JAMES HILLMAN E LA PSICOLOGIA
ARCHETIPICA
A cura di: Dott. Alessandro Raggi
Sommario 1. Note biografiche .................................................................................................................................. 1
2. Le fonti e lo stile ................................................................................................................................... 2
3. La psicopatologia ................................................................................................................................. 2
4. Il “fare anima” ...................................................................................................................................... 5
5. Il mito dell’analisi ................................................................................................................................. 6
6. La fine dell’analisi ................................................................................................................................. 7
7. La Teoria Della Ghianda........................................................................................................................ 9
1. Note biografiche
James Hillman (Atlantic City, USA 1926 – Thompson, Connecticut, USA, 2011)
E’ il fondatore della Psicologia Archetipica, che si è preposta il compito di portare la riflessione psicologica e
in particolare psicoanalitica al di là della psicopatologia e della clinica psicoterapeutica per trovare una più
ampia “collocazione nella cultura dell’immaginazione occidentale”1.
Ha conseguito il Ph. D. all’Università di Zurigo (1949) e successivamente il titolo di psicoanalista junghiano
al C.G. Jung institute, dove è stato allievo di Jung. Ha guidato lo stesso istituto per circa 10 anni, ove fu
nominato direttore fin da poco prima della morte di Jung, sino al 1969, quando decise di abbandonare il
suo incarico per un’intensa crisi interiore, personale e professionale. Hillman uscirà da questa crisi con una
profonda riflessione sul modo di intendere e attuare la psicoterapia, che nel suo pensiero sarà interamente
rivista.
Ha diretto le edizioni Spring Publications di Zurigo dal 1970, la cui sede fu per sua scelta trasferita negli USA
al suo rientro nel 1978. Sempre negli USA fonda il Dallas Institute of Humanities and culture (Dallas,
Texas).
1 Psicologia Archetipica, di James Hillman – Enciclopedia del Novecento, Treccani ed.
2. Le fonti e lo stile
Hillman riconosce da subito nel suo maestro Carl Gustav Jung il primo “padre”2 della Psicologia archetipica
ma Hillman, a differenza di Jung, considera l’archetipico in modo sempre fenomenico.
Il secondo padre della Psicologia Archetipica è, a detta dello stesso Hillman, H. Corbin studioso francese del
pensiero islamico. Dal lavoro di Corbin deriva l’idea che il mundus archetypalis (‘alam al-mithal) coincida
con il mundus imaginalis. Le intuizioni e gli studi di Hillman l’hanno portato a concepire un modo differente
da quello dei suoi predecessori, inclusi Freud e Jung, d’intendere e attuare la psicoterapia e l’analisi, che
chiarisce egli stesso con queste parole: “l’intera procedura della psicologia archetipica come metodo è
immaginativa. La sua esposizione deve avere indole retorica e poetica, il suo ragionamento natura non
logica, e il suo fine terapeutico non deve essere l’adattamento sociale né l’individuazione personalmente
intesa; la terapia deve piuttosto adoperarsi per ricondurre il paziente alla propria realtà immaginale. Scopo
della terapia è lo sviluppo di un senso dell’anima, e il suo metodo consiste nel coltivare l’immaginazione”3.
La Psicologia Archetipica deve le sue intuizioni ai grandi maestri del pensiero occidentale e in particolare
alla tradizione neoplatonica (Ficino, Vico, il Rinascimento), che si riallaccia attraverso Plotino a Platone e
infine a Eraclito. Questo retroterra culturale proprio della Psicologia Archetipica, differisce sostanzialmente
da quello junghiano. Nella Psicologia Analitica, assieme agli accenti di derivazione psichiatrica, sono i motivi
tedeschi e nordici a conferire humus alle idee di Jung, che rivela la sua ispirazione alle opere di Nietsche,
Shopenhauer, Kant, Goethe, Eckhart. In Jung è inoltre presente un richiamo costante alla cultura cristiana e
orientale (egizia, indiana), mentre Hillman si tiene volutamente dentro il limite geografico della tradizione
greca e pagana occidentale e più specificamente dell’Europa Meridionale, dice a questo proposito lo stesso
Hillman: “la psicologia archetipica si sente … più a suo agio a sud delle Alpi”.
Il tipo di stile utilizzato da Hillman nei suoi scritti è episodico e circolare, anziché lineare. Ciò perché la
stessa psiche si muove nelle sue rappresentazioni in maniera non rigidamente prefissata e la psicologia,
piuttosto che a un ragionamento costruito con un inizio e una conclusione, deve poter spaziare in modo
appunto non lineare. Lo scopo dello stile di Hillman è dunque non tanto quello di affrontare e concludere
un ragionamento aperto, quanto quello di far affiorare nuove idee e aprire a inesplorate possibilità di
pensiero: “le nostre confusioni interne sono una latente ricchezza. Per valutarle come meritano è necessario
uno sfondo differenziato”4.
3. La psicopatologia
Lungo tutta l’opera di Hillman si distingue la ricerca di una psicologia profondamente rinnovata, che ritrovi
se propriamente stessa, differenziandosi in primo luogo dal modello offerto dalla medicina, che appare
invece lo sfondo sul quale la psicologia e la psicoterapia si sono mosse e continuano a muoversi.
La critica più forte alla psicologia contemporanea da parte di Hillman si fonda sul fatto che questa si è
appropriata sin dalla sua nascita di un lessico di derivazione medico-psichiatrico, tecnico, poco vicino alle
necessità immaginative della psiche, che per l’autore, come abbiamo visto, sono essenzialmente
immaginali. La psicologia, inoltre, è poco incline ad affrontare quelle “metafore radicali” dell’esistenza che
2 ibidem 3 ibidem 4 Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi, 1983, p.22
James Hillman e la Psicologia Archetipica Dr. Alessandro Raggi
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si propongono non tanto come dei concetti, ma come dei veri e propri simboli, che come tali sfuggono al
nostro completo controllo e a una nostra possibilità esaustiva di definizione. Anima, morte, vita, salute,
materia, energia, sono parole che esprimono contenuti forti, simbolici, che hanno un impatto emotivo
altrettanto importante sulla nostra dimensione psichica.
La mentalità prevalente in psicologia è che la psicopatologia sia qualcosa di estraneo alla psicologia stessa,
o comunque di sbagliato, che va analizzato attraverso categorie diagnostiche sempre più inflessibili e
precise, poi elaborato e infine “risolto”. Questa riflessione non implica che si debba negare la sofferenza
psichica o la stessa psicopatologia, e nemmeno s’intende che siamo “tutti malati” come vorrebbe la
psicoterapia, oppure che “nessuno è malato” come spiega il modello esistenzialista di Laing5, ma vuol dire
riconoscerne il valore come parte ineluttabile della vita e della psiche stessa. Dice Hillman a proposito: “Ma
supponiamo che le fantasie, i sentimenti, il comportamento che nascono dalla parte immaginale di noi siano
archetipici nella loro malattia e perciò naturali. (…) Supponiamo anche che le loro bizzarre irragionevolezze
siano necessarie per la vita, perché senza di esse avvizziremmo, ridotti a steli rigidi di sola ragione..”6.
Scoprire il senso della propria sofferenza, restituire la psicopatologia alla vita, significa infine riportare la
psiche nella sua interezza alla vita, e di conseguenza la vita stessa, non più solo la psicoterapia o l’analisi,
diviene il luogo adatto al “fare anima”. Se a questo aggiungiamo che per Hillman la struttura della psiche
umana non solo ha le sue radici nel mito, ma essa stessa poggia su una struttura mitica, allora tutti i suoi
prodotti, le sue invenzioni e le sue fantasie, hanno una radice mitica. L’analisi stessa è in quest’ottica una
delle tante fantasie sostenute dal mito, in quanto, si prefigge come scopo un ideale apollineo di
“illuminazione” della coscienza.
Il campo di applicazione della psicologia è stato sino a pochi anni fa, infatti, prettamente quello clinico della
psicoterapia, secondo un modello medico di derivazione ottocentesca che la vedeva prefiggersi quale
ultimo scopo il guarire la psiche malata. Il retaggio medico ci porta, infatti, a considerare la fantasia del
“trattamento”7 e quando non apertamente medico almeno psicologico, quale necessità per la cura della
psicopatologia. Se qualcosa secondo noi “non funziona”, un’emozione, un comportamento, una fantasia,
tendiamo a proporre soluzioni che aiutino, che “facciano qualcosa”. La ricerca del trattamento però
costringe la psicopatologia nel suo confine medico. Il tipo di psicologia elaborata da Hillman, non si propone
allora come trattamento, bensì come inseparabile dal processo di “patologizzazione”, la capacità
autonoma della psiche nel creare stati morbosi, disordini, malattie, che è a sua volta una necessità
ineludibile della psiche. – “il termine stesso patologia, che usiamo per indicare queste penose esperienze,
mostra quanto sia presente la medicina nella concezione che la psicologia ha della psiche. (…) cosicché
quando pensiamo alla psicopatologia noi pensiamo immediatamente alla malattia. (…) si è detto che gli
stati peculiari dell’anima e i disturbi che essa presenta potrebbero non essere condizioni di malattia in senso
medico. Né, del resto, tali stati e disturbi reagiscono al modello medico. A partire da Freud, ci siamo resi
conto che il trattamento della psicopatologia richiedeva metodi psicologici e non le solite procedure
mediche”8.
Le figure del mito, già da Jung erano viste come immagini archetipiche, o incarnazioni di eventi archetipici
pur essendo per loro stessa natura tutt’altro che perfette ma estreme, doloranti, sofferenti: patologizzate.
5 L’Io diviso (1959) – R. Laing
6 Il mito dell’analisi (The Myth of Analysis, 1972), Adelphi, 1979, p.16 7 Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi, 1983, pp.139-142 8 Ibidem p. 113
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Fu per primo Jung a mostrare che “Gli dei sono diventati malattie”9. Il pensiero di Hillman però porta
quest’idea di Jung sino alle conseguenze più estreme, infatti, questi giunge ad affermare: “Poiché gli dei
stessi mostrano infirmitas, una delle vie dell’ imitatio dei passa per l’infermità (…) senza questa fantasia
della malattia archetipica, senza la restituzione agli dei di ogni infermità (…), non potremo mai trovare
contesti adeguati ai fenomeni morbosi, che si ridurranno necessariamente a fenomeni clinici e contingenti, o
peccaminosamente morali e punitivi”10.
In questa visione dunque non va cercato un “archetipo della malattia”, che sarebbe una ricerca
letteralizzata, probabilmente vana e priva di valore, quanto piuttosto “la malattia nell’archetipo”11.
Come abbiamo visto il filone esistenzialista in qualche modo tende a negare la psicopatologia; la religione
considera la malattia come colpa o come conseguenza del peccato; le terapie psicologiche umanistiche
pongono in primo piano il primato della salute, mentre le discipline orientali e trascendentali si richiamano
a una sorta di necessaria superiorità dell’illuminazione, del Sé, della coscienza, su ogni aspetto
patologizzato della psiche. Per nessuna prospettiva tra quelle esaminate la patologia è una necessità
intrinseca alla psiche, all’anima. Partendo da quest’assunto, della necessità per l’anima di esprimere i suoi
aspetti patologici, la psicopatologia stessa diviene una componente necessaria della nostra completezza
individuale.
In una simile prospettiva, l’idea stessa di normalità diviene priva di significato, finendo per riflettere essa
stessa una fantasia mitica, un ideale privo di sostanza reale. L’inganno della letteralizzazione del mito
attraverso la prospettiva archetipica junghiana, è per inciso una delle critiche più severe che Hillman muove
a un certo modo di interpretare la psicologia analitica, dove le figure mitiche finiscono per essere svuotate
dalla loro forza archetipica per diventare piccole metafore, marionette, asservite alla coscienza
dell’analista, che immagina, in un vero e proprio delirio di onnipotenza narcisistica, di poterle “utilizzare” e
sottomettere ai propri scopi.
La necessità di una “psicologia anormale” avvicina l’uomo alle immagini del mito, dove l’anormalità è
condizione essenziale per le divinità olimpiche e infere. L’idea archetipica di “norma” è contemplata solo
nella prospettiva archetipica offerta da Atena, la Minerva dei Romani (Minerva da meminis, mens, mente),
che esce armata dalla testa del Padre Zeus e al Padre resta legata per l’intera esistenza. Atena protegge la
polis e presiede l’intelletto, la ragione, il pensiero logico. La sua stessa partecipazione in guerra è precisa,
tagliente, strategica, mai furiosa e collerica come quella di Ares. Atena, la consigliera saggia di Odisseo, ci
ricorda psicologicamente la funzione del nostro Io. Il limite di Atena è nella sua stessa corazza che la vede
sempre sulla difensiva, con elmo e scudo, eppure: “..Atena è solo una delle dodici divinità olimpiche, la
prospettiva normativa è solo uno dei modi di guardare agli eventi psicologici..”12. Il “normale” e le fantasie
di normalità, appaiono così una necessità solo in una specifica configurazione archetipica che è propria
della coscienza atenia, mentre gli altri stili archetipici, giudicati di conseguenza “anormali”, diventano
espressioni della psiche da cui immaginiamo di essere costretti a difenderci. Questa visione psicologica
dell’uomo porta Hillman a considerare l’esigenza di una psicologia Archetipica che ponga l’”anormale”
almeno sullo stesso piano del “normale”, come facenti parte entrambe le configurazioni, senza fantasie
dicotomiche o dualistiche, della stessa indispensabile struttura della psiche.
9 Jung, Opere, XIII par.54, p.47
10 La vana fuga dagli dei (On Paranoia, 1986; On the Necessity of Abnormal Psichology; Ananche and Athena), Adelphi,
1991, pp. 95-97 11 ibidem 12
Ibidem, p, 145
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4. Il “fare anima”
“Dove prendiamo il coraggio di chiamare “Anima questo elfo? LA parola anima dovrebbe indicare qualcosa
di meraviglioso di immortale…che significa mobile, cangiante, palpitante, un po’ come una farfalla…che
svolazza ebbra di fiore in fiore e vive di miele e d’amore…l’anima, quell’essere occhieggiante, eolio ed
elusivo come una farfalla.” (C.G. Jung).
“Io il nesso tra uomo e anima lo vedo ancora all'incontrario, dove l'uomo è una funzione della psiche e il suo
compito è servirla. Il terapeuta della psiche significa "servo dell'anima", traduce gli eventi umani nel
linguaggio della psiche e non la psiche nel linguaggio dell'umanesimo...... se come dice il Jung "gli dei sono
diventati malattie", allora guarire l'anima dalle sue immagini irrelate, inumane, potrebbe guarirla anche dai
suoi dei.” (J. Hillman).
Anima è in psicologia analitica l’archetipo che compone la dualità psichica individuale. Corrisponde
all’elemento femminile presente nell’inconscio maschile; il femminile a sua volta troverà nell’Animus il suo
corrispondente maschile. Jung nel formularne il concetto, chiarisce che per lui l’Anima non dev’essere
confusa con le idee cristiane di anima e con nessuna idea religiosa o trascendentale, egli intende altresì
dare un nome a fenomeni psichici empiricamente riscontrabili (per non cadere in fraintendimenti, infatti,
utilizza il latino “Anima” evitando il termine tedesco “Seele”, cioè anima).
Nel pensiero di Jung risulta evidente che la totalità dei processi psichici non è riassunta dal Sé (pur
risultando questo “l’archetipo” della totalità psichica) bensì dalla Psiche; mentre il Sé ("Selbst")
rappresenta la parte unificatrice sia conscia che inconscia di tutti i sistemi psichici (restando pur sempre
“soggetto” della psiche totale). Il Sé, infatti, per Jung si “produce”13 all’interno di processi squisitamente
psichici, per mezzo della “funzione trascendente” e della progressiva integrazione tra contenuto consci e
inconsci. La stessa dinamica della psiche è intesa appunto da Jung, in Tipi psicologici, come costituita dalle
coppie di opposti bipolari il cui nucleo è costituito dalla diade Io-Sé. L’Anima è invece identificata come un
“complesso funzionale” della psiche, dunque una parte della totalità psichica. Quest’ultima si pone in
funzione di mediazione tra gli altri processi della psiche e l’Io (la soggettività cosciente intenzionale). Per l’Io
maschile dunque l’Anima avrà un’immagine personificata controsessuale e di conseguenza femminile,
viceversa per l’Io della donna.
La difficoltà che sorge nel definire in maniera precisa questi termini, Sé, Anima, Animus, Psiche, o le loro
immagini simboliche, nasce dal fatto che non si tratta di semplici “concetti”, ma di archetipi che come tali
presentano sempre un grado elevato di ambiguità, di indecifrabilità, di indefinitezza. Hanno per loro stessa
natura un’intrinseca polivalenza, una molteplicità di significati, non possono essere racchiusi e limitati nelle
definizioni logico formali alla portata della coscienza, poiché essi non appartengono che limitatamente a
questa. Le immagini e i simboli che provengono dai modelli archetipici non possono essere definiti o chiusi,
poiché esse non chiudono e non definiscono, ma aprono e generano.
Il modo di concepire l’anima è per James Hillman centrale rispetto allo sviluppo della Psicologia
Archetipica. Egli, infatti, s’ispira a una lettera di John Keats14 in cui questi chiama il mondo “la valle del fare
anima” e a partire da quest’immagine offerta dal poeta, intuisce quello che deve essere lo scopo principale
della psicoterapia e nello specifico dell’analisi, fondando molte delle formulazioni della Psicologia
Archetipica su quest’immagine. Hillman però rimarrà sempre comunque convinto che il “fare anima” non
13 Dizionario Junghiano, Paolo Francesco Pieri, Bollati Boringhieri, 1998 14
John Keats (1795-1821), tra i massimi esponenti del Romanticismo inglese
James Hillman e la Psicologia Archetipica Dr. Alessandro Raggi
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sia e non debba essere unicamente affidato alla psicoterapia, che rimane solo uno dei tanti luoghi possibili
per il compimento dell’anima.
La perdita dell’anima, delle immagini dell’anima, dell’”Io immaginale”, è per Hillman l’errore fondamentale
del mondo occidentale nella nostra epoca. A questa perdita ne consegue una reificazione della soggettività
che si manifesta sia nell’egocentrismo che nel fanatismo della coscienza occidentale che ha perso il suo
contatto con la morte e il mondo infero.
5. Il mito dell’analisi
La nascita dell’analisi si basa sull’intuizione di Freud che ha scelto il mito di Edipo quale emblema della
scoperta di una psiche che poggia su una struttura mitica. Sulla scia di Freud e di Jung, Hillman spinge
questa intuizione sino all’idea di una psiche non solo strutturata e fondata sul mito, ma la cui stessa essenza
è mitica, e ci rivela che il mito su cui fonda l’analisi è il mito di Amore e Psiche. Già Neumann15 aveva
affrontato il mito di Amore e Psiche, ma Hillman ne riprende il motivo in un’accezione molto differente,
sbarazzandosi innanzitutto dell’idea che il mito in questione possa essere solo in qualche modo
“interpretato” e tanto meno interpretato unicamente quale riferimento allo sviluppo psicosessuale
femminile. Il mito di Amore e Psiche è in questa visione il motivo mitologico centrale dell’analisi stessa, e
del processo di traslazione, non più solo riferibile a quanto accade tra terapeuta e paziente, ma quale
processo sperimentabile nella vita quotidiana.
Anima ha bisogno di Eros e Psiche ha bisogno di Anima, sempre, non solo nell’analisi. La loro separazione è
la causa primaria della malattia dell’uomo moderno e della nostra civiltà. Se come abbiamo detto, infatti,
per Hillman la perdita dell’anima è la malattia del nostro mondo, la Psicologia Archetipica ha come scopo
fondamentale la restituzione dell’anima alla psiche. L’unica via che ha la psiche per riappropriarsi
dell’anima passa attraverso l’eros, ma anche attraverso la comprensione del dolore e della morte,
attraverso la comprensione della necessità di patologizzazione della psiche, uniche strade che consentono
la frammentazione dell’Io cartesiano ed egocentrico dell’uomo occidentale e che lo possono condurre
verso le profondità dell’anima stessa. I sintomi, le patologie, indicano la strada da compiere e consentono
all’uomo di ritrovare la sua anima attraverso le esperienze estreme, bizzarre, di dolore.
Dunque, il potenziale della psiche si può interamente compiere solo attraverso l’ascolto dell’anima
interiore: “Anima è la via che conduce alla Psiche”16. Ecco perché lo scopo della vita non può che essere il
coltivare l’Anima, giacché attraverso questo processo, che non può attuarsi senza Eros, si realizza la Psiche
stessa che non è altro che l’Anima “ancora sintomatica, labile e sconosciuta”17.
Come nel mito di Amore e Psiche, è attraverso l’amore che può avvenire il risveglio dell’Anima, l’amore
portato da Eros però e non quello di Afrodite di cui Psiche è pur sacerdotessa: l’amore erotico, ingravidante
fertilizzante, maschile di Eros. Psiche, infatti, per amare Eros, deve cessare di seguire Afrodite. Non si può
dunque pensare a un solo tipo d’amore, quell’amore sperimentabile grazie alla dea. L’altare di Afrodite
diffonde un amore che può sì essere considerato primario, ma che è comunque distinto dall’amore
governato da suo figlio. Come lo stesso Eros nasce dall’unione di un principio maschile e uno femminile,
15 Erich Neumann, Amore e Psiche. Un’ interpretazione nella psicologia del profondo, Astrolabio, 1956 16 Il mito dell’analisi (The Myth of Analysis, 1972), Adelphi, 1979, p.66 17
ibidem
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anche l’amore che egli stesso porta deve nascere e per germogliare ha bisogno di una simile unione tra
maschile e femminile.
Se seguiamo questa prospettiva mitica, possiamo comprendere quanto l’errore principale di Freud fu di
considerare il “fallo” sempre e solo come un “pene” e non in maniera archetipica. La stessa “castrazione”
per la donna significa rimanere sempre solo sotto l’egida di Afrodite e non poter mai conoscere quel tipo di
amore maschile, proprio di Eros, senza il quale essa rimane effettivamente “castrata”. A questo proposito
Hillman fa notare, seguendo le orme di Jung secondo cui la sessualità va intesa in chiave simbolica e
amplificata (questo è il vero motivo di dissidio tra Freud e Jung, la natura del simbolo sessuale), che “sesso”
non è solo sesso, come pene non è solo fallo. Se Eros è rappresentato in molti racconti e raffigurazioni
come bambino e per Freud vale l’equazione pene=bambino, allora evidentemente il complesso di
castrazione nella donna non è appunto legato all’invidia del pene/fallo, ma all’invidia dell’Eros/bambino, la
creatività erotica maschile necessaria alla creatività femminile.
L’amore di Eros ha bisogno di nascere e deve poter fluire sia nell’uomo che nella donna. Quando al
principio dell’amore femminile si unisce l’Eros maschile, questo ricongiungimento da vita allo sviluppo
psichico, sia nell’uomo che nella donna: al risveglio di Psiche.
“Scopro che ovunque l’eros vada, lì accade qualcosa di psicologico, e che ovunque la psiche viva, l’eros
verrà inevitabilmente costellato”18. Il risveglio dell’Anima femminile attraverso l’Eros maschile è perciò
esattamente ciò che può considerarsi il compito della nostra vita: il fare anima.
6. La fine dell’analisi
Hillman traccia nel corso di tutta la sua opera un cammino complesso e articolato lungo il quale mostra in
che modo e perché l’analisi terapeutica, la psicoterapia, siano giunte in qualche modo al termine di un loro
percorso. Il pensiero dell’autore si snoda lungo una profonda riconsiderazione di tutta la psicologia, che
parte dal tipo di linguaggio utilizzato in psicoterapia e in psicoanalisi, troppo conforme ai dettami di una
scienza di derivazione medico-psichiatrica. Il pensiero di Hillman rivisita l’intera vicenda storica della
psicologia terapeutica, utilizzando come chiave di lettura ciò che egli descrive come una fantasia che parte
da un pregiudizio culturale, sedimentatosi storicamente, circa l’inferiorità del femminile rispetto al
maschile. Tutta la terza parte del suo “Il mito dell’analisi”, è dedicata alla femminilità psicologica e qui
viene mostrato come, sin dai miti della creazione, da Adamo ed Eva in cui è dall’uomo che “deriva” il
femminile, si sono sedimentate nella nostra coscienza collettiva e individuale immagini di un femminile
inferiore. Questo tipo d’immaginazione mitica e religiosa ha prodotto una filosofia e una ricerca biologica
tese a dimostrare l’inferiorità del femminile, con i contributi non irrilevanti di personaggi come Aristotele,
Galeno, San Tommaso d’Aquino. Sigmund Freud ha intuito quanto rilevante sia il problema del femminile
per lo sviluppo psicologico, ma per Hillman egli non riuscì comunque ad osservare con spirito più distaccato
il fenomeno e a dissociarsi dall’immaginazione misogina dell’inferiorità del femminile. La nascita della
psicoanalisi, è degno di nota, parte proprio dall’osservare una malattia che si credeva essere esclusiva del
sesso femminile: l’isteria. Il fondamento della teoria freudiana, l’Edipo, ha come correlata l’idea che la
bambina viva la sua differenza negli organi genitali come un minus rispetto a quelli del bambino e sviluppi
tutta la propria psiche sotto l’influenza di un’originaria invidia del pene.
18
Ibidem, pag. 102
James Hillman e la Psicologia Archetipica Dr. Alessandro Raggi
7
La psicoanalisi ha dunque in qualche modo condiviso la fantasia archetipica dell’inferiorità femminile, che si
è perpetuata nella fantasia scientifica della “cura” e della guarigione propria di tutta la psicologia
terapeutica, dietro la quale si muove uno sfondo archetipico squisitamente apollineo. Eschilo nelle
Eumenidi fa parlare così il dio Apollo: “….Non è la madre la generatrice del figlio, bensì è la nutrice del feto
in lei seminato. Generatore è chi getta il seme..la madre è ospite che accoglie e custodisce il germoglio.
Padre uno può essere anche senza madre.“ Questo tipo di visione del femminile, che Hillman descrive come
appunto apollineo, è lo sfondo che si riproduce lungo l’intera la tradizione occidentale, di cui sono permeati
anche l’atteggiamento e il linguaggio di tutta la cultura medico-scientifica. E’ da Apollo infatti che nasce
Asklēpiós o Esculapio, il dio della medicina.
La scoperta dell’isteria coincide con la nascita dell’inconscio e della psicoanalisi e dunque la chiave del
mistero la si può trovare solo osservando il fenomeno isterico nelle sue radici archetipiche. Il tipo di
coscienza che si manifesta nell’isteria è per Hillman dominato dall’archetipo proposto da Dioniso e da mito
che lo raffigura tra le sue baccanti in preda a estasi e frenesia. Ai misteri dionisiaci accedevano, infatti,
prevalentemente le donne, motivo per cui si può dire che Dioniso sia un dio delle donne; era l’unico tra gli
dei che concedeva spazio alla femminilità nei suoi culti e nei suoi riti. La prospettiva offerta alla coscienza
da Dioniso esclude la misoginia apollinea (Apollo nella sua ricerca di Dafne, nel suo tentativo di coniunctio
attraverso di lei, costringe la ninfa a trasformarsi in alloro, spaventata dall’aggressività fallica del dio)
persino nelle sue raffigurazioni, dove egli viene infatti rappresentato in forme androgine. Dioniso viene
travestito da bambina per essere sottratto alla vendetta di Era, allevato da donne e tra le donne e per
questo pur manifestandosi con marcati accenti maschili e fallici, è sempre stato considerato bisessuale. Le
stesse caratteristiche che il dio aveva il potere di conferire sono caratteristiche squisitamente femminili:
l’irragionevolezza, la sensibilità, la ricettività, l’istinto.
Sia in Freud che in Jung, l’analisi si può dire terminata quando si conclude la relazione dell’individuo con la
femminilità. Freud concepiva il ripudio della femminilità come il momento conclusivo dell’analisi, che
coincideva con l’accettazione dell’irrimediabile invidia del pene per la donna e con il superamento della
passività per l’uomo nel raggiungimento di una piena genitalità. Se per Freud la misoginia inconscia viene
superata attraverso l’accettazione (nella donna) o il suo rifiuto (nell’uomo) , in Jung è l’integrazione nella
coscienza della bisessualità inconscia che pone finalmente termine all’analisi.
L’inferiorità del femminile, infine, è per Hillman più una “collocazione” che la concettualizzazione di un
presunto fatto biofisico; è la nostra fantasia fondata sulla superstizione e sul pregiudizio a sostenere che
debba, per forza di cose, essere recuperato, integrato o risolto. Sono i nostri aspetti “inferiori” nel senso di
infĕrus, collocato più in basso e non nel senso “di minor pregio”, che necessitano di essere recuperati.
Quegli stessi aspetti che da noi sono stati prima scissi e poi proiettati sul corpo femminile e lì concretizzati e
che la fantasia scientifica ha cercato di oggettivizzare lasciandoli immaginare come inferiori.
L’analisi è comunque nella sua stessa esperienza vissuta come un evento dionisiaco, benché la sua teoria e
la sua tecnica siano fondate sul presupposto apollineo dell’illuminazione e dell’ affermazione dell’Io
sull’inconscio. Il linguaggio stesso dell’analisi, come abbiamo visto, è inadatto a garantire all’Eros di
fecondare Psiche, poiché è un linguaggio legato ad una struttura di coscienza apollinea e non dionisiaca.
finché continueremo a pensare all’Eros come a una “nevrosi da transfert”, non riusciremo a distaccarci da
un linguaggio che non può favorire l’immaginazione ma solo mortificarla. “..anche il processo immaginale
della memoria fu messo al servizio del fine apollineo. L’immaginazione erotica e dionisiaca, adesso
chiamata ES o inconscio, era da analizzare e sottoporre a <<elaborazione>>. Per mezzo dell’immaginazione
attiva, la libertà dell’immaginale venne collegata all’Io e disciplinata in funzione del <<divenire consci>>. I
James Hillman e la Psicologia Archetipica Dr. Alessandro Raggi
8
risultati li abbiamo sotto gli occhi: esperti analisti dotati di una superiore <<coscienza>> che sono zero sul
piano immaginale.”19.
La restituzione della prospettiva mitica all’analisi conduce a conseguenze destabilizzanti rispetto allo stile di
coscienza a cui siamo abituati e significa, dunque, per Hillman anche restituire all’analisi il linguaggio più
adeguato alla sua stessa essenza, perciò inconscio, nevrosi e transfert e sono l’immaginale, il dionisiaco e
l’erotico.
7. La Teoria Della Ghianda
Il nome teoria della Ghianda per la teoria di Hillman, non è dovuto a un retaggio organicistico, è stata
invece scelta in coerenza con lo stile dell’autore che preferisce un linguaggio mitico e immaginale a uno
concettuale e fraseologico.
Cosa dice allora la teoria della Ghianda? Questa teoria ribalta gli assunti di tutte le precedenti teorie dello
sviluppo psicologico, partendo da un punto di vista che si riallaccia alla tradizione filosofica mediterranea e
più precisamente a Platone, secondo il quale il nostro mondo è definito da immagini date a priori. La chiave
della teoria di Hillman è nell’idea che ciascuno di noi possieda già da prima della propria nascita un
immagine che ci definisce. L’immagine della ghianda, in cui è già stipato tutto il destino della grande
quercia, ci induce dunque a ragione a poter parlare della teoria della Ghianda come di una teoria del
potenziale.
Le teorie dello sviluppo psicologico, da Freud e Adler a Bowlby, così come le ipotesi della scienza genetica,
individuano nell’influenza della natura oppure della cultura le cause prime di tutto il successivo strutturarsi
della personalità individuale: traumi, compensazione di difetti di nascita, influenza dei genitori, assenza dei
genitori, effetto dei tratti genetici e dell’ereditarietà. L’autore parla esplicitamente di “superstizione
parentale” riferendosi alle teorie dell’infanzia che massimizzano il ruolo dei genitori come causa di ogni
patologia o distorsione del carattere dei propri figli: “Poiché le teorie psicologiche della personalità e del suo
sviluppo sono così fortemente dominate dalla visione “traumatica” degli anni infantili, la messa a fuoco dei
nostri ricordi o il linguaggio con cui raccontiamo la nostra storia sono a priori contaminati dalle tossine di
tali teorie.”20.
Hillman è convinto che non siano i genitori la causa principale di ciò che noi siamo oggi, ma che al contrario
sia proprio l’ideologia che c’è dietro la “superstizione parentale” a indurci ad attribuire la “colpa” alle
deprivazioni che abbiamo subito da nostra madre o all’assenza del padre: “..noi siamo vittime non tanto dei
nostri genitori, quanto dell’ideologia del genitore; non tanto del potere fatale della Madre, quanto della
teoria che le attribuisce quel potere fatale.”21. A sostegno del suo pensiero, Hillman porta una vasta
documentazione biografica sulla vita di personaggi più o meno illustri, dalla quale risulta quanto
effettivamente limitata possa essere stata l’effettiva influenza dei genitori sullo sviluppo del carattere dei
propri figli; aggiunge un’altrettanto ampia letteratura scientifica che non considera le cure parentali allo
stesso modo della psicologia dell’età evolutiva dominante.
19 Ibidem, pag. 305 20 Il Codice dell’Anima (The Soul code, 1996), Adelphi, 1997, p.18 21
Ibidem, p.105
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La critica più frequente alla teoria della Ghianda è che, parlando del “destino” individuale, in qualche modo
essa contenga delle tracce di fatalismo. Hillman smonta quest’accusa, argomentando in maniera ricca e
articolata a partire dalla differenza tra le nozioni di fato e fatalismo. L’idea che possa esservi un destino
individuale, non vuol dire che ogni singolo fatto della mia vita e ogni mia scelta siano in qualche modo
predeterminati, questo è appunto l’intendere del fatalista. Il destino individuale, coincide per Hillman più
con l’immagine socratica del daimon. Non c’è nella visione di Hillman l’idea di un possibile disegno divino di
origine superiore. Il suo pensiero si riallaccia piuttosto alla nozione greca di fato, alla possibilità che esista
un potenziale che però sta a noi in qualche modo, attraverso le nostre scelte, scoprire e decidere o no se
seguirlo e affrontarlo. Il fato può intervenire in maniera casuale, sporadica, può indicare la via, interferire,
ma non si sovrappone mai interamente alla libertà individuale, non è un fatalismo dov’è tutto scritto nelle
stelle e ci abbandoniamo nelle mani del destino. Le dee del destino, le Moire, figlie della Necessità
(Ananke), presiedono ai momenti cruciali della vita umana, le fate delle fiabe (dal latino fatum, fato) sono
creature angeliche che ci assistono nei momenti culminanti della vita, ma che non hanno possibilità di
distoglierci del tutto dalle nostre scelte. L’uomo però, come gli stessi dei nella visione classica del mondo, è
soggetto sempre e comunque all’ineluttabilità del fato, così come la piccola ghianda che contiene già in se
la grande quercia, essa potrà non crescere, venire distrutta, ammalarsi o prosperare enorme e rigogliosa,
ma non potrà mai diventare qualcosa di differente da una quercia.
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