Accademia Per La Riprogrammazione
IL COUNSELING NUTRIZIONALE
Tesi di fine corso di
Counseling della Riprogrammazione Esistenziale
MARIA TERESA ABBINANTE
Relatore Dott. Mario Papadia
Bari 25/11/2014
Introduzione
Ho scelto di affrontare il tema del counseling nutrizionale in quanto, durante il mio
percorso formativo, ho avuto modo di confrontarmi con le difficoltà che un biologo
nutrizionista incontra nell’aiutare i propri clienti a portare a compimento il percorso
nutrizionale.
Tale approfondimento mi è utile nella prospettiva di una futura collaborazione con
questa figura professionale.
Nella prima parte della tesi illustro alcune delle fondamentali tematiche che
ritengo debbano rientrare nel bagaglio culturale di un counselor nutrizionale della
riprogrammazione, in quanto strumenti utili nelle fasi della deprogrammazione e
della riprogrammazione alimentare.
Sono partita facendo un excursus storico-culturale sul cibo e sulle abitudini alimentari
al fine di individuare le tracce programmatiche nei comportamenti alimentari odierni,
per poi procedere all’analisi dell’importante tema della percezione corporea e delle
malattie ad essa collegate.
Nella seconda parte, invece, spiego cosa è il counseling nutrizionale e, nello
specifico, il counseling nutrizionale secondo il modello della riprogrammazione
esistenziale del dott. Mario Papadia.
1. CIBO E SOCIETA’: ALCUNI TEMI
1.1 Introduzione: L’analisi del cibo nelle scienze sociali
Gli studiosi di scienze sociali hanno iniziato solo in tempi relativamente recenti ad
occuparsi dei fenomeni sociali legati alle pratiche alimentari.
Nella produzione sociologica e antropologica classica sono rari gli autori che hanno
studiato in modo “diretto” questo tema.
Le ragioni più evidenti di questo snobismo nei confronti dell’alimentazione sono
probabilmente due: <<l’importanza del cibo era talmente evidente e quotidianamente
sotto gli occhi di tutti che lo studio di queste pratiche non risultava essere
necessario>>1; il cibo, inoltre, apparteneva alla sfera domestica ed era quindi
collegato in particolare al ruolo della donna; ciò relegava il tema ad uno status
inferiore rispetto a quello dello studio delle attività della sfera pubblica da sempre
considerate di dominio maschile, quali l’economia e la politica che furono, infatti,
abbondantemente studiate.
1 L. Meglio, Sociologia del cibo e dell’alimentazione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 15.
<<L’incontro tra le scienze sociali e l’alimentazione avviene a fine ottocento
soprattutto grazie all’opera dell’antropologia culturale con la quale per la prima volta
si associa al cibo una dimensione culturale, simbolica e sociale degna di studio
empirico.
E’ comunque a partire dagli anni ’60 che gli studi su questo settore iniziano ad avere
una loro autonomia disciplinare tanto da poter iniziare a parlare di una sociologia
dell’alimentazione, soprattutto nel mondo anglosassone, dove vengono pubblicati i
primi manuali tematici su tale disciplina>>2.
Sono soprattutto antropologi come Mary Douglas, o sociologi, come Pierre Bourdieu,
a focalizzare, negli anni settanta, l'atto del mangiare come uno degli ambiti
privilegiati per l'espressione dell'identità delle persone e l'affermazione delle
distinzioni di classe.
Particolare attenzione alla tematica del cibo è stata posta anche dall'antropologo
Lévi-Strauss, il quale confrontando usanze e comportamenti della nostra cultura con
quelli provenienti da culture lontane nello spazio e nel tempo, cerca una matrice
originaria comune dei principi strutturali universali. Il modo di stare a tavola e la
cottura dei cibi rappresentano un mezzo di espressione delle strutture mentali di una
società e quindi del pensiero umano.
I primi due lavori che hanno indagato il tema dell’analisi delle abitudini alimentari
sono Il crudo e il cotto [1964] e Le buone maniere a tavola [1968], dove viene
sviluppato il tema della presenza, in tutte le culture, delle categorie universali del
2 Ibidem
crudo, del cotto e del putrido. <<Per il nostro autore il crudo è la dimensione naturale
per eccellenza, il cotto ne è la trasformazione culturale e il putrido o il fermentato, la
trasformazione senza l’intervento dell’uomo>>3. Il bollito è invece l’emblema
dell’evoluzione culturale nel quale l’acqua media tra il fuoco e la materia prima.
Mary Douglas condivide l’intento di Lévis Strauss di identificare i meccanismi che
determinano le scelte e i gusti ma non si aspetta che tali meccanismi siano universali,
bensì che varino da una cultura all’altra. Il cibo, dunque, per l’autrice rappresenta
una frontiera culturale simbolica in quanto delimita i confini tra noi e il diverso da
noi.
La scuola francese di sociologia, nel novecento, ha prodotto i primi studi sul rapporto
cibo-società nelle sue molteplici rappresentazioni. Un primo contributo ci giunge da
Claude Fischler il quale con la sua opera dal suggestivo titolo L’onnivoro [1990],
inaugura i moderni studi di sociologia dell’alimentazione.
Sempre in Francia uno dei contributi più originali ed attuali della nascente sociologia
dell’alimentazione europea, ci perviene dal sociologo e antropologo Jean-Pierre
Poulain. Il suo lavoro, dall’eloquente titolo Sociologies de l’alimentation. Les
mangeurs et l’espace social alimentaire [2002], si presenta come un vero e proprio
manuale di sociologia del cibo e dell’alimentazione.
3 Ibid., p. 23.
Ho scelto tuttavia di non presentare l’argomento attraverso le principali scuole di
pensiero che se ne sono occupate. Intendo piuttosto rendere conto di una serie di
parole chiave che possano dare l’idea delle diverse linee di ricerca che sono state
sviluppate nello studio del fenomeno cibo.
1.2 La trasformazione culturale del cibo
Fin dai tempi più antichi l’uomo – come ogni altra specie sul pianeta – ha interagito
con la natura in base a un imperativo dominante: sopravvivere. Per lunghissimo
tempo tale imperativo si è fondato, oltre che sul bisogno di proteggersi da ambienti
climatici a volte molto avversi, soprattutto sulla capacità di risolvere, a proprio
favore, l’alternativa tra mangiare o essere mangiato.
Vagabondando alla ricerca di cibo dalla notte dei tempi, l’uomo ha cercato la propria
sopravvivenza in due pratiche principali: la raccolta di cibo commestibile e la caccia.
Continuamente esposti alla possibilità di divenire cibo essi stessi, i nostri progenitori
hanno sviluppato capacità di intervento sulla natura sempre più articolate, ben prima
dell’adozione dell’agricoltura avvenuta circa 15.000 anni fa.
Sopravvivere richiede soprattutto rifornirsi di energia e l’alimentazione è la
principale risorsa energetica. Nel nostro cervello si sono stabilizzati non solo le
programmazioni cooperative della caccia ma anche quelle della furia necessaria a
prevalere sull’animale e talvolta anche su altre comunità umane per il dominio di un
territorio. Avere denti per lacerare carni, scatenare le proprie furie biologiche nell’ira,
usare comportamenti prevaricanti è sì un bisogno ma anche uno scopo biologico.
Fisicamente poco attrezzato rispetto ad altri animali, il cacciatore - raccoglitore era
dotato di requisiti mentali notevoli e di una grande curiosità esplorativa.
Nel Paleolitico aveva scoperto e iniziato ad usare il fuoco. Nella stessa epoca ha
ideato un numero crescente di strumenti per cacciare, pescare, difendersi e creare
rifugi.
In alcune popolazioni la dieta era alquanto basata sulla cacciagione, e quindi sul
consumo di carne; ma buona parte degli studiosi odierni ritiene che la grande
maggioranza dei nostri antenati vivesse soprattutto di cibi derivati da piante, oppure –
nelle zone vicine a mari e fiumi – di pesci e molluschi. Alcune popolazioni erano,
quindi, esclusivamente vegetariane.
Nel corso del Paleolitico all’Homo Erectus subentrò l’Homo Sapiens e la dimensione
del cervello passò da circa 400 centi-metri cubi fin quasi agli attuali 1400 centimetri
cubi. Un cervello di grandi dimensioni richiedeva una straordinaria quantità di
nutrienti dal momento che era necessaria molta energia mentale per affinare gli
strumenti cognitivi e sensoriali atti a distinguere quali alimenti – tra i molti
disponibili – fossero commestibili.
La capacità umana di manipolazione della natura ha segnato una tappa cruciale con la
scoperta del fuoco. Utilizzato variamente per scaldarsi, avere luce, proteggersi dalle
fiere, fare segnali, asciugare indumenti, il fuoco ha dato luogo a sviluppi culturali
progressivi di enorme importanza specialmente in campo alimentare.
Per dirla con Levi Strauss, la cottura dei cibi col fuoco è “l’invenzione che ha reso
umani gli umani”. Prima di apprendere la possibilità della cottura, il cibo, e
particolarmente la carne, veniva mangiato crudo, avariato o putrefatto.
L’uso del fuoco ha dunque portato a una svolta decisiva. Tali concetti sono
ulteriormente elaborati con l’analisi del ‘triangolo culinario’ dello stesso autore che,
come già accennato nel precedente paragrafo, distingue - nell’ambito del cotto - tre
categorie differenti: l’arrostito, il bollito e l’affumicato. In tutte le società l’arrostito è
stata la prima forma di cottura, quella più vicina all’ordine naturale. Gli utilizzi più
antichi del fuoco si sono basati sull’esposizione diretta del cibo alla fiamma: il cibo,
in pratica, veniva semplicemente ‘bruciato’. L’affumicato e il bollito rappresentano
due forme diverse di sviluppo culturale, che si contrappongono all’arrostito per l’uso
inventivo di due diversi elementi di mediazione nella cottura: l’aria e il fumo in un
caso, l’acqua e qualche genere di ricettacolo o tegame nell’altro caso.
È interessante notare come oggi i vari modi di cuocere – o non cuocere – gli alimenti
tendono a elaborare il loro senso con svolte e implicazioni notevoli. Nel mondo
occidentale il crudo del sushi, più che connotare qualcosa di naturale, evoca l’idea di
una cucina raffinata ed esotica. Mentre la cottura al vapore, anch’essa di ispirazione
orientale, ha assunto particolari valenze di tipo dietetico e salutista.
Come rilevato da Jones, alle origini di ciò che oggi chiamiamo convivialità, vi sono,
dunque, le pratiche primitive di condivisione del cibo intorno al fuoco da parte di
gruppi di umani che sedevano faccia a faccia, sorridendo, ridendo – e
progressivamente parlando. Pratiche non reperibili tra le altre specie, non solo per la
paura del fuoco ma perché, nel regno animale, il contatto diretto degli occhi,
l’apertura della bocca e l’esposizione dei denti sono gesti tipicamente ostili.
La tavola contemporanea e la consuetudine di mescolare cibo e discorsi in
circostanze conviviali d’ogni genere deriva, pertanto, da un’esperienza molto lontana
nel tempo con la quale la specie umana ha superato tensioni istintive naturali.
Durante il percorso di counseling nutrizionale (vedi cap.4) tali informazioni sono
utili per quei clienti che tendono ad isolarsi o a rinunciare a situazioni sociali quali
cene, feste ecc. per non trasgredire la dieta.
1.3 Cibo come identità
E’ possibile individuare un aspetto fondamentale comune a tutti gli studi sociologici
sul cibo: il legame tra il cibo e l’identità. Vengono messi in relazione certi tipi di
alimenti con alcune determinate caratteristiche delle persone che li mangiano. E’
l’idea, pressoché universalmente diffusa, secondo la quale “si è ciò che si mangia”.
Dalla qualità delle sostanze che il nostro organismo assorbe, dipende il nostro
benessere fisico, mentale, emozionale e spirituale. In genere si fa sempre poca
attenzione al cibo che viene ingerito; raramente si pensa che quella sostanza diventerà
parte di noi e che condizionerà i nostri processi chimici, biologici, energetici e
spirituali. <<Sono le sostanze di cui ci si nutre e non solo il modo con cui ci si nutre, i
fattori della programmazione della persona>>4 .
Per le decisioni di cambiamento è importante ad esempio sapere che l’accumulo di
alcuni componenti onnipresenti negli alimenti artefatti (lievito, lattosio ecc.) possono
causare intolleranza e conseguenti disturbi quali malumore, astenia e irritabilità.
Da considerare anche la dimensione del rapporto cibo-identità relativo al senso di
appartenenza e di solidarietà tra individui che si sentono parte dello stesso gruppo e
che implica, contemporaneamente, un’idea di opposizione e di alterità rispetto ad altri
individui che a tale gruppo non appartengono.
Il legame tra cibo e identità non deve essere considerato una caratteristica esclusiva
delle società tradizionali. In maniera più o meno consapevole tale legame esiste nelle
attuali società: si pensi a quante volte gli appartenenti ad una determinata cultura
vengano definiti in base alla loro alimentazione: gli italiani sono Macaroni, i tedeschi
sono Mangia-patate per gli italiani; “gli abitanti di Bruxelles sono correntemente
chiamati kiekefretters (mangiatori di pollo)”, più localmente i vicentini sono Magna-
gatti.
Come la lingua, la cucina è un linguaggio appreso nei primi anni di vita che rimane
fortemente impresso nell’identità e nella memoria di ognuno.
Per gli immigrati, ad esempio, la cucina rappresenta uno strumento di identificazione,
4 M. Papadia, La riprogrammazione esistenziale psicoterapia, counseling,medicina naturale, Roma,
Armando Editore, 2001, p. 125.
un mezzo nostalgico per ricongiungersi idealmente con il paese, con il luogo natio e
quindi per sentirsi in qualche modo a casa.
Il cibo diviene simbolo identitario non solo di un territorio ma di un’intera nazione,
diviene cioè simbolo di una identità etnica.
1.4. Cibo e commensalismo
L’importanza delle pratiche di convivialità, quando si parla di cibo in una prospettiva
sociale, è un argomento ampiamente riconosciuto e discusso nella letteratura
sociologica e antropologica. Già la sociologia classica ha diffusamente studiato
questo tema e ne ha sottolineato l’importanza.
<<Tutti gli eventi che caratterizzano l’esistenza di ognuno di noi hanno come
momento centrale il pranzo o la cena che diventano luoghi di coesione e di incontro;
quando si nasce, si cresce, ci si sposa, si incontra la persona amata, si organizzano
meeting di lavoro, tutto avviene, in un modo o nell’altro, attorno ad una tavola>>5.
Possiamo dunque affermare che vi è un legame diretto e indissolubile tra il gusto del
cibo e il piacere di una condivisione.
Occorre però definire e precisare cosa si intende con il termine commensalità in
quanto ad esso è connessa una varietà di significati tale da rendere ambiguo l’uso
stesso del termine.
5 L. Meglio, Sociologia del cibo e dell’alimentazione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 8.
Al lettore europeo di oggi il concetto di commensalità probabilmente suggerisce un
tipo specifico di pratica: il fatto che a tutti coloro che siedono allo stesso tavolo
vengono serviti gli stessi cibi. Ma la letteratura storica ci insegna che questo non è
affatto l’unico modello né il più diffuso di pratica commensale.
“Almeno fino all’inizio del Seicento - scrive Flandrin - non si pensava che le persone
sedute alla stessa tavola dovessero mangiare gli stessi cibi né bere le stesse
bevande”.
Si possono dunque distinguere vari tipi di pratiche di commensalismo che cambiano
da una società all’altra e nel corso del tempo. Gli invitati a un banchetto possono
sedere tutti allo stesso tavolo e mangiare gli stessi cibi, come accade normalmente
nell’Europa dal Seicento in poi; oppure, come nella descrizione di Flandrin, alle
persone che siedono allo stesso tavolo, possono essere serviti cibi diversi in funzione
della loro posizione nella scala sociale; o ancora, come è ampiamente documentato
dalla letteratura antropologica, possono essere allestiti diversi tavoli ai quali vengono
serviti diversi cibi, nell’ambito della stessa cerimonia-pasto (De Garine 1979, 1992).
Tali conoscenze - nell’ambito della consulenza (vedi cap. 4) - hanno l’obiettivo di
sfatare determinate credenze valoriali legate all’abitudine di consumare e
condividere necessariamente gli stessi pasti a tavola; credenze comuni a persone
fortemente legate a consolidate tradizioni familiari che sono spesso da ostacolo al
perseguimento dell’obiettivo dieta.
Al di là dell’interesse che rivestono i diversi modelli di commensalismo, ha assunto
particolare importanza il dibattito che si è sviluppato a proposito della funzione e
dell’origine delle pratiche commensali.
Arnold van Gennep sottolinea come la commensalità o il rito del mangiare e del bere
insieme sia chiaramente un rito di aggregazione e di unione.
La caratteristica peculiare che distingue il commensalismo da altre forme di rapporti
tra individui determinati dal cibo (parassitismo, predazione, ecc.) è che nel
commensalismo entrambi i soggetti che partecipano al rapporto, traggono dei
vantaggi dal rapporto stesso.
Nell’evidenziare l’universalità del commensalismo, Van den Berghe parte da una
prospettiva evoluzionista. Egli ha ricercato l’origine della pratica del commensalismo
conducendo un’analisi comparata tra le abitudini sociali umane e quelle di alcuni
animali. Il dato che appare immediatamente importante è che la pratica di condividere
il cibo è comune alla maggior parte degli animali carnivori. In particolare Van den
Berghe osserva come alcune specie, quali gli scimpanzé e i cànidi, si servano degli
scambi di cibo per creare e mantenere dei legami sociali che vanno oltre i naturali
vincoli di sangue.
Negli scimpanzé le somiglianze con i comportamenti umani, a proposito di
condivisione del cibo, sono ancora più accentuate e si estendono alle modalità dello
scambio: “i gesti ritualizzati usati dagli scimpanzé per chiedere il cibo (estendere le
braccia verso il possessore del cibo con le mani leggermente a forma di coppa e le
palme rivolte verso l’alto) sono identici a quelli riscontrati negli esseri umani.” (Van
den Berghe 1984).
Secondo tale analisi il fatto che la pratica di condividere il cibo sia comune alla
maggior parte degli animali carnivori dimostra quanto le radici di questo
comportamento umano siano antiche e profonde.
Nella odierna società industriale Corbeau sostiene ci sia stata una trasformazione di
quelle pratiche di commensalismo che erano state a lungo considerate un esempio di
pratiche estremamente stabili e resistenti al cambiamento.
L’autore parla di una pratica di “nomadismo alimentare” osservabile su due distinti
livelli. Un primo livello è quello relativo all’abitudine, in crescente diffusione, di
consumare i pasti al di fuori della propria abitazione e del proprio gruppo familiare,
in relazione a mutamenti negli orari di lavoro e a una diversa gestione del tempo
libero; il secondo livello è invece riferito allo spazio privato, in cui il pasto non viene
più necessariamente consumato in sala da pranzo o in cucina, né alla presenza di tutti
i membri della famiglia ma piuttosto davanti alla televisione, magari in tempi diversi
secondo le diverse necessità dei familiari. Basti pensare al numero crescente di
adolescenti ormai abituati, a qualunque ora del giorno, a fare continui spuntini da soli
o con amici sul divano del soggiorno mentre guardano la TV o sono impegnati con il
videogioco per poi, magari, disertare la tavola quando i genitori si siedono per cenare.
1.5 Gusti e preferenze
Nell’analizzare la variabilità dei gusti all’interno di una società, Bourdieu sottolinea
come spesso, quelli che vengono definiti come gusti, e che dovrebbero quindi
presupporre una libertà di scelta tra diverse opzioni, sono - in realtà - non-scelte,
imposizioni determinate dall’ambiente, dalla condizione sociale, economica o
culturale. (Bourdieu 1979). In altri termini, il gusto è un prodotto sociale.
<<Come ben ci ha ricordato Fishler l’uomo è onnivoro ossia è predisposto a mangiare
di tutto; è la società di appartenenza che nel corso dei secoli ha stabilito cosa sia
giusto presentare a tavola e cosa no>>6. Il cibo diviene, pertanto, un elemento
socialmente costruito.
La letteratura etnologica abbonda di esempi di cibi considerati eccellenti in alcune
società e aborriti in altre. Alcuni sono presentati da Harris (1985); Benché piuttosto
atipica, mi limito a citare l’analisi che l’antropologo americano conduce a proposito
della diversa considerazione riservata al latte: se per la maggior parte degli
Statunitensi il latte costituisce l’alimento perfetto, quello cioè considerato nutriente e
assolutamente non nocivo, in Brasile tale alimento è tenuto in scarsa considerazione,
ed i Cinesi - dice Harris - al pari degli altri popoli dell’Est e Sudest asiatico, non solo
sono avversi all’uso alimentare del latte, bensì lo detestano proprio. (Harris 1985).
È invece ben noto che le cavallette sono considerate una ghiottoneria in molti paesi
africani mentre fanno normalmente ribrezzo in Occidente. Anche nelle società
6 Ibidem.
occidentali, a seconda delle regioni e dei gruppi sociali, alimenti come lumache, rane,
interiora di animali possono essere tanto osannati quanto considerati repellenti.
Fischler (1990) presenta a titolo dimostrativo il seguente prospetto nel quale,
limitatamente al consumo di alcune specie animali, si sottolinea la diversità
riscontrabile in differenti culture per quanto concerne la commestibilità o meno delle
diverse specie.
Commestibile Non commestibile
Insetti America latina, Asia, Africa, ecc. Europa occidentale, Nord America, ecc.
Cane Corea, Cina, Oceania, ecc. Europa, Nord America, ecc.
Cavallo Francia, Belgio, Giappone, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc.
Coniglio Francia, Italia, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc.
Lumaca Francia, Italia, ecc. Gran Bretagna, Nord America, ecc.
Rana Francia, Asia, ecc. Europa, Nord America, ecc.
Di fronte a questa grande variabilità di gusti, antropologi e sociologi hanno cercato di
dare una spiegazione delle differenze riscontrate. Le interpretazioni e le teorie che ne
sono risultate sono le più disparate.
Claude Fischler fornisce un’interpretazione dell’origine del rifiuto alimentare (che lui
chiama disgusto) che tiene conto della componente biologica. La dimensione
biologica del disgusto può essere messa in relazione con il comportamento onnivoro
dell’uomo: il disgusto deriverebbe, secondo questa interpretazione, dal rifiuto di tutto
ciò che appare nuovo e sconosciuto alimentarmente.
Nella sua opera maggiore dal suggestivo titolo L’onnivoro, Fishler spiega come
<<l’uomo è preso da due fuochi: da un lato il bisogno di variare, diversificare e
innovare la dieta, dall’altro l’imperativo d’essere cauti perché ogni cibo sconosciuto è
un pericolo potenziale>>7 Incorporare gli alimenti significa farli diventare parte della
nostra sostanza intima; perciò l’alimentazione è il campo del desiderio, dell’appetito,
del piacere ma anche della diffidenza, dell’incertezza e dell’ansietà.
L’onnivoro umano vive una vita scissa tra due poli opposti, quello della paura della
contaminazione (neofobia) e quello della tensione verso il cambiamento (neofilia).
Come rileva Pollan, “non vi è probabilmente una fonte di nutrienti sulla terra che non
sia stata mangiata da qualche umano – insetti, vermi, terra, funghi, licheni, alghe,
pesci marci; radici, germogli, steli, corteccia, boccioli, fiori, semi, frutti di piante;
ogni parte immaginabile di ogni animale immaginabile”. Tale capacità di adattamento
alimentare ha sì favorito l’evoluzione della specie ma ha anche posto all’uomo, a
differenza degli animali con un’alimentazione molto selettiva, continue difficoltà
nel riconoscere i cibi commestibili che fanno bene da quelli che fanno male con
grande dispendio di tempo e di energia.
Oggi, nella scelta del cibo, ci si basa sulla cultura e sulle tradizioni che conservano il
7 Ibid., p. 32.
sapere e l’esperienza cumulata dai nostri antenati. Tutto ciò consente di non dover
affrontare ogni volta il dilemma dell’onnivoro.
Un fatto che appare ampiamente confermato da esperimenti e osservazioni di
psicologi e sociologi che se ne sono occupati, è che i gusti si formano e si
costituiscono prevalentemente nei primissimi anni di vita dell’individuo; secondo
Fischler il meccanismo con cui determinati gusti prendono forma è un meccanismo
essenzialmente imitativo del comportamento degli adulti più prossimi affettivamente,
ma anche spazialmente. Moulin sottolinea in modo particolare come “mangiamo ciò
che nostra madre ci ha insegnato a mangiare” (Moulin 1975).
E’ all’interno dello scambio culturale e valoriale tra genitori e figli che i secondi
apprendono quelli che sono i modi di comportamento alimentare da seguire,
distinguendo, ad esempio, i cibi buoni da quelli cattivi.
In generale, dunque, “i fattori più importanti nella trasmissione e nella genesi dei
gusti alimentari sono rappresentati dalla famiglia e dall’educazione.” (Fischler 1990).
1.6 Il valore simbolico degli alimenti nelle grandi fedi religiose
Come osserva Anderson, richiamando Durkheim, non esiste religione nella quale il
cibo non rivesta al suo interno una grande rilevanza.
Nel corso del tempo, al semplice gesto di cibarsi, le fedi hanno accostato un forte
valore simbolico e rituale stabilendo un insieme di divieti e prescrizioni.
Nell’Ebraismo un numero considerevole delle 613 mitzvot (precetti) che guidano la
vita di un ebreo, riguarda proprio la sfera alimentare e trae origine da importanti
passaggi dell’Antico Testamento. La maggior parte di queste regole disciplina il
consumo di carne; l’interpretazione prevalente di alcuni brani della Bibbia indica che
l’umanità sarebbe stata dapprima vegetariana e sarebbe divenuta carnivora solo in un
secondo momento, per autorizzazione divina. Nel pensiero biblico, mangiare carne è
considerato non come un diritto scontato e un fatto naturale, ma come un atto che
comporta la violazione di un ordine e che può essere lecito solo a determinate
condizioni.
In questa visione l’alimentazione diventa un rito, un modo di essere e agire
sacralmente, uno strumento di perfezione; non più soltanto un modo di sopravivenza
e una necessità biologica ma anche un sistema di affermazione culturale.
Nel Cristianesimo non esiste un’analoga normativa alimentare; in particolare non vi è
una distinzione generale tra cibi leciti e proibiti.
Il rapporto dell’uomo col cibo tuttavia è pur sempre inserito nella dimensione
dell’incontro con Dio. Il ruolo simbolico del vino e dell’ostia nel sacramento
dell’Eucaristia, che si fonda sulle parole pronunciate da Gesù nel corso dell’ultima
cena, rappresenta per i cristiani il mezzo di comunione delle anime e di memoria
permanente della passione di Cristo. Sebbene la relazione col cibo nel Cristianesimo
sia relativamente libera, alcune prescrizioni spingono a limitare il consumo di carne
durante il periodo liturgico della quaresima.
La terza religione monoteista, l’Islam, rifiuta sia le norme severe dell’ebraismo sia la
libertà alimentare del cristianesimo e tende, invece, a predicare un atteggiamento di
moderazione nel consumo di cibi. Peraltro la tradizione alimentare Halal, seguita da
circa il 70% dei musulmani nel mondo, non manca di dettare alcune regole su ciò che
è permesso mangiare. I limiti principali (meno stringenti di quelli ebraici) riguardano
ancora la carne. Inoltre, a differenza dell’ebraismo e del cristianesimo, l’Islam non
autorizza il consumo di bevande alcoliche.
L’importanza delle pratiche alimentari sotto il profilo religioso è messa in rilievo dal
digiuno di Ramadan, volto a educare i musulmani alla pazienza, alla modestia e alla
spiritualità.
Il mondo orientale vanta una cultura gastronomica antica. I testi sacri della tradizione
induista sono alla base della cucina vegetariana indiana. l’Induismo così come anche
il Buddismo e il Giainismo condividono l’impegno a ciò che in Sanscrito si chiama
‘ahimsa’ (non violenza). Il Giainismo, in particolare, ritenendo che ogni essere
vivente, anche microscopico, abbia un’anima, e che l’anima sia potenzialmente
divina, rifiuta il consumo di carne nonché ogni inutile forma di violenza come quelle
praticate nelle moderne aziende di prodotti animali.
2. CIBO E MODERNIZZAZIONE
2.1 Stabilità e cambiamento
Lo studio delle pratiche alimentari nelle società post-industriali implica la necessità di
fare luce sul rapporto tra le caratteristiche di stabilità che caratterizzano il sistema
cibo e gli elementi di cambiamento che si possono osservare nelle stesse.
Le preferenze alimentari riscontrabili nei membri di un certo gruppo sembrano essere
molto più statiche di quelle espresse in altri settori (come l’abbigliamento, la musica,
ecc.);
“In campo alimentare l’uomo è particolarmente conservatore.” (Moulin 1985).
Contrariamente a quanto avviene per le nostre opinioni politiche o artistiche che si
formano e si strutturano gradualmente, attraverso un processo -in certa misura-
cosciente, i gusti in campo alimentare si formano prevalentemente nei primissimi
anni della nostra vita. Non sono quindi vagliati criticamente e coscientemente ed è
per questo che vengono generalmente considerati innati, naturali, istintivi.
Possiamo quindi individuare due aspetti fondamentali della pratica alimentare: la sua
staticità, la sua attitudine a rimanere relativamente invariante nel tempo e
“l’attaccamento affettivo” alle proprie abitudini alimentari, riscontrabile anche nel
mangiatore moderno (Fischler 1990, Moulin 1975).
Tuttavia non si può negare il fatto che, in genere, le famiglie italiane non mangiano
allo stesso modo e non mangiano gli stessi cibi che mangiavano nel XVIII secolo, e
neppure negli anni ‘50 del XX secolo.
Il cibo, per quanto resistente al cambiamento, non è immutabile. Molte analisi
dimostrano che negli ultimi trent’anni si è assistito a un grande cambiamento delle
abitudini e delle pratiche alimentari; cambiamento determinato in primis
dall’industrializzazione e quindi dai progressi nelle tecniche di conservazione e dei
mezzi di trasporto che hanno consentito la diffusione dei cibi nei grandi circuiti di
commercializzazione.
Goody sottolinea come il cammino sociale del cibo non sia rettilineo ed uniforme ma
subisca accelerazioni e rallentamenti in funzione di diversi fattori quali
l’industrializzazione e le migrazioni.
2.2. Storia moderna dell’alimentazione
Il secondo dopoguerra segna la nascita dell’industria alimentare moderna.
Si realizza in quegli anni un ciclo straordinario di innovazioni tecnologiche che rende
possibile un progresso economico e sociale, soprattutto in Europa, fortemente
accelerato. Migliorano i trasporti urbani ed extra urbani, si registra l’impetuoso
sviluppo dell’automobile e delle infrastrutture viarie.
Sul versante più strettamente alimentare si assiste al progresso nelle metodologie di
conservazione e preparazione degli alimenti, agli sviluppi delle conoscenze
scientifiche nella gestione degli allevamenti animali e delle coltivazioni.
La diffusione capillare dei mezzi di comunicazione di massa, dà origine a nuovi
modelli di consumo. Accedono alle prime forme moderne di produzione alimentare -
di natura industriale - intere fasce di popolazione.
Uno degli elementi che sembra aver segnato in modo più marcato lo sviluppo sociale
dei Paesi europei, come era accaduto più di un decennio prima negli Stati Uniti, è
stato la nascita della televisione. Con la televisione nasce l’industria pubblicitaria
moderna, che tanta parte ha avuto nelle sorti delle produzioni di beni di largo
consumo, anche alimentare .
Gli anni ’50 e ’60 sono gli anni della grande “sbornia” alimentare.
Gli anni ’70 segnano, nel rapporto con il cibo, il definitivo imporsi, in forma
strutturata, delle dinamiche manifestatesi nei decenni precedenti: industrializzazione
spinta, l’imporsi della grande distribuzione e delle sue catene, il cambiamento dei
gusti sempre più nella direzione del meno cibo cucinato e più cibo pronto (anche
surgelato), una pubblicità sempre più incidente sulle dinamiche di consumo
alimentare e non.
Gi anni ‘80 ma soprattutto i primi anni ’90 vedono l’irrompere sulla scena mondiale
del fenomeno della globalizzazione; e con la globalizzazione, il sorgere di una
rinnovata curiosità per le abitudini alimentari e gli stili di vita di altri popoli.
Questa è però anche la fase nella quale nasce il movimento di pensiero slow food, in
aperto e dichiarato contrasto con il dilagare del fast food e della frenesia della vita
moderna. Il movimento slow food studia, difende e divulga le tradizioni agricole ed
enogastronomiche di ogni parte del mondo, rivendicando il diritto al piacere nel
rapporto con il cibo.
Questo tema verrà approfondito nei successivi paragrafi
2.2.1 Gli odierni consumi alimentari.
L’alimentazione, in tutti i paesi industriali, a partire dal secondo dopoguerra, ha
subito notevoli cambiamenti. I più importanti sono:
- Eccesivo consumo di carne (passaggio da una dieta cerealicola a una dieta
carnea).
- Aumento considerevole del consumo di zucchero e farine raffinate
- Largo uso di “grassi vegetali”
- Scarso consumo di verdura e frutta
Il consumo di zuccheri è letteralmente esploso in un periodo di tempo troppo breve
rispetto a quelli che sono i tempi evolutivi dell’uomo.
Il nostro corredo genetico si è sviluppato in un contesto nutrizionale in cui
consumavamo 2 chili pro capite l’anno; siamo passati a 5 kg di zucchero nel 1830.
Poi il consumo è progressivamente aumentato fino a 40kg prima delle prima guerra
mondiale. In corrispondenza delle due guerre si è ridotto notevolmente fino a 30kg
per poi arrivare a 70kg di zucchero nel 2000.
Con il boom economico dello scorso secolo, insieme al consumo di zucchero, è
anche aumentato il consumo di prodotti da forno, confezionati e non, dolcificati e
non, fatti con farine sempre più raffinate, “0” e “00” (grado di abburratamento)
ricchissime di amido.
Gli zuccheri e tutti questi alimenti raffinati vengono definiti “ad alto indice
glicemico” e sono i principali responsabili delle condizioni di sovrappeso e obesità.
Nell’ ambito del counseling nutrizionale, tali informazioni mirano ad aiutare il
cliente a disaffezionarsi ad alimenti di cui pensa di non poter fare a meno o a
limitarne il consumo. In questo modo, si opera una deprogrammazione sia mentale,
sia bioenergetica. Mentale in quanto si sfatano determinate credenze sulla salubrità
di alcuni cibi, bioenergetica perché può provocare il disgusto per cibi malsani. (Si
rimanda al capitolo quarto per un approfondimento dell’argomento).
2.3 Dal Mc Donald allo sviluppo locale dei prodotti tipici
<<Ogni paese ha le sue abitudini alimentari frutto di una memoria storica che si è
tramandata di generazione in generazione e che ha fatto sì che attorno al cibo delle
nostre “nonne” si radicasse la nostra cultura>>8.
<<Il cibo racconta una storia: quella dei luoghi in cui è stato fatto, delle persone che
l’hanno fatto, delle tradizioni dei paesi da cui proviene>>9.
Non si può tuttavia negare che stiamo – oggi – assistendo a quel fenomeno che
qualche studioso ha definito come macdonaldizzazione della società.
Nel suo volume Il mondo alla Mc Donald’s, Ritzer denuncia quello che, a suo avviso,
è un processo di omologazione e spersonalizzazione prodotto dalla catena americana
dei fast food all’interno della cultura di massa contemporanea.
I mercati alimentari di tutto il mondo sembrano offrire prodotti sempre più simili e
meno differenziati “geograficamente”. La diversità viene appiattita e i prodotti
vengono standardizzati al fine di renderli accettabili a tutti; <<l’autenticità e l’unicità
dei prodotti locali vengono dunque impoverite in nome di un consumo globale,
fruibile cioè da tutti in ogni luogo e in ogni momento>>10.
8 L. Meglio, Sociologia del cibo e dell’alimentazione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 59.
9 Ibidem.
10
Ibid., p. 61.
L’avvicinamento al fast food (pasto veloce) e alle grandi catene alimentari, quali
appunto il McDonald’s, è avvenuto fondamentalmente tramite la televisione e il
cinema che ne hanno diffuso la conoscenza e soprattutto il “desiderio”.
Ritzer appare troppo pessimista e quasi rassegnato alla perdita di quella identità
alimentare che abbiamo definito elemento cardine della cultura di una comunità.
Tale processo, in realtà, contribuisce ad accrescere la dialettica tra globale e locale.
Il global in qualche modo si è dovuto adeguare alla richiesta del local; <<Lo stesso
Mc Donald’s ha percepito questa resistenza locale, tanto da creare panini o prodotti
che rispecchiano le identità territoriali, come in Italia il caso del panino ciociaro con
ingredienti del territorio>>11.
Dunque è negli ultimi anni che nel nostro paese si sta assistendo ad un recupero, lento
ma costante, della valorizzazione delle antiche tradizioni presenti nelle piccole
comunità di provincia, ricche di storia e di cultura. Accanto all’artigianato, ai beni
culturali e ambientali, il cibo diviene risorsa fondamentale sia di valorizzazione
identitaria di una comunità sia di promozione economica sotto forma di sviluppo
locale.
Fischler, anche, sostiene che ci troviamo di fronte a un fenomeno che genera due
tendenze distinte e apparentemente opposte: la prima è quella che porta verso una
11
Ibidem.
progressiva standardizzazione dei consumi alimentari, la seconda indica una sempre
maggiore diversificazione dei prodotti consumati.
Goody (1982, 1989) affronta invece l’argomento dimostrandosi interessato a quello
che egli definisce il processo di “mondializzazione della cucina” osservabile in due
distinte, anche se collegate, manifestazioni: da una parte si verifica una sempre
maggiore reperibilità di cibi stranieri, dall’altra nasce un tipo di cucina che egli
definisce “internazionale” nel senso che non è specificamente riferibile a questa o a
quella cultura. Questo tema, che qui accenno soltanto, verrà approfondito nel capitolo
successivo.
2.4 Nuova multi etnicità
Un elemento demografico molto importante emerso negli ultimi anni è l’aumento
dell’immigrazione. L’Italia, infatti, negli ultimi anni ha subito gradualmente
un’inversione di tendenza, trasformandosi da Paese con alti flussi di emigrazione a
Paese d’immigrazione.
Secondo i dati di previsione demografica dell’Istat, questa tendenza è destinata a
crescere.
Questo fenomeno sta incidendo notevolmente sulle nostre abitudini alimentari, in
particolare provocando una diversificazione della dieta alimentare e l’introduzione di
“nuovi” cibi. La composizione di una popolazione multi-etnica nel nostro Paese ha
contribuito, assieme al più generale fenomeno della globalizzazione dei consumi, al
diffondersi di una maggiore conoscenza di prodotti alimentari caratteristici dei Paesi
di origine. Ne consegue il diffondersi di un comportamento alimentare alternativo a
quello tipico del nostro Paese, che stimola una domanda sempre più differenziata e
orientata verso cucine extra-nazionali.
Questo ha determinato un aumento, soprattutto tra le nuove generazioni, del consumo
di alimenti non propriamente mediterranei quali il “sushi”, la “bistecca argentina”e
specialità orientali e altri tipici del bacino del Mediterraneo quali il “Kebab” e il
couscous.
In Italia, dove questo processo è arrivato con ritardo rispetto ad altri Paesi – a causa
di una più radicata tradizione alimentare preesistente – l’avvicinamento alla cucina
etnica è dapprima avvenuto con il ristorante cinese al quale si sono poi affiancate
anche altre cucine: la cucina indiana, quella tailandese, sudamericana che, nel giro di
pochi anni sono diventate, soprattutto tra i giovani, le più gradite.
Più recentemente, forse anche in linea con una visione più salutistica del cibo, ha
avuto uno strepitoso successo la moda della cucina giapponese.
Nell’ambito della consulenza, la conoscenza di cibi alternativi è utile soprattutto
nella fase della riprogrammazione alimentare (vedi cap.4) in quanto si aiuta il
cliente nell’esplorazione di nuovi gusti alimentari e nel rimpiazzare, i cibi vietati
nella dieta, con equivalenti più salutari .
2.5 Dal pasto tradizionale al pasto flessibile
<<L’Italia è uno dei pochi paesi dove le pratiche di consumo alimentari sono sempre
state fortemente inserite all’interno del tessuto valoriale e storico delle nostre
famiglie>>12.
Il pranzo e la cena da sempre sono stati i punti di contatto e unione del nucleo
familiare nel quale si tramandavano antiche tradizioni e ricette che il passare del
tempo non ha mai scalfito.
Eppure oggi, le trasformazioni che hanno interessato la realtà lavorativa e
l’inserimento della donna nel mondo del lavoro, hanno inciso sui comportamenti di
consumo alimentare propri delle famiglie italiane, soprattutto all’interno delle grandi
città dove oramai il pasto di metà giornata si consuma all’esterno.
Anche il diffondersi di un nuovo modello familiare (coppie senza figlie, non
coniugate, mono-genitori) e la forte presenza dei single (maggiore presenza nel
Nord-ovest e nel Centro del Paese) hanno favorito il maggior consumo di alimenti
fuori casa e il consumo di cibi precotti.
La “corsa al tempo” porta il diffondersi di break lunch, snack bar veloci e vicini al
posto di lavoro incidendo fortemente sulla tipica abitudine italiana di pranzare a casa.
Negli ultimi anni è difatti cresciuta la spesa per i servizi di ristorazione. E’ possibile
osservare anche la crescita del consumo alimentare nelle mense aziendali.
12
Ibid., p. 48.
Il pranzo lascia quindi sempre più il posto alla cena nel ruolo di pasto principale
della giornata. <<Se quindici anni fa il pasto più importante era il pranzo (considerato
un vero e proprio rituale formato da primo, secondo, contorno e frutta) per il
78%degli italiani, ora a considerarlo tale è solo il 67%.
Così l’italiano moderno che spende mediamente 7 euro per pranzo, sceglie un panino
(26%), una pizza (23%), un primo (15%) o un’insalata (13%)>>13.
Il pasto, dunque, <<da momento tradizionale di incontro, dialogo e condivisione
valoriale, si è trasformato in pasto flessibile ossia un pasto funzionale alle diverse
esigenze alle quali il mondo del lavoro, di studio o semplicemente la modernità ci
chiede di adeguarci>>14.
Partendo dall’osservazione delle caratteristiche che identificano il pasto come “fatto
sociale”, Herpin ritiene che stiamo assistendo a un processo di destabilizzazione e che
tale processo possa assumere diverse forme:
1) la “de-concentrazione”: l’assunzione di cibi non avviene più in due o tre momenti
della giornata ma, in quantità minori, nel corso di numerosi spuntini;
13
Ibid., p. 52.
14
Ibid., p. 50.
2) la “de-sincronizzazione”: all’interno dello stesso gruppo (famiglia o gruppo di
lavoro) gli orari del pasto non coincidono più, facendo perdere al pasto una delle sue
funzioni tradizionali quale quella di incontro e di scambio;
3) la “de-localizzazione”: il pasto non viene più consumato in una stanza precisa ma
sempre più spesso “dove capita” (nella propria camera da letto, sul posto di lavoro
ecc.);
4) la “de-ritualizzazione”: il pasto quotidiano infra-settimanale diviene sempre meno
sottoposto a regole; al contrario si rinforzano le norme e i rituali osservati durante il
pasto domenicale o nelle occasioni particolari (compleanni, anniversari, ecc.).
2.6 Le malattie del benessere
Il passaggio a regimi dietetici basati sulle cosiddette proteine nobili se da un lato
elimina parecchi rischi patologici (gastroenterocolite, bronchite, polmonite,
tubercolosi, malattie della prima infanzia), ne solleva però molti altri: gli
epidemiologi sono infatti concordi nell’affermare che al maggior benessere
alimentare si associa un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari e
neoplastiche.
Tra la fine degli anni ottanta e i nostri giorni è aumentata la percentuale delle persone
che soffrono di patologie che hanno una forte correlazione con l’alimentazione quali
il diabete, l’ipertensione arteriosa, la calcolosi.
Negli ultimi decenni, inoltre, l’utilizzo di sostanze particolari negli alimenti quali
conservanti, coloranti, antiossidanti, rinforzanti del sapore, allo scopo di migliorarne
il gusto, l'aspetto e la conservazione come anche l’utilizzo di insetticidi, fitofarmaci
nella produzione agricola, è stato tra le cause di allergie e intolleranze alimentari.
Di conseguenza si nota, al tempo stesso, una sempre maggiore attenzione da parte dei
consumatori verso alimenti differenziati, di alta qualità, prodotti dietetici più sicuri e
su “misura”.
La diffusione della campagna dell’educazione alimentare orientata principalmente
alla prevenzione, ha incentivato una maggiore attenzione alle scelte di consumo
alimentare orientate verso un maggiore consumo di frutta, verdura e legumi, verso un
moderato consumo di pesce e poco consumo di carne.
Possiamo dunque affermare che il problema alimentare non ha lasciato l’umanità,
limitandosi ad abbandonare l’antica veste “mangiare per sopravvivere”, per l’odierna
“mangiare per stare meglio ed essere più sani”.
Una parte della popolazione mondiale si scontra - ancora oggi - con un’endemica
iponutrizione e con le sue conseguenze sanitarie in un circolo vizioso di
sottoproduzione, assistenza socio-sanitaria inadeguata e aumento delle malattie.
L’altra parte, al contrario, è afflitta da patologie degenerative nelle quali rivestono un
ruolo di primaria importanza i fattori di rischio associati alle tecniche dell’industria
alimentare (processi di produzione, preparazione, raffinazione, conservazione e
trasformazione).
In questo caso, come spiega il sociologo francese Claude Fischler, «a occupare le
menti non sono più la paura delle privazioni né l’ossessione
dell’approvvigionamento» ma l’abbondanza, e dunque, la «duplice inquietudine»
derivante dal «timore degli eccessi e dei veleni della modernità» e dal «problema
della scelta» degli alimenti stessi. Così, paradossalmente accanto a chi muore per
scarsità di cibo e soffre di deficit proteico, calorico e vitaminico, c’è chi è assillato
dal problema opposto e si sottopone a diete snervanti e costose o a rischiosi interventi
chirurgici per limitare i danni estetici e fisiologici della sovralimentazione e
dell’obesità.
Anche nei paesi in via di sviluppo, la dieta sempre più calorica e lo stile di vita
sedentario, dovuto alla crescente meccanizzazione del lavoro, hanno avuto
conseguenze rilevanti. Nel giro di pochi anni, per esempio, in India – paese che ospita
circa la metà della popolazione iponutrita del mondo – è in sovrappeso il 55 per
cento delle donne tra i 20 e i 69 anni, con conseguente aumento del diabete. Le etnie
dei paesi in via di sviluppo che si trasferiscono in quelli industrializzati vanno
incontro, nel giro di una o due generazioni, a un significativo aumento di peso, cui si
associa un rischio di malattia pari o superiore a quello cui sono esposti gli autoctoni.
Secondo alcuni studi i tassi di obesità degli adulti afro-americani sono il 51% più
elevati rispetto ai loro connazionali bianchi e questo perché molte comunità
statunitensi a basso reddito, quali appunto quelle di colore, non hanno sufficienti
mezzi per acquistare alimenti sani a prezzi accessibili, con conseguenze negative
sulla loro salute. <<Nei loro quartieri non esistono banchi alimenti freschi o super
market moderni. Vi sono all’opposto solo fast food che vendono merce a basso costo
con alto consumo di grassi e zuccheri>>15.
Il cibo diviene pertanto elemento di disuguaglianza sociale sia all’interno di una
società sia tra varie nazioni.
2.7 Una nuova ricerca di naturalità
Parallelamente al crescere - anche in Europa - del rischio di una deriva verso un
modello alimentare orientato al consumo di junk food, si riscontra, all’interno di
fasce crescenti della popolazione, una domanda di genuinità.
La nozione di cibo naturale è, tuttavia, ambigua e controversa.
Per alcuni, arroccati sulle posizioni più estreme, essa coincide con i frutti
dell’agricoltura naturale promossa da Masanobu Fukuoka. Quest’ultimo teorizzò
una forma di agricoltura che prevedeva l’intervento dell’uomo limitato alle fasi di
semina e di raccolta, lasciando che fosse la natura a garantire il processo di crescita.
Per altri, la nozione di naturalità coincide con la scelta di produrre cibo biologico.
L’agricoltura biologica (od organica) è un approccio all’agricoltura che cerca di
interpretare - in chiave olistica- l’intero ecosistema agricolo, sfruttando la naturale
fertilità del suolo e favorendola con interventi limitati.
15
Ibid., p. 50.
Essa promuove la biodiversità dell’ambiente in cui opera, ed esclude l’utilizzo di
prodotti di sintesi (salvo quelli specificatamente ammessi dal regolamento
comunitario in Europa) e di organismi geneticamente modificati.
Nella pratica biologica sono centrali la fertilità del terreno che viene salvaguardata
mediante l’utilizzo di fertilizzanti organici e la pratica delle rotazioni colturali e di
lavorazioni attente al mantenimento (o, possibilmente, al miglioramento) della
struttura del suolo. Infatti la scelta dei prodotti e delle molecole utilizzabili è decisa in
base alla loro origine, che deve essere naturale e questo consente di ridurre al minimo
l’impiego di fitofarmaci.
Il movimento dei locavores incoraggia il consumo di cibo prodotto entro un raggio
di poche centinaia di chilometri, possibilmente da piccole fattorie locali. Il concetto
di sostenibilità è centrale nella visione di questi attivisti e la nozione di prossimità si
associa a quella di stagionalità ossia al consumo di prodotti agricoli freschi di
stagione.
Comune a tutte queste diverse posizioni culturali vi è la convinzione che il requisito
di naturalità sia stato violato da un uso eccessivamente invasivo della tecnologia in
ambito alimentare. Però non si può dimenticare che ciò che ha reso possibile la
sopravvivenza dell’uomo nei secoli è stata proprio la sua capacità, fin dalla preistoria,
di introdurre innovazioni tecniche capaci di migliorare i requisiti del cibo reperibile
in natura. Spesso infatti la tecnologia ha avuto un ruolo positivo nell’introdurre
processi di progressivo miglioramento dei beni alimentari.
Dovrebbe l’industria alimentare saper valorizzare la domanda di naturalità emergente
dando la priorità alla salute delle persone e all’impatto ambientale, rispetto a mere
logiche di profitto.
2.7.1 La cultura vegetariana
Accanto a una ricerca di maggior naturalità, tra i fenomeni emergenti di maggior
interesse, vi è oggi certamente quello dell’alimentazione vegetariana. Si tratta di una
forma di alimentazione che esclude il consumo di alcuni o tutti gli alimenti di origine
animale, in genere sulla base di considerazioni etiche, ambientali, salutistiche o
religiose.
Dal punto di vista culturale, la scelta di non consumare carne dipende da un insieme
di motivazioni molto forti: il rifiuto a priori dell’uccisione degli animali, secondo una
scelta di non violenza estesa all’intero creato, la consapevolezza dell’impatto
ambientale dell’allevamento su scala globale, la convinzione che una dieta priva di
carne possa garantire migliori condizioni di salute.
Per ciò che concerne l’impatto ambientale delle abitudini alimentari, e dunque la
fondatezza delle preoccupazioni in questo senso, basti pensare al consumo di risorse
idriche associato alle diverse scelte dietetiche. Infatti, un individuo utilizza in media
da 2 a 4 litri d’acqua al giorno per bere, mentre il consumo d’acqua giornaliero per
alimentarsi varia da circa 1.500-2.600 litri nel caso di una dieta vegetariana a circa
4.000-5.400 litri in caso di una dieta ricca di carne.
In termini operativi, la scelta vegetariana è basata su due elementi concettuali molto
netti: l’avversione nei confronti del consumo di carne, nella convinzione che sia
nocivo alla salute; l’idea che, cibarsi di frutta e verdura, costituisca la base di una
dieta sana ed equilibrata.
Gli alimenti di origine vegetale hanno una funzione protettiva contro l’azione dei
radicali liberi, cioè quelle molecole che possono alterare la struttura delle cellule e dei
loro geni. Si può quindi pensare che chi segue un’alimentazione ricca di alimenti
vegetali è meno a rischio di ammalarsi e possa vivere più a lungo.
C´è poi un secondo fattore. Noi siamo circondati da sostanze inquinanti, che possono
mettere a rischio la nostra vita. Sono sostanze nocive se le respiriamo, ma lo sono
molto di più se le ingeriamo. Consumando carne, ci mettiamo proprio in questa
situazione, perché dall’atmosfera queste sostanze ricadono sul terreno, e quindi
sull´erba che, ingerita dal bestiame (o attraverso i mangimi), introduce le sostanze
nocive nei suoi depositi adiposi, e infine nel nostro piatto.
L’accumulo di sostanze tossiche ci predispone a molte malattie cosiddette “del
benessere” (diabete, aterosclerosi, obesità). Anche il rischio oncologico è in parte
legato alla quantità di carne che consumiamo.
Frutta e verdura sono invece alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre: queste,
agevolando il transito del cibo ingerito, riducono il tempo di contatto con la parete
intestinale degli eventuali agenti cancerogeni presenti negli alimenti.
I vegetali poi, oltre a contaminarci molto meno degli altri alimenti, sono ricchi di
preziose sostanze come vitamine, antiossidanti e inibitori della cancerogenesi che
consentono di neutralizzare gli agenti cancerogeni, di ridurre la proliferazione delle
cellule malate.
Nonostante i risultati di numerosi studi indichino come lo stile alimentare cui tendere
per una vita sana sia quello della dieta mediterranea, dagli anni cinquanta a oggi, si è
assistito in tutta l’area del mediterraneo, Italia compresa, a un graduale abbandono di
questa dieta a favore di stili alimentari meno salutari a elevato contenuto di grassi
(prodotti da forno).
Sovrappeso e obesità sono quindi correlate, oltre che alla ridotta attività fisica,
all’abbandono della dieta mediterranea.
Fornire al cliente informazioni circa le alternative tendenze alimentari è utile sia per
deprogrammare l’attaccamento al proprio stile alimentare, considerato l’unico
possibile, sia a fornire varie possibilità di scelta nell’ambito della riprogrammazione
di un nuovo regime alimentare (vedi cap.4).
3. CORPO, CIBO E SALUTE
3.1 Perché diventiamo obesi? Approccio evoluzionistico al problema
Perché il fenomeno dell’obesità, nelle società industrializzate come la nostra, sta
assumendo dimensioni assolutamente epidemiche? Facile, diranno in molti: si
introducono troppe calorie con gli alimenti e il dispendio di energia, per converso, è
in costante calo a causa dell’innovazione tecnologica che ha profondamente
modificato le caratteristiche dell’attività lavorativa, degli spostamenti, perfino dello
svago.
Molti elementi inducono a pensare che questa tendenza sia geneticamente preordinata
o, in altre parole, selezionata dall’evoluzione. La tendenza ad accumulare calorie
sotto forma di grassi di deposito, infatti, è probabilmente una delle strategie scelte
dall’evoluzione per aumentare le probabilità di sopravvivere durante i periodi di
carestia o i lunghi inverni che hanno caratterizzato larga parte della storia della nostra
specie.
Ma nella società moderna, nella quale l’accesso al cibo è di fatto illimitato, questi
meccanismi ancestrali, tuttora attivi, stanno producendo una generazione di bambini,
adolescenti e adulti sovrappeso, se non obesi.
Il cosiddetto thrifty genotype o “genotipo risparmiatore” che si è andato selezionando
nel corso dell’evoluzione umana con lo specifico obiettivo e vantaggio di
salvaguardare la sopravvivenza degli individui e, per loro tramite, la specie, sta
assumendo, nel mondo moderno, più di una connotazione sfavorevole per la sua
capacità di facilitare la comparsa del sovrappeso, dell’obesità e del diabete, a loro
volta, correlati al rischio di patologie cardiovascolari.
Che fare, in un simile scenario? Diviene necessario far riferimento a categorie non
più biologiche ma culturali: prendere atto che i comportamenti, anche sul piano
dell’apporto alimentare, non possono essere guidati dalle sole risposte “istintuali”
(per esempio fame/sazietà,), ma devono basarsi sulla precisa conoscenza delle
relazioni tra comportamenti, effetti biologici e salute. Un’efficace diffusione di
queste informazioni rimane, probabilmente, lo strumento più importante per
contrastare le patologie della “società opulenta”.
Quel che è certo è che l’obesità è una malattia multifattoriale in cui la componente
genetica contribuisce per un 25-30 per cento ma anche quella ambientale e le
abitudini di vita, in particolare alimentari, sono altrettanto determinanti.
Più esattamente i fattori che posso portare al sovrappeso e, nei casi più gravi,
all’obesità sono: la genetica, le motivazioni psicologiche (procurarsi piacere, cercare
di sedare uno stato d’ansia, colmare vuoti ecc), i fattori ambientali quali l’offerta di
cibo da ogni canale(situazioni sociali), compresi i media , lo stile di vita sedentario e
le scorrette abitudini alimentari.
3.2 Il cibo come rappresentazione della propria identità corporea
<<Il legame corpo/cibo pur nascendo da un bisogno biologico (il secondo entra
direttamente nel primo e ne diventa tutt’uno nel momento della digestione) dovuto
alla sopravvivenza, diviene uno strumento fortemente comunicativo sia con l’interno,
ossia con il piacere del gusto individuale del mangiare e incorporare in sé pietanze
ritenute saporite e buone al palato, sia con l’esterno, nel suo realizzarsi in compagnia
e soprattutto nel suo saper presentare se stesso agli altri>>16.
Il cibo, in quest’ottica, non ha solo un valore nutritivo ma anche un valore
psicologico e sociale.
16
L. Meglio, Sociologia del cibo e dell’alimentazione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 76.
Nella nostra visione il legame tra corpo e cibo si esplica in due dialettiche che vedono
da un lato il cibo come rappresentazione della propria identità corporea, dall’altro
come potenziale fattore di rischio per la salute del proprio corpo.
Entrambi i temi sono di estrema attualità e sicuramente frutto delle trasformazioni
che la modernità ha apportato alle nostre vite.
Nell’attuale società della magrezza e della bellezza a tutti i costi, il processo di
costruzione dell’immagine del proprio sé, mette in discussione il rapporto corpo/cibo;
il secondo, da risorsa per la sopravvivenza, diviene minaccia da combattere e
rifiutare.
Il corpo diventa un’ ossessione: la continua ricerca della perfetta forma fisica, la
bellezza corporea come biglietto da visita per l’ingresso in società, l’attenzione
spasmodica al numero delle calorie che quotidianamente si assumono con gli alimenti
sono solo alcuni degli elementi che ritroviamo oggi alla base della costruzione
dell’identità corporea delle nuove generazioni.
La nostra società fortemente edonista fa sì che spesso gli individui avvertano una
forte insoddisfazione per il proprio aspetto fisico, per il proprio peso e per la propria
figura nella sua complessità e, in alcuni casi, tale insoddisfazione porta all’insorgenza
di fenomeni di autolesionismo come posso essere i disturbi alimentari.
3.3 L’industria della magrezza
Un aspetto inquietante su cui correrebbe riflettere e pensare di proporre qualche
argine legislativo è quello che riguarda il ruolo dell’industria del “magro è bello”.
L’industria della magrezza17
lavora utilizzando molteplici strategie commerciali:
- garantisce perdite di peso permanenti e senza il minimo sforzo;
- utilizza termini come “miracoloso”, “unico”, “scoperta, “segreto”, “esclusivo”;
- usa testimoni soddisfatti, che spesso, sono pagati
- utilizza foto prima e dopo i trattamenti anticellulite
- cita studi clinici senza alcuna evidenza scientifica
- sostiene che il calo ponderale e la magrezza sono strumenti per acquisire salute
e successo
La pubblicità della dieta, della magrezza passa attraverso le TV, i giornali ed anche
attraverso i sistemi porta a porta.
I rischi in termine di salute conseguenti a trattamenti dimagranti fraudolenti (cocktail
di farmaci spacciati come prodotti omeopatici o fitoterapici, mistificazione di sistemi
innocui e, spesso, inutili come infusi vari, cerotti ecc) e dannosi si possono così
riassumere:
- danni alla salute: aritmie cardiache, perdita di sali minerali e carenze
vitaminiche,anemia, morte improvvisa, ecc.;
17
Cfr. R. Rocco, P. Alleri, Il “peso” del corpo, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp. 23-25.
- aumento dei costi emotivi per l’inevitabile recupero del peso perduto e per i
risvolti psicopatologici;
- atteggiamenti paranoici: delusione fanatismo, paura, alienazione.
3.4 Percezione e distorsione dell’immagine corporea
<<Esiste un’elevata correlazione fra autostima e percezione della propria immagine
corporea>>18. La distorsione della propria immagine del corpo è una caratteristica
importante nel determinismo del disturbo alimentare.
Nelle società “sviluppate” le preoccupazioni estetiche si focalizzano quasi
esclusivamente sul peso, sul grasso e su alcune parti del corpo, creando un notevole
divario tra sé ideale e sé reale, tra il corpo che desidereremmo avere e quello reale. Se
tale divario è troppo forte il corpo finisce per rappresentare soltanto un “peso”. I
messaggi dei media e la mentalità occidentale propongono e impongono figure
filiformi e spingono ad identificare l’immagine interiore con l’ aspetto fisico. Quasi
un : “tu sei…quel che mangi, quel che pesi..tu sei i tuoi difetti fisici”.
L’immagine del nostro corpo si costruisce nel corso della nostra vita ed è legata
inizialmente alle figure genitoriali. Successivamente, gli incontri della vita, i
compagni di scuola, le prime esperienze sentimentali e sessuali, la cultura di
18
Ibid., p. 19.
appartenenza contribuiscono a modulare tale immagine e a determinare l’eventuale
soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto fisico.
I fattori di rischio per lo sviluppo di una immagine corporea negativa sono:
- fattori individuali (bassa autostima, elevata interiorizzazione dei messaggi dei
media, obesità, modificazioni fisiche ecc.);
- fattori familiari (commenti critici dei familiari sul peso e sul corpo, abitudini
alimentari e modo di mangiare, sovrappeso e obesità dei genitori);
-fattori socioculturali (pressione culturale verso la magrezza come modello da
seguire, confronto sociale ecc.).
Il contesto sociale ingloba al suo interno tutte le relazioni sociali alle quali ogni
individuo è esposto lungo il corso della sua esistenza. Sia la famiglia, sia il gruppo
dei pari si nutrono costantemente di contenuti mediali, di valori e di significati
presenti all’interno della società.
Possiamo distinguere tre aree riferite alle percezioni corporee 19 :
- Area della consapevolezza ed accettazione corporea: questa area è
caratterizzata da comportamenti sani. Si è in questa area quando vi è
l’accettazione del proprio corpo e la consapevolezza che il corpo è solo una
parte di quello che siamo.
- Area della preoccupazione corporea: caratterizzata dalla preoccupazione per il
peso e per le forme corporee e dall’esordio del controllo alimentare.
19
Cfr. Ibid., p. 22-23.
- Area della paralisi corporea: In questa area i pensieri e le preoccupazioni
relative all’alimentazione, al peso e alle forme del corpo occupano tutti gli
spazi mentali disponibili e il controllo diventa l’unica priorità della vita che
non fa altro che perpetuare il disturbo.
Agli alimenti vengono attribuiti caratteristiche, valore e significati particolari.
<<Chi ha un disturbo alimentare classifica arbitrariamente gli alimenti in 2 categorie:
1. buoni, sicuri e non ingrassanti come la frutta, la verdura e i cibi a ridotto
contenuto di grassi;
2. cattivi e ingrassanti, tutti gli altri.
Le preferenze per alcuni cibi possono diventare vere e proprie ossessioni
determinando la comparsa di nuovi disturbi come l’ortoressia, termine con cui si
definisce l’ossessione maniacale per cibi sani>>20.
L’ortoressico preferisce non mangiare piuttosto che mangiare cibi che ritiene
contaminati o che pensa possano comunque nuocere alla salute.
Per le tecniche di destrutturazione dell’immagine corporea negativa, si rimanda al
capitolo quarto, paragrafo 4.3.5.
4.5 I disturbi alimentari21
I più comuni disturbi alimentari sono:
20
Ibid., p. 26. 21
Cfr. L. meglio, sociologia del cibo e dell’alimentazione, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 78.
1. Anoressia nervosa: si presenta quando una persona digiuna per lunghi periodi di
tempo rifiutando di mangiare ed è terrorizzata all’idea di perdere il controllo del cibo
e di acquistare peso.
2. Bulimia nervosa: si presenta quando sono presenti abbuffate incontrollate, ovvero,
assunzioni di abnormi quantità di cibo in un breve lasso di tempo, seguite da grossi
sensi di colpa e vergogna. I comportamenti compensatori per impedire l’assunzione
di peso sono: vomito autoindotto, uso di lassativi o diuretici, eccessivo esercizio
fisico e digiuni.
3. Bing-eating (alimentazione incontrollata): la persona che soffre di questo disturbo
non è in grado di controllarsi, assume grandi quantità di cibo in un breve intervallo di
tempo ma nessun comportamento compensatorio viene intrapreso. Il peso può
aumentare fino ad arrivare oltre la norma. Infatti il bing-eating è spesso presente fra
gli obesi.
Per questi disturbi vi è una grande necessità di un approccio operativo e pratico che
possa aiutare il cliente a superare la preoccupazione estrema per il cibo, per il peso e
per le forme corporee.
4. COUNSELING NUTRIZIONALE
4.1 Perché rivolgersi a un counselor nutrizionale
Il counseling nutrizionale è utile in tutte le situazioni in cui una persona avverta
l’esigenza di modificare i propri comportamenti alimentari, migliorare il proprio
rapporto con il cibo, accrescere le proprie capacità di affrontare situazioni
problematiche in ambito nutrizionale.
E’ dunque un approccio rivolto a tutti, sia soggetti sani (svolgendo così una
funzione di prevenzione), sia soggetti a rischio come, per esempio, persone in
sovrappeso.
Per risolvere il problema del sovrappeso, o in generale dei disturbi alimentari, non è
sufficiente la dieta-guida; il cliente ha bisogno anche di essere seguito e supportato
emotivamente alla dieta stessa, ascoltando e accogliendo le sue difficoltà, le sue
incertezze, le sue paure.
Il percorso di counseling è utile - in primis - per rendere consapevole il cliente delle
sue abitudini alimentari, educandolo ad acquisirne di nuove e a comprendere quali
sono le motivazioni che stanno alla base di una scorretta alimentazione; in secondo
luogo, per supportare la persona che vive i disagi legati al sovrappeso quali:
Insoddisfazione per la propria immagine corporea;
bassa autostima;
senso di abbandono e solitudine (tendenza all’isolamento);
Modificare solamente l’alimentazione non è quindi sufficiente e può portare al
fallimento della dieta intrapresa. Si tratta – fondamentalmente – di supportare la
persona nella comprensione e nel governo dei propri comportamenti, educarla ad
acquisire nuove abilità comportamentali ricercando strategie efficaci e un
atteggiamento consapevole e critico nei confronti del cibo.
Il colloquio motivazionale volto a suscitare nell’ utente la decisione di cambiare stile
alimentare, se introdotto abitualmente, parallelamete al percorso educativo
nutrizionale - di competenza del nutrizionista- può consentire il superamento di
quell’atteggiamento ambivalente “voglio ma non voglio”; ma non si può aiutare
qualcuno a pensare al cambiamento se prima non lo si aiuta a scoprire dentro di sé
“perché cambiare”, identificando i pro e i contro.
Tradotto nei termini del modello della riprogrammazione, trattasi di un lavoro di
individuazione e riconoscimento di programmazioni mentali/culturali (idee),
bioenergetiche (stati d’animo, comportamenti, abitudini) che impediscono il
raggiungimento dell’obiettivo - dunque - di deprogrammazione di credenze,
convinzioni, pregiudizi, comportamenti disfunzionali e di riprogrammazione e
supporto nella gestione del cambiamento.
Approfondirò, questo tema, nel paragrafo successivo.
4.2 Il modello della Riprogrammazione
<<La riprogrammazione fa parte dei modelli del cambiamento per i quali il nuovo
ordine si crea dal disordine della crisi>>22. Il disordine può essere trasformato in un
nuovo ordine, purché esista un minimo di flessibilità.
Nel mondo dell’informatica il programma consiste in una serie di istruzioni ordinate
allo scopo di far compiere, a un elaboratore, un determinato procedimento.
Il programma è una struttura dinamica costituita da uno scopo, da una strategia e da
un meccanismo di produzione energetica. La sua efficienza è proporzionale alla
malleabilità della strategia.
Nell’ambito della genetica il programma vitale è determinato dal codice genetico che
contiene il complesso delle istruzioni programmatiche di un organismo. Esso è
supportato dal DNA, una struttura intelligente, ripetibile e trasmissibile, permanente e
malleabile nello stesso tempo.
L’obiettivo è ciò per cui un programma viene costruito.
L’uomo è una macchina programmatica che persegue l’obiettivo primario della
sopravvivenza attraverso l’affermazione del proprio sé, l’occupazione del territorio
per rifornirsi delle risorse necessarie e per esercitare le proprie caratteristiche, la
riproduzione (il bisogno biologico che precede ogni altro in quanto granisce la
continuità della specie), i legami significativi, la solidarietà comunitaria.
Il nostro cervello è particolarmente adatto a prevedere e a saper prendere decisioni
vantaggiose, a memorizzare – in circuiti neuronali- tutte le informazioni provenienti
22
M.Papadia, Mediazione e riprogrammazione, Roma, La Riprogrammazione, 2001, p. 127.
dalla nostra storia di specie e dall’esperienza individuale, sicché essi possono attivarsi
nelle diverse situazioni. Tutti questi dati formano la dote dei "programmi operanti",
ricevuti dalle generazioni precedenti, o dall'ambiente, o elaborati dall'individuo. Tali
schemi se caratterizzati da fissità o da inadeguatezza alle situazioni esistenziali che si
presentano alla persona, determinano una condizione di disagio o di fallimento nel
perseguimento degli obiettivi.
Il counselor della Riprogrammazione esistenziale di Mario Papadia non cerca,
dunque, cause ma programmi. <<Un problema è lì perché una certa soluzione
programmatica è entrata in crisi>>23.
Ogni programmazione psichica tende a sopravvivere per inerzia e quindi a permanere
finché serve; normalmente solo una crisi genera l’esigenza del cambiamento e rende
urgente la “riprogrammazione”.
La “riprogrammazione” si riferisce ad un intervento di ristrutturazione di un
“programma” e secondo questo modello si ha cambiamento se si opera lavorando
sulle fondamentali componenti di un programma esistenziale che sono l’obiettivo, la
strategia e l’energia.
4.3 Counseling nutrizionale secondo il modello della riprogrammazione
23
Ibid., p. 133.
Le sedute di lavoro individuale hanno l’intento sia di condurre l’indagine sulle
programmazioni correnti dell’utente, sia di immettervi principi di riprogrammazione.
Il Counselor della riprogrammazione deve fare i conti con la necessità di affrontare
difficoltà derivanti dalle abitudini o da preconcetti riguardanti l’alimentazione. In tal
caso occorrono capacità empatiche, di ascolto e strategie apposite che facilitino nel
cliente una maggiore consapevolezza nella scelta di un programma nutrizionale.
Nell’ambito della nutrizione, il counseling si raffronta con i problemi concreti delle
persone che intraprendono la costruzione di un sano e corretto comportamento
alimentare e mira a creare, insieme con loro, una nuova visione e un piano di azione
adatto a realizzare le seguenti finalità desiderate: la presa di coscienza del senso
esistenziale di abitudini alimentari e stili di vita non corretti, il coinvolgimento, in un
percorso di apprendimento attivo, di comportamenti alimentari corretti, il
superamento dell’atteggiamento passivo nel perseguire le indicazioni alimentari
dell’esperto, la programmazione di una strategia adeguata a consolidare e mantenere
nel tempo le informazioni e i risultati acquisiti, l’appropriarsi della propria salute.
Il counselor mira a rendere il proprio cliente un soggetto attivo e creativo nella
conquista di un nuovo e sano comportamento nutrizionale, rispettoso delle proprie
esigenze bioenergetiche, esistenziali e individuali.
4.3.1 Definizione del problema
Alla definizione del problema del cliente si giunge attraverso due procedimenti e un
atteggiamento. I procedimenti sono la narrazione da parte del cliente in cui espone il
problema e l’indagine condotta dal counselor; l’atteggiamento è l’ascolto,
inizialmente passivo, una condizione psicologica recettiva di tutti i sensi con cui egli
abbassa ogni rumore di fondo interno che può falsificare l’informazione in arrivo.
Ascoltare va inteso nel senso di prestare attenzione, porgere l’orecchio, osservare
lasciando sospese le eventuali considerazioni critiche. Oggetto dell’ascolto è la
narrazione del cliente come fenomeno in sé, non relazionato alle eventuali categorie
mentali del counselor. Perché tutto avvenga senza interferenze, il suo ascolto deve
comportare una momentanea sospensione del giudizio; in questo modo egli mantiene
integra l’informazione ricevuta e ne favorisce l’acquisizione. L’interferenza <<può
impedire al narratore la possibilità di lasciare fluire liberamente il suo vissuto,
svelando così nelle sfumature del suo discorso, aspetti che altrimenti, a causa delle
interruzioni, andrebbero perduti>>24.
Dopo questa fase, egli deve attivare il suo ascolto nella forma dell’investigazione,
passando dall’ascolto passivo tipica della fase narrativa, all’ascolto attivo.
L’indagine dovrà concernere:
- La storia del peso corporeo (“Qual è il suo peso corporeo attuale?”; “che
24
Ibid., p. 138.
- peso corporeo desidera raggiungere?”; “ha mai raggiunto questo peso,
quando?”)
- Una narrazione dell'immagine del proprio corpo ("Il mio corpo allo specchio")
- La storia delle diete (“Ha mai fatto una dieta?”; “quale peso corporeo aveva?
ecc.”).
In un secondo momento il counselor dovrà valutare bisogni e motivazioni del cliente
(“Da chi è stato incoraggiato ad intraprendere questo percorso nutrizionale?”;
“quanto è importante per lei raggiungere il peso desiderato?”; “cosa pensa di
raggiungere arrivando al peso desiderato?ecc.”).
Quando effettua un’indagine, il counselor deve porre domande mirate ed efficaci, e lo
sono quando: richiedono una risposta aperta, quando non contengono già in sé la
risposta e quando evitano di indagare sul perché causale (“per quale motivo”) ma
piuttosto si polarizzano sul perché motivazionale che indica lo scopo perseguito dalla
persona (“cosa pensava di ottenere”).
<<Fra i maggiori rischi della comunicazione vi è l’equivoco fondato sulla scivolosità
semantica di alcuni concetti molto comuni e l’annessa presunzione di aver compreso,
aprioristicamente, tutti i significati dell’interlocutore>>25 (concetto di grossezza,
magrezza, salute come assenza di malattia e non come condizione di benessere o il
25 Ibid., p. 140.
concetto stesso di dieta come restrizione e non come stile di vita). Lo strumento
usuale utile ad ovviare a questo pericolo è la cosiddetta “riformulazione”:
Un intervento che consiste nel ripetere in maniera più semplificata e chiara ciò che il
cliente ha appena formulato in modo tale da ricevere, a riscontro, un assenso del
cliente stesso, che in tale riformulazione si riconosce. Carl Rogers ha maggiormente
valorizzato questa tecnica.
L’indagine, se condotta in modo efficace, può essere già deprogrammante.
4.3.2 Definire la programmazione operante
La programmazione operante è all’origine della situazione conflittuale stessa.
Quando si verifica un disagio qualcosa non funziona bene in uno dei tre fattori
strutturali della programmazione: l’obiettivo, la strategia, l’energia.
a) Qual è l’obiettivo perseguito dal cliente? E’ un obiettivo realistico e raggiungibile?
E’ il cliente davvero motivato?
L’obiettivo stesso potrebbe diventare il problema.
b) E’questo il modo giusto per raggiungere quello che vuole?
La strategia posta in essere allo scopo di perseguire l’obiettivo potrebbe essere fonte
di disagio.
c) Di quale energia dispone per raggiungere quello che vuole?
<<Un’altra fonte di disagio si ha quando una persona non trova in sé le risorse
energetiche sufficienti, come può essere la costanza e la determinazione, per
raggiungere il suo obiettivo>>26.
La motivazione di raggiungere un obiettivo non sempre può bastare.<< Non sempre
“basta volerlo” quando non si hanno gli strumenti o la forza per volere alcunché>>27.
Se l’obiettivo è adeguato ma è la strategia inadeguata, essa non è in grado di risolvere
il problema posto.
La capacità di risolvere i problemi posti dall’esistenza è quella che Mario Papadia
chiama competenza esistenziale28 . La metodologia decisionale del cliente va fatta
emergere. Il repertorio di risposte che una persona può emettere in situazioni
problematiche dipende dalle sue strutture cognitive. Occorre comprendere come
quell’individuo si confronti con i problemi e come avviene in lui il processo di
costruzione dei modelli mentali grazie a i quali perviene alla decisione.
Il primo obiettivo da porsi è dunque la correzione della procedura decisionale.
Allo scopo di definire la strategia adottata dal cliente è necessaria un’indagine:
1 A livello bioenergetico
S’inizia dall’esplorazione dei comportamenti - in questo caso - alimentari (quantità
di cibo che il cliente assume giornalmente), delle reazioni emotive (situazioni in cui
26
M. Papadia, Il counseling come riprogrammazione, Roma, Armando Editore, 2005, p. 89.
27
Ibidem.
28
Cfr. Ibid., p. 87.
il cliente perde il controllo dell’alimentazione e mangia in eccesso, ad esempio, in
situazioni sociali come feste, cene di lavoro ecc. o per stati emotivi, negativi o
positivi, ovvero assunzione di cibo non per fame biologica ma per fame emotiva che
né si appaga e né si spegne con il cibo: mangiare per noia, per ridurre stress, per
riempire vuoti, per rabbia, per euforia ecc.) e delle abitudini (come si alimenta).
Ogni strategia è costruita in modo da potersi ripetere e continua a rimanere tale finché
raggiunge gli obiettivi per cui è stata messa a punto.
La ripetitività, anche contro ogni buona ragione, in qualsiasi ambito
(comportamentale, cognitivo, relazionale) è <<la caratteristica della programmazione
rigida: ostinata, fedele a se stessa, nonostante il desiderio e i buoni propositi di
cambiamento>>29.
2 A livello mentale
<<Un cliente afferma : “Io non ce la farò mai”. Su quale presupposto egli sostiene
questa dichiarazione così perentoria? Se si compie un lavoro di investigazione, o si
richiama la sua attenzione sulla frase appena pronunciata, perché ne giustifichi il
contenuto, in genere si nota come egli sta solo ripetendo una frase vuota per lui
stesso>30.
E’ importante mettere a fuoco la strategia esistenziale della persona che si rivela
29
Ibid., p. 83.
30
Ibid., p. 84.
soprattutto dalla sua filosofia personale. La filosofia personale è il sistema di
principi, credenze, convinzioni su se stessi e sugli altri, affermazioni, negazioni che
scaturiscono dall’educazione ricevuta, da esperienze personali, da una constatazione
di fatti o da un’opinione comune.
In questa fase, dunque, emergono convinzioni limitanti su se stessi (“Fare attività
fisica non è per me”) e sugli altri (“I magri vivono di rinunce”), sulla propria
immagine corporea, credenze e miti sull’alimentazione (“Il cioccolato fa
ingrassare”), sul peso e sul metabolismo (“Ho il metabolismo lento”; “E’ un fattore
genetico”; “La menopausa mi impedisce di rimettermi in forma”; “Soltanto l’attività
fisica fa dimagrire”) che il counselor cerca di sfatare. <<Succede che il soggetto,
convinto della veridicità delle sue proposizioni, si sforzi di rispettarle non appena si
mette a dieta e provi addirittura un certo senso di colpa quando vi si discosta o non
riesce a tenervi fede>>31.
3 A livello spirituale
Con il termine “spirituale” si intende quel modo di pensare e di essere proprio di ogni
persona, in relazione ai valori.
Sempre domandarsi quali sono i criteri, non quelli metodologici ( il problem solving)
ma di riferimento del suo agire coinvolti in quella particolare situazione.
31
Jean-Philippe Zermati, Dimagrire senza diete, Tecniche nuove, 2008.
4.3.3 Definizione dell’obiettivo della consulenza
Una fase importante è la chiarificazione dell’obiettivo che si intende perseguire
nell’ambito della consulenza. Un obiettivo chiaro ha il potere di dare sprone alla
motivazione che servirà soprattutto nella fase seguente della de programmazione.
Counselor e cliente costruiscono insieme un progetto di lavoro che comprende le
tecniche d’intervento per raggiungere l’obiettivo e le regole da rispettare, da parte di
ambedue i protagonisti della relazione: <<Fra gli impegni dichiarati dal counselor c’è
il segreto professionale; fra gli impegni del cliente vi è il compenso, che egli deve
conoscere anticipatamente in modo da fare una previsione di spesa>>32.
4.3.4 De programmazione
La de programmazione equivale a una decostruzione della programmazione operante
che ha portato ad una condizione di disagio.<<Se le cose non procedono nel modo
sperato è perché non funzionano le istruzioni, o non è adeguato l’obiettivo o è alterato
il processo energetico>>33; occorre confutare la portata cognitiva di quelle istruzioni,
adeguare l’obiettivo, sbloccare le risorse delle persone.
Si deve entrare, giocoforza, in una fase critica della programmazione attuale; critica
come decostruzione del senso logico, nel presente, della programmazione operante.
32
M. Papadia, Il counseling come riprogrammazione, Roma, Armando Editore, 2005, p. 84.
33
M.Papadia, Mediazione e riprogrammazione, Roma, La Riprogrammazione, 2001, p. 144.
Il cliente deve tuttavia comprendere che, <<per quanto la strategia cui sinora aveva
affidato la sua vita non sia più adeguata, essa gli è servita a sopravvivere e ad ottenere
qualche successo>>34.
Il cliente afferma: “Voglio fare la cura dimagrante ma non posso fare a meno di bere
2-3 bicchieri di vino a pranzo e a cena”. Questo comportamento va destrutturato.
Destrutturare significa staccare la persona dal suo programma operante.
Riporto qui di seguito alcuni interventi che mirano a destrutturare comportamenti,
abitudini e ricordi così da poter creare nuovi spazi per nuovi programmi.
Il disgusto è il rifiuto conseguente all’eccesso ed è creatore del vuoto necessario a
dare avvio ad una nuova strategia. Senza di esso è difficile staccarsi da una
condizione di dipendenza, in questo caso, da cibo o da alcool.
Si può ottenere alimentando la paura e il senso di malessere insito nella condizione
attuale.
La disconnessione mira al superamento di una credenza o di un pregiudizio attraverso
la confutazione dei loro contenuti:
Cliente – E’ un fattore genetico, mia madre è grossa e lo sono anch’io
Counselor – Anche mio padre è obeso e io invece non sono mai stata grassa
34
M. Papadia, Il counseling come riprogrammazione, Roma, Armando Editore, 2005, p. 108.
Va anche messo in evidenza il non senso della mancanza d’amore verso sé stessi
utilizzando la strategia del paradosso che consiste nel << proclamare al cliente la
propria alleanza con la sua strategia di fallimento, quando egli proclama, cosciente o
inconsciamente, questo non senso esistenziale>>35.
Cliente – Non ce la farò mai a dimagrire
Couselor – Penso anch’io che non ce la farà mai
Cliente – Perché? Mi sta prendendo in giro?
Couselor – Sto dichiarandomi d’accordo con lei
La risposta del counselor spiazza il cliente e lo induce a guardare alle proprie
affermazioni da un diverso punto di vista. Questa strategia è opportuna soprattutto
laddove la resistenza ha forti radici. Sono casi in cui le dimostrazioni al contrario o le
risposte consolatorie vanno a rafforzare la resistenza.
<<Nel corso del counseling la mancanza d’amore si svela quando il cliente,
inconsapevolmente, persegue una strategia di fallimento, proprio in una situazione il
cui intento è esattamente l’opposto>>36. Insieme con il desiderio di risolvere il suo
problema, egli implicitamente proclama il suo problema non risolvibile; ed è un
autentico non senso perseguire il fallimento.
35
Ibid., p. 120.
36
Ibid., p. 118.
4.3.5 Destrutturare l’immagine corporea negativa
Scrive Umberto Galimberti (Il corpo specchio dell’anima, La Repubblica, 3 agosto
1999) “…A nessuno è concessa l'immagine fedele del proprio corpo”. L’immagine
corporea è <<l’immagine del corpo che ci formiamo nella mente, il ritratto mentale
che un individuo ha di sé” (P. Schidler)>>37. L’immagine del nostro corpo è, dunque,
il risultato di un’interpretazione soggettiva di noi stessi alla quale contribuiscono
diversi elementi di natura cognitiva ed emotiva.
Il cliente va sostenuto nel percorso di accettazione della propria immagine corporea
quando vi è discrepanza tra l’immagine del sé corporeo idealizzato e quella
esageratamente svalutante e deformante.
Bisogna lavorare sulla “congruenza” delle “parti con il tutto”: al cliente deve
giungere chiaro il messaggio che il nostro corpo è soltanto una parte di quello che
siamo (si può usare, ad esempio, lo strumento della scala dei valori).
Si cercherà di mettere in evidenza quegli elementi che emergono “in figura” e che
spesso riflettono una visone distorta sotto forma di rifiuto, intolleranza per alcune
parti del sé corporeo e, dopo aver compreso i programmi sottostanti la propria
insoddisfazione corporea, di lasciar emergere, da uno “sfondo” elementi interessanti
che l’ autopercezione distorta lascia “in ombra” e che meriterebbero al contrario di
essere valorizzati.
37
R. Rocco, P. Alleri, Il “peso” del corpo, cit., p. 20.
Molto spesso si identifica la perdita di qualche chilo o centimetro con il
raggiungimento della “felicità” che, per la persona, è impossibile da raggiungere,
motivo per cui risulta faticosissimo perdere quei pochi chili.
In questo caso si procede aiutando il cliente a chiarirsi circa la reale condizione di
benessere a cui profondamente aspira (“Cosa rappresentano per lei questi due chili
in meno?“: sentirsi più sicuri di sé in mezzo agli altri, ricevere amore ecc.)
scollegandola dalla perdita di peso; si può utilizzare la tecnica della visualizzazione
e/o del paradosso (“Adesso ha raggiunto il suo obiettivo, pesa 56 chili, cosa è
cambiato nella sua vita?”)
In seguito, insieme al cliente, si stabiliranno obiettivi “realisticamente” raggiungibili.
4.3.6 Il nuovo programma
Il cambiamento, per essere tale, deve essere significativo e lo è quando crea nuove
sinapsi. <<La riprogrammazione opera un intervento genetico sugli obiettivi, sulla
strategia e sulle sue risorse energetiche; “genetico” perché non riguarda aspetti
comportamentali o cognitivi o emozionali a sé stanti, ma in quanto parti integranti di
un programma esistenziale>>38
.
Il lavoro della de programmazione è soprattutto focalizzato sulla ristrutturazione
della memoria. Nella riprogrammazione non cerchiamo cause, ma programmi
operanti. Ciononostante è inevitabile esplorare il passato e quindi assaporare
38
M. Papadia, Il counseling come riprogrammazione, Roma, Armando Editore, 2005, p. 131.
l’amarezza di determinati eventi nei quali troviamo traccia delle strategie della nostra
vita. Abusare del cibo potrebbe ad esempio essere stata - in passato - la soluzione
migliore a disposizione per stare bene. La nostra mente sceglie sempre il meglio tra
ciò che ha sottomano in quel momento.
<<Fa parte della ristrutturazione della strategia esistenziale, accettare saggiamente il
proprio passato, con tutti i limiti e gli errori di cui è portatore, compiendo in tal modo
un atto d’amore verso se stessi>>39.
La ristrutturazione della strategia: Quattro vie per immettere quote d’amore40
La decisione di affrontare la consulenza è l’indispensabile prima quota d’amore con
cui inizia il cambiamento di una persona.
1) Via cognitiva: Il rovesciamento. Si traduce nella domanda: “Che cosa
succederebbe se lei facesse l’opposto?” E’ un invito ad entrare - immaginativa
mente - in quell’opposto di cui ha tanto timore, il suo inesplorato. La
visualizzazione delle conseguenze logiche di quell’ipotesi sarà un viaggio
nell’ipotetico, affiancato dalla guida solidale del counselor.
2) Via empatica: il contato. <<Il counseling instaura un contatto verbale quando
39
Ibid., p. 134. 40
Cfr. ibid., pp.136-140.
riesce a manifestare adesione al disagio del cliente>>41 ; se la persona sa di aver
agito male, non occorre spiegarglielo ulteriormente. Compito del counselor è
comunicarle il dispiacere che non si ami.
3) La supplenza: Il counselor offre delle soluzioni che sono di supporto, non di
scelta già compiuta dal cliente.
4) I supporti: Il counselor fornisce al cliente degli strumenti validi anche fuori dal
setting con i quali egli stesso può gestire la propria riprogrammazione. Si può,
ad esempio, suggerire di redigere un diario alimentare quale fonte di
informazioni su pensieri ed emozioni provate durante la giornata al fine di
comprendere quali stati d’animo influenzano le scelte alimentari e sui quali si
potrà “lavorare” nel colloquio di counseling (Ad esempio il cliente riconosce,
con l’aiuto del counselor, che mangia molta cioccolata per colmare un vuoto
affettivo. In quale altra maniera può soddisfare questo bisogno? In una scala
di gradimento da 1 a 10 quanto lo stomaco necessita veramente di altro
cibo?).
Si possono insegnare al cliente delle tecniche di visualizzazione: <<Prima
che nel corpo, si dimagrisce nella mente>>42 . Se la forza di volontà agisce con i
devo e i non devo, la mente lavora molto più in profondità utilizzando
immagini e sensazioni. Le ripetute visualizzazioni del corpo “come lo
vogliamo” e le sensazioni piacevoli che si generano dentro di noi consentono il
41
Ibid., p.138. 42
D. Conti, Il libro del giusto peso per sempre, Sperling Paperback, 2012, p. 6.
raggiungimento dell’obiettivo (“Tu hai raggiunto il tuo peso forma, prova a
descriverti; cosa provi?”). L’aspetto saliente di queste tecniche è che, al
culmine del rilassamento e della visualizzazione, pongono sempre
un’affermazione positiva, che funziona da engram operativo a livello
inconscio.
Si possono proporre anche esercizi di riconoscimento delle proprie convinzioni
limitanti e di confutazione (Es. la convinzione limitante :“fare attività fisica
non fa per me” viene confutata in : “posso trovare l’attività fisica giusta per
me”) imparando, così, a sviluppare un dialogo interno positivo, supportivo.
Si consiglia infine l’utilizzo dei rimedi del Dr. Bach.
4.3.7.Costriure nuove istruzioni
Le istruzioni della nuova strategia devono essere il frutto di una ricerca comune
operata nel setting. Il cliente, affiancato dal counselor, istruisce sé stesso.
Quali le caratteristiche di tali istruzioni?
- devono essere efficaci rispetto allo scopo ovvero consentire il raggiungimento dello
stesso;
- efficaci nella comunicazione ovvero essere intelligibili e inequivocabili così da
poter essere meglio assimilate e memorizzate;
- semplici nella modalità di svolgimento.
4.3.8 Definizione delle risorse del cliente
La costanza è una risorsa importante per il raggiungimento degli obiettivi di un
percorso nutrizionale. La mancanza di questa risorsa è spesso la causa del fallimento
o dell’interruzione della dieta.
L’indagine è volta a comprendere i programmi che impediscono di utilizzare tale
risorsa. Occorre partire inquadrando l’incostanza nel complesso esistenziale della
persona al fine di comprendere se essa è un tratto caratteristico della personalità o se
è invece legata ad ambiti particolari.
Nella mia esperienza di counseling nutrizionale ho individuato tre elementi alla base
dell’incostanza: il perseguimento di falsi obiettivi, il perfezionismo e lo
scoraggiamento.
Già dall’indagine iniziale è possibile capire se il cliente è stato incoraggiato da terzi
ad intraprendere il percorso nutrizionale o se invece l’iniziativa è partita da lui;
bisognerà comprendere quanto è per lui importante il raggiungimento di tale
obiettivo. Quasi sempre i risultati negativi sono la conseguenza di una scarsa
motivazione.
Il perfezionista, invece, spesso mette in atto la strategia del “tutto o niente” in tutti gli
ambiti della sua vita e quindi anche in quello nutrizionale concependo la dieta come
una serie di istruzioni rigide da seguire alla lettera.
Alcuni esempi di pensieri disfunzionali e convinzioni alterate del cliente perfezionista
sono elencati qui di seguito:
- Se si ha fame è segno che si sta perdendo il controllo
- Se si riprende un chilo, non si riuscirà più a fermarsi
Queste e altre convinzioni alimentano atteggiamenti e comportamenti non salutari per
cui uno degli obiettivi del counseling è quello di favorire la costruzione di nuovi, più
realistici e funzionali punti di vista sul peso e sull’alimentazione.
Il counselor, in collaborazione con il nutrizionista, dovrà lavorare sul concetto di
malleabilità della dieta e sull’accettazione degli sgarri alimentari.
Infine c’è il cliente che intraprende il percorso con fiducia ma al primo risultato
negativo, si demotiva e si scoraggia. In tale caso si dovrà lavorare sul rafforzamento
dell’autostima andando a pescare i successi conseguiti in altri ambiti e si dovrà
puntare anche sulla maggiore frequenza degli incontri.
BIBLIOGRAFIA
M. Papadia, Il counseling come riprogrammazione, Roma, Armando Editore, 2005
M. Papadia, La riprogrammazione esistenziale psicoterapia, counseling, medicina
naturale, Roma, Armando Editore, 2001.
M. Papadia, Mediazione e riprogrammazione, Roma, La Riprogrammazione, 2011.
L. Meglio, Sociologia del cibo e dell’alimentazione, Milano, FrancoAngeli, 2012.
R. Rocco, P. Alleri, Il “peso” del corpo, Milano, FrancoAngeli, 2006.
D. Conti, Il libro del giusto peso per sempre, Sperling Paperback, 2012.
Jean-Philippe Zermati, Dimagrire senza diete, Tecniche nuove, 2008.
Dott. Hans G. Kugler – Dott. Arno Schneider, Scegli vegetariano!, Macro Edizioni
2011.
INDICE
Introduzione
CAPITOLO PRIMO
1.CIBO E SOCIETA’: ALCUNI TEMI
1.1 Introduzione: L’analisi del cibo nelle scienze sociali
1.2 La trasformazione culturale del cibo
1.3 Cibo come identità
1.4 Cibo e commensalismo
1.5 Gusti e preferenze
1.6 Il valore simbolico degli alimenti nelle grandi fedi religiose
CAPITOLO SECONDO
2.CIBO E MODERNIZZAZIONE
2.1 Stabilità e cambiamento
2.2 Storia moderna dell’alimentazione
2.2.1 Gli odierni consumi alimentari
2.3 Dal Mc Donald allo sviluppo locale dei prodotti tipici
2.4 Nuova multi etnicità
2.5 Dal pasto tradizionale al pasto flessibile
2.6 Le malattie del benessere
2.7 Una nuova ricerca di naturalità
2.7.1 La cultura vegetariana
CAPITOLO TERZO
3.CORPO, CIBO E SALUTE
3.1 Perché diventiamo obesi? Approccio evoluzionistico al problema
3.2 Il cibo come rappresentazione della propria identità corporea
3.3 L’industria della magrezza
3.4 Percezione e distorsione dell’immagine corporea
3.5 I disturbi alimentari CAPITOLO PRIMO
4.COUNSELING NUTRIZIONALE
4.1 Perché rivolgersi a un counselor nutrizionale
4.2 Il modello della Riprogrammazione
4.3 Counseling nutrizionale secondo il modello della riprogrammazione
4.3.1 Definizione del problema
4.3.2 Definire la programmazione operante
4.3.3 Definizione dell’obiettivo della consulenza
4.3.4 De programmazione
4.3.5 Destrutturare l’immagine corporea negativa
4.3.6 Il nuovo programma
4.3.7 Costruire nuove istruzioni
4.3.8 Definizione delle risorse del cliente