaggio di un timbro orche­strale aristocratico; da ultimo anche per tutto quel che è cresciuto al di là delle Alpi — al di qua... Non sarei capace di fare a meno di Rossini, e an­cor meno del mio Sud nella musica, del mio maestro veneziano Pietro Ga-sti. E quando dico al di là delle Alpi, intendo propriamente soltanto Vene­zia. Se cerco un'altra parola che significhi musica, trovo sempre e soltanto la parola Venezia. Non so far differenza alcuna tra lacrime e musica, non so pensare alla felicità, al Sud senza un brivido di paura.

Stavo or ora sul ponte nella bruna notte. Di lontano giungeva un canto: gocce d'oro sgorgavano via sulla tremante superficie. Gondole, luci, musica — ebbre nuotavano nell'oscurità...

La mia anima, un'arpa, toccata da mani invisibili a sé cantava in segreto una canzone di gondolieri, tremando di screziata beatitudine. — Qualcuno l'ascoltava?...

Wagner come pericolo 1. La finalità che la musica moderna persegue in quello che oggi, con

grande forza ma scarsa chiarezza, vien detto «melodia infinita», possiamo spiegarcela come uno scendere in mare, perdere via via la sicurezza del pas­so sul fondo e abbandonarsi infine alla mercé dell'ondeggiante elemento: si deve nuotare. Nella musica antica si doveva, in un grazioso o solenne o fo­coso, movimento o contromovimento, in un più presto e più lento, far qualcosa di completamente diverso: danzare. A questo scopo, il rimanere costante, equivalente dei gradi di tempo e di forza esigeva un'attenzione continua da parte dell'animo dell'ascoltatore; nel contrasto tra questa cor­rente d'aria fredda, derivante dall'attenzione, e il caldo respiro dell'entu­siasmo risiedeva l'incanto di ogni buona musica. — Richard Wagner volle un'altra specie di movimento — sovvertì il presupposto fisiologico di ogni musica creata sino allora. Nuotare, librarsi — non più camminare, danza­re... Con ciò è forse stata detta la cosa decisiva. La «melodia infinita» vuo­le appunto infrangere ogni simmetria di tempo e di forza, talvolta persino la schernisce — ripone la ricchezza della sua inventiva proprio in ciò che a un orecchio antico suona come paradosso ed empietà ritmica. Dall'imita­zione, dal predominio di un simile gusto può sorgere per la musica un peri­colo che più grande non potrebbe immaginarsi — la totale degenerazione del senso ritmico, il caos al posto del ritmo... Il pericolo giunge al massimo quando una tale musica si appoggia sempre più strettamente a una recita-

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zione e a una mimica affatto naturalistiche, non determinate da alcuna leg­ge di plasticità, miranti all' effetto e niente più... L' espressivo a ogni costo e la musica come serva, come schiava dell'atteggiamento — è la fine...

2. E che? sarebbe realmente la prima virtù di un'esecuzione, come oggi sembrano credere gli artisti dell'esecuzione musicale, ottenere in ogni cir­costanza un altorilievo tale che non possa più esser superato? Applicato a Mozart, per esempio, non sarebbe ciò una vera e propria colpa contro lo spirito di Mozart, il gaio, entusiasta, delicato, innamorato spirito di Mo­zart, che per fortuna non era tedesco e la cui serietà è una serietà bonaria, dorata, e non la serietà di un filisteo tedesco... Per non parlare poi della se­rietà del «convitato di pietra»... Ma voi ritenete che ogni musica sia musica del «convitato di pietra» — che ogni musica debba balzar dalla parete e scuotere l'ascoltatore sin nelle viscere?... Che solo così la musica faccia ef­fetto? — Su chi si fa effetto in tal modo? Su qualcosa, su cui l'artista ari­stocratico non deve mai farlo — sulla massa! sugli immaturi! sugli apatici! sui malaticci! sugli idioti! sui wagnerianil...

Una musica senza futuro

Di tutte le arti che crescono sul terreno di una determinata civiltà, la mu­sica compare come l'ultima di tutte le piante, forse perché è la più interiore e, di conseguenza, giunge più tardi, — nello sfiorire autunnale della civiltà che di volta in volta gli è propria. Solo nell'arte dei maestri olandesi l'ani­ma del medioevo cristiano trovò piena risonanza, — la loro architettura sonora è la tardiva, ma vera e degna sorella del gotico. Solo nella musica di Hàndel risuonò il meglio dell'anima di Lutero e dei suoi affini, il tratto eroico-giudaico che diede alla Riforma un afflato di grandezza — il Vec­chio Testamento fatto musica, non il Nuovo. Solo Mozart rispose in oro sonante all'epoca di Luigi xiv e all'arte di Racine e di Claude Lorraine; so­lo nella musica di Beethoven e di Rossini il secolo diciottesimo cantò se stesso, il secolo dell'entusiasmo, degli ideali infranti e della felicità fugace. Ogni musica vera, originale, è un canto del cigno. — Forse anche la nostra musica più recente, per quanto domini e ami dominare, ha innanzi a sé sol­tanto un breve spazio di tempo: è infatti scaturita da una civiltà il cui terre­no va rapidamente inabissandosi — una civiltà che ben presto sarà som­mersa. Un certo cattolicesimo del sentimento e il gusto per una qualche as­senza e inessenza cosiddetta «nazionale», di antica origine patria, sono le sue premesse. Il modo in cui Wagner si è appropriato di antiche saghe e canti nei quali il dotto pregiudizio aveva insegnato a vedere un che di ger­manico par excellence — oggi ne ridiamo —, l'aver insufflato nuova vita e una sete di estatica sensualità e di sublimazione in questi mostri scandinavi — tutto questo prendere e dare di Wagner rispetto a materiali, figure, pas­sioni e nervi esprime chiaramente anche lo spirito della sua musica, posto che questa stessa, come ogni musica, non sappia parlare di sé in modo ine­quivocabile: giacché la musica è una donna... Non ci si deve lasciar trarre in inganno su tale situazione dal fatto che in questo momento noi viviamo nella reazione all'interno della reazione. L'epoca delle guerre nazionali, del martirio ultramontano, tutto questo carattere di intermezzo che al giorno d'oggi è proprio della situazione europea, può in effetti portare un'arte co­me quella di Wagner a una gloria improvvisa, senza con ciò garantirle un futuro. I Tedeschi stessi non hanno futuro...

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Noi antipodi Forse si ricorderà, almeno tra i miei amici, che all'inizio mi sono lancia­

to su questo mondo moderno non senza alcuni errori e sopravvalutazioni, e comunque come uno che spera. Intendevo — sulla base di chissà quali esperienze personali — il pessimismo filosofico del diciannovesimo secolo come un sintomo di una superiore forza del pensiero, di una pienezza di vi­ta più vittoriosa di quella che aveva trovato espressione nella filosofia di Hume, Kant e Hegel, — consideravo la conoscenza tragica come il più bel lusso della nostra civiltà, come la sua più preziosa, più aristocratica, più pericolosa maniera di dissipazione, ma pur sempre, sulla base della sua so­vrabbondanza, come un lusso che essa potesse concedersi. Ugualmente in­terpretavo a mio modo la musica di Wagner come espressione di una dioni­siaca possanza dell'anima; in essa credevo di udire il terremoto con cui un'originaria forza vitale, accumulata da tempo antichissimo, si fa final­mente strada, indifferente al fatto che tutto ciò che oggi si chiama cultura possa in tal modo vacillare. Si vede quel che non discernevo, si vede altresì di che cosa facevo dono a Wagner e a Schopenhauer — di me stesso... Ogni arte, ogni filosofia può essere riguardata come rimedio e ausilio di una vita che cresce o che declina: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma esistono due specie di sofferenti, quelli che soffrono per una sovrabbondanza di vita, e vogliono un'arte dionisiaca e così pure un'intelligenza e una prospettiva tragiche della vita — e poi quelli che sof­frono per l'impoverimento della vita, e che esigono da arte e filosofia la calma, il silenzio, un mare placido, oppure l'ebbrezza, lo spasimo, lo stor­dimento. La vendetta sulla vita stessa — la più voluttuosa specie di ebbrez­za per questi esseri impoveriti!... Al duplice bisogno di questi ultimi corri­spondono sia Wagner che Schopenhauer — essi negano la vita, la denigra­no, e sono in tal modo i miei antipodi. — Il più ricco di pienezza vitale, il dio e l'uomo dionisiaco, può concedersi non soltanto la visione del terribile e del problematico, ma persino l'azione terribile e ogni lusso di distruzio­ne, di disgregazione, di negazione — in lui il male, l'assurdo e il brutto ap­paiono per così dire leciti, allo stesso modo che, in seguito a un sovrappiù di forze generatrici, restauratrici, essi appaiono leciti nella natura, la quale sa ancora trasformare ogni deserto in una terra rigogliosa e fertile. Vice­versa colui che più soffre, che è più povero di vita, più di chiunque altro avrebbe bisogno della mitezza, della placidità e della bontà — quel che og­gi vien definito umanità — nel pensare come nell'agire, e possibilmente di un dio che fosse un dio apposta per i malati, un salvatore, e così pure della logica, della comprensibilità concettuale dell'esistenza accessibile persino agli idioti — i tipici «liberi pensatori», come gli «idealisti» e le «anime bel­le», sono tutti décadents — avrebbe bisogno insomma di un restringersi e di un limitarsi, al caldo e al riparo dalla paura, in orizzonti ottimistici, che consente l'instupidimento... In tal modo appresi via via a capire Epicuro, l'antitesi del greco dionisiaco, e similmente il cristiano, il quale in realtà è soltanto una specie di epicureo e con il suo «la fede rende beati» segue fin dove è possibile il principio dell'edonismo — sin oltre ogni onestà intellet­tuale... Se ho qualche vantaggio su tutti gli psicologi, è perché il mio sguar­do è più acuto per quella difficilissima e capziosissima specie di induzione nella quale si compie il maggior numero di errori — l'induzione dall'opera all'autore, dall'azione all'agente, dall'ideale a colui che ne ha bisogno, da ogni marnerà di pensare e di valutare al bisogno che comanda dietro di es-

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sa. — Nei confronti di artisti d'ogni genere ora mi servo di questa distin­zione fondamentale: è qui divenuto creatore l'odio contro la vita oppure la sovrabbondanza di vita? In Goethe ad esempio divenne creatrice la sovrab­bondanza, in Flaubert l'odio: Flaubert, una riedizione di Pascal, ma come artista, con nel profondo di sé il giudizio istintivo: «Flaubert est toujours haìssable, l'homme n'est rien, l'oeuvre est tout»... Egli si torturava, quan­do scriveva, così come Pascal si torturava quando pensava — ambedue sentivano in maniera non egoistica... «Disinteresse» — il principio della décadence, la volontà della fine sia nell'arte che nella morale. —

Dove si colloca Wagner

Ancor oggi la Francia è la sede della civiltà più spirituale e raffinata d'Europa e Yalta scuola del gusto: ma questa «Francia del gusto» bisogna saperla trovare. La Noddeutsche Zeitung per esempio, o chi ha in essa il proprio portavoce, vede nei Francesi dei «barbari», — quanto a me, io cer­co il continente nero, quello in cui si dovrebbero liberare «gli schiavi», nei pressi dei Tedeschi del nord... Chi appartiene a quella Francia si tiene ben nascosto: può essere una piccola schiera di persone, quella in cui essa vive anima e corpo, e per di più forse persone che non si reggono su gambe molto robuste, uomini in parte fatalisti, cupi e malati, in parte viziati e ar­tificiosi, che hanno lì ambizione di essere artificiali — ma possiedono tutto quel che di elevato e delicato oggi resti ancora nel mondo. In questa Fran­cia dello spirito, che è anche la Francia del pessimismo, già Schopenhauer oggi è a casa propria più di quanto non lo sia mai stato in Germania; la sua opera principale già tradotta due volte, la seconda in modo eccellente, tan­to che adesso preferiscono leggere Schopenhauer in francese (— tra i Tede­schi egli fu un caso fortuito, come lo sono io — i Tedeschi non hanno dita per noi, anzi non hanno assolutamente dita, hanno soltanto zampe). Per non parlare di Heinrich Heine — l'adorabile Heine, si dice a Parigi —, che da tempo è diventato carne e sangue dei lirici francesi più profondi e ricchi d'anima. Che se ne farebbero le cornute mandrie tedesche delle délicatesses di una siffatta natura! — Quanto infine a Richard Wagner: si tocca con mano, non forse con i pugni, che Parigi è il vero terreno per Wagner: quanto più la musica francese si modellerà secondo le esigenze dell'«ame moderne», tanto più diverrà wagneriana, — già allora lo è abbastanza. — A questo proposito ci si deve lasciar trarre in inganno dallo stesso Wagner — da parte sua fu una vera malvagità schernire nel 1871 l'agonia di Pari­gi... In Germania tuttavia Wagner è un semplice fraintendimento: chi sa­rebbe più inadatto del giovane Kaiser, per esempio, a capir qualcosa di Wagner? — per chiunque conosca il movimento culturale europeo resta cionondimeno certo il fatto che il romanticismo francese e Richard Wa­gner si appartengono strettissimamente. Tutti quanti dominati sino agli oc­chi e alle orecchie dalla letteratura — i primi artisti europei di formazione letteraria mondiale — i più persino scrittori essi stessi, poeti, mediatori e miscelatori di sensi e arti, tutti fanatici dell' espressione, grandi scopritori nel regno del sublime, anche di quello del brutto e dell'orrido, scopritori ancor più grandi nell'effetto, nella messa in mostra, nell'arte di esporre in vetrina, tutti talenti assai oltre il loro genio —, virtuosi da cima a fondo, con inquietanti accessi a tutto ciò che seduce, attrae, costringe, sconvolge, nemici nati della logica e della linea retta, bramosi del nuovo, dell'esotico, del mostruoso, di tutti gli oppiacei dei sensi e della ragione. In complesso una specie dì artisti temerariamente audaci, splendidamente violenti, che

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volano e trascinano in alto, che hanno dovuto innanzitutto insegnare al lo­ro secolo — è il secolo della massa — il concetto di «artista». Ma malati...

Wagner apostolo della castità

1. — È questo ancora tedesco? Venne da cuore tedesco questo soffocante grido? È di carattere tedesco questo dilaniar se stessi?

È tedesco questo allargar pretescamente le mani, questo eccitare i sensi tra profumi d'incenso? E tedesco è questo precipitare, impuntarsi, barcollare, questo zuccheroso ciondolar come campane? Questo occhieggiar di monache, questa squilla dell'Ave, tutto questo esta­tico e falso levar d'occhi al cielo?

— È questo ancora tedesco? Riflettete! Siete ancora sulla porta... Perché quel che udite è Roma — la fede muta di Romaì

2. Tra sensualità e castità non esiste necessariamente opposizione; ogni buon matrimonio, ogni sincero affare di cuore sono al di sopra di questo contrasto. Ma nel caso in cui tale opposizione effettivamente esiste, non occorre per fortuna che sia un'opposizione tragica. Ciò dovrebbe almeno valere per tutti i mortali di buona costituzione, di temperamento gaio, che son lungi dall'annoverare senz'altro fra gli argomenti contrari all'esistenza il loro labile equilibrio tra angelo e petite bete — i più fini, i più chiari, co­me Hafis, come Goethe, hanno visto in esso persino un'attrattiva in più... Proprio tali contraddizioni seducono all'esistenza... D'altra parte si capi­sce anche troppo bene che, qualora le sventurate bestie di Circe vengano portate ad adorare la castità, vedranno e adoreranno in essa soltanto il suo contrario — oh, con quale tragico grugnito e fervore! possiamo immagi­narcelo — quel penoso e perfettamente superfluo contrario che alla fine della sua vita Richard Wagner ha incontestabilmente voluto ancora tra­sporre in musica e portare sulla scena. A quale scopo?, è lecito chiedersi.

3. A questo punto non si può certo eludere l'altra domanda, ossia che cosa effettivamente gli importasse di quella virile (ah, quanto poco virile!) «ingenuità campagnola», di quel povero diavolo, di quel giovane vergine di cultura qual era Parsifal, che alla fine egli con mezzi tanto capziosi fa diventar cattolico — e che? questo Parsifal fu mai in genere inteso seria­mente! Che di lui si sia riso infatti, non vorrei proprio contestarlo, e Gott­fried Keller nemmeno... Si vorrebbe infatti auspicare che il Parsifal wagne­riano fosse inteso in senso gaio, per così dire come epilogo e dramma sati­rico con il quale il Wagner tragico abbia voluto prender congedo da noi, anche da se stesso, soprattutto dalla tragedia, in maniera conveniente e di­gnitosa per lui, e cioè con un eccesso di altissima e maliziosissima parodia della tragicità stessa, di tutta l'orrenda serietà e miseria terrestre di un tem­po, della più stupida forma, finalmente superata, insita nella mostruosità dell'ideale ascetico. Il Parsifal è anzi materia d'operetta par excellence... Il Parsifal di Wagner è forse il suo segreto riso di superiorità su se stesso, il trionfo della sua ultima, somma libertà d'artista, della sua natura ultrater­rena d'artista — Wagner che sa ridere di se stesso?... Si vorrebbe, come ho detto, auspicarlo: che cosa sarebbe infatti il Parsifal inteso seriamente? È veramente necessario vedere in esso (come si è detto contro di me) «il parto

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di un odio impazzito verso la conoscenza, lo spirito e la sensualità»? una bestemmia contro sensi e spiriti proferita in un solo dio, in un solo respiro? un'apostasia e un ritorno a ideali morbosamente cristiani e oscurantisti? E da ultimo addirittura un negar-se-stesso, un cancellar-se-stesso da parte di un artista che sino allora aveva teso con tutta la forza della sua volontà al­l'opposto, alla più alta spiritualizzazione e sensualizzazione della sua arte? E non soltanto della sua arte, ma anche della sua vita? Si ricordi con quan­to entusiasmo Wagner aveva seguito a suo tempo, le orme del filosofo Feuerbach. La parola di Feuerbach sulla «sana sensualità» risuonò negli anni Trenta e Quaranta per Wagner, come per molti Tedeschi — si defini­vano i giovani Tedeschi — come la parola della redenzione. Ha egli alla fi­ne imparato diversamente a tal proposito? giacché almeno sembra che alla fine volesse a tal riguardo insegnare diversamente... L'odio contro la vita è forse riuscito a impadronirsi di lui, come accadde per Flaubert?... Il Parsi­fal è infatti un'opera della malvagità, della brama di vendetta, del segreto veneficio contro i presupposti della vita, un'opera cattiva — La predica della castità resta un'istigazione alla innaturalità: io disprezzo chiunque non intenda il Parsifal come un attentato all'eticità.

Come mi liberai di Wagner

1. Già nell'estate 1876, nel bel mezzo del primo festival, dentro di me presi commiato da Wagner. Non sopporto nulla di ambiguo; da quando Wagner era in Germania, accondiscendeva a passo a passo a tutto quel che io disprezzo — persino all'antisemitismo... In effetti, allora era più che mai tempo di prender commiato: e presto ne ricevetti la prova. Richard Wagner, in apparenza il più vittorioso, in realtà un décadent divenuto marcio e disperato, si prosternò improvvisamente, misero e affranto, da­vanti alla croce cristiana... Nessun Tedesco ha avuto allora occhi in testa e pietà nella coscienza per quel tremendo spettacolo? Fui io il solo — a sof­frirne! Basta, questo inaspettato evento mi diede come un lampo di chia­rezza sul luogo che avevo abbandonato — e anche quell'orrore tardivo che prova chiunque abbia corso inconsapevolmente un rischio mostruoso. Quando ripresi a camminare da solo, tremavo: non passò molto tempo che mi ammalai, ed ero più che malato, ero stanco, — stanco per l'irrefrenabi­le delusione su tutto quello che a noi uomini moderni restava per entusia­smarci, per la generale dissipazione di forza, di lavoro, di speranza, di gio­ventù, di amore, stanco per il disgusto di fronte a tutta la menzogna e il rammollimento di coscienza idealistici, che qui avevano ancora una volta trionfato su uno dei più valorosi, stanco infine, e non in misura minore, per il tormento di un sospetto inesorabile — che ormai io fossi condannato a diffidare più profondamente, a disprezzare più profondamente, a esser solo più profondamente di quanto mai fossi stato prima. Infatti non avevo avuto altri che Richard Wagner... Io fui sempre condannato ai Tedeschi...

2. Ormai solo, e gravemente diffidando di me, non senza ira presi allora partito contro di me e a favore di tutto quello, appunto, che mi era doloro­so e duro: ritrovai così la strada verso quel coraggioso pessimismo che è l'opposto di ogni bugiardume romantico e anche, come voglio credere, la strada verso me stesso — verso il mio compito... Quel qualcosa di nascosto e d'imperioso cui a lungo non sappiamo dare un nome, sinché alla fine non si rivela come il nostro compito — questo tiranno che è in noi si prende una terribile rivalsa per ogni nostro tentativo di evitarlo o di sfuggirgli, per

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ogni prematuro rassegnarsi, per ogni equipararci con coloro ai quali non apparteniamo, per ogni attività, sia pur degna di stima, che ci distolga dal­la nostra causa principale — finanche per ogni virtù che possa preservarci dalla durezza della nostra più vera responsabilità. Malattia è la risposta, ogni volta che vogliamo dubitare del nostro diritto al nostro compito, quando cominciamo a rendercelo più lieve in un punto qualsiasi. Strano e terribile insieme! Sono i nostri alleviamenti quelli che dobbiamo più dura­mente scontare! E se poi vogliamo tornar sani, non ci rimane scelta: dob­biamo addossarci un carico più pesante di quello che avevamo prima...

Lo psicologo prende la parola

1. Quanto più uno psicologo, uno psicologo e indovino d'anime per in­nata e fatale predisposizione, si volge ai casi e agli uomini più scelti, tanto più grande diventa per lui il pericolo di soffocare per la compassione. Più che a ogni altro uomo gli sono necessarie durezza e serenità. La rovina, il fallimento degli uomini superiori sono infatti la regola: è terribile avere sempre sotto gli occhi una tal regola. Il molteplice tormento dello psicolo­go che ha scoperto questa rovina, che ha scoperto una prima volta e poi torna quasi sempre di nuovo a scoprire, nel corso di tutta la storia, tutta questa interiore «inguaribilità» dell'uomo superiore, questo eterno «trop­po tardi!» in ogni senso — potrà forse un giorno diventare la causa del suo stesso rovinarsi... In quasi ogni psicologo si osserva una rivelatrice predi­sposizione a frequentare persone comuni e bene ordinate: in ciò si palesa il fatto che egli necessita sempre di una guarigione, che ha bisogno di una sorta di fuga e di oblio, va da ciò che gli hanno posto sulla coscienza il suo incider nel profondo, il suo guardare nel profondo, il suo mestiere. È ca­ratteristico in lui il timore della propria memoria. Di fronte al giudizio al­trui facilmente ammutolisce, ascolta con viso impassibile come si veneri, si ammiri, si ami, si trasfiguri là dove egli ha visto —, oppure nasconde an­che il suo ammutolire, acconsentendo espressamente a una qualsiasi super­ficiale opinione. Forse la paradossalità della sua situazione arriva a tal punto, che proprio là dove egli ha imparato la grande compassione accan­to al grande disprezzo, i «colti» dal canto loro apprendono la grande vene­razione... E chissà che in tutti i grandi casi non sia accaduto proprio questo — che si adorasse un dio e che il dio fosse soltanto una povera vittima sa­crificale... Il successo è stato sempre il mentitore più grande — e anche l'o­pera, l'azione è un successo... Il grande uomo di Stato, il conquistatore, lo scopritore sono travestiti, nascosti nelle proprie creazioni sino a diventare irriconoscibili; l'opera, quella dell'artista, del filosofo, inventa innanzitut­to colui che l'ha creata, che deve averla creata... I «grandi uomini», così come vengono onorati, sono piccole brutte invenzioni posteriori — nel mondo dei valori storici domina la falsificazione...

2. — Questi grandi poeti per esempio, questi Byron, Musset, Poe, Leo­pardi, Lleist, Gogol — non oso far nomi assai più grandi, ma li penso — così come sono, come debbono essere: uomini dell'istante, sensuali, assur­di, quintuplici, irriflessivi e improvvisi nel confidare e nel diffidare; con anime nelle quali di solito deve restar celata una qualche frattura; spesso vendicandosi con le loro opere di una interna contaminazione, spesso ricer­cando con i loro slanci oblio di fronte a una memoria troppo fedele, ideali­sti per la vicinanza del pantano — quale tormento sono questi grandi arti­sti e in genere i cosiddetti uomini superiori per chi per primo li ha indovi-

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EPILOGO 913

nati... Noi tutti siamo difensori del mediocre... È comprensibile che pro­prio dalla donna, chiaroveggente nel mondo del dolore e purtroppo avida di recar aiuto e salvezza anche molto al di sopra delle proprie forze, essi sperimentino così facilmente quegli accessi di sconfinata compassione che la massa, soprattutto la massa venerante, grava di interpretazioni curiose e fatue... Questa compassione si illude regolarmente sulla propria forza: la donna vorrebbe credere che l'amore possa tutto — è questa la sua vera su­perstizione. Ah, chi conosce il cuore indovina quanto povero, derelitto, presuntuoso, fallibile sia anche l'amore migliore e più profondo — quanto esso distrugge invece di salvare...

3. — Il disgusto e l'orgoglio spirituali di chiunque abbia profondamente sofferto — la profondità di sofferenza di cui uno è capace determina quasi una gerarchia —, la sua rabbrividente certezza, di cui è tutto impregnato e di cui ha assunto il colore, di sapere, in virtù del suo dolore, più di quanto possano sapere i più intelligenti e i più saggi, di essere stato una volta cono­sciuto e aver dimorato in molti mondi lontani e spaventosi, di cui «voi non sapete nulla»..., questo tacito orgoglio spirituale, questa alterigia dell'elet­to della conoscenza, del «consacrato», di chi fu quasi vittima sacrificale, trova necessaria ogni sorta di travestimenti, per preservarsi dal contatto con mani indiscrete e compassionevoli e in genere da tutto ciò che non è pari a lui nel dolore. Il profondo soffrire rende aristocratici; separa. — Una delle più raffinate forme di travestimento è l'epicureismo e un certo ardimento del gusto, ostentato da allora in poi, che prende con leggerezza la sofferenza e appronta le sue difese contro tutto ciò che è triste e profon­do. Esistono «uomini sereni» che si servono della serenità perché grazie a essa vengono fraintesi — essi vogliono essere fraintesi. Esistono «spiriti scientifici» che si servono della scienza perché essa conferisce un'apparen­za di serenità e perché la scientificità fa concludere che l'uomo è superficia­le — essi vogliono sedurre a una falsa conclusione... Esistono spiriti liberi e audaci che vorrebbero nascondere e negare di essere in fondo cuori in­franti e inguaribili — è il caso di Amleto: e allora la stessa follia può essere la maschera di uno sciagurato sapere troppo certo. —

Epilogo

1. Mi sono chiesto spesso se agli anni più difficili della mia vita io non debba più che a qualsiasi altro periodo. Così come mi insegna la mia più intima natura, tutto ciò che è necessario, visto dall'alto e nel senso di una grande economia, è anche l'utile in sé — non soltanto lo si deve sopporta­re, lo si deve amare... Amor fati: è questa la mia più intima natura. — E per quanto concerne la mia lunga malattia, non le debbo forse indicibil­mente più che alla mia salute? Le debbo una salute superiore, una salute che è resa più forte da tutto quel che non la uccide! — Le debbo anche la mia filosofia... Soltanto il grande dolore è l'ultimo liberatore dello spirito, in quanto maestro del grande sospetto che di ogni U fa un X, una vera e propria X, vale a dire la penultima lettera prima dell'ultima... Soltanto il grande dolore, quel lungo lento dolore nel quale per così dire veniamo co­me arsi con legna verde, che si prende tempo —, costringe noi filosofi a scendere nell'estremo profondo di noi stessi e a spogliarci di ogni fiducia, di ogni benevolenza, di ogni velo, di ogni dolcezza, di ogni mediocrità, nei quali forse avevamo riposto prima la nostra umanità. Dubito che un tale dolore «renda migliori»: non so che ci rende profondi... Sia che imparia-

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mo a contrapporgli il nostro orgoglio, il nostro scherno, la nostra forza di volontà e ci comportiamo come quell'Indiano che, per quanto crudelmente torturato, con la malvagità della lingua si prende una rivalsa sul suo tortu­ratore; sia che dinnanzi al dolore ci ritraiamo in quel nulla, nel muto, rigi­do, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi: da siffatti lunghi e rischiosi esercizi del dominio su se stessi si torna come uomini diversi, con alcuni in­terrogativi in più, — soprattutto con la volontà di porre, da allora in poi, più domande, domande più profonde, più severe, più dure, più cattive, più silenziose di quante finora siano mai state poste sulla terra... La fiducia nella vita è scomparsa; la vita stessa è diventata un problema. — Ma non si creda che perciò si sia diventati dei tetri, dei barbagianni! Persino l'amore per la vita è ancora possibile — solo che si ama diversamente... È l'amore per una donna della quale dubitiamo...

2. La cosa più strana è questa: si ha, in seguito a ciò, un altro gusto — un secondo gusto. Da siffatti abissi, anche dall'abisso del grande sospetto si torna rinati, mutati di pelle, più sensibili, più cattivi, con un più sottile gusto per la gioia, con una lingua più delicata per tutte le buone cose, con sensi più gai, con una seconda pericolosa innocenza della gioia, più infan­tili allo stesso tempo e cento volte più raffinati di quanto si fosse mai stati prima. Morale: non si è impunemente lo spirito più profondo di tutti i mil­lenni — non lo si è nemmeno senza remunerazione... Ne fornisco subito una prova.

Oh, quanto ripugnante ci è ormai il godimento, il rozzo, ottuso, oscuro godimento come normalmente lo intendono i gaudenti, le nostre «persone colte», i nostri ricchi e i nostri governanti! Con quanta cattiveria prestiamo orecchio ormai a quel grande tramestio da fiera con cui oggi l'uomo «col­to», il cittadino, si fa violentare dall'arte, dai libri, dalla musica a «godi­menti spirituali», con l'aiuto di spiritose bevande! Quanto male fa adesso alle nostre orecchie il grido teatrale della passione, quanto estraneo è dive­nuto al nostro gusto tutto il romantico tumulto e guazzabuglio dei sensi amati dal popolino colto, assieme alle sue aspirazioni al sublime, all'eleva­to, al bizzarro! No, se noi convalescenti abbiamo ancora bisogno di un'ar­te, è di un'altra arte — un'arte beffarda, lieve, fugace, divinamente indi­sturbata, divinamente artistica, che avvampi come pura fiamma in un cielo senza nubi! Soprattutto: un'arte per artisti, solamente per artistil Ci inten­diamo meglio, dopo, su quel che è necessario a tale scopo: la serenità, ogni serenità, amici miei!... Ora sappiamo fin troppo bene alcune cose, noi sa­pienti: oh, come impareremo ormai a ben dimenticare, a ben flo«-sapere, come artisti!... E riguardo al nostro futuro: difficilmente ci troveranno sul sentiero di quei giovinetti egiziani che di notte rendono malsicuri i templi, abbracciano statue e vogliono assolutamente svelare, scoprire, esporre in chiara luce tutto quel che per buoni motivi vien tenuto celato. No, questo cattivo gusto, questo volere la verità, la verità «a ogni costo», questa gio­vanile follia nell'amore per la verità — ci disgusta: siamo troppo esperti, troppo seri, troppo allegri, troppo bruciati, troppo profondi per questo... Non crediamo più che la verità resti ancora verità, se la si spoglia dei veli — abbiamo vissuto abbastanza per crederlo... È per noi oggi questione di decoro il non voler vedere tutto messo a nudo, il non voler essere presenti a tutto, il non voler capire e «sapere» tutto. Tout comprendere — c'est tout mépriser... «È vero che il buon Dio è presente ovunque?», chiese una bam­binetta a sua madre, «ma io lo trovo sconveniente» — un avviso ai filoso­fi!... Si dovrebbe tenere in maggiore considerazione il pudore con cui la

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natura si è celata dietro enigmi e multicolori incertezze. Forse la verità è una donna che ha motivi di non fare vedere i suoi motivi? Forse il suo no­me è, per dirla in greco, Baubol... Oh, questi Greci! ben sapevano viverci per farlo è necessario arrestarsi coraggiosamente alla superficie, alla piega, all'epidermide, adorar l'apparenza, credere alle forme, ai suoni, alle paro­le, a tutto l'Olimpo dell'apparenza Questi Greci erano superficiali — per profondità... E non torniamo appunto a loro, noi temerari dello spirito, che abbiamo scalato la più alta e pericolosa cima del pensiero contempora­neo, e abbiamo di lassù guardato in basso Non siamo forse appunto in questo — Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? Appunto perciò — artisti?...

Sulla povertà di chi è il più ricco Son passati dieci anni — non una goccia mi ha raggiunto, né vento umido, né rugiada d'amore — un paese senza pioggia... Prego ora la mia saggezza di non farsi avara in questa siccità: dilaga tu stessa, stilla rugiada, sii pioggia per il deserto ingiallito!

Un tempo comandai alle nubi di allontanarsi dai miei monti — oggi le lusingo a tornare: fatemi buio attorno con le vostre mammelle! — voglio mungervi, o mucche dell'aria! Tiepida lattea saggezza, dolce rugiada d'amore, riverso sulla terra.

Via, via, verità che cupe guardate! Sui miei monti non voglio vedere aspre impazienti verità. Dorata di sorriso mi si appressi oggi la verità, addolcita di sole, abbronzata d'amore — io solo colgo dall'albero una matura verità.

Oggi protendo la mano verso i riccioli del caso, accorto abbastanza per guidare, come un fanciullo, il caso e abbindolarlo. Oggi voglio essere ospitale verso ciò che è molesto, neppure per il destino voglio avere spine — Zarathustra non è un riccio.

La mia anima ha già con lingua insaziabile leccato tutte le buone cose e le cattive, si è tuffata in ogni abisso. Ma sempre come il sughero,

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sempre essa torna a galla, volteggia giocosa, come olio su bruni mari: a causa di quest'anima mi si chiama il felice. Chi mi è padre e madre? Non è mio padre, forse, il principe Copioso, e madre il Riso silenzioso? Di questi due il connubio non generò me, bestia enigmatica, me, demone della luce, me Zarathustra, dissipatore d'ogni saggezza?

Malato oggi di tenerezza, un vento australe, siede Zarathustra in attesa, in attesa sui suoi monti — nella propria linfa addolcito e cotto, al di sotto della sua vetta, al di sotto del suo ghiaccio, stanco e beato, un creatore al suo settimo giorno. — Silenzio! Una verità passa su di me simile a nube — con lampi invisibili mi colpisce. Su larghe, lente scale sale a me la sua felicità: vieni, vieni, o amata verità!

— Silenzio! E la mia verità — Da occhi esitanti, da brividi di velluto mi raggiunge il suo sguardo, soave, malvagio, uno sguardo di fanciulla... Ha indovinato il motivo della mia felicità, ha indovinato me — ah, che cosa trama? — Purpureo spia un drago nell'abisso del suo sguardo di fanciulla.

— Silenzio! Parla la mia verità! —

Guai a te, Zarathustra! Hai l'aspetto di uno che ha inghiottito oro: ti squarceranno il ventre!...

Troppo ricco tu sei, corruttore di molti. Troppo tu rendi invidiosi, troppi tu rendi poveri... A me stesso fa ombra la tua luce — ho freddo: va' via, tu ricco, va', Zarathustra, via dal tuo sole!

Tu vorresti donare, donar via il suo superfluo,

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ma tu stesso sei il più superfluo! Attento, o ricco! Prima dona te stesso, Zarathustra!

Son passati dieci anni — e non una goccia ti ha raggiunto? né vento umido? né rugiada d'amore? Chi mai doveva amarti, o troppo ricco? La tua fortuna fa inaridire tutt'intorno, rende poveri d'amore — un paese senza pioggia...

Nessuno più ti ringrazia. Ma tu ringrazi chiunque prenda da te: da ciò ti riconosco, o troppo ricco, tu, il più povero di tutti i ricchi.

Tu immoli te stesso, la ricchezza ti tormenta — tu rinunci a te stesso, non ti risparmi, non ti ami: sempre ti incalza il grande tormento, il tormento di granai traboccanti, di un traboccante cuore — ma nessuno più ti ringrazia...

Devi farti più povero, o saggio non-saggio! se vuoi essere amato. Si ama solo chi soffre, si dà amore solo a chi ha fame: prima dona te stesso, Zarathustra!

— Io sono la tua verità...


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