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n. 3 / 2015
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REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).
TTIP: una minaccia incombente per i diritti sociali, il lavoro, la salute, la democrazia Va male il processo di integrazione nell’UE e, più largamente, nel continente europeo? E allora alziamo l’asticella e puntiamo a un più ambizioso progetto di integrazione tra le due sponde dell’Atlantico, saldando insieme il mercato UE con quello USA. Ce lo imporrebbero la deriva fatale della globalizzazione e la concorrenza senza tregua tra Occidente e Oriente, tra la regione atlantica e quella asiatica. Non importa se con quest’ultima gli USA tengono aperto un negoziato analogo: può sempre servire se andasse male il primo e comunque due opportunità sono sempre meglio di una. Questa vicenda del negoziato commerciale transatlantico in vista di un Trattato (Transatlantic Trade and Investement Partnership – TTIP) è stata avviata praticamente in segreto e ha continuato a svilupparsi quasi clandestinamente, approfittando della consuetudine di queste trattative che, per arrivare in porto, sembra debbano farsi di nascosto, per non dare vantaggi al negoziatore avversario. Così facendo gli svantaggi sono tutti a carico dei cittadini e ancor più delle regole elementari della democrazia che, si sa, a livello internazionale non hanno grande applicazione: non solo per l’assenza di adeguati organi di controllo, ma anche per la complessità di materie che si ritiene inutile sottoporre al popolo ignorante. Tutto questo mentre il popolo europeo – ma anche quello americano – fa sulla propria pelle l’esperienza di condizioni di vita degradate dopo la lunga crisi che comincia appena ad allentare i suoi tentacoli. In Europa ne è risultata un’accelerazione di un processo di disgregazione non iniziato ieri, ma aggravatosi con la cura da cavallo dell’austerità che ha picchiato secco su Paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, senza risparmiare l’Italia costretta a fare dolorosi “compiti a casa”, con le conseguenze sociali che sappiamo. Ne ha pesantemente risentito la coesione anche politica nell’UE, con la crescita di movimenti populisti ed euroscettici un po’ ovunque, accompagnati da rigurgiti razzisti come ci ricorda ogni giorno la Lega in Italia. E’ in questo quadro che l’UE prosegue il suo negoziato con gli USA con l’obiettivo, concordato da entrambe le parti nel recente G7, di concluderlo entro fine anno, prima che Obama faccia le valigie dalla Casa Bianca. La sostanza del negoziato verte sulla creazione di un unico mercato di
Notiziario di comunità e gruppi – giugno 2015
n. 2 (165) – aprile 2015 il granello di senape pag. 2
INDICE DEL GRANELLO N. 166
TTIP: una minaccia incombente, FRANCO CHITTOLINA
pag. 1-2
Senza premura ma senza pausa, CLAUDIO MONDINO 3-4 Esempi concreti di ricerca del dialogo, ADRIANA LONGONI
5
Un nuovo fronte di tensioni?, YVONNE FRACASSETTI E MICHELE BRONDINO
6-8
Non lasciare cadere la speranza, COSTANZA LERDA E FLAVIO LUCIANO
9-10
La fede di Gesù, ANGELO FRACCHIA 11 Privi di compassione, NADIA BENNI 12 Un altro mondo sarai mai davvero possibile?, CLAUDIA FILIPPI
13-14
In difesa del cibo, BEATRICE DI TULLIO 15 Dietrich Bonhoeffer (2), ALBERTO BOSI 16-19 Un libro di filosofia che morde il reale, EVA 20 Convegno regionale sulla casa, CARLO MASOERO 21 Così sia, EVA 22 Dal Tavolo delle Associazioni, SERGIO DALMASSO 22 Il Grillo Parlante, C. C. 22 Commercio equo e ambiente, COOP. COLIBRÌ 23-24 Le pagine della Cascina, I CASCINOTTERI 25-28
libero scambio USA-UE, libero da barriere quali le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e le procedure di omologazione, con l’obiettivo inoltre di aprire entrambi i mercati per i servizi, gli investimenti e gli appalti pubblici. Non cose di poco conto, quando si ricorda che UE e USA detengono quasi metà del PIL globale; anche più importante se si considera che si tratterebbe di una svolta a 180° nelle politiche commerciali internazionali finora alla ricerca di intese multilaterali. Con il rischio che ne derivi, con una convergenza delle due economie, anche un forte impatto sociale con norme al ribasso, se non addirittura un rafforzamento in prospettiva dell’alleanza militare, oggi evocata da Hillary Clinton con una non innocente allusione al TTIP come a una “NATO economica”. I sostenitori di questa ulteriore svolta “libero-scambista” fanno balenare le conseguenze economiche benefiche del TTIP: tra queste la crescita entro il 2027 (!) per una famiglia media dell’UE di quattro persone di 545 euro all’anno del proprio reddito. Sempre che ci sia uno sviluppo dell’occupazione, possibilmente di qualità, e che l’euro tra una dozzina d’anni esista ancora e sia in grado di competere con il dollaro, moneta che uscirà sicuramente vincente dall’intesa. Come vincente dovrebbe uscirne l’industria automobilistica, come bene ha capito Marchionne che già da tempo si è portato avanti. Ma sul campo di battaglia l’UE rischia di finire perdente in molti settori di punta, in particolare quelli delle tecnologie avanzate, nell’energia, nelle telecomunicazioni, nel digitale, nei servizi finanziari e, non a caso, nelle industrie di difesa. Senza contare quello che accadrebbe per il settore agricolo, in particolare in Italia. Ma non sono solo questi i problemi: altri anche più importanti attendono una soluzione trasparente a salvaguardia delle nostre democrazie. A cominciare dal ruolo che potrebbero assumere i luoghi privati di arbitrato internazionale per la soluzione di contenziosi commerciali che verrebbero così sottratti alle giurisdizioni pubbliche con tutti i rischi che ne deriverebbero per i contendenti sociali più deboli. Non meno inquietanti le conseguenze che, con l’allineamento delle norme tra le due sponde dell’Atlantico, potrebbero ricadere sui diritti sociali, in particolare del lavoro, e sulla salute, dalla liberalizzazione degli OGM alle prestazioni sanitarie.
Forse però quello che dovrebbe preoccupare maggiormente sono le sorti delle nostre democrazie, tenute a lungo all’oscuro dei negoziati (con grandi responsabilità in proposito della Commissione europea, come ha denunciato il Parlamento di Strasburgo) e private della garanzia di un controllo pubblico sull’attivazione dell’area di libero scambio. Anche per questo motivo c’era molta attesa per la posizione, anche se non vincolante in questa fase, che avrebbe assunto il Parlamento europeo nella sua sessione plenaria a Strasburgo il 10 giugno scorso. Un’attesa delusa: all’ultimo momento, argomentando con il grande numero di emendamenti da votare in aula, la Presidenza ha deciso il rinvio del voto, forse a luglio, nella speranza che le posizioni si possano avvicinare tra i popolari e i conservatori da una parte, favorevoli al Trattato, e i socialisti, maggioritariamente critici e i verdi decisamente contrari. Una divisione che, se non altro, testimonia la problematicità del dossier, in particolare per quanto riguarda l’allineamento delle norme e consente alle mobilitazioni della società civile, europea e americana, di continuare a sperare di bloccare il negoziato o, almeno, di mantenere la pressione sul Parlamento europeo dal quale dipenderà l’approvazione finale degli accordi UE-USA.
Franco Chittolina
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 3
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Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito anche: “i Casci-notteri”, Nadia Benni, Alberto Bosi, Michele Brondino, Claudio Califano, Anna
Cattaneo, Franco Chittolina, Sergio Dalmasso, Cecilia Dematteis, Beatrice Di
Tullio, Renzo Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi, Yvonne Fracassetti,
Angelo Fracchia, Gigi Garelli, Costanza Lerda, Adriana Longoni, Flavio
Luciano, Eva Maio, Carlo Masoero, Claudio Mondino, Sergio Parola, Piera
Peano, Grazia Quagliaroli.
Questo numero è stato chiuso in redazione il 16 giugno 2015.
Senza premura ma senza pausa Il proposito di Papa Francesco di globalizzare la solidarietà, la giustizia e la pace
Poco più di due anni sono trascorsi dall’elezione di Papa Francesco. Possono sembrare pochi, ma se si
considera la quantità straordinaria di gesti profetici che
Bergoglio ha posto in atto in questo scorcio di
Pontificato, non si può che rimanere stupiti.
Lo stile di estrema sobrietà, il rifiuto di tutte le
pomposità tipiche dei Papi da secoli, la sensibilità e
l’attenzione alle persone, la ricerca del dialogo
costante con tutti, l’immediatezza e la naturalità con cui utilizza tutti i mezzi per parlare con la gente
comune, la volontà di sistemare vecchie pendenze e di
rafforzare l’amicizia con tanti, senza curarsi del rango che ricopre e del luogo in cui vive… non sono per nulla dei semplici dettagli. E non è neppure un suo
calcolo per “guadagnarsi” oppositori o scettici. Semplicemente è la sua natura, il suo stile, la sua
visione della vita e della fede, la squisita cura con cui
continua a coltivare rapporti e amicizie. E chi scrive è
testimone in prima persona di questo stile rivolu-
zionario di un Papa.
Fin da quel primo “buona sera” - al posto del
tradizionale “sia lodato Gesù Cristo” – dal balcone di
San Pietro, Papa Francesco non ha avuto timori né
remore a dettare nuove regole nella vita e nella politica
quotidiana di un Papa. Non abita negli appartamenti
papali ma a Santa Marta, in mezzo a tanti, come uno in
più. Non veste pomposamente, porta la stessa croce
che aveva come Vescovo di Buenos
Aires, le stesse scarpe… È assoluta-
mente semplice in tutto quanto concerne
il suo abbigliamento, sobrio negli
spostamenti, non vuole troppi controlli,
filtri, non attraversa Roma a sirene
spiegate, chiede di rispettare i semafori,
ama andare a piedi, in piazza San Pietro
accetta di bere un mate argentino da chi
glielo offre.
Ha continuato esattamente – nella
misura del possibile – a mantenere lo
stile di vita che aveva come cardinale di
Buenos Aires, dove si muoveva in
autobus e in metropolitana, vestiva
ordinariamente, visitava chiunque.
Ma Papa Francesco non si ferma certo
alle apparenze. Il suo modo di essere
dice molto della sua filosofia di vita,
della sua visione del mondo e delle
cose, della sua fiducia inscalfibile nella
donna e nell’uomo, e della sua fede
profonda in Gesù Cristo.
Da buon gesuita, Bergoglio ha ben
chiara la sua strategia, sia dentro come
fuori dalla Chiesa, e la conduce con
astuzia e con precisione politica. Uno
dei propositi del suo pontificato è quello di contribuire
in modo determinante alla ricerca della pace nel
mondo, senza retrocedere di fronte alle difficoltà o alle
circostanze avverse.
Chi lo conosce a fondo, sa che Bergoglio non è mai
stato un uomo di Chiesa a cui sia interessato dare
pubblicità e rilevanza ai suoi gesti, movimenti,
contatti, incontri, prima di raggiungere il proposito che
si fissava. La discrezione è una delle sue grandi virtù,
non disgiunta da un notevole grado di ostinazione –
alimentata dalla sua estrema fiducia nelle persone e
dalla sua fede – nella proposizione di gesti, contatti,
iniziative diplomatiche e non, al fine di raggiungere il
suo scopo con estrema discrezione e pazienza.
Senza premura ma senza pausa, si potrebbe definire la
sua politica tanto dentro come fuori dalle mura
vaticane.
Gli ultimi fatti corroborano tale politica. Dal processo
di avvicinamento fra Cuba e Stati Uniti, alla
canonizzazione di due suore palestinesi, all’incontro con il Presidente Mahmud Abbas (“ho pensato a te come a un angelo della pace” – gli ha detto), fino al
riconoscimento dello Stato Palestinese da parte del
Vaticano, mal “digerito” da Israele. Il proposito di Papa Francesco è quello di “globa-
lizzare la solidarietà, la giustizia e la pace”, e a tal fine non risparmia energie: fa lavorare intensamente la
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Tutti i disegni di questo n. del Granello, tratti dal web, sono di
Miroslav Barták, nato nel 1938 a Kosice, nella Slovacchia orientale,
ha studiato presso l'Accademia Navale di Varna, in Bulgaria, e si è
laureato come ingegnere navale. Quasi dieci anni ha navigato mari e
oceani del mondo su navi mercantili. Nel 1960 ha iniziato a fare
anche il vignettista, fumettista e illustratore free-lance. Dal 1969
lavora come artista indipendente, dedicandosi partico-larmente ai
fumetti, all’illustrazioni di libri e alla creazione di filmati e cartoni
animati. I suoi disegni sono stati pubblicati in numerosi giornali e
riviste in patria e all'estero (tra cui la rivista satirica svizzera
Nebelspalter, e anche Das Magazin, Weltwoche, ecc.). Ha pubblicato
11 libri di fumetti, di cui 7 all'estero (Svizzera, Germania,
Slovacchia), ha illustrato più di 60 libri, è autore di due film di
animazione e di 52 brevi cartoni animati per la tv. Le sue opere sono
state esposte in più di 70 mostre personali e numerose collettive nella
Repubblica Ceca e in molti paesi europei e di oltreoceano. Per il suo
lavoro è stato premiato con una serie di prestigiosi premi e
riconoscimenti. E’ stato tra i fondatori dell'Unione Ceca dei
fumettisti, di cui è stato il primo presidente. Vive e lavora vicino a
Praga, nella Repubblica Ceca.
diplomazia vaticana e si prodiga personalmente, non
tralasciando né delegando alcun dettaglio. Si occupa e
si preoccupa, tanto delle sorti di questo martoriato
pianeta al bordo della terza guerra mondiale – già in
atto, come egli stesso sostiene – come della salute di
persone care, di amici o di “sconosciuti” di cui legge o sente parlare. Docent in questo senso le sue ormai
proverbiali telefonate…
Le sue parole sono profonde, profetiche e allo stesso tem-
po semplici, alla portata della comprensione di tutti.
Davvero interessante e incisiva la forma in cui nel
maggio scorso ha spiegato agli alunni di una scuola
primaria di Roma il problema della pace: “Perché molti potenti non vogliono la pace? Perché vivono
delle guerre, dell’industria delle armi. E questo è grave! I potenti si guadagnano la vita con la fabbrica
delle armi e vendono le armi ai paesi che si fanno la
guerra, indifferentemente all’una o all’altra parte belli-gerante. È l’industria della morte. E ci guadagnano… La cupidigia è il male: tutto gira intorno al denaro. Il
sistema economico gira intorno al denaro, non intorno
alla persona. Si fanno le guerre per difendere il
denaro”. Mentre la nostra rivista viene stampata e spedita, il 18
giugno prossimo Papa Francesco pubblicherà
un’enciclica sulla creazione e sull’ambiente, dal titolo “Laudato sii”. Un tema delicato e di estrema importanza e attualità, non disgiunto dall’urgenza di porre un freno alla tragica depredazione della natura da
parte di un neoliberismo senza regole che ha come
unica legge il profitto.
Sulla nostra rivista, due anni fa, chi scrive aveva
indicato fra le sfide del pontificato di Papa Francesco
la questione ambientale. Si tratta senza dubbio di
un’enciclica che “disturberà” molti. Basti pensare che il Cardinale Oscar Rodriguez Madariaga – segretario
coordinatore del Consiglio di 9 Cardinali eletti dal
Papa per aiutarlo nella riforma della Chiesa – ha difeso
l’enciclica dalle “critiche preventive” che arrivavano in modo speciale dagli Stati Uniti. “Sono appena stato negli USA e ho visto le dure critiche all’enciclica di Papa Francesco sull’ambiente, senza che sia stata pubblicata, critiche basate su argomenti di un
capitalismo che non vuole rinunciare a danneggiare
l’ambiente per non rinunciare ai guadagni”.
Il motto “senza premura ma senza pausa” vale anche –
e forse soprattutto – per la politica di cambiamento
all’interno delle strutture della Chiesa. Chissà sia proprio questo l’ambito più delicato e arduo della sfida del Papa venuto dalla “fine del mondo”. Ne è prova l’enorme difficoltà e la forte resistenza al cambiamento
manifestatesi nel corso del sinodo sulla famiglia dello
scorso anno. Se sullo scenario internazionale il Papa
incontra non poche resistenze, all’interno della Chiesa l’ala conservatrice si muove attivamente e freneti-camente per impedire la messa in atto di quei
cambiamenti che il sinodo del 2014 ha cominciato a
mettere sul tavolo. Il momento della verità sarà il
sinodo dell’ottobre prossimo, dove tali tematiche torneranno ad essere trattate.
Nel frattempo, non sono mancati i segni profetici di un
cambiamento di rotta nella Chiesa o, per meglio dire,
di un ritorno autentico e coerente a quel radicale
aggiornamento delle strutture della Chiesa chiesto e
voluto dal Vaticano II.
La beatificazione del Vescovo di San Salvador, Oscar
Arnulfo Romero, tragicamente trucidato dai militari
con la connivenza degli USA, è senza dubbio un forte
segno. “Monsignor Romero – ha detto il Papa
all’Angelus il giorno della sua beatificazione – ha
scelto di stare in mezzo ai poveri e agli oppressi, anche
a costo della vita”. Da anni, in molti paesi dell’America Latina, i settori progressisti della Chiesa lo avevano battezzato San Romero d’America. Vox populi…
Claudio Mondino
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 5
Esempi concreti di ricerca del dialogo
Forse mai come in questi ultimi tempi si è sentita,
nella nostra Europa, tanta fragilità politica, economica
e sociale e tanta pressione umana alle frontiere,
dovuta, in particolare, alle guerre che infiammano il
sud del Mediterraneo e penetrano fino nel cuore
dell’Africa. Guerre, se si può dire, che, come quelle dell’ISIS, si combattono per obiettivi a noi
difficilmente comprensibili e che affondano le loro
radici in una realtà storica lontana, carica di miti, di
grandi simbologie, di nostalgie e per le quali i
combattenti di oggi non esitano a far ricorso alle forme
di violenza più efferate. I media riportano in
continuazione immagini insostenibili di totale rifiuto di
altre culture e religioni, notizie di ricatti, di distruzioni,
di traffici di esseri umani, di assurda determinazione
nel voler cancellare le preziose tracce lasciate dalla
storia e diventate patrimonio comune dell’umanità. Nel frattempo, migliaia di profughi cercano salvezza e
futuro in Europa, tentando di attraversare quel Mar
Mediterraneo diventato sempre più, da una parte,
simbolo di disperazione e di inaccessibile futuro, e,
dall’altra, insuperabile frontiera da proteggere. Tutto ciò avviene in questo inizio di XXI secolo, in
piena riflessione sulla globalizzazione e in un contesto
di grandi opportunità di movimento per le persone, di
intrecci di culture e religioni diverse, di vecchie e
nuove cittadinanze, di sfide inedite di convivenza e di
nuove e antiche paure. Sono sfide enormi, che
chiamano ognuno di noi a rispondere all’interrogativo sempre più pressante di quali regole di civile e
rispettosa convivenza di pace vogliamo per il futuro. A
richiamare costantemente l’attenzione su questo e sulle nostre comuni e individuali responsabilità al riguardo,
si alzano voci di grande autorevolezza politica e
religiosa, ma anche echi di piccoli esempi concreti,
troppo piccoli per poter giungere sotto i riflettori
dell’attualità. Imponenti infatti le recenti parole di Papa Francesco in
visita a Sarajevo, una città simbolo di quelle che sono
state le tragedie del XX secolo: da qui infatti è partita
la scintilla che ha incendiato il mondo con la prima
guerra mondiale e qui ancora, alla fine del secolo, si è
consumata l’atroce e assurda carneficina alimentata da
conflitti etnici e religiosi. Le parole del Papa, dette in
quella città che è anche stata e cerca di essere ancora
luogo di pacifica convivenza interetnica e religiosa non
potevano essere più chiare: “Abbiamo bisogno di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che
ci unisce e di guardare le differenze come possibilità di
crescita nel rispetto di tutti. E’ necessario un dialogo paziente e fiducioso e abbiamo tutti bisogno, per
opporci con successo alla barbarie di chi vorrebbe fare
di ogni differenza l’occasione e il pretesto di violenze sempre più efferate, di riconoscere i valori fondamen-
tali della comune umanità, valori in nome dei quali si
può collaborare, costruire e dialogare, perdonare e
crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di
formare un nobile e armonico canto piuttosto che urla
fanatiche di odio”. Parole gravi, che rispecchiano tutta
l’essenza delle sfide umane in corso e nel futuro. Ma ci sono anche piccoli e sconosciuti gesti che
traducono la risposta a tali sfide in atti concreti. Uno di
questi è stato fatto molto recentemente ad Arlon, una
piccola cittadina a sud del Belgio. La piccola comunità
ebraica presente è stata obbligata a chiudere le porte
della sua splendida sinagoga, la più antica del Belgio,
perché fatiscente e pericolosa. Le spese per i restauri
non potevano essere sostenute dalla comunità stessa e
poche erano le speranze di un intervento pubblico per
salvare l’edificio. Un primo gesto è stato fatto invece dalla comunità musulmana che, per
dichiarare silenziosamente il suo
impegno e il suo credo nell’im-
portanza di un dialogo, ha conse-
gnato al rabbino il primo, seppur
modesto, assegno per iniziare i
restauri della sinagoga. Un gesto
che ha attirato l’attenzione delle autorità locali e dei rappresentanti
di altre fedi, cattolici, ortodossi,
protestanti e persino buddisti,
facendo scaturire una gara di
solidarietà e di partecipazione. E
questa è solo una, ne siamo certi,
delle tante gocce di speranza che
aiutano a credere che sia possibile
dar vita a quel “canto nobile ed
armonico” di cui parla Papa Francesco.
Adriana Longoni
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 6
Il mosaico etnico-religioso dei Balcani nel XXI secolo
Un nuovo fronte di tensioni?
I conti col passato
Il Mediterraneo del XXI secolo è sempre più al centro
dell’attenzione internazionale, in primis per le terribili
vicende dei conflitti a base religiosa nel Vicino Oriente
e le conseguenti diramazioni sulla sponda sud a
cominciare dalla caotica situazione della Libia, mentre
continua l’inarrestabile dramma delle migrazioni da sud-est a nord, e ultimamente per le avvisaglie delle
risorgenti tensioni dell’interminabile problema balca-
nico. Altro che mare di pace come da ogni parte si
auspica! Vale sempre la considerazione del suo grande
storico F. Braudel: “La Méditerranée est telle que la font les hommes”. Da una partita di calcio Albania-Serbia del 14 ottobre
scorso, tramutatasi in una rissa violenta all’apparire della bandiera inneggiante alla Grande Albania,
all’episodio violento del 9 maggio scorso a Kumanovo in Macedonia dove il 25% della popolazione è
albanofona, rispunta la problematica degli scontri degli
stati balcanici causati dalle appartenenze etniche e
religiose, richiamando alla nostra memoria le guerre
interetniche tra gli stati dell’ex Jugoslavia (oltre 200.000 morti) e le “guerre umanitarie” della Nato (in cui l’Italia fu la base operativa per le incursioni aeree)
negli anni ‘90 a proposito della questione del Kosovo,
territorio conteso tra Albania e Serbia (cfr. A. Biagini,
Storia dell’Albania contemporanea, Bompiani, 2005).
Guerre, queste, che hanno causato terribili “pulizie etniche” ed enormi distruzioni.
Dopo gli accordi di Dayton (1995, fine delle guerre
balcaniche) e quelli di Ohrid (2001, fine delle violenze
tra il movimento irredentista albanese e la repubblica
macedone), le tensioni nella regione balcanica sembra-
vano acquetate. Oggi vi è la pace, ma è più apparente
che reale, poiché, come afferma la scrittrice croata
Slavenka Drakulic, “non è stata fatta chiarezza… finché non si fanno i conti con il passato non si può
guardare al futuro … Serve una rivoluzione culturale” (Intervista di G. Stabile, La Stampa, 16.10.2014). Il
lascito dell’ideologia comunista si è trasferito nell’ideologia nazionalista, improntata soprattutto all’etnia nella ex Jugoslavia, come dimostra, ad esempio, l’irredentismo albanese della “Grande Alba-
nia”. Il tentativo della Repubblica Socialista Federale
Jugoslava (RSFJ) di Tito (1945-1991) per unire
insieme i diversi stati si è, nel tempo, infranto
drammaticamente nella “balcanizzazione” dell’intera regione, dove erano e sono presenti le interferenze
delle grandi potenze, in primis Russia, USA e Unione
Europea (UE).
A questo proposito citiamo lo scrittore Fulvio
Tomizza, grande esperto della questione slava, quando
scriveva: “Nessuno si illuda che la soluzione del caso jugoslavo possa avvenire al di fuori dei confini, per
intervento di governanti estranei i quali sarebbero
costretti ad agire molto sommariamente. Nemmeno i
tribunali hanno mai sanato i guai di famiglia, e nel
consesso internazionale la Jugoslavia è e rimane una
famiglia sia pure a pezzi” (Destino di frontiera,
Genova, 1992, p. 115). Giudizio che ha trovato e trova
riscontro nelle feroci guerre intestine delle identità
nazionali della ex Repubblica Socialista Federale
Jugoslava, scatenate all’indomani della caduta della cortina di ferro nel 1989, e nelle successive “guerre umanitarie” per risolvere i problemi balcanici. Tanto più quando si aggiunge l’ignoranza e la falsificazione della storia e della geopolitica della penisola balcanica,
congiunte alle interferenze interessate delle grandi
potenze, in primis gli USA che vi hanno disseminato le
loro basi militari.
Il Kosovo: nuovo rovello balcanico?
Nella prospettiva storica crociana che “tutta la storia è sempre contemporanea”, lo status questionis della
regione Kosovo ci richiama il rovello che ha
condizionato e condiziona tuttora gli stati balcanici
nella ricomposizione della loro carta geopolitica dopo
il plurisecolare dominio dell’Impero ottomano, scomparso con la fine della prima Guerra Mondiale:
stato-nazione monoetnico o stato-nazione multietnico e
multinazionale?
Ci limitiamo qui a brevissime considerazioni storiche
che ci aiutano a capire l’importanza della questione del Kosovo. Regione autonoma insieme alla Voivodina
della ex RSFJ e poi parte integrante della Repubblica
Federata Jugoslava (1993) di S. Milosevic (divenuta
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Repubblica della Serbia nel 2006 dopo
l’allontanamento dal potere e la messa in stato d’accusa di Milosevic per crimini contro l’umanità), il Kosovo ha proclamato unilateralmente la sua
indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008, dopo le
continue rivolte dell’UCK (Esercito di liberazione nazionale).
Indipendenza questa finora riconosciuta dalla Corte
Internazionale di Giustizia dell’Aia su mandato dell’ONU, e da più di cento stati. La sua storia è il paradigma dei rapporti conflittuali soprattutto tra serbi
ed albanesi, iniziati sin dalle guerre balcaniche (1912-
1914) quando l’Albania proclama la sua indipendenza con Ismail Quemal il 28 ottobre 1912, data che è a
tutt’oggi la festa nazionale per il “Paese delle Aquile” (Shqiperia in albanese). Da allora il Kosovo è stato il
pomo della discordia tra Albanesi e Serbi poiché i
primi lo reclamano per la creazione della Grande
Albania in quanto la popolazione kosovara è per il
90% di etnia, lingua e cultura albanesi (popolazione
non slava ma di discendenza illirica), mentre i secondi
affermano invece che esso fa storicamente parte della
Serbia secondo i trattati internazionali come è statuito
nella costituzione della Repubblica Serba, la quale a
tutt’oggi non riconosce la sua indipendenza (cfr. J. A.
Dérens, Kosovo: l’illusion de la souveraineté, “Le Monde Diplomatique”, 17.9.2012). Invero nella visita di stato del premier albanese, Edi Rama, a Belgrado
nello scorso novembre, che ha inopportunamente
reclamato il riconoscimento serbo dell’indipendenza kosovara, la risposta del premier serbo A. Vucic è stata
perentoria: "Non so cosa Edi Rama abbia a che fare
con il Kosovo, che, secondo la costituzione, è parte
della Serbia e non ha mai avuto e non avrà alcun
rapporto con l'Albania” (Osservatorio Balcani e
Caucaso – http://www.balcanicaucaso.org).
A partire dall’Ottocento, il movimento per lo stato-
nazione, che si diffonde in Europa, spiana pure la via
ai movimenti nazionalisti nei Balcani. In genere essi
si richiamano ad un glorioso passato, talora
ingigantito e travisato: la Grande Serbia, la Gra nde
Albania, la Grande Grecia, la Grande Macedonia, la
Grande Croazia, cioè i miti precursori delle guerre
balcaniche di ieri e di oggi. Ma la sorte dei popoli
balcanici è per lo più decisa in funzione delle
politiche d’espansione e d’influenza delle potenze europee che condizionano i moti nazionali in aperta
rivolta contro la secolare presenza turca, soprattutto
a partire dal Congresso di Berlino del 1878 e nei
successivi accordi internazionali fino ad oggi.
Nella ricomposizione della carta geopolitica dei
Balcani, il principio dello stato-nazione che esige un
determinato territorio, si scontra con la realtà
multietnica e multinazionale i cui territori sovente
non rispondono a quelli nazionali, oltre alle identità
religiose e linguistiche. Alle carte nazionali s’ag-
giungono allora quelle etniche che introducono il
principio della “pulizia etnica” al fine di adattare lo spazio etnico al territorio nazionale. Dato questo
ancora tragicamente evidenziato dopo lo sfaldamento
della RSFJ di Tito nelle sei repubbliche (Slovenia,
Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Macedonia,
Serbia) e nella odierna repubblica del Kosovo dove,
alle precedenti pulizie etniche nei confronti dei
kosovari albanesi in favore dell’etnia serba, oggi si constatano pulizie etniche nei confronti della comunità
serba che conta circa 100.000 persone, malgrado la
presenza di peacekeepers inviati dall’ONU e di altre missioni europee (cfr. articoli stampa del periodo,
Osservatorio Balcani e Caucaso).
Le responsabilità occidentali e i diritti
dei popoli all’autodeterminazione
Si è sovente detto che i Balcani sono “la polveriera d’Europa”, “il ventre molle” della sua civiltà, ma alla luce della storia noi siamo convinti che le cose non
stiano proprio così (cfr. M. Brondino, Il mito infranto
della Jugoslavia, in “Mediterraneo”, n. 12, 2000). E’ l’Europa, a cui oggi si sono aggiunti gli Stati Uniti d’America quale prima potenza mondiale, che hanno
condizionato e continuano a condizionare le vicende
politiche e sociali dell’intera regione; ovviamente senza dimenticare tutta l’influenza determinante della Russia. Dall’Ottocento in poi, soprattutto dal Congresso di Berlino (1878) allo smembramento
dell’impero ottomano e di quello austroungarico, i Balcani hanno subìto la volontà delle potenze europee
che hanno anteposto le loro strategie politico-econo-
miche alla questione dei diritti dei popoli all’auto-
determinazione. Oggi invece l’UE viene vista quale
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 8
modello di democrazia e di solidarietà verso cui questi
stati aspirano a diventare membri, come già lo sono
Slovenia e Croazia.
Ma ieri come si è comportata l’Unione Europea di fronte al progressivo costituirsi dei singoli stati
balcanici? Innanzitutto l’UE ha rivelato i suoi limiti di decisione e d’azione proprio perché non ha ancora una sua politica estera univoca, corroborata da una sua
forza armata d’intervento. Il suo incerto atteggiamento d’attesa è stato seguito da decisioni dettate dalla
tradizionale realpolitik dei singoli partners, decisioni
che hanno sollevato grossi dubbi sulla sua reale
volontà di far valere i diritti dei popoli all’auto-
determinazione nel rispetto dei diritti umani, ed hanno
indebolito i loro interventi diplomatici e militari volti a
realizzare nei Balcani una comunità di popoli che
vivano in pace tra di loro. Invece di proteggere le
comunità più minacciate, membri influenti dell’UE hanno sostenuto le nazioni balcaniche più ricche e
competitive, loro tradizionali alleate, come la
Germania nei confronti della Slovenia e Croazia, la
Francia per la Serbia, l’Italia per l’Albania. Anche il fattore religioso ha fatto scattare affinità elettive, come
l’appoggio del Vaticano per la cattolica Croazia e quello degli emirati musulmani per la Bosnia
Erzegovina dove l’islam è la religione della maggio-
ranza della popolazione con punte di fondamentalismo
islamista sostenute dai regimi autocratici della penisola
araba ed oggi anche dall’autoproclamato stato islamico del Califfo Al Baghdadi, che la considerano la prima
fortezza musulmana in Europa.
Non c’è stato dunque un approccio sistematico adeguato all’intricata situazione delle etnie, delle nazionalità e delle religioni. Si è proceduto perlopiù
all’insegna della Realpolitik europea e del pragma-
tismo americano, che anche qui ha imposto la sua
leadership di prima potenza mondiale attraverso il
braccio armato della Nato, senza tenere conto delle
responsabilità per i crimini di guerra e delle famigerate
pulizie etniche (basta ricordare quella di Srebrenica
con oltre 8000 morti), dell’iniquo trattamento delle questioni nazionali e dell’ineguale sviluppo economico e sociale.
Oggi il Kosovo, straziato nelle sue terre e nelle sue
genti dal mito serbo e da quello albanese, è e resterà a
lungo la dolorosa pietra di paragone dell’intera situazione geopolitica e socioeconomica delle
nazionalità balcaniche, che si sono venute affermando
nell’esclusione dell’Altro. Ma l’esclusione dell’Altro non è la dimensione per attuare società multinazionali,
multietniche e multiculturali. Occorre “passare da una cultura dello scontro, della guerra a una cultura
dell’incontro, del dialogo… mai più la guerra!”, come
ha evidenziato papa Francesco nella sua recente visita
a Sarajevo, città vista come la Gerusalemme simbolica
dell’Europa. C’è però un dato positivo poiché la coabitazione seco-
lare, imposta od accettata tra le diverse popolazioni nei
Balcani, ha favorito nei secoli l’interpenetrazione delle locali culture nazionali: c’è un substrato di valori comuni all’area che può essere il collante per affrontare e superare le difficoltà attuali dei
nazionalismi, nell’impatto, sì tormentoso ma esaltante, con le inevitabili esigenze della modernità.
Concordiamo con il grande scrittore croato Predrag
Matvejevic quando afferma: “Ho poca stima per coloro
che pongono lo spirito di parte al di sopra dei princìpi,
la nazionalità prima dell’umanità”, per cui ha avuto problemi giudiziari con le autorità croate (cfr. Melita
Richter, L’appello, Osservatorio Balcani e Caucaso –
http://www.balcanicaucaso.org).
Noi non crediamo che l’homo balcanicus – come
troppo sovente si è detto – sia atavicamente incapace
di vivere in pacifica sintonia con se stesso, con il suo
habitat naturale e con le diverse etnie, religioni e
nazioni che compongono il mosaico balcanico.
Ripetiamo, insieme a Tomizza,
che i problemi balcanici si risol-
vono all’interno della famiglia balcanica oggi ancora suscettibile
di divisioni, come dimostrano i
recenti scontri in vari stati
balcanici. Nel contesto mediterra-
neo, la geopolitica delle superpo-
tenze a cominciare dagli USA e
dalla Russia, l’azione dell’UE e degli altri stati conterranei
possono solo aiutare e consigliare,
non imporre soluzioni per il futuro
con la forza delle armi, il cui
ricorso, qualora necessario, può e
deve essere solo temporaneo e
sempre a sostegno dei diritti dei
popoli all’autodeterminazione.
Michele Brondino
e Yvonne Fracassetti
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 9
Non lasciare cadere la speranza Ci sono giunti in redazione due
resoconti dell’incontro con Marcello Barros, entrambi calorosi e
appassionati. Naturalmente,
trattandosi di riportare la sua
testimonianza, i due resoconti in
parte si sovrappongono.
Dispiacendoci però di sacrificare
uno dei due testi, perdendo così
quelle sfumature che ciascuno coglie
in proprio, abbiamo pensato di fare
un collage dei due testi. Chiediamo
scusa a Costanza e a Flavio se
qualcuna delle loro parole è andata
persa in questa sintesi.
Un incontro incoraggiante. Sono uscita dall’incontro del 20 maggio 2015, alla sala San Giovanni di Cuneo,
con una sensazione finalmente positiva e la fiducia che
anche le minoranze sono importanti ed hanno senso
nella società. L’incontro ha visto il gradito ritorno di
Marcelo Barros, voce dal sud del mondo, dal sud di
Helder Camara, di mons. Arnulfo Romero, realtà che
interpella, mette in discussione le nostre sicurezze e
sovente ci aiuta ad abbozzare risposte anche per noi,
qui. Monaco benedettino, considerato uno dei maggio-
ri biblisti e teologi dell’America Latina, ha lavorato a stretto contatto con Helder Camara, sulla pastorale
indigena e sui temi dell’ecumenismo. È stato per anni referente della pastorale della terra, dove ha potuto
rendersi conto delle condizioni di estrema povertà ed
emarginazione dei contadini, e ha sostenuto le batta-
glie del movimento “Sem terra”. Ha scritto parecchi
testi sui temi della spiritualità, della pace, della
giustizia e delle sfide che attanagliano la Chiesa. In
questo tempo storico in cui pare che l’interesse e l’impegno per la pace, la giustizia, la solidarietà non siano all’ordine del giorno, né dei grandi, né della gente in generale, ma alberghino in poche e sparute
comunità o gruppi, sempre minoranze - quando ci
guardiamo attorno - che paiono poco incisive o signifi-
cative, ecco una voce che ci incoraggia: “Mai lasciare che la speranza in me si svuoti... questa speranza non
è ingenuità... Dio è più grande del cammino della
storia umana, l’ultima parola è la parola dell’amore, della salvezza, della liberazione”. [Co]
La dolcezza di un incontro. Per me è sempre una
grande gioia incontrare il monaco benedettino Marcelo
Barros. Affiorano alla mia memoria mille ricordi di
momenti speciali in cui ho potuto apprezzare la sua
bellissima umanità. In una visita al monastero dell’An-
nunciazione in Goias Velho, nel cuore del Brasile,
dove lui viveva una esperienza originale e profonda di
vita comune con uomini e donne di Dio, sono rimasto
colpito da una grande tavola di legno sulla quale,
scolpita con rara maestria, la raffigurazione della
Trinità, ispirata alla famosa icona di Rublev, mi
donava luce e tenerezza. Questo perché i tre volti
molto espressivi avevano la sembianza di un negro, un
indio, una donna. Ecco il Dio dei poveri, col volto dei
più poveri di quel luogo. Il Dio di tutti e di tutte, che
non fa differenze e che ama.
Anche la sera del 20 maggio, Marcelo Barros ha
seminato, con le sue parole ma soprattutto col suo
sguardo, fiducia e coraggio in chi era presente. […] Marcelo parla un italiano comprensibile ed efficace.
Non essendo la sua lingua nativa si esprime con calma e
forse questo dà una forza particolare alle sue parole. [Fl]
“Non lasciate cadere la speranza”. Questo era il
tema, non facile, della serata, che Marcelo ha accettato
con gioia, perché queste parole lui le ha raccolte dalla
bocca di Dom Helder Camara, il vescovo brasiliano
dei poveri, di cui è stato segretario nella sua
giovinezza. Sul letto di morte, con la voce flebile, alla
richiesta di una parola che gli stesse a cuore, il vescovo
di Recife ripeté più volte: “Non lasciate cadere la
profezia”. Marcelo ha commentato: “Ho capito subito che non era una parola solo per me, ma una parola
che io dovevo trasmettere a tutti i fratelli e le sorelle,
come fosse una vocazione nostra, comunitaria”. [Fl]
C’è bisogno oggi di profezia? “Come del pane – ha
risposto Marcelo - Spesso leggendo gli avvisi appesi
davanti ai negozi per trovare lavoratori - “cercansi
commesse” -, ho pensato che dovremmo affiggere
all’entrata delle nostre Chiese una grossa scritta “cercansi profeti!”. Diceva Monsignor Lercaro che la
nostra Chiesa zoppicava, e zoppica molto, perché non
si appoggia su due pilastri, gli apostoli e i profeti, ma
solo sui primi, perché i secondi mancano o non sono
ascoltati e valorizzati! [Fl]
La vocazione profetica è sovversiva e rivoluzionaria e
la profezia ci assicura che possiamo cambiare sempre: nel
cuore di ognuno di noi il deserto può farsi giardino. [Co]
Ma che cosa è la profezia? Nella Bibbia il profeta
non indovina, non prevede, ma promette! Promettere è
impegnarsi, giocarsi, è compromesso! Il profeta pro-
mette e si impegna, proprio come hanno fatto Helder
Camara e Monsignor Romero. Tutti due profeti e tutti
due martiri, anche se uno ha perso la vita eliminato dal
sistema, dalla dittatura nel suo paese e l’altro no. Martirio significa testimonianza e Helder Camara è
stato “il martire che non uccisero”, ma la cui testimo-
nianza e fedeltà al Dio della vita è un faro luminoso
per tanti, è profezia nel nome di Dio! Perché il profeta
è il portavoce di Dio e spinto dallo Spirito promette
l’impossibile, che nonostante tutto il mondo nuovo è possibile, il deserto fiorirà, la vita cambierà, anzi, per
chi vive come Gesù la vita non finisce mai. [Fl]
Come essere portavoce di Dio? Prima di tutto
ascoltarLo! Senza ascoltare è impossibile capire, avere
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 10
la sicurezza che la mia parola sia di Dio: “Asso-
lutamente ho bisogno di pregare, di ascoltare la
parola, di convivere in una intimità con Dio. Ognuno
lo fa alla sua maniera! Ho rispetto per chi vive una
spiritualità diversa dalla mia. La base della vocazione
profetica è prima di tutto la fede. Fede, non nel senso
di credere in tutto. Quando qualcuno mi domanda di
rinnovare il mio battesimo, prima di chiedermi in che
cosa credo, mi domanda in che cosa non credo”. Mar-
celo ha raccontato che il vescovo Dom Pedro Casal-
daliga a chi gli disse di essere ateo domandò: “Di che
Dio sei ateo?”. “Io sono ateo di un dio dello Stato, del
biglietto del dollaro, del capitalismo, del mercato, del-
la violenza, dell’esclusione, del popolo eletto mentre gli altri sono extracomunitari. Io credo nel Dio di Ge-
sù, Dio dell’amore, dell’unione, che si rivela nel-l’altro, che sia musulmano, buddista o cristiano”. [Fl]
La profezia comunitaria. Oggi però la profezia non
può più essere di un singolo. Ogni volta di più, essa
deve diventare comunitaria, di un gruppo che trova le
proprie radici nella fede, di una comunità locale… La
comunità cristiana non presenta caratteristiche diverse
dagli altri raggruppamenti: anch’essa è luogo di
difficoltà, di conflitti. La sfida è mantenere la
comunione in questa situazione. [Co]
In un mondo individualista come quello di oggi “la
grande profezia nostra è mantenere la comunione, è
poter dire al mondo che questo isolamento, questa
situazione di ognuno per sé è contraria alla fede e non
c’è bisogno di essere così. Portare la convinzione che vivere ciascuno per sé è contrario al vangelo, noi
abbiamo bisogno l’uno dell’altro”. Abbiamo bisogno
di costruire relazioni buone, vita comunitaria nono-
stante tutte le difficoltà e le nostre debolezze. [Fl]
Uomini e donne di dialogo. Si è profeti, portavoce di
Dio, se si è uomini e donne di dialogo autentico. “Dio
non rivela a me una parola su di me. Ho bisogno di te,
per capire ciò che Dio mi dice oggi. E io so dire a te
ciò che Dio vuole da te. Questo cosa vuol dire? Che
l’altro è sacramento di questa parola, è la dimensione fondamentale della profezia. Chi non è legato
all’altro, chi non sta interessato all’altro, non può
vivere e esprimere la profezia evangelica”. La Chiesa
deve avere il coraggio di dialogare e non solo con chi è
simile, ma con tutti. Dialogare è ricchezza e fa sempre
crescere, “dom Helder diceva che anche se io alla fine
del nostro incontro non sarò d’accordo con te, io ti ringrazio immensamente, perché io non sono più
quello di prima, sono cresciuto anche se sono rimasto
con le mie convinzioni. Sono cambiato e tu mi hai
cambiato”. La Chiesa in uscita voluta da Papa Francesco è la Chiesa pasquale, perennemente in
esodo per amore, sognata a Medellin dai vescovi
latinoamericani! A chi gli ha fatto notare, riferendosi
ai fratelli e alle sorelle che vengono in mezzo a noi da
altri continenti, quanto sia difficile dialogare con il
diverso che ci fa paura, Marcelo risponde: “Il dialogo
con l’altro è un cammino rischioso. Il dialogo è rischio. L’avventura del dialogo è il cammino di dare la vita, di rischiare se stessi. Chi non vuole rischiare,
non entri in dialogo!”. In ognuno di noi c’è capacità di
amare e sbagliare, perché siamo umani, “ma se siamo
papà e mamma di una persona difficile, lasciamo di
amarla, di essere solidali? Possiamo punire, educare,
ma mai lasciamo di amare. La scelta dei poveri per
Gesù non è la scelta perché i poveri sono meravigliosi,
ma perché Dio è lì ed è buono. Se voglio essere
testimone di Dio, io devo essere solidale”. [Fl]
Avere a cuore il sogno di Dio. Si è profeti, portavoce
di Dio, quando si ha a cuore il sogno di Dio, che è il
suo Regno di pace e giustizia in questo mondo! “La
mia esperienza è questa, che quanto più io ho
approfondito la Bibbia, ho imparato a studiare, ad
amare i salmi della Bibbia e la preghiera, tanto più ho
scoperto che devo vivere una vocazione sociale e
politica. Non partitica, come una politica professio-
nale. Io non sono un politico professionale. Ma so che
ogni volta che vivo la testimonianza della fede, io vivo
la testimonianza di ciò che il vangelo chiama Regno di
Dio. Il Regno di Dio è il programma, è il progetto, che
Dio ha per questo mondo, non per l’altro”. [Fl]
Vivere il coraggio della speranza. Si è profeti,
portavoce di Dio, quando si vive il coraggio della
speranza. La speranza chiede coraggio, perché spesso
la realtà è dura. “Vorrei che uscendo di qui ognuno di
voi dicesse io mi impegno e prometto che mai lascerò
la speranza, che la mia speranza si svuoti. Qualsiasi
difficoltà incontri. Quanto più difficile, più speranza
dobbiamo avere. Questa è la nostra profezia. Questo
ci fa critici, senza essere ingenui. Perché io credo che
anche quando la storia umana va in una direzione
contraria al progetto di Dio, Dio è più grande, Gesù è
risorto. E lo spirito di Dio, attraverso tutte le contrad-
dizioni della storia, sarà capace di avere l’ultima parola. L’ultima parola è la parola dell’amore, la
parola della salvezza, della liberazione”. [Fl]
Non demoralizzarsi. Ci ha spronati a non demordere,
a ricercare sempre, nel confronto costante, nel tentati-
vo di conoscere e documentarsi, stando dalla parte dei
deboli e degli impoveriti, con l’invito agli organizza-
tori della serata a disporre in modo diverso le sedie (in
cerchio, per favorire la comunicazione reciproca e
potersi guardare in viso mentre si parla e si conversa).
Non una parola di scoramento, non un accenno alla
possibilità di lasciar perdere, di demoralizzarci, ma
mantenere alta l’attenzione per l’oltre, verso un
progetto più grande di noi in cui convogliare energie e
da cui trarre la forza necessaria per continuare…, come d’altronde fanno i popoli in perenne ricerca di riscatto e giustizia. [Co]
Grazie, Marcelo! [Fl]
Costanza Lerda Flavio Luciano
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 1
bibblando
Il Soffione e la vita
Nella sua mite leggerezza Il sorriso della fantasia Nella sua irripetibile perfezione Lo stupore dell’unicità Nella sua dinamica forza Il coraggio di essere e di combattere … e quando il vento ne disperderà le spore E quando la pioggia ne spoglierà il pistillo E quando il sole ne essiccherà lo stelo Allora… ancora una volta (Gratuitamente, graditamente, con gratitudine) Sarà più feconda la terra.
Cecilia Dematteis
La fede di Gesù Ma perché dovremmo continuare a studiare la Bibbia? Dopo duemila anni, non dovrebbe ormai essere tutto chiarito, e soltanto da spiegare? Un esempio, particolarmente significativo, può aiutarci a capire perché non avremo mai finito di studiarla, e non solo di spiegarla. Più volte, soprattutto nelle lettere di Paolo, si dice che a salvarci è la "fede in Gesù": così è resa la formula che nell'originale suona in realtà "fede di Gesù". È la stessa cosa? Quel "di" è ambiguo in tutte le nostre lingue. Se si rifugiano in casa due bambini, spiegando: «A farci entrare è stata la paura di Giovanni», le possibilità sono due. O Giovanni è un ragazzino più grande che li perseguita e che non vogliono incontrare (ossia Giovanni è il responsabile della paura; in termini sintattici si parla di "genitivo soggettivo"), oppure Giovanni è uno dei due bambini, che ha paura e li ha spinti a rincasare (ovvero Giovanni è succube della paura; in termini sintattici si parla di "genitivo oggettivo"). Di solito il contesto basta a chiarire quale dei due significati sia da preferire. Ma il contesto esige di rimandare all'interpretazione... Nel nostro passato per lunghissimo tempo si è pensato a Gesù come a qualcuno di straordinario, di eccezionale, di enormemente superiore alla nostra "normale e umile" umanità. Si diceva di Gesù soprattutto il suo essere divino, ma pensando il divino indipendentemente da Gesù. Sarebbe come se qualcuno decida di andare ad imparare a giocare a bridge, ma avendo già le proprie idee sul bridge, alle quali non vuole rinunciare; se si svelassero sbagliate, cambieremo il bridge perché assomigli a quello che ne pensavamo già prima. Con Gesù si è fatto spesso un
po' così: avevamo già la nostra idea su Dio, ed era quella di un essere superiore, inarrivabile all'uomo, perfetto, inaccessibile... Se Gesù non corrispondeva a quell'immagine, cambiavamo Gesù, anziché cambiare l'idea che ci eravamo fatti di Dio. Ecco perché di "fede" di Gesù non potevamo parlare. Immaginavamo, infatti, che possa avere fede solo chi non sa, non vede, e il non poter fare qualcosa non ci sembrava adeguato a Dio. Oggi ci è più chiaro che nella nostra vita le scelte più profonde (professionali, di stile o chiamata di vita, nelle amicizie, nei legami coniugali...) si giocano a questo livello. Non è perché siamo limitati che decidiamo di fidarci di una persona promettendole di esserle fedeli sempre. Anzi, solo chi è adulto, maturo, può arrivare a tanto. Così abbiamo anche cambiato le nostre idee su come intendere la formula "la fede di Gesù". Certo che Gesù è oggetto di fede ("la fede in Gesù"), ma in partenza è stato lui a vivere la fede nel Padre, a vivere fidandosi. Per questo può essere nostra guida e compagno di strada. Ma dobbiamo avere il coraggio di ripensare le idee che avevamo su di lui, per capirlo.
Angelo Fracchia
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 12
Privi di compassione
Sono ottocento in fondo al mare, lo hanno confermato
i telegiornali. I più poveri di loro sono racchiusi nella
nave della speranza, diventata la loro bara; altri hanno
come sudario il Mediterraneo, finché i loro corpi non
si disferanno senza nome, senza storia, mentre
qualcuno, lontano, continuerà a chiamarli nella notte, e
a piangere le loro brevi vite divorate dal nulla.
Non sono solo ottocento, sono decine di migliaia; il
numero non lo sapremo mai, forse diventeranno
milioni. Un giorno qualcuno celebrerà il loro
olocausto? Il loro essere desaparecidos? Spariti,
inghiottiti, oppure trovati e seppelliti senza nome in un
cimitero straniero: qualcuno li ricorderà in questo
suolo in cui speravano di trovare la pace? La vita?
Ascolto i discorsi della gente, i loro umori: non c’è posto, o quasi, per questa umanità perduta. Ancor
meno c’è posto nel cuore della gente per quelli che hanno la ‘colpa’ di essersi salvati e di aver ora bisogno di tutto.
Sento freddo, tanto freddo intorno a me, quando non
sento odio, disprezzo, o come minimo indifferenza,
seppur qualche volta patinata di un commento
pietistico che dura solo secondi. Dimenticare, perché
non sono nostri. Non vedere, perché sono scomodi.
Non dire. Sì, anch’io spesso non dico, non ne parlo, e così forse
altri come me. Chi li pensa, ha
paura a parlare: paura di
soffrire.
Io ho paura di soffrire perché ho
paura di avvertire le mie parole
suonare in una stanza vuota,
dove nessuno c’è a rispondere, a capire, a piangere con me. Ho
paura di quel “sì, poverini ma…” Quel “ma” che significa tante cose: dal “come facciamo” al “in fondo, chi se ne frega”. Sbaglio, lo so, a tacere: è codar-
dia, ed è anche disperazione. La
mia è la disperazione di
appartenere ad un mondo che
non mi appartiene, e da cui però
non posso neppure uscire,
perché anch’io sono dalla parte di chi né patisce la fame né vive
con l’angoscia che un ordigno o una pallottola metta fine ai suoi
giorni.
Ripensando alle immagini dei
telegiornali, ricordo i corpi vivi
tirati in salvo su una scialuppa
da braccia robuste e sicure, quei
corpi scuri di ragazzi, inzuppati
d’acqua, fragili e nudi, completamente nudi. Loro mi sono sembrati i veri poveri, i veri ultimi, più poveri dei
nostri poveri, più ultimi dei nostri ultimi. Perché anche
loro non dovrebbero essere nostri? Quando c’è un terremoto qui in Italia, tutti si commuovono, tutti
stanno incollati al televisore, tutti mandano aiuti, tutti
sentono quel dolore come il loro. Perché per questi no?
Penso anche a quelle braccia robuste che li hanno
presi, così, senza vestiti, senza nulla, annichiliti dalla
paura, dallo spasimo di vedere la morte in faccia,
attaccati a quell’ultimo guizzo di vita, a un salvagente, a una presenza, ad una nave in lontananza che arriva, e
distrutti per i compagni o parenti che hanno visto
morire.
Chi li raccoglie in mare ha lacrime per loro, si sente
dilaniato dal ricordo delle mani che gli sono scivolate
nell’abisso, magari quelle di un bambino. Chi li raccoglie in mare ha compassione.
Bisogna vederlo dal vivo il dolore? Bisogna esserci a
sentire le grida? Bisogna esserci a vedere che sono
come noi? Forse è questo il problema: la maggior parte
non crede che siano esseri umani uguali a noi, che
come noi hanno una storia, degli affetti, dei desideri,
delle speranze, la paura e, più di noi, il coraggio.
Cosa strana la compassione:
dovrebbe essere universale, per
ogni vita, per ogni essere di
questa terra, e forse anche oltre,
e invece diventa selettiva,
un’ubriacatura di emozioni a compartimenti stagni, e per il
resto nulla. Emerge l’incapacità a immedesimarsi nei diversi per
nazionalità, colore della pelle,
credenze, abitudini. Per questi la
maggioranza è priva di com-
passione.
Poi c’è il timore che i profughi vengano a stravolgere le nostre
sicurezze, che occorra condi-
videre qualcosa con loro, che ci
rubino un po’ del nostro benessere, oggi avvertito sempre
più scarso. Alla compassione
dovrebbe aggiungersi la consa-
pevolezza che non ci può essere
alcuna sicurezza, né felicità, in
un mondo dove solo una piccola
parte dell’umanità ha diritto a sopravvivere.
Nadia Benni
(pubblicato il 10 maggio 2015
su http://diariodinadia.myblog.it/)
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 13
Un “altro mondo” sarà mai davvero possibile? In giro per l’EXPO di Milano, l’incantata vetrina del mercato trionfante
Libera volpe in libero pollaio: questa frase attribuita a
Che Guevara per descrivere il capitalismo, ha delle
origini più lontane e controverse, ma è quanto di
meglio sia mai stato detto per arrivare con
immediatezza al cuore del problema. Solo che le cose
sono cambiate. In peggio. Com’è possibile? Semplice: si trasforma il pollaio in una prigione, si fortifica la
recinzione, rendendola in pratica invalicabile, se non
spesso a costo della vita, si mettono dentro più galline
possibili, e infine si arma la volpe.
Assurde farneticazioni antiliberiste? No. Solo una
fantasiosa ricostruzione per assurdo del mondo in cui
viviamo, o meglio cerchiamo di sopravvivere. La
Grecia insegna. Si fa per dire, perché a quanto sembra,
non stiamo imparando niente. In chiusura del G7
(vertice dei capi di stato dei Paesi occidentali più
sviluppati) il nostro giovane monarca fiorentino, che si
proclama in sintonia con Obama contro l’austerità imposta dalla Germania all’Europa, ha avuto parole durissime per la situazione greca, vittima paradigma-
tica di quella stessa austerità, da supponente alfiere di
una guerra fra poveri, per compiacere i potenti
“alleati”. Che non ci penserebbero un attimo a
riservarci la stessa fine, nonostante le nostre ripetute
prove di fedele asservimento!
In Italia ci lamentiamo a gran voce dell’emergenza sbarchi, quando, proprio in questi giorni, Federico
Fossi, dell’UNCHR (organismo dell’ONU per l’assistenza ai rifugiati), ha dichiarato che si registra sì un incremento, ma che i dati sono sostanzialmente in
linea con l’anno scorso. Se vogliamo parlare di emer-genza, bisogna guardare agli sbarchi sulle coste della
Grecia. Dall’inizio dell’anno, i migranti soccorsi e sbarcati sono stati 42.000, contro i 6.000 dello scorso
anno, nello stesso periodo. Un aumento del 400 per
cento! I migranti stanno arrivando nelle diverse isole,
dove ci sono pochi centri, non attrezzati e inadeguati,
viste le estreme difficoltà economiche in cui versa il
Paese. La Grecia non è degna di aiuto, non lo merita,
non fa piani adeguati di risanamento, ma deve
sobbarcarsi un onere che gli stati che le stanno con il
fiato sul collo, o meglio con il coltello alla gola, si
permettono di rifiutare. No comment.
Nutrire il pianeta. Quale pianeta? Energia per la vita: quale energia e quale vita? Slogan superlativi,
fascinosi, perché - dimenticavo - la volpe cura
attentamente la sua propaganda e ha a disposizione
mezzi economici illimitati. E, infatti, ha anche
cambiato nome: adesso si chiama mercato. Ed è il
mercato che sta celebrando il suo trionfo, con una
vetrina mondiale spettacolare: l’EXPO di Milano.
Molti dicono: non bisogna andarci, va boicottata. Una
scelta, libera e rispettabile, come tutte le scelte, in par-
ticolare fondate su princìpi assolutamente condivisibili.
Ma, in primis, l’avversario va incontrato, conosciuto, studiato; ignorarlo non serve a niente, ed è in vetrina in
casa nostra.
E c’è anche un’altra dimensione, assolutamente
discutibile, ma concreta: quella della magia di alcune
costruzioni, il trovarsi a camminare concretamente per
le vie del mondo, in una cacofonia di lingue, volti,
musiche, colori, abiti, profumi, sapori; quella
dell’entrare in un padiglione e parlare con qualcuno
che di quel Paese racconta, ne spiega le difficoltà,
chiede di conoscerlo meglio e di riconoscerci, in nome
di una comune umanità.
E allora come la mettiamo? La curiosità mai sazia ti
apre questa porta, questa visione secondaria, che
rappresenta solo un filo della grande ragnatela, che
ti/ci circonda, non si vede, ma c’è. Il mercato è
seducente, la seduzione è piacevole e gratificante,
basta non farsi incantare e travolgere, non farsi
impigliare nella tela così sapientemente tessuta.
Quindi eccoci all’EXPO, giovedì 4 giugno. Siamo qui per la presentazione del XXIV Rapporto
Immigrazione redatto da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, dal titolo provocatorio:
Migranti, attori di sviluppo, tema che guarda il
migrante come persona attiva e propositiva, in grado
di dare e contribuire allo sviluppo del Paese. Si
guarda alla mobilità umana come “luogo” di costruzione di solidarietà e fraternità.
Lo spazio incontri è davvero affollato, nel sollievo
dell’aria condizionata che ti salva dai 40 gradi che
imperversano fuori. L’incontro è semplice, sobrio, ben
articolato, a più voci. Alcune altamente autorevoli: il
card. Francesco Montenegro (non solo una bella
coincidenza con il nome scelto dal Papa), neoeletto
Presidente di Caritas Italiana e Mons. Nunzio Galan-
tino, segretario generale della Conferenza Episcopale
Italiana, Mons. Francesco (un altro Francesco …) Soddu, direttore di Caritas Italiana. Nessuna passerella
di politici e notabili. Molti giornalisti e televisioni. Il
gruppo di lavoro, “capitanato” da Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Immigrazione Caritas, ha prodotto un dossier che ha perso la pesantezza
dell’indirizzo prevalentemente statistico, guadagnando in orizzonte più ampio e approfondimento umano, che
non tralascia problematiche e criticità, ma si muove
nella realtà di un contesto storico che individua la
non perdiamoci di vista…
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 14
nostra come l’era delle migrazioni. Pane e dignità,
migrazioni e condivisione:
queste le chiavi di lettura.
Usciamo soddisfatti, orgoglio-
si di essere Caritas, pur con
tutte le contraddizioni, le de-
bolezze, gli errori che non
mancano mai, ma con la
consapevolezza di rappresen-
tare una Chiesa in uscita,
come la vuole il Papa, corag-
giosa e profetica, che abita le
periferie, le considera il luogo
privilegiato dove esercitare e
testimoniare la propria fede.
Fuori il caldo disumano, una
folla immensa, dove, somma
fortuna, imperversano le
scolaresche, di tutte le età e
grado, perché è uno dei loro
giorni di visita. Ci sarebbe un
commento da riferire, indegno
di questa pubblicazione, ma
che ha dato voce alla nostra reazione quando siamo
stati informati di cotale splendida coincidenza … Siamo arrivati di mattina, in macchina. Dalla
superstrada si vedono abbondanti tralicci e strutture in
costruzione. Sistemata la vettura nel parcheggio, ci
avviamo per i duecento metri dall’ingresso. Il lato oscuro del Paese delle Meraviglie si presenta subito.
Tutto il percorso costeggia un cantiere, dove i lavori
più che in corso sembrano appena avviati: transenne,
deviazioni, reti in plastica, e gente che lavora con
38/40 gradi sotto il sole. Arriviamo ai famosi tornelli,
dove già si stanno affollando le code. Ma noi siamo dei
privilegiati; un’operatrice di Caritas Ambrosiana ci sta aspettando e ci fa entrare. Siamo invitati e partecipanti,
non visitatori, che lasciamo alle loro due buone ore di
attesa.
Ed ecco il decumano, un vialone lungo 1 chilometro e
mezzo, sormontato da strutture a vela incrociate che
fanno ombra, ma permettono il passaggio dell’aria. Il colpo d’occhio è notevole.
Corriamo al nostro evento, siamo in ritardo, mentre si
danno rapide occhiate ai lati, intravedendo i padiglioni,
tutti architettonicamente molto belli, alcuni straordi-
nari. E costati di conseguenza. Ma il bello è bello, e su
questo asse si affaccia il meglio di EXPO, ovvero i
Paesi più ricchi.
Per entrare in alcuni “Stati”, si fanno ore di coda. Uno dei più ambiti è quello degli Emirati Arabi, che
dall’esterno sembra davvero un susseguirsi di dune, ed è presidiato da uomini in lunga veste bianca e
copricapo tradizionale, e donne in nero, delle quali si
vede solo il viso, tutte bellissime. Per il padiglione
Italia ci dicono che le ore di coda per l’ingresso sono non meno di tre, in qualunque momento. Il Vaticano
ha una splendida costruzione
bianca, molto semplice, con un
solo vano, ed è dedicato alla
lotta contro la fame nel mondo.
All’interno (lì si entrava senza fatica) solo un lungo tavolo
touch screen, dove, sfiorando la
superficie, appaiono immagini,
storie e frasi. Alle pareti splen-
dide foto e schermi dove si
avvicendano messaggi e foto-
grafie a tema. Il tutto, incentrato
sulla sfida contro la povertà, è
un invito a un percorso di
riflessione, che richiede tempo e
partecipazione.
Poi c’è il Padiglione Zero, che propone il racconto della storia
dell’uomo, la sua evoluzione, le trasformazioni del paesaggio e
dell’ambiente, le contraddizioni antiche e attuali che accompa-
gnano la presenza degli esseri
umani sul nostro pianeta.
Un’opera dedicata alla memoria dell’umanità, davvero affascinante ed emozionante.
Siamo arrivati all’Albero della Vita, in tempo per lo spettacolo pomeridiano, di musica, zampilli, fiori di
tutti i colori che escono e poi si ritirano negli anfratti
della costruzione, bolle di sapone che si spargono
come soffi iridescenti. Affascinante; dicono che con il
gioco di luci di sera sia magia pura. Per un momento si
dimentica quanto è costato, quanto poco resisterà dato
il materiale di cui è composto, che fine farà.
Come tutto quello che ci circonda. Si parla di un costo
finale che potrebbe arrivare a 14 miliardi di euro!
Poi ci sono gli scandali, le mazzette, la corruzione, gli
appalti truccati, i ritardi pagati dal lavoro massacrante
di maestranze geniali, generose e responsabili. Come
non lo sono stati e forse non lo sono i loro “padroni”, vecchi e nuovi.
Alla fine, provati dal caldo, dalla stanchezza, dalla
confusione, dalla massa incessante di visitatori in cui ti
imbatti ad ogni passo, ci siamo ritrovati con la
sensazione di uscire da un immenso parco giochi, da
una fiera, da una vetrina scintillante e magica, da un paese dei balocchi, con cui la volpe/mercato ci ha
incantati. Ma non ci ha catturato. Siamo ben svegli e
vigili. I trucchi, come le bugie, hanno le gambe corte, e
ormai li conosciamo e li riconosciamo, pur
ammettendone la maestria.
I poveri sono il convitato di pietra in questa
performance mondiale di onnipotenza, potere e
ricchezza, che li ha usati come “testimonial” per uno slogan. Nient’altro che uno slogan..
Claudia Filippi
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 15
cercatori/viaggiatori
MICHAEL POLLAN, In difesa del cibo, Milano, Adelphi, 2009, p. 238, 20 euro
«Siamo quel che mangiamo». Mai come oggi siamo
tutti convinti del legame indissolubile tra la nostra
alimentazione e la nostra salute. Forse proprio a causa
dell’importanza straordinaria che attribuiamo al cibo
sembriamo incapaci di rispondere da soli alla domanda
conseguente: «Allora cosa e quanto bisogna mangiare
per rimanere in buona salute?». La natura complica le
cose, perché noi esseri umani, in quanto onnivori,
possiamo mangiare praticamente tutto, e a questo
aggiungiamo anche le infinite possibilità che ci offre il
nostro mondo globalizzato! Ma sempre meno ci
accontentiamo di quella specie di “bussola culturale”, o più semplicemente del buon senso materno, che un
tempo orientava le nostre scelte alimentari. Oggi per
sederci a tavola abbiamo bisogno del parere di un
medico, del nutrizionista, seguiamo gli approfondi-
menti dell’ultimo articolo letto sul giornale, andiamo a consultare le linee guida dell’OMS, o a guardare con
ansia in tv l’ultima inchiesta a tema. Senza retorica sappiamo che quelle che erano le colonne portanti
dell’alimentazione dei nostri nonni sono state messe in crisi dalle scelte dei nostri genitori, che a loro volta
sono diventate gli spauracchi della nostra generazione.
Pensate ad esempio al grasso d’oca. Per una genera-
zione, priva di frigorifero, era un formidabile conser-
vante, per quella del boom economico un opulento
condimento, e per noi è semplicemente un “grasso saturo di origine animale” da evitare come la peste (o
comunque da centellinare!). Le abitudini alimentari
cambiano con velocità, e anche più volte nell’arco di una generazione. Inevitabilmente, prima o poi tutte le
nostre certezze sul legame tra alimentazione e salute
vengono spazzate via da qualche studio più recente.
Qualche esempio? L’ortodossia nutrizionale universal-mente accettata sui danni dei grassi non ha trovato
alcuna conferma nella vasta inchiesta finanziata dal
governo americano (Women’s Health Initiative) sul
fatto che una dieta povera di grassi protegga dal cancro
o diminuisca il rischio di malattie cardiovascolari. Nel
2005 abbiamo appreso che, al contrario di quanto ci è
stato assicurato per anni, una dieta ricca di fibre non
contribuisce a prevenire il tumore al colon o in
generale malattie cardiache. Così come nel 2006 due
studi molto prestigiosi sugli omega-3 sono giunti a
conclusioni diametralmente opposte. Nello stesso
periodo l’Institute of Medicine della National
Accademy of Science non trovava riscontro di effetti
benefici per il cuore da una dieta a base di pesce (che
in compenso danneggerebbe il cervello per gli elevati
livelli di mercurio contenuti in molti prodotti ittici),
mentre un lavoro di Harvard sottolineava ottimi-
sticamente come siano sufficienti due porzioni di pesce
a settimana per ridurre di un terzo il rischio d’infarto.
Insomma, telespettatori, consumatori esperti, lettori di
rubriche scientifiche o semplici clienti del
supermercato, è impossibile non avvertire una sorta di
«dissonanza cognitiva» in materia di nutrizione. Sul
cibo soffiano venti di tempesta, minacciosi e
discordanti: ultime scoperte della scienza amplificate
dal marketing furbetto dell’industria industriale e da “divulgatori” troppo spesso molto superficiali e poco scientifici. E il fatto che gli esseri umani decidano cosa
mangiare senza l’assistenza di esperti – e l’autore sottolinea che è quel che abbiamo fatto con notevole
successo da quando siamo scesi dagli alberi – sembra
addirittura un abominio.
Siamo confusi. Anche se il dibattito sul cibo è vivace e
molto presente nelle nostre vite - dall’agricoltura a km
0, al rifiorire delle cucine regionali, ai mercatini
biologici, dalle mobilitazioni per la messa al bando dei
cibi spazzatura nelle scuole e negli ospedali, ai
movimenti di riforma delle politiche agricole,
all’Expo, come negli ultimi servizi di Report - siamo
talmente concentrati sul legame «cibo = salute» da
rischiare di dimenticarci il piacere del cibo.
Michael Pollan, con il suo saggio, si inserisce proprio
su questa contraddizione. Naturalmente viene da chie-
dersi cosa può insegnarci a riguardo un americano,
quando sono stati proprio gli Stati Uniti a inventare il
fast food e a sdoganare nel mondo l’agricoltura intensiva e il cibo industriale? Invece penso che,
avendo toccato con mano le conseguenze disastrose
per la salute pubblica della cosiddetta «alimentazione
occidentale moderna», per assurdo in una nazione di
ortoressici (termine coniato nel 1996 dal medico
Steven Bratman per indicare una attenzione eccessiva
alle regole alimentari e alla scelta del cibo), il libro di
Pollan sia un monito importante per mettere in guardia
la nostra cara Vecchia Europa dalle trappole di un
«nutrizionismo» eccessivo. Difendere il cibo vuol dire
liberarlo da integralismi, dai meccanismi pubblicitari,
o da una scienza che lo scompone nelle funzioni dei
suoi nutrienti perdendo di vista l’alimento in sé. Riportato al centro della tavola, protagonista di una
vita ben vissuta, il cibo non ha bisogno di indicazioni
complesse, verità e dimostrazioni. «Mangiate cibo
vero. Con moderazione. Soprattutto, mangiate
vegetali». Ecco cosa dobbiamo mangiare secondo
questa brillante voce fuori dal coro. Poi comincia il
libro, e avrete davanti 230 pagine per fare in modo che
nutrirsi sia una scelta semplice, naturale e divertente.
Tutti gli studi scientifici citati nel testo sono indicati
nella nutrita bibliografia del libro e consultabili sul sito
internet dell’autore www.michaelpollan.com
Beatrice Di Tullio
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 16
Appunti sulla vita ed il pensiero di
Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) (2) Nel precedente numero del
Granello non sono riuscito ad
andare molto al di là di una
presentazione generale
dell’ambiente nel quale Dietrich Bonhoeffer si è formato e ha
compiuto i primi passi di teologo e
di pastore della Chiesa evangelica
tedesca, fino ai primi anni di Hitler
e alla lotta, all’interno della Chiesa, tra quanti appoggiavano il
nazismo e quanti lo osteggiavano,
riuniti nella Chiesa confessante
(dichiarazione di Barmen, maggio
1934). Intanto, nere nubi di guerra
si addensano sull’Europa e sul
mondo, mentre la Germania
sprofonda in quella che ormai tutti
chiamiamo una follia collettiva
(ma non sarà che follie collettive,
sia pure di tipo diverso, ci siano
molto vicine?). E’ qui che comincia la parte più drammatica
della vita di Bonhoeffer. E’ possibile che un tranquillo teologo
(per giunta un nonviolento) sia alle
dipendenze del controspionaggio
tedesco (e quindi in teoria di
Hitler) mentre al tempo stesso fa
parte del complotto per
assassinare Hitler (del quale tra
l’altro il controspionaggio era il
maggior centro)?
Una vita complicata, come si vede,
una vita continuamente sul filo del
rasoio. Ma in realtà Bonhoeffer
non era un tranquillo teologo: era
soprattutto un mistico e un uomo
d’azione, un leader nato che saprà conservare il suo sangue freddo
nel carcere e davanti al patibolo.
Non per nulla i suoi scritti dal
carcere sono l’espressione di un uomo in piedi, capace di “stare davanti a Dio” in “un mondo senza Dio”, assumendosi il
terribile, esaltante peso della
libertà.
Chi resiste?
Non a caso uno dei testi più significativi contenuti in
Resistenza e resa (l’opera che racchiude la maggior parte degli scritti dell’ultimo periodo) si apre con la domanda “Chi resiste?”. Si tratta infatti anzitutto di resistere, di rimanere saldi non solo di fronte alle
minacce mortali di un totalitarismo scatenato, ma
anche di fronte alle contraddizioni implicite nella
stessa resistenza. Bonhoffer, l’uomo di Dio, l’uomo la cui vocazione è la ricerca della verità e della pace, si
sentirà ad un certo punto in dovere di assumersi il peso
della colpa, di entrare nel complotto per assassinare
Hitler, perché giungerà alla lucida convinzione che
non fare nulla sarebbe assumersi una colpa ancora
maggiore (è suo l’esempio dell’autista ubriaco che investe i passanti: chiunque ha dovere di fermarlo,
anche a costo di ucciderlo). In realtà Bonhoffer è da
sempre un oppositore di Hitler per ragioni di cultura
familiare, estetica e politica: una famiglia dell’alta borghesia, di tendenza conservatrice illuminata, raffi-
nata nel comportamento, all’estremo opposto rispetto al “plebeo” Hitler; ma il passaggio ad una posizione di
opposizione attiva - per quanto essenzialmente politica
nel suo modus operandi - è spinto soprattutto da
ragioni religiose. La colpa fondamentale di Hitler non
è tanto questa o quella decisione politica più o meno
detestabile, ma il suo porsi come il Moloch, l’idolo che pretende la lealtà incondizionata che si deve solo a
Dio: in una parola, come l’Anticristo. Il nazismo fin dall’inizio cerca di fare della Chiesa luterana (e anche di quella cattolica) un sostegno del suo potere
sostanzialmente anticristiano. Questo noi oggi lo
vediamo molto chiaramente, ma allora molti cristiani
tedeschi, anche per il carattere particolare della loro
storia (stretto rapporto tra stato e chiesa, educazione
impostata nel senso dell’obbedienza all’autorità, militarismo, ecc.) pensavano che Hitler si sarebbe
potuto “addomesticare”: intanto comunque costituiva
un argine contro un pericolo ancora maggiore, quello
del bolscevismo (un errore analogo a quello di molti
cattolici e liberali italiani nei confronti del fascismo).
Hitler non si pone come formalmente anticristiano, è
abile nel servirsi dei simboli cristiani e del linguaggio
cristiano ai propri fini (mentre Himmler, Borman e
Rosemberg sono decisamente anticristiani e auspicano
un neopaganesimo basato sul culto dello stesso Hitler,
incarnazione dello spirito del Volk tedesco, unità
organica che trova la sua rappresentanza nel Führer).
Tutto ciò rende possibile la germanizzazione del
cristianesimo con i “cristiano-tedeschi”. In questa germanizzazione rientra anche l’antisemitismo, che del nazismo rappresenta un elemento essenziale, fino al
paradosso di affermare che Cristo non poteva essere
ebreo e alla liquidazione del Vecchio Testamento in
quanto ebraico. Per molti tedeschi “la loro identità nazionale era talmente mescolata con la loro fede
cristiana luterana che era impossibile distinguere con
chiarezza l’una dall’altra” (Metaxas, p. 222). Alla fine, i cristiano-tedeschi, nonostante i loro successi sul
piano istituzionale dovuti al sostegno dello stato,
finiscono per essere disprezzati da entrambe le parti: i
veri cristiani li accusano di eresia e fondano la Chiesa
confessante, mentre i veri nazisti li ritengono degli utili
Grandi esperienze spirituali (4)
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 17
idioti da usare e basta. E’ interessante comunque vedere come gli stessi esponenti di punta della Chiesa
confessante, persino lo stesso pastore Niemöller che ne
è l’esponente più in vista (a differenza di Bonhoeffer
che ben presto pone l’alternativa secca: o nazional-socialisti, o cristiani) ci mettano molto a capire la
situazione e s’illudano di poter dialogare con Hitler, cui chiedono di mettere in riga gli scalmanati tra i suoi
seguaci e di proteggere la Chiesa.
I dilemmi della congiura contro Hitler
e le tappe della catastrofe
Dove il male si rivela nella sua forma estrema, anche il
bene è “costretto” a venir fuori nella sua forma estrema e veramente eroica. Non sono più possibili le mezze
misure: o si piega la testa, magari dopo averla immersa
nella sabbia per non vedere cose che è inquietante e
pericoloso vedere (come sembra avere fatto la maggio-
ranza dei tedeschi), oppure si prende nettamente posi-
zione, il che significa spesso pagare con la vita. Nella
congiura contro Hitler colpisce la compattezza del
gruppo molto numeroso dei congiurati, che riescono
per anni a tirare avanti e anche a compiere vari
attentati (falliti) senza che la Gestapo si accorga di
nulla. Questo si spiega con l’omogeneità e la serietà professionale dei congiurati, tutti imbevuti di spirito
militare, in sostanza aristocratici conservatori con un
forte senso del dovere che non poteva andare d’accor-do con le azioni criminali di Hitler. Ma in questa qua-
dratura morale c’era anche un elemento di debolezza: i militari si sentivano tra l’incudine e il martello, tra il loro giuramento di obbedienza e la convinzione che
Hitler stesse portando il paese alla rovina. Hitler
andava tolto di mezzo subito, ma all’inizio nei suoi
oppositori c’era troppa esitazione, mentre in seguito, grazie ai suoi fortunati colpi di mano (uscita dalla lega
delle nazioni, occupazione della Renania e annessione
dell’Austria) l’ascesa della sua popolarità diventa inar-restabile. A questo punto è troppo tardi per un’opera-
zione semplice e indolore, ma d’altra parte sempre troppo presto per un’operazione che si configura come non solo rischiosa, ma anche assai complessa (non si
trattava solo di eliminare fisicamente Hitler, ma anche
di preparare un vero colpo di stato con un governo
alternativo già pronto, in grado di trattare con gli
Alleati, i quali d’altra parte erano poco interessati a so-
stenere i congiurati). Il perfezionismo tedesco in que-
sto senso non aiutava, c’era sempre qualche intoppo e
si rimandava sempre, finché alla fine Stauffenberg (lu-
glio 1944) si decise ad un’azione “dimostrativa”, che solo per un capello non andò a buon fine. In Bonhoef-
fer la fede è un elemento determinante della sua scelta
“contro”, ma anche un elemento di freno ad una scelta
di azione violenta. Ma questo è il caso estremo (come
nell’esempio sopra citato dell’ubriaco che travolge passanti con l’auto): non c’è modo di aggirare il dilemma, bisogna prendere su di sé la responsabilità di
una scelta radicale, davanti a Dio, senza appoggi .
Nel 1938, la prepotenza di Hitler che minaccia di
invadere la Cecoslovacchia, di fronte all’atteggiamento dei tedeschi che non sono per nulla entusiasti di entrare
in guerra per i Sudeti, offre ai congiurati un’occasione unica; ma a Monaco Chamberlain salva Hitler
all’ultimo minuto, sia pure con buone intenzioni, nel momento che sarebbe stato più propizio per toglierlo
di mezzo (i generali erano già pronti). Intanto, i nazisti
riprendono quota, e naturalmente i patti di Monaco per
loro sono cartastraccia. Poco dopo, nel novembre
1938, l’uccisione del funzionario d’ambasciata a Parigi von Rath, da parte di un ebreo tedesco, scatena la
“notte dei cristalli” (una serie di pogrom contro gli
ebrei tedeschi). L’anno seguente Bonhoeffer, di fronte
alla minaccia dell’arruolamento (egli pensa di non potere entrare nell’esercito per motivi di coscienza), chiede ed ottiene un incarico di ricerca ed insegna-
mento presso un’università americana; ma dopo poche settimane ritorna in Germania. Forse è questo il
passaggio più decisivo della sua vita. Egli s’interroga sulla volontà di Dio: sente di avere sbagliato, sente che
Dio lo chiama a servirlo in patria.
Nel settembre 1939 comincia la guerra di Polonia con
relative stragi di civili e costruzione di un grande
campo di lavoro per schiavi. Inoltre, in Germania,
inizia il programma di eutanasia per handicappati,
malati mentali, ecc. I generali cominciano a rendersi
conto che non si tratta per nulla di una guerra
“normale”.
Una vita complicata
E’ in questo periodo che Bonhoeffer passa il Rubicone,
passa dalla resistenza morale alla resistenza vera e
propria, comincia a comportarsi come un cospiratore.
Dopo la vittoria clamorosa contro la Francia (maggio-
giugno 1940), la popolarità di Hitler è alle stelle, i
cospiratori sono sempre sfasati rispetto ai tempi. Si
comincia a capire che Hitler sta “distruggendo la Germania mediante il successo”. Bonhoeffer pratica
l’ambiguità, finge di allinearsi; a Tegel scriverà su “cosa significa dire la verità” facendo l’esempio del bambino, che difende il padre sostenendo che non è un
ubriacone, pur sapendo che in realtà lo è (differenza tra
la correttezza formale del cinico e quella sostanziale di
chi ama e vuole difendere). Nell’estate entra nell’Abwehr, il servizio segreto militare dell’ammi-raglio Canaris che sarà al centro di tutte le congiure
contro Hitler (particolarmente importante il ruolo del
cognato di Bonhoeffer, von Dohnanyi, il quale in
questi anni sta preparando un dossier che documenta i
misfatti dei nazisti; un dossier che porterà, una volta
scoperto, all’eliminazione di parecchi dei congiurati). Ottiene il trasferimento a Monaco (dove soggiorna e
studia presso il convento benedettino di Ettal), e spesso
è all’estero con la copertura del servizio segreto. Una
situazione complicata: è un pastore notoriamente
“disobbediente”, sorvegliato speciale della Gestapo, cui come tale è proibito di scrivere e di parlare in
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 18
pubblico, al tempo stesso è un agente dei servizi
segreti tedeschi (ufficialmente al servizio di Hitler
mentre in realtà stanno complottando per eliminarlo)
che come tale può andare in giro anche all’estero (e avere importanti contatti anche a livello politico, ad es.
con il vescovo inglese Bell che ha accesso a Churchill
ed Eden), e per finire in realtà continua a fare lo
studioso e lo scrittore, a fare il pastore e a interessarsi
di cura delle anime. Una situazione complicata per lui,
ma anche per chi la vedeva dall’esterno (e si chiedeva perché non fosse partito per il fronte), per i conoscenti
(ad esempio per Karl Barth) che
potevano sospettare che si fosse
realmente allineato, a parte la
cerchia degli intimi che
sapevano del suo lavoro per la
Resistenza.
Nel 1941 Hitler attacca l’URSS (opera zione Barbarossa): altre
tappe della disumanizzazione
della guerra che incontra la
disapprovazione di molti
generali (anche se il “lavoro sporco”, i massacri di civili ebrei ed ucraini, era quasi
sempre riservato alle SS).
Intanto si organizza un altro
centro della resistenza, il circolo
di Kreisau, attorno a von
Moltke, che però non mira
all’eliminazione immediata di Hitler ma al dopo-Hitler (ma da
questo circolo uscirà Stauffen-
berg, l’attentatore del 20 luglio 1944).
C’è qualcosa di ironico nel fatto che l’unico centro di opposizione fattiva a Hitler fosse l’esercito: ma è del tutto logico. Hitler non poteva fare a meno
dell’autorità e della competenza di chi dirigeva e manteneva in movimento la macchina dell’esercito, non poteva certo sostituire tutti i generali con SS
(nonostante che ad un certo punto assumesse
personalmente il comando supremo dell’esercito). Gennaio 1943, conferenza di Wannsee (soluzione
finale del problema ebraico). Bonhoeffer è a Ginevra e
poi in Svezia dove parla con il vescovo Bell (ma
Churchill e Eden non sono interessati a trattare con la
resistenza). Inizia la delicata storia d’amore con Maria Wedemeyer, favorita dalla nonna di questa (si vedano
in Metaxas le lettere a p. 516-17).
Il carcere e gli ultimi scritti:
non ridurre la trascendenza all’uomo, ma rivelare la trascendenza nell’uomo
Il 5 aprile 1943 Bonhoeffer è arrestato per un traffico
di valuta sospetto (relativo alla sua azione a favore di
alcuni ebrei). Prigioniero relativamente privilegiato
dopo che si scoprono le sue alte relazioni, e inoltre con
buone speranze di uscire presto (le accuse non erano
molto gravi, inoltre si spera che Hitler venga tolto di
mezzo; invece succede l’opposto: l’attentato del 20 luglio 1944 porterà alla luce il complotto, dopo di che
la sua sorte è segnata). Sarà impiccato nel campo di
Flossemburg il 9 aprile 1945, poche settimane prima
della fine della guerra, probabilmente per ordine
diretto di Hitler. Nei due anni di detenzione è molto
attivo, studia e scrive continuamente, corrisponde con i
familiari e specie con Bethge, l’intimo amico che sarà
anche il suo biografo. Aiuta i più deboli tra i suoi
compagni di prigionia, ma
rifiuta ogni forma di auto-
commiserazione.
In quella che rimane a mio
modo di vedere la migliore
introduzione alla sua opera più
celebre, che raccoglie gli scritti
del carcere (Resistenza e resa,
Bompiani 1969), Italo Mancini
divide il suo pensiero in tre
periodi. In un primo periodo
Bonhoeffer si rivolge al mondo
accademico, ai teologi, e dice
loro: il vostro tema è la Chiesa.
In un secondo periodo, il
periodo della lotta per la
Chiesa, si rivolge alla Chiesa e
le dice: il tuo tema deve essere
il mondo. In un terzo periodo, il
periodo della resistenza e del
carcere, si rivolge al mondo
“adulto” della modernità e gli dice: la presenza di Dio in te
non è più metafisica o religiosa,
ma l’ “essere in Cristo”, cioè la libertà da se stessi (anche dall’ossessione della propria personale salvezza, perfezione o santità) e l’ “esistere per gli
altri”. Fare i conti con la modernità non significa affatto per
Bonhoeffer cercare di adattare il messaggio cristiano,
l’evangelo, al mondo moderno, allo spirito del tempo, come in sostanza tendeva a fare la teologia liberale;
qui Barth ha ragione: bisogna conservare lo scandalo,
la diversità della parola di Dio, altrimenti tanto vale
buttare via tutto. Non bisogna però neppure cedere alla
tentazione regressiva, del ritorno ai più sicuri orizzonti
del Medioevo, quando tutto portava il segno del
cristianesimo, almeno in apparenza. Non si può tornare
indietro rispetto alla modernità, rispetto a Machiavelli,
Galileo e Cartesio, alle acquisizioni della critica storica
e filologica. Bisogna ammettere e valorizzare la
“maggiore età” dell’uomo moderno, il suo prendere in mano la propria vita, senza ridursi ad una apologetica
religiosa che vada in cerca dei vuoti, dei punti di
debolezza psicologici e conoscitivi per reintrodurre più
o meno subdolamente Dio nel mondo moderno.
Un’apologetica religiosa timida che del resto fa il paio con una lunga tradizione di svalutazione della
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 19
dimensione terrena e mondana (la “valle di lacrime”, la vita come “passaggio”) e, a valle, di conseguenza, con un orientamento ascetico volto a sottolineare i pericoli
dell’attaccamento ai beni del mondo (perché più ci si attacca più si soffre, quindi al limite l’unica situazione veramente coerente allo spirito del cristianesimo è lo
“stato di perfezione” monastico, la fuga dal mondo, il chiamarsi fuori dal flusso della vita e della storia).
Certo, compromettersi a fondo nella vita e nella storia
significa esporsi ad un “di più” di sofferenza (come
anche di gioia) ma può darsi che sia proprio questo ciò
che Dio chiede a noi, a ciascuno secondo la sua
“vocazione” nella vita. Nel momento in cui si colloca l’evangelo all’esterno del mondo storico (l’altro mondo, gli ultimi tempi) e non nel cuore della vita, se Dio è solo dove l’uomo non è (negli spazi della nostra debolezza ed ignoranza)
è logico che Dio finisca per diventare un Deus ex
machina, un “tappabuchi”, che con il progredire della modernità, con l’estendersi del sapere e del potere
dell’uomo, si sposta sempre più in là. Certo, il limite rimane, è inutile che l’uomo si illuda d’essere un dio, questo anzi è il suo peccato maggiore (la tentazione del
serpente), occorre ricordarselo continuamente: ma se si
rimane a questo, il mistero non è che un punto
interrogativo sullo sfondo. Che l’uomo sia limitato è evidente, ma sottolineare la sua impotenza significa
volerlo ad ogni modo ricacciare nella minorità, nella
sua dipendenza dall’autorità politica e religiosa, impedirgli di assumersi le sue responsabilità, di
diventare adulto. A forza di ripetere ad un bambino
che è troppo debole ed insicuro per camminare da solo,
quello non imparerà mai a camminare, anche se di per
sé ne avrebbe tutte le possibilità. Qui Bonhoeffer
pensa non solo all’apologetica religiosa che sottolinea la corruzione e la peccaminosità della natura umana
ma ancor più alla psicanalisi e alle filosofie
esistenzialistiche, che vogliono ad ogni costo
convincere l’uomo di essere infelice, malato e disperato. Gesù ha guarito molti peccatori, ma “non ha fatto in precedenza d’ogni uomo un peccatore”; non ha mai denigrato la salute, la forza e la felicità, anche se
ha visto nella “povertà” una cifra privilegiata della presenza del divino.
Parlare della modernità significa parlare dell’uomo adulto, dell’uomo che secondo la celebre formula di Kant nel suo Che cos’è l’illuminismo, è “ uscito da una minorità a lui stesso dovuta”. Lo stesso Kant, nelle ultime pagine della Critica della ragion pratica,
sostiene che se noi vedessimo Dio nella sua maestà
come vediamo le cose sensibili, non potremmo essere
liberi, ma saremmo dominati dalla paura e dalla
speranza. Dio si ritira dal mondo - sostiene Kant -
proprio per concedere spazio alla libertà dell’uomo. E, potremmo aggiungere con Bonhoeffer, la modernità
non è che la realizzazione, il portare alle ultime
conseguenze questo ritirarsi di Dio dalla scena. Ma il
suo sparire all’orizzonte è secondo lui tutt’uno con il suo ricomparire proprio al centro della scena, seppure
in forma invisibile: nel cuore dell’uomo che si confronta con le drammatiche scelte che la vita e la
storia gli impongono, dell’uomo che assume il peso della libertà, e lo assume non solo davanti alla propria
coscienza soggettiva facilmente manipolabile, ma
davanti a Dio stesso quale ci si rivela nella storia letta
alla luce della sua Parola. Come afferma Bonhoeffer in
Resistenza e resa (trad. it. cit., p. 265): “La conquista della maggiore età ci porta dunque ad un vero
riconoscimento della nostra situazione davanti a Dio.
Dio ci fa sapere che noi dobbiamo vivere come uomini
che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi è il
Dio che ci abbandona (Mc. 15,34!). Il Dio che ci fa
vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo in ogni momento. Con e al
cospetto di Dio noi viviamo senza Dio. Dio si lascia
scacciare dal mondo, sulla croce, Dio è impotente e
debole nel mondo, e così, e soltanto così, rimane con
noi e ci aiuta. Mt. 8, 17 è chiarissimo: Dio non aiuta in
virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua
debolezza, della sua sofferenza!
Qui sta la differenza determinante rispetto a qualsiasi
altra religione. Il senso religioso dell’uomo lo indirizza, nel bisogno, alla potenza di Dio nel mondo,
Dio è il deus ex machina. La Bibbia indirizza gli
uomini all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio che soffre può venire in aiuto. Solo in questo
senso si può dire che l’accennata evoluzione del mondo verso la maggiore età sgombra il terreno da una
falsa visione di Dio e apre la via verso il Dio della
Bibbia, che acquista potenza e spazio nel mondo per
mezzo della sua impotenza”. E poco oltre (p. 266): “Non potreste vegliare un’ora con me?” chiede Gesù al Getsemani. E’ il capovolgimento di tutto quello che l’uomo religioso si attende da Dio. L’uomo viene chiamato a partecipare alle sofferenze di Dio per il mondo senza Dio. (…) Essere cristiano non significa essere religioso in un
determinato modo, fare di se stesso qualcosa (un
peccatore, un penitente, un santo) in base ad una
determinata pratica religiosa, ma significa essere
uomo; Cristo non crea in noi un tipo d’uomo, ma l’uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma la partecipazione al dolore di Dio nella vita mondana.
La metanoia è questa: non pensare come prima cosa
alle proprie miserie, ai propri peccati, problemi,
angosce, ma lasciarsi trascinare sul cammino di Gesù
Cristo nell’evento messianico”. Una posizione paradossale, quella di Bonhoeffer, che
forse racchiude l’interpretazione autentica del motto più difficile e paradossale di Lutero: pecca fortiter, sed
crede fortius. Che, alla luce di quanto detto, si
potrebbe tradurre: accetta di essere imperfetto e
peccatore, ma rimani saldamente ancorato a quel
raggio di luce che senti venire non dal chiuso della tua
coscienza, ma da fuori e dall’alto, cioè dagli eventi della storia e dalla parola di Dio.
Alberto Bosi
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 20
[graffito sul Muro di Berlino]
Un libro di filosofia che morde il reale
Finalmente un libro di filosofia che morde il reale.
Finalmente un linguaggio filosofico che inchioda in
una splendida metafora quella politica da noi così
popolare, così ammirata da molti, e che ne svela le
patologiche conseguenze sul piano sociale e
democratico.
Il libro è Accelerazione e alienazione (edito da
Einaudi nel 2015, pagine X,126).
L’autore è un sociologo e filosofo tedesco, Hartmut
Rosa, che insegna sociologia e scienze politiche
all'Università Friedrich Schiller di Jena e ricopre molti
incarichi nel mondo accademico tedesco.
La splendente e tagliente metafora è stasi frenetica.
Di certo questo modo di fare politica appellandosi alla
fretta perché la crisi lo esige non è stata inventata dal
nostro Renzi, ed il libro molto seriamente ha uno
sguardo storico su tutti i processi di accelerazione che
segnano l’età moderna ed il loro precipitare nelle alienazioni della contemporaneità.
Ciò che è messo in luce con un’autorevole padronanza d’analisi di cause e conseguenze è quell’insistente abbreviare i tempi decisionali che comporta il far
cadere tutta la logica che presiede ai processi
autenticamente democratici.
Ed è proprio nell’aspetto diagnostico delle patologie che questa insistenza innesca che vedo una fotografia
puntuale della situazione paradossale che viviamo: un
governo della fretta che fa stagnare il senso di
cittadinanza e la vita dei singoli nell’impotenza mettendo tra parentesi pratiche e pensiero democratici.
L’autore è sottile nell’indagare sia tutte quelle
esperienze che possono guardarsi all’interno del fenomeno della “contrazione del presente” e
caratterizzate dalla velocizzazione della perdita di
validità – le scienze, le tecnologie, alcuni saperi
professionali… - sia l’accelerazione dei ritmi di vita.
Ed è particolarmente critico ed acuto nell’individuare in questo sistema – accelerazione tecnica, della società
e dei tempi di vita – le contraddizioni e lo scontrarsi
con ciò che ci si illude sia manipolabile e non lo è.
Interessante l’analisi di quei fenomeni di decelerazione
involontaria che il diktat della fretta innesca, ma che
non sono azioni consapevoli ed intenzionali:
potremmo dire gli sberleffi alla dittatura della velocità
che avvengono “nonostante…” anzi dentro la vorticosità ed in nome di essa (es.: il bloccarsi del
traffico per eccesso di veicoli, il bloccarsi della vita
lavorativa per eccesso di lavoro…). La parte per me più interessante è proprio l’analisi delle patologie sociali consequenziali a questa sorta di
regime autoritario senza autorità.
In altre opere l’autore prende una chiara posizione per restituire ai cittadini valore alle proprie esistenze e alle
società la dignità di poter ritessere interazioni
progettuali dove si superi l’alienante stasi dell’essere dentro una macchina sempre uguale a se stessa -
consumare – produrre – consumare - nonostante la
vorticosità degli epifenomeni.
Egli parla apertamente di un processo di ri-politicizza-
zione democratica che preveda di nuovo qualcosa che
assomigli alla progettazione durevole e partecipata.
E ciò non può avvenire se soggiaciamo acriticamente
in questa “stasi frenetica” dove la politica ha capitolato in nome delle logiche sistemiche di un ipercapitalismo
finanziario globalizzato.
Eva
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 21
Convegno regionale sulla casa organizzato a Cuneo il 20 giugno dallo Sportello casa
No all'emergenza casa, sì al diritto all'abitare. No all'assistenzialismo pubblico e privato, sì al protagonismo dei cittadini. Sono queste le linee guida generali
del Convegno regionale sulla Casa
promosso dallo Sportello casa del
Centro sociale di Cuneo che si
terrà il 20 giugno, a partire dalle
15,00 in via Saluzzo 28.
Il Convegno giunge alla fine di un
anno di attività assai intensa dello
Sportello, incentrata sulla vicenda
del tentativo (sconfitto) da parte
del governo di vendere all'asta le case popolari e su
altri temi caldi per la casa, come la morosità
incolpevole, gli sfratti per finita locazione e, non
ultima, la vicenda del tentativo di negare agli
assegnatari delle case popolari le detrazioni fiscali cui
hanno diritto.
Il tutto inserito nella dimensione nazionale e regionale
di quella che dai media viene chiamata "emergenza
casa": sfratti, altissimo numero di aventi diritto a case
popolari che poi non si costruiscono, affitti che - con le
bollette - arrivano a superare il 50% degli introiti delle
famiglie, i molti costretti a ricorrere ai contributi per
l'affitto e alle assistenti sociali, le tante case occupate e
i problemi connessi.
Una situazione che colpisce dura-
mente quel 25% degli italiani che
la casa in proprietà non ce l'ha e,
secondo i dati, nemmeno la
possibilità di comperarla.
Anche se in provincia di Cuneo
la crisi ha colpito meno duro che
in altre parti del Piemonte e
anche se la triangolazione
Comuni - Fondazioni - Caritas
riesce per il momento a
tamponare gli sfratti, pur
numerosi, il problema casa c'è
tutto. Lo testimonia in sintesi il
fatto che 5 dei 36 comuni
piemontesi ad alta tensione
abitativa siano in provincia di
Cuneo: Alba, Bra, Cuneo,
Racconigi, Savigliano.
Abbiamo dunque organizzato
questo Convegno per fare rete, a
cominciare dalle realtà che ci
sono più vicine, e per definire
delle posizioni comuni sulla casa
a livello regionale (ad oggi il
settore casa è di pertinenza
regionale).
Forse ancor più per fare entrare
nel dibattito pubblico due
convinzioni che la nostra
esperienza, di sportello e di lotta,
ci ha confermato:
non ha senso continuare a
parlare, anche perchè ormai lo si
fa da anni, di "emergenza casa".
Ci troviamo invece di fronte ad
una crisi strutturale del settore,
legata al fallimento delle politiche
che il neoliberismo ha imposto
anche in questo campo ormai da
decenni: la spinta, se non quasi "l'obbligo" alla casa di
proprietà (che del resto ben si concilia con la
propensione italiana al mattone) e il dismettere
qualsiasi politica pubblica per la casa;
abitare in maniera dignitosa è un diritto, e non
una concessione legata all'assistenza pubblica e priva-
ta, e dunque va difeso e conquistato dal protagonismo
attivo dei cittadini e delle loro associazioni.
Parteciperanno al convegno Massimo Pasquini,
segretario nazionale Unione Inquilini, gli Sportelli casa
e sociali di Cuneo, Saluzzo, Mondovì, Alba (Officine
di Resistenza), Verzuolo, Alessandria, Asti e Torino.
Al termine dei lavori è previsto un apericena di auto-
finanziamento, sempre nei locali
di via Saluzzo 28.
Mi piacerebbe aggiungere qual-
che notizia per quanto riguarda
il Centro sociale in generale, ma
la situazione al momento non è
facilmente definibile: ci sono
varie attività e ad oggi non sono
in grado di valutarne, al di là
ovviamente dello sportello casa,
la consistenza e le prospettive.
Abbiamo privilegiato il fare e
anche il tentare. Questo ci ha
dato grosse soddisfazioni, ma
non è che non ci siano stati
prezzi da pagare. Forse a
settembre/ottobre tireremo le fila
(e a quel punto una discussione
serrata e una definizione orga-
nizzativa comunque ci saranno)
e potremo presentare lo stato
dell'arte del Centro sociale
anche ai lettori del Granello.
Per lo Sportello Casa
Carlo Masoero
n. 3 (166) – giugno il granello di senape pag. 22
Il debito greco Il debito greco ha tutte le caratteristiche che ne giustifiche-rebbero la sospensione del pagamento o la cancellazione. È “odioso” perché contratto da un governo dispotico (du-rante la dittatura dei colonnelli, è quadruplicato). È illegit-timo, perché non ha rispettato l'interesse generale della popolazione, visto che ha arricchito soprattutto le banche francesi e tedesche, con la Goldman Sachs che aiutava i dirigenti politici a dissimulare la fragilità economica. Secondo la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite “uno stato non potrà, ad esempio, chiudere le scuole, le università e i tribunali, abolire la polizia e trascurare i servizi pubblici al punto da esporre la popolazione al disordine e all’anarchia, al solo fine di disporre dei fondi necessari a far fronte ai suoi obblighi nei confronti dei creditori esteri”. In Grecia il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il 40% ha passato l'inverno senza riscaldamento. I governanti tedeschi dovrebbero essere meno duri se si considera che nel 1953 la conferenza sul debito pubblico della Repubblica Federale Tedesca stabilì una serie di mi-sure che, secondo Eric Toussant del Comitato per l'Annul-lamento del debito del Terzo Mondo, portarono ad una riduzione di circa il 90% del suo ammontare. I creditori decisero anche di fornire alla produzione tedesca i mercati di cui necessitava e rinunciarono a vendere i loro prodotti alla Germania. Per lo storico Albrecht Ritschl “queste misure hanno tirato fuori dai guai Bonn e gettato le fondamenta finanziarie del miracolo economico tedesco”.
Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni, Cuneo
Così sia Così possa avvenire, forse Così possa avvenire forse che bagliori di compassione galoppino nel cuore e offrano ai piedi esatti percorsi e alle mani carezze ed operare attento.
Così possa avvenire forse che briciole di luna chinata su notti stanche s’apprestino a cadere su occhi desti o sognanti comunque memori del lacrimare del mondo.
Così possa avvenire forse che il mio corpo sappia sostare sulle soglie a bussare e conosca l’arte dell’indugio paziente per sentire scoccare i minuti i tempi le stagioni dell’altrui patire e gioire.
Così possa avvenire forse che i miei orecchi accolgano i sospiri delle linfe vitali nascoste sommerse immerse pudicamente sempre nei sottosuoli in cunicoli impervi in vene pulsanti dedite a fare e rifare il cosmo.
Così possa avvenire forse che non chiuda gli occhi di fronte agli angoli acuti del reale né che versi zucchero ai lati d’ogni durezza ma che mendichi fulgidi lapilli dal roveto ardente della pietà amorosa.
Eva
Maggio
Una sera
fresca di fieno
il tuo riso
ho raccolto
nello spazio
della curiosa Terra.
Il riso dell’A ore
seminato nella Speranza
del raccolto
Fiori
Fiori sul bordo
del mare
sfioriscono
nel silenzio
di voci
sommerse
Umana avventura
Su ampi spazi
con passo
incerto
nel timore
delle strade
sconosciute
Umana avventura
Sapienza
La sapienza
della mia mano
sfiora i solchi
del tuo viso che
il tempo inesorabile
incide
e il fresco
del mattino
allontana
la notte
Sussulto
Mi smarrisco
nel profondo
dei tuoi occhi
e ell’atti o
dell’i co tro
la mia vita
sussulta
ell’i fi ito
c.c.
Terra Mare Cielo
Mi dissolvo nel tempo
con passo lento dallo
spazio chiamato Terra
nelle profondità del Mare
mi inabisso sperando il Cielo
n. 3 (166) – giugno 2015 il granello di senape pag. 23
COLIBRÌ
società cooperativa sociale ONLUS
Via Monsignor Peano, 8 - 12100 CUNEO
tel. e fax : 0171/64589
www.coopcolibri.it
Le botteghe della Colibrì si trovano a :
CUNEO Corso Dante 33
BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19
FOSSANO Via Garibaldi 8
MONDOVI’ Via “. A olfo 4
SALUZZO Via A. Volta 10
COMMERCIO EQUO E AMBIENTE
Martedì 9 giugno 2015 anche la Cooperativa sociale Colibrì è stata invitata a partecipare alla serata su
Buo e p ati he a k ze o o ga izzata da Lega ie te Cu eo e W“F Colle tive ell’a ito del p ogetto I ovato i pe l’a ie te . È stata l’o asio e pe app ofo di e o e il ovi e to del o e io e uo e
solidale da oltre 30 anni promuove un sistema di commercio e, in generale, un circuito economico
alte ativo, dove l’atte zio e all’a ie te e ai di itti di hi p odu e so o p io ita i. In questo senso, nel suo intervento, la Cooperativa Colibrì ha voluto ricordare alcuni fra i tanti aspetti che
caratterizzano in particolare l’attività del o so zio Alt o e ato, di ui è so ia, dal pu to di vista della sostenibilità ambientale.
IMBALLAGGI E CONFEZIONI RICICLATE E RICICLABILI
Basta ita e al u e if e pe e de si o to dell’i po ta za di uesto impegno: il 90% degli imballi utilizzati da Altromercato è totalmente
riciclabile e il 40% di questi è realizzato con materiali riciclati. Su
questo fronte un caso emblematico sono le confezioni del caffè.
Altromercato, infatti, è stata la prima realtà commerciale in Italia a
proporre per tutti i suoi caffè un pack ecologico in materiale plastico
senza alluminio, smaltibile nella plastica anziché nel secco
indifferenziato. Grazie a questo, la confezione può trovare nel circuito
del riciclo delle plastiche miste un nuovo utilizzo, trasformata in
panchine, parchi gioco, recinzioni, arredi urbani, cartellonistica
stradale, grucce e molto altro. Inoltre questo materiale consente un
ispa io di i a 4.400 kg di allu i io l’a o, è più legge o e consente un risparmio di imballo destinato al caffè di 4 tonnellate
annue.
Anche un altro prodotto simbolo del commercio equo, il cioccolato, è
incartato con involucri che non contengono alluminio, realizzati in
carta e plastica che possono essere smaltiti con la raccolta differenziata. Così come le confezioni della linea
di cosmesi del commercio equo e solidale, Natyr e BioNatyr Altromercato, sono realizzate con materiali
riciclati e riciclabili (confezioni in PET 100%, completamente riciclate, in PE 40% , he o te go o u o strato composito di plastica in parte già riciclata e in PLA, una bioplastica ricavata da zuccheri vegetali, del
tutto biodegradabile).
PRODOTTI SFUSI E DETERGENTI RICARICABILI
Da uest’a o, nella Bottega Colibrì a Cuneo di corso Dante 33, sono stati introdotti anche alcuni prodotti
sfusi (riso biologico, lenticchie rosse, ceci, muesli e cereali per la colazione) che si possono acquistare a
peso, idu e do osì l’utilizzo di i allaggi e la p oduzio e di ifiuti. Inoltre, tutte le Botteghe Colibrì propongono linee di detergenti con ingredienti naturali in confezioni
i a i a ili e ealizzate i o fezio i salva-spazio o e la li ea “af lla Alt o e ato. I fla o i di dete ge ti
n. 3 (166) – giugno 2015 il granello di senape pag. 24
per pavimenti, bucato e piatti viaggiano infatti in container pieni grazie ad un design pensato per ridurre al
i i o lo spazio o upato, el t aspo to, i egozio e i asa, ga a ti e l’i pila ilità dei fla o i, se za pe de e p ati ità ell’uso.
ABBIGLIAMENTO IN MATERIALI NATURALI E DI RECUPERO
A he sul f o te dell’a iglia e to l’atte zio e del ommercio equo e solidale alla sostenibilità va dalla
fi a alla lavo azio e. La ollezio e Auteu s du o de Alt o e ato, ad ese pio, utilizza solo tessuti i fibre naturali, come cotone organico, seta, lana di pecora e alpaca, abacà (fibra vegetale ricavata da una
pianta tipica delle Filippine).
Così come la lavorazione artigianale impiega tecniche di stampa (con colorazioni naturali) e di decorazione
delle stoffe rigorosamente realizzate a mano, con grande attenzione a conservare le tradizioni locali delle
artigiane che in India, Bangladesh, Thailandia, Filippine, Perù, Bolivia e molti altri Paesi del Sud del mondo,
collaborano con Altromercato. Accanto ai materiali naturali, legno, semi di piante e noce di tagua (il
osiddetto avo io atu ale ) i so o poi numerosi prodotti nati dal recupero di plastica, vetro e alluminio,
impiegati nella realizzazione di collane, orecchini, braccialetti e anelli.
AGRICOLTURA BIOLOGICA E SOCIALE
Non può mancare il primo fra i criteri del commercio equo e solidale, cioè uell’atte zio e all’a ie te he passa innanzitutto attraverso pratiche di agricoltura biologica, per favorire la tutela della biodiversità, la
salute di chi produce e di chi consuma.
Motivo per cui il commercio equo sostiene i produttori nei costi per la certificazione biologica (premium
bio) oppure nella riconversione verso metodi di coltivazione che non utilizzino fertilizzanti chimici né
pesticidi.
Inoltre molti dei progetti di commercio equo, specie in Italia con il progetto Solidale Italiano, hanno trovato
ell’ag i oltu a a he u a p ati a di i lusio e so iale e is atto di te ito i diffi ili. Ne so o u a p ova l’espe ie za delle ta te ealtà o e la Coop. Ge ogli dove e dete uti e i o i seguiti dai se vizi so iali trovano lavoro come viti olto i ealizza do vi i o e il Rosso del Co à e la ise va Galeotto . Oppu e la Coop. Pietra di Scarto che a Cerignola, in provincia di Foggia, lavora, su un terreno confiscato alla mafia,
pomodori e olive da mensa che vengono raccolte da ex tossicodipendenti o immigrati usciti dal circuito di
sfruttamento del caporalato.
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UNA SETTIMANA A VALENCIA
Dal 29 agosto
al 06 settembre
La Cascina organizza, per tutti gli amici, una settimana di ferie al mare a Valencia!!!
PROGRAMMA: 29/08: partenza H 21.00 dalla Cascina. Il viaggio si farà di notte: pranzo al sacco a cura dei
partecipanti.
30/08: arrivo nel pomeriggio a Valencia- sistemazione in albergo (camere doppie o triple). Cena e
pernottamento.
31/08 – 04/09 : soggiorno a Valencia.
Al mattino si andrà al mare, mentre nel pomeriggio sono previste visite guidate (Valencia storica,
Città della S ie za e dell’A te o l’a ua io più g a de del Medite a eo, l’He isphe i ue…-El
Puig- Ca toiixa de Po ta Coeli…) 0 /09 : gio ata al a e du a te la uale si dedi he à u o spazio pe l’a uisto di eve tuali
souvenir. Cena in albergo e partenza alle 21.00 per Cuneo.
0 /09 : a ivo p evisto a Cu eo el po e iggio, p a zo al sa o fo ito dall’al e go.
QUOTA: € 450,00, comprensiva di :
Viaggio andata e ritorno in pullman Gran Turismo.
Pensione completa in albergo, bevande incluse.
Escursioni pomeridiane.
Ingresso e visita di una intera giornata alla Città della Scienza.
Sistemazione in camere doppie o triple p esso l’ Hotel Posadas de España Paterna, situato sul mare
a 8 km da Valencia.
ISCRIZIONI: presso la Cartolibreria “La Cascina” dal 03/08 al 13/08 PER INFO: Franco Cometto 349/5490924
n. 3(166) – giugno 2015 il granello di senape pag. 26
Finalmente la bella stagione ci consente di lavorare nell’ orto e così giovedì abbiamo cominciato la pulizia delle piantine di fragole. Era proprio una bella giornata di sole ma c’era una bella arietta che non ci ha fatto patire il caldo. Abbiamo ripulito ogni piantina dalle foglie secche e ripulito il terreno, intorno alle piantine, quello fuori pacciamatura, da tutte le erbe infestanti. È stato bello, anche se faticoso, finalmente lavorare all’aria aperta e soprattutto nell’orto è bello vedere la natura che rinasce dopo il lungo inverno. SANDRO
Mercoledì 11 Marzo siamo andati a Boves a visitare l’Atlante dei suoni. Accompagnati da un signore abbiamo toccato i vari continenti della terra in un viaggio immaginario musicale. Siamo partiti dall’Italia, ascoltando musiche popolari, come la tarantella napoletana, dei canti sardi, altri del Tirolo con il suono del corno e musiche occitane. Con l’aereo immaginario siamo volati in Africa, dove abbiamo suonato dei tamburi cercando di riprodurre un certo ritmo. Atterrati in Oceania abbiamo ascoltato il suono di strumenti rudimentali suonati da uomini che vivono ancora allo stato primitivo. Arrivati in America ci siamo lasciati trasportare dal tango argentino e dai balli latino- americani. In Asia abbiamo scoperto la scala pentatonica; abbiamo visto strumenti in metallo e in pietra e la campana tibetana, con musiche che favoriscono la meditazione. Atterrati da ultimo in Europa, abbiamo ascoltato musica classica e alcuni di noi hanno provato a fare i direttori d’orchestra. Fulvio
Ieri , visto che pioveva, siamo
andati all'Atlante dei suoni a
Boves. Ho visto il mio ex
professore dello I.A.L che si
chiama Cristiano Cometto. Io ho
suonato il tamburo. Abbiamo
suonato, siamo saliti sull’Aereo
giocattolo. Poi siamo anche andati
a Teatro a suonare i colpi delle
bacchette Magiche. Enrica ha
portato Livio in Cascina perché ha
fatto il Testone. Mi è piaciuto
molto.
Roberto
n. 3(166) – giugno 2015 il granello di senape pag. 27
A me piacerebbe tanto avere un computer tutto per me. Mi piacerebbe averlo a casa perché quando riesco a ritagliarmi un po’ di tempo mi piace navigare in internet per scoprire tante cosse che altrimenti non si sanno: dalla medicina alla storia, poi ci sono tanti giochi e puoi ascoltare tanta musica che si può anche scaricare sul MP3 che uso molto sia quando vado in piscina a fare idrobike che quando vado in vacanza.
Enrico
Gli spaventapasseri Mercoledì scorso siamo andati a
Castellar di Saluzzo a vedere una fiera
un po’ diversa dal solito. Ad ogni passo c’erano degli spaventapasseri fatti di
materiali di riciclo. Dopo una lunga
passeggiata ci siamo fermati a
prendere un caffè dall’amica di Alberto, Marta. Siamo tornati in
Cascina per pranzo.
Mi è piaciuto molto e spero di tornarci
anche il prossimo anno!
Bruno
GIARDINAGGIO IN CASCINA!
Il 1 aprile io e Alberto B. abbiamo potato le piante, il lauro e una pianta ornamentale. Io guardavo se Alberto svolgeva bene il suo lavoro. Mi sono divertito molto! Michele (Chelu)
Il 22 aprile 2015 abbiamo fatto una passeggiata sopra a Boves. Siamo partiti con due pulmini dalla cascina, arrivati ci siamo parcheggiati dal palazzetto di Madonna dei boschi e alle ore 9:50 abbiamo iniziato a camminare. Il giro è partito da Madonna dei boschi proseguendo per la strada che porta alle frazioni superiori fino a quando abbiamo svoltato a sinistra per raggiunge Castellar di Boves, da Castellar siamo scesi attraverso alcune stradine fino a Rivoira. Usciti da Rivoira, anziché proseguire direttamente per Boves abbiamo preso una via sterrata che ci ha fatto allungare un pochino il giro fino a tornare a Madonna dei boschi. Questo giro è stato molto bello perché oltre al bellissimo tempo ho camminato nella natura e nella tranquillità, osservando un panorama stupendo. A fine della passeggiata abbiamo preso il caffè al bar.
Luciano
n. 3(166) – giugno 2015 il granello di senape pag. 28
TUTTI I GIOVEDÌ VADO IN CARTOLERIA CON DAVIDE PER VENDERE INSIEME A LUI. APPENA ARRIVO BEVO UN CAFFE’ PRIMA DI INIZIARE LA MATTINA DI LAVORO. INIZIO ALLE 9.00 E ALE 13.00 TORNIAMO IN CASCINA. QUANDO SONO IN CARTOLERIA MI DIVERTO MOLTO E STO BENE.
MATTEO
LOS ANGELES Tutti i martedì mi alleno al campo di atletica per i campionati dei 100 metri piani. La gara si svolgerà a Los Angeles nel mese di luglio. Il mio allenatore si chiama Mario Borgna ed è mio papà. Andremo in aereo e verrà anche mia mamma. Non vedo l’ora di partire!!!!!
Pasqua e pasquetta a Sanremo Quest’ anno ho trascorso il giorno di Pasqua e di Pasquetta da mio cugino a Sanremo . Il sabato prima di Pasqua Franco è venuto a prendermi in macchina per portarmi al mare e passare alcuni giorni di vacanza con la sua famiglia . Domenica c’era un bel sole ma faceva freddo. Infatti nel pomeriggio non siamo usciti per fare una passeggiata lungo il mare, ma siamo stati in casa a chiacchierare. Oltre a mio cugino c’erano la moglie e i due figli che si chiamano Giorgia e Paolo. Con noi c’erano anche i due nipoti Giacomo e Giulio e la nipotina Emma che è la figlia di Paolo. Io a Pasqua sono stato al mare per stare insieme. Mi è piaciuto moltissimo e sono stato tanto bene. Poi martedì mattina mio cugino mi ha riaccompagnato a casa. Io ho ringraziato tutti. Michelino
Bocce L’altro giorno siamo usciti fuori a giocare a bocce nel campo della Cascina. Abbiamo giocato a Petanca. Ho giocato contro : Alberto, Sandro, Samuele, Michele e Alberto
Pigaglio. Mi è piaciuto e mi sono divertito molto perché non avevamo giocato da
tanto tempo!
Bruno