Transcript
Page 1: L' Architettura della  salute prima parte

L’Architettura della saluteLuoghi e storia della Sanità lombarda

L’Architettura della salute

Luoghi e storia della Sanità lombarda

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lute

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A.O. Ospedali Riuniti di Bergamo

A.O. Spedali Civili di Brescia

A.O. Spedale di Circolodi Busto Arsizio

A.O. Mellino Mellini di Chiari

A.O. S. Annadi Como

A.O. Ospedale Maggiore di Crema

A.O. di Cremona

A.O. di Desenzano sul Garda

A.O. S. Antonio Abatedi Gallarate

A.O. G. Salvinidi Garbagnate Mi.se

A.O. Ospedale di Lecco

A.O. Ospedale Civile di Legnano

A.O. della Provincia di Lodi

A.O. “C. Poma”di Mantova

A.O. Fatebenefratelli Oftalmico

A.O. Istituti Clinici di Perfezionamento

A.O. Istituto Ortopedico G. Pini

A.O. Ospedale L. saccoA.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda

A.O. Ospedale S. Carlo BorromeoA.O. Ospedale S. Paolo

A.O. Ospedale S. Gerardo dei Tintoridi Monza

A.O. della Provincia di Pavia

A.O. Bolognini di Seriate

A.O. della Valtellina e della valchiavennadi Sondrio

A.O. di Treviglio

A.O. Ospedale di Circolo Fond. Macchi di Varese

A.O. Ospedale civile di Vimercate

Vizzolo Predabissi - A.O. di Melegnano

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IIII

Testi di

Rita BalestrieroGiorgio Cosmacini

Maria Antonietta Crippa(Politecnico di Milano)

Stefano Della Torre(Politecnico di Milano)

Schede a cura di

Daniele GarneroneIrene Giustina

(Università degli Studi di Brescia)Elisa Sala

(Università degli Studi di Brescia)Adele Simioli

Emanuele ViciniFerdinando Zanzottera(Politecnico di Milano)

Fotografie di

Chiara CadedduGermano Borrelli

Archivio Ospedale Maggiore di MilanoArchivio Infrastrutture Lombarde

Progetto, coordinamento editoriale e design:

Si ringraziano

Pietro Petraroia - Valorizzazione del Patrimonio artistico e culturale - Regione LombardiaPaolo M. Galimberti - Servizio Beni Culturali Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli Regina Elena

Le Aziende Ospedaliere lombardeInfrastrutture Lombarde Spa

In copertina:Facciata dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano

A pag. III:Dettaglio scultoreo della facciata - Ave gratia plena di Franco Lombardi

Servizi per la Comunicazione

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L’Architettu

ra

della salute

Luoghi e sto

ria della

Sanità lombarda

Regione Lombardia

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V

Regione Lombardia considera il miglioramento e lo sviluppo dell’edilizia sa-nitaria come uno degli obiettivi prioritari per adeguare il servizio sanitario alle sempre più complesse esigenze che si presentano nella nostra società.

In questo ambito, crediamo che il nostro compito sia innanzitutto quello di incenti-vare e valorizzare il protagonismo delle aziende ospedaliere lombarde che, proprio in forza del loro profondo radicamento nel territorio, possono, e anzi devono offrire un apporto fondamentale per rispondere alle nuove sfide che le riguardano.In questa direzione vanno i consistenti investimenti degli ultimi anni per la rea-lizzazione di nuovi ospedali e la razionalizzazione delle strutture esistenti nella nostra regione. Gli interventi mirano a dare concretezza, anche nelle soluzioni architettoniche, al principio che ha guidato la riforma dell’intero sistema sociosa-nitario lombardo: restituire centralità alla persona. Le nuove strutture si impongono così all’attenzione perché incarnano, negli aspetti funzionali e tecnologici, una concezione moderna di ospedale, capace di accogliere integralmente i malati nelle loro esigenze e offrire condizioni di lavoro in cui gli operatori possano esprimersi secondo tutta la loro professionalità. Strutture non più chiuse in se stesse, ma aperte al territorio e ai bisogni in esso presenti, in un’armonica interazione con il contesto sia urbano che naturale.Saluto quindi con piacere la pubblicazione di questo libro che, nel ripercorrere la storia dell’architettura ospedaliera lombarda dal Quattrocento fino ai giorni nostri, contribuisce a far riflettere sul cambiamento profondo che ha investito, prima che la forma, la funzione stessa dei luoghi della salute.

Roberto FormigoniPresidente della Regione Lombardia

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VII

L ’ospedale inteso come luogo di ospitalità e di cura per i malati e i bisognosi è il più fulgido esempio della capacità organizzativa e identitaria che la nostra terra lombarda, fin dal Medioevo, riuscì ad esprimere. Un luogo di attenzione

per il popolo, inizialmente espressione dei sentimenti di carità di istituzioni e congregazioni religiose e poi obiettivo sociale dei governi.Con piacere dunque esprimo il mio più vivo apprezzamento per questa opera, che intende ripercorrere la storia della sanità lombarda attraverso il racconto dei vari progetti architettonici ospedalieri dispiegatisi nei secoli in Lombardia.Un percorso d’umanità e di professionalità che continua nel tempo e che sta cono-scendo proprio in questi anni un nuovo protagonismo, grazie agli imponenti investimenti finanziari messi a disposizione da Regione Lombardia e finalizzati a realizzare un nuovo modello di sanità, dove l’attenzione alla persona e ai suoi bisogni sono centrali anche nella programmazione architettonica e urbanistica delle nuove strutture ospedaliere.L’aumento dell’età media della popolazione congiuntamente alla necessità di mantenere costante il livello d’efficienza e d’efficacia degli interventi sanitari, la volontà di proseguire la strada dell’innovazione con la forte attenzione al man-tenimento della parità di bilancio. Queste sono le sfide che attendono oggi chi si occupa di sanità, di fronte a un’Istituzione che necessariamente evolve nel tempo perché continuamente partecipe della scienza e della tecnologia, di passioni e sentimenti.Questo volume rappresenta così un’occasione utile per approfondire la storia e proseguire l’attenzione all’umano che questa terra è stata e sarà sempre capace d’esprimere.

Luciano BrescianiAssessore alla Sanità

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VIII

Le Aziende Ospedaliere lombarde

Le Aziende Ospedaliere sono ospedali di rilievo regionale o interregionale costi-tuiti in Aziende in considerazione delle loro particolari caratteristiche. Si tratta spesso di strutture ad alta o particolare specializzazione oppure di ospedali che affiancano alle normali attività di ricovero e cura anche quelle di ricerca/insegna-mento a livello universitario.

BERGAMO - A.O. OSPEDALI RIUNITI

BRESCIA - A.O. SPEDALI CIVILI

BUSTO ARSIZIO - A.O. OSPEDALE DI CIRCOLO

CHIARI - A.O. MELLINO MELLINI

COMO - A.O. SANT’ANNA

CREMA - A.O. OSPEDALE MAGGIORE

CREMONA - A.O. DI CREMONA

DESENZANO - A.O. DI DESENZANO DEL GARDA

GALLARATE - A.O. SANT’ANTONIO ABATE

GARBAGNATE MILANESE - A.O. G. SALVINI

LECCO - A.O. OSPEDALE di LECCO

LEGNANO - A.O. OSPEDALE CIVILE di LEGNANO

LODI - A.O. DELLA PROVINCIA di LODI

MANTOVA - A.O. C. POMA

MILANO - A.O. FATEBENEFRATELLI OFTALMICO

MILANO - A.O. ISTITUTI CLINICI DI PERFEZIONAMENTO

MILANO - A.O. ISTITUTO ORTOPEDICO G. PINI

MILANO - A.O. OSPEDALE L. SACCO

MILANO - A.O. OSPEDALE NIGUARDA CA’ GRANDA

MILANO - A.O. OSPEDALE S. CARLO BORROMEO

MILANO - A.O. SAN PAOLO

MONZA - A.O. SAN GERARDO DEI TINTORI

PAVIA - A.O. DELLA PROVINCIA DI PAVIA

SERIATE - A.O. BOLOGNINI SERIATE

SONDRIO - A.O. DELLA VALTELLINA E DELLA VALCHIAVENNA

TREVIGLIO - A.O. TREVIGLIO

VARESE - A.O. OSPEDALE DI CIRCOLO FONDAZIONE MACCHI

VIMERCATE - A.O. OSPEDALE CIVILE DI VIMERCATE

VIZZOLO PREDABISSI - A.O. DI MELEGNANO

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IX

1 Dal frigidarium alla bio-robotica, l’evoluzione della cura Giorgio Cosmacini

9 Introduzione L’Ospedale tra passato e futuro: mutamenti morfologici, rapporto con il territorio, centralità della persona Maria Antonietta Crippa

19 Arte e storia nei luoghi della cura: un patrimonio da valorizzare Pietro Petraroia

24 Capitolo 1 Gli ospedali a crociera del Quattrocento e successivi sviluppi fino all’Ottocento Stefano Della Torre

36 Capitolo 2 L’ospedale a padiglioni dall’Ottocento al primo Novecento Stefano Della Torre

46 Capitolo 3 Evoluzione dall’ospedale a padiglioni all’ospedale monoblocco o misto nel XX secolo Maria Antonietta Crippa

58 Capitolo 4 I nuovi ospedali lombardi tra presente e futuro Rita Balestriero

IndICe

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XI

71 Il patrimonio edilizio degli ospedali di Lombardia dal secolo XV ad oggi Maria Antonietta Crippa

80 Scheda 1 Gli Ospedali Riuniti di Bergamo Ferdinando Zanzottera

86 Scheda 2 Gli Spedali Civili di Brescia Irene Giustina

92 Scheda 3 L’Ospedale Sant’Anna di Como Daniele Garnerone

98 Scheda 4 Gli Istituti Ospitalieri di Cremona Daniele Garnerone

104 Scheda 5 L’Ospedale Manzoni di Lecco Daniele Garnerone

110 Scheda 6 L’Ospedale Maggiore di Lodi Adele Simioli

116 Scheda 7 L’Ospedale Carlo Poma di Mantova Daniele Garnerone

122 Scheda 8 L’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano Ferdinando Zanzottera

128 Scheda 9 L’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano Adele Simioli

134 Scheda 10 L’Ospedale San Gerardo dei Tintori di Monza Ferdinando Zanzottera

140 Scheda 11 L’Ospedale San Matteo di Pavia Emanuele Vicini

146 Scheda 12 Il Villaggio Sanatoriale di Sondalo Ferdinando Zanzottera

152 Scheda 13 L’Azienda Ospedaliera di Circolo Fondazione Macchi di Varese Ferdinando Zanzottera

159 Bibliografia

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XII

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1

L ’antica Grecia non ebbe ospedali. Luoghi collettivi di salute pubblica erano i

templi dedicati ad Asclepio, semidio della medicina, e gestiti dagli asclepiadi,

sacerdoti esercenti una medicina ieratica, sacra. Anche l’antica Roma non

ebbe ospedali. Luoghi collettivi di salute erano le terme, dove appositi locali –

calidarium, frigidarium, tepidarium – permettevano rispettivamente la dilatazione

dei pori corporei ristretti, il restringimento dei pori corporei dilatati e l’equilibrio

degli uni e degli altri nella giusta misura corrispondente alla buona salute.

Però la Roma imperiale ebbe i valetudinaria, “ospedali delle legioni” dove si

curavano i legionari dalle ferite belliche e dove, in tempo di pace, si curavano gli

schiavi dalle lesioni traumatiche dovute ai loro duri lavori.

Fu però il Medioevo cristiano a dare fondamento etico alla hospitalitas.

L’“ospitalità”, conosciuta e praticata dagli antichi, ma solo come attività

individuale od obbligo nei confronti dell’ospite, si affermò nella bassa latinità

come condimento condiviso, come servizio all’uomo bisognoso e sofferente

nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava e professava come “religione

dei poveri”.

Al nome e al concetto di “povero” – pauper – erano strettamente legati il nome e il

concetto di “malato” – infirmus –. Il povero malato o il malato povero esprimeva

una categoria composita, senza troppa distinzione tra indigenza economica ed

emergenza sanitaria. La categoria comprendeva tutti coloro che non erano in

grado di far fronte alle crisi di esistenza: malati e invalidi, con inclusi gli storpi

e i vagabondi, i ciechi e i mendicanti, i folli e i pezzenti, e con ai primi posti i

vecchi in solitudine e i bambini senza famiglia, orfani o fanciulli abbandonati e

i “trovati” (trovatelli). Per tutti costoro, spesso costituenti una umanità derelitta

di Giorgio Cosm

acini

Dal FriGiDarium alla bio-robotiCa, l’evoluzione Della Cura

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e questuante, esisteva l’hospitale. Questo nome comparve in età carolingia a

sostituire quello preesistente di xenodochium, usato per indicare “l’albergo dove

ospitare i forestieri”, pellegrini e viandanti. L’ospedale, in questa fase, era piuttosto

l’ospizio, “l’albergo dei poveri” dove accogliere l’umanità indigente e “paziente”.

Nelle antiche abbazie benedettine vigeva la regola dettata da San Benedetto a

complemento dell’ora et labora: “Prima di tutto e soprattutto bisogna prendersi

cura dei malati” (cap. XXXVI). Tra i luoghi abbaziali esisteva un hospitale

pauperum adibito ai poveri, bambini, vecchi, poveri di mente, ai quali veniva

riservato l’affectus, l’“affabilità”, prestata con gioia (libente animo), con allegria

(cum hilaritate), con liberalità (cum largitate).

Intorno al X secolo, cioè alle soglie dell’anno Mille, l’organizzazione sanitaria di ogni

grande monastero comprendeva almeno un infirmarium, o “infermeria”, con un

cubiculum valde infirmorum, o “cameretta di degenza per malati gravi”, con un locale

appartato per clisteri e salassi e con un orto di “semplici”, o piante medicinali.

A moltiplicare tali strutture ospitaliere contribuivano i pellegrinaggi, in Italia

quelli diretti alle tombe romane dei Santi Pietro e Paolo, mete di una umanità

itinerante alla ricerca di una salus che non era solo “salvezza” spirituale, ma

spesso anche “salute” corporale o speranza di guarigione.

Dopo l’anno Mille iniziava, dal grembo terriero della società altomedievale, la

rinascita delle città, raccolte intorno alle cattedrali e popolate di poveri “senza

terra”. Cambiava la vita, anche quella assistita. Ogni città importante possedeva

almeno un ospedale, dapprima in diretta connessione con il luogo di culto, con

commistione tra pratiche sacre a pratiche profane. Successivamente questi

ospedali, anche se legati a fondazioni ecclesiastiche, tendevano a distaccarsi dal

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modello religioso. Il risultato di questa tendenza era, alla fine, l’ospedale civile. In

Italia l’organizzazione ospedaliera, in anticipo sul resto d’Europa, era importante

in ogni città, ma soprattutto in quelle più popolose, affollate da una popolazione

spesso a rischio tra ricorrenti carestie e condizioni d’igiene precaria.

Nel suo scritto “Sulle meraviglie della città di Milano” – De magnalibus urbis

Mediolani –, opera amanuense del 1288, il grammatico milanese Bonvesin de

la Riva, terziario degli umiliati, afferma che “vi sono in città dieci ospedali per i

malati poveri e quasi tutti adeguatamente dotati di beni temporali. […] Nessuno

che sia in condizioni di indigenza o di miseria viene rifiutato o respinto. Nel

contado vi sono quindici ospedali o pressappoco”.

Un patriziato caritatevole e un clero provvido non si esimevano dal fondare

e sostenere ospedali. Coloro che gestivano in prima persona il rapporto

assistenziale con gli infirmi erano gli infirmarii, gli “infermieri”, religiosi o laici,

fratres vel sorores, “fratelli o sorelle”, uomini o donne. Essi dovevano farsi carico

delle pratiche di assistenza a vantaggio del prossimo bisognoso: preparare un

buon letto, somministrare un buon pane o un buon brodo, praticare una buona

pulizia, dire e ridire una buona parola.

Le cure prestate erano cure generiche, non specifiche. Oltreché “ristorare di vitto

e di letto”, esse contemplavano solo qualche medicamento, linimento o tisana, e

qualche manipolazione, unzione cutanea o serviziale (clistere). Il servizio al degente

doveva essere sempre erogato con la dovuta misericordia, o cordialità per i miseri,

per i “poveri di Cristo” detti “poveri cristi”. L’ingresso in ospedale dei medici fu un

evento ulteriore, non medievale, ma rinascimentale. Nella “Relazione ai deputati

dell’Ospedale Grande di Milano”, scritta dal priore (presidente) Gian Giacomo Gilino

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e data alle stampe nel 1508, è detto che la dotazione di sanitari di un grande ospedale

quattro-cinquecentesco come quello milanese è di “quatro phisici [medici], uno per

bracio de la crociera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti”.

Dal sistema della carità indifferenziata, che aveva caratterizzato i medievali

“alberghi dei poveri”, si passava al sistema degli ospedali maggiori, dove questi

erano concepiti, strutturati, organizzati come “fabbriche della salute”: si parlò,

a tale riguardo, di gran reformatione. La “gran riforma” viene enunciata dallo

stesso priore Gilino, il quale dice che la “reformatione è stata in questo modo”:

essendo le malattie “o croniche o de qualità che presto son terminate vel, con

salute, vel con morte, queste de presta terminatione son designate al hospitale

grande”, mentre i “mali de altra qualità, quali vogliono tempo” perché inveterati

“hano la receptione sua separata”.

è detto esplicitamente che tra i malati, a prescindere dal fatto che tutti quanti

devono essere premurosamente assistiti, quelli acuti, suscettibili di guarigione,

devono essere ricoverati e curati all’“ospedale maggiore”, principale e centrale,

mentre quelli cronici, inguaribili e invalidi, la cui salute piena non può essere

ricuperata e la cui salute residua necessita di lungodegenza (o sempredegenza),

devono essere ricoverati e curati negli “ospedali minori”, satelliti e decentrati.

La riforma ospedaliera da poco realizzata non doveva essere vanificata

ritrasformando i nuovi grandi ospedali rinascimentali in vecchi ospizi di

medievale memoria. Il Rinascimento, se voleva essere tale anche in campo

ospedaliero, non doveva ripiombare nell’ambito di una ospitalità indifferenziata.

Perché questo regresso non avvenisse era indispensabile che medici e chirurgi

fossero direttamente coinvolti. La loro competenza diversificata doveva

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differenziare e specificare le cure ospedaliere. La folla dei degenti non era più un

indistinto genere umano, piagato come la carne del suo Divino Redentore, ma era

un accorpamento di gruppi di individui patologicamente diversi, ciascuno con la

sua specie di male.

Le cure non erano più pratiche generiche di assistenza e di aiuto; erano pratiche

specifiche realizzanti questa o quella terapia. I curanti degli infermi non erano

più infermieri generici, ma medici e chirurghi specialisti di questo o quel male.

Dalle cure ai “mali interni” (medicina interna) ed “esterni” (chirurgia operativa)

medici e chirurghi si avviavano a intraprendere un’aurorale specializzazione.

Tutto ciò non comportava una svalutazione dell’assistenza infermieristica.

In questo insostituibile servizio venivano a porsi come figure di spicco quei

gruppi autonomi di chierici regolari e di laici devoti che nel maturo e tardo

Cinquecento, sull’esempio di Giovanni di Dio (1493-1550), fondatore dell’ordine

dei Fatebenefratelli, e di Camillo de Lellis (1550-1614), fondatore dell’ordine

dei Ministri degli infermi (Camilliani), si facevano interpreti della volontà di

“riforma cattolica” nel campo ospedaliero, assumendosi il carico dell’assistenza

spirituale e corporale ai malati degli ospedali.

Questo sistema ospedaliero visse o sopravvisse in età barocca, tra crisi e riforme,

tra luci e ombre, con alterne fortune di efficienza ed efficacia.

Nella tardo-settecentesca “età dei Lumi” (i cosiddetti “lumi della ragione”) il

problema degli ospedali, dato lo stato miserando di molti fra essi, fu oggetto

di un intenso dibattito. Nelle sue Observations sur les hopitaux, pubblicate nel

1789, il medico-filosofo Georges Cabanis sottolinea l’inderogabile necessità di

ridimensionare i grandi ospedali, taluni dei quali trasformati in “caravanserragli

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della disgrazia”, in ospedali con capienza massima di 100-120 letti, onde potervi

“esercitare in modo adeguato la medicina”, personalizzata attraverso i journeaux o

“cartelle cliniche”. Pur senza recepire tutte le istanze illuministiche, fu l’Ottocento,

a pieno titolo, il secolo dell’affermazione dell’ospedale moderno. L’instaurazione

partì dalla clinica, secondo una dinamica interna, scientifico-tecnica, sinergica agli

sviluppi ottocenteschi della medicina e della chirurgia. Ma l’istituzione conobbe

anche una trasformazione prodotta dai mutamenti socio-culturali: la beneficenza

mossa dalla carità si mutò nel dovere civile di una assistenza ai malati evolvente in

diritto di costoro alla tutela della propria salute.

Lungo la prima delle due direttrici fu la scienza medica il motore della “macchina

per guarire” in cui venne a configurarsi via via l’ospedale ottocentesco e poi

novecentesco. Lungo la seconda direttrice, connessa ai mutamenti della cultura

e della società, troviamo, a Novecento inoltrato, un ospedale definitivamente

trasformato da luogo di assistenza agli aventi bisogno, con spese di degenza a

carico della pubblica beneficenza e dei Comuni (nei quali i ricoverati avevano il

“domicilio di soccorso”), in luogo di diagnosi perfezionata e di terapia efficace,

come tale ambito anche dal ceto abbiente, “solvente in proprio” delle spese

necessarie per fruire di prestazioni medico-chirurgiche vantaggiose, non più

sostituibili dalle pratiche esercitate in ambulatorio o a domicilio.

L’ospedale s’è aperto anche ai “semi-abbienti”, cioè alla moltitudine crescente

assistita dalle mutue, e, dal 1978 in poi, all’intera popolazione assistita dal

Servizio Sanitario Nazionale. Nello stesso periodo la cosiddetta “rivoluzione

tecnologica” ha cambiato l’ospedale. Le varie discipline si sono fatte super-

specializzate, pluri-specialistiche, sofisticate e incorporanti elettronica e

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informatica. L’endoscopia ha esteso il campo del “guardar dentro”. La radiologia

utilizza macchine complesse e si è fatta anche interventistica. La chirurgia ha

allargato le sue tecniche dall’elezione all’emergenza; inoltre è diventata mini-

invasiva e ambulatoriale (day surgery). Si prospetta, in un prossimo avvenire, la

chirurgia bio-robotica.

Sono solo alcune delle prospettive future. Parallelamente è sempre più

sentita l’esigenza che l’ospedale odierno, divenuto una macchina sempre più

produttiva e regolativa della salute, adegui al proprio sviluppo scientifico-

tecnico quello amministrativo, organizzativo, gestionale, unendo efficienza ed

efficacia e contemperando i benefici con i costi, questi ultimi intesi peraltro più

come investimenti che come spese. Sotto questi aspetti l’ospedale d’oggi è una

“azienda”, il cui funzionamento è da valutarsi non tanto in termini di spese e

quantità di prestazioni prodotte, quanto in termini di investimenti e qualità di

produzione della salute. Nell’odierna realtà dei fatti, l’ospedale è atteso a una

duplice prova: trasferitasi l’importanza della quantità dei posti letto alla qualità

della risposta ai bisogni, esso deve intendere tale effettiva qualità tanto come

prova di efficienza e competenza quanto come prova di efficacia ed equità.

Aldilà delle etichette definitorie, il giudizio sull’efficienza compete ai tecnici della

salute, il giudizio sull’efficacia spetta ai malati.

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“L a configurazione morfologica, funzionale e tecnologica dell’ospedale

non è mai riuscita a tenere il passo delle modificazioni di ruolo e

funzioni che per esso via via si andavano definendo. L’ospedale non

può continuare ad essere considerato, in termini edilizi e tecnologici, come un

corpo separato, prodotto di un sapere tecnico e pertanto del tutto autonomo;

identificato come sottosistema del sistema città e di continuo soggetto alle sfide

che vengono dal suo ambiente e dal sistema societario complessivo, dovrebbe

registrarne costantemente e puntualmente le linee di tendenza evolutive.

Questa tesi è confermata dal fatto che la morfologia dell’ospedale è andata nel

tempo continuamente modificandosi, anche se i cambiamenti non sono mai stati

contestuali e delle stessa portata del fenomeno che li ha prodotti”1.

La tesi affermata nel Rapporto Sanità 2000, relativa alla situazione ospedaliera

contemporanea lombarda in particolare, propone un nesso tra società e ospedale

solo all’apparenza in controtendenza rispetto alle articolazioni, spaziali e sociali,

richieste dai continui aggiornamenti scientifici e tecnologici e della diffusa

volontà di introdurre nuove, grandi strutture edilizie aggiornate. La sottende,

non a caso, la volontà di riproporre la centralità della persona, del malato, come

cuore del problema edilizio ospedaliero.

Il far emergere una progressiva “perdita di rapporto tra complessità e dimensione,

fra specializzazione e governo autonomo dei processi di cura, fra territorialità e

distribuzione delle specialità”2 ha lo scopo di evidenziare l’urgenza del recupero

di una funzione sociale dell’ospedale, con efficace termine moderno individuata

come “negoziazione”, intesa come “opzione antidogmatica rispetto al sapere

l’ospeDale tra passato e Futuro: mutamenti morFoloGiCi, rapporto Con il territorio, Centralità Della persona

1 AA. VV., Rapporto Sanità 2000, Documento introduttivo, Mulino, Bologna 2000, p. 30.2 Ivi, p. 38.

introDuzione

di maria

antonietta Crip

pa

NELLA PAGINA ACCANTO:Azienda Ospedaliera di Circolo Fondazione Macchi di Varese - Particolare del ponte aereo di collegamento tra la nuova struttura architettonica ospe-daliera e il nucleo centrale dei padiglioni originari

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medico basato sulle prove, nella necessità di scelta tra varie opzioni continuamente

presenti in questo sapere, nella capacità di riconoscimento e di accoglienza dei

bisogni di salute della comunità”3.

Nei vari saggi allegati al Rapporto viene comunque riaffermata l’importanza

degli aggiornamenti scientifici e tecnologici, di una programmazione capace di

continua riorganizzazione funzionale che esige anche una stretta collaborazione

tra committenza, progettista e impresa, di un coinvolgimento nel progetto futuro

del patrimonio edilizio ospedaliero già esistente in quanto risorsa storico-culturale

capace di trattenere dal ricorrere alla “scorciatoia” della edificazione ex-novo.

Benché il Rapporto sia steso da medici ed esperti del settore non da architetti, offre

tuttavia uno stimolo importante a questi ultimi. Solo all’apparenza la tesi dei primi

cancella il valore dell’architettura volatilizzandone, in una mutevolezza continua,

la morfologia specifica per l’ospedale, sottoposta a continue trasformazioni dalla

fine del XVIII secolo in poi. In realtà tale tesi incide sul compito proprio, peculiare,

di ogni architettura, costruzione attorno a un “arché”, principio originario che pare

coralmente inafferrabile, per qualcuno persino indicibile a parole ma fisicamente

percepibile “in situazione”, in quanto, tramite essa, si è abitanti di un pianeta e di

una terra, di una città, di una casa, di una scuola, di un ospedale. Il Rapporto evoca

la necessità inderogabile di fare dell’ospedale un luogo abitabile, ricco del vissuto

di una società plurale e dinamica, non semplicemente uno spazio razionalmente

funzionante.

Da sempre l’uomo costruisce l’architettura utilizzando materiali che trova in

natura o che ha elaborato a partire da componenti naturali. Da sempre chiude su

se stesso una porzione di spazio, la isola, la collega allo spazio esterno illimitato

3 Ivi, p. 37.

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attraverso soglie, per il passaggio del corpo e per quello del solo sguardo.

Costruisce la propria casa, da sempre, incardinandola nella terra sotto il cielo.

La collega ad altre case, con funzioni collettive analoghe alla sua o di tipo e di

scala d’uso comune maggiore, fino a configurare una città, dotata di gerarchie e

interne specializzazioni spaziali, dove più uomini vivono secondo regole condivise.

La città, a sua volta, è un luogo che viene colto come fattore costitutivo della

realtà, è scena e condizione d’ordine imprescindibile del vivere comune, ma

anche articolazione di spazi chiusi e aperti che consentono le espressioni di vita

individuale e associata, decise dai diversi nuclei sociali in rapporto alle loro

concezioni del vivere. Ogni luogo inoltre, così come lo si sperimenta vivendoci, è

una realtà fisica complessa, ogni volta percepita come fenomeno unitario, sintesi

di natura e artificio, di realtà precedenti gli interventi umani e di operazioni

costruttive e d’ordine di molti uomini, operazioni non istantanee ma stratificate

nel tempo, benché d’uso istantaneo ogni volta nelle componenti fondamentali. è

uno degli aspetti fondamentali della realtà, ma è anche oggetto di costruzione

da parte dell’uomo; è “arché”, o principio originario, fisicamente percepibile da

ognuno “in situazione” in quanto abitante, che accomuna i progettisti, siano essi

architetti o ingegneri con qualunque specializzazione, imprenditori del campo,

politici, abitanti, senza distinzione.

Pratiche e saperi intrecciano da sempre attorno all’abitare e al costruire i fili

d’oro di una saggezza, sintetica e ordinata. Accade talora che tali fili divengano

grovigli complicati da dipanare. In questi ha pescato il Rapporto Sanità 2000,

da questi ha estratto una tesi guida come presupposto di scelte da determinare

concretamente, caso per caso. Il nesso, non meccanico, dell’ospedale con la città;

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il rapporto di continuità tra architetture preesistenti, spesso di grande qualità

o artistiche, e nuovi complessi ospedalieri; l’attenzione alla persona, riferimento

centrale del sistema ospedaliero a ogni scala, sono i fattori principali della tesi

del Rapporto, che non trascura tuttavia il fatto che il progettista e le direzioni

ospedaliere dovranno misurarsi anche con altri problemi, di non lieve portata,

come la valutazione dei modi di gestione delle risorse finanziarie a disposizione,

pubbliche o private, la razionalità complessiva di un sistema ospedaliero flessibile,

gli orientamenti politici e amministrativi.

I due fattori principali che hanno dato luogo nel corso dei secoli alla costruzione

degli ospedali sono stati la necessità di isolare le persone affette da malattie

contagiose e la volontà di assistere caritatevolmente quelle ridotte da povertà

e malattia in condizioni di non autonomia. Malattia e morte, in realtà, sono da

sempre momenti importanti nella vita di famiglie e comunità; anche il medico

è stato a lungo strettamente legato al tessuto sociale primario; per questo da

sempre il più normale luogo di cura delle prime, come di assistenza alla seconda,

oltre che fino a tempi recenti anche del parto, è la casa.

Sono rare le notizie sugli ospedali nel periodo che precede l’avvento del

cristianesimo. Le informazioni diventano più precise lungo l’intero arco del

Medioevo, quando, in tutta l’Europa oltre che nella penisola italiana, si diffusero,

nelle città, nei borghi e nelle campagne, ospedali collegati ai monasteri e ai

conventi o retti da confraternite di laici, che ricalcavano l’attività caritatevole

monastica, per assistere indistintamente poveri, pellegrini e malati. La carità

fiorì a partire da iniziative ecclesiastiche e dall’attività monastica; fondamentale

e di lunga durata fu il rapporto tra ospedali e vescovi; attivo in più modi fu anche

Il Nuovo Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo

Page 23: L' Architettura della  salute prima parte

13

il papato. Ogni città aveva più hospitalia di piccole e medie dimensioni, dedicati

alla carità nei confronti degli strati di popolazione che vivevano in estrema

povertà, totalmente indifesi nell’affrontare carestie ed epidemie. Normalmente in

essi, sempre governati da comunità religiose, si soccorrevano i bisogni più urgenti

dei poveri, dei malati, dei pellegrini, dei bambini, anche di frati e monache se

l’hospitale era connesso o interno a un monastero. Vi erano comunque prevalenti

i servizi di ricovero e di distribuzione delle elemosine rispetto alla cura medica.

Sorsero tuttavia anche ospedali specializzati, come i lazzaretti, per malati di

peste e di lebbra.

Nell’area padana la maggior fioritura di ospedali nel Medioevo si ebbe tra XII

e XIII secolo, nell’epoca dei liberi Comuni e con l’affermarsi della disponibilità

dei laici per l’attività caritativa. Si trattò della convergenza, in molti, di una

vissuta religiosità quotidiana con un senso di civile impegno per la comunità

di appartenenza. Il fenomeno assunse rapidamente dimensioni notevoli, fu

contrassegnato anche da conflitti tra laici e istituzioni ecclesiastiche e diede

spazio crescente all’affermarsi di attenzioni sanitarie e terapeutiche4.

In questo stesso arco temporale il complesso edilizio ospedaliero di area

mediterranea ebbe normalmente forma di un insieme di spazi di sevizio, tra i

quali predominava la grande sala di degenza, gravitanti su un chiostro o cortile.

Il piano terreno era porticato; se era presente un primo piano, esso era dotato di

loggia per la sosta dei convalescenti. Non mancava mai la chiesa o la cappella. Il

primo, completo piano di questo tipo è quello del celebre monastero benedettino

di San Gallo del IX secolo, dove sono ben leggibili la chiesa dell’ospedale e

l’infirmarium, organizzato attorno ad un piccolo chiostro composto da sale, alcune

4 Sull’argomento si veda in particolare: G. Albini, Città e ospedali nella Lombardia medievale, Clueb, Bologna 1993.

Page 24: L' Architettura della  salute prima parte

14

delle quali di degenza, su tre lati e chiuso, sul quarto, dal fianco della chiesa. Lo

completava un “giardino dei semplici” per la produzione delle spezie curative.

Nel nord dell’Europa si sviluppò anche una tipologia ospedaliera isolata, composta

da una sola grande sala di degenza, costruita a più navate e conclusa con uno

spazio dedicato all’altare, come negli hôtels-Dieu francesi.

Gli hospitalia, annessi ai conventi o collocati presso le porte delle città, divennero

luoghi di convergenza di una vasta rete di fraternità cui partecipavano nobili, ceto

mercantile e membri del governo urbano. A Milano in particolare, sottolineano gli

storici, si sviluppò una diffusa vocazione solidaristica che spinse al superamento

della natura prevalentemente elemosiniera degli hospitalia, per affermare

un insieme di istituzioni che differenziava gli ospedali dai ricoveri dagli enti

elemosinieri. Si strutturò dunque un sistema di carità differenziata e largamente

condivisa, nel quale crebbe presto di importanza l’ospedale. All’inizio del Trecento

erano molto attivi in Milano, tra gli altri, l’ospedale del Brolo nei pressi del

Verziere, regolato dal 1168 dagli statuti emanati dal vescovo Galdino; quelli di

Donna Bona, di Sant’Ambrogio, di San Simpliciano, di San Dionigi, voluto dal

celebre vescovo Ariberto d’Intimiano.

Con l’accrescersi delle dimensioni degli hospitalia, le sale di degenza divennero

parallelepipedi molto allungati formanti lunghe corsie; di questo tipo erano

ancora nel Quattrocento le costruzioni ospedaliere romane. In area lombarda,

invece, all’insorgere di problemi di igiene, di razionalizzazione delle strutture, di

amministrazione, di gestione finanziaria dei beni accumulati, di attenzione laica

seppur con fondamento religioso, si attivò una riforma ospedaliera coincidente con

un importante rinnovamento architettonico. Tale rinnovamento, esploso nell’Italia

Page 25: L' Architettura della  salute prima parte

15

centro settentrionale con epicentro in Milano, si manifestò nella costruzione di

nuovi “ospedali grandi” o “maggiori”.

La storia dell’architettura, italiana e lombarda ma con echi rilevanti in tutto

l’Occidente, è profondamente segnata dall’eccezionale e celebre esperienza

ospedaliera capostipite di tale innovazione, l’esperienza della Ca’ Granda,

l’Ospedale Maggiore di Milano di matrice filaretiana, oggi sede centrale

dell’Università degli Studi di Milano. Nei primi due secoli della sua costruzione,

grazie alla genialità del suo ideatore Antonio Averulino detto il Filarete, videro

la luce anche soluzioni innovative risolutrici di fondamentali esigenze di igiene.

Contemporaneamente, le disposizioni amministrative e gestionali dell’arcivescovo

milanese Enrico Rampini diedero luogo al passaggio dell’ospedale da luogo pio

soprattutto per poveri pellegrini, a sede di cura per i malati.

Un cambiamento radicale dell’assetto maturato nel Quattrocento, sia sotto il

profilo architettonico che relativamente all’attività medica in tutti i suoi aspetti,

fortemente evoluta nel corso dei secoli successivi, ebbe avvio, come ricorda Catananti,

dalla forza di “fatto storico” del dibattito avvenuto all’interno dell’Accademia delle

scienze di Parigi, dopo l’incendio dell’Hôtel-Dieu della città nel 1772, dibattito

dal quale “emerse un metodo di studio che può essere considerato l’antesignano

degli odierni ‘studi di fattibilità’”. In quell’ambito “Lasson, Daubenton, Tenon,

Ospedale Maggiore di Milano Facciata dell’edificio rinascimentale verso via Festa del Perdono, 1866 circa

Page 26: L' Architettura della  salute prima parte

16

Bailly, Lavoisier, La Place, Coulomb, D’Arcet e Condorcet, eminenti scienziati

(chimici, fisici, medici, matematici) cui toccò quell’esaltante compito” seppero

configurare una nuova mentalità, al punto che: “Scorrere gli atti elaborati da

quel gruppo ‘multidisciplinare’ di teste pensanti è ancora oggi una lezione di

metodo di affascinante attualità”. Dopo di allora, infatti, la medicina ospedaliera

prese una nuova strada, che divenne del tutto evidente dalla fine dell’Ottocento

in poi; in essa: “L’attenzione fu quindi rivolta non solo all’organismo edilizio ma

anche alla disciplina giuridica e organizzativa che doveva disciplinare la vita

interna dell’Ospedale”5. Catananti innesta, su tale moderno scatto di razionale

prefigurazione dei processi costruttivi, la necessità esplicita, da quel momento in

poi, di una “fattibilità” programmata nell’innovazione ospedaliera.

Tra XVIII e XIX secolo, con lo sviluppo della medicina scientifica e l’attivazione del

metodo sperimentale per diagnosi e terapia, l’ospedale divenne sede per la cura

delle malattie infettive e chirurgiche; il medico mirò sempre più a collegarsi a esso

in modo costante per avere a disposizione la più ampia casistica possibile delle

malattie e l’indispensabile concentrazione di competenze con cui confrontarsi.

Tale nuova situazione diede luogo ad un rapporto di contiguità tra Ospedale e

Università, anche perché l’autorevolezza scientifica di quest’ultima si fissò in

stretta relazione con le indagini rese possibili dalle nuove tecnologie a supporto

delle diagnosi e delle cure mediche.

Sono state le innovazioni tecnologiche costruttive, all’inizio del XX secolo e

a partire dagli Stati Uniti d’America, a consentire il passaggio dall’ospedale a

padiglioni distinti, affermatosi nel secolo precedente a quello a monoblocco,

a grande sviluppo verticale, adattato in Europa, ma soprattutto in Italia, ad

5 C. Catananti, Esiste un modello ideale?, “Salute e territorio”, n. 131, 2002.

Page 27: L' Architettura della  salute prima parte

17

articolazioni in più blocchi non eccessivamente alti. La diffusione in Europa, tra

le malattie infettive, della tubercolosi, diede anche luogo al grande sviluppo dei

complessi sanatoriali.

Nella seconda metà del secolo XX, il quadro delle esigenze ospedaliere cambiò

radicalmente, ancora una volta, a causa dell’enorme sviluppo della tecnologia

diagnostica in campo chimico-analitico e radiologico e della produzione di farmaci

risolutivi, come quelli antibiotici o cortisonici. A partire dagli anni Ottanta si

accelerò lo sviluppo scientifico e organizzativo di discipline mediche specialistiche,

che comportarono articolazioni organizzative e curricolari autonome. Nel decennio

successivo si diffusero tecnologie diagnostiche di alta sofisticazione nei settori

radiologico, elettrofisiologico, chimico-analitico.

Rapidamente gli ospedali esistenti si differenziarono per tipi di cure, tramite

combinazioni in dipendenza dalle opzioni di cultura e di gestione dei gruppi

dirigenti. Il mondo della medicina si trovò pertanto ad affrontare un conflitto

tra l’esigenza di continuità di cura dell’ammalato e necessità di operare in

contesti ad alto contenuto tecnologico e altamente specializzati. Diventava

fondamentale inoltre il nesso tra funzionamento dell’ospedale e sua integrazione

con il territorio.

Nella legislazione italiana come anche in quella di altri paesi europei, infine,

l’innovazione più rilevante di questa fase è stata il processo di trasformazione

dell’ospedale in Azienda, secondo un senso non del tutto coincidente con quello di

impresa. L’intreccio dei molti fattori di novità qui riferiti in estrema sintesi evocò

la necessità di nuova attenzione all’edilizia ospedaliera.

“L’edilizia sanitaria è un campo da esperti, ma esiste anche l’‘architettura’;

Ospedale Niguarda Progetto Blocco Nord

Page 28: L' Architettura della  salute prima parte

18

questa variabile, soffocata per anni dalle esigenze economiche e, come si usa

dire, tecnologiche, è tornata in primo piano, si è parlato di modello distributivo,

organizzativo, ma anche di immagine, di ambiente, di qualità degli spazi,

sottolineando scelte di carattere progettuale e spaziale. La Commissione

ministeriale ha lavorato per 5 mesi, un tempo troppo breve per poter porre in essere

un programma di ricerca e di approfondimento tematico sull’edilizia ospedaliera,

ma abbastanza per muovere le acque stagnanti del settore e alimentare un

dibattito”6: queste riflessioni, elaborate nel 2002 sullo stato di fatto dell’edilizia

ospedaliera italiana, aprivano vive speranze di risveglio nella direzione di progetti

di qualità, collegandola alle proposte elaborate da una Commissione ministeriale,

dell’anno precedente e di breve durata, qualificata dalla presidenza del medico e

ex-ministro Umberto Veronesi e dal coordinamento dell’arch. Renzo Piano.

Si riconosceva anche una “innegabile” mancanza sostanziale di “attenzione alla

qualità progettuale, distributiva e compositiva” dell’attività edilizia italiana in

questo settore precisando che “si sono utilizzate come riferimento le realizzazioni

di altri paesi europei”. Si concludeva che, finalmente, in quella sede, erano stati

affrontati problemi del tutto trascurati da anni, quali: il rapporto territoriale e

sociale tra città e ospedale, l’identificazione delle dimensioni indispensabili per

aree di nuovo intervento di cui vanno preventivamente ipotizzati i parametri

dimensionali; l’indispensabile identificazione orientativa della tipologia edilizia e

le sue connessioni con le indispensabili dotazioni di aree tecnologiche complesse.

Prendeva così corpo il nuovo slancio costruttivo, in cui Regione Lombardia si

trova attualmente impegnata.

6 R. Bucci, Un nuovo modello di ospedale, “Salute e territorio”, n. 131, 2002.

Page 29: L' Architettura della  salute prima parte

19

Se considerato globalmente, il Sistema regionale costituito in Lombardia con

la legge 30/2006 all. A1, possiede nel territorio il più grande complesso di

beni culturali mobili, dopo quello della Chiesa cattolica, che sia caratteriz-

zato da continuità di storia e di identità, talvolta a partire dal tardo Medioevo; gli

stessi importantissimi musei comunali lombardi sono nati infatti in larga misura

a partire dal XIX secolo, mentre la componente di più antica origine del sistema

regionale - cioè l’insieme degli enti ospedalieri pubblici - ha in proprietà un patri-

monio architettonico, artistico, storico e scientifico, che testimonia concretamente

il permanere nei secoli dei valori di solidarietà, impegno e generosità della società

lombarda nel perseguire scopi assistenziali e di cura di interesse generale.

Il patrimonio degli enti assistenziali e sanitari, acquisito nei secoli grazie a dona-

zioni di contenuto anche artistico e storico, costituisce dunque testimonianza pre-

ziosa di un valore assai attuale: l’esigenza che la cura non sia destinata soltanto

al corpo degli ammalati, ma alle persone sofferenti come tali, con il loro inesausto

desiderio di bene e di bello, al cui soddisfacimento, sia pure parziale, l’arte non

può restare estranea, come non lo fu nel passato.

Non a caso da molti secoli costruire le sedi, più o meno complesse, dei luoghi di cura

è stata - particolarmente in Lombardia - una sfida di innovazione e ricerca di una

bellezza accogliente, non separata da un concetto di funzionalità adeguato ai tempi;

e questo è un impegno che le più raffinate esigenze tecnologiche e scientifiche di oggi

non possono farci dismettere, proprio mentre in questa regione si tenta di dare rispo-

ste innovative all’originario e umanissimo bisogno di salute e serenità.

Mentre questo volume tratteggia, per la prima volta, un sintetico ma avvincente

profilo storico dell’architettura degli ospedali lombardi nei secoli, si deve purtrop-

1 Cfr. allegato “A” alla legge regionale 30/2006 riprodotto in: C. Ruggiu, Enti regionale: ragioni e esiti di una riforma, in: “Confronti”, 2008, fasc. n. 1, pp. 127-134.

di pietro petra

roia

arte e storia nei luoGHi Della Cura: un patrimonio Da valorizzare

Page 30: L' Architettura della  salute prima parte

20

po riconoscere che non si dispone ad oggi di un inventario unificato - neppure

meramente patrimoniale - dei numerosissimi beni artistici del Sistema regiona-

le, se non altro perché esso è di recentissima costituzione. E poi, come avviene

ancor oggi per molti enti pubblici, neppure i singoli enti del Sistema dispongono

sempre di una catalogazione scientifica di tale patrimonio, sicché sembrerebbe

quasi impossibile attivare fin da ora quelle forme di sinergia e di qualificazione

dei processi gestionali e anzitutto di salvaguardia che, pure, sono non soltanto

opportuni, ma anzi obbligatori, in attuazione del Codice dei Beni culturali e del

Paesaggio e in vigenza di un regime sanzionatorio severo: basti considerare che

il Codice Penale prevede persino la reclusione per chi danneggi i beni culturali

pubblici (art. 733); e ben sappiamo quanti danni possano derivare proprio dalla

mancata manutenzione e – prima ancora – dal mancato riconoscimento dei beni

stessi nel loro effettivo valore.

è apparso dunque urgente alla Giunta regionale avviare, nella logica della sussi-

diarietà, un processo partecipato di riconoscimento e valorizzazione del patrimo-

nio artistico regionale, che - senza accentrare responsabilità e decisioni in termini

che avrebbero potuto produrre addirittura deresponsabilizzazione nei singoli enti

- punti a sviluppare un’azione di accompagnamento e controllo, che orienti cia-

scun ente secondo principi di “sistema”, partendo dalla consapevolezza che presso

la grande maggioranza degli enti stessi non vi è oggi - e difficilmente potrà esservi

in futuro - personale professionalmente competente per lo studio scientifico e la

valorizzazione del patrimonio artistico e storico ereditato dal passato2. Si tratta

in pratica di lanciare e sostenere nel tempo un programma di inventariazione, ca-

talogazione e definizione di più appropriate modalità di conservazione e fruizione

2 Sulla problematica cfr.: A. Tocci, Beni artistici e culturali degli enti del Sistema regionale: un patri-monio da ri-conoscere, in: “Confronti”, 2007, fasc. n. 3, pp. 52-60.

Page 31: L' Architettura della  salute prima parte

21

pubblica del patrimonio artistico e storico degli enti regionali, a partire da quelli

sanitari pubblici; insomma, abilitare progressivamente tutti gli enti del Sistema

regionale a gestire adeguati servizi e iniziative di valorizzazione del patrimonio

culturale posseduto.

Naturalmente non va dimenticato che alcuni enti già da tempo stanno ponendo

in essere iniziative di grande pregio per la valorizzazione del proprio patrimonio

culturale, in particolare il Policlinico di Milano3. Né va trascurato che il rinveni-

mento e un’appropriata valutazione storico-critica ed economica dei beni cultura-

li degli enti regionali potrà compiersi davvero soltanto quando lo studio dei beni

(inclusi quelli di interesse storico scientifico) sarà affiancato sistematicamente

dalla ricerca archivistica e storica e sostenuto da un’autentica passione.

Si tratta di un percorso non facile, che richiede la presa di coscienza del fatto che

la salvaguardia (verrebbe da dire: la cura) della memoria sociale e culturale del

territorio, testimoniata da innumerevoli beni culturali presenti negli enti sanita-

ri, costituisce un servizio primario per il benessere - nel senso letterale, ma anche

comune - di tutti i cittadini, fruitori o meno di servizi sanitari. In questo parti-

colare contesto (dove, comunque, gli organi di amministrazione dei singoli enti

mantengono intatti i loro poteri e le loro responsabilità in ordine alla corretta ge-

stione dei beni culturali anche sotto il profilo patrimoniale) è sembrato opportuno

e urgente attivare in primo luogo figure di “referenti” dei singoli vertici aziendali

del Sistema regionale, che sono stati individuati nel personale dipendente, secon-

do valutazioni proprie dei direttori dei singoli enti4; in secondo luogo, si è voluto

3 Emblematico è il caso dell’Ospedale Maggiore - Policlinico di Milano, il cui patrimonio artistico e sto-rico è stato oggetto di numerose attività di studio ed esposizione, oltre che di pubblicazioni tra le quali: Ospedale Maggiore - Ca’ granda. Ritratti antichi - Ritratti moderni - Collezioni diverse, (3 voll.), Milano, Electa Editrice, 1987 (Musei e Gallerie di Milano).. Da ultimo, si veda: P. M. Galimberti, Il patrimonio di opere d’arte degli ospedali lombardi: il caso della Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, cliniche Mangiagalli e Regina Elena di Milano, in “Confronti”, 2008, fasc. n. 2, pp. 179-189.4 Cfr. al riguardo la nota di Regione Lombardia, prot. A1.2008.0063869 del 03/06/2008

Page 32: L' Architettura della  salute prima parte

22

porre l’insieme dei referenti (e dei loro sostituti) nella condizione di sviluppare

in gruppo le proprie conoscenze sul tema e, se possibile, la condivisione di buone

prassi, man mano che se ne abbia notizia, anche grazie all’iniziativa dei singoli.

In altre parole, si è deciso di puntare alla costituzione di una community inter-

aziendale di referenti, capace di proporre e gestire processi progressivi di inte-

razione e di far crescere in ciascun ente consapevolezza e motivazione nel lavoro

di riconoscimento e gestione virtuosa dei beni culturali, evitando che un compito

percepito come nuovo dai singoli incaricati possa generare sensazione di solitu-

dine nell’affrontarlo o, peggio, faccia sentire di essere sottoposti a responsabilità

per la cui gestione non si dispone di conoscenze e risorse adeguate.

Per accompagnare il Sistema regionale e, in specie, gli enti sanitari nel percorso

indicato, Regione Lombardia ha attuato tre iniziative:

1. percorsi di formazione e di aggiornamento delle persone incaricate in

ciascun ente di fungere da “referente” sul patrimonio culturale di appartenen-

za;

2. pubblicizzazione di apposite “Linee guida” predisposte da un gruppo di

esperti in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività culturali, per

supportare i “referenti” sul patrimonio di interesse artistico e storico nella

gestione delle diverse tipologie di beni, in conformità alle vigenti norme di

tutela;

3. implementazione di un forum telematico riservato ai referenti nominati

dai Direttori generali dei singoli enti; tale forum consente di accedere facil-

mente alle norme, alle informazioni e agli strumenti software individuati per

realizzare l’inventariazione e la catalogazione del proprio patrimonio artistico,

Page 33: L' Architettura della  salute prima parte

23

nonché per supportare le azioni di conservazione, fruizione pubblica, stima

patrimoniale, spostamenti, cessioni o vendite, affidamenti in deposito, prestiti

per mostre, ecc.

L’obiettivo è quello di supportare ciascun Direttore generale dei singoli enti (se-

condo le specifiche situazioni, ma in una cornice metodologica comune) nel gestire

adeguatamente la propria responsabilità in ordine al patrimonio artistico e stori-

co dell’ente, nell’ambito complessivo del Sistema regionale, valorizzando al meglio

le professionalità in esso presenti, ovvero individuando correttamente gli apporti

specialistici di cui necessita. Ai referenti individuati dai Direttori degli enti non

si chiede infatti di improvvisare competenze specialistiche, ma di riconoscere le

problematiche di base e di supportare l’acquisizione di beni e servizi adeguati.

Parallelamente si è realizzato nel 2008, attraverso varie forme di cooperazione

con università e con l’Istituto per la Storia dell’arte lombarda, un lavoro di rico-

gnizione dell’entità, caratteristiche fondamentali e distribuzione territoriale delle

collezioni di tutti gli enti sanitari, più o meno antichi, presenti in Lombardia. Su

questa base, diviene possibile negli anni a venire completare l’inventariazione

dei beni e poi la loro catalogazione scientifica, che, d’altra parte, costituisce la

premessa ineludibile per programmare interventi di conservazione e restauro,

oltre che per organizzare, secondo le specificità delle singole situazioni, iniziative

di promozione della fruizione pubblica nel modo più consapevole possibile.

Page 34: L' Architettura della  salute prima parte

CapitoLo 1 GLI OSPEDALI A CROCIERA DEL QUATTROCENTO

E SUCCESSIVI SVILUPPI FINO ALL’OTTOCENTO

Page 35: L' Architettura della  salute prima parte

25

Prima del Quattrocento: luoghi di ospitalità nella città medievale

L a Lombardia partecipa nel Quattrocento a un generale movimento di rifor-

ma dell’organizzazione ospedaliera, del quale gli ospedali, organizzati attor-

no a grandi infermerie intersecate a croce, rimangono come memoria tangi-

bile, e costituiscono forse il più specifico contributo della regione a un fenomeno

storico di più vasti confini.

Lo sfondo della riforma quattrocentesca è la lunga tradizione caritativa svilup-

patasi nel corso del Medioevo, ispirata al messaggio evangelico e condizionata

dall’evoluzione delle strutture sociali, in una tipica ambivalenza tra istanze e

regole sia ecclesiastiche che laicali.

Come in gran parte d’Italia, anche a Milano e nelle altre città lombarde il con-

solidarsi delle istituzioni comunali, coincidente con un profondo rinnovamento

religioso, diede luogo, soprattutto dall’inizio del secolo XII, a un grande sviluppo

della rete di xenodochi e luoghi pii. La metafora della “rete” di ospedaletti non è

casuale. Essi infatti, rivolti in modo generico al sollievo dei bisognosi, essendo la

malattia uno dei tanti fattori del bisogno, erano ubicati presso monasteri e abbazie

che offrivano ospitalità ed elemosina, o si costituivano abbastanza casualmente nei

luoghi posseduti dal benefattore che fondava la comunità assistenziale, talvolta in

un quadro non chiaro né stabile di regole e statuti, che riflette del resto la ricchezza

del movimento spirituale che promuoveva tali fondazioni. In Lombardia molte di

queste piccole e spontanee comunità ospitaliere sono riconducibili alle prime fasi

del movimento degli Umiliati, e assunsero col tempo diversi assetti regolari.

Di questi ospedaletti, alcuni assumevano una funzione più precisa, e avevano

di stefano della torre

A LATO: Ospedale Maggiore di Milano – Veduta animata del cortile maggiore, 1866 circa

Page 36: L' Architettura della  salute prima parte

26

quindi una più riconoscibile collocazione all’interno del disegno urbano. Si allude

a quegli ospedali collocati sulle strade di accesso alla città, che dovevano non

soltanto ricoverare i viandanti, ma anche esercitare su di loro un controllo al fine

di prevenire l’ingresso in città di malattie contagiose, a partire dalla lebbra. Ri-

corrente è quindi la collocazione degli ospedali dedicata a San Lazzaro fuori delle

città, di solito verso Oriente o comunque sul percorso d’accesso più frequentato.

Date le loro dimensioni, fisiche e organizzative, tendenzialmente piccole, rara-

mente gli ospedaletti medievali diedero luogo a strutture architettoniche notevoli

e tipologicamente originali. Soltanto una ampia ricognizione può riconoscere le

prime manifestazioni di quelli che sarebbero stati gli elementi fondativi della

invenzione quattrocentesca dell’ospedale a crociera. In alcuni grandi ospedali, tra

cui gli esempi più noti sono quelli di S. Maria della Scala a Siena (dove questa

infermeria prende il nome di “pellegrinaio”) e di S. Maria Nuova a Firenze, si

ritrovano grandissimi corridoi destinati all’accoglienza, arredati con letti, spesso

anche dotati di un altare per le celebrazioni destinate agli infermi. Di solito si ri-

tiene che la matrice di questi spazi sia da ricercare nella tradizione dell’architet-

tura monastica; ma certamente è attraverso la mediazione degli ospedali urbani

che essa giunse ai progetti lombardi del Quattrocento.

La riforma amministrativa

La riforma quattrocentesca consiste prima di tutto in un riordino amministrativo

che vede l’istituzione laicale farsi protagonista e garante dell’assistenza. Questo

avvenne attraverso una energica azione di concentrazione delle rendite in una

unica organizzazione amministrata di regola da un collegio elettivo espressione

Page 37: L' Architettura della  salute prima parte

27

della municipalità. Il profondo radicamento del precetto della carità nelle coscien-

ze aveva infatti garantito alle fondazioni ospedaliere un generoso sostegno da

parte delle popolazioni. Ogni piccolo ospedale aveva quindi ereditato piccoli e

grandi possedimenti fondiari, la cui amministrazione era però spesso divenuta

appannaggio dei ministri, e perfino di singole famiglie attraverso l’istituto del

giuspatronato. Le motivazioni addotte per la concentrazione delle rendite denun-

ciano lo stato critico in cui versava l’assistenza, la pratica amministrativa spesso

ai confini dello sfruttamento, le malversazioni, a volte il venir meno dell’erogazio-

ne caritativa.

Quindi, facendo riferimento all’esperienza di altre città italiane, anche nelle città

lombarde si promosse questa opera di moralizzazione e riforma dell’assistenza.

La vicenda milanese ha un sapore tutto particolare, che ne fa un paradigma chia-

rissimo. Essa fu infatti promossa dall’arcivescovo Enrico Rampini nel 1448: è dun-

que l’autorità religiosa che avvia il processo che si concluderà con il sostanziale

passaggio da un modello fondato su istituti in realtà misti, ecclesiatico-laicali, ma

almeno come facciata prevalentemente religiosi, a un modello decisamente laico,

in cui l’amministrazione concentrata spetta alla civitas. è significativo che l’ini-

ziativa dell’arcivescovo Rampini si collochi in quel breve periodo, tra la cacciata

dei Visconti e il ritorno del principato con Francesco Sforza, in cui Milano sembrò

ritornare alle forme e allo spirito glorioso dei comuni attraverso il tentativo della

Repubblica Ambrosiana. L’atto arcivescovile in effetti diede forma e sanzione ad

alcune iniziative cittadine di riordino della materia, attuate tra il 1445 e il 1447.

Non si trattava ancora dell’esproprio delle rendite, ma della nomina, attraverso

un meccanismo cui contribuivano i ministri, il Comune e il Vescovo stesso, di una

Page 38: L' Architettura della  salute prima parte

28

commissione di cittadini, rinnovata annualmente, chiamata a sovrintendere alla

distribuzione delle rendite. Veniva fissato un tetto al prelievo da parte dei ministri

degli ospedaletti, mentre si imponeva un preciso modello anche per l’ordinaria am-

ministrazione dei beni. La commissione poi rendeva conto periodicamente all’arci-

vescovo. La riforma rampiniana fu approvata da papa Nicolò V nello stesso 1448.

L’avvento di Francesco Sforza come signore di Milano vide un primo periodo di

conflitto, in quanto il nuovo signore dimostrò da subito grande attenzione al tema,

procedendo alla concentrazione degli ospedali in altre città, mentre in Milano

cercò di sostituire alla commissione di nomina vescovile un organismo di nomi-

na ducale. Nel 1456 lo Sforza fondò l’Ospedale Maggiore, e nel 1458 i beni degli

ospedaletti furono concentrati, con l’accordo dell’arcivescovo e la benedizione di

papa Pio II.

L’ospedale a crociera nelle città lombarde

Le bolle di fondazione degli ospedali maggiori ripetono, con poche varianti, un

formulario in cui si afferma che l’ospedale maggiore delle singole città sarebbe

stato “unum, novum, amplum et generale”. Un programma politico, che era imme-

diato tradurre in un programma architettonico. L’ospedale nato dalla riforma non

poteva avere la forma casuale data dalle successive aggregazioni degli ospedali

tradizionali, ma doveva simboleggiare anche attraverso l’impianto, la forma e le

dimensioni la sua carica di novità. Questo fu il primo punto del programma ar-

chitettonico: avviare la costruzione di un edificio imponente del tutto fuori scala

rispetto al tessuto urbano, la Ca’ Granda, il cui nomignolo nasconde la saggia

comprensione popolare del programma politico sotteso all’architettura.

Page 39: L' Architettura della  salute prima parte

29

L’ospedale della capitale del Ducato è naturalmente il punto focale e il riferimen-

to di una fenomenologia che spazia per tutta l’alta Italia, e vede il modello sfor-

zesco al centro dell’interesse fino almeno all’età neoclassica. Il grande interesse

dell’ospedale milanese, oggi sede dell’Università degli Studi grazie a una serie di

restauri novecenteschi che a loro volta sono una pagina fondamentale nella storia

dell’architettura italiana, sta nel fatto che in esso la tradizione tipologica delle

grandi infermerie trova una forma compiuta, dalle ricchissime valenze simboli-

che e pratiche, ponendosi anche come riferimento di un simultaneo aggiornamen-

to condiviso da una regione allargata oltre i confini del ducato, e ponendosi come

riferimento in assoluto, quasi una icona dell’architettura ospedaliera universal-

mente riconosciuta.

Proprio questi valori molteplici hanno focalizzato sull’ospedale milanese, in rela-

zione con gli altri esempi coevi (Brescia, Pavia, Mantova, Cremona, Lodi, Como,

Piacenza…), una grande attenzione degli studiosi, con una molteplicità di propo-

ste interpretative.

Molti sono i punti fermi della storia, a partire dall’intervento dell’architetto e

scultore fiorentino Antonio Averlino detto il Filarete (1400 – 1469), che nel suo

trattato di architettura descrisse l’ospedale milanese sotto forma di ospedale del-

la città ideale di Sforzinda. Il celebre schema filaretiano vede l’ospedale costituito

da due nuclei quadrati, uno per i maschi, l’altro per le femmine, separati da un

cortile bislungo con al centro la chiesa a pianta centrale; ciascuno dei quadrati

contiene una croce, costituita dalle grandi infermerie, che forma quattro cortili

minori. Collocato ai margini della cerchia dei navigli, l’edificio sfruttava le acque

correnti, attraverso un ingegnoso sistema di derivazione e mandata, per dotare

Page 40: L' Architettura della  salute prima parte
Page 41: L' Architettura della  salute prima parte

31

le infermerie di latrine collocate in appositi spazi sui lati delle stesse. Anche per

questa pionieristica attenzione agli aspetti igienici l’ospedale milanese costitui-

sce una pietra miliare nella storia dell’architettura ospedaliera.

L’edizione critica del trattato filaretiano edita nel 1972 a cura di Liliana Grassi, figu-

ra di spicco tra quanti hanno contribuito ai restauri della Ca’ Granda, fu una acqui-

sizione fondamentale, in quanto la studiosa aveva modo di riscontrare sulle evidenze

materiali le affermazioni del sedicente progettista. L’interesse degli studiosi ne è sta-

to ulteriormente sollecitato. Negli anni successivi, infatti, molte osservazioni e molte

ipotesi sono state fatte per capire più a fondo la genesi della Ca’ Granda.

In particolare è parsa intrigante, nello scenario culturale di un Rinascimento agli

albori, la questione del rapporto tra Milano e Firenze. L’origine toscana del Fila-

rete, i molti riferimenti agli ospedali di Firenze e Siena nella genesi degli ospedali

lombardi, i documentati contatti tra Galeazzo e Cosimo de’ Medici, addirittura un

viaggio di studio di Filarete in patria proprio per studiare gli ospedali: tutti questi

argomenti hanno spinto a ipotizzare che da Firenze giungessero indicazioni ancor

più precise, tali da far interpretare la razionale organizzazione degli spazi nel

progetto milanese come un portato di cultura albertiana, secondo alcuni mediata

da Bernardo Rossellino in quanto architetto di Nicolò V, il Papa che con le sue

bolle veniva benedicendo le fondazioni degli ospedali lombardi.

Tali suggestive ipotesi hanno comunque il valore di sottolineare l’eccezionalità

del sistema degli ospedali lombardi quattrocenteschi, che nel loro insieme rappre-

sentano un evento di grande rilevanza. Tuttavia un esame dei dati storici certi

induce a proporre interpretazioni più caute, seguendo una lectio facilior che nulla

toglie all’esemplarità fiorentina e alla volontà innovatrice affidata al linguaggio

NELLA PAGINA ACCANTO:

Ospedale Maggiore d

i Mila

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Cortile m

aggiore con l’o

rologio,1925 cir

ca

Page 42: L' Architettura della  salute prima parte

32

aggiornato di Filarete. Risulta infatti certo che i precedenti di Siena, Firenze

e Brescia, cui i deputati milanesi guardarono, non presentavano strutture cru-

ciformi, ma soltanto, e non era certo poco, i grandi pellegrinai divenuti ormai

consolidati riferimenti tipologici. Quello che Filarete sicuramente trovò e imitò

nel S. Maria Nuova di Firenze è l’ampiezza dell’infermeria, quel modulo di sedici

braccia che costituisce il primo passo verso la definizione del progetto.

La discussione potrebbe rimanere aperta, mancando ancora molti elementi cono-

scitivi che sarebbero necessari per meglio valutare gli intrecci tra i quasi coevi

cantieri ducali degli ospedali di Pavia (prima pietra 1449), Cremona (dal 1451,

realizzando una struttura a T in un perimetro irregolare) e Milano (in cantiere

dal 1456, ma con una serie di antefatti) e il cantiere dell’ospedale di S. Leonardo

a Mantova (dal 1449), per il quale molti nomi di artisti toscani sono stati proposti

su base più stilistica che documentaria. Si potrebbe anche pensare, e non sarebbe

deludente, a un processo quasi corale, per successive approssimazioni tra cantieri

tutti seguiti molto da vicino dalla corte sforzesca, in cui Milano rappresenti il

frutto più ambizioso e maturo, quello che richiese un ulteriore scatto inventivo e

l’innovazione tecnologica. Del resto la cifra stilistica rinascimentale, “all’antica”,

sarebbe stata ben più marcata se si fosse proseguito il partito avviato nel cortile

oggi detto della Farmacia, e rimesso in luce nei restauri, con il portico a pianter-

reno e superiormente una teoria di archi su pilastri a collegare i contrafforti in

un’immagine fortemente evocativa di modelli romani antichi, o forse anche alber-

tiani. Ma il progetto filaretiano fu abbandonato in corso d’opera a favore di portici

sovrapposti meglio accetti al gusto locale.

La straordinaria invenzione “lombarda” si colloca però non sul piano dei detta-

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33

gli, ma su quello dell’organizzazione spaziale, e consiste nell’aver organizzato i

lunghi spazi dei “pellegrinai” in forma di croce greca, enfatizzando come snodi

spaziali pregnanti quegli incroci che prima di allora, se ve ne furono, erano sta-

ti degli accidenti in processi di crescita disorganica e utilitaristica. L’inscrizione

delle infermerie in una cornice quadrata, che dà luogo ai quattro cortili a loro

volta quadrati, perfeziona l’edificio come emblematico di un approccio razionale,

matematico alla organizzazione dello spazio. Che questo razionalismo possa esse-

re esclusivamente di radice albertiana, e non possa avere una componente nella

tradizione lombarda è un pregiudizio comprensibile, che forse però sottovaluta

la cultura del tardo gotico lombardo. Sarebbe comunque sorprendente che una

invenzione nata alla corte medicea o imposta dalla corte papale desse frutto sol-

tanto in Lombardia, in termini di così alta concentrazione spaziale e temporale.

Altre suggestioni sono legate all’archetipo della croce greca e alla sorprenden-

te analogia tra il disegno filaretiano e una serie di lontani precedenti orienta-

li. Anche queste osservazioni contribuiscono a dimostrare la qualità altissima

dell’invenzione di questa architettura, proprio per la molteplicità dei riferimenti

culturali che i suoi progettisti hanno saputo distillarvi. Che poi la croce in sé as-

sumesse un valore simbolico altissimo in senso cristiano è fuori di dubbio, e si può

aggiungere soltanto che questo poteva avere un peso particolare nel quadro di un

processo di laicizzazione voluto dalle stesse gerarchie ecclesiastiche.

Il successo del tipo nelle altre città del Ducato fu immediato: si devono ancora

citare Lodi, dove la prima pietra fu posta nel 1459, e Como, dove l’avvio effettivo

dei lavori tardò fino al 1481. In questi casi, peraltro, la costruzione assunse gli

elementi fondamentali del nuovo tipo senza portarlo a perfezione: il cortile deco-

Page 44: L' Architettura della  salute prima parte

34

rato fu soltanto uno, a Como il progetto prevedeva soltanto tre bracci di croce. Del

resto lo schema a T si configura come una variante non casuale della tipologia a

crociera, presente in numerosi casi, e prevista dallo stesso Filarete per la crociera

delle donne. L’ospedale di Como, dedicato a Sant’Anna, è anche l’unico, che si sap-

pia, ad aver riproposto il sistema delle latrine laterali distintivo delle infermerie

milanesi: il che dimostra che il progetto era perfettamente informato, e che una

certa flessibilità e adattabilità era proprio una delle apprezzabili caratteristiche

di questa invenzione tipologica.

La fortuna dell’ospedale a crociera è dimostrata da numerose realizzazioni in

area padana: qui possono soltanto essere citati gli ospedali di Bergamo, Piacenza,

Parma, Novara… la cui realizzazione fu avviata ancora entro il Quattrocento.

Ma ancora nei secoli seguenti, quando il tipo cominciava ad avere riscontri nella

trattatistica, varie realizzazioni in Italia settentrionale dimostrano la persisten-

za del tipo e il suo successo: si possono citare ad esempio l’ospedale di Vercelli,

costruito a partire dal secondo Cinquecento, il monumentale S. Giovanni Battista

di Torino, costruito a partire dal 1680 su progetto di Amedeo di Castellamonte, il

più tardo Ospedale degli Infermi di Faenza, fondato nel 1752 su progetto di G.B.

Campidori, o ancora la pianta a T dell’ospedale di Treviglio del Segré (1786).

L’elenco potrebbe essere ancora più lungo e articolato, comprendendo alcuni

esempi più remoti, ad esempio spagnoli, che non smentiscono la primaria perti-

nenza padana di questa ampia filiazione tipologica. Sembra però più interessante

accennare, in chiusura, alla problematica della “tenuta” degli ospedali a crociera

nei secoli seguenti. Le grandi infermerie erano nate per il ricovero indifferenziato,

pur consentendo qualche suddivisione dei malati nei diversi bracci in funzione

Page 45: L' Architettura della  salute prima parte

35

delle esigenze curative e organizzative; ma sempre più sentito si fece il bisogno

di spazi più specializzati e separati, corrispondenti funzionalmente, ma anche

concettualmente, a una visione sempre più medicalizzata dell’ospedale. La pro-

secuzione della fabbrica della Ca’ Granda vide quindi una serie di modifiche per

moltiplicare il numero delle infermerie, e in seguito anche una infinita teoria

di sopralzi e ammezzati, per avere l’ospedale diviso in reparti. Nel frattempo, a

partire del celebre Lazzaretto di Porta Orientale eretto già nel Quattrocento per

le necessità create dalle epidemie di peste, nascevano altri ospedali e ricoveri spe-

cializzati, articolando una nuova rete assistenziale dentro e attorno alla città.

Page 46: L' Architettura della  salute prima parte

CapitoLo 2 L’OSPEDALE A PADIGLIONI

DALL’OTTOCENTO AL PRIMO NOVECENTO

Page 47: L' Architettura della  salute prima parte

37

Il lento abbandono dell’ospedale tradizionale

Nel corso del Settecento circolarono sempre più gli studi di medici che

proponevano miglioramenti e radicali mutamenti d’impostazione per

l’edilizia ospedaliera. Si puntualizzavano le esigenze igieniche, cui

dovevano corrispondere accorgimenti costruttivi efficaci, si teorizzava della più

razionale collocazione urbanistica, si chiedevano spazi di ricovero suddivisi in

entità limitate, così da corrispondere a una organizzazione in reparti distinti

in funzione dei morbi e delle esigenze curative. Dal ricovero indifferenziato si

passava gradualmente alla clinica.

In età neoclassica il progetto di gradi ospedali fu più volte proposto come tema

di concorsi accademici: ad esempio, nel 1832 all’Accademia di Brera di Milano

Angelo Pisoni vinse il concorso per un ospedale da 1500 malati. Ma si trattava di

elaborazioni accademiche, appunto, mentre la realtà vedeva più che altro interventi

di miglioramento su complessi ospedalieri esistenti ormai da molti anni.

Se qualche nuovo ospedale fu realizzato in Lombardia nel primo Ottocento, si

trattò di edifici di limitate dimensioni, ispirati all’austera immagine delle fabbriche

di pubblica utilità più che a una ricerca di innovazione tipologica. Ad esempio,

l’architetto Pietro Gilardoni progettò gli ospedali di Varese e Busto Arsizio e a

Milano il Fatebenefratelli (1824); Giulio Aluisetti il Fatebenesorelle (1836);

Giuseppe Bovara l’ospedale di Lecco (1836). Si trattava generalmente di edifici in

collocazione urbana, disegnati su impianti compatti a cortili chiusi, studiati con

attenzione alle esigenze di ventilazione sottolineate dai medici, senza che questa

problematica divenisse lo spunto per aderire a quella impostazione radicalmente

A LATO: Ospedale Sant’Anna di Como - Scalone del padiglione Giovanni Battista Grassi

di stefano della torre

Page 48: L' Architettura della  salute prima parte

38

nuova che ormai la letteratura straniera teorizzava, ovvero l’ospedale costituito

da padiglioni separati anche come strutture edilizie. A metà Ottocento, nessuno

più dubitava che il modello migliore per la costruzione dell’ospedale fosse quello

che, attraverso la suddivisone in padiglioni distanziati e quindi ben dimensionati,

areati e illuminati, garantiva le condizioni basilari per una efficace e organizzata

assistenza medica.

Nel 1844, all’Accademia di S. Luca a Roma, Angelo Angelucci vinse il concorso

sul tema di un grande ospedale che dichiaratamente il bando voleva a padiglioni

separati. La ricerca teorica, e gli auspici dei sanitari, riguardavano dunque il

disegno dei singoli padiglioni, mentre il tema per gli architetti era soprattutto il

modo di articolare e collegare i padiglioni stessi.

Più che in passato, la progettazione degli ospedali diveniva materia codificata in

una abbondante messa di riferimenti scientifici e di esemplificazioni circolanti a

livello internazionale. Gli schemi adottati a Parigi nel Settecento per ricostruire

l’Hotel-Dieu (1773) e per l’ospedale Lariboisiere (1839) erano costantemente

tenuti presenti, così come erano ben note le proposte di Florence Nightingale per

l’organizzazione dei singoli padiglioni. Il progetto dei padiglioni trovava efficaci

modelli da importare, sperimentati sul campo in tempo di guerra o presentati

nelle Esposizioni Universali: per esempio a Parigi, nel 1878, veniva presentato

il padiglione modulare in struttura metallica di Casimir Tollet, destinato ad

ampia fortuna. Costante era l’aggiornamento degli specialisti sulla manualistica

francese e tedesca.

Ma la più evidente caratteristica del nuovo tipo era il vasto respiro della

composizione, e quindi la reale difficoltà stava nel reperimento delle aree, che

Page 49: L' Architettura della  salute prima parte

39

dovevano essere molto più estese di quelle occupate dagli ospedali tradizionali. Si

interponevano quindi problemi di tipo urbanistico, che rallentarono notevolmente

l’affermazione del tipo a padiglioni in Italia.

Le prime realizzazioni di ospedali a padiglioni in Lombardia

Soltanto nel 1885 si arrivò concretamente all’avvio di un progetto di ospedale

a padiglioni in Lombardia: si tratta dell’ospedale di Broni, ed è significativo

che ciò sia avvenuto a seguito di un intervento da parte del professore d’Igiene

dell’Università di Pavia, Giuseppe Sormani, che giudicò il primo progetto ancora

troppo legato al tradizionale tipo a corti chiuse. Il secondo progetto redatto dall’ing.

Febo Bottini comportò così, nel suo piccolo, l’adozione della più moderna tendenza:

ubicazione ai limiti del borgo, galleria centrale che congiunge il corpo anteriore

degli uffici al corpo posteriore contenente i bagni e la chiesa, e disimpegna i

quattro padiglioni disposti a doppio pettine, e i padiglioni a loro volta ispirati al

sistema Tollet presentato all’esposizione universale di Parigi nel 1878 e subito

ripresi nella pubblicistica tecnica milanese.

Il sistema Tollet non venne invece adottato anche per l’ospedale per contagiosi a

Dergano, alla periferia di Milano, iniziato nel 1883, dove si cercò di realizzare padiglioni

autosufficienti che non avessero bisogno di corridoi o pensiline di collegamento.

Pochi anni dopo, la costruzione del nuovo ospedale di Monza fu promossa

utilizzando una beneficenza in denaro del sovrano Umberto I, il che conferisce

all’iniziativa un certo valore di esemplarità. Numerose furono infatti le revisioni

del progetto redatto dall’ing. Ercole Balossi Merlo tra il 1890 e il 1894. I padiglioni

a un piano, disposti su più file con attenzione al miglior soleggiamento, venivano

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40

qui collegati da pensiline in ghisa e andavano a occupare una vasta area all’esterno

della città. Pur differenziandosi dal sistema Tollet, le infermerie dell’ospedale

monzese risultavano progettate nella ricerca della ventilazione e della luce solare,

chiaramente tematizzata come la principale preoccupazione del momento.

L’Ospedale di Monza fu ampiamente illustrato sulle riviste specializzate nazionali,

entrando in confronto con altre realizzazioni coeve, come il Mauriziano a Torino e

soprattutto il Policlinico di Roma, che segnavano una tappa precisa nell’evoluzione

dell’ingegneria sanitaria italiana. Si abbandonava infatti nella costruzione degli

ospedali ogni riferimento alla monumentalità, e la ricerca trovava una sua via

strettamente tecnica, nel concorso della scienza medica, della scienza delle

costruzioni, dell’innovazione produttiva delle industrie applicate.

Gli ospedali a padiglioni nei primi decenni del Novecento

Ospedale Maggiore d

i Mila

no

Veduta later

ale del P

adiglione

Alfonso Litta all’i

nizio del N

ovecento

Page 51: L' Architettura della  salute prima parte

41

Le prime realizzazioni dimostravano i pregi del nuovo tipo e corrispondevano

pienamente allo slancio tecnicista portato dalla borghesia emergente di inizio

secolo, ma non rimuovevano gli ostacoli urbanistici ed economici che rendevano

comunque difficile sostituire i vecchi ospedali con quelli moderni. Nei primi

anni del Novecento furono quindi avviati nuovi grandi progetti, che sarebbero

stati però realizzati soltanto molti anni dopo. Ad esempio il progetto del nuovo

Policlinico San Matteo di Pavia, auspicato da Camillo Golgi nel 1902, fu messo a

concorso tra il 1909 e il 1913, ma la realizzazione secondo il progetto di Gardella e

Martini si trascinò fino al 1927, allorché il progetto fu rivisto nel senso di ridurre

lo spazio occupato da istituti e cliniche progettati con eccessiva larghezza, e si

arrivò all’inaugurazione soltanto nel 1932. Altri progetti rimasero senza esito, o

furono ampiamente rivisti in corso d’opera.

In sostanza, alla fine degli anni Venti si inauguravano come modernissime

strutture progettate dieci anni prima, spesso ancora ispirate alla manualistica

di fine Ottocento, mentre la tecnica ospedaliera andava tuttavia evolvendo. I

progettisti specializzati guardavano con attenzione alla manualistica tedesca,

francese e anglosassone. Pur con qualche ritardo, si prese atto che le infermerie

a un solo piano per circa 50 malati erano ormai superate, e ci si orientava verso

degenze più piccole e meglio integrate con i servizi competenti. Si trattava non

soltanto di garantire le condizioni igieniche basilari, ma di dare forma a una

tecnica ospedaliera in via di costante specializzazione. La manualistica tedesca

proponeva padiglioni a corridoio, in cui le degenze maggiori stavano agli estremi

opposti di un’asta che ospitava su un lato i servizi medici e sull’altro camere più

Page 52: L' Architettura della  salute prima parte

42

piccole per degenze particolari. Questo tipo a metà degli anni Venti fu adottato

da uno dei più celebri specialisti italiani di architettura ospedaliera, l’ing. Giulio

Marcovigi, che in Lombardia progettò tra gli altri gli Ospedali di Mantova, Milano

Niguarda, Bergamo e Como.

Nel frattempo si sviluppava a Milano, allargandosi nei dintorni della vecchia Ca’

Granda, l’ospedale Policlinico, composto di padiglioni indipendenti, ciascuno dei

quali rappresentava un progetto autonomo, e spesso una occasione di ricerca sulla

forma edilizia meglio rispondente ai bisogni delle singole cliniche.

La svolta verso la “via intermedia” tra sviluppo in orizzontale e in verticale

Il progetto per il nuovo Ospedale Maggiore di Milano a Niguarda, per le cui

vicende dettagliate si rimanda alla scheda curata da Ferdinando Zanzottera,

rappresenta lo snodo cruciale del processo di revisione del tipo a padiglioni, con

la ricerca di una via italiana intermedia tra l’elaborazione del tipo ottocentesco e

la nuova proposta di ospedali sviluppati in altezza, che avrebbe preso il nome di

ospedale “monoblocco”.

Il concorso bandito nel 1926 prevedeva una capienza di 1500 malati suddivisi in

divisioni di 125 letti ciascuna, con il chiaro presupposto che ciascuna divisione

fosse allogata in una unità edilizia autonoma. Il primo grado del concorso vide un

esito contrastato e di un certo interesse: tra i progetti primi classificati vi furono

sensibili differenze nell’articolazione dei padiglioni su due o tre piani, padiglioni

ad H, esistenza o soppressione dei collegamenti. L’immagine del progetto vincitore,

con la sua teoria di edifici isolati orientati secondo l’asse dell’irraggiamento solare,

sembra alludere più al concetto di città-giardino che di ospedale, e dimostra

Page 53: L' Architettura della  salute prima parte

43

quanto fosse stato sottovalutato il problema dei collegamenti, che risultava in

larga misura nuovo. Per decenni si era lavorato a isolare i padiglioni cercando di

dare più luce e aria possibile, ma al crescere dei servizi e dei movimenti richiesti

dal progredire delle tecniche mediche si moltiplicavano i problemi gestionali posti

dalle distanze, allo scoperto, tra un padiglione e l’altro. Uno dei progetti esclusi dai

premi, quello dell’architetto razionalista Enrico Agostino Griffini, si distingueva

per aver dedicato grande attenzione al tema dei collegamenti, riferendo anche,

ma soltanto nella relazione scritta, che negli Stati Uniti già si erano sperimentati

ospedali in cui scale, montacarichi e ascensori avevano preso il posto delle gallerie

orizzontali.

Mentre si traduceva il progetto vincitore negli esecutivi, aumentavano le

perplessità sul ritardo tecnico-culturale delle scelte operate. Così nel 1930 fu

incaricato il direttore medico dell’Ospedale, Enrico Ronzani (1877-1943), di

valutare il progetto. Le valutazioni di Ronzani, radicalmente negative, furono

condivise dal governo, tanto che l’intera vicenda del concorso fu archiviata, e

l’anno seguente fu chiamato l’espertissimo ing. Marcovigi a tradurre in progetto

edilizio le idee innovative di Ronzani.

I concetti informatori del nuovo progetto sono sintetizzabili in pochi punti:

riduzione del numero di letti a sei per ogni infermeria, raggruppamento delle

infermerie in un minor numero di padiglioni tra loro collegati; edifici a un maggior

numero di piani, per razionalizzare sia le reti tecnologiche (elettriche, acqua,

fognatura, riscaldamento) sia i collegamenti, ritenendo i collegamenti verticali

ormai più rapidi di quelli orizzontali. Si pervenne così al progetto di padiglioni a

cinque piani, soprelevati dal suolo da un ampio porticato terreno alto oltre cinque

Page 54: L' Architettura della  salute prima parte

44

metri e tra loro collegati.

Molto rilevante fu la conseguente attività pubblicistica e didattica svolta da

Ronzani attraverso le pagine della rivista “L’Ospedale Maggiore” e attraverso

interventi in svariate sedi. Pubblicando i nuovi progetti e ospitando traduzioni e

segnalazioni dalla stampa specializzata internazionale, si costituì quello che per

alcuni anni fu il principale propulsore dell’innovazione nell’edilizia ospedaliera

italiana, nonché il referente italiano del dibattito internazionale.

Il punto di vista di Ronzani era orientato verso una adozione del tipo a sviluppo

verticale, limitato però in altezza per adattarlo alle località, ai climi e alle abitudini

italiane, e quindi presentato come tipo a padiglioni a molti piani (da cinque a

otto) accentrati e ben collegati tra loro. Qualche volta questo tipo viene definito

“poliblocco”, e quale esempio tra i più felici viene spesso citato l’Ospedale di

Brescia progettato da Angelo Bordoni, autore anche dello studio per una moderna

“infermeria-tipo”. Nel progetto bresciano di Bordoni i blocchi si compongono in uno

schema poligonale, che restituisce al tipo una marcata monumentalità ottenuta

senza ricorso a decorazioni sovrastrutturali.

La ricerca negli anni Trenta

Durante il decennio successivo, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale,

il regime fascista diede notevole impulso alla costruzione di nuovi ospedali, anche

attraverso concorsi di progettazione che furono altrettante occasioni di dibattito e

confronto. In alcuni casi le giurie diedero la preferenza ai progetti più audaci, nei

quali si andava decisamente verso monoblocchi alti nove o dieci piani.

Un momento importante fu il 4° congresso ospedaliero internazionale, tenutosi

Page 55: L' Architettura della  salute prima parte

45

a Roma nel maggio 1935, accompagnato da una mostra delle realizzazioni del

regime. In quell’occasione fu istituito un sottocomitato italiano, presieduto da

Ronzani con tra i membri l’attivissimo architetto romano Ettore Rossi e come

vicepresidente un altro milanese, quell’Ernesto Griffini che nel frattempo, con

il progetto del padiglione Granelli al Policlinico, aveva prodotto una delle poche

architetture ospedaliere ricordate anche nelle autocelebrazioni del movimento

razionalista, altrimenti piuttosto distratte verso questa produzione, forse troppo

legata a una ricerca strettamente funzionale e pratica.

Nel 1939, infine, si giunse alla emanazione di un decreto legge che fissava norme

generali per le costruzioni ospedaliere. Tali norme da una parte affermavano

decisamente la preferenza per le costruzioni a blocco, per ragioni di economia;

ma d’altra parte limitavano drasticamente a sette il numero massimo dei piani.

Questa scelta non era dettata soltanto da pregiudizi o arretratezza culturale:

essa trovava argomentazioni non solo di natura funzionale, per i problemi d’uso

di ascensori destinati a collegare troppi reparti di troppo varia natura, ma anche

psicologiche, pensando alla scarsa abitudine dei pazienti italiani a ritrovarsi

isolati a certe altezze.

Veniva dunque ufficializzata la linea moderata che era stata indicata dagli

igienisti milanesi fin dall’inizio del decennio, e che conferma il ruolo dell’Ospedale

Maggiore milanese come snodo della vicenda storica dell’architettura ospedaliera

italiana nel Novecento.

Page 56: L' Architettura della  salute prima parte

CapitoLo 3 EVOLUZIONE

DALL’OSPEDALE A PADIGLIONI

ALL’OSPEDALE MONOBLOCCO

O MISTO NEL XX SECOLO

Page 57: L' Architettura della  salute prima parte

47

Nel corso del XX secolo la concezione del complesso edilizio ospedaliero,

nodo centrale delle politiche di salute pubblica, si è inscritta

impetuosamente entro logiche istituzionali dapprima a scala nazionale,

poi anche regionale. Contemporaneamente la sua interna organizzazione e la

sua gestione, pur adattandosi a tradizioni locali e a specifici contesti territoriali,

hanno implicato una costante, spesso dirompente, apertura a tutto campo alle

innovazioni scientifiche internazionali.

L’architettura ospedaliera, nelle diverse tipologie mediche comprendenti spesso

una stretta connessione con l’Università, ha preso presto in Italia configurazione

di una vera e propria città nella città, più tuttavia cittadella sui generis - di studi,

esperimenti e cure - che non machine à guerir come, nei due secoli precedenti,

venne talvolta chiamata.

Si tratta di una cittadella che può essere ritenuta efficace interfaccia tra evoluzione

scientifica e sociale, in campo medico e comportamentale, e modificazione

insediativa della città contemporanea, della quale trattiene in sé, come obiettivo

imprescindibile, il primato della funzione programmatoria, funzione che i

progetti urbani dal canto loro inseguono invece con scarsi esiti, non solo in Italia.

Microcosmo altamente strutturato, essa esige inoltre, attorno alla sua robusta

piattaforma medico-tecnica, un’attività esterna, logistica, di ospitalità, di relazione

con servizi medici diffusi.

Nel XX secolo la sua morfologia architettonica è stata travolta da continue

sperimentazioni, che si sono provvisoriamente attestate in configurazioni globali

e dimensionali ben distinte, anche se sottoposte a reciproci influssi, nelle diverse

nazioni occidentali, differenziandosi inoltre anche in rapporto a contesti molto o

A LATO: Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano - Corridoio che affaccia sul cortile della Chiesa

di maria

antonietta Crip

pa

Page 58: L' Architettura della  salute prima parte

48

poco urbanizzati. Nella prima metà del secolo la tipologia a padiglioni, sviluppatasi

dal Settecento in poi, venne approfonditamente discussa e modificata, anche in

ragione delle conquiste scientifiche della moderna medicina che, avendo debellato

i problemi di contagio, rendeva inutile l’eccessiva frammentazione delle degenze.

L’insorgere inoltre di laboratori di ricerca e di analisi, che articolavano stretti

rapporti tra scienze chimiche e proposte terapeutiche, diede luogo a una

disseminazione di corpi edilizi nel recinto ospedaliero che obbligavano a lunghe

percorrenze medici e personale. Sempre più numerosi e importanti diventavano

nello stesso tempo gli ospedali specialistici.

Il dibattito di inizio secolo si sviluppò attorno a due problemi ritenuti primari: una

attenta valutazione della densità fondiaria, esigita dalla tipologia architettonica

a padiglioni, e il sistema di connessione tra i volumi edilizi, in superficie, con

percorsi aperti o chiusi, o in tunnel, sotterranei o seminterrati. In tutti i paesi

ma soprattutto in Italia, l’enorme estensione delle cittadelle ospedaliere, anche

per il modesto sviluppo in altezza dei padiglioni, comportò normalmente lentezze

eccessive negli spostamenti; la sorveglianza divenne praticamente impossibile;

incontrollabile la continua crescita numerica dei padiglioni in ragione della

crescente specializzazione.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, l’innovazione edilizia conseguente al

diffondersi dei nuovi materiali - del calcestruzzo armato, dell’acciaio e del vetro -,

la messa a punto di un funzionalismo generalizzato, una prevalente tendenza

igienista stimolarono ingegneri e progettisti a superare i limiti del tipo ospedaliero

a padiglioni. Il primo passaggio, in Europa, avvenne tramite l’aumento volumetrico

dei padiglioni e la loro funzionale articolazione; vennero allora costruiti alti blocchi

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49

edilizi con struttura planimetrica a T o ad H, nei quali degenze e servizi di cura

venivano integrati in unità e la corsia aperta, con più posti letto, abbandonata;

si preferì invece lo sviluppo di camere, da quattro a sei letti, lungo un corridoio,

dapprima su un solo lato, in seguito anche su due. A Milano, il primo padiglione

con planimetria ad H fu il Litta del 1900, il primo a T fu il Luigi Sacco del 1927,

ambedue nel Policlinico affacciato su via Francesco Sforza.

Nella penisola italiana la tipologia a padiglioni venne introdotta tardi, solo dopo

il 1870, in ragione soprattutto della diffusa esistenza di antichi ospedali nel

cuore di fitti tessuti urbani difficilmente modificabili o ampliabili. Del 1877-84

è l’Ospedale a padiglioni Galliera di Genova, dello stesso tipo sono anche quello

di Broni, del 1887-89, quello di Umberto I a Monza in Lombardia, del 1896; il

Policlinico Umberto I di Roma, del 1899, e il Policlinico di Milano, del 1900.

Merita almeno una segnalazione, per la novità dell’impianto a corte oltre che

per la ricerca di linguaggio architettonico nuovo, l’Ospedale civico di Gallarate

(Varese) del 1871, opera dell’architetto, storico e restauratore Camillo Boito1.

Nel periodo del governo mussoliniano venne dato enorme incremento

alla progettazione e realizzazione di nuovi ospedali, spesso realizzazioni

morfologicamente riuscite della transizione dall’ospedale a padiglioni a quello a

poliblocco, variante del tipo a monobolocco di matrice americana. Molti complessi

edilizi, iniziati nel Ventennio fascista, rimasero però incompiuti; la ripresa del cantiere

per il loro completamento nel secondo dopoguerra ebbe oneri non indifferenti, fu

persino causa di ritardi nello stesso aggiornamento delle strutture ospedaliere.

Episodio cruciale del passaggio dall’ospedale a padiglioni a quello a più

blocchi, di sei piani fuori terra sopra l’alto portico al piano terreno, è il Nuovo

1 L.Grassi, Camillo Boito, Il Balcone, Milano 1959.

Page 60: L' Architettura della  salute prima parte

50

Ospedale Maggiore di Milano a Niguarda, per 1.500 posti letto, dalla lunga

e travagliata vicenda, conclusasi con l’incarico di progettazione dato all’ing.

Giulio Marcovigi, al medico Enrico Ronzani e all’arch. Giulio Ulisse Arata

per le componenti architettoniche, nel 1931. Il complesso ospedaliero venne

realizzato tra 1933 e 1939.

Intorno alla costruzione di questo ospedale milanese si intrecciarono vari fattori

rilevanti: dalla modifica del perimetro comunale, che inglobò l’area sul quale esso

sorse, alle importanti modifiche istituzionali dell’antica Ca’ Granda, destinata ad

abbandonare l’originaria destinazione per divenire sede di Università collegata al

vicino Policlinico; dalla formazione di una vasta cittadella, immersa nel verde, alla

esplorazione di morfologie edilizie aderenti a nuove esigenze mediche e gestionali;

dalla volontà di rinnovare la solennità monumentale e artistica dell’antico

ospedale filaretiano, nel grandioso ingresso e nel rivestimento in pietra, della

gran parte degli edifici, all’attenzione per l’arte in tutte le sue forme, in opere di

grande qualità artistica concentrate soprattutto nella chiesa centrale.

Attorno alla transizione tipologica, che culminò nella sua realizzazione, si

annodarono, inoltre, ricerche del primo razionalismo italiano, poco note ma

meritevoli di ulteriori esplorazioni, sia perché vissute da personalità che non hanno

ancora attirato adeguata attenzione da parte di critici e storici d’architettura,

benché di sicuro talento, sia perché testimoni di un influsso della modernità

oltreoceano sulla ricerca italiana. La conoscenza dei primi ospedali monoblocco

americani, di grandi dimensioni, ebbe infatti precoci ricadute in progetti e dibattiti

lombardi contrassegnati dall’incrocio tra grandi ambizioni mussoliniane e

intelligente recezione di forti stimoli innovativi, orientati in particolare a recepire

Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano - Vista del monoblocco e della cappella

Page 61: L' Architettura della  salute prima parte

51

possibilità di attivazione della produzione edilizia prefabbricata. Fondamentale è

stato, in particolare, il dibattito sorto intorno al concorso per l’Ospedale clinico di

Modena del 1933-34, vinto dall’arch. Ettore Rossi2 con un progetto monumentale

monoblocco articolato a piastra, certamente influenzato da progetti realizzati

negli Stati Uniti del tipo di quelli pubblicati nel volume di Bruno e Franco Moretti,

su ospedali, opere di assistenza, colonie, istituti scientifici, dell’anno successivo

al concorso3. I Moretti riuscirono a illustrare con grande efficacia l’impegno

mussoliniano e l’inventiva dei progettisti di ospedali in Italia di questo periodo,

certo non minore di quella degli altri paesi europei.

Il superamento definitivo del tipo a padiglioni era avvenuto in America nel

primo decennio del Novecento in giganteschi complessi alti fino a trenta piani,

con prospetti alleggeriti da ampie finestre, struttura in calcestruzzo armato o in

acciaio, con articolazione modulare generale e pertanto prefabbricabili, oltre che

dotati di nuclei di veloci ascensori. Negli anni Venti e Trenta il nuovo tipo si diffuse

in vari paesi d’Europa nella forma del monoblocco, espressione quest’ultima presa

dal gergo dell’industria automobilistica per indicare edifici alti e ben utilizzabili

grazie alla larga diffusione dei sistemi meccanici di trasporto verticale.

Nel monoblocco si riducevano moltissimo i tempi di percorrenza; ognuno dei

piani di degenza, inoltre, poté essere dotato delle strutture fondamentali per la

diagnosi e la terapia, divenendo autosufficiente unità operativa. Poiché nei paesi

europei venne subito imposta una altezza massima di circa 15 piani, l’ospedale

monoblocco si estese anche in orizzontale, spesso si articolò liberamente in più

blocchi. Tale assetto ebbe particolare fortuna in Italia, dove un decreto legislativo,

del 20 luglio 1939, ne fissò l’altezza massima di sette piani fuori terra. Il Nuovo

2 S.a., Il concorso per l’Ospedale di Modena, “Architettura”, A. XIII, 1934, fasc. VII (luglio) pp. 414-430.3 B. Moretti, Ospedali, Note preliminari all’impostazione a cura di F. Moretti, Hoepli, Milano 1935.

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52

Ospedale di Brescia dell’ing. Angelo Bordoni, per 1.430 posti letto, iniziato nel

1934 e costruito in calcestruzzo armato, è del tipo a grossi blocchi articolati in

doppia Y, collegati tra loro da percorsi coperti e disposti attorno ad una corte al

cui centro era posizionata la chiesa. Anche l’Istituto medico chirurgico XXVIII

Ottobre in Milano venne concepito, dall’ing. Giuseppe Casalis nel 1933, come un

grande monoblocco con corte interna, sviluppato per quattro piani fuori terra.

Di progetto dell’ing. Giulio Marcovigi sono l’Ospedale civile di Como, del 1928, a

padiglioni di tre piani collegati tra loro da loggiati, e l’Ospedale degli Infermi di

Biella, del 1935, un lungo monoblocco di sette piani fuori terra.

Opera dell’ing. Giuseppe Invitti è, invece, l’Ospedale Maggiore della Carità di

Novara del 1929-30, in un solo blocco articolato e dalle forme classicheggianti

semplificate. A Enrico Griffini, architetto protagonista di una raffinata ricerca

razionalista orientata alla prefabbricazione, si deve l’Istituto di patologia medica

della Regia Università di Milano del 1932-33, con interessanti soluzioni tecniche

e formali. L’arch. Mario Favarelli è stato autore del progetto per l’Istituto

Neurologico Vittorio Emanuele nella zona milanese di Città Studi, del 1930-32,

un grosso monoblocco con planimetria a E di quattro piani fuori terra, ornato da

sculture nelle parti alte dei prospetti su strada.

La larga diffusione in Italia del tipo monoblocco e pluriblocco, spesso anche

affiancato a preesistenti e talvolta antiche strutture ospedaliere, dagli anni

Cinquanta in poi, come attestano per la Lombardia le schede predisposte per

questo volume, consentì di rispondere facilmente a un insieme composito di

necessità, quali: l’utilizzo di aree di dimensioni non troppo grandi; costi contenuti

di costruzione, anche grazie all’accorpamento di impianti tecnologici; riduzione

Page 63: L' Architettura della  salute prima parte

53

delle distanze di percorrenza; articolazione gradevole dei volumi edilizi in aree

a parco o giardino; modi di vita ospedaliera ancorati alla scala umana, simile

a quella di una unità di vicinato o di quartiere, la stessa che in quegli anni si

metteva a fuoco nell’edilizia residenziale, soprattutto popolare, soprattutto nelle

città del nord più sottoposte a processi di urbanizzazione.

L’esplosione delle conseguenze dell’industrializzazione a scala urbana, con

abbandono di molti insediamenti dall’antica storia e crescita fuori controllo di

alcune città soprattutto del nord Italia, innanzi tutto nel triangolo territoriale

compreso fra Torino Milano Genova, avvenne in Italia molto in ritardo rispetto al

resto dell’Europa. Fu infatti fenomeno rilevante dei primi due decenni della seconda

metà del XX secolo, cui corrispose il proliferare di nuovi ospedali a pluriblocco o

misti, caratterizzati da soluzioni architettoniche non innovative, spesso però tese

a risolvere un positivo intreccio fra qualità architettonica e relazione efficace con

il contesto urbano, da una parte, e richieste medico-sanitarie, sociali e gestionali,

dall’altra, in una nazione che stava ancora, e non senza difficoltà, consolidando la

sua unità e le sue scelte democratiche.

Ne aveva coscienza la classe politica dirigente, come segnalano le dichiarazioni

del presidente del Consiglio dei Ministri, Aldo Moro, all’inaugurazione del nuovo

ospedale dedicato a San Carlo Borromeo in Milano nel 1967, quando collegava

l’evidenza, di “opera monumentale e insieme di grande significato umano e sociale”

del nuovo ospedale, al momento storico della “nostra democrazia che comincia

ormai una sua maturità e stabilità”, nello sviluppo delle “esigenze fondamentali

inerenti la dignità umana” e delle “possibilità di soddisfarle, sia pure con quella

gradualità che è inerente all’alto costo di questi servizi e allo stadio intermedio di

Ospedale San Carlo – Vista del monoblocco e della Chiesa dell’Annunciata

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54

sviluppo economico nel quale si trova il nostro paese, che ha fatto grandi progressi,

ma altri ancora ne deve fare”, in particolare in direzione “della sicurezza sociale

nel campo dell’assistenza sanitaria”4.

Il paese, inoltre, era ancora fortemente impegnato nel rispondere al problema

residenziale nelle aree più urbanizzate, oltre che investito da tensioni politiche e

dure controversie urbanistiche.

Dell’evidente limite, di adeguatezza culturale e preparazione logistica della politica

del settore ospedaliero italiano, erano consapevoli anche i progettisti, stretti nella

difficoltà di coniugare offerta di quantità, nella capacità ricettiva ospedaliera e

nella predisposizione di servizi a essa connessi, con la qualità dell’architettura,

solo in qualche caso perseguita pienamente.

Meritevole di attenzione, da questo punto di vista è il milanese Ospedale di San

Carlo Borromeo, ritenuto urgente per “provvedere ad una carenza di posti letto

riguardante tutta la città di Milano e non quella di un quartiere o di un distretto

soltanto”. L’ing. Arturo Braga e il medico G. Sollazzo, descrivendo le caratteristiche

del progetto, motivavano la scelta morfologica mista - composta da ‘monoblocco

articolato’ a Y, alto quattordici piani di cui dodici fuori terra, e altri edifici minori

compreso un villaggio per l’ospitalità di circa 360 persone addette all’ospedale -

in funzione della riduzione dei costi di esercizio, che permettevano larghezza, ma

senza sprechi, per quelli di costruzione.

L’urbanistica e la disposizione generale degli edifici godevano in questo caso

di un disegno generale e di finiture eccellenti, anche perché elaborate con la

collaborazione dello studio professionale di Gio Ponti, “non solo sotto il profilo

della massima funzionalità, ma anche in relazione ai molti problemi psicologici e

4 F. Chiappa (a cura di), L’Ospedale San Carlo Borromeo, ed. “La Ca’ Granda”, Milano 1968, p. 24.

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55

umani che una tale comunità comporta”5. Da tali attenzioni discesero l’attivazione

di impianti tecnologici moderni, la controllata possibilità di aumentare con

sopralzi alcuni degli edifici in ragione del continuo evolvere della scienza medica,

il disegno delle aree libere con giardini e filari di alberi molto curati, l’elegante

raffinatezza del progetto della chiesa, realizzata con entusiasmo da Gio Ponti, che

la ritenne indispensabile nell’ospedale, “dove l’umanità è al sacro cospetto del suo

destino di dolore, di vita e di morte, e la speranza cerca conforto nel mistero, e così

la rassegnazione”6.

L’edificio ha dimensioni di chiesa vera e propria, più che di cappella. Del resto

era diffusa la convinzione che l’ospedale fosse “una vera parrocchia […] per la

concreta realtà di una situazione in cui si articolano di fatto tutte le componenti

di una parrocchia: popolazione (degenti e personale) dalle esigenze tanto più vaste

quanto più la vita vi è condizionata da una situazione eccezionale e da orari vari e

forzatamente tiranni; aumento ricorrente di fedeli dovuti alla massa di parenti e

dei visitatori, normale amministrazione di tutti i Sacramenti con un ritmo e una

frequenza talora superiori a quelli di altre parrocchie”7. Non altrettanto curata

era tuttavia la zona mortuaria, come al solito collocata in area poco visibile da

visitatori e malati.

Questo ospedale milanese, insieme al Centro Traumatologico ortopedico di Careggi,

sorto negli stessi anni nella zona a nord di Firenze dove fin dall’inizio del secolo si

è già insediato un importante ospedale, meritano particolare menzione in quanto

riuscirono ad attivare anche un positivo rapporto col territorio circostante, di cui

divennero occasione e perno di sviluppo.

La letteratura specialistica segnala che nella maggior parte dei casi i progetti

5 Ivi, p. 996 Ivi, p. 1657 Ivi, p. 174

Page 66: L' Architettura della  salute prima parte

56

italiani di ospedali monoblocco o poliblocco della seconda metà del XX secolo

non attestano particolare impegno di ricerca morfologica e architettonica. Anche

la variante piastra-torre, caratterizzata da ampia piastra di base a sviluppo

orizzontale per ospitare i servizi generali e di diagnosi, dalla quale si stacca il

blocco verticale delle degenze, non è stata attuata in soluzioni di grande rilievo.

Meritano comunque di essere segnalate, tra le soluzioni a mono o pluriblocco

e quelle a piastra-torre, alcune equilibrate realizzazioni, cui vanno aggiunte,

in particolare per la Lombardia, quelle descritte nelle schede predisposte per

questo volume. A Roma presentano morfologia di monoblocco articolato il Centro

traumatologico ortopedico INAIL, del 1957, progettato dall’Ufficio Tecnico

dell’ente, e il primo volume del Nuovo Ospedale di San Giovanni, concluso nel

1958, opera dell’ing. G. Gasbarri con la collaborazione dell’arch. G. Francisci,

composto da un volume degenze di sette piani fuori terra, davanti al quale un

corpo più basso per i servizi generali si sviluppa in forma planimetrica ad arco di

cerchio, attestandosi su via dell’Amba Aradam.

A Saronno, tra Milano e Varese, gli ingegneri e architetti Eugenio ed Ermenegildo

Soncini progettavano nel 1955 un ampliamento, secondo il tipo monoblocco,

dell’Ospedale di Circolo, caratterizzato da estrema cura sia nell’organizzazione

funzionale, che nella qualità ambientale offerta ai degenti, ospitati in stanze con

pochi letti, tramite particolari soluzioni architettoniche normalmente riservate

all’edilizia per le cliniche private, come ampie porte vetrate, pareti colorate, arredi

raffinati. Ogni piano di reparto degenza era stato inoltre dotato di un proprio

nucleo di servizi, con cucine che consentivano uscita diretta anche verso l’esterno.

Di questi stessi ingegneri architetti è la Clinica privata “La Madonnina” di Milano

Page 67: L' Architettura della  salute prima parte

57

del 1956, costruzione monoblocco, in cui la parte bassa, di due piani fuori terra,

allineata sul confine di via Quadronno, costituisce zona filtro rispetto alla città e

ospita i servizi tecnici, l’accoglienza e gli ambulatori, mentre il blocco delle camere

dei degenti si alza in verticale per otto piani, affacciandosi sul giardino che si

intravede dalla strada attraverso una pensilina per la discesa delle automobili.

Molto curate sono le finiture architettoniche dei prospetti e dell’interno: la facciata

su strada presenta un bow-window con lastre in cristallo smaltato grigio, le scale

interne hanno parapetti in cristallo, l’atrio ha grandi pareti panoramiche e pareti

rivestite in marmo; ogni camera possiede una piccola veranda che guarda sul

giardino, qualcuna ha anche proprio salottino; piccola e accogliente è la cappella.

Un architetto milanese recentemente scomparso, Carlo Casati (1918-2004), ha

progettato molti ospedali nel corso della sua attività professionale, non tutti

realizzati o completati; nelle tavole di progetto li ha denominati ospedali a

‘monoblocco siamese’ perché articolati in due volumi, connessi tra loro nei piani

bassi. Sono suoi: la ristrutturazione e il nuovo progetto dell’Ospedale Psichiatrico

di Codogno (Lodi) del 1953; i progetti del Nuovo Ospedale di Desio (Milano), del

1963, dell’Ospedale generale provinciale San Paolo alla Barona (Milano) del 1964,

dell’Ospedale Civile di Montichiari (Brescia) del 1968, della Nuova Residenza

Assistenziale di Seregno (Milano) del 1970, del Nuovo Ospedale degli Infermi di

Biella del 1970, dell’Ospedale di Rovigo del 1973, dell’Ospedale Vittorio Emanuele

II di Jesi (Ancona) del 1986 e altri ancora.

Page 68: L' Architettura della  salute prima parte

CapitoLo 4 I NUOVI OSPEDALI LOMBARDI

TRA PRESENTE E FUTURO

Page 69: L' Architettura della  salute prima parte

59

L a rivoluzione è cominciata nel 2001. In principio c’era solo il medico, ora

invece, al centro di ogni progetto per la costruzione di un nuovo ospedale c’è

in primo luogo il paziente, quindi dottori, infermieri e tutti gli altri attori che

lavorano all’interno delle cliniche. Niente barricate né cortei per ottenere questa

conquista: Regione Lombardia si è armata di un team di professionisti che è stato

capace di far ruotare di 180 gradi l’angolo della visuale del progettista. La novità

dell’approccio: tutto deve essere pensato per soddisfare le necessità del singolo

cittadino malato e quelle della comunità che lo accoglie e non, al contrario, per

dare spazio a tecnicismi o accontentare i desideri di pochi.

All’origine di questa rivoluzione c’è un decalogo. Era il 2001 quando un’apposita

commissione presieduta dall’allora ministro della Sanità Umberto Veronesi

e coordinata dall’architetto Renzo Piano, elaborò un modello di ospedale al

quale potessero ispirarsi tutti i nuovi progetti di edilizia sanitaria. Dieci regole

semplici, ma fondamentali per costruire un buon ospedale, capace di essere a

misura d’uomo, centrato sulla persona e sulle sue esigenze, un luogo di speranza,

guarigione, cura, accoglienza e serenità.

Detto e fatto. A Regione Lombardia è bastato poco più di un anno per passare

dalla teoria alla pratica grazie al Piano straordinario per lo sviluppo delle

infrastrutture lombarde 2002/2010 che ha previsto lo stanziamento di oltre

cinque miliardi di euro per il settore sanitario. Obiettivo: ottimizzare le strutture

esistenti e costruirne di nuove dove necessario, per essere un polo attrattivo anche

per chi proviene da altre regioni, offrendo servizi sanitari all’avanguardia grazie

all’introduzione di macchinari di ultima generazione e all’eccellenza tecnologica.

Un rinnovamento generale reso possibile grazie a un ingente finanziamento, che

di rita balestri

ero

Page 70: L' Architettura della  salute prima parte

60

nel 2007, ha permesso di sovvenzionare i lavori di nove diversi ospedali: Nuovo

Ospedale Beato Giovanni XXIII di Bergamo, Presidi Ospedalieri di Busto Arsizio,

Saronno e Tradate, Presidi Ospedalieri di Cittiglio e Luino, Nuovo Ospedale

Sant’Anna di Como, Nuovo Ospedale di Legnano, Ospedale Niguarda Ca’ Granda

di Milano, Nuovo Complesso Ospedaliero di Vimercate. Nove cantieri a cui vanno

aggiunti gli sforzi per la redazione del masterplan degli ospedali San Gerardo

di Monza e di Circolo e Fondazione Macchi di Varese. Un impegno unico nel

panorama europeo che metterà a disposizione dei cittadini lombardi quasi 6.000

posti letto, numerosi nuovi ambulatori e oltre 150 sale operatorie.

Responsabile per conto di Regione Lombardia dell’esecuzione dei lavori è

Infrastrutture Lombarde Spa, società di capitali sotto il totale controllo del

Pirellone, nata nel 2003 per dare concreta attuazione al Piano. Obiettivo della

Regione: identificare un organismo specialistico in project management capace di

fungere da stazione appaltante per la realizzazione dei progetti, gestendo anche la

procedura di gara e coordinando il lavoro dei cantieri in termini di monitoraggio,

per poter intervenire tempestivamente con azioni correttive in caso di deviazione

dagli standard predeterminati.

La Sanità sta cambiando. è questa la consapevolezza che ha spinto all’ideazione di

un nuovo modello di ospedale. Le tecnologie si sono evolute straordinariamente e

di conseguenza la Sanità ha subito profonde rivoluzioni. Pensiamo alla diagnostica

per immagini, alle tecniche chirurgiche, anestesiologiche e rianimatorie, alla

genetica, ai trapianti e così via. La medicina oggi è in grado di curare sempre

di più, ma non sempre riesce a guarire. E allora si crea un popolo di pazienti

(dializzati, trapiantati, cardiopatici, oncologici, diabetici, ecc.) che convivono,

Page 71: L' Architettura della  salute prima parte

61

spesso a lungo, con la propria malattia e hanno bisogno di cure di nuovo tipo.

E ancora, la consapevolezza dei propri diritti che spinge i malati a pretendere

prestazioni di livello sempre più elevato. Era necessario, quindi, rinnovare

tutto il sistema per fornire risposte adeguate a tutte le aspettative (in termini

di diagnosi, terapia, riabilitazione, assistenza) e a tutte quelle persone che si

trovano a convivere con la propria patologia. Da qui la decisione di porre in atto

una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire, progettare, realizzare e

gestire l’ospedale, perché corrisponda alle nuove esigenze e alle nuove idee.

Partiamo allora dalle dieci regole stilate dalla Commissione ministeriale per

capire le scelte che hanno portato all’elaborazione dei progetti che, entro il 2009,

permetteranno l’inaugurazione delle nuove strutture lombarde. Il decalogo:

1. umanizzazione: centralizzazione della persona;

2. urbanità: integrazione con il territorio e la città;

3. socialità: appartenenza e solidarietà all’interno della struttura ospedaliera;

4. organizzazione: efficacia, efficienza e benessere percepito;

5. interattività: completezza e continuità assistenziale;

6. appropriatezza: correttezza delle cure e dell’uso delle risorse;

7. affidabilità: sicurezza della struttura;

8. innovazione: rinnovamento diagnostico, terapeutico, tecnologico e informatico;

9. ricerca: impulso all’approfondimento intellettuale e clinico-scientifico;

10. formazione: aggiornamento professionale e culturale.

Nella pratica, come è stato possibile costruire un ospedale “paziente centrico”,

capace cioè di racchiudere in sé tutte queste caratteristiche? Dal punto di vista

operativo, i principi contenuti nel decalogo si traducono in strutture compatte, in

Page 72: L' Architettura della  salute prima parte

62

grado di consentire collegamenti veloci, connessioni e interazioni più rapide ed

efficaci tra le differenti attività mediche, ma anche di garantire la separazione dei

percorsi tra i diversi flussi, permettendo agli addetti e agli operatori di muoversi

sempre su tragitti diversi da quelli dei visitatori e degli utenti e assicurando ai

malati percorsi riservati.

Questa precisa esigenza sta alla base del motore che ha portato all’evoluzione della

struttura degli ospedali stessi. Quelli sorti verso la fine dell’Ottocento venivano

costruiti a padiglioni perché si pensava che il modo migliore per organizzare lo

spazio fosse la suddivisione per blocchi, ognuno dei quali era destinato a una

specializzazione precisa. Bisogna aspettare gli anni Sessanta per capire che

questa divisione era poco funzionale e che un ospedale monoblocco avrebbe

potuto risolvere molti problemi. Come strutturarlo allora? Si pensò che il modo

migliore per ridurre le distanze fosse l’organizzazione dello spazio in verticale, da

qui nacquero edifici alti e compatti. Un’idea di ospedale questa che si è diffusa

fino ai giorni nostri, o almeno, finché la necessità di garantire la separazione dei

percorsi e la corretta relazione tra le aree funzionali non ha costretto a ripensare

a un nuovo modello di ospedale: più basso, orizzontale e meglio strutturato, come

quello che oggi comunemente viene chiamato “a piastra”.

Partiamo dagli ingressi: il nuovo ospedale di Vimercate, ad esempio, avrà quattro

accessi differenziati per tipologia di utilizzo. Sul lato est, rivolto alla città e alle

direttrici viabilistiche principali, sorgerà un ingresso per gli utenti e i visitatori e

un altro, separato, riservato alle emergenze e alle urgenze. Sul lato nord, invece,

quello dedicato ai mezzi logistici e ai vigili del fuoco e infine l’ultimo, riservato

agli addetti alla manutenzione dei giardini. Dagli accessi all’organizzazione

Il Nuovo Ospedale di Vimercate

Page 73: L' Architettura della  salute prima parte

63

dello spazio: all’interno degli edifici la posizione di ogni reparto è stata pensata

esattamente in quel punto perché, ad esempio, l’accettazione deve essere contigua

agli ambulatori, i pazienti che devono subire un intervento chirurgico lo devono

essere alla sala operatoria e così via. Come a dire: alcune cose, se non stanno

insieme non funzionano e, ancor di più, è arrivato il momento di superare il

concetto di reparto tradizionale, perché le funzioni specifiche non sono più legate

alla peculiarità delle singole discipline specialistiche, ma sono realizzabili in

settori di facility, il più possibile comuni. Di fatto, i processi di diagnosi e cura

del singolo malato ora seguiranno percorsi integrati che andranno a intersecare

le diverse facility, perché sale operatorie, ambulatori e laboratori saranno il più

possibile centralizzati e utilizzabili da molteplici professionalità.

Le degenze, invece, verranno situate nella zona più esterna, per garantire

l’affaccio delle finestre su un panorama gradevole. Pensiamo al nuovo ospedale

Sant’Anna di Como che si estende sotto le pendici delle colline, a metà strada tra

la località Tre Camini e i comuni di Como, San Fermo della Battaglia e Montano

Lucino. Le necessità paesaggistiche e storiche hanno guidato il progetto nella

costruzione di un sistema ospedaliero orizzontale, la cui articolazione prosegue

lungo le curve naturali del terreno dando vita a una nuova interpretazione di

ospedale giardino: le camere si aprono alla valle e il verde viene fatto penetrare

perfino negli ambienti interni attraverso l’introduzione di corti. L’umanizzazione

è anche questo: un’attenzione particolare al malato che dovrà poter vivere i giorni

di ricovero in un luogo il più caldo e accogliente possibile. Si comincia dai colori

delle pareti, fino alle decorazioni sul soffitto, perché nessun architetto può scordare

che il malato spesso può beneficiare di un’unica visuale: quella che si gode da

Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano – Interno

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6464

Page 75: L' Architettura della  salute prima parte

65

sdraiati, nel letto della propria stanza. Riguardo alle camere, la nuova tendenza

degli ospedali lombardi supera le indicazioni normative: quasi tutte le stanze,

infatti, sono state progettate con due letti inseriti in uno spazio ben più ampio dei

diciotto metri quadri circa che impone la legge. Senza contare le eccezioni come

i reparti di pediatria, in cui le misure si espandono ancora di più per lasciare

spazio ai genitori dei piccoli pazienti. Si può parlare, quindi, di uno standard

alberghiero in cui il malato che divide la stanza solo con un altro paziente può

guardare la televisione, riporre i propri effetti dentro un armadio personale e

fare la doccia nel bagno dentro la stanza. Situazione impossibile nelle vecchie

camerate che ospitavano contemporaneamente anche otto malati. Inimmaginabile

in quelle strutture, pensare di poter fare due passi nella main street dell’ospedale

che non sarà certo un centro commerciale, ma offre la possibilità, ad esempio,

ai parenti dei malati di mangiare in un ristorante, di comprare libri e giornali

e di portare a lavare la biancheria. Non solo acquisti, i nuovi edifici sono stati

pensati per garantire a tutti i credenti un luogo di preghiera, indipendentemente

dalla religione. Al Sant’Anna di Como, ad esempio, ce ne saranno tre: una

cappella cattolica, un luogo di preghiera e un locale per il rito delle esequie. Per

approfondire la definizione di standard uniformi, Regione Lombardia ha perfino

istituito un apposito team dedito alla determinazione degli spazi dedicati al culto

negli edifici di nuova costruzione.

A inizio capitolo dicevamo che le esigenze del paziente ora vengono poste al centro

dell’attenzione del progetto, ma non solo quelle. Pensiamo ai medici e a tutti gli

altri operatori sanitari che trascorrono gran parte della loro giornata dentro

l’ospedale: per loro, nei nuovi ospedali lombardi verrà costruito un nido dove

A LATO:

Ospedale Niguarda

Blocco Nord, galler

ia

Page 76: L' Architettura della  salute prima parte

66

potranno portare i figli. Per loro e per tutte le persone che entreranno nelle nuove

cliniche, sono stati pensati degli standard di sicurezza per contenere eventuali

rischi di contaminazione. Come? Gli ospedali, oltre ad avere una componente

impiantistica studiata per preservare l’edificio da tali rischi, sono collocati in aree

immerse nel verde, al di fuori dei centri storici; l’accesso alla struttura avviene

attraverso una serie di filtri successivi in progressione: dalla main street per

l’accoglienza si arriva ai servizi specialistici ambulatoriali, passando poi ai luoghi

di degenza, fino alle zone di attività subintensive, operatorie e intensive. Tutto è

stato progettato in base al criterio di sanificazione. Facciamo due esempi ancora

più concreti: il rischio di contaminazione da legionella è maggiore laddove vi siano

forti condensazioni che non vengono smaltite in modo corretto, mentre il rischio

di epatite si nasconde nella mancata possibilità di corretta sanificazione della

camere o dei luoghi di ristorazione. Per questo motivo, le stanze sono costruite

tutte con aspirazione automatica, fornita di successivi filtri. Le tecnologie più

avanzate permettono inoltre di risolvere i problemi legati alle malattie infettive

all’interno del contesto ospedaliero, rendendo obsoleti i padiglioni per l’isolamento

che, per loro stessa natura, non tengono conto del principio della centralità della

persona.

Il Nuovo Ospedale Beato Giovanni XXIII di Bergamo sorgerà in località Trucca,

quello di Legnano nella periferia ovest della città e così tutte le nuove strutture

sono state volutamente progettate lontane dal centro storico. Il loro decentramento

potrebbe far storcere il naso a qualche cittadino che teme di rimpiangere la

vecchia clinica sotto casa. Alla base di questa scelta ci sono ragionamenti precisi:

innanzitutto la necessità di spazio quindi, come dicevamo, quella di sicurezza,

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e inoltre la possibilità di garantire al malato l’affaccio su una porzione di

verde, una più facile connessione con la rete stradale, la disponibilità di ampi

parcheggi dedicati ai dipendenti, ai visitatori e ai pazienti ambulatoriali e, infine,

l’assicurazione ricevuta dai diversi Comuni di fornire un servizio navetta da e per

i punti nevralgici della città, con cadenza regolare, più volte ogni ora e per tutta

la settimana.

Sono 1.200 circa gli operai che ogni giorno lavorano nei cantieri degli ospedali

lombardi. Per assicurare qualità dei lavori e rispetto dei tempi di consegna, Regione

Lombardia ha deciso di adottare, ogni volta che è stato possibile, uno strumento

operativo che prende il nome di project finance. Di fatto, si tratta di un metodo

innovativo che punta a far risparmiare al pubblico notevoli risorse, consentendo

di valorizzare il ruolo decisivo che anche il privato può svolgere nell’ambito

sociosanitario. Il meccanismo ruota attorno a un sistema di compensazioni.

L’investimento necessario alla realizzazione di una nuova struttura sanitaria

viene garantito sia dalla Regione che dal costruttore dell’ospedale, che ne diviene

in parte anche gestore. Al privato, infatti, viene affidata la direzione dei cosiddetti

servizi no core come la gestione del calore, la manutenzione, la pulizia, la mensa,

la vigilanza, ecc. Il costruttore verrà quindi incentivato al rispetto dei tempi di

realizzazione, dal momento che avrà il pieno interesse a terminare l’opera quanto

prima per iniziare a rientrare nei costi dell’investimento grazie alla gestione dei

servizi e alla riscossione di un canone per l’utilizzo della struttura stessa. Oltre

all’effetto incentivo per la ditta costruttrice, il project finance si sta rivelando

molto utile perché consente anche di reperire risorse altrimenti non disponibili.

Spetta a Infrastrutture Lombarde, per conto di Regione Lombardia selezionare,

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mediante procedura pubblica, il privato a cui affidare la costruzione, sorvegliando

poi sulla qualità del metodo e dei lavori.

Aspettando il taglio dei nove nastri, si possono osservare già i primi

risultati: allo stato dei fatti, la Lombardia è la regione italiana con il più alto

coinvolgimento di capitale nell’edilizia sanitaria, che arriva al 35 per cento

del valore dell’intero mercato nazionale. I fatti in cifre: diciannove sono gli

interventi di project finance, 1,3 miliardi il valore complessivo dell’operazione.

Inoltre, grazie al project finance tutte le strutture in costruzione verranno

ultimate entro il 2009, segnando un tempo medio di costruzione pari a tre anni

circa, contro i 9,5 della media nazionale.

Prendiamo il nuovo complesso ospedaliero di Vimercate: i lavori sono iniziati

il 30 novembre 2006 e al termine del 2007 era già stata completato il 25 per

cento dell’intero intervento. Valore dell’opera: 120 milioni di euro per un totale

di 538 posti letto e nove sale operatorie che sorgeranno su 115.588 metri quadri

che si estendono a sud rispetto al centro storico e la frazione di Oreno, un’area

facilmente raggiungibile grazie ai collegamenti con l’uscita della tangenziale

est e con la provinciale Vimercate-Monza. Il progetto originario è stato firmato

dall’architetto Mario Botta e quello esecutivo è stato curato dall’architetto

Alessandro Martini. Qualche numero per rendere la portata dei lavori: al momento

dell’inaugurazione, prevista per la primavera del 2009, saranno state impiegate

370 persone, movimentati 542mila metri cubi di terra, gettati 70mila metri cubi

di calcestruzzo e posati 150 chilometri di cavi. E ancora, per soddisfare il principio

di umanizzazione e urbanità, verranno piantati oltre 700 alberi e 6.000 arbusti.

Le degenze affacceranno su un ampio e folto bosco che avvolgerà completamente il

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Chiosco Maffeo e sarà fruibile da tutti i pazienti. I 100mila metri quadri circa del

nuovo complesso saranno suddivisi in tre blocchi. Il primo, su tre piani, destinato

all’accoglienza; il secondo per i servizi di diagnosi e cura e l’ultimo, immerso nel

verde, dedicato alle degenze. La particolarità di quest’ultimo settore consiste

nella sua struttura: quattro raggi disposti a semi raggera, ciascuno destinato ad

un settore in particolare, collegati ad un’estremità con la piastra della diagnosi.

Un esempio di efficienza organizzativa pubblica e di innovazione architettonica

che aprirà nuove strade percorribili per il rinnovamento dell’edilizia sanitaria in

Italia, perché gli ospedali siano permeabili, ovvero aperti: non più un recinto per

proteggere i sani dai malati, ma un pezzo di città in cui i luoghi della città stessa

(la strada, la piazza, il parco) penetrino nel cuore dell’edificio.

Il Nuovo Ospedale di Bergamo


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