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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

PONTIFICIUM ATHENÆUM REGINA APOSTOLORUMFACULTAS PHILOSOPHIAE

R. D. ALAIN CONTATSocius Pontificiae Academiae Romanae Sancti Thomae

Aquinatis

L'ABITO DEI PRIMI PRINCIPIDELL'INTELLETTO

SECONDO SAN TOMMASO D'AQUINO

ROMAE A.D. MCMIC

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"In quolibet genere pessima est principiicorruptio, ex quo alia dependent. Principia autemrationis sunt ea quae sunt secundum naturam: namratio, praesuppositis his quae sunt a naturadeterminata, disponit alia secundum quod convenit. Ethoc apparet tam in speculativis quam in operativis. Etideo, sicut in speculativis error circa ea quorumcognitio est homini naturaliter indita, est gravissimuset turpissimus; ita in agendis agere contra ea quaesunt secundum naturam determinata, est gravissimumet turpissimum" (II-II, 154, 12, c.).

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INDICE

Iª Parte: PROBLEMATICA DEI PRIMI PRINCIPI

1. Primo approccio ai primi princìpi 21.1. Breve cenno storico-semantico 21.1.1. Aristotele 21.1.2. Boezio 61.2. Descrizione sommaria dei primi princìpi 81.2.1. La natura dei princìpi 91.2.2. La genesi dei princìpi 111.2.3. La finalità dei princìpi 121.2.4. Prima definizione dell'abito dei primi princìpi 142. Problematizzazione dei primi princìpi 152.1. Domande sulla natura dei princìpi 152.2. Domande sulla genesi dei princìpi 162.3. Domande sulla finalità dei princìpi 172.4 Domanda sulla causa esemplare dei princìpi 182.5. Lo statuto epistemologico di questo studio 192.5.1. Il posto di questo studio nelle scienze filosofiche 192.5.2. Il metodo da seguire 22

IIª Parte: INVESTIGAZIONE SPECULATIVA DEI PRIMI PRINCIPI

I La natura dei primi princìpi 25

§ 1 L'intuizione dei princìpi è un abito ? 251. Collocazione storica del problema 251.1. Aristotele 251.2. Alessandro di Afrodisia 261.3. L'averroismo 272. Investigazione speculativa 282.1. Le nozioni in causa 292.1.1. La potenza e l'abito 292.1.2. Le potenze intellettive umane 362.2. Soluzione del problema 392.2.1. L'intuizione dei princìpi non è una potenza 392.2.2. L'intuizione dei princìpi è un abito 43

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§ 2 L'abito dei princìpi è una virtù intellettuale speculativa ? 451. Le nozioni in causa 451.1. La nozione di virtù 451.2. La nozione di virtù intellettuale 461.3. La nozione di virtù intellettuale speculativa 492. Soluzione del problema 55

§ 3 I che cosa consistono le proposizioni per se

di cui fanno parte i primi princìpi ? 571. I tre contrassegni logici delle premesse necessarie 572. Analisi delle tre condizioni logiche di necessità 612.1. La prima condizione: dici de omni 612.2. La seconda condizione: dici per se 622.2.1. La nozione di perseità in communi 622.2.2. I singoli modi di perseità 662.2.2.1. Il primo modo di perseità 662.2.2.2. Il secondo modo di perseità 702.2.2.3. Il quarto modo di perseità 752.2.3. Paragone fra i tre modi di perseità 792.2.3.1. Confronto fra i tre modi quanto all'attribuzione 792.2.3.2. Confronto fra i tre modi quanto all'argomentazione 822.3. La terza condizione: dici ut universale85

§ 4 In che cosa consiste il per se notum, che specifica i primi princìpi ? 901. L'elaborazione del per se notum sulla base di Boezio 901.1. Il commento sul De Hebdomadibus 901.2. I testi sull'inevidenza immediata dell'esistenza di Dio 961.2.1. Lo Scriptum super Sententias 961.2.2. Il De Veritate 971.2.3. I testi posteriori al De Veritate 1002. Chiarimento speculativo 1032.1. Bilancio dell'esegesi testuale 1032.2. La perseità del per sé noto 1052.3. Proposizione per se nota e abito dei princìpi 109

§ 5 I primi princìpi si dividono in comuni e propri ?110

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1. La distinzione dei princìpi e la ratio entis 1111.1. Alcuni testi sui princìpi e la ratio entis1131.2. Soluzione speculativa del problema 1151.2.1. I diversi tipi di additio all'ente 1161.2.2. I modi dell'ente ed i primi princìpi 2. La distinzione dei princìpi nella dimostrazione

§ 6 Quali sono i primi princìpi comuni ? 150§ 7 Quale è il primo principio primo comune ?

II La genesi dei primi princìpi

§ 8 L'abito dei princìpi è naturale o acquisito ?§ 9 Attraverso quali fasi l'abito dei princìpi viene generato ?§ 10 Da dove viene conosciuto il nesso predicativo nei primi princìpi ?§ 11 L'abito dei princìpi è immutabile o può crescere ?

III La finalità dei primi princìpi

§ 12 È necessario che ci sia un abito dei princìpi ?§ 13 In quale modo l'abito dei princìpi è lo strumento dell'intelletto agente ?§ 14 In quale modo la dimostrazione scientifica procede dai princìpi ?§ 15 In quale modo la dimostrazione scientifica procede in virtù dei princìpi ?§ 16 Quale è lo scopo dell'abito dei princìpi rispetto alla scienza ?§ 17 Quale è lo scopo dell'abito dei princìpi rispetto alla sapienza ?§ 18 Quale è il rapporto dell'abito dei princìpi nei confronti della sinderesi ?IV La causa esemplare dei primi princìpi§ 19 I primi princìpi sono un riflesso della luce divina ?

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ABBREVIAZIONI E SIGLE1. Opere di AristoteleCat. CategorieInt. Liber de interpretatione seu Peri hermeneiasAn. Pr. Analytica prioraAn. Post. Analytica posterioraTop. TopicaSoph. Sophistici elenchiPhys. PhysicaAn. De animaMet. MetaphysicaEth. Nic. Ethica Nicomachea

2. Opere di San Tommaso d'Aquinoc. corpus articulilect. lection. numero (dell'edizione Marietti)sol. solutio

I Summa theologiae, Ia pars

I-II Summa theologiae, Ia-IIae

II-II Summa theologiae, IIa-IIae

III Summa theologiae, IIIa parsCG Summa contra GentilesCTh Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae adfratrem RaynaldumEBH Expositio libri Boetii De hebdomadibusEBT Expositio super Boetium De TrinitateEE De ente et essentiaEPA Expositio libri Posteriorum [Analyticorum]EPH Expositio libri PerihermeneiasQDA Quaestio disputata De animaQdl Quaestiones quodlibetalesQDM Quaestio disputata De maloQDP Quaestio disputata De potentiaQDSC Quaestio disputata De spiritualibus creaturisQDV Quaestio disputata De veritateQDVC Quaestio disputata De virtutibus in communi

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SA Sententia libri De animaSDN Super librum Dionysii De divinis nominibusSE Sententia libri EthicorumSM Sententia super MetaphysicamSn Scriptum super SententiisSP Sententia super PoliticamSPh Sententia super Physicam

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Iª Parte

PROBLEMATICA DEI PRIMI PRINCIPI

1. Primo approccio ai primi princìpi

1.1. Breve cenno storico-semantico

Come è ben noto, in particolare con gli studi di Giovanni Reale che

riprendono su questo punto l'interpretazione aristotelica1(1), la storia dellafilosofia antica, può essere giustamente definita una ricerca dei princìpi(a)rxh/) e delle cause (a)iti/a) che fondano i fenomeni. In una prima fase che fudel periodo presocratico, questa caccia ai princìpi si mosse dentro l'ambito dellanatura (fu/sij); poi, grazie alla svolta operata dalla maieutica socratica, ebbeinizio con Platone la «seconda navigazione», che deve condurre il filosofo aiprincìpi soprasensibili dell'essere. Nella sua configurazione platonica, l'inchiesta sui princìpi giunse adistinguere nella loro sfera due livelli basici: il primo, comunemente noto, èquello delle idee e delle metaidee, paradigmi specifici o generici delle realtàsensibili; il secondo, riscoperto solo negli ultimi decenni, è quello dei due

princìpi ultimi, ossia l'«uno» e la «diade indefinita di grande e piccolo»2(2).Nella sua intenzione di fondo, il platonismo si pone quindi come unespiegazione dell'intera realtà a partire da questa coppia di princìpi supremi,tramite la progressiva complessificazione discendente delle idee a seconda delmaggiore peso della diade rispetto all'uno, il quale rimane la chiave di tutto ilsistema. Ora, l'uno o l'unità racchiude in sé due valenze, giacché è insiemeprincipio di essere (in una metafisica del genere) e principio di intelligiblità.Pertanto, in Platone, la protologia dà simultaneamente la chiave dell'essere edel conoscere, senza che sia possibile distinguere i due piani.

1.1.1. Aristotele

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La riforma aristotelica della disciplina che più tardi verrà chiamatametafisica ricongiunge l'ei)/doj (ossia il ti/ h)=n ei)=nai) alla cosa sussistente(o)usi/a) di cui è principio formale e che occorre deciffrare, in un primomomento, a partire dal sinolo. Ne segue che la filosofia deve prendere le mossedall'esperienza sensibile, andando dal più conosciuto per noi (l'o)usi/a

materiale corruttibile) al più conosciuto in sé (l'o)usi/a immateriale edincorruttibile), vale a dire dal meno conoscibile in sé al meno conoscibile per

noi3(3). Pertanto, l'epistemologia aristotelica si differenzierà radicalmente daquella platonica a ragion della proporzione inversa che lo Stagirita ammette fral'ordo essendi e l'ordo conoscendi: ogni matematizzazione del sapere filosoficoviene quindi esclusa. Da questa dualità fra ciò che è primo nell'ordine ontologico e ciò che, perl'intelletto umano legato al sensibile, è primo nell'ordine gnoseologico,proviene la distinzione fondamentale fra i princìpi dell'essere ed i princìpi del

conoscere4(4). Ai princìpi del reale, che sono il baricentro del filosofare, loStagirita dedicò le sue maggiori opere: così la Fisica ci fa scoprire nellaprivazione, la forma, la materia, poi l'agente ed il fine, i princìpi e cause deglienti mobili; il De anima investigherà l'anima tale causa formale del vivente ecausa efficiente - finale del suo automovimento; la Metafisica mostra nellasostanza, nell'atto, poi nell'Atto puro, i fondamenti, su diversi livelli, dell'entein quanto ente. Per quanto riguarda invece i princìpi del conoscere, i contributiespliciti del Filosofo sono in numero più limitato, ma nondimeno furono dicapitale importanza per lo sviluppo del versante epistemologico del suorealismo filosofico nonché dell'intera speculazione occidentale. I luoghimaggiori sono tre:

1. Il libro G (IV) della Metafisica ci offre, dal capitolo terzo alla fine, unostudio del principio di non-contraddizione, considerato il primo degliassiomi, nonché delle sue immediate implicanze.

2. L'ultimo capitolo (dicannovesimo) del libro B degli Analitici seconditratta dell'induzione dei princìpi primi, su i quali poggia la dimostrazionesillogistica. Molti brani più corti della medesima opera alludono poi alruolo effettivo dei princìpi nel processo dimostrativo.

3. Il libro Z (VI) dell'Etica Nicomachea, che studia le virtù intellettuali inottica morale, contiene il breve capitolo sesto che assegna all'intuizionedei princìpi un abito (e)/cij) speciale: il nou=j (che verrà tradotto conintellectus dai latini). Tale abito si differenzia, in un modo cheesamineremo, da altri quattro generi di virtù intellettuali: la scienza

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(e)pisth/mh), la sapienza (sofi/a), la prudenza (fro/nhsij), l'arte (te/xnh).

Come accade spesso nell'aristotelismo, vediamo quindi che una stessatematica viene studiata da diverse displine. Alla filosofia prima spetta ladeterminazione dell'oggetto dei princìpi, giacché esso dipende in qualche mododall'ente in quanto ente; all'Organon serviva una breve descrizione della genesidei princìpi, per distinguere la deduzione a partire dai princìpi dall'acquisizionedei princìpi stessi; all'etica conviene ordinare le diverse virtù per mezzo dellequali la mente ricerca il suo bene che è la verità. Non entriamo ora nel dettagliodella dottrina aristotelica dei princìpi, di cui ci occuperemo a lungo nel corso diquesto studio; invece, tornerà utile dare uno sguardo previo alla terminologiaaristotelica. Come ogni conoscenza intellettuale umana, quella raggiunta dal nou=j siesprime in proposizioni. Nel capitolo secondo del primo libro dei SecondiAnalitici, Aristotele precisa il suo vocabolario rispetto ai princìpi:

Un principio di dimostrazione, inoltre, è una proposizioneimmediata (pro/tasij a)/mesoj). Immediata poi è la proposizione cuinessun'altra è anteriore. Dal canto suo, la proposizione è l'una o l'altraparte di una enunciazione, quando attribuisce un solo predicato ad unsolo soggetto: essa è dialettica, se prende indifferentemente una qualsiasidelle parti della enunciazione; essa è invece dimostrativa, se prende unaparte determinata poiché tale parte è vera. Una enunciazione è qualsiasidelle parti di una contraddizione. Una contraddizione è una opposizioneche non ammette per sé nessun intermediario. La parte di unacontraddizione che unisce un predicato ad un soggetto è unaaffermazione, mentre la parte che nega un predicato di un soggetto è unanegazione. Chiamo principio immediato (a)/mesoj a)rxh/) delsillogismo una tesi (qe/sij), quando, pur non essendo suscettibile didimostrazione, non è indispensabile a chi vuole imparare qualcosa; se,invece, il suo possesso è indispensabile è chi vuole imparare checchessia,è un assioma (a/ci/wma): esistono, certe verità di questo genere, ed èsopratutto a tali verità che diamo abitualmente il nome di assiomi. Se unatesi prende una qualsiasi delle parti dell'enunciazione, quando dico adesempio che una cosa è o che una cosa non è, è una ipotesi (u(poqe/sij);altrimenti, è una definizione (o(rismo/j). La definizione è una tesi,poiché, in aritmetica, si pone che l'unità è ciò che è indivisibile secondola quantità; ma non è una ipotesi, giacché definire ciò che è l'unità ed

affermare l'esistenza dell'unità non è la stessa cosa5(5).

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Per il momento, ci limitiamo a mettere in sinopsi la tipologia dei princìpidi dimostrazione che il Filosofo delinea qui: principio immediato a)/mesoj a)rxh/

indispensabile al discepolo a/ci/wma

non indispensabile al discepolo qe/sij

predicando qualcosa di qualcosa u(poqe/sij

non predicando qualcosa di qualcosa o(rismo/j

Si noterà che la prima divisione dei princìpi, in assiomi e tesi, si prendedalla comprensione che ne ha il discepolo cui è indirizzata la dimostrazione.Agli assiomi appartengono quelle proposizioni senza la conoscenza delle qualinon si può minimamente procedere alla dimostrazione; le tesi sono, per contro,princìpi che servono di punto di partenza alla dimostrazione, ma la cui veritànon è necessariamente colta dall'uditore. Tale come viene presentata, questadistinzione rimane da chiarire. La suddivisione seguente delle tesi in ipotesi edefinizioni è più facile da capire: mentre la ipotesi si esprime in unaproposizione, e quindi afferma o nega qualcosa di qualcosa, la definizione, diper sé, non è ancora un discorso enunciativo.

Un pò più avanti nello stesso libro dei Secondi Analitici, al capitolodecimo, Aristotele sembra includere le ipotesi in una classificazione diversa epiù complessa:

Ciò che, pur essendo dimostrabile, viene posto dal maestro senzadimostrazione, questo è, se il discepolo lo riceve come probabile, unaipotesi, benché non sia una ipotesi in senso assoluto, ma solo una ipotesirelativamente a qualcuno. Se il discepolo non ha nessuna opinione,oppure se ha una opinione contraria, ciò che esso riceve è allora unpostulato. E di là viene la differenza fra l'ipotesi (u(poqe/sij) ed ilpostulato (ai)/thma): il postulato è ciò che è contrario all'opinione deldiscepolo, dimostrabile, ma posto ed utilizzato senza dimostrazione. Ledefinizioni (o(/roi) non sono ipotesi, giacché non dicono nientesull'essere o sul non essere; ma le ipotesi si trovano nelle

proposizioni6(6).

Qua si studiano proposizioni che di primo acchito sono di per sédimostrabili, a differenza delle tesi delle quali trattava il capitolo secondo.Forse i due brani si possono mettere d'accordo se si considera l'opposizione

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incidentale fra «ipotesi in senso assoluto» (a)plw=j u(poqe/sij) e «ipotesirelativamente a qualcuno» (pro\j e)kei=noj). Solo le ipotesi in senso assolutosarebbero dimostrabili in sé, mentre le ipotesi relativamente a qualcunosarebbero dimostrabili soltanto per noi, ma non in sé; perciò, queste ultimepotrebbero essere delle tesi, cioè dei princìpi immediati non ancora evidenti peril discepolo. Comunque ne sia di questo punto controverso, è chiaro che ladifferenza posta qui fra ipotesi (u(poqe/sij) e postulato (ai)/thma) dipendedalla recezione del discepolo: allorché la ipotesi suscita un certo assensoimperfetto, il postulato lascia inizialmente l'interlocutore o scettico, o addirituracontrario.

Nell'ottica del nostro studio, ci troviamo quindi a due grandi tipi dienunciati. I primi sono gli assiomi, la cui appartenenza all'ordine dei princìpinon è discutibile; gli altri comprendono le tesi, le ipotesi, i postulati, e anche, inqualche misura le definizioni: per tutti questi ultimi, si dovrà determinareperché e in quale modo costituiscono pure dei princìpi.

1.1.2. Boezio

Per l'Occidente latino, e quindi per san Tommaso, l'altra grande fontedalla quale si attingerà la teoria dei princìpi venne offerta dall'opera di SeverinoBoezio. Il suo apporto può essere sintetizzato sotto due capisaldi. In primoluogo, si deve menzionare lo scritto intitolato Quomodo substantiae in eo quodsint, bonae sint cum non sint substantialia bona. Questo brevissimo trattatelo,che tiene in meno di quattro colonne della Patrologia Latine del Migne, furecepito nel Medioevo sotto l'appellazione più commoda di Liber deHebdomadibus. Poco dopo l'inizio, Boezio vi presenta una celebre divisione deiprincìpi, la cui terminologia ed il cui contenuto giocheranno un grande ruolonella speculazione posteriore:

Ut igitur in mathematica fieri solet, caeterisque etiam disciplinis,proposui terminos regulasque quibus cuncta quae sequuntur efficiam.Communis animi conceptio est enuntiatio, quam quisque probat auditam.Harum duplex modus est: nam in una communis est, ut omniumhominum sit, velut si hanc proponas: Si duobus aequalibus aequaliaauferas, quae relinquuntur aequalia esse; nullus id intelligens neget. Aliavero est doctorum tantum, quae tamen ex talibus communi animiconceptionibus venit, ut est: Quae incorporalia sunt, in loco non esse, et

caetera, quae non vulgus, sed docti comprobant7(7).

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Due punti sono qui da rilevare:1. Ciò che Aristotele chiamava a/ci/wma viene qui interpretato come

communis animi conceptio, e viene definito in funzionedell'«approbazione» che qualunque potenziale uditore le può dà subito:quam quisque probat auditam.

2. Queste «concezioni comuni» (che non sono concetti, bensì enunciazioni)si dividono in due classi: nella prima rientrano quelle che ricevonol'assenso da tutti gli uomini (omnium hominum), mentre alla secondaclasse appartengono quei enunciati che, pur essendo veramente deiprincìpi ai quali si può de iure assentire fin dal semplice ascolto,rimangono però de facto intelligibli solo agli scienziati (doctorum).

L'altro grande apporto di Boezio alla riflessione sui princìpi sta nella sua

traduzione dell'Organon, ed in particolare dei Secondi Analitici8(8). Da questa

traduzione molto letterale9(9), il Medioevo desunse un lessico che potrebbesorprendere il lettore non informato. Diamo qui una breve tavola trilingue dellaterminologia aristotelica sui princìpi, a partire dai capitoli secondo e decimo(ottavo per Boezio) dei Secondi Analitici di cui abbiamo già dato il testo

italiano10(10):

Aristotele Boezio traduzione

a)rxh/ principium principio

pro/tasij propositio proposizione

a)/mesoj immediatum immediato

a/ci/wma dignitas assioma

qe/sij positio tesi

u(poqe/sij suppositio ipotesi

ai)/thma petitio postulato

o(rismo/j definitio definizione

o)/roj terminus delimitazione

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Con ciò, possediamo il vocabolario elementare che ci consente di leggeregli autori sia greci che latini senza fraintenderli. Dopo questa sommariaambientazione storico-semantica, dobbiamo completare il nostro primoapproccio ai princìpi con un abbozzo speculativo, che si appelli direttamente asan Tommaso.

1.2. Descrizione sommaria dei primi princìpi

Le caratteristiche fondamentali dello habitus grazie al quale la nostrafacoltà intellettuale accede agli assiomi o primi princìpi vengono cosìpresentate dall'Aquinate:

inquantum [intellectus] continet prima principia universaliacognita nobis per naturale lumen intellectus, ex quibus procedit ratio tam

in speculandis quam in agendis11(11).

Questa concisa descrizione si articola chiaramente in quattro punti,enunciati in modo non impreciso, però abbastanza sommario :

1. Questo habitus ha per soggetto, come è ovvio e come abbiamo già detto,l'intelletto.

2. Ogni potenza o abito essendo specificato dal suo oggetto, questo nedetermina il formale. San Tommaso si limita a qualificare qua taleoggetto come i «principi primi universali», vale a dire quelleproposizioni al di là delle quali non si può risalire nell'ordine dellaconoscenza (non dell'essere), e il cui ambito non si restringe ad unadisplina particolare.

3. La conoscenza di questi princìpi proviene dal «lume naturaledell'intelletto» : è come dire che sono noti alla mente spontaneamente,grazie alla sola luce dell'intelletto agente e senza il concorso di un'altra,previa, conoscenza intellettuale.

4. Questi princìpi non sono minimamente fine a sé stessi, ma servono allaragione, quindi alla facoltà intellettiva in quanto discorsiva per procederealla scoperta di verità che originariamente non le sono note, e questo sianel campo speculativo che in quello pratico.

In questa quadruplice caratterizzazione, è facile discernere le quattro

cause dello habitus in causa12(12):

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[1] L'intelletto possibile ne è la causa quasi materiale.[2] L'anteriorità e l'universalità conoscitive si ricollegano alla sua causa

formale, considerata nell'aspetto di differenza costitutiva rispetto adaltri oggetti.

[3] Il riferimento alla luce naturale dell'intelletto indica un ruolo genuinodell'intelletto agente nella causazione efficiente di questo abito.

[4] Il discorso proprio della razionalità viene proposto come effettoproprio dei primi princìpi, che saranno in qualche modo ordinati allascoperta di verità mediate come al loro scopo.

Lasciando da parte la causa materiale ossia il soggetto dell'abito deiprincìpi, dobbiamo esplicitare le sue cause attuanti, ossia formale, efficiente, efinale. Seguiamo questo ordine, perché è quello suggerito dal testo appenacitato, e perché, in questo caso, occorre sapere prima che cosa sono i primiprincìpi per determinare come vengono conosciuti e a che cosa servono.

1.2.1. La natura dei princìpi

Abbiamo visto che san Tommaso assume a pieno titolo, nella suaepistemologia, la classificazione aristotelica degli abiti intellettuali in cinquegeneri di virtù: arte, prudenza, scienza, sapienza, abito dei princìpi. Perdistinguere l'ultimo dei quattro altri, si deve partire, in buon metodoaristotelico, dall'oggetto proprio di ciascuno. Una prima differenziazione civiene offerta dall'opposizione fra necessario e contingente:

Aristoteles in VI Ethic. ponit quinque quae se habent semper adverum, scilicet artem, scientiam, sapientiam, prudentiam et intellectum;subiungens duo quae se habent ad verum et falsum, scilicet suspicionemet opinionem. Prima autem quinque se habent solum ad verum, quia importantrectitudinem rationis. Sed tria eorum, scilicet sapientia, scientia etintellectus, important rectitudinem cognitionis circa necessaria: scientiaquidem circa conclusiones, intellectus autem circa principia, sapientiaautem circa causas altissimas, quae sunt causae divinae. Alia vero duo,scilicet ars et prudentia, important rectitudinem rationis circa

contingentia13(13).

L'abito dei primi princìpi ha quindi per oggetto delle verità che sononecessarie, e che stanno all'origine, per noi, di altre. Ontologicamente, il

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necessario equivale al per se, vale a dire a ciò che appartiene a qualcosa a

ragione dell'essenza di questo qualcosa14(14). Logicamente, il necessario vienesignificato da proposizioni che sono anche dette per se, cioè nelle quali ilpredicato si riferisce al soggetto a causa dell'essenza stessa di

quest'ultimo15(15). Alla pari della sapienza e della scienza, l'abito dei princìpiraggiunge quindi il piano necessario dell'essere.

Ma che cosa ci consentirà di distinguere poi gli abiti speculativi fra diloro ? Quando san Tommaso intendette ricordare questo punto ai novizi inteologia, che sono i destinatari della Summa theologiae, egli cominciò la suaspiegazione così:

sicut iam dictum est, virtus intellectualis speculativa est per quamintellectus speculativus perficitur ad considerandum verum; hoc enim estbonum opus eius. Verum autem est dupliciter considerabile: uno modo,sicut per se notum; alio modo, sicut per aliud notum. Quod autem est perse notum, se habet ut principium; et percipitur statim ab intellectu. Etideo habitus perficiens intellectum ad huiusmodi veri considerationem,

vocatur intellectus, qui est habitus principiorum16(16).

Giacché le virtù intellettuali sono virtù, ci si ricorda opportunamente chesono finalizzate al bene dell'intelletto; ora, siccome la causalità finale fonda unordine, possiamo già porre che l'organismo degli abiti intellettivi costituisce unordine, nel quale ciascuno occupa un posto ben determinato, che dovremodefinire con la massima precisione. Per quanto riguarda direttamente il nostro tema, l'abito dei princìpi vienedistinto dagli altri tramite il modo in cui il tipo di verità contemplata da taleabito viene conosciuta: essa deve essere per se nota. Questo significa che, nelleproposizioni nelle quali l'intelligenza esprime i princìpi primi, la formasignificata dal predicato viene applicata alla cosa denotata dal soggettoimmediatamente, e non per la mediazione di un altro termine (per aliud notum).Come si vede, la caratterizzazione dell'abito dei princìpi proposta qui si desumedal modo in cui l'intelletto ne conosce l'oggetto. Rimanendo sul piano noetico,l'Aquinate precisa poi che questi enunciati servono di principio per laconoscenza degli altri, che sono per aliud, e che, in sé stessi, sono noti subito(statim). All'immediatezza conoscitiva della connessione fra soggetto epredicato segue quindi l'immediatezza cronologica della loro percezione. Congiungendo le due note specificanti dello habitus principiorum cheabbiamo finora abbozzate, possiamo darne una prima determinazione: esso ha

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per oggetto proprio quelle verità che sono insieme per se da parte dell'oggettostesso e per se notae da parte del modo di conoscerlo. Una proposizione saràpertanto un primo principio se il nesso fra il suo predicato ed il suo soggetto ènecessario e se tale nesso viene colto dalla mente umana senza la mediazione diun altro termine.

1.2.2. La genesi dei princìpi

Dal punto di vista dell'origine, l'abito dei primi princìpi si distingue daglialtri abiti intellettuali per la sua indole naturale:

Intellectus igitur cum sit una vis, est eius unum naturale obiectum,cuius per se naturaliter cognitionem habet. Hoc autem oportet esse id subquo comprehenduntur omnia ab intellectu cognita: sicut sub colorecomprehenduntur omnes colores, qui sunt per se visibiles. Quod non estaliud quam ens. Naturaliter igitur intellectus noster cognoscit ens, et eaquae sunt per se entis inquantum huiusmodi; in qua cognitione fundaturprimorum principiorum notitia, ut non esse simul affirmare et negare, etalia huiusmodi. Haec igitur sola principia intellectus noster naturalitercognoscit, conclusiones autem per ipsa: sicut per colorem cognoscit

visus tam communia quam sensibilia per accidens17(17).

Si delinea quindi, rispetto alla genesi delle nostre conoscenzeintellettuali, una antitesi. Da un lato, la nostra mente entra naturalmente inpossesso di un sapere originario, che viene costituito dalle prime nozioni,connesse alla nozione di ente, e dai primi princìpi, connessi al principio dinon-contraddizione. L'abito dei princìpi appare dunque legato, come sua prima

risultanza, alla nozione che «per primo cade nell'intelletto»18(18). A questaconoscenza naturale si oppone, da un altro lato, il sapere propriamenterazionale, acquisito per lo sforzo di ricerca a partire dai princìpi e di riduzione aloro.

Ma se le prime nozioni, e gli assiomi a loro collegati, sono conosciutinaturalmente dall'intelletto, non sono tuttavia innati nel senso che avrà questovocabolo in Cartesio o in Leibniz, giacché vengono anche loro astrattidall'intelletto agente a partire da una previa sensazione:

... praeexistunt in nobis quaedam scientiarum semina, scilicetprimae conceptiones intellectus, quae statim lumine intellectus agentis

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cognoscuntur per species a sensibilibus abstractas, sive sint complexa, utdignitates, sive incomplexa, sicut ratio entis, et unius, et huiusmodi, quae

statim intellectus apprehendit19(19).

Il carattere originario dei primi princìpi non consiste dunque nell'essereinnati stricte loquendo, bensì nell'essere astratti per primo (statim)dall'intelletto agente e nell'essere pertanto conosciuti dall'intelletto possibilesenza nessun esercizio della razionalità discorsiva (quae statim intellectusapprehendit).

Giunti qui, possiamo dare alla genesi dell'abito dei princìpi una suaprima spiegazione: esso è immediatamente consecutivo all'apprensione delleprime nozioni conosciute grazie all'illuminazione dell'intelletto agente sullespecie sensibili. L'anteriorità di cui si tratta non è meramente cronologica, mapiuttosto insieme cronologica e logica: allo stesso modo in cui, infatti, lanozione di ente, e le nozioni connesse ad essa, sono come l'oggetto formale checonsente di apprenhendere ogni altra nozione, parimenti il principio dinon-contraddizione ed i princìpi connessi ad esso sono come la regola che

rende possibile ogni altro giudizio20(20).

1.2.3. La finalità dei princìpi

Essendo fondati sulla ratio entis, gli assiomi ne partecipano quindil'universalità e l'originarietà; perciò essi costituiscono il fondamento stabile cherende possibile il movimento ordinato della ragione alla ricerca della verità:

Et inde est quod omnia mutabilia reducuntur ad aliquod primumimmobile. Inde est etiam quod omnis specifica cognitio derivatur abaliqua certissima cognitione circa quam error esse non potest, quae estcognitio primorum principiorum universalium, ad quae omnia illacognita examinantur, et ex quibus omne verum approbatur, et omne

falsum respuitur21(21).

I primi princìpi hanno così un valore criteriologico rispetto a tutte leproposizioni che, non conoscibili immediatamente dalla mente umana, possonoessere conosciute soltanto come conclusioni. Ora, la conclusione sta in unrapporto duplice di fronte ai princìpi grazie ai quali essa viene posta:

Et quia motus semper ab immobili procedit, et ad aliquid quietum

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terminatur; inde est quod ratiocinatio humana, secundum viaminquisitionis vel inventionis, procedit a quibusdam simpliciter intellectis,quae sunt prima principia; et rursus, in via iudicii, resolvendo redit ad

prima principia, ad quae inventa examinat22(22).

Si dà quindi nel primo momento il movimento di ricerca e di invenzionedella soluzione (viam inquisitionis vel inventionis) per il quale la ragioneinvestiga i predicati che possono interessare il tema di una determinatainchiesta scientifica; se questi sono di fatto connessi all'oggetto in causa, si dàpoi nel secondo momento il movimento inverso di riduzione ai princìpi, per ilquale la ragione si assicura la verità di un asserto originariamente problematico.Nell'esercizio di questa duplice funzione, la finalità dello habitus principiorumè quella di uno strumento grazie al quale l'intelletto, illuminando un nuovo datosperimentale, vi scopre implicazioni ancora non note:

Sicut enim principalius sanans est natura interior, sic principiumprincipaliter causans scientiam est intrinsecum, scilicet lumen intellectusagentis, quo causatur scientia in nobis, dum devenimus perapplicationem universalium principiorum ad aliqua specialia, quae perexperientiam accipimus in inveniendo. Et similiter magister deducit

principia universalia in conclusiones speciales23(23).

Si noti che la strumentalità inventiva dei primi princìpi vienecostantemente subordinata da san Tommaso all'intelletto agente, e nonall'intelletto possibile, giacché si tratta formalmente di far conoscere, e non diconoscere. In questa ottica, i primi princìpi sono come il riflesso della lucedell'intelletto agente che rendono intelligibile la conclusione da dimostrare. Laloro finalità è quella di un intermedio necessario.

1.2.4. Prima definizione dell'abito dei primi princìpi

Possiamo ora collegare tutti gli elementi della nostra analisi preparatoriain una prima definizione. Diremo allora che

- l'abito dei primi princìpi è una virtù intellettuale

- il cui oggetto specificante consiste in tutte le verità necessarie che sonoinsieme per se e per se notae,

- la cui genesi risulta senza mediazione dall'apprensione delle nozioniche per primo cadono nell'intelletto,

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- il cui fine sta nell'essere strumento dell'intelletto agente nel rendereintelligibili conclusioni originariamente inevidenti per la ragione.

Questa definizione ci consente, negativamente, di delimitare strettamentel'abito dei princìpi dalle altre virtù intellettuali speculative, giacché le trecaratterizzazioni per l'oggetto, l'origine e la finalità gli appartengono in modoesclusivo. Infatti, scienza e sapienza mirano a verità conosciute per aliud, laloro acquisizione passa per la mediazione di premesse anteriori, e il loro finenon è di tipo strumentale - anzi, la sapienza è ultima nell'ordine delleconoscenze riconducibili alla sola luce naturale dell'intelletto. Al contempo, lanostra definizione precisa poi, positivamente, le cause intrinseche edestrinseche del nou=j che l'Aquinate ereditò dallo Stagirita. Però, i termini e leproposizioni che abbiamo usati per definirlo debbono a loro volta esserechiariti.

2. Problematizzazione dei primi princìpi

Per arrivare a cogliere in modo perfetto la definizione dell'abito deiprincìpi che abbiamo appena elaborata, dobbiamo quindi investigarne con lamassima precisione il contenuto. A questo scopo, formuliamo ora un elenco ditutti i problemi che si possono sollevare a proposito della prima virtùintellettiva, ricordando con Aristotele che il giusto cammino (eu)pori/a) daseguire in una ricerca dipende dalla giusta posizione dei problemi

(diaporei=n)24(24). Raggruppiamo queste domande in tre classi cherispecchiano le tre linee di investigazione che abbiamo fissate ed all'internodelle quali seguiremo un ordine progressivo dal più comune al più

specifico25(25). Per la comodità dello studio che verrà così configurato, diamoa ciascun problema un numero di ordine, al quale corrisponderà un paragraforisolutivo nella seconda parte. In questo modo, la nostra inchiesta procederàsecondo il metodo della quaestio disputata.

2.1. Domande sulla natura dei princìpi

[1] Anzitutto, ci dobbiamo chiederci se e perché il nou=j ha per genereremoto l'abito (e)/cij), il ché ci obbligherà a ricordarci pur brevemente che cosaè un abito.

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[2] Allo stesso modo, ci si chiederà poi se e perché l'abito dei princìpi è unavirtù intellettuale speculativa. Si dovrà quindi ricercare in primo luogo che cosaè una virtù intellettuale, ossia la ratio comune a tutti i cinque generi di abitiintellettuali. Inoltre, l'intellectus principiorum viene collocato, nei testi cheabbiamo citati, dentro il genere degli abiti speculativi, che hanno per oggettodelle verità necessarie; perciò dovremo precisare, in secondo luogo, che cosa èla necessità che li caratterizza, al fine di determinare se e perché i primi princìpisono sempre necessari.[3] Un quesito simile si pone a proposito della perseità, che è la caratteristicalogica delle proposizioni nelle quali viene espressa la necessità metafisica diqueste verità.

[4] L'ultima differenza specificante dell'abito dei princìpi consiste nell'essereper se notum degli enunciati che esso raggiunge; ci domanderemo perciò comesi definisce e come si analizza questa caratteristica.

[5] L'approfondimento di un oggetto richiede che, una volta definito nellasua essenza, se ne dispiegano inoltre le «parti»; perciò dovremo esaminare ledivisioni dei princìpi, cominciando da quella, di capitale interesse perl'epistemologia aristotelica e quindi tommasiama, fra i princìpi comuni (koi\nai

do/cai) e quelli propri (i)/diai do/cai). Questa ricerca si intreccia conl'investigazione del rapporto fra primi princìpi e ratio entis, giacché si dà unlegame stretto fra le prime proposizioni e le prime nozioni che «cadono» nellamente umana.

[6] Concentrando poi la nostra attenzione sul primo membro della divisionedei princìpi, ci chiederemo se e come possiamo elencare i princìpi comuni.

[7] Se vi sono diversi princìpi comuni, questi debbono, come ogni pluralità,essere ordinati ad un primo; pertanto ci domanderemo quale è formalmente ilprimo dei primi princìpi e come lo si deve esattamente formulare.

2.2. Domande sulla genesi dei princìpi

[8] Siccome i due predicati di «naturale» e di «acquisito» sembrano opporsinonostante la previa chiarificazione che ne abbiamo data, cercheremo cosasignificano questi due termini nel caso dell'abito dei princìpi, e in quale modo

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si applicano ambedue ad esso.

[9] Si dovrà poi analizzare dettagliatamente le fasi attraverso le quali l'abitodei princìpi viene inizialmente iscritto nell'intelletto possibile perl'illuminazione dell'intelletto agente su una sintesi sensoriale elaborata nei sensiinterni in base alla sensazione esterna.

[10] Ciò che è formale in un primo principio è l'evidenza della connessioneimmediata fra il predicato ed il soggetto; ora ci si chiede, dal punto di vistagenetico, se tale connessione viene conosciuta solo dall'intelletto agente,oppure se viene in qualche sperimentata nella percezione.

[11] Da un lato, sembra che la conoscenza dei princìpi sia interamente datanella prima intellezione, poiché loro sono il fondamento di ogni altro giudizio;ma, d'altro lato, sembra pure che l'abito dei princìpi possa crescere col tempo,giacché i sapienti ricorrono ad uno spettro di princìpi assai più ampio dei rudes.

2.3. Domande sulla finalità dei princìpi

[12] Sapendo che l'abito dei princìpi esiste (an sit) nonché in che cosa essoconsiste (quid sit), siamo in grado di porre la domanda sulla sua necessità(propter quid sit), e di risolverla.

[13] La necessità dell'abito dei princìpi essendo quella di uno strumento, sideve poi analizzare la sua finalità a partire dai due poli di ogni mediazionestrumentale che sono l'agente principale da un lato, poi l'effetto ottenuto dallostesso strumento d'altro lato. Ci si chiede quindi in primo luogo perché e comel'abito dei princìpi sia lo strumento necessario dell'intelletto agente.

[14] L'analisi della strumentalità dei primi princìpi, nell'ottica della loro causafinale, deve dunque proseguire considerando l'«effetto» intenzionale da lororaggiunto, che consiste nell'invenzione e la risoluzione di una conclusionemediata. Sotto questo aspetto, vi sono di nuovo due aspetti da esaminare. In unadimostrazione scientifica, in primo luogo, le premesse debbono essere

immediate, o perlomeno riducibili a proposizioni immediate26(26); in altritermini, i princìpi sono ciò a partire di cui il sillogismo viene effettuato. Ci sichiede pertanto in quale modo la dimostrazione procede dai princìpi (ex

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principiis).

[15] Al contempo, in secondo luogo, un sillogismo adopera sempre ilprincipio di non-contraddizione, non tuttavia come premessadell'argomentazione, bensì come sua molla interna. Ci dobbiamo quindi anchechiedere in quale modo la dimostrazione procede in virtù dei princìpi (virtuteprincipiorum).

[16] Dopo aver considerato la finalità strumentale dei princìpi nel loroesercizio attuale, si deve risalire ai rapporti di finalità che l'abito stesso deiprincìpi trattiene con le altre virtù intellettuali. Quindi ci si chiede, per primo,quale è lo scopo dello habitus principiorum rispetto alle scienze speculativeche considerano un determinato segmento dell'essere (la metafisica essendoquindi esclusa).

[17] Lo stesso problema si pone rispetto alla disciplina che specula l'essere inquanto essere, cioè la sapienza.

[18] Nella prospettiva comparativa dei due ultimi quesiti si inserisce anche ladomanda sul rapporto fra l'abito dei princìpi, che viene collocato nell'ordinedelle virtù speculative, e la sinderesi, ossia l'abito dei primi princìpi pratici, cheè ordinato all'agire morale di cui costituisce la suprema regola naturale.

2.4. Domanda sulla causa esemplare dei princìpi

Allo stesso modo in cui l'investigazione metafisica sull'ente non ècompiuta prima che il filosofo primo sia arrivato all'Ipsum Esse Subsistens chene è il principio e causa supremo, così anche la riflessione sui primi princìpinoetici deve giungere fino al loro esemplare transcendente, che non è altro chela summa et prima veritas. Integrando qua Agostino con Aristotele, l'Aquinateallude spesso a questa risultanza della verità divina nella nostra menteattraverso i primi princìpi:

a veritate intellectus divini exemplariter procedit in intellectumnostrum veritas primorum principiorum secundum quam de omnibusiudicamus. Et quia per eam iudicare non possumus nisi secundum quodest similitudo primae veritatis, ideo secundum primam veritatem de

omnibus dicimur iudicare27(27).

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[19] Concluderemo il nostro studio con l'elucidazione di questo rapporto diesemplarità, ricercando in qualo modo i primi princìpi trovano il loroparadigma nella luce dell'intelletto divino.

2.5. Lo statuto epistemologico di questo studio

All'inizio di una inchiesta scientifica, nel senso aristotelico di questoaggettivo, occorre determinare l'oggetto da studiare, la disciplina al quale

appartiene, ed il metodo da seguire28(28). L'oggetto che vogliamo investigare, vale a dire il subiectum (ge/noj)

della presente ricerca29(29), è stato sufficientemente delineato con ladefinizione che ne abbiamo desunta da san Tommaso e le spiegazioni che neabbiamo date. Precisiamo ora che ci limiteremo, in questa sede, aa analizzarel'abito dei princìpi in quanto è una virtù intellettuale speculativa, riservandosolo un problema alla questione del suo rapporto con la sinderesi. Rimanequindi da determinare la scienza nel campo della quale rientra il presentestudio, nonché il metodo che conviene adoperare.

2.5.1. Il posto di questo studio nelle scienze filosofiche

Per quanto riguarda il luogo epistemologico proprio di una riflessione suiprimi princìpi, si deve tener conto dei diversi aspetti di questo tema, che sonotre.

€€ L'oggetto dei princìpi

Considerando il primo luogo la realtà stessa raggiunta dall'intellectusprincipiorum ossia «i primi princìpi» come oggetto di conoscenza, si deveascrivere il loro studio alla filosofia prima. San Tommaso lo dimostra con ognirigore nel suo commento alla Metafisica di Aristotele:

Hic solvit aliam quaestionem in tertio motam; scilicet utrum adistam scientiam pertineat considerare prima principia

demonstrationis30(30). Ratio talis est. Quaecumque insunt omnibus entibus, et non solumalicui generi entium separatim ab aliis, haec pertinent ad considerationemphilosophi: sed praedicata principia sunt huiusmodi: ergo pertinent adconsiderationem philosophi. Minorem sic probat. Illa, quibus utuntur

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omnes scientiae, sunt entis inquantum huiusmodi: sed prima principia

sunt huiusmodi: ergo pertinent ad ens inquantum ens31(31).

La ragione dell'appartenenza epistemologica dell'assiologia allametafisica si trova quindi nella loro connessione, già accennata, alla ratio entis,che è il subiectum specifico della suprema disciplina filosofica. Dovremoesaminare in quale misura l'insieme dei primi princìpi è collegatio all'ente,giacché tutti non lo sono in modo così immediato come il principio dinon-contraddizione. Si rilevi già che, allo stesso modo in cui tutte le nozioni,fossero pure traspredicamentali, non hanno la stessa totale universalità dellanozione di ente, così anche non tutti i princìpi propri, pur comuni, non siestenderanno alla assoluta totalità del reale.

Si potrebbe poi muovere qui due obiezioni. La prima sarebbe che non sicapisce come l'oggetto proprio di un abito, che è appunto lo habitusprincipiorum, debba essere tematizzato da un altro abito, che sarebbe laphilosophia prima. A questa istanza, si risponderà che l'abito dei princìpiconosce, sì, i princìpi, ma non riflessivamente, il ché appartiene, invece, allametafisica:

Sed quia [sapientia] habet aliquid proprium supra alias scientias,inquantum scilicet de omnibus iudicat; et non solum quantum ad

conclusiones, sed etiam quantum ad prima principia32(32).

Mentre quindi l'abito dei princìpi conosce semplicemente edimmediatamente le proposizioni nelle quali i princìpi vengono espresse, lasapienza li «giudica», ossia specula su di loro. Un altra obiezione potrebbe nascere invece dal carattere strumentale deiprincìpi. Siccome loro sono destinati alle scienze, qualcuno potrebbe non capireperché non rientrano in quel genere di virtù intellettuali, giacché le premessesono omogenee alla conclusione. San Tommaso risolve così questa difficoltà:

Principia vero demonstrationis posunt seorsum considerari, absquehoc quod considerentur conclusiones. Possunt etiam considerari simulcum conlusionibus, prout principia in conclusiones deducuntur.Considerare ergo hoc secundo modo principia, pertinet ad scientiam,quae considerat etiam conclusiones: sed considerare principia secundum

seipsa, pertinet ad intellectum33(33).

In sintesi, l'oggetto dei primi princìpi viene quindi considerato, sotto

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diversi aspetti, dai tre generi di virtù intellettuali speculative: oggetto dei primi princìpi considerato in sé stessi semplicemente habitus principiorum riflessivamente philosophia prima in ordine alle conclusioni scientia

Si dà, fra questi diversi abiti, questa differenza che la metafisica tratteràdei princìpi noti in actu signato, mentre l'abito stesso dei princìpi e le scienzeche li utilizzano vi faranno ricorso sopratutto in actu exercito: sia che si dia unsemplice assenso agli assiomi, sia che loro vengano usati in dimostrazioni, nonci si ferma sul significato dell'enunciato stesso, ma si passa subito oltre. Solo lafilosofia prima, proprio perché i princìpi rientra nel suo soggetto, può meditaresu di loro.

€€ L'abito dei princìpi come qualità dell'intelletto

Una seconda dimensione dei princìpi è l'essere abituale che possedononell'intelletto, appunto come habitus specificamente intellettuale. Sotto questoaspetto, il €o€€ appartiene all'ordine delle realtà immateriali, ed è quindiqualcosa di «meta-fisico», cioè di separato dalla materia. A questo titolo, lostudio dell'abito dei princìpi rileva della disciplina che san Tommaso chiamaincidentalmente scientia de intellectu, e che non può non essere un momento

della filosofia prima34(34).

€€ Il tipo di predicazione proprio dei primi princìpi

Una terza dimensione dei primi princìpi consiste nel tipo di predicazione(per se e per se nota) che li caratterizza. Sotto questo profilo, uno studio dellohabitus principiorum coinvolgerà la logica, cui spetta considerare le relazionidi ragione che la mente forma dentro di sé per conoscere l'ente fuori di sé.Infatti, i princìpi costituiscono un peculiare tipo di enunciazione, il ché ci

rimanda all'intenzione seconda di attribuzione35(35). Questa ragione teoreticafonda l'ampio sviluppo che viene dato alla problematica dei princìpi comuni epropri negli undici primi capitoli del libro A dei Secondi Analitici.

2.5.2. Il metodo da seguire

L'altro punto da chiarire inizialmente riguarda il metodo da seguire.Come in ogni scienza, si tratterà di sollevare e di risolvere i «problemi»

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(problh/mata) che si pongono a chi vuole investigare il suo soggetto (ge/noj),e che abbiamo già elencati. Stabiliremo quindi ogni volta, in modo conciso, lostatus quaestionis del problema in discussione, facendo valere le ragioni pro etcontra che si presentano. Chiameremo in causa la storia delle fonti di sanTommaso o delle sue interpretazioni nella misura in cui sarà necessario per

l'intelligenza del nostro oggetto di ricerca36(36). Per la soluzione, risaliremo aifondamenti che la giustificano, integrando in una prospettiva specificamentespeculativa le precisioni e le sfumature che ci offre una esegesi diretta del testotommasiano. In questo sforzo, cercheremo sempre di evidenziare perché iproblemi posti esigono tale determinata ed esclusiva risposta.

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TESTI PER FONDAMENTARE LA RICERCA SUIPRINCIPI

Testi fondamentali ad omnia

ARISTOTELES, Met. € (IV), 3-4; Eth. Nic. Z (VI), 6; An. Post. A (I), 1-11; B(II), 19

BOETHIUS, Quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint cum non sintsubstantialia bona, PL 64, 1311 B.

DIVUS THOMAS, SM 4, lect. 5-6; SE 6, lect. 5; EBH, lect. 1, nn. 12-18; I-II,57, 1 e 2; EPA 1, lect. 3; 4; 5; 7; 9; 10; 13; 14; 17; 18; 19; 20; 2, lect. 20;QDV 11, 1-3.

I La natura dei primi princìpi

§ 1 L'intuizione dei princìpi è un abito ? Sn 3, 23, 2, 1, 8m; QDV 17, 1, c; 20, 2, c; SA 3, lect. 5, n. 639; I-II, 49, 1a 4; 50, 4; SE 6, lect. 5

§ 2 L'abito dei princìpi è una virtù intellettuale ? Sn 3, 23, 1, 4, sol. 1, 4m; sol. 3, 3m; I-II, 55, 1 a 4; 56, 3; 57, 1 e 2;QDVC 7; 12; EPH 1, lect. 14, n. 199 [24]; SE 6, lect. 5

§ 3 I primi princìpi hanno per oggetto verità necessarie ? QDV 24, 1, 18; QDM 6, 10m; I, 82, 2, c; I-II, 94, 4, c; EPH 1, lect. 14, n.199 [24]

§ 4 I primi princìpi hanno per oggetto proposizioni per se ? Sn 1, 12, 1, 3, 4m; QDP 8, 2, 6m; I, 17, 3, 2m; EPA 1, lect. 14.

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§ 5 L'oggetto dell'abito dei princìpi è per se notum ? Sn 1, 3, 1, 2, c; 1, 3, 4, 5, c; 2, 25, 1, 2, c; 3, 23, 2, 3, sol. 1, 2m; 3, 24, 1,2, sol. 1, 2m; EBH, lect. 1; QDV 10, 12, c; 14, 1, c; 15, 1, c; 18, 7, c; CG 1, 10,nn. 60 e 63; SDN 4, lect. 7, n. 376; QDP 7, 2, 11m; I, 2, 1, c; 17, 3, 2m; 64, 2, c;II-II, 25, 1, c; 180, 6, 2m; SM 4, lect. 5 e 6; 11, lect. 5, n. 2213; SE 6, lect. 5;lect. 7, n. 1214; EPA 1, lect. 4, nn. 10-14; lect. 5, nn. 2-7; lect. 6, n. 2; lect. 7,nn. 66-67 [7-8]; lect. 19, n. 162 [4]; lect. 28, n. 223 [3]; lect. 43, n. 392 [11];lect. 44, n. 399 [5].

§ 6 I primi princìpi sono connessi alla ratio entis ? Sn, 1, 8, 1, 3, c; QDV 1, 12, c; 11, 1, c; Qdl 8, 2, 2, c; QDP 9, 7, 15m; I,85, 6, c; I-II, 94, 2, c; SM 4, lect. 5 e 6; SE 6, lect. 5

§ 7 I primi princìpi si dividono in comuni e propri ? EPA 1, lect. 18; lect. 41, n. 367 [12]; lect. 43, n. 392-394 [11-13].

§ 8 Quali sono i primi princìpi comuni ? EPA 1, lect. 19.

§ 9 Quale è il primo principio primo comune ? EPA 1, lect. 20, n. 167 [1]; SM 4, lect. 6 e 7.

II La genesi dei primi princìpi

§ 10 L'abito dei princìpi è naturale o acquisito ? Sn 3, 14, 1, 1, sol. 2, c; 3, 14, 1, 2, sol. 1, c; 3, 23, 2, 2, sol. 3, c; 3, 23, 3,2, 1m; 3, 24, 1, 2, sol. 1, c; QDV 11, 1, 5m; SA 3, lect. 10, n. 729; I-II, 51, 1; 63,1, c; II-II, 8, 1, 1m; 47, 6, c; 15, c; III, 9, 1, c; QDVC 8

§ 11 Attraverso quali fasi l'abito dei princìpi viene generato ? Sn 1, 3, 5, un., 1m; 3, 14, 1, 1, sol. 2, 2m; 3, 14, 1, 3, sol. 3, c; 3, 23, 2, 2,sol. 1, c; QDV 8, 15, c; I, 117, 1, c; SDN 7, lect. 2, n. 711; I-II, 94, 2, c; II-II, 2,3, 2m; QDM 3, 3, c; SM 1, lect. 1, nn. 9-22; EPA 2, lect. 20; SPh 8, lect. 3, n.994 [4]; SE 6, lect. 3, n. 1148; 6, lect. 5.

§ 12 Da dove viene conosciuto il nesso predicativo nei primi princìpi ? Sn 3, 25, 2, 1, sol. 4, 1m; EPA 2, lect. 20.

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§ 13 L'abito dei princìpi è immutabile o può crescere ?

III La finalità dei primi princìpi

§ 14 È necessario che ci sia un abito dei princìpi ? Sn 3, 23, 1, 1, c; EBH, lect. 1; II-II, 47, 6, c

§ 15 In quale modo l'abito dei princìpi è lo strumento dell'intellettoagente ? Sn 3, 23, 2, 1, 4m; QDV 9, 1, c e 2m; QDV 11, 1, c; 3, c; QDA 4, 6m; 5,c; 16, c; QDSC 9, 7m; 10, 8m; Qdl 8, 2, 2, c; 10, 4, 1, 2m; I, 36, 3, 4m

§ 16 In quale modo la dimostrazione scientifica procede dai princìpi ? Sn 1, 17, 1, 3, c; 2, 24, 3, 3, 2m; 3, 14, 1, 3, sol. 3, c; QDV 12, 1, c; 3, 2me 3m; 15, 1, c e 4m; I-II, 13, 3, c; EPA 1, lect. 17.

§ 17 In quale modo la dimostrazione scientifica procede in virtù deiprincìpi ? Sn 3, 14, 1, 1, sol. 4, c; 3, 14, 1, 3, sol. 5, c; 3, 24, 1, 2, sol. 2, 2m; 3, 25,1, 1, sol. 1, 4m; QDV 11, 1, c; 5m; 13m; 2, c; 15, 1, c; 16, 2, c; 17, 1, 1m; Qdl 8,2, 2, c; CG 1, 10, n. 64; SDN 4, lect. 7, n. 376; 7, lect. 2, n. 711; SA 2, lect. 11,n. 372; I, 64, 2, c; SM 4, lect. 5 e 6; SE 1, lect. 18, n. 219; 2, lect. 4, n. 286; SE6, lect. 3, n. 1149; III, 12, 1, 1m

§ 18 Quale è lo scopo dell'abito dei princìpi rispetto alla scienza ? Sn 3, 14, 1, 1, sol. 3, c e 2m; 3, 25, 2, 1, sol. 2, 2m; 3, 33, 1, 2, sol. 1, c;QDV 11, 2, c; 15, 2, 3m; Qdl 8, 2, 2, c; I-II, 15, 3, 1m

§ 19 Quale è lo scopo dell'abito dei princìpi rispetto alla sapienza ? I-II, 66, 5, 4m

§ 20 Quale è il rapporto dell'abito dei princìpi nei confronti dellasinderesi ? QDV 16, 1, cI-II, 58, 4, c, in fine; 94, 1, 2m; II-II, 49, 2, 1m

IV La causa esemplare dei primi princìpi

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§ 21 I primi princìpi sono un riflesso della luce divina ? QDV 1, 4, c e 5m; QDV 10, 6, c e 6m; Qdl 10, 4, 1, c;

IIª Parte

INVESTIGAZIONE SPECULATIVA DEI PRIMIPRINCIPI

Capitolo primo LA NATURA DEI PRIMI PRINCIPI

In questo capitolo, ci chiediamo che cosa sia questo nou=j aristotelicoche i medievali interpretarono come «intelligenza dei princìpi». In questadeterminazione, procediamo dal più generico al più specifico, secondo loseguente schema:

§ 1 habitus intellectivus aut potentia ? habitus§ 2 habitus operativus bonus ? virtus intellectualis circa necessaria ? virtus speculativa§ 3 circa per se ? virtus speculativa§ 4 circa per se nota§ 5 et ratio entis ? [differentia specifica]§ 5 circa communia et propria ? [partes]§ 6 qualia sunt communia ? [partes]§ 7 quale primum principium ? [primum obiectum]

§ 1 L'intuizione dei princìpi è un abito ?

1. Collocazione storica del problema

1.1. Aristotele

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Come si sa, Aristotele tratta dell'«intelligenza» in diversi contesti. Perquanto interessa il nostro problema, i luoghi fondamentali sono due. Nelcapitolo 5 del libro € del De Anima, lo Stagirita distingue due intelletti:

Ma, poiché, in tutta la natura, si distingue per primo qualcosa cheserve di materia ad ogni genere, ed è ciò che è in potenza tutti gli essericomprese sotto quel genere, e poi un'altra cosa che è la causa e l'agenteperché li produce tutti, come fa l'arte rispetto alla sua materia, ènecessario che, anche nell'anima, si ritrovino queste differenze. E, infatti,vi si distingue, da una parte, l'intelletto che è analogo alla materia, per ilfatto che esso diventa tutti gli intelligibili, e, d'altra parte, l'intelletto, cheli produce tutti, poiché esso è come qualcosa che si possiede ed unaspecie di luce, giacché, in un certo senso, pure la luce converte i colori in

potenza in colori in atto1(37).

È questo celebre passo che sta all'origine di tutta la speculazione dellatarda antichità e del medioevo, sia arabo che latino, sull'intelletto agente el'intelletto possibile. Ora la frase dove il Filosofo pone questa dualità diintelletti è molto concisa, e contiene, riguardo al nostro tema, una difficoltàtestuale di grande importanza. Ecco il brano nell'originale greco:

Kai\ e)/stin o( me\n toiou=toj nou=j tw= pa/nta gi/nesqai, o(

deª tw= pa/nta poiei=n, w)j e)/cij tij, oi)=on to\ fw=j2(38).

L'intelletto agente viene quindi caraterizzato con il termine e)/cij, che ilatini tradurrano con habitus. Come si deve interpretare questo «possesso»dell'intelletto agente ? La difficoltà perdura se si mette in parallelo questo brano del De Animacon il sesto libro dell'Ethica Nicomachea, la quale enumera pure il nou=j fra levirtù intellettuali, che rientrano nella categoria della e)/cij. Facendo una letturapiù testuale che speculativa - come capita spesso nel caso di Aristotele, a causadell'estrema densità di quei scritti che sono appunti di lezioni -, possiamoquindi vedere come una alternativa aperta nel pensiero aristotelico riguardo al«possesso» dei primi princìpi: o coincida con l'intelletto agente (sul cui statobisogna poi investigare), oppure è un tertium quid fra intelletto agente edintelletto possibile. La storia dell'aristotelismo esitò fra le due letture.

1.2. Alessandro di Afrodisia

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Si deve ad Alessandro di Afrodisia, che fiorì all'inizio del III secolo d.C,la prima grande sistematizzazione del pensiero aristotelico sull'intelletto. Egli

esplicitò così i tre livelli semantici del lemma nou=j3(39), di cui diamo pure la

traduzione latina4(40): [1] nou=j poihtiko/j intellectus agens [2] nou=j kaq'e)/cin intellectus qui intelligit et habet habitum utintelligat [3] nou=j u)liko/j intelligencia materialis

Come è risaputo, Alessandro platonizza Aristotele e perciò postula unatotale separazione ontologica dell'intelletto agente rispetto al soggetto umanoconcreto, che non possiede quindi in proprio che l'intelletto «ilico». Questareificazione del nou=j poihtiko/j sta all'origine delle dottrine arabesull'intelletto agente separato. Ma il punto che ci importa in questa sede è lostatuto del secondo livello. Che cosa è il nou=j kaq'e)/cin per Alessandro?Senza dubbio, l'intelletto ut habitus è, per lui, la risultanza dell'influssodell'intelletto agente (separato) sull'intelletto materiale, come lo spiega beneEtienne Gilson:

Le deuxième intellect est l'intellectus in habitu. Alexandre n'en ditque deux choses précises dans la brève description qu'il en donne.D'abord cet intellect connaît (intelligit); il ne s'agit donc plus d'une purepuissance comme dans le cas précédent, mais d'une puissance déjà enacte. En outre, cet intellect possède l'habitus, c'est-à-dire l'habitude ou,

comme l'on traduisait au XVIIe siècle l'ayance d'exercer des actesd'intellection. Pour user d'une comparaison, nous pourrions assimilerl'intellect matériel à la disposition de ceux qui sont en état d'apprendre unmétier pour devenir des artisans; l'intellect habituel, au contraire,correspond à l'état de celui qui connaît déjà un métier et peut à toutinstant l'exercer. Enfin, dernière détermination qui a son importance,Alexandre ne semble pas faire de ces deux intellects deux êtres distincts;l'intellect habituel, c'est l'intellect matériel lui-même, une fois qu'il a

acquis l'habitude d'agir et de connaître5(41).

Se, lasciando da parte la questione storicamente spinosa dello statutoontologico dell'intelletto agente, ci limitiamo a quella dello statuto noetico delcosidetto intellectus secundus, possiamo dire che Alessandro inaugura latradizione che vede in esso una e)/cij sovraggiunta all'intelletto ilico.

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1.3. L'averroismo

Però, nel testo del De Anima, l'intelletto agente veniva descritto, fral'altro, come w)j e)/cij tij, sicut habitus quidam. Preso alla lettera, questo passopoteva far supporre che la capacità di intuire i princìpi fosse identica con lostesso intelletto agente, giacché ambedue vengono chiamati e)/cij, habitus. Ilpossibile equivoco lessicale è stato rilevato bene da san Tommaso nel suocommento sul De Anima:

Necesse est igitur in anima intellectiva esse has differentias: utscilicet unus sit intellectus, in quo possint omnia intelligibilia fieri, et hicest intellectus possibilis, de quo supra dictum est: et alius intellectus sitad hoc quod possit omnia intelligibilia facere in actu; qui vocaturintellectus agens, et est sicut habitus quidam. Huius autem verbi occasione, quidam posuerunt intellectum

agentem idem esse cum intellectu qui est habitus principiorum6(42).

Nella Somma contra i Gentili, l'Aquinate attribuisce poi questa tesi adAverroè:

Haec enim est definitio habitus, ut Commentator Averroes ibidemdicit, quod habens habitum intelligat per ipsum quod est sibi proprium exse et quando voluerit, absque hoc quod indigeat in eo aliquod extrinseco.Expresse enim assimilat habitui non ipsum factum, sed intellectum quod

est omnia facere7(43).

Sapendo che, nella lettura che l'averroismo latino fece di Averroè,l'intelletto coincide con l'intelletto possibile, ed è quindi come luiontologicamente separato, si capisce bene che l'abito dei primi intelligiblidebba essere riferito a questa sostanza separata.

2. Investigazione speculativa

Per rispondere alla domanda sul genere al quale appartiene l'oggettodella nostra ricerca, procederemo in due grandi tappe. In un primo momento,dobbiamo chiarire le nozioni in causa nel quesito, giacché occorre preconoscerein qualche modo il significato dei termini di un problema prima di

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risolverlo8(44). Pertanto avremo da stabilire la natura e lo scopo propri dellapotenza e dell'abito, che sono i poli della controversia che dobbiamo dirimere; esiccome ciò che è in causa in tutta la problematica che abbiamo elaborata,dovremo pure precisare che cosa siano le facoltà intellettive umane. Compiutoquesto studio, potremo, in un secondo momento, enunciare e giustificare lanostra soluzione.

2.1. Le nozioni in causa

2.1.1. La potenza e l'abito

In antropologia ed in etica, san Tommaso riccorre costantemente allenozioni di potenza e di abito. Ricordiamone, per cominciare, il significatousuale. La potenza, in questo contesto, viene descritta ciò che una realtà «può»fare o patire per natura sua:

potentia nihil aliud est quam principium operationis alicuius, sivesit actio sive passio. Non quidem principium quod est subiectum agens

aut patiens, sed id quo agens agit aut patiens patitur9(45).

Si noti bene che, preso in questo senso, la potenza viene ristretta al pianodell'operazione, in quanto opposto al piano dell'essere. Da canto suo, l'abitopuò descriversi come la maniera in cui una realtà «si tiene» (se habet) in sé, incontrapposizione all'avere (che sarebbe il significato più immediato dellaparola):

hoc nomen habitus ab habendo est sumptum. A quo quidem nomenhabitus dupliciter derivatur: uno quidem modo, secundum quod homo,vel quaecumque alia res, dicitur aliquid habere; alio modo, secundumquod aliqua res aliquo modo se habet in seipsa vel ad aliquid

aliud10(46).

L'abito è quindi il modo nel quale qualcosa viene stabilmente disposto, orispetto a sé stesso, oppure rispetto a qualche altra cosa.

Sulla base di queste definizioni ancora usuali, possiamo evidenziare laragione di essere di questi specifici livelli di realtà che sono le potenze e gliabiti. Per quanto riguarda le prime, l'Aquinate suole inquadrare la domandasulla loro necessità nella questione, allora molto discussa fra aristotelici efrancescani, del loro statuto nei confronti dell'anima. Il motivo per il quale le

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potenze dell'anima sono realmente distinte dall'anima stessa si trovanell'omogeneità che deve regnare fra una potenza ed il suo atto. Alla luce diquesto principio, si capisce bene che la potenza che sta alla radice di unaoperazione accidentale non può essere quella che sta a fondamento di un attosostanziale:

Quia unumquodque genus dividitur per potentiam et actum. Undepotentia homo est in genere substantiae, et potentia album est in generequalitatis. Manifestum est autem quod potentiae animae, sive sint activaesive passivae, non dicuntur directe per respectum ad aliquid substnatiale,sed al aliquid accidentale. Et similiter esse intelligens vel sentiens actunon est esse substantiale, sed accidentale, ad quod oridnatur intellectus etsensus; et similiter esse magnum vel parvum, ad quod ordinatur visaugmentativa. [...] Manifestum est ergo quod ipsa essentia animae nonest principium immediatum suarum operationum, sed operaturmediantibus principiis accidentalibus; unde potentiae animae non sunt

ipsa essentia animae, sed proprietates eius11(47).

Le potenze dell'anima sono quindi degli accidenti predicamentali, e piùprecisamente delle qualità, perché aggiungono una ulteriore determinazioneformale all'anima; invece, non sono degli accidenti predicabili, giacché

scaturiscono dall'essenza dell'anima, e ne sono quindi delle proprietà12(48).

Le potenze si collocano così su un livello ontologico aggiuntivo a quellodell'anima, alla quale permettono di operare; ma il soggetto umano può operarebene o male a seconda che i suoi atti realizzano o contrastano una esigenzadella sua natura; perciò si profila un'ulteriore livello ontologico di qualitàdell'anima, che modificano le potenze in vista della loro attuazione. È a questopiano che incontriamo gli habitus, la cui necessità viene propugnata in tre passida un articolo sintetico del Commento sulle Sentenze. Per primo, si mette inevidenza la «misurazione» alla quale vengono sottomesse le potenze in virtùdella loro finalità:

in omnibus quae habent regulam et mensuram, eorum bonitas etrectitudo consistit in conformitate ad suam regulam vel mensuram;malitia autem, secundum quod ab ea discordant. Prima autem mensura et regula omnium est divina Sapientia. Undebonitas et rectitudo sive veritas uniuscujusque consistit secundum quodattingit ad hoc ad quod ex divina Sapientia ordinatur, ut Anselmus dicit.Et similiter est etiam de aliis secundis regulis, quod in conformitate ad

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ipsas, bonitas et rectitudo regulatorum consistit13(49).

Il problema che si pone è quindi quello del principio che funge dasecunda regula nelle potenze dell'anima. In alcune, tale ordinazione al fineviene totalmente data dalla loro stessa natura; in altre, l'ampiezza della loroapertura è tale da richiedere una ulteriore determinazione:

Sunt autem quaedam potentiae limitatae ad determinatas actionesvel passiones; et secundum quod illas implent, suae regulaeconformantur, quia per divinam Sapientiam ad talia sunt ordinatae. Etquia naturae inclinatio semper est ad unum, ideo tales potentiae ex ipsanatura potentiae rectitudinem sufficienter habere possunt et bonitatem;malitia autem in eis contingit ex defectu potentiae. Potentiae vero altiores et universaliores, cujusmodi sunt rationalespotentiae, non sunt limitatae ad aliquid unum vel objectum vel modumoperandi; quia secundum diversa et diversimode rectitudinem haberepossunt. Et ideo ex natura potentiae non potuerunt determinari ad rectumet bonum ipsarum; sed oportet quod rectificentur, rectitudinem a sua

regula recipientes14(50).

La ragione precisa per la quale alcune potenze necessitano unadeterminazione posteriore alla loro stessa natura viene quindi dalla lorouniversalità, cioè dalla molteplicità degli oggetti che possono raggiungere, e deimodi con i quali li possono raggiungere. Questa pluralità si deve ovviamenteintendere degli oggetti materiali, giacché una potenza, per definizione, non può

non avere un oggetto formale che la specifica per se15(51).

La potenza che non lo è per la sua stessa essenza, potrà esseredeterminata ad unum in due modi: o per violenza, o per una certa qualitàinerente. Il primo tipo di determinazione essendo del tutto estrinseco, non puòessere né perfetto né conforme alla natura delle cose; quindi ci vuole ilsecondo, che san Tommaso descrive così:

Oportet ergo ut alio modo recipiatur, scilicet per modum qualitatisinhaerentis, scilicet ut rectitudo regulae efficiatur forma potentiaeregulatae; sic enim faciliter et delectabiliter quod rectum est operabitur,sicut id quod est conveniens suae formae. Et haec quidem qualitas siveforma, dum adhuc imperfecta est, dispositio dicitur; cum autem jamconsummata est et quasi in naturam versa, habitus nominatur, qui, ut exII. Eth. et V Meta., accipitur, est secundum quem nos habemus ad aliquid

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bene vel male16(52).

L'abito appare quindi come una regola immanente alla potenza che necostituisce come una seconda natura (quasi in naturam versa), per opposizionealla semplice disposizione che è ancora imperfetta. Il segno della presenza diquello o di questa è la facilità e il diletto con i quali la potenza emana gli attialla quale è così ordinata.

Dopo aver evidenziato la necessità degli abiti, e con questo manifestatoipso facto la loro natura, il Dottore Comune ha cura di stabilire quali potenzeesigono di essere perfezionate in questa maniera per giungere al loro fine, equali invece no:

Patet ergo quod potentiae naturales, quia sunt ex seipsisdeterminatae ad unum, habitibus non indigent. Similiter etiam nec apprehensivae sensitivae, quia habentdeterminatum modum operandi, a quo non deficiunt nisi per potentiaedefectum. Similiter etiam nec voluntas humana, secundum quod estdeterminata naturaliter ad ultimum finem et ad bonum, secundum quodest objectum ejus. Similiter etiam nec intellectus agens, qui habet determinatamactionem, scilicet facere intelligibilia in actu; sicut lux facere visibilia inactu. Similiter etiam nec in ipso Deo est aliquis habitus, cum ipse sitprima regula ab alio non regulata; unde essentialiter bonus est, et non perparticipationem rectitudinis ab alio; nec malum in ipso incidere potest. Sed intellectus possibilis qui de se indeterminatus est, sicutmateria prima, habitu indiget quo participet rectitudinem suae regulae[...]. Similiter etiam in voluntate quantum ad illa ad quae ex natura nondeterminatur, et in irascibili et in concupiscibili, indigemus habitibus,secundum quod participant rectitudinem rationis quae est eorum regula,vel rectitudinem primae mensurae in his quae naturam humanamexcedunt, quantum ad habitus infusos. Et similiter in corpore animato est habitus sanitatis, proutparticipat ab anima dispositionem qua potest opus suum recte perficere;quia oculus sanus dicitur qui opus oculi recte perficere potest ut X Deanimal., dicitur.

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

Unde patet quod hujusmodi qualitates quas habitus dicimus, inrebus animatis inveniuntur, et praecipue in habentibus electionem, ut in

V Meta., dicitur17(53).

Per quanto riguarda il nostro tema, si riterrà che l'intelletto possibile hanecessità di abiti, perché è indeterminato «come la materia prima», mentrel'intelletto agente non ne può ricevere, poiché «possiede una azionedeterminata».

Prima di approfondire la tematica dell'intelletto, dobbiamo ora esaminarein chiave metafisico-critica le definizioni rispettive della potenza e dell'abito inrapporto alla qualità di cui sono delle modalità analogiche. Nel trattato che la

Ia-IIae dedica agli habitus, troviamo una sistematizzazione della qualità in duetappe. Nella prima si spiega che cosa è una qualità, e si distingue le «qualità»sostanziali, che sono le differenze specifiche, dalle qualità stricte dictae, cioèdalle qualità accidentali:

Proprie enim qualitas importat quendam modum substantiae.Modus autem est, ut dicit Augustinus, Super Gen. ad litteram, quemmensura praefigit: unde importat quandam determinationem secundumaliquam mensuram. Et ideo sicut id secundum quod determinaturpotentia materiae secundum esse substantiale, dicitur qualitas quae estdifferentia substantiae; ita id secundum quod determinatur potentiasubiecti secundum esse accidentale, dicitur qualitas accidentalis, quae estetiam quaedam differentia, ut patet per Philosophum in V

Metaphys18(54).

Per l'Aquinate, la ratio comune di qualità si può dunque descrivere comeun modo della sotanza, il modo dovendo essere inteso come «qualchedeterminazione secondo qualche misura». Ogni predicamento essendoquodammodo una determinazione, è l'aggiunta della «misura» che consente diprecisare ciò che è la qualità. Ora misurare significa, al di là dell'ambitostrettamente matematico, confrontare con un esemplare di riferimento alla lucedi cui si può «qualificare» una cosa, vale a dire dire «quale» è. Quando, adesempio, esprimiamo il colore di qualcosa, giudichiamo che la superficie inquestione partecipa effettivamente alla «taleità» di quel colore.

Adoperando tale nozione di «modo», san Tommaso ricostruisce poispeculativamente la tavola dei quattro generi di qualità che vengono proposti

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nelle Categorie19(55). Per cogliere più facilmente la sistematicità di questadivisione, ne evidenziamo le articolazioni tipograficamente e numericamente:

Modus autem sive determinatio subiecti secundum esseaccidentale, potest accipi vel in ordine ad ipsam naturam subiecti [1]; velsecundum actionem [2] et passionem [3] quae consequuntur principianaturae, quae sunt materia et forma; vel secundum quantitatem [4].[4] Si autem accipiatur modus vel determinatio subiecti secundumquantitatem, sic est quarta species qualitatis.[€-€] Et quia quantitas, secundum sui rationem, est sine motu, etsine ratione boni et mali; ideo ad quartam speciem qualitatis non pertinetquod aliquid sit bene vel male, cito vel tarde transiens.[2-3] Modus autem sive determinatio subiecti secundum actionem etpassionem, attenditur in secunda et tertia specie qualitatis.[€] Et ideo in utraque consideratur quod aliquid facile veldifficile fiat, vel quod sit cito transiens aut diuturnum.[€] Non autem consideratur in his aliquid pertinens ad rationemboni vel mali: quia motus et passiones non habent rationem finis, bonumautem et malum dicitur per respectum ad finem.[1] Sed modus et determinatio subiecti in ordine ad naturam rei,pertinet ad primam speciem qualitatis, quae est habitus et dispositio, dicitenim Philosophus, in VII Physic., loquens de habitibus animae etcorporis, quod sunt dispositiones quaedam perfecti ad optimum: dicoautem perfecti, quod est dispositum secundum naturam.[€-€] Et quia ipsa forma et natura rei est finis et cuius causa fitaliquid, ut dicitur in II Physic., ideo in prima specie consideratur etbonum et malum; et etiam facile et difficile mobile, secundum quodaliqua natura est finis generationis et motus.[€] Unde in V Metaph. Philosophus definit habitus, quod estdispositio secundum quam aliquis disponitur bene vel male.[€] Et in II Ethic. dicit quod habitus sunt secundum quod adpassiones nos habemus bene vel male. Quando enim est modusconveniens naturae rei, tunc habet rationem boni: quando autem nonconvenit, tunc habet rationem mali. Et quia natura est id quod primum consideratur in re, ideo habitus

ponitur prima species qualitatis20(56).

Mettiamo questo testo in sinopsi:

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

determinatiosubiecti

qualitas ratio boni et mali ratio motus

sec. naturam habitus bonus aut malus actus fit facile

sec. actionem potentia indifferens a. fit facile veldifficile

sec. passionem passio indifferens a. fit facile veldifficile

sec. quantitatem forma et figura indifferens indifferens

Disponiamo ora di tutti gli elementi per un paragone rigoroso dellapotenza e dell'abito. Cominciamo dalle somiglianze. La potenza e l'abitoappartengono ambedue al predicamento qualità, che consiste nelladeterminazione del soggetto secondo una certa misura. Differiscono invecequanto al fondamento della determinazione che aggiungono alla sostanza. Lapotenza determina la sostanza in ordine all'azione (è infatti un principiumoperandi), ma non quanto alla finalità di tale azione rispetto all'essenza delsoggetto in causa; ad esempio, l'appetito concupiscibile conferisce all'uomo lacapacità di amare i beni sensibili che possono soddisfarlo, ma non determina,da sé stessa, la finalità di questo amore, né, di conseguenza, la sua bontà. Percontro, l'abito determina la sostanza in ordine alla sua stessa natura, perché taledeterminazione riguarda esplicitamente il fine iscritto in questa natura, ed èquindi necessariamente o virtuosa o viziosa. Ad esempio, la temperanzainserisce nel concupiscibile umano una disposizione stabile per la quale gli attidi questa facoltà saranno conformi alle esigenze della natura umana, ed è inragione di questo ordine stabile al bene che è un habitus virtuoso (mentre ilvizio opposto, ossia l'intemperanza, dispone stabilmente l'uomo ad agire controi fini della sua natura in questo ambito).

Ordiniamo ora in nostri risultati. La potenza è una determinazioneaccidentale della sostanza che la rende semplicemente capace di operare. Percontro, l'abito è una determinazione accidentale della sostanza che la disponestabilmente o bene o male in ordine ad una esigenza della sua natura; si noteràche gli abiti si dividono in abiti entitativi ed operativi, a seconda che il lorosoggetto immediato è l'essenza di una cosa, oppure direttamente una

potenza21(57). È questo caso che importa al presente discorso. Geneticamente,

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la potenza precede quindi l'abito operativo come il determinabile precede ildeterminante; ontologicamente, invece, l'abito è superiore alla potenza perchéla determina, bene o male, in ordine alla stessa natura, e non solo ad unaqualunque operazione. Perciò, l'abito viene collocato al primo posto nellagerarchia delle qualità, mentre la potenza riceve soltanto il secondo posto.

2.1.2. Le potenze intellettive umane

Dopo aver precisato il significato dei due predicati che costituisconol'alternativa in discussione nel presente problema, dobbiamo pure averepresente che cosa sono le potenze intellettive che giocano un ruolonell'intuizione dei princìpi.

Ricordiamo, per cominciare, che san Tommaso fa derivare il vocabolo<intelligere> da intus-legere, cioè leggere dentro una realtà, quindi al di là della

superficie che ci appare grazie ai sensi22(58). L'oggetto primario di questalettura in profondità delle cose è la loro quiddità, conosciuta per astrazione

dalle cose stesse23(59). La conoscenza intellettuale differisce quindiessenzialmente da quella sensibile, contrariamente a quanto postula ogni tipo diempirismo nominalista; ciò rimanendo fermo, il senso e l'intelletto umanohanno qualcosa di comune, che Aristotele esprime così:

ei) dh/ e)sti to\ noei=n w)/sper to\ ai)sqa/nesqai, h)/ pa/sxein

ti a)/n ei)/n u(po tou= nohtou= h)/ ti toiou=ton e)/teron 24(60).

L'intelligere implica quindi per l'uomo una certa passività (pa/sxein ti),il ché è evidente se si considera la discontinuità dei nostri atti intellettivi.Pertanto:

Intellectus igitur dicitur pati, inquantum est quodammodo inpotentia ad intelligibilia, et nihil est actu eorum antequam intelligat.Oportet autem hoc sic esse, sicut contingit in tabula, in qua nihil est actuscriptum, sed plura possunt in ea scribi. Et hoc etiam accidit intellectuipossibili, quia nihil intelligibilium est in eo actu, sed potentia

tantum25(61).

La potenza che formalmente conosce immaterialmente è dunque,nell'uomo, un intelletto possibile.

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Ma se questo intelletto possibile è, per natura sua, in potenza agliintelligibili, occorre che ci sia nell'anima una facoltà che sia in grado dipresentargli tali intelligibili: l'intelletto agente, la cui esistenza viene posta dal'Aquinate in conclusione del seguente sillogismo inventivo:

quia Aristoteles non posuit formas rerum naturalium subsisteresine materia; formae autem in materia existentes non sunt intelligibilesactu: sequebatur quod naturae seu formae rerum sensibilium, quasintelligimus, non essent intelligibiles actu. Nihil autem reducitur depotentia in actum, nisi per aliquod ens actu: sicut sensus fit in actu persensibile in actu. Oportebat igitur ponere aliquam virtutem ex parteintellectus, quae faceret intelligibilia in actu, per abstractionemspecierum a conditionibus materialibus. Et haec est necessitas ponendi

intellectum agentem26(62).

Nella minore del suo argomento, san Tommaso pone che le forme dellecose sensibili non sono intelligibili in atto; questa premessa noetica è fondatasull'ontologia aristotelica per la quale queste forme esistono nella materia;infatti, la materialità, in quanto principio di potenzialità, si contrapponeall'intelligibilità. La maggiore enuncia il principio che illumina tutto ilproblema dell'acquisizione dei nostri intelligibili: nihil reducitur de potentia inactum, nisi per aliquod ens actu. Di conseguenza, siamo metafisicamentecostretti a porre una facoltà che faccia passare i dati elaborati nella sintesisensoriale dallo stato di intelligibilità potenziale a quello di intelligibilitàattuale.

In sintesi, occorre porre due potenze intellettive nell'uomo: l'intellettopossibile, cui spetta l'atto stesso del conoscere in quanto tale, e l'intellettoagente, che non conosce formalmente, ma fa conoscere imprimendonell'intelletto possibile le specie intelligibili che astrae dalle cose. L'intellettopossibile essendo una potenza passiva, e l'intelletto agente una potenza attiva,non possono coincidere, perché il rapporto all'oggetto di una potenza attiva è

inverso di quello proprio di una potenza passiva27(63). A questo punto, sanTommaso ritrova la triplice distinzione elaborata da Alessandro di Afrodisia,poi tramandata dagli Arabi, fra intelletto agente, intelletto potenziale e intellettoin habitu:

Sic igitur ad intelligendum primo necessarius est nobis intellectuspossibilis, qui est receptivus specierum intelligibilium; secundointellectus agens qui facit intelligibilia actu. Cum autem intellectus

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possibilis iam fuerit per species intelligibiles perfectus, vocaturintellectus in habitu, cum species intelligibiles iam sic habet ut eis possituti cum voluerit, medio quodam modo inter potentiam puram et actum

completum28(64).

L'intelletto in habitu consiste dunque nell'intelletto possibile attuato dallespecie ricevute dall'intelletto agente e quindi pronto a passare all'intellezione inatto.

Grazie a tutte le precisioni che abbiamo guadagnate in questo brevepercorso delle nozioni in causa, siamo ormai in grado di risolvere il problemache abbiamo sollevato.

2.2. Soluzione del problema

2.2.1. L'intuizione dei princìpi non può essere una potenza

I due candidati ipotizzabili sarebbero gli intelletti agente e possibile. Orala capacità di intuire i princìpi non può essere né l'una né l'altra potenzaintellettiva

In due passi che si corrispondono rigorosamente (malgrado la differenzadel genere letterario!), san Tommaso spiega perché l'abito dei princìpi non puòessere l'intelletto agente. Il primo, in ordine cronologico, proviene dal secondo

libro della Summa contra Gentiles29(65), mentre il secondo, leggermenteposteriore, si trova nel Commento sul terzo libro del De Anima di

Aristotele30(66). Citiamo questi luoghi in sinopsi, per evidenziarne lasimmetria:

Nec tamen intelligendum est quod intellectus agens sit habitus permodum quo habitus est in secunda <sic> specie qualitatis, secundumquod quidam dixerunt intellectum agentem esse habitum principiorum. Quia habitus ille principiorum est acceptus a sensibilibus, utprobat Aristoteles in II Posteriorum: et sic oportet quod sit effectusintellectus agentis, cuius est phantasmata, quae sunt intellecta in potentia,facere intellecta in actu. Sed accipitur habitus secundum quod dividitur contra privationemet potentiam: sicut omnis forma et actus potest dici habitus. Et hoc

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apparet, quia dicit hoc modo intellectum agentem esse habitum sicutlumen habitus est.

[€] Huius autem verbi occasione, quidam posuerunt intellectumagentem idem esse cum intellectu qui est habitus principiorum. [€] Quod esse non potest: quia intellectus, qui est habitusprincipiorum, praesupponit aliqua iam intellecta in actu: scilicet terminosprincipiorum, per quorum intelligentiam cognoscimus principia: et sicsequeretur, quod intellectus agens non faceret omnia intelligibilia in actu,ut hic Philosophus dicit. [€] Dicendum est ergo, quod habitus, sic accipitur secundumquod Philosophus frequenter consuevit nominare omnem formam etnaturam habitum, prout habitus distinguitur contra privationem etpotentiam, ut sic per hoc quod nominat eum habitum distinguat eum abintellectu possibili, qui est potentia.

In ambedue i testi, il discorso procede quindi in tre fasi.[€] L'occasione di questi brevi excursus viene offerta dalla formula w)j e)/cij

tij31(67) usata da Aristotele nel brano del De Anima che abbiamo riportatoall'inizio della presente ricerca. San Tommaso ricorda che la parola habitus(e)/cij) diede luogo presso «alcuni», cioè presso Averroè, ad una confusione fral'intelletto agente e la capacità di intuire i primi princìpi.

[€] I due passi si impiegano poi a confutare questo errore, a partire da duepunti di vista complementari. Nella Contra Gentiles, si rimanda all'ultimocapitolo dei Secondi Analitici, dove Aristotele spiega la genesi dei primiprincìpi a partire dall'esperienza sensibile. Posta questa tesi, è ovvio che l'abitodei princìpi non è lo stesso intelletto agente, bensì un suo effetto, giacchéquesto abito presuppone allora l'astrazione preliminare delle nozioni sulle qualii primi princìpi formulano un giudizio. Ora il nodo della questione è infattiquesto: i primi princìpi essendo degli enunciati, loro richiedono il possessoanteriore degli estremi collegati in tali enunciati. Da dove vengono questiconcetti? O saranno astratti, o saranno innati: tertium non datur. Se sonoastratti, sono posteriori all'intelletto agente, dall'attività del quale risultano, equindi non possono coincidere con esso. Se fossero invece innnati, neseguirebbe che non tutte le nozioni vengono acquisite attraverso l'illuminazionedell'intelletto agente, che allora non sarebbe più la facoltà che fa passare in attotutti gli intelligibili in potenza. È questo l'argomento adoperato nel Commento

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sul De Anima.

[€] L'argomento viene completato, in ambedue i testi, con la soluzionecorretta del problema esegetico sollevato. Si deve quindi interpretare l'uso deltermine e)/cij su un altro registro: nel contesto in questione, habitussignificherà ciò che si oppone a ciò che è in stato di privazione o di potenza, edè quindi in atto, come è infatti caratteristico dell'intelletto agente.

Nell'errore averroistico che provoca l'intervento di san Tommaso cheabbiamo commentato, l'abito dei princìpi veniva implicitamente consideratocome uno strumento di conoscenza, giacché possiamo scoprire nuove verità perla mediazione dei primi princìpi. In questa ottica dove il primo principio apparepiù come ciò che fa conoscere altre proposizioni che come una proposizioneconosciuta, si capisce che si poteva confonderlo con l'intelletto agente, giacchéambedue esercitano una funzione inventiva rispetto agli oggetti conosciuti.Pertanto, i due luoghi citati stabiliscono che una simile identificazione sarebbedel tutto erronea, giacché l'intelletto agente è anteriore all'abito dei princìpi,dovendo causarne gli elementi.

Si può completare la confutazione tommasiana partendo dall'altravalenza del primo principio, per la quale non è solo uno strumento conoscitivo,bensì già una vera e propria conoscenza; ora, l'intelletto agente, per sua natura,non è in alcun modo formalmente conoscitivo; perciò l'abito dei princìpi ènecessariamente diverso dalla facoltà dell'intelletto agente.

Avendo dimostrato questo punto, potremmo chiederci se la capacità diintuire i princìpi non va invece identificata con lo stesso intelletto possibile. Perdifendere questa ipotesi, si potrebbe ragionare così: l'abito dei princìpi non èaltro che l'attitudine naturale dell'intelletto all'acquisizione ulteriore della

scienza32(68); ora l'attitudine naturale di una potenza coincide con la potenzastessa; pertanto l'abito dei princìpi sarebbe lo stesso intelletto possibile.

San Tommaso, tuttavia, si rifiutò sempre a questa riduzione; perciòscrisse commentando il capitolo sesto del sesto libro dell'Etica a Nicomaco,dove lo Stagirita tratta del nou=j:

Accipitur autem hic intellectus [nou=j] non pro ipsa intellectivapotentia, sed pro habitu quodam quo homo ex virtute luminis intellectus

agentis naturaliter cognoscit principia indemonstrabilia33(69).

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Perché l'intuizione dei princìpi non è la potenza stessa dell'intellettopossibile? La ragione sta evidentemente nella natura stessa dell'intelletto che èoriginariamente tabula rasa. La domanda può allora essere riproposta indietro:perché l'innatismo non è ammissibile in alcun modo, e se non l'innatismogeneralizzato di Platone o Cartesio, almeno un innatismo iniziale che sarebbelimitato ai soli primi princìpi? L'Aquinate risolve questo quesito, in nuce, sudue piani.

Il primo livello è quello del fatto, ossia dell'an sit: noi abbiamo la chiaraesperienza del carattere progressivo della nostra conoscenza intellettuale, cheprocede da una assoluta potenzialità originaria fino a delle attuazioni sempre

più perfette34(70). Questo dato non eccetta i primi princìpi, giacché l'uomo,nell'infanzia, non esercita alcuna conoscenza intellettuale, nemmeno quella. Ilsecondo livello, che fondamenta il primo, è quello della spiegazione ultimativa,ossia del propter quid. Si tratta della gerarchia di finalità che giustifica l'unionedell'anima e del corpo, vale a dire l'unità sostanziale dell'uomo. Infatti, l'animanon può essere per il corpo, ma è il corpo che è per l'anima, altrimenti si

rovescierebbe il senso del rapporto fra materia e forma35(71); inoltre, l'anima èfinalizzata alla sua operazione più perfetta, che è l'operazione intellettuale,

giacché ogni perfettibile è per la sua perfezione, e non il contrario36(72): diconseguenza, il corpo deve essere finalizzato all'intellezione, il ché avvienneattraverso la percezione sensibile che prepara l'astrazione. Se non ci fossequesto ordine di finalizzazione nell'uomo, il corpo non avrebbe alcuna ragionedi essere; anzi, sarebbe di ostacolo alla perfezione dell'anima, e quindi la suaunione all'anima sarebbe assurda:

Maxime autem videtur corpus esse necessarium animaeintellectivae ad eius propriam operationem, quae est intelligere: quiasecundum esse suum a corpore non dependet. Si autem anima speciesintelligibiles secundum suam naturam apta nata esset recipere perinfluentiam aliquorum separatorum principiorum tantum, et non accipereteas ex sensibus, non indigeret corpore ad intelligendum: unde frustra

corpori uniretur37(73).

È quindi l'ontologia stessa della natura umana che vieta l'innatismo, econ esso ogni forma di apriorismo trascendentale, perché conduce adialettizzare il rapporto di attuazione fra anima e corpo.

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2.2.2. L'intuizione dei princìpi è un abito

Non potendo essere né la facoltà dell'intelletto agente, nemmeno lapotenza dell'intelletto possibile, la capacità di intuire i primi princìpi dovrànecessariamente, per esclusione, essere un habitus. Possiamo verificare perchéè così dimostrando che le caratteristiche essenziali dell'abito si riscontrano nelpossesso dei princìpi. Secondo tutto quanto abbiamo guadagnato nello stato della questione cheabbiamo delineato, ci sono tre condizioni perché la diposizione di una potenzasia un habitus:

1. Ci vuole, in primo luogo, che la potenza, da sé stessa, non abbia per

natura la capacità che verrà conferita da questa disposizione38(74).2. La disposizione in causa deve poi determinare bene o male la potenza in

ordine al fine della natura cui appartiene tale potenza.3. Finalmente, questa disposizione non deve essere transitoria, ma stabile, in

modo da essere come una seconda natura.

Questi tre requisiti sono presenti nella capacità di intuire i princìpi:[1] L'intelletto possibile è nativamente come una tabula rasa, e quindi del

tutto indeterminato quanto alla propria operazione39(75); pertanto, lapotenza intellettiva necessita una prima regola immanente di intellezione,che funga da criterio di verità nella progressiva investigazione dellarealtà*.

[2] La verità essendo la perfezione dell'intelletto, ne è il bene proprio40(76);perciò, ogni disposizione che ordina l'intelletto possibile ad un certo tipodi verità lo orienta ipso facto al suo bene.

[3] L'intellectus principiorum è una disposizione non soltanto stabile, bensìincorruttibile. Infatti, non si dà alcuna causa che potrebbe agire in sensocontrario alla sua causa propria, che è, come vedremo in dettaglio nel

secondo capitolo, l'intelletto agente41(77).

Consta quindi che la capacità di intuire i primi princìpi è un abitodell'intelletto possibile.

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§ 2 L'abito dei princìpi è una virtù intellettuale speculativa?

1. Le nozioni in causa

Per risolvere questo secondo problema, dobbiamo esaminare ilsignificato delle tre nozioni in causa nel predicato.

1.1. La nozione di virtù

Dopo aver trattato degli abiti, san Tommaso studia nella Ia-IIae l'essenzadella virtù, che definisce aristotelicamente come un abito operativo buono. Eglidedica un articolo a ciascuna di queste note definitorie, che possiamobrevemente esporre

Nel primo articolo, si parte da una definizione usuale della virtù perarrivare al genere della definizione reale:

virtus nominat quandam potentiae perfectionem. Uniuscuiusqueautem perfectio praecipue consideratur in ordine ad suum finem. Finisautem potentiae actus est. Unde potentia dicitur esse perfecta, secundumquod determinatur ad suum actum. [...] - Potentiae autem rationales, quae sunt propriae hominis, nonsunt determinatae ad unum, sed se habent indeterminate ad multa:determinantur autem ad actus per habitus, sicut ex supradictis patet. Et

ideo virtutes humanae habitus sunt1(78).

La virtù è quindi un abito che perfeziona una potenza; ora la potenza èun principio di operazione; perciò, la virtù rientra nella categoria degli abiti

operativi2(79). Inoltre, un abito è necessariamente o buono, o cattivo; ma lavirtù essendo un abito che perfeziona il soggetto in cui sta, essa ècostitutivamente buona. Questa implicazione viene esplicitata così:

sicut supra dictum est, virtus importat perfectionem potentiae:unde virtus cuiuslibet rei determinatur ad ultimum in quod res potest, utdicitur in I De caelo. Ultimum autem autem in quod unaquaeque potentiapotest, oportet quod sit bonum: nam omne malum defectum quendamimportat; unde Dionysius dicit, in 4 cap. De divinis nominibus, quodomne malum est infirmum. Et propter hoc oportet quod virtus cuiuslibetrei dicatur in ordine ad bonum. Unde virtus humana, quae est habitus

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operativus, est bonus habitus, et boni operativus3(80).

L'ordine che l'abito virtuoso imprime nella potenza che determina, eattraverso di essa, nel supposito in cui inerisce, è quindi un ordine che gliconsente di operare positivamente verso il fine iscritto nella sua natura.

2. La nozione di virtù intellettuale

Una virtù intellettuale è una virtù che perfeziona l'intelletto possibile.Questa evidenza cela una difficoltà. La virtù, abbiamo ricordato, è un abitooperativo buono; quindi rende buoni gli atti che emanano dalla potenza cheessa perfeziona: ma in che cosa consiste precisamente questa bontà? Un atto, edunque un abito, può essere detto buono in un duplice senso:

sicut supra dictum est, virtus est habitus quo quis bene operatur.Dupliciter autem habitus aliquis ordinatur ad bonum actum. Uno modo,inquantum per huiusmodi habitum acquiritur homini facultas ad bonumactum: sicut per habitum grammaticae habet homo facultatem recteloquendi. Non tamen grammatica facit ut homo semper recte loquatur:potest enim grammaticus barbarizare aut solecismum facere. Et eademratio est in aliis scientiis et artibus. Alio modo, aliquis habitus non solum facit facultatem agendi, sedetiam facit quod aliquis recte facultate utatur: sicut iustitia non solumfacit quod homo sit promptae voluntatis ad iusta operandum, sed etiam

facit ut iuste operetur4(81).

Si deve quindi distinguere l'abito che conferisce la capacità (facultas) dioperare bene, dall'abito che conferisce non solo la capacità di operare bene,bensì anche l'uso buono della facoltà. Ora, è chiaro che il bene si dice per priusdell'ente ciò che raggiunge in atto secondo la sua perfezione, e soltanto perposterius dell'ente che possiede in atto primo la facoltà di agire bene secondo

qualche dimensione del suo essere5(82). Quindi la bontà non si riferisceprimariamente alle singole facoltà, ma alla sostanza dalla quale emanano,giacché, comunque, non è, ad esempio, l'intelligenza che pensa, ma l'uomo chepensa grazie alla potenza intellettiva. Pertanto gli abiti che rendonoeffettivamente perfetti gli atti delle potenze umane e buono l'uomo stessosaranno buoni assolutamente, e potranno essere chiamati virtù nel senso fortedella parola; invece, gli abiti che soltanto dispongono stabilmente le loropotenze ad agire bene, ma non le fanno necessariamente agire effettivamente

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bene, saranno virtù soltanto in un senso derivato6(83).

Ma la potenza che effettivamente proporziona effettivamente l'uomo alsuo bene, perché lo ordina al suo fine, è la volontà; e siccome la causalitàefficiente dipende dalla causalità finale, è anche la volontà che opera nell'uomoil passaggio all'atto secondo, sia che essa ponga il suo atto proprio, che èl'amore, sia che «commandi» a quelle altre facoltà che stanno sotto il suodominio, muovendole ai loro atti rispettivi nella linea dell'esercizio (ma non in

quella della specificazione)7(84). Sotto questo punto di vista, anche la ragione

è mossa dalla volontà8(85). Da questo primato della volontà per quantoriguarda l'acquisizione effettiva della perfezione umana, dobbiamo dedurre chesoltanto quei abiti che sono o della volontà o mossi dalla volontà saranno virtùin senso stretto:

Subiectum vero habitus qui simpliciter dicitur virtus, non potestesse nisi voluntas; vel alia potentia secundum quod est mota a voluntate.Cuius ratio est, quia voluntas movet omnes alias potentias quaealiqualiter sunt rationales, ad suos actus, ut supra habitum est: et ideoquod homo actu bene agat, contingit ex hoc quod homo habet bonamvoluntatem. Unde virtus quae facit bene agere in actu, non solum infacultate, oportet quod vel sit in ipsa voluntate; vel in aliqua potentia

secundum quod est a voluntate mota9(86).

Pertanto, l'intelletto potrà essere soggetto di una virtù intesa simplicitersoltanto nella misura in cui essa sarà consecutiva alla mozione della volontà;invece, gli abiti intellettuali che saranno anteriori a questa mozione, sarannodelle virtù soltanto secundum quid:

Sciendum est autem, quod intellectus tam speculativus quampracticus potest perfici dupliciter aliquo habitu. Uno modo absolute etsecundum se, prout praecedit voluntatem, quasi eam movens; alio modoprout sequitur voluntatem, quasi ad imperium actum suum eliciens: quia,ut dictum est, istae duae potentiae, scilicet intellectus et voluntas, seinvicem circumeunt. Illi igitur habitus qui sunt intellectu practico vel speculativo, primomodo, possunt dici aliquo modo virtutes, licet non ita secundumperfectam rationem; et hoc modo intellectus, scientia et sapientia, sunt inintellectu speculativo, ars vero in intellectu practico. Dicitur enim aliquisintelligens vel sciens secundum quod eius intellectus perfectus est ad

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cognoscendum verum; quod quidem est bonum intellectus [...]. Habitus vero qui sunt in intellectu speculativo vel practicosecundum quod intellectus sequitur voluntatem, habent verius rationemvirtutis; in quantum per eos homo efficitur non solum potens vel sciens

recte agere, sed volens10(87).

Nella parte del respondeo che abbiamo lasciata da parte, una obiezioneimplicita viene proposta e risolta: si potrebbe rilevare che l'uomo in possessodegli abiti elencati nella prima categoria, che sono delle virtù soltanto aliquomodo, tende ad usarli, e perciò viene anche ordinato all'esercizio di taliconosenze. San Tommaso risponde che a questi abiti non spetta il volereconoscere il tipo di verità che li specifica, ma soltanto il potere conoscerla:

Et licet istud verum possit esse volitum, prout homo vultintelligere verum; non tamen quantum ad hoc perficiuntur habituspraedicti. Non enim ex hoc quod homo habet scientiam, efficitur volensconsiderare verum, sed solummodo potens; unde et ipsa veri considerationon est scientia in quantum est volita, sed secundum quod directe tenditin obiectum. Et similiter est de arte respectu intellectus practici; unde arsnon perficit hominem ex hoc quod bene velit operari secundum artem,

sed solummodo ad hoc quod sciat et possit11(88).

L'atto della scienza non è scienza in quanto è voluto, ma in quanto tendedirettamente al suo oggetto. Con questa distinzione, l'aspetto di efficienzanell'esercizio del sapere viene epistemologicamente sostratto agli abitiscientifici ed attribuito alla volontà.

La prudenza rimane così il solo abito naturale che abbia la sua sedenell'intelletto e che sia contemporaneamente una virtù nel senso pieno, perché

la prudenza determina appunto la recta ratio agendi12(89).

3. La nozione di virtù intellettuale speculativa

Le virtù intellettuali si dividono in speculative e pratiche. Questadistinzione ha una duplice radice: la prima si prende dal fine degli abitiintellettuali, mentre la seconda dipende dal loro oggetto specificante.Esaminiamo successivamente questi due fondamenti.

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Seguendo Aristotele13(90), l'Aquinate differenzia i saperi dal punto divista della finalità nel modo che segue:

theoricus sive speculativus intellectus, in hoc proprie ab operativosive practico distinguitur, quod speculativus habet pro fine veritatemquam considerat, practicus autem veritatem consideratam ordinat in

operationem tanquam in finem14(91).

La conoscenza speculativa si ferma quindi alla verità, la contempla in séstessa e si compiace in essa; invece, la conoscenza pratica va, per così dire,oltre, subordinando la verità raggiunta ad una operazione, che potrà essere o

una azione morale, oppure una produzione tecnica15(92). Pertanto, gli abitiintellettuali possono anche essere divisi in tre grandi gruppi: virtù speculative,ordinate alla contemplazione della verità; prudenza, ordinata all'agire morale;tecnica o arte, ordinata al fare.

L'altro fondamento della distinzione delle virtù intellettuali inspeculative e pratiche sta nel modo di essere del loro oggetto specificante, aseconda che è necessario o contingente, come l'abbiamo notato nella

problematica16(93). Nella Quaestio disputata De virtutibus in communi, sanTommaso divide le virtù intellettuali secondo lo stesso principio:

Cognitio autem veri non est respectu omnium unius rationis. Aliaenim ratione cognoscitur verum necessarium, et verum contingens: etiterum verum necessarium alia ratione cognoscitur si sit per se notum,sicut intellectu cognoscuntur prima principia; alia ratione si fiat notum exalio, sicut fiunt notae conclusiones per scientiam vel sapientiam circaaltissima: in quibus etiam est alia ratio cognoscendi, eo quod ex hachomo dirigitur in aliis cognoscendis. Et similiter circa contingentia operabilia non est eadem ratiocognoscendi ea quae sunt in nobis, quae dicuntur agibilia, ut suntoperationes nostrae, circa quas frequenter contingit errare, propteraliquam passionem; quarum est prudentia: et ea quae sunt extra nos anobis factibilia, in quibus dirigit ars aliqua; quorum rectam

aestimationem passiones animae non corrumpunt17(94).

Una virtù intellettuale speculativa avrà quindi per subiectum qualcheaspetto della realtà, circoscritto da una ratio, che non sia operabile e che siastrettamente necessario.

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Che cosa si intende per necessario? San Tommaso osserva, nel suoCommento sulla Metafisica di Aristotele, che lo Stagirita tratta di questavocabolo, nel lessico filosofico del libro L, in un capitolo (5) immediatamenteconsecutivo a quelli che spiegano nozioni legate alla causalità (1 a 4). Questolegame non è, per l'Aquinate, solo testuale, bensì dottrinale, giacché lanecessità si manifesta a noi nel discorso che espone un rapporto di causalità:

Postquam Philosophus distinxit nomina, quae significant causas,hic distinguit nomen quod significat aliquid pertinens ad orationemcausae; scilicet Necessarium. Causa enim est ad quam de necessitate

sequitur aliud18(95).

La necessità appare qui come un nesso ontologico fra due realtà, oppuredue momenti, istanze o aspetti di una stessa realtà, che non possono non esserelegati come lo sono, perché il loro rapporto non è altro che la consecuzione cheunisce il principio e causa a ciò di cui è principio e causa (a)rxh/ kai\

ai)ti/a)19(96). Ci saranno, pertanto, tanti tipi di necessità quanti tipi di

causalità. Troviamo una ottima sintesi al riguardo nella Ia pars : Necesse est enim quod non potest non esse. Quod quidem convenitalicui, uno modo ex principio intrinseco: sive materiali, sicut cumdicimus quod omne compositum ex contrariis necesse est corrumpi; siveformali, sicut cum dicimus quod necesse est triangulum habere tresangulos aequales duobus rectis. Et haec est necessitas naturalis etabsoluta. Alio modo convenit alicui quod non possit non esse, ex aliquoextrinseco, vel fine vel agente. Fine quidem, sicut cum aliquis non potestsine hoc consequi, aut bene consequi finem aliquem: ut cibus diciturnecessarius ad vitam, et equus ad iter. Et haec vocatur necessitas finis;quae interdum etiam utilitas dicitur. Ex agente autem hoc alicui convenit,sicut cum aliquis cogitur ab aliquo agente, ita quod non possit contrarium

agere. Et haec vocatur necessitas coactionis20(97).

San Tommaso ci offre qui una tavola sinottica delle modalità delnecessario che il Filosofo aveva elaborate nella Metafisica:

necessitas [1] assoluta

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[1.1] materiale [1.2] formale [2] ipotetica [2.1] finale [2.2] di costrizione

Esaminiamo successivamente la fonte aristotelica e l'interpretazionetommasiana di ognuna di queste necessità:

[1] Il primo tipo di necessità è la necessità assoluta fondata sulle causeintrinseche. Aristotele aveva soltanto notato a questo riguardo che:

Inoltre, ciò che non può essere in modo diverso da come è,

diciamo che è necessario che così sia21(98).

Questo asserto era introdotto con la parola e)/ti che Guglielmo diMoerbeke tradusse in amplius, e faceva seguito alla descrizione delle necessitàdi mezzo o di costrizione, san Tommaso lo riferì ad un altro genere di cause, equindi a quelle intrinseche. Questa necessità si fonda o sulla forma, o sullamateria, o sull'essenza:

Dicit, quod necessarium etiam dicimus sic se habere, quod noncontingit aliter se habere: et hoc est necessarium absolute. [...]. Differt autem necessarium absolute ab aliis necessariis: quianecessitas absoluta competit rei secundum id quod est intimum etproximum ei; sive sit forma, sive, materia, sive ipsa rei essentia; sicutdicimus animal necesse esse corruptibile, quia hoc consequitur eiusmateriam inquantum ex contrariis componitur. Dicimus etiam animalnecessario esse sensibile, quia consequitur eius formam: et animalnecessario esse substantiam animatam sensibilem, quia est eius

essentia22(99).

[1.1] Per quanto riguarda la necessità fondata sulla causa materiale, gli esempidati nell'articolo citato della Summa Theologiae e del Commento sullaMetafisica sono lo stesso: si tratta della corruttibilità che è consecutiva allanatura materiale come sua proprietà (nel senso del proprio di Aristotele e

Porfirio23(100)).

[1.2] Gli esempi destinati a fare capire la necessità fondata sulla causa formalesono invece diversi. Nella Summa, l'Aquinate si appella al teorema per il quale

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la somma degli angoli di un triangolo qualunque è sempre uguale alla somma didue angoli retti (180°, ossia p rad). Questa implicanza è di nuovo unaproprietà, giacché scaturisce dall'essenza del triangolo senza essere identica conessa. Nel Commento alla Metafisica, per contro, si cita come esempio l'esseresensibile che appartiene all'essenza stessa dell'animale in quanto sostanzaanimata sensibile: qui stiamo davanti ad una differenza specifica, anche se essafonda poi delle proprietà, che saranno le potenze della vita sensitiva.

[2] In opposizione alla necessità assoluta, che risulta dalle cause intrinseche,l'altro grande tipo di necessità dipende dalle due cause estrinseche, e rientrapertanto nella categoria della necessità secundum quid :

Necessarium autem secundum quid et non absolute est, cuiusnecessitas dependet ex causa extrinseca. Causa autem extrinseca est

duplex; scilicet finis et efficiens24(101).

Infatti, quando si pone una causa estrinseca, il causato ne segueobbligatoriamente, ma la causa estrinseca non si dà in ogni caso.

[2.1] Si considera quindi la necessità fondata sulla causa finale, perchériguarda il rapporto del mezzo al fine. Aristotele aveva cominciato il suocapitolo con la presentazione esemplificata di questa necessità e delle sue duemodalità:

Necessario significa ciò senza il cui concorso non è possibilevivere: la respirazione e il nutrimento, per esempio, sono necessariall'animale, perché questo non può esistere senza di quelli. E significa anche ciò senza il cui concorso il bene non può esisterené prodursi, ovvero ciò senza il cui concorso il male non può essereeliminato o evitato: il bere una medicina, per esempio è necessario pernon essere ammalati, e navigare verso Egina è necessario per guadagnare

denaro25(102).

Nel primo caso, il mezzo è tale che il fine al quale è ordinato non puòessere raggiunto senza di lui, per cui si tratta di una necessità finale stretta. Nelsecondo caso, invece, si ha soltanto una convenientia, giacché il fine potrebbeessere ottenuto per un'altra via. La necessità stretta viene spiegata dalloStagirita con il rapporto alla vita della respirazione, poi del cibo, e l'Aquinateriprende questo secondo esempio. La necessità in senso improprio viene intuitada Aristotele con due esempi: il farmaco profilattico rispetto alla salute, ed il

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viaggio ad Egina rispetto al guadagno; san Tommaso sceglie l'esempio delcavallo rispetto al percorso, il ché è più immediatamente evidente per unmedievale, giacché, il cavallo essendo allora il mezzo di trasporto più veloce (e

vietato ai religiosi), è un buon caso di mezzo più adatto ad un fine26(103). Sinoti che la necessità finale stretta riguarda l'esse simpliciter del fine, mentre laconvenientia è soltanto ad melius esse.

[2.2] L'ultimo tipo di necessità contemplato nel testo citato della Ia parsè legato alla causa efficiente considerata sotto l'aspetto della costrizione, vale adire come causa proibitiva. Anche in questa contestualizzazione della causalitàefficiente, san Tommaso rieccheggia fedelmente Aristotele:

Inoltre, necessario significa ciò che costringe e la costrizione. E questo èciò che si oppone come ostacolo e come impedimento all'impulso naturale ealla deliberazione razionale. Infatti, ciò che è costretto si dice necessario, eperciò, anche, doloroso, come dice Evene: "Ogni cosa necessaria è per suanatura gravosa". E la costrizione è una necessità, come anche Sofocle afferma:"Ma la costrizione mi necessita a fare queste cose". E la necessità sembra esserequalcosa di inflessibile, e a buona ragione perché si oppone al movimento che

scaturisce dalla deliberazione e dal ragionamento27(104).

Nei casi precedenti, la necessità procedeva da un legame causale presosenza restrizione: dall'essenza proviene necessariamente la proprietà, e dallavolizione del fine proviene necessariamente la scelta del mezzo indispensabile.Qua, non è la causalità efficiente in tutta la sua estensione che fonda un nuovomodo di necessità, bensì quella causalità per cui un agente esterno ad una cosaimpedisce questa cosa di agire secondo la sua inclinazione. Perché talelimitazione? La risposta si trova nella metafisica delle cause. Omnis agens agit

propter finem : in virtù di questo assioma28(105), l'agente non si muove se nonper un fine che lo attira; per cui dobbiamo dire che la causa finale è,normalmente, causa della causalità della causa efficiente. Perciò, la necessità diun processo causale efficiente conforme alla natura del suo soggetto in cuiavviene si fonda sulla fine che esso prosegue, ed è quindi riconducibile allacausalità finale. È soltanto quando un soggetto viene impedito da raggiungere ilfine al quale era inclinato che la necessità, per questo soggetto, è di puraefficienza, giacché, allora, va contro la sua finalità. Così si spiega che lanecessità ipotetica fondata sulla causalità efficiente sia una necessità di

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costrizione. Con questa necessità, si fa violenza al soggetto, perché esso vieneimpedito di fare ciò a cui tendeva per natura sua, sia che si tratti di una cosa, sia

che si tratti di una persona29(106). Perciò, questo tipo di necessità è il piùestrinseco ed il più periferico di tutti e quattro.

Avendo esplicitato che cosa è la necessità e in quali modi essa si divide,dobbiamo tornare al nostro argomento, e mostrare perché le virtù intellettualispeculativi vertono solo ed esclusivamente sul necessario. Abbiamo visto cheuna conoscenza speculativa ha per fine la pura contemplazione del suo oggetto,come del resto suggerisce l'etimon del vocabolo: infatti, speculum significa inlatino specchio, e si ricollega alla radice *spec, che esprime l'attenzione dello

sguardo30(107). «Speculare», per un medioevale, vuol dire lasciare la cosariflettersi nello specchio della mente umana, senza intervenire su di essa. Ma inquesto senso, ogni conoscenza, anche sensibile, è originariamente speculare, e

lo è poi formalmente quando non tende a produrre un oggetto31(108); perciòsembra, di primo acchito, che pure un giudizio che verte su una realtàcontingente possa essere speculativo.

Perché allora le virtù speculative concernono soltanto oggetti necessari?Per sciogliere questa difficoltà, si deve partire dall'essenza della virtù. Essa ènon è una mera disposizione transitoria, ma un habitus, il ché implica di per sé,come l'abbiamo visto, la stabilità della perfezione che viene conferitaall'intelletto possibile. Ora questa stabilità essendo di ordine intenzionale, essa

deve provenire dall'oggetto conosciuto32(109); ma la stabilità, ossial'immutabilità di un oggetto conosciuto, non è altro che la sua necessità, vale adire l'impossibilità che esso sia, e quindi sia vero, altrimenti che è. Pertanto,una virtù intellettuale, per quello stesso che la rende virtù, non può esserespecificata se non da un oggetto necessario.

4. Soluzione del problema

Positis ponendis, siamo in grado di risolvere il problema che abbiamosollevato in questo § 2, mostrando che tutte le caratteristiche cumulativecostitutive delle virtù intellettuali speculative che abbiamo investigate siriscontrano effettivamente nell'abito dei primi princìpi.

In primo luogo, questo habitus è operativo ed è intellettuale, giacché si

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trova nell'intelletto possibile, che è una potenza, e non nell'essenza stessadell'anima; inoltre, è un abito buono, perché esso perfeziona l'intelletto inordine al proprio bene, che è la verità: infatti, non solo gli assiomi sono sempreproposizioni sempre vere, ma acquistiamo con il loro possesso abituale uncriterio di verità che ci consentirà di giudicare le proposizioni nonimmediatamente evidenti. Invece, sebbene questa conoscenza abituale diaall'intelletto la sua regola immanente e ne costituisca pertanto il primo bene,essa non rende tuttavia l'uomo stesso buono, giacché si può anche usare male iprimi princìpi. Assomando le due tesi, ne concludiamo che la capacità di intuirei primi princìpi è una virtù intellettuale, e non è una virtù morale.

In secondo luogo, risulta poi dalle nostre analisi che un abito intellettualeappartiene al genere delle virtù speculative quando esso viene specificato da unoggetto necessario, e quando mira alla semplice contemplazione della verità enon ad una operazione ulteriore. Per quanto riguarda il prima condizione, lohabitus principiorum è sottomesso ad una doppia necessità. Il suo oggetto è,anzitutto, necessario sul piano ontologico, poiché il significato del predicato, inuna enunciazione assiomatica, è fondato sull'essenza stessa del soggetto;inoltre, la verità di un tale enunciato è anche necessaria sul piano noetico,

giacché l'intelligenza non può non assentire ad un tale enunciato33(110), comelo spiegheremo in dettaglio più avanti nel § 4.

Per quanto concerne la seconda condizione, una obiezione vienefacilmente alla mente. Una virtù è speculativa a patto di essere finalizzata dallapura verità del suo oggetto; ora, l'esperienza intellettuale ci attesta che non cisoffermiamo sulla verità degli assiomi, ma piuttosto li utilizziamo per inferireconclusioni nuove; perciò, può sembrare che l'abito dei princìpi non ha per finela verità del suo oggetto, ma un'altra cosa, cioè la costruzione di un sillogismo.Di fronte a questa difficoltà, possiamo concedere che, dallo stretto punto divista della causa finale, la conoscenza dei princìpi non viene ultimamenteformulata per sé stessa, ma è ordinata alla scoperta di altre verità, ed sopratuttoalla sapienza; tuttavia, i primi princìpi non sono soltanto, per noi, il punto dipartenza della ricerca (in via inventionis), ma sono pure, in un certo senso, unpunto di arrivo, in quanto, conoscendo le conclusioni alla luce dei princìpi, lerisolviamo in essi (in via resolutionis). È proprio per questo motivo che l'abitodei princìpi costituisce il nostro criterio di verità, il quale è quindi semprepresente quando l'intelligenza (naturale) è tesa verso la verità in quanto tale. Inquesto modo, la conoscenza dei primi appare come una prima verità che dà alle

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altre verità che raggiungiamo la loro certezza (firmitas); pertanto, l'abito deiprimi princìpi è veramente finalizzato alla contemplazione della verità.

§ 3 In che cosa consistono le proposizioni per se, di cui fanno partei primi princìpi?

1. I tre contrassegni logici delle premesse necessarie

Abbiamo stabilito che l'abito dei primi princìpi ha per oggettospecificante delle verità che sono necessarie dal punto di vista ontologico. Orala necessità ontologica di una verità si traduce, sul piano logico, nella proprietàdi perseità che caratterizza la proposizione che esprime questa verità:

Ea, quae per se praedicantur, necessario insunt1(111).

Questo asserto essendo una definizione, è convertibile. Pertanto, se laforma significata dal predicato di una enunciazione si trova necessariamentenella cosa denotata dal soggetto, allora la enunciazione in causa sarà per se,perché la sua «materia», cioè il fondamento ontologico del nessoproposizionale sarà necessario, o impossibile, il ché è equivalente; altrimenti,l'enunciazione è per accidens, perché verte sua materia contingente:

Potest accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam,quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati adsubiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esseenunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo estanimal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnetsubiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse inmateria impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si veromedio modo se habeat praedicatum ad subiectum, nec per se insit, dicetur

enunciatio esse in materia possibili sive contingenti2(112).

Nella proposizione per se, il legame fra predicato e soggetto riposaquindi, in modi da precisare, sulla quiddità stessa (ratio) di quest'ultimo.Essendo quindi già chiaro che le proposizioni in cui vengono espressi i primiprincìpi sono per sé, dobbiamo, nel presente § 3, esaminare dettagliatamente inche cosa consiste la perseità.

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È nel primo libro degli Secondi Analitici che Aristotele, poi sanTommaso al suo seguito, tratta il tema delle enunciazioni kaq'au(to ossia perse considerato dal punto di vista logico, giacché il luogo epistemologico doveinterviene questa nozione è la teoria della dimostrazione. Infatti, la conclusionescientifica dovendo essere necessaria, essa procede da premesse necessarie, chepoi o sono primi princìpi o sono almeno riconducibili a dei primi princìpi:

Poiché è impossibile che l'oggetto della scienza presa in sensoassoluto sia altro di ciò che è, ciò che viene conosciuto per la scienzadimostrativa sarà necessario; ma la scienza dimostrativa è quella cheabbiamo dal fatto stesso che siamo in possesso della dimostrazione; diconseguenza, la dimostrazione è un sillogismo costituito a partire da

premesse necessarie3(113).

Pertanto, lo studio della dimostrazione scientifica (a)po/deicij) deveanalizzare le condizioni che rendono una proposizione necessaria:

Occorre, di conseguenza, investigare quali sono le premesse delladimostrazione e quale è la loro natura. Per cominciare, definiamo ciò cheintendiamo con l'essere detto di tutto il soggetto, per se, ed

universalmente4(114).

Tre sono quindi per il Filosofo le proprietà logiche del rapporto frapredicato e soggetto nelle enunciazioni il cui oggetto è necessario:

[1] il ciò che diciamo secondo tutto [il soggetto]: ti/ le/gomen to\ kata pantoj = quid dicimus de omni [2] [il] ciò [che diciamo] secondo se stesso: ti/ to\ kaq'au)to = quid per se [3] [il] ciò [che diciamo] universale ti/ to\ kaqo/lou = quid universale

Commentando queste tre concise espressioni di Aristotele, san Tommasone afferma primo il carattere cumulativo, per cui la perseità del predicato nepresuppone l'essere detto di tutto il soggetto:

...antequam determinetur in speciali ex quibus et qualibus sitdemonstratio, primo determinandum est quid intelligatur cum dicimus deomni, et per se, et universale. Cognoscere enim ista est necessarium adsciendum ex quibus sit demonstratio. Hoc namque oportet observari in

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demonstrationibus. Oportet enim in propositionibus demonstrationisaliquid universaliter praedicari, quod significat dici de omni, et per se, etetiam primo, quod significat universale. Haec autem tria se habent exadditione ad invicem. Nam omne quod per se praedicatur, etiamuniversaliter praedicatur; sed non e converso. Similiter omne quod primopraedicatur, praedicatur per se, sed non convertitur. Unde etiam apparet

ratio ordinis istorum5(115).

Dopodiché si dà una prima spiegazione di ognuna delle tre modalità in causa:[1] Differentia etiam et numerus istorum trium apparet ex hoc, quod aliquid

praedicari dicitur de omni sive universaliter per comparationem ad ea,quae continentur sub subiecto. Tunc enim dicitur aliquid de omni, uthabetur in libro Priorum, quando nihil est sumere sub subiecto, de quopraedicatum non dicatur.

[2] Per se autem dicitur aliquid praedicari, per comparationem ad ipsumsubiectum: quia ponitur in eius definitione, vel e converso, ut infrapatebit.

[3] Primo vero dicitur aliquid praedicari de altero per comparationem ad ea,quae sunt priora subiecto et continentia ipsum. Nam habere tres angulosetc. non praedicatur primo de isoscele: quia prius praedicatur de priori,

scilicet de triangolo6(116)

La prima proprietà concerne quindi la denotazione del predicato: essodeve essere attribuito a tutto ciò a cui si estende il soggetto; in altri termini, laproposizione de omni deve essere universale, e non particulare quanto allaquantità del soggetto. Ad esempio, la proposizione <ogni uomo è mortale> èuna proposizione de omni, perché il predicato <mortale> viene attribuito al

soggetto <uomo> senza restrizione alcuna7(117) (rispetto al senso proprio). Sitratta quindi di una condizione che spetta al predicato attraverso l'estensione delsoggetto. La seconda proprietà invece, cioè la perseità stessa, riguarda ilpredicato in quanto tale, vale a dire in quanto attribuito al soggetto: laproposizione sarà per se qualora o il predicato entra nella definizione delsoggetto, o vice-versa. Ad esempio, nella proposizione <ogni uomo èrazionale>, il predicato <razionale> si dice per se del soggetto <uomo> perchéla razionalità appartiene alla definizione dell'uomo; in un altro modo, laproposizione <ogni uomo ha un intelletto agente> è pure per se, perché ilpredicato <avendo un intelletto agente> coinvolge lo statuto astrattivo della

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conoscenza intellettuale umana, e quindi contiene il suo soggetto <ogni uomo>

nella sua definizione, come ogni potenza8(118). Quanto alla terza proprietà,essa mette in risalto ciò a cui il predicato viene formalmente attribuito nelsoggetto: se si tratta dell'ultima nota specificativa di quest'ultimo, allora laproposizione verrà detta per se prima; se si tratta invece di una notalogicamente anteriore, quindi di un genere, allora la proposizione non saràprima. Ad esempio, i predicati <razionale> o <capace di ridere> si dicono perse primo del soggetto <uomo>, giacché sia la razionalità che la capacità diridere sono convertibili con l'uomo: si trovano in ogni uomo, e soltantonell'uomo. A rovescio, i predicati <animale> e <mortale> si dicono per se, manon primo del soggetto <uomo>, perché, sebbene l'animalità e la mortalità sidicono di ogni uomo, ed a causa della stessa natura umana, tuttavia non sonoproprie all'uomo in quanto uomo, bensì in quanto animale. Lo stesso si verificanell'esempio scelto da san Tommaso: la proprietà per cui la somma dei treangoli è uguale a due retti si trova nell'«isoscele» in quanto triangolo, e non inquanto isoscele. Perciò, non si dice primo dell'isoscele, ma del triangolo.

Siamo ora in grado di capire perché le tre caratteristiche logiche dellapremessa scientifica siano cumulative. Sia una proposizione il cui predicatorispondi alle tre condizioni, ad esempio <ogni uomo è razionale>. <Razionale>si dice de omni relativamente a tutti gli individui inclusi nell'estensione delsoggetto; si dice per se relativamente al significato del soggetto; e si dice primorelativamente a ciò che è ultimo nella comprensione del soggetto. Quindi siconsiderano successivamente i concetti inferiori al soggetto, il soggetto stesso,e finalmente i concetti superiori al soggetto:

[1] Il predicato <razionale> si dice di ogni singolo uomo che è «contenuto»nella specie <uomo>: per comparationem ad ea, quae continentur subsubiecto.

[2] Il predicato <razionale> si dice dell'uomo in ragione di ciò che l'uomo èper essenza: per comparationem ad ipsum subiectum.

[3] Il predicato <razionale> si dice dell'uomo in ragione della nota chespecifica ultimamente ciò che l'uomo è per essenza, e non in ragione diuna nota anteriore che l'uomo avrebbe in comune con altri esseri: [non]per comparationem ad ea, quae sunt priora subiecto et continentiaipsum.

Avendo descritto ognuno dei tre modi dicendi in causa nel sillogismoscientifico, ed avendoli collocati l'uno rispetto all'altro, dobbiamo ora

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approfondire il significato preciso di ciascuno.

2. Analisi delle tre condizioni logiche di necessità

2.1. La prima condizione: dici de omni

Mette conto leggere la spiegazione che lo stesso Aristotele dà dei criteririchiesti perché una proposizione sia detta kata\ panto\j:

Con [la formula] affermato della totalità del soggetto, intendo ciòche non viene attribuito a qualche caso di questo soggetto all'esclusionedi qualche altro caso, né viene attribuito ad un certo momentoall'esclusione di tale altro: ad esempio, se animale si dice di ogni uomo, ese è vero dire che questo è un uomo, è pure vero, allora, dire che questo èun animale; e se la prima proposizione è vera ora, l'altro lo è anche nellostesso momento. Il segno di ciò che abbiamo appena detto, è che leobiezioni che solleviamo, quando siamo interrogati sul punto di sapere seuna attribuzione è vera della totalità del soggetto, vertono su ciò che, in

tal caso oppure in tal momento, questa attribuzione non ha luogo9(119).

Il predicato deve quindi essere attribuito al soggetto in tal modo che sidica di tutti gli individui ai quali il soggetto in causa estende, senza restrizionedi tempo:

Et ideo in definitione dici de omni duo ponit: quorum unum est, utnihil sit sumere sub subiecto cui praedicatum non insit. Et hoc significatcum dicit: Non in quodam quidem sic, in quodam autem non. Aliud est,quod non sit accipere aliquod tempus, in quo praedicatum subiecto nonconveniat. Et hoc designat cum dicit: Neque aliquando sic, aliquandonon; et ponit exemplum. Sicut de omni homine praedicatur animal; et dequocunque verum est dicere quod sit homo, verum est dicere quod sitanimal, et quandocunque est homo, est animal. Et similiter se habet de

linea et de puncto: nam punctum est in linea qualibet et semper10(120).

San Tommaso rileva, inoltre, che, nei Primi Analitici, Aristotele silimitava al primo criterio, quindi all'appartenenza attuale del predicato a tutti

gli individui denotati del soggetto11(121), mentre, nei Secondi Analitici,aggiunge il secondo criterio per cui il predicato deve stare nel soggetto in ognitempo, e non solo nel presente. La ragione implicita di questa precisazionetiene alla perenne validità della premessa scientifica, di cui tratta questa sezione

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dei Secondi Analitici, allorché i Primi Analitici elaboravano la teoria delsillogismo in generale, valida quindi sia per l'argomentazione probabile che per

la dimostrazione certa12(122). Ma se un predicato si dice di un soggettosecondo tutta la sua estensione e senza limiti temporali, una tale attribuzioneriposa in ultima analisi sulla natura stessa degli estremi che vengono così

collegati13(123); ora in questo caso, il dici de omni non ha un valoremeramente estensionale, ma richiama il dici per se, che si fonda sullacomprensione dei concetti in causa.

2.2. La seconda condizione: dici per se

2.2.1. La nozione di perseità in communi

Nella lingua di Aristotele, il kaq'au)to è la specificazione di una nozione

più ampia, quella di kaq'o)/14(124). Nel greco, le due locuzioni sonoaccomunate dalla la preposizione kat\a che, seguita dall'accusativo, significa«sull'estensione di», «conformemente a», «secondo»; le rispettive traduzioniletterali sarebbero quindi «secondo se» e «secondo che», le qualimancherebbero assai di chiarezza. Perciò, il genio delle lingue romanicheessendo diverso, si sono coniate altre espressioni, etimologicamente meno

vicine al greco15(125). Ne diamo una tavola:

greco latino italiano francese spagnolo

kaq'o)/ secundum quod ciò per cui par quoi por lo que

kaq'au)to secundum se o perse

per sé par soi por sí mismo

Seguiremo l'uso ricevuto, ben consapevoli della difficoltà di rendere

queste due locuzioni tecniche nelle nostre lingue16(126). In vista di capire meglio il kaq'au)to, vediamo come lo Stagirita spiega,nel libro € della Metafisica, il kaq'o)/:

L'espressione «ciò per cui» ha molteplici significati.

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(1) In un primo senso, significa la forma [ei)=doj] e l'essenza [ou)si/a] diciascuna cosa: per esempio, ciò per cui colui che è buono è buono, è ilbene in sé.

(2) In un altro senso, significa il sostrato primo nel quale qualcosa sigenera per sua stessa natura, per esempio il colore nella superficie.

Il «ciò per cui» inteso nel primo significato è la forma, mentre nelsecondo significato è la materia ed il sostrato prossimo di ogni cosa.

In generale, il termine «ciò per cui» deve avere tutti i significatiche il termine causa.

(3) Infatti noi domandiamo indifferentemente: «che cosa è ciò per cui èvenuto?» e: «qual è lo scopo per cui è venuto?».

(4) Oppure: «che cos'è ciò per cui uno è caduto in un paralogismo o hafatto un sillogismo?» e «qual è la causa del sillogismo e delparalogismo?».

(5) Inoltre, la nostra espressione viene intesa anche in riferimento allaposizione: per esempio, si parla di ciò in cui uno sta o ciò per cui unocammina. Esempi, questi, che si riferiscono appunto alla posizione eal luogo17(127).

Come lo stesso Aristotele lo nota, e come i commentatori medievali eodierni l'hanno facilmente esposto18(128), la formula «ciò per cui» (kaq'o(/)significa quindi anzitutto i quattro possibili rapporti di causalità, poi, inoltre, ilrapporto fra il luogo o la posizione, e ciò che occupa tale luogo o ha taleposizione. È significativo che, in questo lessico filosofico, il significato piùfrequente nell'uso comune venga posto alla fine: ciò che è geneticamente primonel linguaggio è invece ultimo nella gerarchia dell'essere.

Quando san Tommaso si accingerà a spiegare, nel suo commentario suiSecondi Analitici, in che cosa consiste l'essere detto per se, egli si ricorderà delbrano della Metafisica che abbiamo appena citato, e lo applicherà allapreposizione per :

sciendum est quod haec praepositio per designat habitudinemcausae; designat etiam interdum et situm, sicut cum dicitur aliquis esseper se, quando est solitarius. Causae autem habitudinem designat,aliquando quidem formalis; sicut cum dicitur quod corpus vivit peranimam. - Quandoque autem habitudinem causae materialis; sicut cumdicitur quod corpus est coloratum per superficiem: quia scilicet propriumsubiectum coloris est superficies. - Designat etiam habitudinem causaeextrinsecae et praecipue efficientis; sicut dum dicitur quod aqua calescit

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per ignem19(129).

Se lasciamo l'uso locale della preposizione per, costatiamo che negliesempi di impiego causale, l'Aquinate propone delle enunciazioni che fannointervenire tre nozioni: il soggetto, il predicato, e la causa per la quale ilpredicato viene detto dal soggetto, che è almeno concettualmente diversa daambedue gli altri termini.

soggetto predicato motivo

causa formale corpus vivit per animam

causa materiale corpus est coloratum per superficiem

causa efficiente aqua calescit per ignem

Questa tavola evidenzia bene che la causa per la quale il significato delpredicato inerisce nel soggetto differisce, in tutti e tre gli esempi, dal predicatostesso. Uno potrebbe chiedersi perché san Tommaso non integra la causalitàfinale fra le modalità secondo le quali la preposizione per significa un rapportodi causalità, a differenza del brano della Metafisica che viene qua adoperato.Una prima ragione è, ovviamente, di ordine strettamente testuale, giacché iltesto dei Secondi Analitici che l'Aquinate sta per commentare non contienenessun riferimento al fine; ma, a nostro avviso, questo silenzio si giustificaanche speculativamente per il fatto che, da un lato la causa finale è semprepresente, in aristotelismo, nella causa efficiente, giacché ne fonda la causalità,mentre, d'altro lato, la causa finale non causa attualmente se non muovendo perattrazione una causa efficiente20(130).

Lo scopo di questa analisi del per (kaq'o(/) si trova nello studio del perse (kaq'au)to). Per passare dal primo al secondo, sarà sufficiente ricondurre ilmotivo dell'attribuzione al soggetto stesso, il ché spiegherà anchel'introduzione, sul piano grammaticale, del pronome riflessivo se (o delpronome dimostrativo au)to). Perciò, san Tommaso può continuare così:

Sicut autem haec propositio per designat habitudinem causae,quando aliquid extrinsecum est causa eius, quod attribuitur subiecto; itaquando subiectum vel aliquid eius est causa eius, quod attribuitur ei, ethoc significat per se21(131).

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Una proposizione per sé è quindi una proposizione nella quale il soggettostesso, o qualche aspetto costitutivo del soggetto, è causa dell'affermazione odella negazione del predicato. Non ci stupiremo, allora, che gli stessi modi dicausalità già presi in considerazione fondino altrettanti modi di perseità, chedobbiamo ora studiare singolarmente22(132).

2.2.2. I singoli modi di perseità

2.2.2.1. Il primo modo di perseità

Aristotele presenta il primo modo di perseità nel capitolo citato deiSecondi Analitici come segue:

Sono per sé, in primo luogo, gli attributi che appartengono alsoggetto in rapporto alla sua quiddità (o(/sa u(pa/rxei te e)n tw= ti/

e)stin): così al triangolo appartiene la linea, e alla linea il punto (giacchéla sostanza [ou)si/a] del triangolo e della linea integra questi elementi, iquali entrano nella definizione che dice che cosa è la cosa [e)n tw=

lo/gw tw= le/gonti ti/ e)stin e)nupa/rxei])23(133).

Quindi tutti i predicati che integrano il costitutivo essenziale delsoggetto, perché ne dicono «ciò che è» (ti/ e)stin), gli vengono attribuiti per seprimo modo. Gli esempi geometrici potrebbero dare luogo a qualche equivoco,poiché il punto essendo l'elemento materiale della linea, e la linea l'elementomateriale del triangolo, si potrebbe obiettare che il predicato esplicita la causamateriale del soggetto, e non la sua causa formale. In realtà, il punto fa partedella definizione della linea, e la linea fa parte di quella del triangolo, quindi sitratta di istanze che fanno parte dell'essenza de definito, come lo precisa benel'ultima parte del brano. Perciò, il punto rientra nel costitutivo formale dellalinea, e la linea in quello del triangolo, anche se in modo generico e nonspecificante.

Nel suo commentario, san Tommaso ha spiegato dettagliatamente ladefinizione di questo primo modo di perseità, gli esempi proposti, nonché laprecisazione finale. Vediamo successivamente queste tre puntualizzazioni:

Primus ergo modus dicendi per se est, quando id, quod attribuituralicui, pertinet ad formam eius. Et quia definitio significat formam etessentiam rei, primus modus eius quod est per se est, quando praedicaturde aliquo definitio vel aliquid in definitione positum (et hoc est quoddicit quod per se sunt quaecunque insunt in eo, quod quid est, idest in

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definitione indicante quid est), sive ponatur in recto sive inobliquo24(134).

Un predicato si dice per se primo modo di un soggetto quando neesplicita, ontologicamente parlando, la forma o l'essenza; logicamenteparlando, si tratta allora o della definizione, o di una parte logica di essa, vale adire il genere o la differenza specifica. Si danno poi due esempi di notedefinitorie, che vengono dunque attribute secondo questo tipo di perseità:

Sicut in definitione trianguli ponitur linea; unde linea per se inesttriangulo: et similiter in definitione lineae ponitur punctum; undepunctum per se inest lineae25(135).

Segue allora la giustificazione: Rationem autem quare ista ponantur in definitione subiungitdicens: Substantia, idest essentia, quam significat definitio ipsorum, idesttrianguli et lineae, est ex his, idest ex linea et punctis. Quod non estintelligendum quod linea ex punctis componatur, sed quod punctum sitde ratione lineae, sicut linea de ratione trianguli. Et hoc dicit adexcludendum ea, quae sunt partes materiae et non speciei, quae nonponuntur in definitione, sicut semicirculus non ponitur in definitionecirculi, nec digitur in definitione hominis, ut dicitur in VII Metaphysicae.Et subiungit quod quaecumque universaliter insunt in ratione dicentequid est, per se attribuuntur alicui26(136).

In questo testo, san Tommaso mette in risalto un punto assai importanteper una giusta comprensione del primo modo di perseità, ed è che tutto quelloche entra nella costituzione di una specie si predica per sé di essa nel primomodo. Questa precisione comporta due implicazioni, di cui si chiarisce qui laprima: se tutto ciò che entra nella definizione del soggetto gli viene attribuitoper se primo modo, allora quella materia che fa parte dell'essenza in causarientra anche in questo tipo di predicazione. Incontriamo qui la dottrina dei tremodi di definire, che corrispondono agli oggetti specificanti le tre scienze. Cosìla materia sensibile comune appartiene alla definizione delle nozioni naturali, ela materia intelligibile appartiene a quella delle nozioni matematiche; soltantole nozioni metafisiche escludono la materia della loro definizione27(137). Perquesta ragione, gli enti sensibili e quelli matematici includono la materia nellaloro definizione, che si dice quindi di loro per se primo modo. Contro questaconclusione, si potrebbe obiettare che, in questo modo di perseità, il predicatodeve esprime o la forma del soggetto, oppure qualcosa che appartiene alla sua

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forma: «primus ergo modus dicendi per se est, quando id, quod attribuituralicui, pertinet ad formam eius». Risponderemo che, quando si attribuisce ad unsoggetto la propria materia, lo si fa nel discorso perché, nell'essere della cosa,l'informare tale materia è una esigenza iscritta nella forma stessa del soggetto;quindi l'attribuzione del predicato viene allora fondata sulla forma stessa checostituisce il soggetto nella sua essenza.

Come si vede, la composizione fisica di materia e di forma checostituisce l'essenza degli enti naturali si riflette nella composizione logica digenere e differenza che ne costituisce la definizione. Pertanto, il testo citatocontiene un'altra implicazione, di ordine strettamente logico: in unaenunciazione per se primo modo, il predicato può esplicitare o l'interadefinizione, oppure solo una sua parte (logica). Nel testo della Metafisica doveAristotele tratta del kaq'au)to subito dopo aver spiegato il kaq'o)/, si precisacosì questo punto:

Conseguentemente, anche il termine «per sé» avrà necessariamentemolteplici significati. In un primo senso, per sé significa l'essenza propria di ciascunacosa: per esempio, Callia è per sé Callia e l'essenza di Callia. In un altro senso, per sé significa tutto ciò che si trovanell'essenza: per esempio Callia è per sé animale, perché nelladefinizione di Callia è incluso l'animale: Callia, infatti, è animale di unadata specie28(138).

Questi due significati del «per sé» non sono essenzialmente diversi,come lo spiega san Tommaso nel suo commentario in hoc loco :

Concludit ex praedictis, quatuor modos dicendi per se, velsecundum se. Quorum primus est, quando definitio significans quid estesse uniuscuiusque, dicitur ei inesse secundum se, sicut Callias «et quodquid erat esse Calliam», idest et essentia rei, ita se habent quod unuminest secundum se alteri. Non autem solum tota definitio dicitur dedefinito secundum se; sed aliquo modo etiam quaecumque insunt indefinitione dicente quid est, praedicantur de definito secundum se, sicutCallias est animal secundum se. Animal enim inest in ratione Calliae.Nam Callias est quoddam animal; et poneretur in eius definitione, sisingularia definitionem habere possent. Et hi duo modi sub unocomprehenduntur. Nam eadem ratione, definitio et pars definitionis perse unoquoque praedicantur. Est enim hic primus modus per se, quiponitur in libro Posteriorum; et respondet primo modo eius quod dicitur

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secundum quod, superius posito29(139).

Dunque la definizione, il genere, e la differenza specifica, vengono dettidi una cosa lo stesso motivo (eadem ratione), cioè perché la quiddità di questacosa costituisce la ragione formale per la quale tali predicati possono esserleattribuiti.

Qui, sorge una difficoltà. Nella enunciazione, infatti, il predicato si diceformalmente mentre il soggetto si dice materialmente, perché si dà, fra il primoed il secondo, un rapporto di determinante a determinato30(140). Invece,sembriamo ora pretendere che il soggetto è più formale del predicato, perchéquello contiene la ragione formale di questo. Per risolvere questa obiezione,occorre distinguere bene, nel discorso enunciativo, il livello logico da quelloontologico. Sul piano strettamente logico delle intenzioni seconde, è vero che,in ogni enunciazione affermativa, il soggetto denota una cosa, allorché ilpredicato significa un quid che la mente «applica» a questa cosa mediantel'assenso31(141); pertanto l'attribuzione opera una certa determinazione delsoggetto, nella quale la funzione determinante spetta al predicato. Inoltre, nelcaso di una proposizione per se primo modo, che studiamo ora, il predicatodetermina il soggetto nella linea della causalità formale, in quanto ne dischiudela forma32(142). Però, il rapporto si rovescia in qualche modo se si guarda aciò che finalizza l'intenzione prima del discorso, quindi al fondamentoontologico dell'attribuzione. Questa, infatti, riposa sulla realtà stessa della cosadenotata del soggetto, realtà che, nel caso dell'attribuzione necessaria, vieneconsiderata nella sua quiddità (cioè nell'essenza in quanto principio diintelligibilità). Sotto questo aspetto, la ragione per la quale devo dire che<Callia è un animale razionale> sta nella quiddità di Callia, che è l'umanità;costruendo nella mia mente questa enunciazione, non faccio altro cheesplicitare concettualmente questa quiddità. Se dico che <Callia è razionale> oche <Callia è animale>, mi limito ad esplicitare l'aspetto generico o l'aspettospecificante di questa quiddità; ma sempre il mio dire, quindi l'attribuzione delpredicato, si fonda sulla quiddità di Callia, che, essendo ciò per cui Callia è ciòche è, ne è come la causa formale33(143).

In sintesi, abbiamo mostrato che il primo modo di perseità consistenell'attribuzione ad un soggetto della sua definizione o di una parte (logica) diessa, e che il predicato esprime allora la quiddità del soggetto, in mododeterminato o determinabile. Ne risulta che il rapporto fra il predicato ed ilsoggetto rimanda alla causalità formale dell'essenza costitutiva di quest'ultimo.

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Così il primo modo di attribuzione per sé si radica, ontologicamente, nellanecessità formale che abbiamo spiegata nel paragrafo precedente, ma non siidentifica con essa34(144).

2.2.2.2. Il secondo modo di perseità

Il secondo modo in cui un attributo si riferisce per sé al suo soggettoviene così presentato dallo Stagirita:

[€] [In secondo luogo, si dicono per sé] gli attributi contenuti in soggettiche, a loro volta, vengono inclusi nella definizione che esprime laquiddità (ti/ e)sti) di questi attributi:

[€] così il rettilineo ed il circolare appartengono alla linea, il pari e l'impari,il primo ed il composto, il quadrato e l'oblungo al numero; e per tuttiquesti attributi, la definizione che esprime la loro quiddità (ti/ e)sti)contiene il soggetto, cioè talora la linea e talora il numero.

[€] Similmente, per tutti gli altri attributi, coloro che appartengono ai lorosoggetti rispettivi, li chiamo attributi per sé; invece, coloro che nonappartengono ai loro soggetti in alcuno di ambedue i modi, li chiamoaccidenti: per esempio, musico o bianco per l'animale35(145).

In questo testo, come l'abbiamo pure evidenziato graficamente, ilpensiero percorre tre momenti. Nel primo [a'], Aristotele definisce il secondomodo di perseità; nel secondo [b'], egli lo esemplifica in chiave matematica; nelterzo, egli estende il campo di applicazione della definizione, e distinguefinalmente i due primi modi di essere detto per se dall'essere detto per accidens.Aiutandoci del commento tommasiano, spieghiamo ora ciascuna di queste tretappe.

[€] Abbiamo visto che, nel primo modo di perseità, il predicato esplicita laquiddità del soggetto, e quindi fa parte della sua definizione, oppure coincideaddirittura con la essa. Nel secondo modo di perseità, del quale Aristotele trattaqui, accade proprio il contrario: vale a dire che il soggetto, allora, fa parte delladefinizione del predicato. Ad esempio, il predicato <camuso> si dice in questomodo del soggetto <naso>, giacché non si può definire la nozione di camusosenza includervi quella di naso che né è il proprio soggetto. Perciò questo tipodi perseità rimanda, nella cosa della quale l'attributo viene predicato, ad unrapporto di causalità materiale, per cui il secondo modo di essere dettokaq'au)to corrisponde al secondo dei modi essere detto kaq'o)/ che abbiamoconsiderati precedentemente36(146). San Tommaso commenta così il primo

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brano del testo citato:[1] Secundus modus dicendi per se est, quando haec praepositio per

designat habitudinem causae materialis, prout scilicet id, cui aliquidattribuitur, est propria materia et proprium subiectum ipsius.

[2] Oportet autem quod proprium subiectum ponatur in definitioneaccidentis: quandoque quidem in obliquo, sicut cum accidens inabstracto definitur, ut cum dicimus, quod simitas est curvitas nasi;quandoque vero in recto, ut cum accidens definitur in concreto, utcum dicimus quod simus est nasus curvus.

[3] Cuius quidem ratio est, quia cum esse accidentis dependeat asubiecto, oportet etiam quod definitio eius significans esse ipsiuscontineat in se subiectum. Unde secundus modus dicendi per se est,quando subiectum ponitur in definitione praedicati, quod est propriumaccidens eius37(147).

Si precisa quindi, in primo luogo, che la preposizione per designa qui, sulpiano ontologico [1], un rapporto di causalità materiale fra la cosa denotata dalsoggetto e la forma significata dal predicato. Questo non implica, maovviamente non esclude che la cosa in questione sia materiale; occorre soltantoche essa sia un soggetto in cui la forma considerata venga ricevuta in modonecessario. Così, ad esempio, le potenze organiche vengono attribute per sesecondo modo al composto umano, che include il corpo e quindi la materia; mapure le potenze puramente spirituali come l'intelletto e la volontà vengonoattribute secondo questo tipo di perseità all'anima umana, benché essa sia deltutto immateriale.

Sul piano logico [2], questo rapporto di causalità materiale fondal'inclusione del soggetto nella definizione dell'attributo che lo determinasecondo questo modo di perseità. Infatti, una forma che non può essere senza ilsoggetto che informa coinvolge necessariamente tale soggetto nella suacomprensione, come l'abbiamo rilevato nell'esempio nella nozione di<camuso> la cui definizione include il <naso>. San Tommaso osserva chequesta inclusione può essere espressa, grammaticalmente, in modo diretto (inrecto) quando l'attributo viene considerato in concreto, oppure in modoindiretto (in obliquo) se viene considerato in abstracto.

La giustificazione di questo riferimento al soggetto viene proposta [3] apartire dell'ontologia dell'accidente, la cui stessa essenza implica l'essere non insé, ma in un altro38(148). Pertanto, il secondo modo di perseità si darà

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emblematicamente ogni volta che si attribuisce ad una sostanza i suoi propriaccidenti, cioè quei accidenti che ineriscono sempre in quella sostanza aragione della sua stessa quiddità. In questa maniera, l'essere detto per sé nelsecondo modo conviene per eccellenza alle nozioni che sono predicabili comeproprio, o proprietà, nel senso dei Topici o dell'Isagoge. Tuttavia, la logica delproprio non si applica soltanto al rapporto fra sostanza ed accidenti necessari,ma più generalmente ogni volta che un predicato si può attribuire ad unsoggetto come qualcosa che vi inerisce necessariamente. Pertanto, non èrichiesto che ci sia una distinzione reale fra il determinante ed il determinato,ma basta una distinzione di ragione, consecutiva al nostro modo astrattivo ediscorsivo di intendere. Ad esempio, si dà un rapporto di perseità del secondomodo fra il predicato <visibile> ed il soggetto <colore>, nonostante il fatto chela visibilità non è una forma sovraggiunta al colore, ma una sua sempliceproprietà, che tuttavia la nozione stessa di colore non esplicita39(149).

[€] Questo appare bene nei esempi matematici che fa Aristotele nel secondosegmento del testo che abbiamo riportato. Si tratta di coppie di attributi chequalificano necessariamente, in modo disgiuntivo, la quantità geometrica oaritmetica: infatti, una linea non può non essere o rettilinea o curva, mentre unnumero intero (elemento di €) non può non essere o pari o impari, o primo onon primo40(150), e la sua raffigurazione non può non essere o quadrata o nonquadrata41(151). In tutti questi casi, il soggetto della proprietà disgiuntiva faparte della sua definizione, giacché è impossibile definire la quiddità delrettilineo o del curvo, del pari e dell'impari, ecc., senza includervi quella delnumero continuo o discreto che le serve di fondamento, ed è questo che importaad Aristotele in questo brano, perché sono buoni esempi di proprietà per sesecundo modo42(152). Il fatto che non ci sia, in questi casi, alcuna distinzionereale fra la proprietà ed il suo soggetto non diminuisce la validità dell'esempio.Se è quindi vero che il rapporto causale che si dà in questo tipo di perseità èriconducibile a quello che unisce un soggetto ed il suo accidente proprio, lo sideve intendere analogicamente di ogni rapporto noetico di materia a passione, ilché è più ampio del solo rapporto ontologico di sostanza ad accidente realeproprio.

[€] Lo stesso Aristotele allarga poi il suo discorso al di là della matematica,precisando che un predicato si dice per sé del suo soggetto se soddisfa allecondizioni dell'uno o dell'altro modo di perseità che ha appena elaborato. Conquesta osservazione, si vuole rilevare che una enunciazione per sé coinvolge laquiddità del soggetto, sia che il predicato ne espliciti la definizione od una parte

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logica di essa, come nel primo modo, sia che, invece, questa quiddità entri nelladefinizione (non espressa) del predicato, come nel secondo modo. Altrimenti, sidà una enunciazione per accidens:

Quae vero praedicata neutraliter insunt, idest neque ita quodponantur in definitione subiectorum, neque subiecta in definitioneeorum, sunt accidentia, idest per accidens praedicantur, sicut musicum etalbum praedicantur de animali per accidens43(153).

Un attributo è quindi per accidens quando rimane esterno non al soggettoal cui viene de facto riferito, ma alla sua quiddità. Nella luogo parallelo del libro € della Metafisica, Aristotele opera unadistinzione implicita fra due modalità in cui il soggetto è contenuto nelladefinizione del predicato:

Per sé si dicono anche le proprietà che appartengonooriginariamente a una cosa o a qualcuna delle sue parti: per esempio,bianco è proprietà per sé della superficie e vivente è proprietà per sédell'uomo; infatti, l'anima, nella quale la vita originariamente risiede, èuna parte dell'uomo44(154).

Il predicato <bianco> viene attribuito al soggetto <superficie> in talmodo che la definizione (generica) di <bianco> includa tutto quanto ècompreso in quella di <superficie>: in questo caso, è quindi la specie stessa delsoggetto che fa parte della definizione del predicato. Per contro, il predicato<vivente> viene attribuito al soggetto <uomo> in riferimento non a tutta lanatura dell'uomo, bensì alla sua anima: in questo caso, è soltanto una parte delsoggetto (nell'esempio, la sua causa formale) che appartiene alla definizione delpredicato45(155). Questa distinzione costituisce l'analogon, nel secondo mododi perseità, di quella che si deve porre, nel primo modo, fra il predicato cheesprime tutta la definizione, e quello che ne esplicita soltanto un momento,ossia il genere oppure la differenza.

Possiamo ora mettere in sinopsi i guadagni già acquisiti rispetto allaperseità:

- per se primo modo Sul piano logico, il predicato appartiene alladefinizione del soggetto, e la esplicita in maniera determinata odeterminabile. Sul piano ontologico, il predicato fa parte dellaquiddità del soggetto, che fonda quindi l'attribuzione.

- per se secundo modo Sul piano logico, il soggetto, oppure una partedi esso, appartiene alla definizione del predicato, ma questa non viene

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esplicitata. Sul piano ontologico, il soggetto è causa materiale o quasimateriale della forma significata dal predicato.

- per accidens Sul piano logico, né il predicato appartiene alladefinizione del soggetto, né il soggetto appartiene alla definizione delpredicato. Sul piano ontologico, la forma significata dal predicatoinerisce nel soggetto per una ragione esterna alla sua quiddità.

Una differenza ulteriore fra il primo ed il secondo tipo di perseità emergeda questa tavola. In un attribuzione del primo modo, non si dà mai né unadiversità fra la ratio del soggetto e quella del predicato, nemmeno, a fortiori,alcuna distinzione reale fra la realtà del soggetto e quella del predicato, giacchéquesto non fa che dispiegare la quiddità di quello. In una attribuzione delsecondo modo, invece, almeno le rationes rispettive del soggetto e del predicatosono diverse, nel senso che la nozione del predicato aggiunge qualcosa a quelladel soggetto, benché, tuttavia, quella del soggetto è contenuta in quella delpredicato; questa diversità è ancora più ovvia nei casi in cui interviene unadistinzione reale fra la cosa denotata dal soggetto e l'accidente al quale rimandail predicato46(156).

2.2.2.3. Il quarto modo di perseità

Al seguito dei due primi modi di perseità, Aristotele ne propone, come èrisaputo, un terzo, che in realtà non è un modo di attribuzione, ma un modo diessere, giacché consiste proprio nel non essere riferibile ad un altrosoggetto47(157). In questo terzo modo di perseità si designa quindi, con unprocedimento logico-critico, la sostanza prima48(158). Siccome questo temanon entra nell'ambito della presente ricerca, possiamo tralasciarlo, e passaredirettamente al quarto modo di perseità, che è di nuovo un modi di attribuzione. Aristotele introduce così questo quarto tipo di predicazione per sé:

In un altro senso ancora, ciò che appartiene ad una cosa a causa diquesta cosa viene detto per sé, mentre ciò che è in una cosa, ma non acausa di questa cosa, né è un accidente. Ad esempio, quando si cammina,[il folgore] lampeggia: questo è un accidente, giacché il lampeggiare nonè causato dal camminare, ma si tratta, secondo il nostro modo di dire, diun fatto accidentale. Se, invece, [l'attributo appartiene alla cosa] a causadella cosa stessa, allora [esso] è per sé; ad esempio, se un animale muoresgozzato, per il fatto stesso di essere stato sgozzato, è perché è statosgozzato che è morto, e non vi è un rapporto puramente accidentale fra losgozzamento e la morte49(159).

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Gli esempi che ci offre lo stesso Aristotele evocano un rapporto dicausalità efficiente fra un effetto e la sua causa: l'animale sgozzato muoreperché ed in quanto è stato sgozzato. Ma, per investigare il significato esatto diquesto modo di perseità, ne dobbiamo capire con precisione la descrizioneiniziale. A questo scopo, riportiamo l'originale greco:

e)/ti d'a(/llon tro/pon to\ me\n di'au)to\ u(pa/rxon e)ka/stw

kaq'au)to, to\ de\ mh\ di'au)to\ simbebhko/j50(160).

Guglielmo di Moerbeke tradusse letteralmente: Item, alio modo quod quidem propter ipsum inest unicuique, perse; quod vero non propter ipsum, accidens est51(161).

In una enunciazione, si attribuisce per definizione un predicato ad unsoggetto, che vengono successivamente designati qui con le parole to\ (quod) ee)ka/stw (unicuique); questa correlazione essendo comune ad ogniattribuzione, che sia per se o per accidens, ciò che allora specifica, nel testocitato, il quarto modo di perseità che si sta descrivendo, è interamentecondensato nell'espressione di'au)to\ (propter ipsum). In un primo approccio,dobbiamo quindi caratterizzare questo modo di attribuzione per sé comel'espressione logica di un rapporto di dipendenza causale fra la cosa denotatadal soggetto e la forma significata nel predicato, giacché la prima è la causa e ilmotivo per la quale (dia/) la seconda le (au)to\) deve essere attribuita.

A questo punto, sorge naturalmente la domanda sulla specificità diquesto quarto tipo di perseità rispetto ai due primi. Infatti, abbiamo fondato ilprimo modo sulla quiddità del soggetto, cioè sulla sua causa formale, mentreabbiamo ricondotto il secondo modo ad un rapporto di causalità materiale frasoggetto e predicato. Perciò, la spiegazione aristotelica del quarto modo sembraalquanto insufficiente, sia che si debba ulteriormente restringerlo alla causalitàefficiente, come potrebbero suggerire gli esempi posti dubito dopo, sia che,invece, questo modo non differisce essenzialmente dai due primi, ma necostituisca una precisione oppure una sintesi. In vista di risolvere questa obiezione, e determinare allo stesso momentociò che costituisce precisamente il quarto modo di perseità, consultiamo ilcommentario di san Tommaso:

Deinde cum dicit: Item alio modo etc., ponit quartum modum,secundum quod haec praepositio per designat habitudinem causaeefficientis vel cuiuscunque alterius. Et ideo dicit quod quidquid inest

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unicuique propter seipsum, per se dicitur de eo; quod vero non propterseipsum inest alicui, per accidens dicitur, sicut cum dico: hoc ambulantecoruscat. Non enim propter id quod ambulat, coruscavit; sed hoc dicitursecundum accidens. Si vero quod praedicatur insit subiecto propterseipsum, per se inest, ut si dicamus quod interfectum interiit: manifestumest enim quod propter id quod illud interfectum est, interiit, et non estaccidens quod interfectum interierit52(162).

L'Aquinate ha colto l'importanza del €€' €€€€, trascritto in propterseipsum, e lo ha interpretato come rapporto di causalità efficiente, estensibileperò ad ogni genere di causalità, come lo implica la preposizione per53(163). Insé, il quarto modo di perseità mette quindi specialmente in evidenza un legamedi causalità per il quale il predicato procede dal soggetto. È in questo rapportodi provenienza causale che consiste formalmente questo tipo di attribuzione: laproposizione <l'animale sgozzato muore> si dice per se quarto modo, perché lamorte in fieri risulta dall'essere sgozzato come dal suo principio efficienteimmediato. Un tale rapporto si darà, in ogni tipo di causalità, ogni volta chel'enunciato, nella sua stessa formulazione, fa capire che ciò che è posto nelpredicato risulta da ciò di cui tiene luogo il soggetto come l'«effetto» proprio(in senso analogico) dalla causa propria.

Questa definizione verrà chiarita se la confrontiamo con quella dei dueprimi modi. Nel primo modo, il predicato esplicita totalmente o parzialmente laquiddità del soggetto; dunque l'attribuzione viene allora fondata sulla causaformale della cosa, come l'abbiamo spiegato; ma, tuttavia, questa attribuzionenon significa, precisamente, un rapporto di causalità formale che avrebbe la suasede nel soggetto ed il suo termine nel predicato. Affermando che <l'uomo èrazionale>, esplicito, sì, la differenza specifica per la quale il soggetto èdeterminato dalla natura umana; ma non intendo dire che il <razionale>proviene da <l' uomo> come da suo principio formale, il ché, del resto, nonsarebbe esatto: infatti, è il <razionale> che allora specifica, e quindi determinaformalmente <l'uomo>. Così, la proposizione <l'uomo è razionale> è fondata sula quiddità del soggetto <uomo>, e dunque su ciò che fa essere l'uomo uomo,ma essa non significa alcun rapporto di causazione formale fra il suo soggettoed il suo predicato. Per contro, se esaminiamo la proposizione <ciò che èrazionale è capace di parlare>, osserviamo che il predicato <capace di parlare>proviene dal soggetto <ciò che è razionale> per una necessità che non èstrettamente efficiente, bensì formale; infatti, la capacità di parlare dipendedalla razionalità come dal suo fondamento spiegativo immediato, ma non come

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da un principio operativo. In una proposizione del genere, l'attribuzioneevidenzia un rapporto di dipendenza causale (secondo la forma) fra ilsignificato del predicato e la cosa denonata dal soggetto, cosicché il predicatoesprime qualcosa che è come un «effetto formale» del soggetto. Qualora, nellalinea della causalità formale, l'enunciazione evidenzia un tale nesso causale frail soggetto ed il predicato, allora l'attribuzione si fa secondo il quarto modo diperseità; se, invece, la proposizione dispiega semplicemente, in manieradeterminata o determinabile, la quiddità del soggetto, essa si fonda sulla forma,ma non esprime un nesso di causalità formale, per cui l'attribuzione si fa allorasecondo il primo modo di perseità.

Mutatis mutandis, la stessa differenza si riscontra fra il quarto ed ilsecondo modo di attribuzione per sé. In quest'ultimo, l'enunciato ponel'inerenza necessaria della forma significata dal predicato nella cosa designatadal soggetto, che funge di conseguenza da fondamento quasi materiale allaforma in questione; perciò, l'attribuzione viene fondata sul soggetto come sullasua causa quasi materiale, ma essa, tuttavia, non esplicita questo legame dicausalità materiale, né alcun altro legame causale. Così, ad esempio, laproposizione <l'uomo è capace di parlare> afferma che la capacità di parlareconviene all'uomo come una sua proprietà, giacché, infatti, questa capacitàinerisce sempre e necessariamente nella natura umana; ma né il rapporto didipendenza materiale fra il linguaggio e la natura umana viene espresso,nemmeno il rapporto di dipendenza formale che unisce, sotto un altro aspetto,gli stessi estremi. Per contro, quando affermiamo che <ciò che è razionale ècapace di parlare>, colleghiamo, come l'abbiamo appena detto, la capacità dellinguaggio alla razionalità come al suo principio formale immediato, giacchéquella scaturisce di questa come da sua propria fonte54(164): è perché l'uomo èrazionale, quindi discorsivo, socievole, e docibile, che esso è anche un animalnaturaliter loquens. Nell'enunciazione che esprime questa implicazione,l'attribuzione verte sulla ragione per cui il predicato appartiene al soggetto, piùche sull'appartenenza stessa, ed è perciò che si fa nel quarto modo.

In sintesi, l'attribuzione per sé di quarto modo suppone che la cosa allaquale rimanda il soggetto sia la causa propria ed immediata della forma cheviene posta nel predicato. Un tale rapporto di dipendenza causale è più facile dacogliere nella linea della causa efficiente, perciò Aristotele sceglie i suoiesempi in questa genere di causalità; ma nondimeno si possono formareenunciati per se quarto modo in ogni tipo di causalità, purché l'attribuzionefaccia vedere nel soggetto la causa del predicato55(165).

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2.2.3. Paragone fra i tre modi di perseità

I modi di perseità che abbiamo analizzati sono formalmente dei modi diattribuzione, ma il loro studio è ordinato a quello della dimostrazione, come lomanifesta il suo inserimento nei Secondi Analitici. Rispettando questa duplicevalenza, istituiamo ora un paragone fra i tre modi in causa da questi due puntidi vista.

2.2.3.1. Confronto fra i tre modi di perseità quanto all'attribuzione

Possiamo differenziare i modi di attribuzione per sé a partire da ciò che licostituisce tali, cioè dal tipo di rapporto fra predicato e soggetto che vienerispettivamente e specificamente significato da ciascuno.

Nel primo modo di perseità, l'attributo significa ciò che il soggetto è,indicandone la definizione, o il genere, o la differenza specifica. In ciascuno diquesti tre casi, il predicato significa la quiddità del soggetto: la definizione (o laspecie) lo fa a modo di totalità determinata56(166); il genere, a modo di totalitàdeterminabile, in quanto comprende potenzialmente la specie57(167); ladifferenza, a modo di totalità determinante, in quanto è ciò che caratterizza laspecie58(168). Quindi in questo tipo di perseità, l'attribuzione pone una identitàformale fra la quiddità del soggetto e la sua esplicitazione nel predicato,identità che è perfetta se si attribuisce la definizione o la specie, e imperfetta sesi attribuisce la differenza o il genere. Perciò, il predicato posto in questo modonon dice alcuna nozione (ratio) nuova rispetto a quella che costituisce laquiddità del soggetto.

Nel secondo modo di attribuzione, il predicato non si attribuisce più amodo di identità formale, giacché la sua nozione (ratio) aggiunge qualcosa aquella del soggetto, pur includendo quest'ultima in sé. Il fondamentodell'attribuzione, in questo tipo di perseità, sta nel rapporto di soggetto-materiaa proprietà-forma che intercorre fra il soggetto ed il predicato59(169); perciò,l'attribuzione stessa pone allora l'inerenza della forma significata dal predicatonella cosa denotata dal soggetto. È per questo motivo che una proprietàaffermata per se secundo modo di un soggetto né è una passio; infatti, ciò chel'intelligenza coglie in questo modo di attribuzione è l'essere-ricevuto delpredicato nel soggetto, vale a dire ancora il suo essere-sostenuto dal soggetto, ilché implica una certa «passività» della cosa rispetto alla proprietà60(170).

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Nel quarto modo di attribuzione per sé, il predicato non viene detto delsoggetto né secondo l'identità formale (sia pure imperfetta), né secondol'inerenza, bensì secondo la causalità, perché il nesso fra il soggetto ed ilpredicato rimanda in re ad un rapporto di causazione, sia secondo la causalitàefficiente, sia secondo ogni altro genere di causalità. Ciò che si vuole dire conle proposizioni di questo tipo è che il significato del predicato procede dallacosa denotata dal soggetto come l'effetto dalla causa61(171), che si tratti di uneffetto risultante secondo l'efficienza, la forma, il fine, o, addirittura, la materia.Anche qui, la nozione (ratio) del predicato differisce abitualmente da quella checostituisce il soggetto nella sua realtà, ma si evidenzia fra di loro un legame diprovenienza, e non di inerenza62(172).

In quanto i modi di perseità sono precisamente dei modi di attribuzione,si differenziano quindi secondo lo schema seguente:

modi dicendi per se fondamentodell'attribuzione

significatodell'attribuzione

primo modo note necessariamentecostitutive della quidditàdel soggetto

identità del predicatocon la quiddità delsoggetto

secondo modo sostegno necessario delsoggetto rispetto alpredicato

inerenza del predicatonel soggetto

quarto modo causalità necessaria delsoggetto ripsetto alpredicato

causazione del predicatodal soggetto

Questa tavola ci aiuta a capire che la divisione dei modi di perseità in treè adeguata. Infatti, una attribuzione è necessaria se:

[€ ]il predicato appartiene alla costituzione quidditativa del soggetto, edallora si dà il primo modo di perseità;

[€] oppure il predicato non appartiene alla quiddità del soggetto, ma ineriscenel soggetto, attuandolo ulteriormente (per una ragione fondata sullaquiddità stessa del soggetto);

[€] oppure ancora il predicato che è necessario ma non quidditativo, non

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viene considerato sotto l'aspetto del suo inserimento nel soggetto, masotto quello della sua provenienza causale a partire del soggetto (aragione della quiddità stessa di quest'ultimo).

In sintesi, o il predicato è qualcosa del soggetto [€], oppure sta nelsoggetto [€], oppure proviene dal soggetto [€]: non essendovi altre possibilità,la divisione è adeguata63(173).

Perveniamo allo stesso risultato se ragioniamo a partire dai predicabili.L'accidente predicabile dà ovviamente luogo ad un'attribuzione per accidens,per cui è fuori gioco qui. Rimangono i quattro predicabili fondati sulla quiddità,che sono la specie (e la definizione), il genere, la differenza, ed il proprio.Quando si attribuisce ad un individuo la sua specie, il suo genere, la suadifferenza specifica, oppure la sua definizione, il predicato è per sé nel primomodo; lo stesso avviene se si attribuisce ad una specie il suo genere, la suadifferenza, oppure la sua definizione. Quando all'individuo od alla specie siattribuisce il proprio, il predicato è per sé nel secondo modo, così anche se siattribuisce ad un genere quel tipo di proprio che converrà agli inferiori perquesto stesso genere. Finalmente, quando si attribuisce ad una differenzaspecificante un proprio, si evidenzia in quella differenza la causa per cui glienti che essa specifica debbono anche possedere la proprietà in causa, e perciòil predicato è per sé nel quarto modo64(174).

2.2.3.2. Confronto fra i tre modi di perseità quanto all'argomentazione

Nel modello aristotelico di dimostrazione perfetta, le premesse e laconclusione sono delle proposizioni per sé che si articolano nel modo seguente:

Sciendum autem est quod cum in demonstratione probetur passiode subiecto per medium, quod est definitio, oportet quod primapropositio, cuius praedicatum est passio et subiectum est definitio, quaecontinet principia passionis, sit per se in quarto modo; secunda autem,cuius subiectum est ipsum subiectum et praedicatum ipsa definitio, inprimo modo. Conclusio vero, in qua praedicatur passio de subiecto, estper se in secundo modo65(175).

Volendo dimostrare che una proprietà si riscontra in un soggetto, lo«scienzato» (sciens) secondo Aristotele comincia per definire quest'ultimo,elencandone le note costitutive in un enunciato del primo modo, poi fa vedereche tale definizione è anche il principio della proprietà in questione, il ché

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viene espresso in una proposizione del quarto modo; grazie al sillogismo alloracostruito, egli può concludere che la passio che scaturisce dalla quiddità delsoggetto deve inerire in esso. Si dà quindi lo schema dimostrativo seguente: maggiore definitio € passio per se quarto modo minore subiectum € definitio per se primo modo conclusione subiectum € passio per se secondo modo

Esemplifichiamo questa tipologia del sillogismo scientifico con un facileargomento, preso ad litteram dallo stesso Aquinate:

dicendum quod ratio aeternitatis consequitur immutabilitatem,sicut ratio temporis consequitur motum, ut ex dictis patet. Unde, cumDeus sit maxime immutabilis, sibi maxime competit esseaeternum66(176).

Sintetizzate in un entimema, ritroviamo qui le tre tappe proposte nelcommentario sugli Analitici Secondi: maggiore Ciò che è immutabile è eterno; minore ora Dio è massimamente immutabile; conclusione quindi Dio è massimamente eterno.

Nella maggiore, l'eternità appare come una proprietà che risultadall'immutabilità, giacché si precisa che la ratio stessa di eternità è consecutivaall'immutabilità: stiamo quindi di fronte ad una premessa mostra, nel quartomodo di attribuzione per sé, che la proprietà in discussione scaturisce da quelloche funge da termine medio del ragionamento come da sua fonte immediata.Nella minore, si attribuisce l'immutabilità a Dio come una sua caratteristica(guadagnata già nella prima via e confermata nella questione anteriore) che gliappartiene per essenza, e gli viene quindi attribuita nel primo modo di perseità.Congiungendo le due premesse, si deduce che Dio è eterno; da un punto divista strettamente logico, questa conclusione è del secondo modo, perché ilpredicato <eterno> include, nella sua definizione reale, <Dio> come suo unicosoggetto proprio. Nondimeno, dal punto di vista metafisico, l'eternità, e tutti gli«attributi divini», si identificano con l'essenza divina, per cui si dicono,ultimamente, secondo il primo modo; ciononostante, la ragione umana cogliel'eternità come qualcosa che proviene dall'immutabilità come dal suofondamento prossimo, ed è quindi attraverso la mediazione dell'immutabilitàche, selon l'ordre des raisons, attribuiamo a Dio l'eternità.

Questa struttura della dimostrazione richiama due osservazioni. La prima

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concerne l'ordine stesso delle proposizioni. Nell'esempio che abbiamo sceltocome nel suo modello di riferimento, la proprietà da dimostrare appare, nellamaggiore, come causata dalla definizione del soggetto del quale essa vienedimostrata, mentre, nella conclusione, la stessa proprietà si ritrova sotto unaltro aspetto, cioè in quanto radicata nel soggetto che le serve di quasi sostrato.In altri termini, la maggiore mostra la causa per la quale il predicato inquestione appartiene al soggetto come sua proprietà: si passa, in questo schemaepistemologico, dalla causa della proprietà, che è la definizione della cosa, allasua inerenza nella cosa, motivata dalla definizione di quest'ultima.

L'altra osservazione riguarda la natura della dimostrazione. Il discorsodal per se quarto modo al per se secundo modo si riscontra precisamentequando la nostra ragione può giungere, nella maggiore, alla causa ontologica edimmediata della proprietà, il ché si dà nella dimostrazione propter quid che,appunto, fa conoscere il motivo (il propter ossia to\ dio/ti) per il quale laproprietà appartiene al soggetto. Se la dimostrazione si limita invece a provaresoltanto il fatto (il quia ossia to\ o)/ti) che il termine maggiore appartiene alsoggetto, allora non si conosce la conclusione a partire dalla sua causaimmediata, bensì a partire da una sua causa remota (quindi non propria), oppurea partire da un effetto67(177). Il questi casi, il termine medio del sillogismonon sarà la stretta definizione del soggetto, ma una sua descrizione, alla quale siricondurrà, nella maggiore, il predicato da dimostrare. Pertanto, quest'ultimanon dischiuderà la causa immediata del predicato; però, ne darà una ragione piùnota a noi, che sarà quindi, nell'ordine puramente noetico, la «causa». Così sipuò dire che la struttura che abbiamo evidenziata vale pure, mutatis mutandis,per le dimostrazioni quia quanto ad un punto preciso: la maggiore deve essere,quanto alla pura logica dell'attribuzione, nel quarto modo di perseità, giacché èl'unico modo nel quale il soggetto «causa» il predicato, almeno nel senso che nerende noeticamente ragione. Quindi tutte le dimostrazioni, in qualche modo,poggiano su premesse che sono per sé nel primo e nel quarto modo. In seguito,dovremo approfondire ancora questa tematica.

2.3. La terza condizione : dici ut universale

Nell'ultima parte del capitolo IV dei Secondi Analitici che sottende ilpresente paragrafo, Aristotele studia la terza condizione richiesta per lepremesse della dimostrazione: ti/ to\ kaqo/luo ossia il dici ut universale. Lanozione di universalità viene considerata, in questo contesto, in un sensotecnico ben preciso, per cui non si tratta della predicabilità in genere, bensì di

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un certo tipo di predicabilità che si dà quando l'attributo si riferisce al soggettoin virtù di ciò che costituisce specificamente questo soggetto. San Tommasospiega così questo punto:

Ad evidentiam autem eorum, quae hic dicuntur, sciendum est quoduniversale non hoc modo hic accipitur, prout omne quod praedicatur depluribus universale dicitur, secundum quod Porphyrius determinat dequinque universalibus; sed dicitur hic universale secundum quandamadaptationem vel adaequationem praedicati ad subiectum, cum scilicetneque praedicatum invenitur extra subiectum, neque subiectum sinepraedicato68(178).

L'universalità in questione è quindi un rapporto di convertibilità secondoil quale il predicato non si riscontra fuori l'ambito del soggetto (nequepraedicatum extra subiectum), né il soggetto si dà senza il predicato (nequesubiectum sine praedicato). Così, ad esempio, la capacità di parlare èstrettamente connessa alla natura umana, giacché, da una parte, gli esseriinferiori all'uomo non hanno l'intenzionalità intellettuale che è come l'anima dellinguaggio, mentre, d'altra parte, gli esseri superiori all'uomo non hanno lacorporeità che da sola consente di imprimere un significato in un suono.Pertanto, la capacità di parlare si dice dell'uomo «universalmente», perché sitrova sempre (virtualmente) nell'uomo, e perché, al contempo, non si trova al difuori dell'uomo.

Dopo aver ricordato che l'essere detto universalmente, nel presentesenso, presuppone l'essere detto di tutto ciò a cui si estende il soggetto nonchél'essere detto per sé, lo Stagirita esplicita ciò che questa terza caratteristicaaggiunge alle due altre:

to\ kaqo/lou de\ upa/rxei to/te, o)/tan e)pi\ tou= tixo/ntoj kai\

prw/tou deiknu/htai69(179),

il ché si può tradurre così: L'attributo appartiene universalmente al soggetto, quando si puòmostrare che esso appartiene al soggetto comunque e primariamente.

Le condizioni di questo tipo di universalità sono quindi due:[€] Il predicato deve essere riferito al soggetto «comunque» (e)pi\ tou=

tixo/ntoj). Con questa espressione, Aristotele vuole dire che l'attributodeve appartenere a tutto ciò a cui si estende il soggetto, quindi a tutti gliindividui e a tutte le specie di cui si dice il soggetto stesso.

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[€] Il predicato deve, inoltre, essere riferito al soggetto «primariamente»(e)pi\ tou= prw/tou). Questa formula significa che l'attributo appartieneal soggetto a causa di ciò che è ontologicamente «primo» in questosoggetto, cioè la sua ultima nota costitutiva, all'esclusione di un genereanteriore, fosse pure il genere prossimo.

Nel seguito del testo, Aristotele illustra queste due condizioni con granderigore, adoperando due esempi geometrici. Per la prima condizione [€], siargomenta così:

Ad esempio, il fatto di avere degli angoli uguali a due [angoli] rettinon è per la figura un attributo universale. Così, benché sia possibileprovare che qualche figura ha i suoi angoli uguali a due [angoli] retti,non lo si può tuttavia provare di una figura qualunque, né ci si serve diqualsiasi figura nella dimostrazione: infatti, un quadrato è una figura,però i suoi angoli non sono uguali a due [angoli] retti70(180).

È facile cogliere il nucleo del passo: la proprietà che consiste nell'averela somma degli angoli uguale a 180 gradi non è predicabile della figura inquanto tale, giacché non si trova in alcune figure, in particolare nelquadrato71(181). In questo caso, l'universalità viene meno perché l'attributo indiscussione appartiene soltanto ad un segmento del soggetto, e non alla suatotalità.

Nell'esempio coniato da Aristotele per la seconda condizione, ilpredicato, al contrario, ha una ampiezza maggiore del soggetto:

D'altra parte, un triangolo isoscele qualunque ha i suoi angoliuguali a due [angoli] retti, ma il triangolo isoscele non è tuttavia il[soggetto] primo: è il triangolo, che è anteriore. Ciò di cui, dunque, presocome soggetto qualunque e primo, si dimostra che ha i suoi angoli ugualia due [angoli] retti, o che possiede qualsiasi altro attributo, è questo che èciò a cui, preso come [soggetto] primo, l'attributo appartieneuniversalmente72(182).

Se è vero che la proprietà di avere <la somma degli angoli uguale a dueretti> appartiene al <triangolo isoscele>, essa però non appartiene soltanto aitriangoli isosceli, ma a tutti i triangoli; la proprietà in questione ha, quindi, unaestensione superiore a quella del soggetto <triangolo isoscele>. Questaosservazione, che rileva dal punto di vista dell'estensione, trova la suaspiegazione, dal punto di vista della comprensione, nel fatto che l'attributo in

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causa non scaturisce formalmente dalla differenza specifica <isoscele>, bensìdal genere <triangolo>73(183).

In sintesi, un predicato si dice universalmente di un soggetto, qualoral'attribuzione si fa secondo la specie stessa del soggetto in causa, e quindi nésecondo una nozione superiore, generica rispetto a quel soggetto, né secondouna nozione inferiore, che sarebbe invece una parte soggettiva del soggetto.Uno schema desunto dal cosidetto albero di Porfirio illustrerà utilmente questopunto di dottrina74(184):

soggetto proprietà

figura

|

...

poligono

|

triangolo € € angoli = €

|

isoscele

Appare così che l'attributo universale, nel limitato senso tecnico che ciinteressa ora, deve essere predicato del soggetto solo e del soggetto tutto, acausa della sua stessa quiddità specificamente considerata. A queste condizioni,tale attributo è reciprocabile col soggetto, e si dice di lui «primariamente»(primo).

Possiamo allora concludere che un predicato convertibile col soggetto siattribuisce per se primo, nel modo di perseità definito dal rapporto cheintercorre fra questo predicato ed il suo soggetto; se, invece, il predicato è persé, ma non è convertibile, allora lo si attribuisce per se secundo.Esemplifichiamo:

<l'uomo è razionale> per se primo primo modo

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<l'uomo è loquens> per se primo secundo modo<ciò che è razionale è loquens> per se primo quarto modo<l'uomo è animale> per se secundo primo modo<l'uomo è libero> per se secundo secundo modo<ciò che è razionale è libero> per se secundo quarto modo

In una dimostrazione propter quid, come quella che consente didimostrare il teorema di Euclide per cui la somma degli angoli di un triangoli èuguale a due angoli retti, sia la conclusione che le premesse sono delleproposizioni per se primo, giacché vi si dimostra l'appartenenza di unaproprietà al proprio soggetto75(185).

Avendo stabilito in che cosa consistono le tre caratteristiche dellepremesse scientifiche, cioè il dici de omni, il dici per se, ed il dici ut universale,e sapendo che i primi princìpi sono per definizione proposizioni de omni et perse, dovremo ancora determinare, nelle prossime tappe del nostro studio, entroquali tipi di perseità rientrano gli assiomi, e se si tratta di enunciatireciprocabili.

§ 4 In che cosa consiste il per se notum, che specifica i primiprincìpi?

Fra tutti gli asserti che enunciano verità ontologicamente necessarie eche le esprimono logicamente per l'attribuzione per sé del predicato al soggetto,i primi princìpi si distinguono dalle altre proposizioni per il fatto che il lorosignificato è «per sé noto» alla mente umana. Come l'abbiamo già evidenziatoall'inizio di questo studio1(186), questa caratteristica costituisce quindi ladifferenza specifica dell'abito dei princìpi. Per investigarla, procederemo in duetappe. Vedremo, per cominciare, come san Tommaso elabora la nozione di «persé noto» sulla base del trattatello De Hebdomadibus di Boezio, e quale uso nefa in alcuni testi chiavi2(187). In un secondo momento, approfondiremospeculativamente le note definitorie di tale nozione.

1. L'elaborazione del per se notum sulla base di Boezio

1.1. Il commento sul De Hebdomadibus

Per capire bene l'interpretazione tommasiana, conviene rileggere il

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passaggio del De Hebdomadibus dove Boezio accenna ai primi princìpi e cheabbiamo già citato nella problematica:

[€] Ut igitur in mathematica fieri solet, caeterisque etiam disciplinis,proposui terminos regulasque quibus cuncta quae sequuntur efficiam.

[€] Communis animi conceptio est enuntiatio, quam quisque probatauditam.

[€] Harum duplex modus est: nam in una communis est, ut omniumhominum sit, velut si hanc proponas: Si duobus aequalibus aequaliaauferas, quae relinquuntur aequalia esse; nullus id intelligens neget.Alia vero est doctorum tantum, quae tamen ex talibus communi animiconceptionibus venit, ut est: Quae incorporalia sunt, in loco non esse,et caetera, quae non vulgus, sed docti comprobant3(188).

Abbiamo diviso il brano in tre sezioni, per agevolare la comprensione delcommento tommasiano, secondo il quale Boezio articola il suo discorso in trefasi.

Nella prima di queste fasi, si esplicita il fine dei primi princìpi: [€] Dicit ergo primo, quod ipse intendit primo proponerequaedam principia per se nota, quae vocat terminos et regulas. Terminosquidem, quia in huiusmodi principiis stat omnium demonstrationumresolutio; regulas autem, quia per eas dirigitur aliquis in cognitionemsequentium conclusionum. Ex huiusmodi autem principiis intenditconcludere et facere nota omnia quae consequenter tractanda sunt, sicutfit in geometria, et in aliis demonstrativis scientiis, quae ideo dicunturdisciplinae, quia per eas discipulis aggregatur scientia ex demonstrationequam magister proponit4(189).

Il vocabolo <terminus> viene dunque interpretato come il termine dellarisoluzione, cioè l'enunciato originario al quale si riconduce analiticamente laconclusione di una dimostrazione, nel senso che tale analisi finisce nelprincipio per sé noto. Per contro, la parola <regula> si riferisce ai stessi princìpiprimi, ma sotto un altro aspetto, in quanto cioè la proposizione per sé notafunge da regola, ossia da criterio nella ricerca della conclusione. Cometerminus, il principio per se notum è dunque ultimo in via resolutionis, mentrelo stesso principio, considerato come regula, è primo in via inventionis : sottoambedue i aspetti, l'enunciato per sé noto appare come finalizzato allaconoscenza scientifica. Questo ci ricorda utilmente, prima di esaminare ladifferenza specifica dell'abito dei princìpi, che esso non è fine a sé stesso.

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Segue l'analisi della definizione boeziana: [€] Deinde cum dicit, Communis animi conceptio est, notificatprincipia per se nota: et primo per definitionem: secundo per divisionem,ibi, Harum autem duplex est modus. Circa primum considerandum est, quod huiusmodi principia, quaesunt regulae demonstrationum sunt, vocantur communes animiconceptiones. Definit ergo communem animi conceptionem dicens:Communis animi conceptio est enuntiatio quam quisque probat auditam,id est quam quilibet approbat statim ut eam audit. Aliae autempropositiones quae his demonstrantur non statim ex ipso audituapprobantur, sed oportet quod per aliqua alia fiant nota. Hoc autem nonest procedere in infinitum, unde oportet pervenire ad aliqua quae statimper se sunt nota, unde dicitur communes animi conceptiones etcommuniter cadunt in conceptione cuiuslibet intellectus. Cuius ratio estquod praedicatum est de ratione subiecti et ideo statim nominato subiectoet intellecto quid sit, statim manifestum est praedicatum ei inesse5(190).

Tre punti sono qua da rilevare. In primo luogo, san Tommaso rendeconto della locuzione sostantiva con la quale Boezio chiama i primi princìpi: lacommunis animi conceptio viene spiegata alla luce del concetto noetico, dimatrice avicenniana, degli oggetti che «comunemente cadono» nell'intelletto(per cui l'anima umana è formalmente umana)6(191). Allo stesso modo in cuicerte nozioni vengono conosciute comunemente, nel doppio senso chequalunque intelletto le può capire e che sono comuni a diversi saperi, parimenticerti enunciati possono essere approvati da ogni intelletto e possono servire daprincìpi in diversi settori del sapere. Registriamo che, con questo carattere di«comunanza», siamo indirizzati verso proposizioni che non sono proprie ad undeterminato tipo di scienza, ma che sono anzi comuni a tutte le scienze.

In secondo luogo, l'Aquinate precisa che tali «concezioni comunidell'anima» vengono comprese subito, senza termine né tempo intermedio,nella sola misura in cui l'intelligenza coglie il significato degli estremi, alladifferenza delle conclusioni dimostrate, che richiedono tempo e medio. Èquindi l'evidenza immediata di queste proposizioni prime che giustifica il loroqualificativo di per se notae, il ché si può tradurre con «conosciute in virtù di séstesse», cioè dei soli estremi che esse collegano fra di loro. Questaimmediatezza conoscitiva viene espressa, e solo espressa, attraversol'immediatezza cronologica, giacché tali concezioni comuni dell'anima sono

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«approvate subito» dalla mente. Sia ben chiaro, rispetto a questo punto centrale,che ci troviamo ad un livello formalmente gnoseologico (e nontemporale-descrittivo): il primo principio si caratterizza per l'immediatezzadell'assenso che la mente dà alla sintesi predicativa in cui viene profferto,perché il semplice avvicinamento dei due concetti basta a far vedere la veritàdella loro composizione (o divisione). Così, il costitutivo specifico ultimo deiprimi princìpi sta nel tipo di assenso che può ricevere da parte dell'intelletto (exparte subiecti).

Come è tuttavia normale in una filosofia realista, il fenomenoconoscitivo che abbiamo appena collocato alla radice del per se notum non èautosufficiente, ma viene fondato, in terzo luogo, su un dato oggettivo (ex parteobiecti). Infatti, il predicato della proposizione nota per sé deve essere deratione subiecti, quindi incluso nella nozione del soggetto. Di quale natura èquesta inclusione ? Se si prendesse il testo al piede della lettera, lo dovremmocomprendere secondo il primo modo di perseità, nel quale, come l'abbiamospiegato nel § 3, il predicato dispiega la quiddità del soggetto oppure alcunadelle sue note costitutive; se invece interpretiamo il testo più ampiamente,possiamo considerare che in ogni proposizione per sé, il predicato procede inqualche modo dalla quiddità del soggetto, sia che la espliciti, sia che viinerisca, sia che ne scaturisca. Gli esempi che seguono immediatamente neltesto boeziano vanno chiaramente in questa seconda direzione; ma rimandiamoalla fine del presente paragrafo la soluzione definitiva di questo importanteproblema. Comunque ne sia, rimane certo che una proposizione per sé nota nelsenso che intendiamo in questo contesto non può mai essere una proposizioneper accidens, ma deve sempre essere per se.

Avendo spiegato la definizione della communis animi conceptio,l'Aquinate ne analizza la divisione proposta da Boezio:

[€] Deinde cum dicit, Harum autem duplex est modus, dividitpraedicta principia, dicens, quod praedictarum communium animiconceptionum duplex est modus. Quaedam enim animi conceptiones sunt communes hominibusomnibus, sicut ista: Si ab aequalibus aequalia auferas, quae relinquuntursunt aequalia. Alia vero animi conceptio est communis solum doctis, quaederivatur a primis animi conceptionibus, quae sunt omnibus hominibuscommunes: et huiusmodi est: incorporalia non esse in loco, quae nonapprobatur a vulgo, sed solum a sapientibus.

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Huius autem distinctionis ratio est quia cum communis animiconceptio vel principium per se notum sit aliqua propositio, ex hoc quodpraedicatum est de ratione subiecti, si idem id quod significatur persubiectum et praedicatum cadat in cognitionem omnium, consequens estquod huiusmodi propositio sit per se nota omnibus, sicut quid sitaequale, omnibus est notum et similiter quid sit subtrahi; et ideopraedicta propositio est omnibus per se nota, et similiter: "omne totumest maius sua parte", et aliae huiusmodi. Sed ad apprehendendam remincorpoream, solus intellectus sapientum consurgit, nam vulgariumhominum intellectus non transcendunt imaginationem, quae est solumcorporalium rerum, et ideo ea quae sunt propria corporum, puta esse inloco circumscriptive, intellectus sapientum statim removet a rebusincorporeis: quod vulgus facere non potest7(192).

Sulla scia di Boezio, le proposizioni per sé note vengono divise in dueclassi, in funzione dell'assenso che ricevono dai diversi intelletti umani. Alcunesono comuni a tutti gli uomini, perché tutti le capiscono; altre sono accessibilisoltanto ai dotti (doctis), perché solo loro le capiscono. La distinzione fra le dueclassi si prende quindi a partire dall'essere-conosciuto della proposizione. Mada dove viene questa variazione nell'intellezione di enunciati che abbiamocaratterizzati per la carenza di ogni intermedio conoscitivo? Potrebbe sembrareche, per questa ragione, una proposizione per sé nota dovrebbe essere ipsofacto conosciuta da tutti.

La spiegazione tommasiana lascia perfettamente intatti i due assidefinitori del per sé noto, vale a dire, da una parte, l'immediatezza soggettivadell'«approvazione» che deve dare l'intelligenza, nonché, d'altra parte,l'appartenenza oggettiva del predicato alla ratio del soggetto, che viene ribadita.Pertanto, la distinzione in due classi delle «comuni concezioni dell'anima» nonva ricercata nella linea del giudizio, bensì in quella dell'apprensione concettualeche, almeno logicamente, precede il giudizio. Certe nozioni, infatti, sono apertea tutti; altre nozioni, invece, pur essendo intelligibili in sé stesse, non sonotuttavia afferrate da tutti, ma soltanto da alcuni (i dotti), perché la loro ratiosupera l'effettiva capacità intellettiva del vulgus. Così, la comprensione dellaproposizione per sé nota si gioca interamente nell'apprensione degli estremi cheessa unisce o separa. Se la quiddità del soggetto e del predicato è palesa perchiunque, allora l'enunciato è per sé noto a tutti; se, al contrario, essa richiedeuno studio attento, allora la verità alla quale rimanda l'enunciato è manifestasoltanto a coloro che colgono i significati del predicato e del soggetto, benché

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la proposizione in causa rimane per sé nota in sé, giacché, in re, il significatodel predicato procede immediatamente da quello del soggetto.

Verifichiamo ora come questa differenza viene illustrata negli esempi.Per san Tommaso, la proposizione ipotetica secondo la quale <se da [diversequantità] uguali fra di loro vengono sottratte [diverse quantità] uguali fra diloro, allora le [quantità] restanti sono uguali fra di loro> è una proposizione persé nota a tutti. Si noti, prima, che tale enunciazione condizionale ipotetica silascia facilmente ricondurre ad una enunciazione categorica, che sarebbe<[diverse quantità] uguali sottratte da [diverse quantità] uguali sono uguali fradi loro>; avendo così soppresso l'implicazione (caratteristica della proposizioneipotetica), rimaniamo con le due nozioni di <uguale> e di <sottratto> : <ugualisottratti da uguali sono uguali>, oppure <uguali meno uguali sono uguali>. Aquesto punto, è chiaro che il predicato <uguali> proviene immediatamente dalsoggetto (complesso) <uguali meno da uguali> secondo il quarto modo diattribuzione per sé, poiché l'uguaglianza finale risulta dalla sottrazione diuguali da uguali che era posta nel soggetto. Questo enunciato di matematicaelementare essendo per sé, e i suoi termini essendo universalmente intelligibili,ci troviamo quindi di fronte ad un assioma evidente per tutti.

Lo stesso vale, mutatis mutandis, per il principio <omne totum est maiussua parte> che l'Aquinate ha inserito nel commento che abbiamo letto e che eglispesso cita come proposizione per sé nota. La nozione di tutto, infatti, non puòessere descritta dalla nostra intelligenza se non come la somma delleparti8(193), benché le parti siano ontologicamente posteriori al tutto (come,analogicamente, la nozione di uno viene esplicitata con l'assenza di divisione,sebbene la divisione sia ontologicamente posteriore all'unità9(194)). Pertanto,dire che <il tutto è più grande della sua parte> equivale, re et ratione, a dire che<la somma delle parti è più grande di una parte>: anche in questa proposizione,l'attribuzione si fa nel quarto modo, se si considera che l'essere più grande dellaparte scaturisce immediatamente dalla nozione di tutto, cioè di somma delleparti, come dalla sua propria ragione formale. Ora, le nozioni di <tutto> (comesomma delle parti), di <parte> e di <più grande> essendo conoscibili senzadifficoltà da ognuno, l'assioma che li collega è per sé noto a tutti.

A rovescio, il soggetto della proposizione <incorporalia non sunt inloco> non è facile da intuire, giacché il genere delle sostanze incorporeetrascende per definizione l'orizzonte della nostra esperienza sensibile10(195).A causa di questa difficoltà nell'ordine dell'apprensione, l'enunciato in causa

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non può essere per sé noto a tutti. Ciò nonostante, il predicato <non in loco> èimmediatamente consecutivo al soggetto <incorporalia> come una proprietàlogicamente negativa, che gli viene quindi riferita secondo il secondo tipo diperseità. Se è infatti vero che il corpo sta in un luogo, e che questa collocazione(nel senso proprio!) è una sua proprietà reciprocabile, ne segue che l'essereincorporeo non sta in luogo: dalla negazione del fondamento della proprietàsegue necessariamente la negazione della proprietà stessa. Dunque, chi capiscei due termini <sostanza incorporea> e <luogo>11(196) non può rifiutarel'assenso alla proposizione negativa <la sostanza incorporea non ha luogo>;perciò si tratta di un assioma per sé noto ai dotti che ne comprendono gliestremi.

1.2. I testi sull'inevidenza immediata dell'esistenza di Dio

Il posto privilegiato dove l'assiologia abozzata da Boezio deve essereadoperata è, per san Tommaso, il problema dello statuto epistemologico chespetta alla proposizione <Deum esse>. In tutti i brani dove il Dottore Comuneaffronta questo argomento, si fa un riferimento esplicito al capitolo del DeHebdomadibus di cui abbiamo analizzato il commentario. Perciò, esamineremoora in ordine cronologico i testi più rilevanti a questo riguardo.

1.2.1. Lo Scriptum super Sententias

All'epoca del primo soggiorno d'insegnamento a Parigi, risale loScriptum super Sententias, ché tratta il tema della non-evidenza immediatadell'esistenza di Dio in modo molto sintetico:

Respondeo, quod de cognitione alicuius rei potest aliquisdupliciter loqui: aut secundum ipsam rem, aut quoad nos. Loquendoigitur de Deo secundum seipsum, esse est per se notum, et ipse est per seintellectus, non per hoc quod faciamus ipsum intelligibile, sicutmaterialia facimus intelligibilia in actu. Loquendo autem de Deo percomparationem ad nos, sic iterum dupliciter potest considerari. Autsecundum sua similitudinem et participationem; et hoc modo ipsum esse,est per se notum; nihil enim cognoscitur nisi per veritatem suam, quae esta Deo exemplata; veritatem autem esse, est per se notum. Aut secundumsuppositum, id est, considerando ipsum Deum, secundum quod est innatura sua quid incorporeum; et hoc modo non est per se notum; immomulti inveniuntur negasse Deum esse, sicut omnes philosophi qui nonposuerunt causam agentem, ut Democritus et quidam alii, I Metaphys.,

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lect. 9. Et huius ratio est, quia ea quae per se nobis nota sunt, efficiunturnota statim per sensum; sicut visis toto et parte, statim cognoscimus quodomne totum est maius sua parte sine aliqua inquisitione. UndePhilosophus, I Posterior.: "Principia congnoscimus dum terminoscognoscimus". Sed visis sensibilibus, non devenimus in Deum nisiprocedendo, secundum quod ista causata sunt et quod omne agens nonpotest esse corpus, et ita in Deum non devenimus nisi arguendo; etnullum tale est per se notum12(197).

In nuce, troviamo già in questo testo tutti gli elementi di soluzione delproblema posto, anche se in un modo che ancora non raggiunge la precisionetecnica dei luoghi ulteriori. Due punti sono particolarmente interessanti per ilpresente studio.

Si noterà, in primo luogo, che il tema del per sé noto concerneformalmente la conoscenza di una cosa: «de cognitione alicuius rei potestaliquis dupliciter loqui». Ci si troviamo quindi su un piano specificamentenoetico, sebbene esso abbia, ovviamente, un fondamento ontologico.

In secondo luogo, il per sé noto viene diviso in noto secondo la cosastessa (secundum ipsam rem) e in noto secondo il suo rapporto a noi (percomparationem ad nos). Il per sé noto secondo la cosa riguarda l'intelligibilitàdella realtà per sé stessa, e si dà quando essa viene «intelletta» da sé stessa: lalocuzione «per sé noto» si riferisce quindi ad una auto-intelligibilità della cosa,data concretamente con la sua auto-intellezione. Il per sé noto in rapporto a noiviene pure messo in relazione con il modo in cui accediamo originariamenteall'intelligibilità del reale, cioè alla conoscenza sensibile, a partire dalla qualeun enunciato viene detto per sé noto qualora la sola astrazione dei termini èrichiesta alla sua compensione intellettuale, senza mediazione dimostrativa.

Come si vede, la spiegazione del commento sulle Sentenze affera ladistinzione di due modalità nel per sé noto da un punto di vista ancora genetico:san Tommaso ci spiega come il significato di un enunciato per sé noto lo è perl'intelligenza divina, poi per la nostra intelligenza.

1.2.2. Il De Veritate

Nel De Veritate, troveremo uno sviluppo assai più sistematico, in chiaveanti-anselmiana, della nozione di per sé noto, in chiara dipendenza della

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dottrina elaborata nel commentario su Boezio. La disposizione grafica aiuterà acogliere il movimento del testo:

Est enim dupliciter aliquid per se notum, scilicet secundum se et quoadnos. Deum igitur esse, secundum se, est per se notum; non autem quoadnos; et ideo nobis necessarium est, ad hoc cognoscendum,demonstrationes habere ex effectibus sumptas.Et hoc quidem sic apparet. [€] Ad hoc enim quod aliquid sit per se notum secundum se, nihil aliud

requiritur nisi ut praedicatum sit de ratione subiecti: tunc enimsubiectum cogitari non potest sine hoc quod praedicatum sibi inesseappareat;

[€] ad hoc autem quod sit per se notum nobis oportet quod nobis sitcognita ratio subiecti in qua includitur praedicatum.[€€] Et inde est quod quaedam per se nota sunt omnibus, quando

scilicet propositiones huiusmodi habent talia subiecta quorum ratioomnibus nota est, ut omne totum maius est sua parte: quilibet enimscit quid est totum et quid est pars;

[€€] quaedam vero sunt per se nota sapientibus tantum qui rationesterminorum cognoscunt, vulgo eas ignorante.

[€] Et secundum hoc Boetius in libro De hebdomadibus dicit quod"duplex est modus communium conceptionum:[€€] una est communis omnibus, ut si ab aequalibus aequalia demas",

etc.[€€] "alia quae est doctorum tantum, ut puta incorporalia in loco non

esse, quae non vulgus sed docti comprobant", quia scilicet vulgiconsideratio imaginationem transcendere non potest ut ad rationemrei incorporalis pertingat.

[€€] Hoc autem quod est esse, in nullius creaturae ratione perfecteincluditur: cuiuslibet enim creaturae esse est aliud ab eiusquidditate: unde non potest dici de aliqua creatura quod eam ese sitper se notum et secundum se. Sed in Deo esse suum includitur ineius quidditatis ratione, ut dicit Boetius et Dionysius, et idem estan est et quid est, ut dicit Avicenna: et ideo per se et secundum seest notum.

[€€] Sed quia quidditas Dei non est nobis nota, ideo quoad nos Deumesse non est per se notum, sed indiget demonstratione. Sed inpatria, ubi essentiam eius videbimus, multo amplius erit nobis perse notum Deum esse, quam nunc sit per se notum quod affirmatioet negatio non sunt simul verae13(198).

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Il segmento del respondeo che abbiamo riportato si articola in due parti,che si suddividono a loro volta in due sezioni. Nella prima parte, san Tommasodistingue due sensi nella nozione di per se notum; nella seconda, poi, egliadopera questa distinzione per risolvere la dodicesima domanda posta all'iniziodella questione, cioè utrum Deum esse, per se sit notum menti humanae, sicutprima principia demonstrationis, quae non possunt cogitari non esse. Tuttal'esposizione è quindi finalizzata a determinare se si può equiparare, dal puntodi vista epistemologico, l'esistenza di Dio con i primi princìpi delladimostrazione14(199).

Lo studio preliminare del «per sé noto» ne chiarisce molto bene le duedimensioni: il per se notum secundum se ne dice il momento oggettivo [€],mentre il per se notum quoad nos ne esprime, per l'intelligenza umana, ilmomento soggettivo [€]. Per impostare correttamente l'analisi, è utile osservareche san Tommaso, in tutto il testo citato, usa soltanto una volta il vocabolo<propositio>, e lo fa parlando del «per sé noto per noi». A nostro avviso,questo è il segno che la distinzione fra le due istanze del per sé noto concerneprimariamente il significato dell'enunciato nella realtà, considerato nella suaintelligibilità in sé, poi nella sua intelligibilità per noi, e non un «contenuto dipensiero» che sarebbe un tertium quid fra la realtà e l'atto con il quale laesprimiamo.

Spiegando sotto quale condizione il significato di una enunciazione può,in primo luogo, essere per se notum secundum se [€], san Tommaso riprendealla lettera la formula che aveva adoperato due volte nel passaggio citato delcommentario sul De Hebdomabidus: ci vuole che il predicato appartenga allaratio del soggetto. Si aggiunge poi subito una precisione molto importante: acausa di questa appartenenza necessaria del predicato al soggetto, qualunqueintelletto che sia in grado di capire il soggetto non può non vedervi anche ilpredicato. Così, il per se notum secundum se si identifica, nella cosa, con il perse, e gli aggiunge, quanto alla nozione, l'intelligibilità in sé, prescindendoquindi dall'intelligibilità per la mente umana. Pertanto, ogni il significato diogni proposizione per sé (in qualunque modo) è anche per sé noto in sé; infatti,il soggetto implicando necessariamente il predicato in re, ne risulta che la stessaimplicanza deve darsi pure in intellectu : ens et verum convertuntur15(200).

L'altro senso [€] del per se notum segue naturalmente dal primo. Ilsignificato di una enunciazione sarà dunque per sé noto a noi nella misura in

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cui accediamo al suo soggetto, giacché, per il tramite della sua definizione,abbiamo pure accesso alle sue note costitutive nonché alla radice delle sueproprietà. Perciò, chi può veramente intus-legere la quiddità del soggetto, nelegge anche quello che ne possono dire le proposizioni per sé del primo e delquarto modo16(201). A questo punto, ritroviamo senza peculiare difficoltà idue tipi di per se notum quoad nos, a seconda che il soggetto dell'enunciato èintelligibile a tutti [€€], oppure soltanto ai dotti [€€]. Gli esempi citati perciascuno dei due tipi di proposizioni sono addirittura gli stessi che nelcommentario su Boezio.

Nella seconda metà del testo, san Tommaso applica le distinzioni che haproposte all'enunciato <Deum esse>. Nella creatura, l'atto di essere non è maiun predicato necessario rispetto all'essenza considerata in sé, benché,contrariamente a quanto pensava Avicenna, esso non sia accidentale rispettoall'ente esistente, alla differenza degli accidenti predicabili17(202). A rovescio,ed è questa una tesi cardinale del tomismo, Dio (e Dio solo) è il suo essere peressenza; perciò, la proposizione che afferma l'esistenza di Dio rientra, se laconsideriamo nel suo significato reale, nel primo modo di perseità, ed è quindi,quanto all'intelligibilità, per sé nota in sé [€€]. Di conseguenza, l'intelletto chevede la stessa essenza divina, vede ipso facto che essa si identifica con il suoessere. Invece, nella condizione di viatore, la nostra virtù intellettiva nonpotendo mai adeguarsi all'intelligibilità della divina essenza, siamostrutturalmente incapaci di cogliere senza dimostrazione gli attributi che leappartengono, e quindi pure il suo essere. Così, la proposizione <Deum esse>non è mai per sé nota per noi, né per tutti, nemmeno per i sapienti, ma necessitasempre una dimostrazione quia a partire dagli effetti della causalità divina,grazie alla quale l'esistenza di Dio diventa nota per aliud18(203).

Il principale guadagno speculativo di questo articolo del De Veritateconsiste nella distinzione fra il per sé noto in sé ed il per sé noto per noi.Essendo presupposto che in una enunciazione per sé nota, si dà un legamenecessario fra il soggetto ed il predicato, questa distinzione equivale a quelladell'intelligibilità in sé, fondata appunto sulla necessità del nesso atttributivo, edell'intelligibilità per noi, che dipende dalla nostra capacità di conoscere ilsoggetto e, con esso, le sue implicanze.

1.2.2. I testi posteriori al De Veritate

Con il De Veritate, la dottrina di san Tommaso sul per sé noto nonché il

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suo impiego nell'analisi epistemologica della proposizione <Dio è> ci sembrafissata definitivamente. Infatti, i testi successivi assumeranno in modoperfettamente omogeneo la distinzione fondamentale fra le due modalità del persé noto; pertanto, le novità che si potranno rilevare saranno o sfumature oppureesplicitazioni. Nella Summa contra Gentiles, incontriamo una variante terminologica:

Partim vero contingit ex eo quod non distinguitur quod est notumper se simpliciter, et quod est quoad nos per se notum. Nam simpliciterquidem Deum esse per se notum: cum hoc ipsum quod Deus est, sit suumese. Sed quia hoc ipsum quod Deus est mente concipere non possumus,remanet ignotum quoad nos. Sicut omne totum sua parte maius esse, perse notum est simpliciter: ei autem qui rationem totius mente nonconciperet, oporteret esse ignotum19(204).

Simpliciter prende il posto di secundum se, senza cambiarne ilsignificato, giacché si tratta sempre dell'intelligibilità di un significatoconsiderato in sé stesso, anteriormente al suo rapporto ad un intelletto specifico(che, nel contesto, è sempre quello umano).

Nella Ia pars della Summa theologiae, l'articolo che risponde alladomanda utrum Deum esse sit per se notum si svolge in maniera pressochésimmetrica al luogo parallelo del De Veritate:

Respondeo dicendum quod contingit aliquid esse per se notumdupliciter: uno modo, secundum se et non quoad nos; alio modo,secundum se et quoad nos. Ex hoc enim aliqua propositio est per se nota, quod praedicatumincluditur in ratione subiecti, ut homo est animal: nam animal est deratione hominis. Si igitur notum sit omnibus de praedicato et de subiecto quid sit,propositio illa erit omnibus per se nota: sicut patet in primisdemonstrationum principiis, quorum termini sunt quaedam communiaquae nullus ignorat, ut ens et non ens, totum et pars, et similia. Si autem apud aliquos notum non sit de praedicato et subiecto quidsit, propositio quidem quantum in se est, erit per se nota: non tamen apudillos qui praedicatum et subiectum propositionis ignorant. Et ideocontingit, ut dicit Boethius in libro De hebdomadibus, quod quaedamsunt communes animae conceptiones et per se notae, apud sapientestantum, ut incorporalia in loco non esse. Dico ergo quod haec propositio, Deus est, quantum in se est, per se

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nota est: quia praedicatum est idem cum subiecto: Deus enim est suumesse, ut infra patebit. Sed quia nos non scimus de Deo quid est, non nobisest nobis per se nota: sed indiget demonstrari per ea quae sunt magis notaquoad nos, et minus nota quoad naturam, scilicet per effectus20(205).

Il principio di base è sempre lo stesso: il significato di un enunciato è persé noto in sé stesso qualora il predicato è incluso nella ratio del soggetto, il chéviene illustrato con l'attribuzione a l'uomo del suo genere, quindi con unaproposizione del primo modo, nel quale l'appartenenza del predicato al soggettoè particolarmente lampante.

Rispetto al De Veritate, ci sono due sfumature nell'impostazione dellacoppia per sé noto in sé / per sé noto per noi. Una prima differenza si trovanella definizione del per se notum quoad nos. Qua, si richiede la conoscenzaprevia del quid sit del predicato e del soggetto, cioè di ambedue gli estremidella proposizione, mentre il De Veritate metteva in risalto l'assimilazione della«ratio subiecti in qua includitur praedicatum». Lo scarto fra i due testi nonriguarda il risultato, ma piuttosto l'approccio. Se, infatti, si parte dal noto in séper arrivare al noto per noi, si evidenzierà successivamente:

€€ il legame ontologico per cui il significato del soggetto esige in sé stessoquello del predicato;

€€ l'immediatezza conoscitiva che ne risulta, in tal modo che l'intelligenzache conosce la ratio del soggetto deve vedervi quella del predicato.

In questa chiave, si procede dalla quiddità del soggetto alla percezionedel predicato che ne deriva: questa è la presentazione del De Veritate.

Se, invece, si parte, in altro senso, dal noto per noi per scoprire che èanche noto in sé, si conoscerà allora successivamente:

€€ le due rationes del predicato e del soggetto, la cui comprensione portaimmediatamente ad assentire all'attribuzione che li collega;

€€ l'inclusione del predicato nel soggetto, che l'intelligenza vedeimmediatamente per e nell'atto in cui applica il primo al secondo.

In questa ottica, si mostra come l'intelligenza risale dal confronto fra ledue nozioni del predicato e del soggetto alla percezione intuitiva dellanecessaria connessione a partire dalla quiddità del soggetto: questo è ilpercorso suggerito dalla Ia pars.

Questa differenza fra i due testi si risolve quindi nella complementarietàfra il punto di vista del per sé noto in sé e quello del per sé noto per noi. In sé,

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la nozione (ratio) del soggetto o si identifica con quella del predicato(attribuzione della definizione alla specie), o la include (attribuzione del genereo della differenza alla specie), oppure comunque la richiede (attribuzione dellaproprietà alla specie o alla differenza, secondo l'esempio boeziano per cuiincorporalia non sunt in loco); pertanto, chi conosce la ratio subiecti capisceipso facto tutto ciò che le si attribuisce per sé. Per noi, diversamente, occorrepiuttosto cominciare dalle due rationes del predicato e del soggetto, cosicché ilnostro intelletto veda in modo noeticamente immediato il loro legameontologicamente necessario, riconducendo allora la nozione del predicato aquella del soggetto come a suo fondamento necessitante.

L'altra sfumatura fra i due testi in causa riguarda il per se notumsecundum se, e procede dallo stesso cambio di prospettiva. Nel De Veritate, ilper sé noto in sé era definito in sé stesso, senza aggiunta, secondol'intelligibilità del significato di un enunciato a partire dal suo soggetto; nellaSumma, per contro, il per sé noto in sé viene definito in opposizione al per sénoto per noi, cioè come «per sé noto in sé non per noi». Pertanto, si parte alloradel «per sé noto per noi non per tutti», nel quale la nozione del soggetto è notasoltanto alla ristretta cerchia dei sapienti; in una seconda tappa, si radicalizzaquesto tipo di per sé noto, estendendo l'ignoranza del soggetto: nel «per sé notoper i sapienti», la nozione del soggetto è conosciuta dai pochi, per una ragionedi fatto; nel «per sé noto in sé non per noi», la nozione del soggetto rimanesconosciuta a tutti, e per una ragione strutturale. Questa approccio non alteraminimamente la definizione della radice comune a tutti i modi considerati, cioèil «per sé noto», che consiste nell'appartenenza del predicato al soggetto, e cherimane totalmente identico al con il «per sé noto in sé» del De Veritate.

In sintesi, tutti i luoghi posteriori allo Scriptum dove, all'occasione delladiscussione sullo statuto epistemologico dell'esistenza di Dio, san Tommasoadopera ed amplifica la dottrina boeziana del per sé noto sono assai omogeneifra di loro.

2. Chiarimento speculativo

Ci conviene quindi riprendere in un bilancio i dati del nostro inventario,per risolvere poi le questioni che resteranno aperte.

2.1. Bilancio dell'esegesi testuale

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Iniziamo questa sintesi con un testo pressappoco contemporaneo dellaSumma theologiae, che ripropone in modo più breve tutto quanto abbiamo giàvisto:

Ad undecimum dicendum, quod aliqua propositio est per se notade se, quae tamen huic vel illi non est per se nota; quando scilicetpraedicatum est de ratione subiecti, et tamen ratio subiecti est alicuiignota; sicut si aliquis nesciret quid est totum, non esset ei nota istapropositio per se, omne totum est maius sua parte ; huiusmodi enimpropositiones fiunt notae cognitis terminis, ut dicitur I Posteriorum. Haec autem propositio, Deus est, quantum est de se, est per senota, quia idem est in subiecto et praedicato; sed quantum ad nos non estper se nota, quia quid est Deus nescimus: unde apud nos demonstrationeindiget, non autem apud illos qui Dei essentiam vident21(206).

La dottrina esposta riassunta qui ed esposta nell'insieme dei testi cheabbiamo citati apparirà ormai abbastanza lineare per chi ha seguitoattentamente il paragrafo presente e quello precedente: il per sé noto, infatti, èstato ogni volta, senza soluzione di continuità da un testo all'altro, oggetto di unpresupposto implicito, di una definizione, e di una divisione. Facciamo lasintesi di queste tre serie di risultati.

a) Il presupposto La proposizione per sé nota deve avere un significato necessario, equindi essere per sé; pertanto, le enunciazioni del tipo <Socrate è bianco> chevertono su una materia contingente non sono, strettamente parlando, per sénote, sebbene siano immediatamente evidenti ai sensi22(207).

b) La definizione della proposizione per sé nota Sulla base del presupposto, la proposizione per sé nota viene definita apartire da due condizioni. La prima riguarda l'oggetto, ed è che il predicatodeve procedere dalla ratio del soggetto, il ché equivale a dire che laproposizione deve essere per sé. Passando dal piano del significato a quellodella sua intelligibilità, deduciamo poi che un enunciato per sé noto èimmediatamente intelligibile a chi ne coglie perfettamente il soggetto, giacchévi intuisce allora, con la sua quiddità, tutte le sue implicanze. La secondacondizione che rende una proposizione per sé nota concerne il soggettoconoscente, il quale deve vedere subito (statim) la connessione fra il soggettoed il predicato, senza la mediazione di una terza nozione. Per noi, questaimmediazione si verifica quando siamo in grado di assentire all'enunciazione in

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seguito alla sola apprensione dei suoi estremi (cognitis terminis). In sintesi, unaproposizione per sé nota è un enunciato il cui predicato entra nella nozione delsoggetto (de ratione subiecti) e la cui verità viene vista immediatamente graziealla conoscenza dei suoi estremi:

principia per se nota sunt illa quae statim, intellectis terminis,cognoscuntur, ex eo quod praedicatum ponitur in definitionesubiecti23(208).

c) La divisione della proposizione per sé nota La connessione necessaria fra il predicato ed il soggetto è sufficiente,come abbiamo visto nel De Veritate, affinché una proposizione sia per sé notain sé: l'intelligibilità del significato complesso si fonda infatti soltanto su quelladelle sue componenti, ed, in ultima analisi, su quella del soggetto. Per essereinoltre nota per noi, la proposizione per sé nota deve quindi avere degli estremiche cadano nell'ambito della nostra facoltà intellettiva. In funzione di questocriterio, possiamo distinguere le proposizioni per sé note in proposizioni per sénote a tutti, ad alcuni, oppure a nessuno, a seconda che il soggetto ed ilpredicato siano noti a tutti, ad alcuni, oppure a nessuno (nello statuto della vitapresente).

Questo bilancio lascia ancora irresoluto un quesito capitale per unadefinizione precisa del per sé noto: quando si dice che il predicato dellaproposizione per sé nota deve appartenere alla nozione del soggetto(praedicatum est de ratione subiecti), quale modo di perseità viene allorainteso?

2.2. La perseità del per sé noto

In tutti i luoghi che abbiamo citati in questo § 4, san Tommaso hacaratterizzato la proposizione per sé nota con l'appartenenza del predicato allaratio24(209) o alla definitio25(210) del soggetto. Egli fa lo stesso anche fuori ilcontesto della proposizione <Dio è>:

Secundum se quidem quaelibet propositio dicitur per se nota, cuiuspraedicatum est de ratione subiecti: contingit tamen quod ignorantidefinitionem subiecti, talis propositio non erit per se nota26(211). Quod autem huiusmodi principia communia pertineant adconsiderationem primae philosophiae, huius ratio est quia cum omnesprimae propositiones per se sint, quorum praedicata sunt de rationesubiectorum; ad hoc quod sint per se notae quantum ad omnes, oportet

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quod subiecta et praedicata sint nota omnibus27(212). Ad huius autem divisionis intellectum sciendum est quod quaelibetpropositio, cuius praedicatum est in ratione subiecti, est immediata et perse nota, quantum est in se28(213). Scito enim quid est totum et quid est pars, cognoscitur quod omnetotum est maius sua parte: quia in talibus propositionibus, ut supradictum est praedicatum est de ratione subiecti29(214).

Dunque: de ratione subiecti, o addirittura in ratione subiecti. Il lettorepuò essere facilmente indotto a capire questa inclusione del predicato nellanozione o nella definizione del soggetto secondo il primo modo di perseità.Questa impressione viene rafforzata dal seguente passo del commentario sullaMetafisica :

Ad huius autem evidentiam sciendum, quod propositiones per senotae sunt, quae statim notis terminis cognoscuntur, ut dicitur primoPosteriorum. Hoc autem contingit in illis propositionibus, in quibuspraedicatum ponitur in definitione subiecti, vel praedicatum est idemsubiecto30(215).

Il predicato viene posto nella definizione del soggetto quando ne è unanota definitoria (i generi supremi, intermedi, prossimo, nonché la differenzaspecifica), e il predicato si identifica con il soggetto o quando si attribuisce lostesso allo stesso, oppure quando si attribuisce ad un definito la sua definizionecompleta. Siamo allora costretti a concludere, per via esegetica, che leproposizioni per sé note sono attribuzioni per sé del primo modo?

In realtà, questo non può essere, per una ragione che ora spieghiamo. Untesto del commentario sugli Analitici Secondi, in primo luogo, risponde inmodo diretto alla nostra domanda:

Et patet ex praemissis quod, sicut sunt quaedam principiaindemonstrabilia affirmativa in quibus unum de alio praedicatursignificando quod hoc essentialiter est illud, sicut cum genus praedicaturde proxima specie, vel hoc sit in illo, sicut cum passio praedicatur deprimo et immediato subiecto, ita etiam sunt principia indemonstrabilia innegativis, negando vel essentiale praedicatum vel etiam propriampassionem31(216).

San Tommaso afferma qui, con la massima chiarezza, che i princìpiindimostrabili, quindi le proposizioni per sé note, sono o enunciazioni

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essenziali secondo il primo modo di perseità, come l'attribuzione del genere allaspecie, oppure enunciazioni che rientrano nel secondo modo di perseità, comel'attribuzione della passione al suo soggetto. Con questa ultima tesi, abbiamopure la spiegazione della formula in ratione subiecti: essa non designa sempreun rapporto di inclusione formale, ma può significare pure un rapporto diinerenza «materiale», come conviene proprio alla nozione della proprietà che«sta in» quella del soggetto. Il testo ci dice esplicitamente, inoltre, che ilpredicato deve appartenere in modo noeticamente immediato al suo soggetto: ilgenere deve essere attribuito alla sua specie immediatamente consecutiva, e lapassione al suo soggetto proprio e immediato. Implicitamente, poi, ne possiamodedurre che, se si danno proposizioni per se note nel secondo modo di perseità,ce ne sono altrettante nel quarto modo, giacché ciò che si dice nel secondomodo in quanto inerisce nel soggetto, si dice pure nel quarto modo in quantoprocede causalmente dal soggetto32(217).

Questa conclusione si rivela coerente con tutta la teoria tommasiana delladimostrazione. Se, infatti, le due premesse immediate in cui si risolveultimamente un sillogismo scientifico, fossero sempre e necessariamente per sénel primo modo, la conclusione sarebbe obbligatoriamente del primo modo,poiché l'intero discorso si muoverebbe dentro le note costitutive del soggetto.Ad esempio, ponendo che <la giustizia è una virtù morale> e che <la virtùmorale è un abito>, si conclude che <la giustizia è un abito>, risalendo algenere supremo attraverso il genere prossimo del soggetto su cui verte laconclusione.

Ora, abbiamo visto nel § 3 che una dimostrazione propriamentescientifica conclude ad una proprietà del soggetto, quindi nel secondo modo,grazie ad una premessa minore che esplicita la definizione del soggetto, e staquindi nel primo modo, ed a una premessa maggiore che ricollega la proprietàalla definizione come alla sua propria causa, per una attribuzione del quartomodo. Perciò, è necessario, in un sillogismo dimostrativo del genere, che unadelle premesse non sia per sé nel primo modo, ma che essa sia, allo stessotempo, per sé nota. Di conseguenza, ci debbono essere proposizioni per sé notea noi che rientrino nel quarto modo di perseità, e quindi pure, per la ragioneappena detta, nel secondo modo.

È interessante notare che il problema che abbiamo sollevato e risolto nonè rimasto sconosciuto nella storia del tomismo. Il Gaetano, in particolare, netratta espressamente. Commentando la seconda questione della Ia pars, dove

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l'Aquinate descrive il per sé noto dicendo che «ex hoc enim aliqua propositioest per se nota, quod praedicatum includitur in ratione subiecti», egli spiegasottilmente:

Circa hanc partem, sunt multa dubia et argumenta Scoti, Aureoli etGregorii: sed quoniam haec ad librum Posteriorum spectant, ubi in capiteiii diffuse hanc materiam tractavi, idcirco, absque eorum repetitione,videndae sunt ibi solutiones argumentorum, cum toto processu. - Idtantum hic notato, quod in littera non definitur propositio per se nota,dicendo quod est cuius praedicatum ponitur in definitione subiecti: sedponitur causalis, scilicet ex hoc quod praedicatum ponitur in rationesubiecti, fit propositio per se nota; quae est convertens respectu illius. Ethoc ideo dico, quia bene verum est apud s. Thomam, quod omnispropositio cuius praedicatum cadit in ratione subiecti est per se nota, sednon e converso: quoniam cum unum generalissimum negatur de alio, etcum prima passio negatur de primo subiecto, fiunt propositionesimmediatae secundum se, et consequenter secundum se per se notae. Sitamen alicubi sic definita reperitur, glossetur ly esse in ratione subiecti«formaliter, vel virtualiter proxime.» Non tamen extendatur talis locutio,quia minus propria est33(218).

Per il Gaetano, la clausola <praedicatum includitur in ratione subiecti> sideve originariamente intendere strettamente secondo il primo modo di perseità.Per non ridurre poi il per sé noto al solo primo di perseità, egli propone dileggere il testo tommasiano in modo causale, e non definitorio; quindi, non sideve capire che «la proposizione per sé nota è tale che il suo predicato è inclusonella ratio del soggetto», ma, a rovescio, che «se il predicato della proposizioneè incluso nella ratio del soggetto, allora la proposizione è per se nota». Così,tutte le proposizioni del primo modo sono per se note, ma non tutte leproposizioni per sé note sono del primo modo. Noi condividiamo quest'ultimaconclusione, ma, tuttavia, non ci sembra necessario dire che le formule del tipo<praedicatum est de ratione subiecti> implicano obbligatoriamente il primomodo di perseità. Lo stesso Gaetano lo riconosce poi al fine del suo commento,precisando che il modo in cui un predicato è in ratione subiecti può intendersianche virtualiter proxime, quindi non solo in quanto esso fa parte delladefinizione del soggetto, ma pure quando esso dipende «virtualmente» dalladefinizione, come è appunto il caso delle proprietà.

2.3. Proposizione per sé nota e abito dei primi princìpi

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Tutte le ricerche che abbiamo condotte finora sono finalizzate a definirecon la massima precisione possibile il €o€€ ossia l'abito dei primi princìpidell'intelletto. In questo paragrafo, abbiamo raccolto gli elementi necessari peresplicitare la differenza specifica di tale abito, che viene infatti data dal per sénoto. Perciò possiamo porre che l'oggetto formale specifico dello habitusprincipiorum consiste negli enunciati che sono per sé noti per noi. Questoimplica, da parte del loro significato, che il predicato venga attribuito per sé alsoggetto, nel primo, nel secondo o nel quarto modo di perseità. Da parte dellamente, inoltre, l'assenso deve venire dato subito alla proposizione, sulla basedella sola conoscenza previa del soggetto e del predicato.

A queste condizioni, una proposizione è quindi immediata, nel senso chenon dipende, né in sé, né per noi, da proposizioni anteriori, e costituiscepertanto un principio di dimostrazione, primo ed indimostrabile.

§ 5 Come i primi princìpi vengono divisi in princìpi comuni ed inprincìpi propri ?

Abbiamo visto nel paragrafo precedente che la differenza specificadell'abito dei princìpi, ossia il per sé noto, concerne formalmente l'intelligibilitàdi quello che nel nostro modo di conoscere si presenta in una enunciazione.Sotto questo punto di vista, abbiamo pure spiegato che il per sé noto si puòdividere in per sé noto in sé ed in per sé noto per noi, il quale viene poiulteriormente suddiviso in per sé noto a tutti ed in per sé noto ai dotti. È daquest'ultima distinzione che dobbiamo partire per capire quali sono le duegrandi classi nelle quali si distribuiscono i primi princìpi.

Ricordiamo che la radice dell'opposizione fra le due modalità del per sénoto a noi si trova esclusivamente nell'apprensione degli estremi dai qualirisulta la proposizione. Negli Analitici Secondi, Aristotele aveva distinto iprincìpi immediati del sillogismo in assiomi (a)cw//mata) e tesi(qe/seij)1(219), espressioni che Boezio aveva tradotte rispettivamente condignitates e positiones. Commentando questa distinzione, san Tommaso lafonda nei due tipi di per sé noto per noi:

Ad huius autem divisionis intellectum sciendum est quod quaelibetpropositio, cuius praedicatum est in ratione subiecti, est immediata et perse nota, quantum est in se.

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Sed quarundam propositionum termini sunt tales, quod sunt innotitia omnium, sicut ens, et unum, et alia quae sunt entis, in quantumens: nam ens est prima conceptio intellectus. Unde oportet quod talespropositiones non solum in se, sed etiam quoad omnes, quasi per se notaehabeantur. Sicut quod, non contingit idem esse et non esse; et quod,totum sit maius sua parte: et similia. Unde et huiusmodi principia omnesscientiae accipiunt a metaphysica, cuius est considerare ens simpliciter etea, quae sunt entis. Quaedam vero propositiones sunt immediatae, quarum termini nonsunt apud omnes noti. Unde, licet praedicatum sit de ratione subiecti,tamen quia definitio subiecti non est omnibus nota, non est necessariumquod tales propositiones ab omnibus concedantur. Sicut haec propositio:Omnes recti anguli sunt aequales, quantum est in se, est per se nota siveimmediata, quia aequalitas cadit in definitione anguli recti. Angulus enimrectus est, quem facit linea recta super aliam rectam cadens, ita quod exutraque parte anguli reddantur aequales. Et ideo, cum quodam positionerecipiuntur huiusmodi principia2(220).

In questa analisi, si fonda la distinzione fra i due tipi di princìpiimmediati nella distanza fra la ratio entis e le nozioni incluse negli enunciatiper sé noti. Se la proposizione in causa verte sull'ente oppure su una nozionevicina all'ente, allora essa sarà nota a tutti, giacché tali nozioni sono note a tutti.Si noti che l'Aquinate annumera di nuovo il principio per cui <il tutto è piùgrande della parte> fra i princìpi noti a tutti, il che implica dunque che lenozioni di <tutto> e di <parte> siano vicine a quella di ente. Questi princìpinoti a tutti sono comuni a tutte le scienze, allo stesso modo in cui le nozioni cheloro integrano si ricollegano all'ente comune. Così il principio dinon-contraddizione (non contingit idem esse et non esse) ed altri similivengono adoperati, in un modo che rimane da precisare, in tutte le discipline.Perciò, il loro studio non spetta a queste singole discipline, ma alla stessa diquella che ha l'ente per soggetto, cioè alla metafisica3(221).

Se invece una proposizione, che in sé è per sé nota, ha per soggetto unanozione come quella di <angolo retto>, allora essa non sarà per sé nota a tutti,perché le nozioni del genere, essendo più remote dalla ratio entis, non cadonocomunemente nell'apprensione di tutti. I princìpi che risultano da tali nozionisono propri ad una determinata scienza, o addirittura ad un suo settore, come losono le nozioni stesse. Così la tesi per cui omnes anguli recti sunt aequalesappartiene specificamente alla geometria (euclidiana), come la nozione stessa

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di angolo retto. Pertanto, questi princìpi vengono tematizzati dalle singolescienze che ne trattano.

A partire di quanto abbiamo appena abbozzato, occorre approfondire ladifferenza fra gli assiomi e le tesi in una duplice chiave. Dobbiamo, in primoluogo, spiegare in che cosa consiste la vicinanza e la lontananza rispetto all'entedelle nozioni in causa nelle enunciazioni per sé note, e quindi degli stessiprincìpi che ne derivano. In un secondo luogo, dobbiamo poi mostrare come iprincìpi comuni e propri si differenziano rispetto alla dimostrazione.

1. La distinzione dei princìpi e la ratio entis

Un celebre testo della Ia-IIae ci aiuterà a collegare la problematica deiprimi princìpi con quella della prima nozione:

Et inde est quod, sicut dicit Boethius, il libro De hebdomad.,quaedam sunt dignitates vel propositiones per se notae communiteromnibus: et huiusmodi sunt illae propositiones quarum termini suntomnibus noti, ut Omne totum est maius sua parte, et, Quae uni et eidemsunt aequalia, sibi invicem sunt aequalia. Quaedam vero propositionessunt per se notae solis sapientibus, qui terminos propositionumintelligunt quid significent: sicut intelligenti quod angelus non estcorpus, per se notum est quod non est circumscriptive in loco, quod nonest manifestum rudibus, qui hoc non capiunt. In his autem quae in apprehensione omnium cadunt, quidam ordoinvenitur. Nam illud quod primo cadit in apprehensione, est ens, cuiusintellectus includitur in omnibus quaecumque quis apprehendit. Et ideoprimum principium indemonstrabile est quod non est simul affirmare etnegare, quod fundatur supra rationem entis et non entis: et super hocprincipio omnia alia fundantur, ut dicitur in IV Metaphys.4(222).

Si comincia quindi ricordando tutto quanto abbiamo già studiato nelparagrafo precedente sui due tipi di proposizioni per sé note a noi. Sapendo cheun enunciato è per sé noto nella misura in cui lo sono i termini che esso collegafra di loro, san Tommaso ne deduce che il primo prinicipio sarà quello chescaturisce dalle due prime nozioni; ora, queste essendo quelle di ente e dinon-ente, ne risulta che il principio di non-contraddizione, che poggiadirettamente su di loro, è il primo principio.

Questo primato sarà, coerentemente, dello stesso ordine della nozione di

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ente sul quale riposa il principio; ora la nozione di ente non è soltantocronologicamente prima, in quanto sta all'inizio della vita intellettuale, ma èanche noeticamente prima, in quanto tutte le altre nozioni derivano da essa e visono incluse5(223); parimenti, dunque, il principio di non-contraddizione non èsoltanto cronologicamente primo, ma lo è anche criticamente, perché tutti glialtri princìpi si fondano su di esso. Infatti, in ogni atto giudicativo si pone ciòche si pone oppure si nega ciò che si nega, e perciò, al contempo, si esclude chela contraddittoria possa essere vera; perciò, il principio di non-contraddizione èpresente, in actu exercito, in ogni giudizio. Si dà, quindi, un parallelismo fra laprima nozione ed il primo principio, che sono sempre presenti, rispettivamente,nella prima e nella seconda operazione:

Ad huius autem evidentiam sciendum est, quod, cum duplex sitoperatio intellectus: una, qua cognoscit quod quid est, quae vocaturindivisibilium intelligentia: alia, qua componit et dividit: in utroque estaliquod primum: in prima quidem operatione est aliquod primum, quodcadit in conceptione intellectus, scilicet hoc quod dico ens; nec aliquidhac operatione potest mente concipi, nisi intelligatur ens. Et quia hocprincipium, impossibile est esse et non esse simul, dependent exintellectu entis, sicut hoc principium, omne totum est maius sua parte, exintellectu totius et partis: ideo hoc etiam principium est naturaliterprimum in secunda operatione intellectus, scilicet componentis etdividentis. Nec aliquis potest secundum hanc operationem intellectusaliquid intelligere, nisi hoc principio intellecto. Sicut enim totum etpartes non intelliguntur nisi intellecto ente, ita nec hoc principium omnetotum est maius sua parte, nisi intellecto praedicto principiofirmissimo6(224).

Torneremo nel § 7 sulla natura e la funzione del primo principio inquanto è precisamente primo. Per il momento, dobbiamo esaminare come lenozioni che l'intelletto nostro può apprendere si differenziano dalla ratio entis,in modo di capire come si differenziano pure i primi princìpi in comuni epropri. Esamineremo, in un primo momento, alcuni testi che spianeranno la via,poi, in un secondo momento, risolveremo il problema in modo speculativo.

1.1. Alcuni testi sui princìpi e la ratio entis

Le nozioni più vicine all'ente sono i trascendentali: Primum enim quod cadit in imaginatione intellectus, est ens, sinequod nihil potest apprehendi ab intellectu; sicut primum quod cadit in

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credulitate intellectus, sunt dignitates, et praecipue ista, contradictorianon esse simul vera: unde omnia alia includuntur quodammodo in enteunite et indistincte7(225), sicut in principio; ex quo etiam habet quandamdecentiam ut si propriissimum divinum nomen. Alia vero quae diximus,scilicet bonum, verum et unum, addunt super ens, non quidem naturamaliquam, sed rationem: sed unum addit rationem indivisionis; et propterhoc est propinquissimum ad ens, quia addit tantum negationem: verumautem et bonum addunt relationem quandam; sed bonum relationem adfinem, verum relationem ad formam exemplarem; ex hoc enimunumquodque verum dicitur quod imitatur exemplar divinum, velrelationem ad virtutem cognoscitivam; dicimus enim verum aurum esse,ex eo quod habet formam auri quam demonstrat, et sic fit verum iudiciumde ipso8(226).

Per passare dall'ente alle sue quasi proprietà trascendentali, occorre,come è risaputo, «aggiungere» (addere) all'ente una negazione oppure unarelazione de ragione, all'esclusione di ogni realtà (non quidem naturamaliquam, sed rationem). Con l'ente, san Tommaso mette in correlazione, comesempre, il principio di non-contraddizione; per i trascendentali, invece, egli nonfornisce alcun esempio di principio corrispondente; ma è facile porre che <ogniente è quodammodo uno, vero, buono, ecc.>. Questo testo rimane nella sferadelle nozioni le più vicine all'ente, per cui possiamo anche dire che <ogni uno,vero, buono, ecc., è quodammodo ente>, giacché i trascendentali sonoconvertibili con l'ente.

Un brano delle Quaestiones quodlibetales avvia la discesa verso lenozioni categoriali, mettendola in parallelo con i primi princìpi:

Nam intellectus humanus natus est rerum quidditatemcomprenhendere; in quibus cognoscendis naturaliter procedit sicut incognoscendis conclusionibus complexis. Insunt enim nobis naturaliter quaedam principia prima complexaomnibus nota, ex quibus ratio procedit ad cognoscendum in actuconclusiones quae in praedictis principiis potentialiter continentur, siveper inventionem propriam, sive per doctrinam alienam, sive perrevelationem divinam; in quibus omnibus modis cognoscendis homoinvatur ex principiis naturaliter cognitis [...]. Et similiter in intellectu insunt nobis etiam naturaliter quaedamconceptiones omnibus notae, ut entis, unius, boni, et huiusmodi, a quibuseodem modo procedit intellectus ad cognoscendum quidditatem

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uniuscuiusque rei, per quem procedit a principiis per se notis adcognoscendas conclusiones; et hoc vel per ea quae quis sensu percipit,sicut cum per sensibiles proprietates alicuius rei concipio illius reiquidditatem; vel per ea quae ab aliis quis audit, ut cum laicus qui nescitquid sit musica, cum audit aliquam artem esse per quam discit canere velpsallere, concipit quidditatem musicae, cum ipse praesciat quid sit ars, etquid sit canere; aut etiam per ea quae ex revelatione habentur, ut est inhis quae fidei insunt9(227).

L'argomentazione evidenzia la seguente analogia di proporzionalitàpropria: i primi princìpi noti a tutti sono alle conclusioni, nell'ordine dellaseconda operazione della mente, ciò che le prime nozioni, esemplificate con deitrascendentali, sono alle specifiche quiddità delle cose, nell'ordine della primaoperazione della mente. Si aggiunge che procediamo, poi da quest'ultime,illustrate dai princìpi comuni, alla scoperta delle conclusioni.

Esplicitiamo questi due asserti. Nella linea della prima operazione, lequiddità specifiche appariscono come delle concrezioni delle prime nozioni, e,quindi, in primo luogo, della nozione di ente. Così la nozione di <musica> sipuò definire (per un medievale) come <l'arte di cantare o disalmodiare>10(228), combinando quindi una qualità - abito, l'arte, con unaazione, il cantare; ora la qualità e l'azione sono delle categorie. Ne deduciamoche ci saranno tre livelli di nozioni noeticamente posteriori all'ente: itrascendentali, le categorie o predicamenti e la seria dei generi intermedi, lespecie ultime, benché san Tommaso non si fermi, qua, sulle categorie.

Nella linea della seconda operazione, è questa delimitazione dellequiddità specifiche per concrezione dell'ente che rende fecondi i primi princìpifondati sulle nozioni vicine all'ente. Così, applicando un principio comune adun dato specifico espresso nella definizione di una quiddità, si potrà inferiredelle conclusioni nuove. Ma si danno anche princìpi per sé noti sulla base dellequiddità specifiche:

sic dicitur proprie intelligere cum apprehendimus quidditatemrerum, vel cum intelligimus illa quae statim nota sunt intellectui notisrerum quidditatibus, sicut sunt prima principia, quae cognoscimus cumterminos cognoscimus; unde et intellectus habitus principiorumdicitur11(229).

L'uso del termine quidditas suggerisce infatti, questa volta, i princìpi

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propri di una determinata cosa, fondati sulle specie, e non su nozionitrascendentali. Alla luce dei testi che abbiamo appena citati, si sta delineando unparallelismo ancora imperfetto, ma rigoroso fra l'ordine delle nozioni e l'ordinedei princìpi, cioè delle proposizioni per sé note:

nozioni ente trascendentali predicamenti specie ultime

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princìpi principio di non contraddizione princìpi comuni princìpi meno comuni princìpi propri

1.2. Soluzione speculativa del problema

Dobbiamo ora completare il precedente schema, e sopratutto giustificarloteoreticamente. A questo fine, conviene prima determinare, nell'ordine dellaprima operazione della mente, in che cosa consiste l'«addizione» (additio) chesi oppone alla «risoluzione» (resolutio), e in cui consiste il passaggio dall'enteai trascendentali, poi alle categorie12(230). In un secondo momento, sifondamenterà nei diversi gradi di partecipazione all'ente i diversi tipi di primiprincìpi.

1.2.1. I diversi tipi di additio all'ente

La nozione di additio viene spiegata in dettaglio nel De Veritate,nell'articolo in cui san Tommaso si chiede se il bene «aggiunge» qualcosaall'ente:

Dicendum, quod tripliciter potest aliquid super alterum addere.[1] Uno modo quod addat aliquam rem quae sit extra essentiam illius rei

cui dicitur addi; sicut album addit super corpus, quia essentiaalbedinis est praeter essentiam corporis.

[2] Alio modo dicitur aliquid addi super alterum per modum contrahendiet determinandi; sicut homo addit aliquid super animal: non quidemita quod sit in homine alia res quae sit penitus extra essentiamanimalis, alias oporteret dicere, quod non totum quod est homo essetanimal, sed animal esset pars hominis; sed animal per hominemcontrahitur, quia id quod determinate et actualiter continetur inratione hominis, implicite et quasi potentialiter continetur in rationeanimalis. Sicut est de ratione hominis quod habeat animamrationalem, et de ratione animalis est quod habeat animam, nondeterminando ad rationalem vel non rationalem; ista tamendeterminatio ratione cuiuis homo super animal addere dicitur, inaliqua re fundatur.

[3] Tertio modo dicitur aliquid addere super alterum secundum rationem

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tantum; quando scilicet aliquid est de ratione unius quod non est deratione alterius: quod tamen nihil est in rerum natura, sed in rationetantum, sive per illud contrahatur id cui dicitur addi, sive non.Caecum enim addit aliquid supra hominem, scilicet caecitatem, quaenon est aliquod ens in natura, sed rationis tantum, secundum quod estest comprehendens privationes; et per hoc homo contrahitur, nonenim omnis homo caecus est; sed cum dicimus talpam caecam, non fitper hoc additum aliqua contractio.

[1] Non autem potest esse quod super ens universale aliquid addataliquid primo modo, quamvis illo modo posit fieri aliqua additiosuper aliquod ens particulare; nulla enim res naturae est quae sit extraessentiam entis universalis, quamvis aliqua res sit extra essentiamhuius entis.

[2] Secundo autem modo inveniuntur aliqua addere super ens, quia enscontrahitur per decem genera, quorum unumquoque addit aliquidsuper ens; non aliquod accidens, vel aliquam differentiam quae sitextra essentiam entis, sed determinatum modum essendi, qui fundaturin ipsa essentia rei. Sic autem bonum non addit aliquid super ens: cumbonum dividatur aequaliter in decem genera, ut ens, ut patet in IEthicor.: et ideo oportet quod vel nihil addat super ens, vel si addat,quod sit in ratione tantum.

[3] Si enim adderetur aliquid reale, oporteret quod per rationem bonicontraheretur ens ad alilquod speciale genus. Cum autem ens sit idquod primo cadit in conceptione mentis, ut dicit Avicenna, oportetquod omne illud nomen vel sit synonymum enti: quod de bono dicinon potest, cum non nugatorie dicatur ens bonum; vel addat aliquidad minus secundum rationem; et sic oporet quod bonum, ex quo noncontrahit ens, addat aliquid super ens, quod sit rationis tantum. Idautem quod est rationis tantum, non potest esse nisi duplex. Omnisenim positio absoluta aliquid in rerum natura existens significat. Sicergo supra ens, quod est prima conceptio intellectus, unum addit idquod est rationis tantum, scilicet negationem: dicitur enim unum quasiens indivisum. Sed verum et bonum positive dicuntur; unde nonpossunt addere nisi relationem quae sit rationis tantum13(231).

Possiamo tralasciare, al seguito dello stesso Aquinate, l'addizione cheaggiunge una realtà ad un altra [1], giacché nulla si può aggiungere in questomodo all'ente, per la ragione detta: niente può essere fuori dell'essenza dell'enteuniversale14(232). Rimangono due tipi fondamentali di addizione: uno che

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avviene per via di «contrazione e determinazione» (per modum contrahendi etdeterminandi) [2], sul modello della specificazione della nozione di animale inquella di uomo, ed un'altro che avviene invece soltanto «secondo la ragione»(secundum rationem tantum) [3], sul modello della cecità che caratterizza ol'uomo cieco oppure la talpa. Analizziamo successivamente queste duemodalità dell'addizione concettuale, cominciando dall'ultima, perché il suorisultato è il più vicino alla stessa ratio entis.

L'addizione che arrichisce una nozione «solo secondo la ragione» [3] sitrova interamente dalla parte della ragione umana che pensa un oggetto, e nondalla parte di questo oggetto stesso; in altre parole, l'«aggiunta» si fa nelpensiero della realtà, ma non nella realtà stessa (quod tamen nihil est in rerumnatura, sed in ratione tantum). Consideriamo successivamente questi due puntidi vista. Nella cosa pensata, non si dà differenza alcuna fra ciò a cui rimanda ilconcetto originario e ciò a cui rimanda invece il concetto al quale è statoaggiunto una negazione oppure una relazione di ragione15(233). Quindi, perquanto riguarda il significato reale delle due nozioni, l'addizione in causa nonmuta nulla. Così, ad esempio, la realtà dell'ente universale e quella del beneuniversale o del vero universale sono strettamente identiche16(234). Cosìanche la realtà di tale ente particolare e quella del bene particolare costituito datale realtà sono pure strettamente identiche; sebbene infatti ciò che è entesimpliciter sia buono solo secundum quid, e vice-versa, tuttavia tutto ciò che èè buono in proporzione di ciò che è e nella misura in cui è17(235).

Se si considera non più il significato dei diversi trascendentali in re,bensì l'analisi delle loro diverse rationes, allora una nozione differisce dall'altrasecondo l'implicito e l'esplicito, il grado di attualità reale rimanendo però lostesso. Sotto questo punto di vista, la nozione di bene esplicita qualcosa, cioèl'appetibilità, che la nozione di ente contiene, ma non esplicita. Vale a dire chela nozione di bene contiene quella di ente e vi aggiunge quella di ordineall'appetito, mentre la nozione di ente non esprime questo ordine, sebbene locontiene quanto al suo significato reale. Ne va così di tutti itrascendentali18(236), per la chiarificazione dei quali rimandiamo al ben notoprimo articolo del De Veritate.

Avendo spiegato come si passa dall'ente ai trascendentali, sul duplicelivello del significato reale e dell'addizione nozionale, dobbiamo ora esaminarecome, analogicamente, si varca la frontiera che collega l'ente ai predicamenti.Nel testo citato, san Tommaso caratterizza questo passaggio come «contrazione

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e determinazione», e lo esemplifica, nella prima parte del suo respondeo con laspecificazione del genere <animale> in <uomo>. In questi casi, l'addizionedelle sue parti soggettive ad un genere univoco consiste nell'attuazione di ciòche era soltanto in potenza, cosicché la specie possieda determinate et actualiterciò che il genere aveva solo implicite et quasi potentialiter. Perciò, la differenzasi aggiunge al genere come qualcosa che il genere non è, ma al quale esso è inpotenza, come, ad esempio, la razionalità attua il genere <animale> comequalcosa che l'animale non ha, ma può avere; in tal modo, la differenza è sìesteriore al genere, in quanto esso è in sé indeterminato a tale o tale differenza,tuttavia l'addizione non si fa in modo modo totalmente esteriore (non penitusextra essentiam generis), giacché il genere che è indeterminato in rapporto alledifferenze è tuttavia in potenza ad esse19(237). L'addizione della differenzaavviene quindi sul piano nozionale, determinando e delimitando (per modumcontrahendi) il genere; ma, siccome ciò a cui il genere e la specie rimanda nellarealtà non è lo stesso, poiché il genere designa un tutto indeterminato e quindideterminabile, mentre la specie designa un tutto pienamente determinato, laspecificazione del genere per la differenza coinvolge anche il piano della cosa,oltre quello della nozione, in contrasto con quanto succedeva nell'ordine deitrascendentali. Infatti, ad esempio, la nozione di <uomo> non solo esprimequalcosa che <animale> non esprimeva, ma, in più, il significato in re di<uomo> è realmente diverso da quello di <animale>, come un tutto determinatoè diverso da un tutto determinabile: mentre <animale> significa un viventecapace di sentire e di muoversi, senza precisare se questo vivente è razionale ono, la nozione di <uomo>, invece, significa questo vivente sensitivo e mobiledeterminatamente ed esclusivamente come razionale20(238).

La «contrazione» dell'ente nelle dieci categorie presenta somiglianze edissomiglianze con quella del genere univoco nelle sue specie. Il testo chestiamo commentando punta sulle similitudini, che sono due. La più ovvia è chel'addizione per cui si passa dall'ente al predicamento comporta un esplicitazionesul livello della ratio, giacché, ad esempio, la nozione di ente non esprime lostesso delle nozioni di sostanza (predicamentale), di qualità o di relazione: ciòche viene detto soltanto comunemente nella nozione di ente, viene dichiaratoespressamente nelle categorie.

Ma che cosa accade sul livello della res significata? Fra un genereunivoco e la specie immediatamente inferiore, si dà un rapporto di contrazione,per limitazione dell'estensione e arrichimento della comprensione. Nel rapportofra l'ente e la categoria, si dà pure una contrazione per restrizione della

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denotazione: così la nozione di sostanza predicamentale ha una estensioneminore rispetto alla nozione di ente. Per quanto riguarda invece lacomprensione, non si dà nessuna aggiunta che consisterebbe in unadeterminazione dell'ente estranea all'ente, il ché è impossibile:

Sciendum est enim quod ens non potest hoc modo contrahi adaliquid determinatum, sicut genus contrahitur ad species per differentias.Nam differentia, cum non participet genus, est extra essentiam generis.Nihil autem posset esse extra essentiam entis, quod per additionem adens aliquam speciem entis constituat: nam quod est extra ens, nihil, est,et differentia esse non potest21(239).

Di conseguenza l'addizione di una categoria all'ente comune non viaggiunge qualcosa che l'ente comune non avrebbe, ma soltanto esplicita unamodalità che la nozione di ente lascia implicita. La contrazione non comportaquindi, in questo caso, un arrichimento, giacché tutto ciò che la categoriaesprime è già contenuto virtualmente nella nozione di ente. Rimane invece unaesclusione implicita: passando dalla nozione di ente a quelle di sostanza o diqualità, l'intelligenza concentra la sua attenzione su una modalità categorialedell'ente, ed esclude le altre, salvo tuttavia l'ordine degli accidenti allasostanza22(240). Se, infatti, l'ente comprende tutte le categorie, unadeterminata categoria, invece, è limitata a ciò che comprende la suadescrizione. Ne risulta che la seconda somiglianza fra il rapporto del generealla specie e quello dell'ente alla categoria si limita alla restrizione delladenotazione nonché all'esclusione degli altri significati non sostanziali.

Per quanto riguarda invece l'aspetto positivo dell'addizione, sempreconsiderata dalla parte della realtà, i due rapporti sono diversi. In effetti,l'addizione della differenza specifica al genere univoco aggiunge qualcosa allarealtà significata, allorché l'addizione di un predicamento all'ente non gliaggiunge niente che esso non contenga già in modo virtuale23(241). Perciò,l'addizione categoriale all'ente è soltanto, dalla parte del significato realedell'ente universale, un passaggio dall'implicito all'esplicito.

Esemplifichiamo il nostro discorso con il rapporto fra l'ente da un lato, ela sostanza e l'accidente d'altro lato. Ricordiamo le loro descrizioni, in ambitocategoriale:

Substantia est res cuius naturae debetur esse non in alio; Accidensvero est res, cuius naturae debetur esse in alio24(242).

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Sul piano dell'espressione della realtà, in primo luogo, la nozione di entedice soltanto ciò-che-è, senza precisare in quale modo ciò che è ha l'essere; ledue nozioni di sostanza e di accidente, invece, spiegano che ciò che è hal'essere rispettivamente non in un altro, oppure in un altro. Pertanto, queste duenozioni esplicitano, in modo opposto, qualcosa che rimane implicito nellanozione di ente comune: si dà quindi, passando dall'ente alle categorie, unadeterminazione concettuale, in quanto il modo di avere l'essere vieneesplicitato, nonché una contrazione concettuale, in quanto si considera l'uno ol'altro modo di essere ad esclusione degli altri modi non sostanziali. Sul pianodella realtà espressa, in secondo luogo, si limita la denotazione dell'ente ad unodei suoi due modi categoriali fondamentali, e, contemporaneamente, sirestringe parimenti la sua significazione ad un modo all'esclusione degli altrimodi che non siano sostanziali.

Consideriamo ora in modo sintetico i tre passaggi che abbiamo analizzatipartendo dal testo citato.

€€ Per quanto riguarda i trascendentali, il loro significato è totalmenteidentico a quello dell'ente nella linea della realtà significata, la cuiattualità è la stessa; al contempo, invece, la nozione stessa (ratio) diquesti trascendentali aggiunge qualcosa «di ragione», negazione orelazione, alla nozione di ente, che quest'ultima contiene ma nonesprime25(243). Il passaggio dall'ente ai trascendentali non comportaquindi alcuna attuazione o determinazione reale, ma soltanto undispiegamento nozionale di ciò che è presente, ma, per così dire,ripiegato.

€€ Per quanto riguarda, poi, i predicamenti, il loro significato limita l'ente,nella linea della realtà significata, ad un certo modo di essere,all'esclusione degli altri modi (non sostanziali); al contempo, tuttavia, lanozione stessa (ratio) dei predicamenti non aggiunge nulla di reale allanozione di ente comune che non sarebbe incluso in questa stessanozione, ma la determina e la restringe (contrahit) ad una certa modalitàche la nozione di ente non esprime26(244). Il passaggio dall'ente allecategorie non implica una attuazione nella realtà per un principioattuante che fosse estraneo allo stesso ente, ma solo una determinazionenella mente per esplicitazione di un modo di essere implicito nellanozione di ente e per la contemporanea esclusione degli altri modi nonsotanziali.

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€€ Per quanto riguarda, finalmente, la differenziazione delle categorie, illoro significato reale si ottiene per l'addizione di una differenza specificaad un genere. In questa operazione, la differenza che viene aggiunta nonè totalmente estranea al genere al quale viene aggiunta, giacché si dà unrapporto di atto a potenza fra la prima ed il secondo; tuttavia, l'addizioneè reale, e quindi non di pura ragione, perché né il genere contiene ladifferenza (se non potenzialmente), né la differenza partecipa(attualmente) al genere. Questa alterità della differenza rispetto al generesi ritrova sul piano nozionale, poiché la differenza è intelligibile senza ilgenere che essa deve attuare, mentre il genere è pure intelligibile senzal'attuazione ulteriore che le dà la differenza27(245).

Giunti a questo punto, abbiamo ora abbozzato una topologia dell'esseresu tre piani: l'ente stesso ed i suoi trascendentali, i predicamenti, le suddivisionidei predicamenti per generi e differenze. Per completare il quadro, dobbiamoaggiungergli la divisione per cui l'ente reale si divide per se in ente in atto ed inente in potenza. Infatti, giacché san Tommaso, commentando Aristotele, viscorge una analisi dell'ente complementare a quella categoriale28(246). Aquesto proposito, ci dobbiamo logicamente chiedere quale tipo di «addizione»consente di passare dalla nozione di ente a quelle di atto e di potenza.

Per risolvere questa domanda, ricordiamo, in modo previo, i due assiattorno ai quali si costruisce tutta la metafisica dell'atto e della potenza. Inprimo luogo, si terrà presente che non si può definire l'atto, ma soltantocoglierne induttivamente la ratio attraverso alcune coppie di atto e di potenza:

Actus autem est de primis simplicibus; unde definiri non potest. Sed per proportionem aliquorum duorum adinvicem, potest videriquid est actus. Ut si accipiamus proportionem aedificantis adaedificabile, et vigilantis ad dormientem, et eius qui videt ad eum quihabet clausos oculos cum habeat potentiam visivam, et eius «quodsegregatur a materia», idest per operationem artis vel naturae formatur, etita a materia informi segregatur; et similiter per separationem eius quodest praeparatum, ad illud qoud non est praeparatum, sive quod estelaboratum ad id quod non est elaboratum. Sed quorumlibet sicdifferentium altera pars erit actus, et altera potentia. Et itaproportionaliter ex particularibus exemplis possumus venire adcognoscendum quid sit actus et potentia29(247).

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Non possiamo quindi dedurre che cosa sono l'atto e la potenza a partiredalla ratio entis, ma li dobbiamo scoprire nelle cose. Una volta compiuta questainduzione, appare poi, in secondo luogo, che, mentre l'atto è del tuttoindefinibile, la potenza viene colta a partire dall'atto, giacché essa gli èontologicamente e noeticamente posteriore:

Id per quod oportet alterum definiri, est prius eo ratione; sicutanimal prius homine, et subiectum accidente. Sed potentia non potestdefiniri nisi per actum. Nam prima ratio possibilis in hoc consistit, quodconvenit ipsum agere vel esse in actu; sicut aedificator dicitur qui potestaedificare, et speculator qui potest speculari, et visibile dicitur alquidquod potest videri, et sic est in aliis. Ergo est necessarium, quod ratioactus praecedat rationem potentiae, et notitia actus notiam potentiae. Etpropter hoc superius Aristoteles manifestavit potentiam definiendo peractum; actum autem non potuit per aliquod aliud definire, sed soluminductive manifestavit30(248).

Così l'adagio secondo cui potentia dicitur ad actum trova la sua pienagiustificazione.

Descrittivamente, possiamo ora porre che l'ente in atto è l'ente cheesercita l'essere che gli spetta, mentre l'ente in potenza è l'ente che puòesercitare, ma non esercita tale essere. Con essere, si intende comunque unaattualità, o sostanziale, o accidentale. Ad esempio, l'uomo vivente è un ente inatto primo, perché l'atto di essere proporzionato alla quiddità di uomo attuaquest'ultima; l'uomo contempla un principio metafisico è un ente in attosecondo, perché un atto di intellezione specificato da tale principio metafisicoattua il suo intelletto attraverso lo habitus di metafisica. A rovescio, il seme(che è seme in atto) è un uomo vivente in potenza, perché un uomo può esseregenerato da esso; parimenti, l'uomo che possiede già lo habitus di metafisica (ilquale è un ente in atto) ha la potenza prossima di contemplare le conclusionidella metafisica, perché il suo intelletto è ordinato in modo prossimo a tale attointellettivo.

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Endnotes1 (Popup - Popup) Cf. Giovanni REALE, Storia della filosofia antica, I Dalle origini a Socrate, Milano, 1989, pp. 32-36;

ARISTOTELE, Met., A, cap. 3 a 6.

2 (Popup - Popup) Oltre all'opera ben nota di Giovanni REALE, Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura dellametafisica dei grandi dialoghi alla luce delle «Dottrine non scritte», Milano, 1991, si veda l'esposizione moltoprecisa di Marie-Dominique RICHARD, L'enseignement oral de Platon, Paris, 1986, dove vengono raccolte,

nell'originale greco accompagnato dalla traduzione francese, tutte le testimonianze indirette sull'argomento.

3 (Popup - Popup) Cf. il celebre passo di Phys. A, 1, 184 a 16-21: «Ora, il cammino naturale fa andare dalle cose le più conoscibilie le più chiare per noi a quelle che sono più chiare e più conoscibili in sé; giacché non sono le stesse cose chesono conoscibili per noi ed assolutamente (a)plw=j). Perciò bisogna procedere così: partire dalle cose meno

chiare in sé, più chiare per noi, per andare alle cose più chiare in sé e più conoscibili».

4 (Popup - Popup) La parola «principio» (a)rxh/) possiede quindi per Aristotele diversi significati, che egli ragruppò nellaMetafisica in tre grandi classi; cf. D, 1, 1013 a 17-19: «Dunque, carattere comune a tutti i significati di principioè di essere il primo termine a partire dal quale una cosa o è o è generata o è conosciuta». Si veda tutto il capitolo

1 del libro D.

5 (Popup - Popup) Anal. Post. A, 2, 72 a 7-24.

6 (Popup - Popup) Anal. Post. A, 10, 76 b 27-34.

7 (Popup - Popup) PL 64, 1311 B.

8 (Popup - Popup) Cf. Posteriorum Analyticorum Aristotelis Libri Duo, in PL 64, 711-762. Si noterà uno sbaglio typograficonell'edizione di Migne: ciò che costituisce in realtà la traduzione del libro secondo dei Secondi Analitici, viene

falsamente intestato come Priorum Analyticorum Aristotelis Interpretatio.

9 (Popup - Popup) Le traduzioni letterali di Aristotele sono le migliori, perché le più adeguate ad un linguaggio tecnico molto

preciso nonostante la sua apparente negligenza.

10 (Popup - Popup) Ecco la traduzione di Boezio. 1. Anal. Post. A, 2, 72 a 7-24 in PL 64, 714 C-D: «Est autem principium demonstrationis propositio immediata.Immediata autem est qua non est alia prior. Propositio autem est enuntiationis altera pars, unum de uno.Dialectica quidem est similiter accipiens quamlibet. Demonstrativa autem determinatae alterum quoniam verumest. Enuntiatio autem contradictionis quaelibet pars. Contradictio autem est oppositio cujus non est mediumsecundum se. Pars autem contradictionis, quae quidem aliquid de aliquo est, affirmatio est. Quae vero est aliquidab aliquo, negatio est. Immediati autem principii syllogistici, positionem quidem dico, quam non est monstrare,nec necesse est habere docendum aliquid. Quam vero necesse est habere quemlibet docendum, dignitatem. Suntenim quaedam hujusmodi, hoc enim maxime in hujuscemodi consuevimus nomen dicere. Positionis autem, quaequidem est quamlibet partium enuntiationis accipiens, ut dico aliquid esse, aut non esse, suppositio est. Quaevero sine hoc, definitio est, definitio enim positio quaedam est. Ponit enim arithmeticus unitatem, indivisibileesse secundum quantitatem, suppositio autem non est, id enim quod quid est unitas, et esse unitatem, non idemest».2. Anal. Post. A, 10, 76 b 27-34 in PL 64, 722 D: «Quaecunque ergo quidem demonstrabilia esse accipit ipsenon demonstrans, haec si quidem quae videntur accipiat, dicenti suppositio, et non est simpliciter suppositio, sedillum solum, si vero neque unius opinionis, aut contraria est, accipiat, idem petit. Et in hoc differt suppositio, et

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petitio, est enim petitio in contrarium discentis opinioni, aut quodcunque aliquis demonstrabile cum sit, accipiat,et utatur non demonstrans. Termini igitur non sunt suppositiones, nihil enim esse aut non esse dicunt, sed in

propositionibus sunt suppositiones»

11 (Popup - Popup) I-II, 62, 3, c.

12 (Popup - Popup) Giova ricordare qui laconicamente, con EPA 2, lect. 1, n. 414 [8], che «scire est causam rei cognoscere».

13 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 44, n. 405 [11].

14 (Popup - Popup) Cf. CG 2, 55, n. 1299: «Quod per se alicui competit, de necessitate et semper et inseparabiliter ei inest».

15 (Popup - Popup) Cf. Sn 3, 11, 4, 6m: «ad veritatem propositionis sufficit quod praedicatum conveniat subiecto quocumque modo.Sed ad hoc quod propositio sit per se, oportet quod conveniat sibi ratione formae importatae per subiectum»;QDP 8, 2, 6m: «Per se autem praedicatur aliquid de aliquo, quod praedicatur de eo secundum propriam

rationem».

16 (Popup - Popup) I-II, 57, 2, c. Una buona divisione sintetica dei cinque generi di virtù intellettuali si trova in QDVC 12, c:«Cognitio autem veri non est respectu omnium unius rationis. Alia enim ratione cognoscitur verum necessarium,et verum contingens: et iterum verum necessarium alia ratione cognoscitur si sit per se notum, sicut intellectucognoscuntur prima principia; alia ratione si fiat notum ex alio, sicut fiunt notae conclusiones per scientiam velsapientiam circa altissima: in quibus etiam est alia ratio cognoscendi, eo quod ex hac homo dirigitur in aliiscognoscendis. Et similiter circa contingentia operabilia non est eadem ratio cognoscendi ea quae sunt in nobis,quae dicuntur agibilia, ut sunt operationes nostrae, circa quas frequenter contingit errare, propter aliquampassionem; quarum est prudentia: et ea quae sunt extra nos a nobis factibilia, in quibus dirigit ars aliqua; quorum

rectam aestimationem passiones animae non corrumpunt».

17 (Popup - Popup) CG, 2, 83, n. 1678.

18 (Popup - Popup) Cf. la celebre formula di QDV 1, 1, c: «Illud autem quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quodomnes conceptiones resolvit, est ens, ut Avicenna dicit in principio Metaphysicae suae»; oppure I-II, 55, 4, 1m:«id quod primo cadit in intellectu, est ens: unde unicuique apprehenso a nobis attribuismus quod sit ens». Per ladipendenza dei primi princìpi rispetto alla nozione di ente, cf. Sn 1, 8, 1, 3, c: «Primum enim quod cadit inimaginatione intellectus, est ens, sine quod nihil potest apprehendi ab intellectu; sicut primum quod cadit in

credulitate intellectus, sunt dignitates, et praecipue ista, contradictoria non esse simul vera».

19 (Popup - Popup) QDV 11, 1, c.

20 (Popup - Popup) Cf. SM 4, lect. 6, n. 605: «Ad huius autem evidentiam sciendum est, quod, cum duplex sit operatio intellectus:una, qua cognoscit quod quid est, quae vocatur indivisibilium intelligentia: alia, qua componit et dividit: inutroque est aliquod primum: in prima quidem operatione est aliquod primum, quod cadit in conceptioneintellectus, scilicet hoc quod dico ens; nec aliquid hac operatione potest mente concipi, nisi intelligatur ens. Etquia hoc principium, impossibile est esse et non esse simul, dependet ex intellectu entis, sicut hoc principium,omne totum est maius sua parte, ex intellectu totius et partis: ideo hoc etiam principium est naturaliter primum in

secunda operatione intellectus, scilicet componentis et dividentis».

21 (Popup - Popup) QDV 16, 2, c.

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22 (Popup - Popup) I, 79, 8, c. Stessa dottrina in Sn 3, 35, 1, 2, sol. 2, c: «Inquisitio autem rationis sicut a simplici intuitu intellectusprogreditur, quia ex principiis quae quis intellectu tenet ad inquisitionem procedit, ita etiam ad intellectus

certitudinem terminatur, dum conclusiones inventae in principia resolvuntur, in quibus certitudinem habent».

23 (Popup - Popup) QDSC 9, 7m; cf. QDV 11, 1, c: «Processus autem rationis pervenientis ad cognitionem ignoti in inveniendo estut principia communia per se nota applicet ad determinatas materias, et inde procedat in aliquas particularesconlusiones, et ex his in alias»; Qdl 8, 2, 2, c: «Insunt enim nobis naturaliter quaedam principia prima complexaomnibus nota, ex quibus ratio procedit ad cognoscendum in actu conclusiones quae in praedictis principiispotentialiter continentur, sive per inventionem propriam, sive per doctrinam alienam, sive per revelationemdivinam; in quibus omnibus modis cognoscendis homo iuvatur ex principiis naturaliter cognitis: vel ita quod ipsaprincipia cognita ad cognitionem acquirendam sufficiant adminiculantibus sensu et imaginatione, sicut cumaliquam cognitionem acquirimus per inventionem vel doctrinam; vel ita quod principia praedicta ad cognitionemacquirendam non sufficiant: nihilominus tamen in huiusmodi cognoscendis principia dirigunt, in quantuminveniuntur non repugnare principiis naturaliter cognitis: quod si esset, intellectus nullo modo eis assentiret, sicut

non potest dissentire principiis».

24 (Popup - Popup) Cf. Met. B, 1, 995 a 24 - b 4, ed in particolare a 27-31: «Ora, per chi vuol risolvere bene un problema, è utilecogliere adeguatamente le difficoltà che esso comporta: la buona soluzione finale, infatti, è lo scioglimento delledifficoltà precedentemente accertate. Non è possibile che sciolga un nodo colui che lo ignora; e la difficoltà cheil pensiero incontra, manifesta le difficoltà che sono nelle cose». San Tommaso commenta in SM 3, lect. 1, n.339: «posterior investigatio veritatis, nihil aliud est quam solutio prius dubitatorum»; n. 340: «illi qui voluntinquirere veritatem non considerando prius dubitationem, assimilantur illis qui nesciunt quo vadant. Et hoc ideo,quia sicut terminus viae est illud quod intenditur ab ambulante, ita exclusio dubitationis est finis qui intenditur ab

inquirente veritatem».

25 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 4, n. 43 [16]: «in generatione scientiae nostrae prius est cognoscere magis commune quamminus commune»; SA 1, lect. 1, n. 1: «in quolibet genere rerum necesse est prius considerare communia et

seorsum, et postea propria unicuique illius generis».

26 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 4, n. 41 [14]: «Detur ergo quod aliquis demonstrator syllogizet ex demonstrabilibus, sivemediatis: aut ergo habet illorum demonstrationem, aut non habet: si non habet, ergo non scit praemissa, et ita necconlusionem propter praemissa; si autem habet, cum in demonstrationibus non sit abire in infinitum, ut infraostendet, tandem erit devenire al aliqua immediata et indemonstrabilia. Et sic oportet quod demonstratio ex

immediatis procedat, vel statim, vel per aliqua media».

27 (Popup - Popup) QDV 1, 4, 5m. Questa dottrina si trova anche nelle opere più tardive; cf. ad esempio I, 16, 6, 1m: «anima nonsecundum quamcumque veritatem iudicat de rebus omnibus; sed secundum veritatem primam, inquantumresultat in ea sicut in speculo, secundum prima intelligibilia»; QDSC 10, 9m: «regulae illae quas impiiconspiciunt, sunt prima principia in agendis, quae conspiciuntur per lumen intellectus agentis a Deo participati,sicut etiam prima principia scientiarum speculativarum»; Comp. theol. I, 129, n. 258: «Deus autem adintelligendum hominem iuvat non solum ex parte obiecti, quod homini proponitur a Deo vel per additionemluminis, sed etiam per hoc quod lumen naturale hominis, quo intellectualis est, a Deo est, et per hoc etiam quodcum ipse sit veritas prima, a qua omnis alia veritas certitudinem habet, sicut secundae propositiones a primis inscientiis demonstrativis, nihil intellectui certum fieri potest nisi virtute divina, sicut nec conclusiones fiunt certae

in scientiis nisi secundum virtutem primorum principiorum».

28 (Popup - Popup) Cf. SM 3, lect. 2, n. 346: «prius oportet quaerere modum scientiae, quam ipsam scientiam».

29 (Popup - Popup) Il latino subiectum o, più precisamente genus subiectum, traduce il greco €€€o€, termine con il quale Aristotele

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designa l'oggetto di una scienza, vg. in An. Post. A, 28, 87 a 38: «M€€ €' €€€€€€€€ €€€€€ € €€€€ €€€o€€».Ricordiamo le tre condizioni che, secondo san Tommaso in Sn 1, prol., 4, c, caratterizzano il subiectum di unadisciplina: «Respondeo, quod subjectum habet ad scientiam ad minus tres comparationes. Prima est, quodquaecumque sunt in scientia debent contineri sub subjecto. [...] Secunda comparatio est, quod subjecti cognitioprincipaliter intenditur in scientia. [...] Tertia comparatio est, quod per subjectum distinguitur scientia abomnibus aliis; quia secantur scientiae quemadmodum et res, ut dicitur in III De anima». Ora vogliamo qui,infatti: 1. esplorare l'insieme dei predicati che qualificano necessariamente lo habitus principiorum; 2. esplicitarecon ciò le cause costitutive dell'abito in causa. 3. Pertanto, la nostra indagine si trova specificamente distinta da

ogni altra.

30 (Popup - Popup) SM 4, lect. 5, n. 588.

31 (Popup - Popup) Ibid., n. 590. Lo stesso argomento si riscontra in EPA 1, lect. 17, n. 146 [4]: «Illa enim priora principia, perquae possent probari singularum scientiarum propria principia, sunt communia principia omnium, et illa scientia,quae considerat huiusmodi principia communia, est propria omnibus, idest ita se habet ad ea, quae suntcommunia omnibus, sicut se habent aliae scientiae particulares ad ea quae sunt propria. Sicut cum subiectumarthmeticae sit numerus, ideo arithmetica considerat ea, quae sunt propria numeri: similiter prima philosophia,quae considerat omnia principia, habet pro subiecto ens, quod est commune ad omnia; et ideo considerat ea,

quae sunt propria entis, quae sunt omnibus communia, tanquam propria sibi». Cf. anche SE 6, lect. 5, n. 1181.

32 (Popup - Popup) I-II, 57, 2, 1m. Cf. pure SE 6, lect. 5, n. 1182: «quia sapientia est certissima, principia autem demonstrationumsunt certiora conclusionibus, oportet quod sapiens non solum sciat ea quae ex principiis demonstrationumconcluduntur circa ea de quibus considerat; sed etiam quod verum dicat circa ipsa principia prima: non quidemquod demonstret ea: sed inquantum ad sapientes pertinet notificare communia, puta totum et partem, aequale etinaequale, et alia huiusmodi, quibus cognitis principia demonstrationum innotescunt. Unde et ad huiusmodi

sapientem pertinet disputare contra negantes principia, ut patet in quarto Metaphysicae».

33 (Popup - Popup) I-II, 57, 2, 2m.

34 (Popup - Popup) Il riferimento alla scientia de intellectu si trova in SM 6, lect. 4, n. 1242. Per quanto concerne l'appartenenza ditale scienza alla metafisica, si veda questa dichiarazione molto esplicita della Sentencia Libri De sensu etsensato, lect. 1, n. 4: «intellectus quidem nullius partis corporis actus est, ut probatur tertio de Anima: unde nonpotest considerari per concretionem, vel applicationem ad corpus vel ad aliquod organum corporeum. Maximaautem concretio eius est in anima: summa autem eius abstractio est in substantiis separatis. Et ideo praeterlibrum de Anima Aristoteles non fecit librum de intellectu et intelligibili: vel si fecisset, non pertineret ad

scientiam Naturalem, sed magis ad metaphysicam, cuius est considerare de substantiis separatis».

35 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. EPA 1, lect. 20, n. 171 [5]: «Et quia circa omnia quae in rebus sunt habet negotiari ratio,logica autem est de operationibus rationis; logica etiam erit de his, quae communia sunt omnibus, idest deintentionibus rationis, quae ad omnes res se habent. Non autem ita, quod logica sit de ipsis rebus communibus,sicut de subiectis. Considerat enim logica, sicut subiecta, syllogismum, enunciationem, praedicatum, aut aliquid

huiusmodi».

36 (Popup - Popup) Il lettore troverà una storia molto erudita dei primi princìpi nel libro di Luca F. TUNINETTI, 'Per se notum'.Die logische Beschaffenheit des Selbstverständlichen im Denken des Thomas von Aquin, Leiden - New York -Köln, 1966. Questo volume molto utile non toglie la pertinenza di quanto afferma l'Angelico nella Sententiasuper librum De caelo et mundo 1, lect. 22, n. 228 [8]: «studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quidhomines senserint sed qualiter se habeat veritas rerum». Ci sia consentito di aggiungere anche questo brano dellaQDV 9, 6, c: «quandoque contingit aliqua nobis manifestari per locutionem, ex quibus intellectus nullo modo ad

intelligendum magis roboratur; sicut cum recitantur mihil aliquae historiae».

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37 (Popup - Popup) An. €, 5, 430 a 10-17.

38 (Popup - Popup) 430 a 14-15. Guglielmo di MOERBEKE tradusse così: «Et est intellectus hic quidem talis in omnia fieri, ille

vero in omnia facere, sicut habitus quidam, et sicut lumen».

39 (Popup - Popup) Su questo argomento, vedasi per un primo approccio Giovanni REALE, Storia della filosofia antica, vol. IV, Lescuole dell'età imperiale, Milano, 1989, pp. 43-48. Il testo di Alessandro si trova nel SupplementumAristotelicum, editum consilio et auctoritate Academiae Litterarum Regiae Borussicae, vol. II, Parte 1:Alexandri Aphrodisiensis praeter commentaria scripta minora: De anima cum mantissa, ed. I. Bruns, Berlin,

1887, rist. 1961, pp. 106-113.

40 (Popup - Popup) Cf. G. THÉRY O.P., Autour du décret de 1210 : II. - Alexandre d'Aphrodise. Aperçu sur l'influence de sa

noétique, [Bibliothèque Thomiste, 7], Le Saulchoir, Kain, 1926, pp. 69-74.

41 (Popup - Popup) Étienne GILSON, Les sources gréco-arabes de l'augustinisme avicennisant, [Vrin - Reprise], Paris, 1986, p.

11.

42 (Popup - Popup) SA 3, lect. 10, nn. 728-729.

43 (Popup - Popup) CG 2, 78, n. 1590.

44 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 2, n. 15 [3].

45 (Popup - Popup) QDA 12, c.

46 (Popup - Popup) I-II, 49, 1, c.

47 (Popup - Popup) QDA 12, c. Sullo stesso argomento, vedasi I, 77, 1, c; 54, 3, c; Qdl 10, 3, 1, c; Sn 1, 3, 4, 2, c; QDSC 11, c.

48 (Popup - Popup) Vale la pena, a questo proposito, riportare le considerazioni di san Tommaso in QDSC 11, c, in fine:«Relinquitur ergo quod potentiae animae non sunt ipsa eius essentia. Quod quidam concedentes dicunt quod necetiam sunt animae accidens; sed sunt eius proprietates essentiales, seu naturales. Quae quidem opinio uno modointellecta, potest sustineri; alio vero modo est impossibilis.

Ad cuius evidentiam considerandum est, quod accidens a philosophisdupliciter accipitur. Uno modo, secundum quod condividitur substantiae, etcontinet sub se novem rerum genera. Sic autem accipiendo accidens, positio estimpossibilis. Non enim inter substantiam et accidens potest esse aliquidmedium, cum substantia et accidens dividant ens per affirmationem etnegationem; cum proprium substantiae sit non esse in subiecto, accidentis verosit in subiecto esse. Unde, si potentiae animae non sunt ipsa essentia animae (etmanifestum est quod non sunt aliae substantiae), sequitur quod sint accidentiain aliquo novem generum contenta. Sunt enim in secunda specie qualitatis,quae dicitur potentia vel impotentia naturalis.

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Alio modo accipitur accidens, secundum quod ponitur ab Aristoteleunum de quatuor praedicabilibus in I Topicorum, et secundum quod aPorphyrio ponitur unum quinque universalium. Sic enim accidens nonsignificat id quod commune est novem generibus, sed habitudinemaccidentalem praedicati ad subiectum, vel communis ad ea quae sub communicontinentur. Si enim haec esset eadem acceptio cum prima, cum accidens sicacceptum dividatur contra genus et speciem, sequetur quod nihil quod sit innovem generibus poset dici vel genus vel species; quod patet esse falsum, cumcolor sit gunus albedinis, et numerus binarii. Sic igitur accipiendo accidens, estaliquid medium inter substantiam et accidens, id est inter substantialepraedicatum et acidentale; et hoc est proprium. Quod quidem convenit cumsubstantiali praedicato, in quantum causatur ex principiis essentialibus speciei;et ideo per definitionem significantem essentiam demonstratur proprietas desubiecto. Cum accidentali vero praedicato convenit in hoc quod nec est essentiarei, nec pars essentiae, sed aliquid praeter ipsam. Differt autem ab accidentalipraedicato, quia accidentale praedicatum non causatur ex principiisessentialibus speciei, sed accidit individuo sicut proprium speciei; quandoquetamen separabiliter, quandoque inseprarbiliter. Sic igitur potentiae animae suntmedium inter essentiam animae et accidens, quasi proprietates naturales velessentiales, idest essentiam animae naturaliter consequentes».49 (Popup - Popup) Sn 3, 23, 1, 1, c, n. 17.

50 (Popup - Popup) Loc. cit., nn. 18-19.

51 (Popup - Popup) Questo punto è spiegato bene in SA 2, lect. 6, n. 307: «Sed sciendum est, quod ex obiectis diversis nondiversificantur actus et potentiae animae, nisi quando fuerit differentia obiectorum inquantum sunt obiecta, id estsecundum rationem formalem obiecti, sicut visibile ab audibili. Si autem servetur eadem ratio obiecti,quaecumque alia diversitas non inducit diversitatem actuum secundum speciem et potentiae. Eiusdem enimpotentiae est videre hominem coloratum et lapidem coloratum: quia haec diversitas per accidens se habet in

obiecto inquantum est obiectum». Cf. anche I, 77, 3, c; QDA 13, c.

52 (Popup - Popup) Sn 3, 23, 1, 1, c, n. 21.

53 (Popup - Popup) Loc. cit., nn. 22-26. Per uno studio dettagliato del soggetto degli habitus, cf. I-II, 50. Nella QDVC 1, c, si arrivaallo stesso risultato tramite la divisione delle tre potenze in tre gruppi: «Secundum autem diversam conditionempotentiarum, diversus est modus complexionis ipsius. Est enim aliqua potentia tantum agens; aliqua tantum actavel mota; alia vero agens et acta». Quindi:€€ Le potenze puramente attive non richiedono abiti: «Potentia igitur quae est tantum agens, non indiget,ad hoc quod sit principium actus, aliquo inducto; unde virtus talis potentiae nihil est aliud quam ipsa potentia.Talis autem potentia est divina, intellectus agens, et potentiae naturales; unde harum potentiarum virtutes nonsunt aliqui habitus, sed ipsae potentiae in seipsis completae».€€ Le potenze puramente passive sono nella stessa situazione, ma per una ragione opposta, in quanto nonpossono ritenere in séo nessun principio perfettivo, che rimane quindi loro estrinseco: «Illae vero potentiae sunt

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tantum actae quae non agunt nisi ab aliis motae; nec est in eis agere vel non agere, sed secundum impetumvirtutis moventis agunt; et tales sunt vires sensitivae secundum se consideratae; unde in III Ethic. dicitur, quodsensus nullius actus est principium: et hae potentiae perficiuntur ad suos actus per aliquid superinductum; quodtamen non inest eis sicut aliqua forma manens in subiecto, sed solum modum passionis, sicut species in pupilla.Unde nec harum potentiarum virtutes sunt habitus, sed magis ipsae potentiae, secundum quod sunt actu passae asuis activis».€€ Pertanto, solo le potenze parzialmente attive e parzialmente mosse vengono perfezionate da abiti:«Potentiae vero illae sunt agentes et actae quae ita moventur a suis activis, quod tamen per eas nondeterminantur ad unum; sed in eis est agere, sicut vires aliquo modo rationales; et hae potentiae complentur adagendum per aliquid superinductum, quod non est in eis per modum passionis tantum, sed per modum formaequiescentis, et manentis in subiecto; ita tamen quod per eas non de necessitate potentia ad unum cogatur; quia sicpotentia non esset domina sui actus. Harum potentiarum virtutes non sunt ipsae potentiae; neque passiones, sicutest in sensitivis potentiis; neque qualitates de necessitate agentes, sicut sunt qualitates rerum naturalium; sed sunthabitus, secundum quos potest quis agere cum voluerit ut dicit Commentator in III de Anima. Et Augustinus in

lib. de Bono Coniugali dicit, quod habitus est quo quis agit, cum tempus affuerit».

54 (Popup - Popup) I-II, 49, 2, c.

55 (Popup - Popup) Cf. Cat. 8, 8 b 25 - 11 a 38.

56 (Popup - Popup) I-II, 49, 2, c.

57 (Popup - Popup) Su questa distinzione, cf. I-II, 49, 3, c. Citiamo la fine di questo respondeo: «Sed sunt habitus qui etiam ex partesubiecti in quo sunt, primo et principaliter important ordinem ad actum. Quia, ut dictum est, habitus primo et perse importat habitudinem ad naturam rei. Si igitur natura rei in qua est habitus, consistat in ipso ordine ad actum,sequitur quod habitus principaliter importet ordinem ad actum. Manifestum est autem quod natura et ratiopotentiae est ut sit principium actus. Unde omnis habitus qui est alicuius potentiae ut subiecti, principaliter

importat ordinem ad actum».

58 (Popup - Popup) Cf. II-II, 8, 1, c: «nomen intellectus quandam intimam cognitionem importat: dicitur enim intelligere quasi intuslegere. Et hoc manifeste patet considerantibus differentiam intellectus et sensus: nam cognitio sensitivaaccupatur circa qualitates sensibiles exteriores; cognitio autem intellectiva penetrat usque ad essentiam rei,obiectum enim intellectus est quod quid est, ut dicitur in III De anima». I filologi ricollegano invece intel-legerea inter-legere, cioè cogliere con la mente fra diverse cose, e quindi capire, conoscere, discernere. Cf. F.

MARTIN, Les mots latins groupés par familles étymologiques, Paris, 1976, p. 129.

59 (Popup - Popup) Su questo punto, si veda in SA 3, lect. 8, come l'Aquinate commenta l'induzione per la quale Aristotele arriva a

questa tesi.

60 (Popup - Popup) ARISTOTELE, An. €, 4, 429 a 13-15. Guglielmo di Moerbeke tradusse così: «Si igitur est intelligere sicut

sentire, aut pati quoddam erit ab intelligibili, aut aliquid huiusmodi alterum».

61 (Popup - Popup) SA 3, lect. 9, n. 722. Cf. I, 54, 4, c: «necessitas ponendi intellectum possibilem in nobis, fuit propter hoc, quodnos invenimur quandoque intelligentes in potentia et non in actu»; CTh 1, cap. 80, n. 140: «infima verointellectualium substantiarum, per quam homo intelligit, est quasi in potentia tantum in esse intelligibili. Huicenim attestatur quod homo invenitur a principio potentia tantum intelligens, et postmodum paulatim reducitur inactum; et inde est quod id per quod homo intelligit, vocatur intellectus possibilis»; QDSC 9, c: «Similiter cuminveniamur quandoque intelligentes in actu, quandoque in potentia, necesse est ponere aliquam virtutem perquam simus intelligentes in potentia, quae quidem in sua essentia et natura non habet aliquam de naturis rerum

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sensibilium, quas intelligere possumus, et propter hoc vocatur possibilis intellectus».

62 (Popup - Popup) I, 79, 3, c. Cf. I, 54, 4, c: «Necessitas autem ponendi intellectum agentem fuit, quia naturae rerum materialium,quas nos intelligimus, non subsistunt extra animam immateriales et intelligibiles in actu, sed sunt solumintelligibiles in potentia, extra animam existentes: et ideo oportuit esse aliquam virtutem, quae faceret illasnaturas intelligibiles actu. Et haec virtus dicitur intellectus agens in nobis»; QDSC 9, c: «Sed quia Aristotelesposuit ea [gli universalia] non subsistere nisi in sensibilibus, quae non sunt intelligibilia in actu, necesse habuitponere aliquam virtutem quae faceret intelligibilia in potentia esse intelligibilia actu, abstrahendo species reruma materia et conditionibus individuantibus; et haec virtus vocatur intellectus agens». La stessa argomentazioneviene esposta in modo più dettagliato in QDA 4, c; mentre san Tommaso descrive in CG 2, 77, nn. 1581-1584, il

modo in cui il fantasma sensibile e la luce intellettuale determinano a vicenda l'intellezione.

63 (Popup - Popup) Cf. I, 79, 7, c: «Diversificatur tamen potentia intellectus agentis, et intellectus possibilis: quia respectu eiusdemobiecti, aliud principium oportet esse potentiam activam, quae facit obiectum esse in actu; et aliud potentiampassivam, quae movetur ab obiecto in actu existente. Et sic potentia activa comparatur ad suum obiectum, ut ensactu ad ens in potentia: potentia autem passiva compararatur ad suum obiectum e converso, ut ens in potentia ad

ens in actu». Vedasi pure SA 3, lect. 10, n. 728.

64 (Popup - Popup) CTh 1, 83, n. 145. Cf. I, 79, 10, c: «Invenitur enim talis divisio etiam a philosophis. Quandoque enim ponuntquatuor intellectus: scilicet intellectum agentem, possibilem, et in habitu, et adeptum. Quorum quatuorintellectus agens et possibilis sunt diversae; sicut et in omnibus est alia potentia activa, et alia passiva. Alia verotria distinguuntur secudum tres status intellectus possibilis: qui quandoque est in potentia tantum, et sic diciturpossibilis; quandoque autem in actu primo, qui est scientia, et sic dicitur intellectus in habitu; quandoque autem

in actu secundo, qui est considerare, et sic dicitur intellectus in actu, sive intellectus adeptus».

65 (Popup - Popup) CG 2, 78, n. 1591. Secondo il P. Jean-Pierre TORREL O.P., nella sua Initiation à saint Thomas d'Aquin,Paris-Fribourg, 1993, pp. 148-153 e 486, possiamo situare la redazione del secondo libro della Summa contra

Gentiles in Italia, fra il 1261 ed il 1263.

66 (Popup - Popup) SA 3, lect. 10, n. 729. Secondo lo stesso autore, in op. cit., pp. 249-253 e 498, la Sentencia Libri De anima

risale al soggiorno romano di san Tommaso, e fu scritto fra la fine del 1267 e l'estate del 1268.

67 (Popup - Popup) An. €, 5, 430 a 15.

68 (Popup - Popup) Si legge, ad esempio, in I-II, 63, 1, c: «... virtus est quodammodo naturalis secundum quandam inchoationem.Secundum quidem naturam speciei, inquantum in ratione homini insunt naturaliter quaedam principia naturaliter

cognita tam scibilium quam agendorum, quae sunt quaedam seminalia intellectualium virtutum et moralium».

69 (Popup - Popup) SE 6, lect. 5, n. 1179.

70 (Popup - Popup) Cf. I, 84, 3, c: «Videmus autem quod homo est quandoque cognoscens in otentia tantum, tam secundum sensumquam secundum intellectum. Et de tali potentia in actum reducitur, ut sentiat quidem, per actiones sensibilium insensum; ut intelligat autm, per disciplinam aut inventionem. Unde oportet dicere quod anima cognoscitiva sit inpotentia tam ad similitudines quae sunt principia sentiendi, quam ad similitudines quae sunt principiaintelligendi»; QDA 15, c: «Similiter in experimento patet quod scientia in nobis non provenit ex participationespecierum separatarum, sed a sensibilibus accipitur; quia quibus deest unus sensus, deest scientia sensibiliumquae illo sensu apprehenduntur; sicut caecus natus non potest habere scientiam de coloribus». Il vocabolo

<scientia> si può intendere qui di ogni cognoscenza intellettiva.

71 (Popup - Popup)

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

Cf. I, 84, 4, c: «Non enim potest dici quod anima intellectiva corpori uniatur propter corpus: quia nec forma est

propter materiam, nec motor propter mobile, sed potius e converso».

72 (Popup - Popup) Cf. CG 3, 25, n. 2057: «Propria operatio cuiuslibet rei est finis eius: est enim secunda perfectio ipsius; undequod ad propriam operationem bene se habet, dicitur virtuosum et bonum. Intelligere autem est propria operatio

substantiae intellectualis. Ipsa igitur est finis eius».

73 (Popup - Popup) I, 84, 4, c.

74 (Popup - Popup) Cf. I-II, 49, 4, c: «Secundo requiritur quod id quod est in potentia ad alterum, possit pluribus modis determinari,

et ad diversa».

75 (Popup - Popup) Cf. I, 50, 4, 1m: «Et ideo dicendum est quod intellectus possibilis est subiectum habitus: illi enim competit essesubiectum habitus, quod est in potentia ad multa; et hoc maxime competit intellectui possibili. Unde intellectus

possibilis est subiectum habituum intellectualium».

76 (Popup - Popup) Cf. SM 6, lect. 4, n. 1239: «Patet etiam quod nihil prohibet verum esse quoddam bonum, secundum quodintellectus cognoscens accipitur ut quaedam res. Sicut enim quaelibet alia res dicitur bona sua perfectione, itaintellectus cognoscens, sua veritate». Cf. anche Sn 3, 23, 2, 3, col. 3, c; QDV 1, 10, 4m in contr.; 18, 6, c; I, 16,1, c; 82, 4, c; I-II, 9, 1, 3m; 57, 2, 3m; 64, 3, c; QDVC 13, c; SPh 1, lect. 10, n. 79 [5]; EPH 1, lect. 3, n. 29 [7];

SE 1, lect. 12, n. 139; 6, lect. 3, n. 1143; CTh 1, 174, n. 345; In Eph. 4, lect. 7, n. 241.

77 (Popup - Popup) Cf. I-II, 53, 1, c.

78 (Popup - Popup) I-II, 55, 1, c.

79 (Popup - Popup) Cf. I-II, 49, 3, c, nonché 55, 3, c.

80 (Popup - Popup) I-II, 55, 3, c.

81 (Popup - Popup) I-II, 56, 3, c.

82 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. I, 5, 1, 1m: «Sed bonum dicit rationem perfecti, quod est appetibile: et per consequensdicit rationem ultimi. Unde id quod est ultimo perfectm, dicitur bonum simpliciter. Quod autem non habetultimam perfectionem quam debet habere, quamvis habeat aliquam perfectionem inquantum est actu, non tamen

dicitur perfectum simpliciter, nec bonum simpliciter, sed secundum quid».

83 (Popup - Popup) Su questo tema, cf. QDVC 7, 2m: «homo non dicitur bonus simpliciter ex eo quod est in parte bonus, sed ex eoquod secundum totum est bonus: quod quidem contingit per bonitatem voluntatis. Nam voluntas imperat actibusomnium potentiarum humanarum. Quod provenit ex hoc quod quilibet actus est bonum suae potentiae; undesolus ille dicitur esse bonus homo simpliciter qui habet bonam voluntatem. Ille autem qui habet bonitatemsecundum aliquam potentiam, non praesupposita bona voluntate, dicitur bonus secundum quod habet bonum

visum et auditum, aut est bene videns et audiens».

84 (Popup - Popup) Su questo punto, cf. I-II, 9, 1, c.

85 (Popup - Popup)

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Cf. I-II, 17, 6, c: «Sed attendendum est quod actus rationis potest considerari dupliciter. Uno modo, qunatum adexercitium actus. Et sic actus rationis semper imperari potest: sicut cum indicitur alicui quod attendat, et ratione

utatur». Cf. anche I, 82, 4, c; QDV 22, 12.

86 (Popup - Popup) I-I, 56, 3, c.

87 (Popup - Popup) QDVC 7, c.

88 (Popup - Popup) Ibid.

89 (Popup - Popup) Cf. loc. cit.: «Prudentia vero est in intellectu sive ratione practica, ut dictum est: non quidem ita quod exvoluntate determinetur obiectum prudentiae, sed solum finis; obiectum autem ipsa perquirit: praesupposito enim

a voluntate fine boni, prudentia perquirit vias per quas hoc bonum et perficiatur et conservetur».

90 (Popup - Popup) Cf. Met. €, 1, 993 b 20-21: «Qewrhtikh=j me\n ga\r te/loj a)lh/qeia praktikh=j d'e)/rgon».

91 (Popup - Popup) EBT 5, 1, c. Cf. ibid., 1m; CG 3, 25, n. 2063: «Omnes autem scientiae et artes et potentiae practicae sunt tantumpropter aliud diligibiles: nam in eis fini non est scire, sed operari. Scientiae autem speculativae sunt propterseipsas diligibiles: nam finis earum est ipsum scire. Nec invenitur aliqua actio in rebus humanis quae nonordinetur ad alium finem, nisi consideratio speculativa»; SM 2, lect. 2, n. 290: «Theorica, idest speculativa,differt a practica secundum finem: hoc enim est quod intendit, scilicet veritatis cognitionem. Sed finis practicaeest opus, quia etsi "practici", hoc est operativi, intendant cognoscere veritatem, quomodo se habeat in aliquibusrebus, non tamen quaerunt eam tamquam ultimum finem. Non enim considerant causam veritatis secundum se etpropter se, sed ordinando ad finem operationis, sive applicando ad aliquod determinatum particulare, et ad

aliquod determinatum tempus».

92 (Popup - Popup) Cf. Sn 3, 35, 1, 3, sol. 2, c: «dicendum quod duplex est cognitio. Una "speculativa, cujus finis est veritas",secundum Philosophum in II Meta. Alia "cujus finis est operatio", quae est causa et regula eorum quae perhominem fiunt. Quae autem ab homine fiunt, quaedam dicuntur factibilia quae fiunt per transmutationemaliquam exterioris materiae, seicut contingit in operationibus artis mechanicae; quaedam vero non transeunt in

transmutationem exterioris materiae, sed in moderationem propriarum passionum et operationum».

93 (Popup - Popup) Cf. I-II, 57, 2, c, citato supra p. 13.

94 (Popup - Popup) QDVC 12, c.

95 (Popup - Popup) SM 5, lect. 6, n. 827.

96 (Popup - Popup) Per le nozioni di principio e di causa, cf. SM 5, lect. 1-3; SPh 2, lect. 5-6.

97 (Popup - Popup) I, 82, 1, c. Si veda il commento alla fonte di questa classificazione in SM 5, lect. 6. In III, 46, 1, c, san Tommasone fa un uso simile a quello del brano citato: «sicut Philosophus docet in V Metaph., necessarium multipliciterdicitur. Uno quidem modo, quod secundum sui naturam impossibile est aliter se habere. [...] Alio modo dicituraliquid necessarium ex aliquo exteriori. Quod quidem si sit causa efficiens vel movens, facit necessitatemcoactionis: utpote cum aliquis non potest ire propter violentiam detinentis ipsum. - Si vero illus exterius quodnecessitatem inducit, sit finis, dicetur aliquid necessarium ex suppositione finis: quando scilicet finis aliquis aut

nullo modo potest esse, aut non potest esse convenienter, nisi tali fine <sic> praesupposito».

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98 (Popup - Popup) Met. €, 5, 1015 a 33-35.

99 (Popup - Popup) SM 5, lect. 6, nn. 832-833.

100 (Popup - Popup) Cf. PORFIRIO, Isagoge, 12, 12-22; 19, 10-15.

101 (Popup - Popup) SM 5, lect. 6, n. 834.

102 (Popup - Popup) Met. €, 5, 1015 a 20-26.

103 (Popup - Popup) La distinzione fra necessità finale stretta e convenienza viene proposta, con gli stessi esempi di I, 82, 1, in III, 1,2, c: «ad finem aliquem dicitur aliquid esse necessarium dupliciter: uno modo, sine quo aliquid esse non potest,sicut cibus est necessarius ad conservationem humanae vitae; alio modo, per quod melius et convenientius

pervenitur ad finem, sicut equus necessarius est ad iter».

104 (Popup - Popup) Cf. Met. €, 5, 1015 a 26-33.

105 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. CG 3, 2; I-II, 1, 1 e 2.

106 (Popup - Popup) Cf. SM 5, lect. 6, n. 829: «Dicit quod id quod infert violentiam, et etiam ipsa violentia necessarii nomen accepit;nam violentia necessaria dicitur, et qui vim patitur dicitur de necessitate id facere ad quod cogitur. Quid autemsit faciens vim, manifestat in naturalibus, et in voluntariis. In naturalibus quidem est impetus, sive inclinatio adaliquem finem, cui respondet voluntas in natura rationali; unde et ipsa naturalis inclinatio appetitus dicitur.Utrumque autem, scilicet et impetum naturalis inclinationis, et propositum voluntatis, contingit impediri et

prohiberi».

107 (Popup - Popup) Cf. F. MARTIN, Les mots latins groupés par familles étymologiques, Paris, 1976, pp. 245-246. Secondo lostesso autore, in Les mots grecs groupés par familles étymologiques, Paris, 1937, il greco qewr/ia procede in

modo simile dalla radice *qeF, che ha dato qe/a, spettacolo, vista.

108 (Popup - Popup) Per questa valenza del termine <speculativo>, cf. I, 14, 16, c: «Ad cuius evidentiam, sciendum est quod aliquascientia potest dici speculativa tripliciter. Primo, ex parte rerum scitarum, quae non sunt operabiles a sciente;

sicut est scientia hominis de rebus naturalibus vel divinis».

109 (Popup - Popup) A questo proposito, san Tommaso rileva in SE 6, lect. 3, n. 1145 che l'oggetto della scienza deve essere certo,cioè non solo soggettivamente evidente, ma anche oggettivamente determinato, quindi non contingente; mutatismutandis, quello vale anche per gli altri abiti speculativi: «Sed certa ratio scientiae hinc accipitur, quod omnessuspicamur de eo quod scimus quod non contingat illud aliter se habere: alioquin non esset certitudo scientis, seddubitatio opinantis. Huiusmodi autem certitudo, quod scilicet non possit aliter se habere, non potest haberi circacontingentia aliter se habere. Tunc enim solum potest de eis certitudo haberi cum cadunt sub sensu. Sed quandofiunt extra speculari, idest quando desinunt videri vel sentiri, tunc latet utrum sint vel non sint. Sicut patet circa

hoc quod est Socratem sedere. Sic ergo patet quod omne scibile est ex necessitate».

110 (Popup - Popup) Questi due aspetti, con una leggera accentuazione noetica, sono presenti in QDV 24, 2, 18m: «...aliquid verumest quod propter impermixtionem falsi de necessitate ab intellectu recipitur, sicut prima principiademonstrationis». Cf. anche QDM 6, un., 10m: «intellectus ex necessitate movetur a vero necessario quod non

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

potest accipi ut falsum»; EPH 1, lect. 14, n. 199 [24] mette formalmente in risalto la necessità noetica: «Estautem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate

intellectus assentit».

111 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 13, n. 110 [2].

112 (Popup - Popup) EPH 1, lect. 13, n. 166 [3]. Il corsivo è ovviamente nostro.

113 (Popup - Popup) An. Post. A, 4, 73 a 21-24. Cf. EPA 1, lect. 13, n. 112 [4]: «Conclusio necessaria non potest sciri nisi exprincipiis necessariis; sed demonstratio facit scire conclusionem necessariam; ergo oportet quod sit ex principiis

necessariis».

114 (Popup - Popup) An. Post., loc. cit., 73 a 24-27. SAN TOMMASO commenta in hoc loco, EPA 1, lect. 9, n. 77 [2]: «Et quaconclusio demonstrationis non solum est necessaria, sed etiam per demonstrationem scita, ut dictum est, sequiturquod demonstrativus syllogismus sit ex necessariis. Et ideo accipiendum est ex quibus necessariis et qualibus

sint demonstrationes».

115 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 9, n. 78 [3].

116 (Popup - Popup) Loc. cit.

117 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. PETRUS HISPANUS, Tractatus called afterwards Summulae logicales, Tract. IV, § 1,ed. L.M. De Rijk, Assen, 1972, p. 436-9 : «Dici de omni est quando nichil est sumere sub subiecto de quo nondicatur predicatus, ut 'omnis homo currit'; hic cursus dicitur de omni homine et nichil est sumere sub homine de

quo non dicatur cursus».

118 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. I, 77, 6, sc: «potentiae animae sunt quaedam proprietates naturales ipsius. Sed subiectum

est causa propriorum accidentium: unde et ponitur in definitione accidentis, ut patet in VII Metaphys.».

119 (Popup - Popup) An. Post. A, 4, 73 a 27-34.

120 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 9, n. 80 [5].

121 (Popup - Popup) Cf. An. Pr. A, 1, 24 b 28-30: «E diciamo che [un termine] è affermato universalmente (= to kata\ panto\j)quando non si può trovare nel soggetto alcuna parte di cui non si possa affermare l'altro termine».

122 (Popup - Popup) Cf. EPA, lect. cit., n. 79 [4]: «Ad quod sciendum est quod dici de omni, prout hic sumitur, addit supra dici deomni, prout sumitur in libro Priorum. Nam il libro Priorum accipitur dici de omni communiter, prout utitur eo etdialecticus et demonstrator. Et ideo non plus ponitur in definitione eius, quam quod praedicatum insit cuilibeteorum quae continentur sub subiecto. Hoc autem contingit vel ut nunc, et sic utitur quandoque dici de omni

dialecticus; vel simpliciter et secundum omne tempus, et sic solum utitur eo demonstrator».

123 (Popup - Popup) Cf. EPH 1, lect. 10, n. 130 [13]: «Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali rationeipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundumtotam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haecdictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub

subiecto continetur».

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

124 (Popup - Popup) Il rapporto di specifico a comune che collega il kaq'au)to al kaq'o(/ è stato colto bene da SAN TOMMASO inSM 5, lect. 19, n. 1050: «Primo [Aristoteles] determinat de hoc, quod dicitur secundum quod; quod est

communius quam secundum se».

125 (Popup - Popup) H. BONITZ, nella sua traduzione della Metafisica rivista da H SEIDL, rende to/ kaq'o(/ con das Wonach,mentre to/ kaq'au)to viene tradotto con das An-sich. Cf. ARISTOTELES' Metaphysik, ed. Horst Seidl,

Hamburg, 1989, in hoc loco, p. 231.

126 (Popup - Popup) A questo proposito, G. REALE nota giustamente nella sua edizione di ARISTOTELE, Metafisica, vol. III,Sommari e commentario, Milano, 1993, p. 268: «Impossibilità di tradurre kaq'o)/ con una espressione chericopra la corrispettiva area semantica. - Si tenga presente che kaq'o)/ non ha che un approssimativocorrispondente nell'italiano ciò per cui, donde l'apparente forzature di alcune distinzioni di significati (peresempio, il secondo) e l'inadeguatezza dell'espressione italiana a rendere il giusto rapporto che lega i vari

significati».

127 (Popup - Popup) Met. €, 18, 1022 a 14-24. Abbiamo riportato senza cambiamenti la traduzione di G. REALE, ed. cit., vol. II.

128 (Popup - Popup) Cf. SM 5, lect. 19, nn. 1050-1053, dove SAN TOMMASO blocca tuttavia insieme il terzo ed il quartosignificato: «Circa primum ponit quatuor modos eius quod dicitur secundum quod; quorum primus est, prout«species» [ei)=doj], idest forma, et «substantia rei» [ou)si/a], idest essentia, est, secundum quod aliquid essedicitur; sicut secundum Platonicos, «per se bonum», idest idea boni, est illud, secundum quod aliquid bonumdicitur. Secundus modus est, prout subiectum, in quo primo aliquid natum est fieri, dicitur secundum quod, sicutcolor primo fit in superficie; et ideo dicitur, quod corpus est coloratum secundum superficiem. Hic autem modusdiffert a praedicto, quia praedictus pertinet ad formam, et hic pertinet ad materiam. Tertius modus est, proutuniversaliter quaelibet causa dicitur secundum quod. Unde toties dicitur secundum quod quoties et causa. Idemenim est quaerere secundum quod venit, et cuius causa venit; similiter secundum quod paralogizatum, autsyllogizatum est, et qua causa facti sunt syllogismi. Quartus modus est prout secundum quod significatpositionem et locum; sicut dicitur, iste «stetit secundum hunc», idest iuxta hunc, et ille «vadit secundum hunc»,

idest iuxta hunc; quae omnia significant positionem et locum. Et hoc manifestius in graeco idiomate apparet».

129 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 10, n. 83 [2].

130 (Popup - Popup) SM 5, lect. 2, n. 775: «Est igitur efficiens causa finis, finis autem causa efficientis non quantum ad esse, sedquantum ad rationem causalitatis. Nam efficiens est causa in quantum agit: non autem agit nisi causa finis. Unde

ex fine habet suam causalitatem efficiens».

131 (Popup - Popup) Loc. cit.

132 (Popup - Popup) Sulla perseità ed i suoi tipi, si può sempre consultare il libro di P. HOENEN, La théorie du jugement d'après St.Thomas d'Aquin, ed. altera, Romae, 1953, pp. 107-151. Questa opera offre una eccellente documentazione diprima mano, ma rimane profondamente viziata dalla sua gnoseologia rappresentazionistica, a nostro avvisostraniera alla lettera ed allo spirito di san Tommaso. Più modesto nel suo proposito, ma assai più coerente con itesti ci sembra invece l'articolo di J. PÉTRIN, Les modes de dire per se et la démonstration, Revue del'Université d'Ottawa 21 (1951), pp. 173*-192*. Vedasi pure R. SCHMIDT, The Domain of Logic according toSaint Thomas Aquinas, The Hague, 1966, pp. 226-231; R. McINERNY, Being and Predication, ThomisticInterpretations, Washington D.C., 1986, pp. 190-202. Questi due ultimi autori non affrontano in dettaglio il

tema delle proposizioni per sé.

133 (Popup - Popup)

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

An. Post. A, 4, 73 a 34-37. Abbiamo conservato le parentesi dell'edizione di Oxford a cura di W.D. Ross.

134 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 10, n. 84 [3].

135 (Popup - Popup) Loc. cit.

136 (Popup - Popup) Loc. cit.

137 (Popup - Popup) Per questo teorema fondamentale dell'epistemologia tommasiana, cf. EBT 5; I, 85, 1, 2m; SM 6, lect. 1; 11, lect.

7; 8, lect. 5, nn. 1760-1764; SA 3, lect. 8, nn. 716-717; EE 2, III, 77, 2, 4m; QDV 2, 6, 1m.

138 (Popup - Popup) Met. €, 18, 1022 a 25-29.

139 (Popup - Popup) SM 5, lect. 19, n. 1054.

140 (Popup - Popup) Cf. III, 16, 7, 4m: «terminus in subiecto positus tenetur materialiter, idest pro supposito: positus vero inpraedicato, tenetur formaliter, idest pro natura significata». Vedasi pure Sn 1, 21, 2, 1, 1m; Sn 3, 1, 2, 5, 5m; 6,

1, 3, 3m; 2, 1, 2m; 11, 1, 2, 3m; III, 16, 9, c et 3m; 10, c e 2m, nonché P. HOENEN, op. cit., pp. 90-94.

141 (Popup - Popup) Cf. I, 16, 2, c: «in omni propositione aliquam formam significatam per praedicatum, vel applicat alicui rei

significatae per subiectum, vel removet ab ea».

142 (Popup - Popup) Perciò, SAN TOMMASO può scrivere in SA 2, lect. 14, n. 401: «Per se autem dupliciter dicitur. Uno enimmodo dicitur propositio per se, cuius praedicatum cadit in definitione subiecti, sicut ista, Homo est animal:animal enim cadit in definitione hominis. Et quia id quod est in definitione alicuius, est aliquo modo causa eius,in his quae sunt per se, dicuntur praedicata esse causa subiecti». Si noti che l'Aquinate dice precisamente che ilpredicato appartiene alla definizione del soggetto, e non che il predicato e quindi è causa del soggetto, ma nonche il predicato è causa dell'essenza stessa della cosa. Infatti, il rapporto di «causalità» formale è, qui, puramentelogico, perché interviene fra la definizione o i suoi elementi, da un lato, e il soggetto, d'altro lato, cioè fra i dueestremi dell'enunciazione considerata in quanto tale. Il punto di vista del fondamento in re dell'enunciazione è

diverso, ed addirittura opposto, come lo evidenziano i testi citati nella nota seguente.

143 (Popup - Popup) Cf. SM 7, lect. 2, n. 1275: «Hoc autem quod quid erat esse hic ponitur, sed ibi [=in Praedicamentis]praetermittitur, quia non cadit in praedicamentorum ordine nisi sicut principium. Neque enim est genus nequespecies neque individuum, sed horum omnium formale principium»; lect. 5, n. 1357: «Hoc autem quod est quodquid erat esse, est substantia eius cuius est quod quid erat esse». Cf. anche nn. 1668 e 1672-1680. Qua, siamo sullivello della sostanza come principio di essere, quindi nell'ordine ontologico che, sì, fondamenta l'ordine logico,

ma non coincide con esso.

144 (Popup - Popup) Nel suo art. cit., p. 176*, il P. J. PÉTRIN si domanda: «Quel rapport de causalité trouve-t-on dans ce mode deperséité? Saint Thomas y voit un ordre de causalité formelle, en ce sens que l'attribut signifie la forme, l'essence,la nature spécifique ou générique de son sujet. Il se comporte donc comme sa cause formelle. Et ceci est vraimême si l'on affirme de lui ce qui en constitue la cause matérielle, parce que celle-ci est alors considérée commefaisant partie de la nature ou de l'essence du sujet». Questo è verissimo dal punto di vista formalmente logicodell'attribuzione; invece, dal punto di vista ontologico del fondamento sul quale poggia l'attribuzione, si devedire che la quiddità del soggetto (non espressa nella proposizione) è causa formale di ciò che viene esplicitato

nel predicato.

145 (Popup - Popup)

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

An. Post. A, 4, 73 a 37 - b 5.

146 (Popup - Popup) Cf. supra, p. 73.

147 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 10, n. 85 [4].

148 (Popup - Popup) Su questo punto, cf. queste chiare definizioni di Qdl 9, 3, un., 2m, che giova mettere in contesto: «secundumAvicennam in sua Metaph., esse non potest poni in definitione alicuius generis et speciei, quia omnia particulariauniuntur in definitione generis vel speciei, cum tamen genus vel species non sit secundum unum esse in omnibus.Et ideo haec non est vera definitio substantiae: Substantia est quod per se est; vel: Accidens est quod est in alio.Sed est circumlocutio verae descriptionis, quae talis intelligitur: Substantiae [<sic>; leggere: <Substantia>] estres cuius naturae debetur esse non in alio; Accidens vero est res, cuius naturae debetur esse in alio».Interpretando Avicenna, san Tommaso mostra bene il puro costitutivo formale della sostanza o dell'accidentenon include l'essere in quanto contrapposto all'essenza, ma tuttavia lo richiede necessariamente per la definizione

stessa della sostanza e dell'accidente.

149 (Popup - Popup) Cf. SA 2, lect. 14, n. 402: «Intelligendum est ergo, quod color est visibilis per se, hoc secundo modo, et nonprimo. Nam visibilitas est quaedam passio, sicut simum est passio nasi. Et hoc est quod dicit, quod colorsecundum se est visibile "non ratione", idest non ita quod visibile ponatur in eius definitione, sed quia in seipsohabet ut sit visibile, sicut subiectum in seipso habet causam propriae passionis». Infatti, il predicato <visibile>non si dice del soggetto <colore> secondo il primo modo di perseità, giacché la visibilità non è costitutiva dellaquiddità del colore, ma si dice nel secondo modo, perché il colore appartiene alla definizione della visibilità. IlP. J. PÉTRIN spiega così questo punto nel suo art. laud., pp. 178*-179*: «Quel rapport de causalité établir entreles deux termes de l'attribution? Saint Thomas y voit un rapport de causalité matérielle, puisque le sujet estconsidéré comme ce en quoi est son accident propre; il se comporte à son endroit comme une matière seconderelativement à une forme accidentelle. Il ne peut être évidemment question que de causalité logique, et plusprécisément dans l'ordre de l'attribution. Cette causalité logique peut être significative de la causalité réellelorsque, par exemple, il y a distinction réelle entre les deux termes en cause. Parfois elle ne sera que logique, parexemple, dans le cas d'une pure distinction conceptuelle. Celle-ci cependant ne sera pas sans fondement dans laréalité, puisque nous devrons trouver une priorité dans la raison formelle de ce que nous utiliserons comme sujet

sur ce qui lui sera attribué».

150 (Popup - Popup) Ricordiamo che un numero è primo se è divisibile soltanto per sé stesso e per l'unità (come 3, 5, 7, 11, ecc.)

mentre un numero divisibile per altri numeri è composto (4, 6, 8, 10, ecc.).

151 (Popup - Popup) Questa distinzione si ispira al metodo pitagorico di raffigurazione geometrica della quantità aritmetica, secondoil quale un numero «quadrato» si rappresenta con punti disposti in forma di quadrato, i cui lati sono uguali: adesempio, il numero 9 venirebbe espresso con un quadrato di 9 punti il cui lato ne comprende 3. In terminologiaodierna, possiamo dire che un numero è quadrato se, per un numero naturale n, la sua radice quadrata €n dà

ancora un intero naturale.

152 (Popup - Popup) SAN TOMMASO commenta così il passaggio citato in EPA 1, lect. 10, n. 85 [4]: «Et hoc est quod dicit, et perse dicuntur quibuscunque eorum, idest de numero eorum, quae insunt ipsis, idest subiectis accidentium, ipsasubiecta insunt in ratione demonstrate quid est ipsum accidens, idest in definitione accidentis. Sicut rectum etcirculare insunt lineae per se: nam linea ponitur in definitione eorum. Et eadem ratione par et impar per se insuntnumero, quia numerus in eorum definitione ponitur: nam par est numerus medius habens. Et similiter primum etcompositum per se praedicantur de numero, et numerus in definitione eorum ponitur. Est enim primum innumeris, numerus qui nullo alio numero mensuratur, sed sola unitate, ut septenarius. Compositus autem numerusest, quem etiam alius numerus mensurat, sicut novenarius. Et similiter isepleuros, idest aequaliterum, etscalenon, idest trium inaequalium laterum et altera parte longius, per se insunt triangulo, et triangulus ponitur in

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

definitione eorum». Si noterà che l'Aquinate segue una altra lezione del testo, per cui l'ultimo esempio non si

riferisce ai numeri aritmetici, ma al triangolo.

153 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 10, n. 86 [5].

154 (Popup - Popup) Met. €, 18, 1022 a 29-32.

155 (Popup - Popup) Su questa diversità quanto al punto di inserimento del predicato nel soggetto, cf. SM 5, lect. 19, n. 1055:«Secundus modus est, quando aliquid ostenditur esse in aliquo, sicut in primo subiecto, cum inest ei per se.Quod quidem contingit dupliciter: quia vel primum subiectum accidentis est ipsum totum subiectum de quopraedicatur (Sicut [<sic>; lege sicut] superficies dicitur colorata vel alba secundum seipsam. Primum enimsubiectum coloris est superficies, et ideo corpus dicitur coloratum ratione speciei). Vel etiam aliqua pars eius;sicut homo dicitur vivens secundum se, quia aliqua pars eius est primum subiectum vitae, scilicet anima. Et hicest secundus modus dicendi per se in Posterioribus positus, quando scilicet subiectum ponitur in definitione

praedicati. Subiectum enim primum et proprium, ponitur in definitione accidentis proprii».

156 (Popup - Popup) Anche questo punto è stato visto chiaramente dal P. J. PÉTRIN, in art. laud., p. 178*: «On voit immédiatementcomment ce mode de perséité diffère radicalement du premier, puisqu'il suppose une distinction entre la raisonformelle de ce qui est proposé comme sujet et la raison formelle de ce qui lui est attribué. Il suppose cependantun rapport entre leurs natures respectives: le sujet ne peut exister sans avoir en lui tel attribut et celui-ci ne peut

exister sans être dans ce sujet considéré selon sa raison spécifique ou selon une de ses raisons génériques».

157 (Popup - Popup) Cf. An. Post. A, 4, 73 b 5-6: «Inoltre, è per sé ciò che non viene detto di qualche altro soggetto».

158 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 10, n. 87 [6]: «...ponit alium modus eius, quod est per se, prout per se significat aliquidsolitarium, sicut dicitur quod per se est aliquod particulare, quod est in genere substantiae, quod non praedicatur

de aliquo subiecto. [...] Sciendum est autem quod iste modus non est modus praedicandi, sed modus existendi».

159 (Popup - Popup) An. Post. A, 4, 73 b 10-16.

160 (Popup - Popup) Loc. cit., 73 b 10-11.

161 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 10, textus Aristotelis. Nella sua Posteriorum Analyticorum Aristotelis Interpretatio, BOEZIOaggiunse per chiarezza un <dico> a questa frase, cf. PL 64, col. 717 A: «Item alio modo quod quidem propter

ipsum inest unicuique, per se dico, quod vero non propter ipsum, accidens est».

162 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 10, n. 88 [7].

163 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. Sn 1, 32, 2, 2, c: «Istae praepositiones "a" et "per" in hoc differunt quia "a" designattantum habitudinem principii per modum efficientis, sed "per" designat habitudinem principii secundum

quodlibet genus causae; unde omne illud quod est ab aliquo est per illud, sed non convertitur».

164 (Popup - Popup) A questo proposito, cf. SP 1, lect. 1, n. 37: «Sed loquutio humana significat quid est utile et quid nocivum. Exquo sequitur quod significet iustum et iniustum. Consistit enim iustitia et iniustitia ex hoc quod aliquiadaequentur vel non adaequentur in rebus utilibus et nocivis. Et ideo loquutio est propria hominibus; quia hocest proprium eis in comparatione ad alia animalia, quod habeant cognitionem boni et mali, ita et iniusti, et

aliorum huiusmodi, quae sermone significari possunt».

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lo habitus principiorum secondo san tommaso d'aquino

165 (Popup - Popup) Quindi è possibile costruire proposizioni del quarto modo di perseità nelle quali il soggetto sia causa materialedel predicato, e sia formalmente considerato come tale. Cf. a questo riguardo, J. PÉTRIN, art. cit., p. 187*:«Ainsi, même la matière première peut être sujet dans une proposition du quatrième mode, comme dans cetexemple: la matière première reçoit la forme. J'entends alors signifier son action (!) propre en lui supposant une

nature (!) bien définie, ce qui [ne] peut être dit sans analogie».

166 (Popup - Popup) Cf. EE 2, n. 11: «Sed definitio vel species comprehendit utrumque, scilicet determinatam materiam quam

designat nomen generis et determinatam formam quam designat nomen differentiae».

167 (Popup - Popup) Cf. EE 2, n. 8: «Haec autem determinatio vel designatio, quae est in specie respectu generis, non est per aliquidin essentia speciei existens, quod nullo modo in essentia generis sit; imo quidquid est in specie est etiam ingenere ut non determinatum. Si enim animal non esset totum quod est homo, sed pars eius, non praedicaretur de

eo, cum nulla pars integralis praedicetur de suo toto».

168 (Popup - Popup) Cf. I-II, 67, 5, c: «Sed sicut species significat totum, idest compositum ex materia et forma in rebusmaterialibus, ita differentia significat totum, et similiter genus: sed genus denominat totum ab eo quod est sicutmateria; differentia vero ab eo quod est sicut forma; species vero ab utroque. Sicut in homine sensitiva naturamaterialiter se habet ad intellectivam: animal autem dicitur quod habet naturam sensitivam; rationale quod habet

intellectivam; homo vero quod habet utrumque. Et sic idem totum significatur per haec tria, sed non ab eodem».

169 (Popup - Popup) Cf. CG 2, 58, n. 1345: «in isto modo dicendi per se, id quod est formale praedicatur per se subiecto: ut cum

dicimus, Superficies est alba, vel, Numerus est par».

170 (Popup - Popup) Cf. J. PÉTRIN, art. cit., p. 179*: «Pour distinguer ce genre d'attribut, saint Thomas utilise ordinairementl'expression "passion du sujet". C'est que les formes qui sont attribuées au sujet selon ce mode de perséité nesont pas formellement considérées comme son effet, mais précisément comme reçues en lui, comme subies

(logiquement) par lui. Le sujet se comporte à leur égard uniquement comme cause matérielle (materia in qua)».

171 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, 26, n. 214 [2]: «Et unus modus dicendi per se est quando subiectum est causa praedicati, ut

interfectum interiit, sicut supra dictum est».

172 (Popup - Popup) Quindi le potenze dell'anima o del composto si dicono dell'anima o del composto nel secondo modo in quantoloro ineriscono necessariamente nel loro soggetto proprio, mentre vengono attribuite ad esso nel quarto modo, inquanto provengono o dall'anima o dal composto. A questo riguardo, cf. I, 77, 6, c: «Ita quod subiectum,inquantum est in potentia, est susceptivum formae accidentalis: inquantum autem est in actu, est eiusproductivum. [..] Unde manifestum est quod omnes potentiae animae, sive subiectum earum sit anima sola, sivecompositum, fluunt ab essentia animae sicut a principio: quia iam dictum est quod accidens causatur a subiectosecundum quod est actu, et recipitur in eo inquantum est in potentia». Quindi non è sotto lo aspetto che la

potenza viene attribuita al suo soggetto prossimo nel secondo o nel quarto modo di perseità.

173 (Popup - Popup) Sulle implicazioni metafisiche dell'attribuzione, e segnatamente sulla partecipazione, si consulterà C. FABRO,La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d'Aquino, Milano, 1939, P. II, sez. II, Lapartecipazione predicamentale, pp. 143-185; L.-B. GEIGER, La participation dans la philosophie de S.

Thomas d'Aquin, Paris, 1942, pp. 122-150; 264-277.

174 (Popup - Popup) Su questo punto, cf. J. PÉTRIN, art. cit., p. 187*: «Au surplus la distinction entre le premier, le deuxième et lequatrième mode correspond parfaitement à la division traditionnelle des cinq prédicables. Il faut sans doutecommencer par exclure le cinquième, l'accident, qui fonde une attribution accidentelle. Si on compare les trois

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premiers, le genre, l'espèce et la différence spécifique, avec l'individu, elles peuvent lui être attribuées selon lepremier mode; de même le genre et la différence spécifique sont attribuables à l'espèce selon le premier mode; lepropre peut être comparé soit avec l'espèce, soit avec la différence spécifique: dans le premier cas, l'attribution

se fait selon le deuxième mode, tandis que dans le second cas, l'attribution se fait selon le quatrième mode».

175 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 13, n. 111 [3].

176 (Popup - Popup) I, 10, 2, c.

177 (Popup - Popup) Sulla differenza fra la dimostrazione propter quid e quia, cf. EPA 1, lect. 23, nn. 194-195 [3-4]: «In una autemscientia dupliciter differt utrumque praedictorum, secundum duo quae requiruntur ad demonstrationemsimpliciter, quae facit scire propter quid; scilicet quod sit ex causis, et quod sit ex immediatis. Uno igitur mododiffert scire quia ab hoc quod est scire propter quid; quia scire quia est si non fiat syllogismus demonstrativusper non medium, idest per immediatum, sed fiat per mediata. Sic enim non accipietur prima causa, cum tamenscientia, quae est propter quid, sit secundum primam causam. Et ita non erit scientia propter quid. Alio mododifferunt, quia scire quia est quando fit syllogismus non quidem per media, idest per mediata, sed per immediata,

sed non fit per causam: sed fit per convertentiam, idest per effectus convertibiles et immediatos».

178 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 11, n. 91 [2].

179 (Popup - Popup) An. Post. A, 4, 73 b 32-33. SAN TOMMASO commenta in hoc loco, EPA 1, lect. 11, n. 95 [6]: «tunc estuniversale praedicatum, cum non solum in quolibet est de quo praedicatur, sed et primo demonstratur inesse ei,

de quo praedicatur».

180 (Popup - Popup) An. Post. A, 4, 73 b 33-37.

181 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 11, n. 96 [7]: «Secundo, ibi: Ut duos rectos habere, etc., manifestat per exemplum, dicens quodhabere tres angulos aequales duobus rectis, non inest cuilibet figurae universaliter: licet hoc de figurademonstretur, quia de triangulo demonstratur qui est figura; sed tamen non cuilibet figurae inest, necdemonstrator in sua demonstratione utitur qualibet figura. Qudrangulus enim figura quaedam est, sed non habet

tres duobus rectis aequales».

182 (Popup - Popup) An. Post. A, 4, 73 b 38 - 74 a 1.

183 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, loc. cit.: «Isosceles autem, idest triangulus duorum aequalium laterum, habet quidem universalitertres angulos aequales duobus rectis, sed non convenit primo isosceli, sed prius triangulo, quia isosceli convenit,in quantum est triangulus. Quod igitur primo demonstratur habere duos rectos, aut quodcunque aliud huiusmodi,

huic primo inest praedicatum universale, sicut triangulo».

184 (Popup - Popup) Ricordiamo che il genere supremo al quale si riconduce il triangolo è la figura (sxh=ma), che è la quarta«specie» di qualità, e che è uno dei cinque sensibilia communia. Cf. An. B, 6, 418 a 17-18: «kiona\ de\ ki/nhsij,

h)remi/a, a)riqmo/j, sxh=ma, me/geqoj».

185 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 37, n. 329 [7]: «Et manifestat quod in universali inveniatur secundum se. Habere enim tresangulos aequales duobus rectis non convenit isosceli secundum se, idest secundum quod isosceles est, sedsecundum quod est triangulus; et ideo qui cognoscit quemdam triangulum habere tres, scilicet isoscelem, minushabet cognitionem de eo quod est per se, quam si cognoscat quod triangulus habet tres. Et hoc est universaliterdicendum, quod si aliquid non insit triangulo secundum quod est triangulus, et demonstretur de eo, quidquid sit

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illud, non erit vera demonstratio. Si autem insit ei secundum quod est triangulus, cognoscens in universali de

triangulo secundum quod huiusmodi, perfectiorem cognitionem habet».

186 (Popup - Popup) Cf. supra, p. 12, nota 16.

187 (Popup - Popup) Una utile raccolta dei testi maggiori si trova in Luca F. TUNINETTI, <Per se notum>, Die logischeBeschaffenheit des Selbstverständlichen im Denken des Thomas von Aquin, Leiden - New York - Köln, 1996,

pp. 11-26.

188 (Popup - Popup) PL 64, 1311 B.

189 (Popup - Popup) EBH, lect. 1, n. 13.

190 (Popup - Popup) Lect. cit., nn. 14-15.

191 (Popup - Popup) Cf. Sn 1, 8, 1, 3, c: «Primum quod cadit in imaginatione intellectus est ens, sine quo nihil potest apprehendi abintellectu; sicut primum quod cadit in credulitate intellectus sunt dignitates, et praecipue ista, contradictoria nonesse simul vera: unde omnia alia includuntur quodammodo in ente unite et distincte sicut in principio». (Al postodel distincte scelto dal Mandonnet che abbiamo citato, l'edizione di Parma porta indistincte, il ché sembra piùcorretto). Quanto agli influssi avicenniani nel lessico noetico di san Tommaso, cf. B. GARCEAU, Judicium,

Vocabulaire, sources, doctrine de saint Thomas d'Aquin, Montréal-Paris, 1968, pp. 107-112.

192 (Popup - Popup) Lect. cit., nn. 16-18.

193 (Popup - Popup) Cf. SM 5, lect. 21, n. 1098: «Primo ponit rationem communem totius, quae consistit in duobus. Primo in hocquod perfectio totius integratur ex partibus. Et significat hoc, cum dicit quod "totum dicitur cui nulla suarumpartium deest, ex quibus" scilicet partibus "dicitur totum natura", idest secundum suam naturam constituitur.Secundum est quod partes uniuntur in toto. Et sic dicit quod totum "continens est contenta", scilicet partes, ita

quod illa contenta sunt aliquid unum in toto».

194 (Popup - Popup) Cf. I, 11, 1, c: «unum non addit supra ens rem aliquam, sed tantum negationem divisionis: unum enim nihil aliudsignificat quam ens indivisum»; 2, 4m: «unum opponitur privative multis, inquantum in ratione multorum estquod sint divisa. Unde oportet quod divisio sit prius unitate, non simpliciter, sed secundum rationem nostraeapprehensionis. Apprehendimus enim simplicia per composita: unde definimus punctum, cuis pars non est, vel

principium lineae».

195 (Popup - Popup) Spetta alla metafisica dimostrarne l'esistenza e la natura, per quanto sia possibile all'intelletto umano. Nelcampo della nostra esperienza rientra invece l'autocoscienza, che ci svela l'immaterialità dell'operazioneintellettuale, la quale non è una sostanza, ma rimanda però all'immaterialità della nostra anima, che è principioformale della nostra sostanza. Sui rapporti fra immaterialità e metafisica, si consulterà l'importante articolo di V.BURGOA, Il «separato» come condizione e come oggetto della metafisica, «Divus Thomas» (Bologna) 6

(3/1993), 62-94.

196 (Popup - Popup) Si noti che pure la definizione del luogo (terminus immobilis continentis primum) è difficile da cogliere conprecisione: Aristotele ci arriva, nella Fisica, dopo una lunga investigazione. Cf. Phys. €, 4, 210 b 32 - 212 a 20;

SPh 4, lect. 5 e 6.

197 (Popup - Popup)

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Sn 1, 3, 1, 2, c.

198 (Popup - Popup) QDV 10, 12, c.

199 (Popup - Popup) Il lettore avrà subito notato che la celebre formula anselmiana viene inquadrata in una problematicasquisitamente aristotelica, quella dei princìpi della dimostrazione. Questo fatto, scandaloso per la raisonhistorienne, manifesta invece la buona salute della ragione tommasiana, per la quale l'intelligibilità trascende la

contestualità culturale o filologica.

200 (Popup - Popup) Vg. SM 2, lect. 2, n. 298: «unumquodque sicut se habet ad hoc quod sit, ita etiam se habet ad hoc quod habeat

veritatem»; 7, lect. 2, n. 1304: «Secundum enim quod aliquid est ens, secundum hoc est cognoscibile».

201 (Popup - Popup) Cf. supra, p. 98, il testo di EPA 1, lect. 13, n. 111 [3], con la successiva analisi.

202 (Popup - Popup) Cf. Qdl 12, 5, 1, c: «Et sic dico quod esse substantiale rei non est accidens, sed actualitas cuiuslibet formaeexistentis, sive sine materia sive cum materia. Et quia esse est complementum omnium, inde est quod propriuseffectus Dei est esse, et nulla causa dat esse nisi in quantum participat operationem divinam; et sic proprie

loquendo, non est accidens».

203 (Popup - Popup) Un riassunto di questa tesi, anteriore allo stesso De Veritate si trova in EBT 1, 3, 6m: «dicendum, quod Deumesse, quantum est in se, est per se notum, quia sua essentia est suum esse; et hoc modo loquitur Anselmus. Nonautem nobis, qui eius essentiam non videmus». Sull'epistemologia della dimostrazione dell'esistenza di Dio,raccomandiamo l'articolo di L.-M. de BLIGNIÈRES, Le statut logique des preuves de «Dieu est», «Revue

thomiste» 96 (1996), 235-268.

204 (Popup - Popup) CG 1, 11, n. 66.

205 (Popup - Popup) I, 2, 1, c.

206 (Popup - Popup) QDP 7, 2, 11m.

207 (Popup - Popup) Ci opponiamo, su questo punto come su molti altri, all'interpretazione di P. HOENEN, op. cit., pp. 108-109,secondo il quale «pas tout ce qui est "notum per se" s'exprime par une proposition per se, une proposition doncqui affirme un rapport nécessaire entre le sujet et le prédicat. Bien que le "per se notum" se dise ordinarementdes principia per se nota, on appelle aussi "per se notum" tout ce que nous affirmons comme donné par laperception simple et immédiate des sens; et de bon droit, car cela est connu directement, immédiatement, sansl'intermédiaire d'un "aliud". Ainsi nous lisons dans Phys. II lect. 1 n. 8 "Naturam autem esse, est per se notum, inquantum naturalia sunt manifesta sensui". Or une proposition qui affirme l'existence de n'importe quelle créature,n'est jamais une proposition per se». Se possiamo concedere che la proposizione che esprime un giudizio dipercezione non è mediata da un terzo concetto, dobbiamo rifiutare l'argomentazione che l'autore avanza a favoredella sua tesi. Infatti, la proposizione <naturam esse> non è un semplice asserto contingente, come vorrebbe uncerto razionalismo latente, ma è il frutto di una induzione, operabile anche su un solo caso: perciò è unaproposizione universale, simile a <veritatem esse>, che è per se nota, come viene osservato in I, 2, 1, 3m:«veritatem esse in communi, est per se notum». A proposito di un errore simile a quello del P. Hoenen, il P.M.-L. GUÉRARD des LAURIERS nota giustamente in La preuve de Dieu et les cinq voies, Roma, 1966, p. 91:«Et c'est même l'un des traits les plus typiques du génie d'Aristote, du génie de S. Thomas, que de "passer"

directement de l'observation d'un existant concret à tel principe métaphysique universel».

208 (Popup - Popup)

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I, 17, 3, 2m.

209 (Popup - Popup) Cf. EBH, lect. 1, n. 15: «Cuius ratio est quod praedicatum est de ratione subiecti»; n. 18: «quia cum communisanimi conceptio vel principium per se notum sit aliqua propositio, ex hoc quod praedicatum est de rationesubiecti»; QDV 10, 12, c: «nihil aliud requiritur nisi ut praedicatum sit de ratione subiecti»; QDP 7, 2, 11m:«aliqua propositio est per se nota de se [...] quando scilicet praedicatum est de ratione subiecti»; I, 2, 1, c: «Ex

hoc enim aliqua propositio est per se nota, quod praedicatum includitur in ratione subiecti».

210 (Popup - Popup) Cf. I, 17, 3, 2m: «...ex eo quod praedicatum ponitur in definitione subiecti».

211 (Popup - Popup) I-II, 94, 2, c.

212 (Popup - Popup) SM 11, lect. 4, n. 2210.

213 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 5, n. 50 [7].

214 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 7, n. 67 [8].

215 (Popup - Popup) SM 4, lect. 5, n. 595.

216 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 36, n. 315 [8]. Il fatto che la dimostrazione procede da premesse per sé note nei due modi diperseità si desume pure da EPA 1, lect. 13, n. 110 [2]: «Deinde cum dicit: Quae autem per se sunt etc., ostenditquod demonstratio sit ex necessariis; et primo, per rationem, secundo per signum; ibi: Signum autem est etc.Circa primum ponit duas rationes: quarum prima talis est. Ea quae per se praedicatur, necessario insunt. Et hocmanifestat in duobus modis per se. In primo quidem, quia ea, quae per se praedicatur, insunt in eo quod quid est,idest in definitione subiecti. Quod autem ponitur in definitione alicuius, necessario praedicatur de eo. In secundovero, quia quaedam sunt subiecta, quae ponuntur in quod quid est praedicantibus de ipsis, idest in definitionesuorum praedicatorum. Quae quidem si sint opposita, necesse est quod alterum eorum suibecto insit; sicut parvel impar numero, ut superius ostensum est. Sed manifestum est quod ex quibusdam principiis huiusmodi,scilicet per se, fit syllogismus demonstrativus; quod probat per hoc, quod omne quod praedicatur, aut praedicaturper se aut per accidens; et ae, quae praedicatur per accidens, non sunt necessaria; ex his autem, quae sunt peraccidens, non fit demonstratio, sed magis sophisticus syllogismus. Unde relinquitur quod demonstratio sit ex

necessariis».

217 (Popup - Popup) Cf. EPA 1, lect. 10, n. 89 [8]: «Propria autem subiecta non solum ponuntur in definitione accidentium, sed etiamsunt causae eorum. Unde conclusiones demonstrationum includunt duplicem modum dicendi per se, scilicetsecundum et quartum». Ciò che vale della conclusione vale, quanto a questo punto preciso, della premessaimmediata, purché si tenga presente che il rapporto fra il significato del predicato e quello del soggetto deve

essere, anche nozionalmente, immediato.

218 (Popup - Popup) [THOMAS DE VIO CAIETANUS], In Sum. theol., I, 2, 1, n. IV. Abbiamo citato dall'edizione leonina delle

Opera omnia di san Tommaso, vol. IV, Romae, 1888, p. 28b.

219 (Popup - Popup) An. Post. A, 2, 72 a 14-17.

220 (Popup - Popup) EPA 1, lect. 5, n. 50 [7].

221 (Popup - Popup)

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Lo stesso collegamento fra ratio entis, primi princìpi comuni e metafisica viene proposto in modo assai sinteticoin SE 6, lect. 5, n. 1181: «Universalissima autem principia sunt etiam quoadnos magis nota, sicut ea quaepertinent ad ens inquantum est ens: quorum cognitio pertinet ad sapientiam sic dictam, ut patet in quarto

Metaphysicae».

222 (Popup - Popup) I-II, 94, 2, c.

223 (Popup - Popup) Cf. ad esempio QDV 21, 4, 4m: «quia illud quod primo cadit in apprehensione intellectus est ens; unde oportet

quod cuicumque apprehenso per intellectum, intellectus attribuat hoc quod est ens».

224 (Popup - Popup) SM 4, lect. 6, n. 605.

225 (Popup - Popup) Seguiamo la lezione dell'edizione di Parma, che porta «indistincte», al posto di quella ritenuta dal Mandonnet,

che sarebbe «distincte», il ché ci sembra assurdo.

226 (Popup - Popup) Sn 1, 8, 1, 3, c.

227 (Popup - Popup) Qdl 8, 2, 2, c.

228 (Popup - Popup) Ricordiamo che la musica faceva parte, con l'aritmetica, la geometria e l'astrologia, delle arte liberali insegnatenel quadrivium. San Tommaso considera la musica, poi, come una disciplina subalternata all'aritmetica. A

questo riguardo, cf. EPA 1, lect. 25, n. 209 [3]; lect. 41, n. 358 [3].

229 (Popup - Popup) QDV 1, 12, c.

230 (Popup - Popup) Si può consultare a questo proposito M. TAVUZZI O.P., Aquinas on the Operation of Additio, «NewScolasticism» 62 (1988), pp. 297-318. Facciamo tuttavia delle riserve su una eccessiva opposizione fral'addizione secundum rationem e secundum rem, che risente dall'attrazione esercitata sull'autore dalle Logische

Untersuchungen di Husserl.

231 (Popup - Popup) QDV 21, 1, c. Corsivo nostro.

232 (Popup - Popup) Osserviamo, con questo, che san Tommaso non esita a distinguere l'ens universale e l'ens particulare, il chésuppone che l'attualità raggiunta nel giudizio di esistenza, del tipo <questo è>, possa essere in qualche modouniversalizzata in una nozione, che sarà appunto l'ens commune. Pertanto pensiamo, nonostante l'opinione

contraria del grande Gilson, che si possa concettualizzare l'esse, attraverso l'ente.

233 (Popup - Popup) Al massimo, questa aggiunta concettuale connota una quasi sottrazione reale, a modo di privazione, come nelcaso dell'uomo cieco, se si considera cioè la nozione integrale di uomo, che comprende la capacità di passareall'atto in tutte le potenze, e quindi anche nella vista. Ma il rapporto dell'ente ai trascendentali, che ci importa in

questa sede, non comporta una tale privazione.

234 (Popup - Popup) Cf QDV 1, 1, 4m: «verum est dispositio entis non quasi addens aliquam naturam, nec quasi exprimens aliquemspecialem modum entis, sed aliquid quod generaliter invenitur in ente, quod tamen nomine entis non

exprimitur». Il corsivo è nostro.

235 (Popup - Popup)

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Sui i rapporti (strutturati a modo di chiasmo) fra l'ente ed il bene, cf. I, 5, 1, 1m: «Nam cum ens dicat aliquidproprie esse in actu; actus autem proprie ordinem habeat ad potentiam; secundum hoc simpliciter aliquid diciturens, secundum quod primo discernitur ab eo quod est in potentia tantum. Hoc autem est esse substantiale reiuniuscuiusque; unde per suum esse substantiale dicitur unumquodque ens simpliciter. Per actus autemsuperadditos, dicitur aliquid esse secundum quid, sicut esse album significat esse secundum quid: non enim essealbum aufert esse in potentia simpliciter, cum adveniat rei iam praeexistenti in actu. Sed bonum dicit rationemperfecti, quod est appetibile: et per consequens dicit rationem ultimi. Unde id quod est ultimo perfectum, diciturbonum simpliciter. Quod autem non habet ultimam perfectionem quam debet habere, quamvis habeat aliquamperfectionem inquantum est actu, non tamen dicitur perfectum simpliciter, nec bonum simpliciter, sed secundumquid. -Sic ergo secundum primum esse, quod est substantiale, dicitur aliquid ens simpliciter et bonum secundumquid, idest inquantum est ens: secundum vero ultimum actum, dicitur aliquid ens secundum quid, et bonum

simpliciter».

236 (Popup - Popup) Cf. QDV 1, 10, 2m: «verum, proprie loquendo, non potest esse differentia entis; ens enim non habet aliquamdifferentiam, ut probatur in III Metaph.; sed aliquod verum verum se habet ad ens per modum differentiae, sicut

et bonum; in quantum, videlicet, exprimit aliquid circa ens quod nomine entis non exprimitur».

237 (Popup - Popup) Di là, nel testo citato, la precisione: «... homo addit aliquid super animal: non quidem ita quod sit homine aliares quae sit penitus extra essentiam animalis». Cf. anche EE 2, n. 8: «Haec autem determinatio vel designatio,quae est in specie respectu generis, non est per aliquid in essentia speciei existens, quod nullo modo in essentiageneris sit; imo quidquid est in specie est etiam in genere ut non determinatum. Si enim animal non esset totumquod est homo, sed pars eius, non praedicaretur de eo, cum nulla pars integralis praedicetur de suo toto». (Il

corsivo è nostro).

238 (Popup - Popup) Cf. EE 2, n. 10: «sed [animal] est genus secundum quod significat rem quamdam ex cuius forma potestprovenire sensus et motus, quaecumque sit illa forma, sive sit anima sensibilis tantum, sive sit sensibilis etrationalis simul. Sic ergo genus significat indeterminate totum id quod est est specie: non enim significat tantum

materiam».

239 (Popup - Popup) SM 5, lect. 9, n. 889.

240 (Popup - Popup) È importante ricordarsi che il rapporto alla sostanza appartiene alla definizione delle categorie; cf. ad esempioSM 9, lect. 1, n. 1768: «omnia accidentia habent rationem substantiae, quia in definitione cuiuslibet accidentium

oportet ponere proprium subiectum, sicut in definitione simi ponitur nasus».

241 (Popup - Popup) Cf. QDP 3, 16, 4m: «ens alio modo se habet ad ea quae sub ente continentur, et alio modo animal vel quodlibetaliud genus ad species suas. Species enim addit supra genus, ut homo supra animal, differentiam aliquam quaeest extra essentiam generis. Animal enim nominat tantum naturam sensibilem, in qua rationale non continetur;

sed ea quae continentur sub ente, non addunt aliquid supra ens quod sit extra essentiam eius».

242 (Popup - Popup) Qdl 9, 3, un., 2m. Cf. anche QDP 7, 3, 4m: «ens per se non est definitio substantiae, ut Avicenna dicit [IIIMetaphysicorum, capit. viii]. Ens enim non potest esse alicuius genus, ut probat Philosophus [III Metaph., com.10], cum nihil possit addi ad ens quod non participet ipsum; differentia vero non debet participare genus. Sed sisubstantia possit habere definitionem, non obstante quod est genus generalissimum, erit eius definitio: quodsubstantia est res cuiuis quidditati debetur esse non in aliquo. Et sic non conveniet definitio substantiae Deo,qui non habet quidditatem suam praeter suum esse. Unde Deus non est in genere substantiae, sed est supra

omnem substantiam». Vedasi pure I, 3, 5, 1m; III, 77, 1, 2m.

243 (Popup - Popup) La distinzione che proponiamo, per intendere correttamente la dottrina dei trascendentali, fra l'addizionenell'ordine nozione e l'identità nell'ordine reale, è stata assai bene spiegata da M.-D. PHILIPPE, L'activité

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artistique, Philosophie du faire, vol. II, Paris, 1970, pp. 261-262: «Autrement dit, il s'agit de distinguer dans teltranscendantal ce qu'il est en tant que distinct de l'être et ce qu'il est en lui-même. En tant que "quasi-propriété"de l'être, le transcendantal ne peut, en effet, rien ajouter de réel à l'être. A l'être on ne peut rien ajouter, puisqu'iln'y a rien en dehors de lui. Il serait donc contradictoire d'affirmer qu'un transcendantal ajoute quelque chose deréel à l'être. C'est pourquoi les transcendantaux, en tant que quasi-propriétés de l'être, s'identifientnécessairement à l'être lui-même. Ils ne peuvent s'en distinguer qu'en raison d'une certaine relation de raison, oud'une certaine négation, qu'ils impliquent explicitement dans leurs notions, tandis que la notion de l'être,considérée en elle-même, ne l'explicite pas. La seule chose que les transcendantaux peuvent ajouter à l'être, c'estdonc soit une relation de raison, soit une pure négation. Ceci ne veut pas dire que le constitutif formel dutranscendantal soit une relation de raison ou une négation, puisque, dans ce cas, le transcendantal ne serait plusquelque chose de réel, convertible avec l'être, mais un être de raison (relation de raison ou pure négation). Leconstitutif formel du transcendantal, c'est donc la notion même de l'être en tant qu'elle fonde cette relation de

raison ou cette négation».

244 (Popup - Popup) Cf. I, 5, 3, 1m: «dicendum quod substantia, qualitas et qualitas, et ea quae sub eis continentur, contrahunt ens

applicando ens ad aliquam quidditatem seu naturam».

245 (Popup - Popup) Cf. SM 11, lect. 1, n. 2169: «Nulla enim differentia participat actu genus; quia differentia sumitur a forma,genus autem a materia. Sicut rationale a natura intellectiva, animal a natura sensitiva. Forma autem nonincluditur in essentia materiae actu, sed materia est in potentia ad ipsam. Et similiter differentia non pertinet adnaturam generis, sed genus habet differentiam potestate. Et propter hoc differentia non participat genus; quiacum dico rationale, significo aliquid habens rationem. Nec est de intellectu rationalis quod sit animal. Illudautem participatur, quod est de intellectu participantis. Et propter hoc hoc dicitur, quod differentia non participat

genus».

246 (Popup - Popup) Cf. SM 5, lect. 9, n. 897: «In omnibus enim praedictis terminis, quae significant decem praedicamenta, alquiddicitur in actu, et aliquid in potentia. Et ex hoc accidit, quod unumquodque praedicamentum per actum etpotentiam dividitur»; 9, lect. 1, n. 1769: «ens dividitur uno modo secundum quod dicitur quid, scilicet substantia,aut quantitas, aut qualitas, quod est dividere ens per decem praedicamenta; alio modo secundum quod dividitur

per potentiam et actum vel operationem, a qua derivatum est nomen actus».

247 (Popup - Popup) SM 9, lect. 5, nn. 1826-1829.

248 (Popup - Popup) SM 9, lect. 7, n. 1846.