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Page 1: L'airone di Giorgio Bassani

Anno XIII, fascicoli 25-26, gennaio-dicembre 2009

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SINCRONIE

Rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero

Anno XIII, fascicoli 25-26, gennaio-dicembre 2009

VECCHIARELLI EDITORE

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SINCRONIE Rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero pubblicata con il contributo dell’Università di Roma “Tor Vergata”

Direttore: Andrea Gareffi Direttore responsabile: Silvio Cappelli

Comitato scientifico: Michael Caesar (Birmingham), Giorgio Cerboni Baiardi (Urbino), Carmen F. Blanco Valdés (Cordoba), Arnaldo Bruni (Firenze), Paolo Cherchi (Ferrara), Eugenio Coseriu † (Tübingen), José Lambert (Leuven), Paul Larivaille (Parigi), Michel Lassithiotakis (Parigi), Marco Lucchesi (Rio de Janeiro), Nicholas Mann (Londra), Jean-Jacques Marchand (Losanna), Ulla Musarra-Schroeder (Nijmegen), Giuseppe Mazzotta (Yale), Nikolaos M. Panajotakis † (Venezia), Walter Puchner (Atene), Francisco Rico (Barcellona), Andrés Sánchez Robayna (Tenerife), Ulrich Schulz-Buschhaus (Graz), Gianni Venturi (Firenze), Alfred Vincent (Sidney), Diego Zancani (Oxford), Gerasimos G. Zoras (Atene). Redattori: Nello Avella, Edo Bellingeri, Patrizio Barbaro †, Claudia Chierichini, Arnaldo Colasanti, Giuseppe Frangi, Loretta Frattale, Heather Gardner, Cristiana Lardo, Tommaso Livoli, Raffaele Manica, Roberto Mosena, Fabrizio Patriarca, Fabio Pierangeli, Maria Caterina Poznanski, Lucia Rodler, Roberta Rossini, Emiliano Sbaraglia, Varo Augusto Vecchiarelli. Segreteria di redazione: Cristina Ubaldini (responsabile), Marta Alessi, Stefano Arena, Andrea Di Lanzo, Francesca Giglio.

Redazione: Laboratorio di Scrittura e Lettura della Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Roma “Tor Vergata”, via Columbia, 1 - 00133 Roma E-mail: [email protected] Amministrazione: Vecchiarelli Editore, Piazza dell’Olmo, 27 - 00066 Manziana 06/99.67.42.20 (tel.) 06/99.67.45.91 (fax); e-mail: [email protected] www.vecchiarellieditore.com

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INDICE DUE INEDITI TEATRALI DI PAOLO PUPPA a cura di Fabio Pierangeli La Medusa universitaria e il lato oscuro del drammaturgo-Perseo. Per Paola Puppa di Fabio Pierangeli p. 11 L’Ateneo delle meduse p. 15 Girolamo p. 45 MARINETTI E LA GRECIA Marinetti ad Atene ed un dimenticato «Manifesto per la gioventù della Grecia» di Elsa Menelaou Trabalza e Gerasimos Zoras p. 57 Il poeta nazionale della Grecia Costis Palamas ammiratore di Marinetti di Gerasimos Zoras p. 65 TESTIMONIANZE: PER MARCO LUCCHESI La fiamma attraverso la cenere, ovvero la sottile melanconia poetica di Marco Lucchesi di Nello (Aniello Angelo) Avella p. 71 Discurso de posse di Marco Lucchesi p. 75 STUDI Messer Pietro Aretino: «il parere» e «l’essere» di Rocco Mario Morano p. 93 Il Dialogo d’amore di Sperone Speroni: una nuova fonte de La Galatea di Miguel de Cervantes di Valerio Nardoni p. 107 Notas sobre el concepto de “gongorismo” di Andrés Sánchez Robayna p. 119

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La iconografía del “progreso” y la “velocidad” en el espacio literario de la literatura italiana de comienzos del siglo XX: Gabriele D’Annunzio y su novela Forse che sí forse che no di Carmen F. Blanco Valdés p. 133 Una giovinezza dissipata. Morselli e la cultura giovanile a Milano negli anni Trenta di Alessandra Cenni p. 143 Pasolini, Michelangelo e la pietra viva di Angelo Fàvaro p. 159 Una ritrovata vocazione: Sinisgalli, Calvino, Levi. Letteratura come “filosofia naturale” e ordine sintropico ricostruito sulla pagina di Domenico Calcaterra p. 169 Liliana Balducci: la donna-fantasma del Pasticciaccio di Stefano Lo Verme p. 189 La notte di Pasqua nel giardino dei Finzi-Contini di Anna Langiano p. 203 La misura e la Trasformazione nell’Airone di Giorgio Bassani, ovvero la morte contro la Morte di Cristina Ubaldini p. 217 Il teatro della memoria di Nino De Vita di Lavinia Spalanca p. 239 La sfida del frammento. Riflessioni intorno al racconto di Guadalupe Arbona Abascal p. 251 Excelsior, o sugli orizzonti della parodia: la sincronia come scopo e referente di Darko Suvin p. 259 RUBRICHE Nota filologica: Il susino di Federigo Tozzi, oltre il “riflesso” di Grazia Deledda di Andrea Di Lanzo p. 275

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Nota antiquaria: Vincenzo Malacarne e Le favole di Esofago di Marco Catucci p. 285 Nota bibliografica: Le funi di Leopardi legate alle stelle di Fabio Pierangeli p. 293 Nota a margine: Tre note su Emilio Salgari e i suoi editori di Valentino Cecchetti p. 299 Toasts & Ramblers: Toast a Sergio Campailla di Roberta Colombi p. 311 Rambler a Franco Zangrilli di Michelangelo Fino p. 316 Rambler a René de Ceccatty di Angelo Fàvaro p. 321 RECENSIONI Luigi Compagnone, La famiglia De Gregorio, a cura di R. Messina, Napoli, Guida, 2009 (Sara Cataudella), p. 325; Daniele Maria Pegorari, Critico e Testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008, Bergamo, Moretti & Vitali, 2009 (Luigi Abiusi), p. 327; Roberto Salsano, Poetica drammaturgica primosettecentesca in Simone Maria Poggi, Roma, Bulzoni, 2009 (Bernardina Moriconi), p. 329; Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise, Macerata, Quodlibet, 2009 (Francesca Giglio), p. 331; Rosamaria Loretelli, L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla scrittura silenziosa, Bari, Laterza, 2010 (Ilaria Camplone), p. 335.

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Cristina Ubaldini

LA MISURA E LA TRASFORMAZIONE NELL’AIRONE DI GIORGIO BASSANI, OVVERO LA MORTE CONTRO LA MORTE

Anche tu Anche tu

simile tu anche al misero Edgardo

incapace di dire sì al mondo

altrimenti che salutandolo facendogli ciao tanto sono A.

B. (G. Bassani)

Perché ciò che ci rende estraneo e greve il morire è che la morte non è nostra, ch’essa ci prende solo perché non ne abbiamo maturata un’altra.

(R. M. Rilke) Noi non abbiamo che una risorsa contro la morte: fare arte di fronte a lei.

(René Char) Le storie di Bassani sono, in un modo o in un altro, storie di ritorni e molti dei

suoi personaggi, come egli stesso afferma1, proprio perché appartenenti ad un mon-do che non esiste più, che è stato cancellato, sono morti ancor prima di morire, sono, come scrive Eraldo Affinati, «mortificati»2; si tratta quindi, spesso, di storie che, per usare una formula solo apparentemente paradossale, iniziano dopo la fine; ma quella del suo ultimo romanzo, pur strutturato come un viaggio di ritorno nei luoghi di una vita ormai conclusa, ha un’essenza che la fa diversa da tutte le altre. Bassani ha scritto che mentre si preparava alla stesura dell’Airone aveva riletto La morte di Ivàn Il’ič di

1 G. Bassani, Un’intervista inedita (1991), in Id., Opere, a cura di R. Cotroneo, Milano, Mondado-ri, 1998, pp. 1344-1346. 2 E. Affinati, Giorgio Bassani: uno scrittore astratto, in La nuova critica letteraria nell’Italia contemporanea, Antologia a cura di A. Colasanti con un piccolo schedario della critica a cura di T. Debenedet-ti, Rimini, Guaraldi, 1996, p. 127.

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Tolstoj nella - fantomatica - versione di Clemente Rebora: In entrambe le circostanze [la prima era stata anni prima, nei tre mesi di carce-re a Ferrara nel 1943, durante i quali aveva riletto Guerra e pace] mi sentivo di-sperato, addirittura prossimo alla morte. D’istinto cercavo conforto nella poe-sia, in quella vera, la quale, pur essendo diversa dalla vita, anzi, in fondo il suo contrario, non può non tendere che a restituirtela, la vita, a farti sentire di nuo-vo al centro di essa.3

Le affinità tra i due libri appaiono subito numerose4, eppure è dalle loro differen-ze che può emergere qualche indicazione preziosa per la comprensione dell’Airone. Se Ivàn Il’i� , «scampa al suicidio» comprendendo ed accettando la necessità di una morte che gli si impone da dentro il corpo, Edgardo Limentani non deve combattere contro la malattia5 e giunge a procurarsi egli stesso la morte proprio al termine di un percorso in cui il corpo e le sue azioni di trasformazione sono protagonisti in negati-vo.

Ivàn è chiamato dai suoi congiunti «le phénix de la famille» - la formula resta sospesa per qualche pagina, priva di senso, finché non se ne comprende l’ironia - poiché so-vente inaspettati “rivolgimenti” e “mutazioni” nel mondo incidono efficacemente e positivamente sulla sua esistenza, senza che lui abbia il minimo merito nei successi che consegue; egli, quindi, è uno che si lascia trascinare dalle trasformazioni del mondo, lascia che il cambiamento lo porti con sé; e, come si lascia trascinare dalla vita, così imparerà a farsi guidare anche dalla morte. La sua infermità si manifesta principalmente nel fisico - «diceva di avere uno strano sapore in bocca, e qualcosa di fastidioso nella parte sinistra del ventre.»6 -, e, dopo diagnosi incerte e terapie inutili, 3 G. Bassani, A proposito di Tolstoj, in ivi, p. 1287; i corsivi sono del testo. 4 Anna Dolfi (Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia, Roma, Bulzoni, 2003) ha condotto sull’Airone approfonditi studi che ne hanno illuminato gli aspetti fondamentali - struttura nar-rativa e scansione temporale dell’opera, dimensione psicologica e percorso esistenziale del personaggio, rapporto dell’autore con l’opera e col personaggio - soffermandosi sulla comu-nanza di molti aspetti fra queste due opere. Un puntuale confronto fra Tolstoj e Bassani è sta-to condotto anche da Elena Paruolo, Tolstoj in Bassani. La morte di Ivan Il’ič e L’airone, in «Fi-lologia e critica», 3, 2004, pp. 470-476. Per una panoramica bibliografica esaustiva delle opere e della critica cfr. P. Prebys, Giorgio Bassani: bibliografia sulle opere e sulla vita, Firenze, Centro Edi-toriale Toscano, 2002 e l’edizione aggiornata, Ead., Giorgi Bassani. La biografia delle opere. La memoria critica, Ferrara, Edisai, 2010. 5 Di qualche interesse, ancora contrastivo, è anche il confronto con la novella pirandelliana L’uccello impagliato: qui la strenua opposizione alla morte per tisi, condotta dal protagonista, Mario, preventiva addirittura, è messa in scena nei toni di un esistenzialismo moraleggiante e la chiave di lettura è da individuare nel finale amaramente ironico che travalica il momento del suicidio, peraltro raccontato senza reticenze, per illuminare con una considerazione asprigna, piuttosto la ridicola assurdità di certi atti di morte compiuti dagli uomini quando perdono il senso della propria sussistenza nel mondo, che non il mistero della morte in sé. Sulle conver-genze di alcuni testi bassaniani con le Novelle pirandelliane si veda M. Mecchia, Impronte piran-delliane nell’Airone di Giorgio Bassani, in «Sincronie», XII, 24, luglio-dicembre 2008, pp. 209-220. 6 L. Tolstoj, La morte di Ivàn Il’ič, in Id. Tutti i racconti, a cura di I. Sibaldi, voll. II, Milano, Mon-

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continua a manifestarsi come un male profondo e oscuro della carne: Il dolore al fianco continuava a tormentarlo, era come se continuasse ad au-mentare, diveniva costante, il sapore in bocca si faceva sempre più strano, gli sembrava di esalare un qualche puzzo ripugnante dalla bocca, e l’appetito e le forze diminuivano. Non era possibile ingannarsi: qualcosa di terribile, di nuo-vo, e di significativo come null’altro nella sua vita, stava avvenendo dentro di lui. E lui solo ne era a conoscenza, tutti quelli che lo circondavano non capiva-no o non volevano capirlo, e pensavano che tutto, al mondo, andasse come prima.7

Gli effetti di questa “nuova terribile cosa”, portatrice di nuovi significati, si mani-festano immediatamente nell’aspetto: il suo ritratto di qualche anno prima non ha più molto in comune con l’immagine che gli restituisce lo specchio; e la morte, che lo fa cambiare già in vita, gli chiede accettazione e comprensione: «Nel profondo dell’anima Ivàn Il’i� sapeva che stava morendo, e non soltanto non s’era abituato alla cosa, ma, semplicemente, non la comprendeva, non poteva in alcun modo capire quel genere di cose»8. Nonostante si fosse sottratto alla morte con particolari «per-corsi del sentimento»9, “lei” aveva continuato a guardarlo senza tregua e, quando fi-nalmente Ivàn capisce, arriva a chiedersi: «“Possibile che solo lei sia la verità?”»10. Come una fenice fissata da Medusa, trascorre tre giorni di agonia finché non si ac-corge che qualcosa, un veleno, il dolore, deve uscire dal suo corpo per liberare anche l’anima: Ivàn sperimenta che l’unica possibilità di trasformazione vera risiede in quel tormento terribile che viene inflitto al corpo dalla malattia e che si risolve solo con l’accettazione della morte.

Il mondo di Bassani e quello di Tolstoj non sono commensurabili11. Se per Tol-stoj il problema del suicidio appartiene alla morale e non può essere accettato, tanto che in un articolo del 1890 scrive:

La questione se l’essere umano abbia - in generale - il diritto di uccidersi, è mal posta. In realtà il problema non si dovrebbe porre riguardo al “diritto”: dal momento che l’essere umano ha la possibilità di uccidersi, ha anche il diritto di farlo. Io penso che tale possibilità di autodistruggersi, che ci è stata data, rap-presenti una valvola di sicurezza. Poiché l’essere umano può uccidersi, non ha il diritto - e qui tale termine si trova al posto giusto - di dire che la vita gli è in-sopportabile. […] Ci si può solo domandare se è ragionevole e morale - questi

dadori, 1991, vol. II, p. 359. 7 Ivi, p. 365. 8 Ivi, p. 373. 9 Ivi, p. 374. 10 Ivi, p. 375. In corsivo nel testo. 11 F. Camon, La moglie del tiranno. Saggi e conversazioni critiche con Moravia, Pratolini, Bassani, Casso-la…, Roma, Lerici, 1969, p. 91: «Io sono storicista e lo dimostro con le analisi di tipo storio-grafico in cui immergo la realtà umana dei miei personaggi. […] C’è, in sostanza, una tensione di tipo religioso, sia in me che in Cassola, tipica anche di altri scrittori maturati attorno al Cin-quanta e usciti dal travaglio resistenziale. Cassola si rifà a Tolstoi, io mi rifaccio a Croce, que-sto spiega una certa consanguineità morale: […]».

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due termini sono inseparabili - uccidersi. No! Uccidersi è irragionevole, così come tagliare i polloni di una pianta che si vorrebbe estirpare. Essa non morrà, crescerà irregolarmente, ecco tutto. La vita è indistruttibile, è al di là del tempo e dello spazio. La morte non può che cambiarne la forma, mettendo fine alla sua manifestazione in questo mondo12

Con Bassani siamo, invece, in un orizzonte esistenzialista in cui la scelta del suicidio assume un ruolo trascendente la sfera del bene e del male:

Edgardo Limentani cerca disperatamente di tornare al mondo uccidendo gli animali come fanno tutti quanti i borghesoni della sua città. Anche lui cerca di fare altrettanto, ma non gli serve più, e allora uccide se stesso. Solo così può, in qualche modo, tornare al mondo. Morendo.13

una scelta che fa di questo personaggio qualcosa di veramente diverso da tutti gli al-tri, come Bassani stesso riconosce:

Se Limentani avesse avuto una qualche possibilità di svincolo, non ne avrei parlato, questa è la cosa. La novità, l’originalità di Edgardo Limentani, sta so-prattutto nel suo aver capito che l’unico modo, per lui, di sopravvivere, è quel-lo di uccidersi. Si uccide, lui, che dentro non ha più niente, niente di niente, proprio perché il suicidio è l’unico modo, per lui, di tornare alla vita, di essere vivo. È per questo che io ne parlo. Di che cosa vuoi che parliamo, noi poeti, se non di personaggi di questo tipo, che assomigliano a noi? E per quale motivo scrivono, i poeti, se non per tornare al mondo?14

Qualcosa di altro rispetto al mondo che ha raccontato fino a quel momento e quindi anche rispetto a se stesso, una forza che lo sovrasta e lo vince; la sua storia, dice, è la più grande di tutte, perché porta in sé cose che lo stesso autore non sa dirsi. Con grande lucidità Luigi Baldacci ha scritto:

[L’airone] pur appartenendogli al cento per cento, presenta alcune sostanziali novità d’impostazione e di struttura. [… Edgardo] Un personaggio meno ama-to, visto con una maggiore crudeltà, ma anche sentito con una più viva soffe-renza e una partecipazione più diretta alla sua vicenda.15

Edgardo costituisce una «novità», non solo rispetto a tutti i propri personaggi - ad esempio, Geo Josz che va nel mondo dello sterminio dei campi nazisti e torna, o Clelia Trotti che, nonostante sia socialmente morta con la fine del socialismo, vuole tornare alla vita -, ma anche rispetto a Micòl, il suo alter ego, l’unica che non «appar-tiene alla morte»16, l’unica che, riconosce il suo autore, al contrario degli altri Finzi-

12 L. Tolstoj, Sul suicidio, in Id., Il bastoncino verde. Scritti sul cristianesimo, Bergamo, Servitium, 1998, pp. 30-31. 13 G. Bassani, Un’intervista inedita (1991), cit., p. 1348. 14 Ivi, p. 1347. 15 L. Baldacci, Novecento passato e remoto. Pagine di critica militante, Milano, Rizzoli, 1999, p. 399. 16 G. Bassani, Un’intervista inedita (1991), cit., p. 1348.

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Contini, non si abbandona, non cede, pur non avendo scampo: Micòl è assolutamente diversa dagli altri: anche lei passa attraverso la galassia, però miracolosamente non ne è toccata. Anche lei è costretta a nascondere la sua inclinazione, il suo ardore profondo, attraverso tanti no: anche lei appar-tiene alla generazione che ha letto Montale, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Però, proprio come l’angelo di Montale che ha attraversato le alte nebulose ed ora è lì, intatto, nello studio del poeta.17

E l’angelo-Micòl, a quanto pare, diviene immagine della facoltà che Bassani può impiegare per comprendere quel che di Edgardo non riesce a controllare, la sua pro-fonda ed enigmatica verità:

La logica borghese, cioè la borghesia intesa come mediatrice degli opposti, tra realismo e idealismo, è parte della mia cultura, della mia filosofia, del mio esse-re, del mio stesso stile: io l’accetto perché è irrinunciabile. Però, proprio come Micòl è eccezionale rispetto al suo stesso ambiente, ho l’intuizione del contra-rio cioè dell’a-logico, dell’abisso della religione, del misticismo: altrimenti non sarei poeta. Il restar fedele alla mia cultura è un fatto disperato, l’unico appiglio per non essere travolto dalla mia natura profonda, tellurica e passionale. Io non mi rassegno ad essere un poeta. Un poeta che si rassegna ad esser poeta è già un lette-rato. Voglio lottare contro la mia natura, proprio per essere un poeta.18

Proprio l’intuizione dell’a-logico, e di un certo qual misticismo, al di là di qualsiasi confessione o religiosità, mi sembra sia importante ricercare nelle pagine dell’Airone19. L’agonia spirituale di Edgardo Limentani non ha niente dell’agonia fisica di Ivàn Il’i� ed è combattuta in un orizzonte profondo ed immaginale tra le due forze opposte della misura e della trasformazione, tra la coscienza individuale che pretende un di-sperato e vano controllo sul mondo e l’essere delle cose che chiede accettazione. L’esito sarà dettato da un gesto di rifiuto estremo che attribuirà una sacralità tutta speciale alla storia in sé e al suo rapporto con chi l’ha scritta.

La vicenda di Edgardo inizia col risveglio prima dell’alba, nell’oscurità delle quattro di mattina di una domenica fra Natale e Capodanno del 194720, e si svolge nell’intervallo di tempo che il sole impiega a compiere il suo giro più breve. È un viag-gio apparentemente circolare, un dubbioso e tormentato ritorno verso luoghi e tempi ormai perduti che si inarca verso un sordo e ineluttabile appressamento al suicidio. Lo schema narrativo è perfettamente simmetrico: due parti conducono a ritroso nel pas-sato «giù giù», da casa verso il luogo di morte dell’airone, due parti riconducono verso il suicidio in casa. È un sogno21, come si legge nella scena clou della caccia all’airone:

17 Cfr. F. Camon, La moglie del tiranno, cit., p. 94. 18 F. Camon, La moglie del tiranno, cit., p. 97; corsivi del curatore. 19 A. Barolini, Un libro di parabole, in «La Discussione», XVI, novembre 1968. 20 G. Bassani, L’airone, in Id., Opere, cit., p. 743. D’ora in poi indicherò le pagine del romanzo tra parentesi nel testo. 21 Si legge nelle Notizie sui testi delle Opere, Milano, Mondadori, 1997, p. 1771 che i capp. 3 e 4 della terza parte sono stati pubblicati in anteprima su «L’Espresso» (40, 6 ottobre 1968) pro-

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Era un po’ sempre come se stesse sognando. […] Anche una folaga che più tardi gli era sfrecciata a lato vicinissima col sibilo di un proiettile, anche questa gli sembrava di essersela sognata. […] Come può succedere soltanto negli in-cubi, in un attimo, […] lui era riuscito a vedere tutto, a notare tutto, e a tutto pensare, nel mentre, tranne che a imbracciare la Krupp e premere il grilletto. Niente più appariva come reale. (p. 773)

È un delirio22, come si capisce quando Edgardo si ritrova di fronte al citofono dei Cavaglieri:

Delirava, sì, e chissà da quando. Dalla mattina, dall’istante che si era svegliato, e poi, giù giù, lungo l’intera giornata, lui non aveva fatto che delirare. Delirava ancora. Codigoro. Quei portici… Con una lucidità repentina si sorprese a chiedersi: ma lui, lui stesso, vestito da caccia, col berretto di pelo in testa, a quell’ora, sotto quei portici, ma lui chi era, veramente? (p. 822)

È un continuo, ineluttabile precipitare: il passo che dà inizio al viaggio è mosso fuori, «risalendo con una certa fatica dal pozzo senza fondo dell’incoscienza» (p. 703)23 del sonno verso il pozzo del cortile: «E di lì a poco, con la sensazione di calarsi dentro un pozzo, scendeva lentamente per il buio scalone elicoidale che portava fin giù nel portico d’ingresso.» (p. 718)24. Il segnale del pozzo è preciso, dominano i luo-ghi chiusi e poco luminosi: gli interni sono scatole ricolme di presenze o prigioni che albergano vite ammassate. Moltissimi luoghi sono pervasi e saturati25 dalla penombra, e anche all’esterno la nebbia circoscrive lo spazio: «Avanzava a fatica, come dentro una specie di budello sotterraneo» (p. 783). La nebbia è ovunque, fuori e dentro: quando Edgardo torna a Codigoro la piazza ne è invasa e lui «Taglia di traverso il bu-io fluttuante, lago di gas che sommergeva la piazza» (p. 784)26; nel caffè Fetman «se-duti ai tavolini in fondo allo stanzone rettangolare che più che a un caffè somigliava a un garage, atmosfera nebbiosa, impregnata di odori di espresso, di grappa, di tosca-

prio col titolo Il sogno di Edgardo. 22 P. P. Pasolini, Bassani: storia di un delirio, in «Tempo», 16 novembre 1968. 23 Questo è il titolo che Bassani aveva dato ai primi due capitoli, pubblicati in anteprima nel 1965 nel volume Due novelle (Venezia, Sodalizio del Libro), insieme al racconto La Pelandra col titolo Les neiges d’antan, poi divenuto la seconda parte de Les neiges d’antan del Romanzo di Ferrara (cfr. Notizie sui testi delle Opere di Bassani, cit., p. 1771). 24 La sensazione del pozzo torna: poco prima di arrivare a Volano Edgardo medita sugli effetti di un ritorno immediato a casa: «[…] tutto questo non sarebbe valso che a ripiombarlo, non ne aveva il più piccolo dubbio, in fondo a quel medesimo cupo pozzo di tristezza accidiosa da cui a un certo punto aveva creduto di essere emerso definitivamente.» (p. 754). 25 Si registrano solo rare eccezioni, come la casa di Remo ed Imelde dove Edgardo si fermerà durante il giorno: «nella cucina, in particolare, così linda, così ordinata, così bene illuminata, e soprattutto così ben riscaldata dalle piastre roventi della stufa economica - […] qui sì che si sentiva a suo agio, veramente e completamente a casa sua!» (p. 721). 26 La parola “gas” viene pronunciata da uno dei figli di Rico durante la prima telefonata; una voce «con impazienza ma anche ridendo. “Vieni fuori, dài, che non c’è gas…”» (p. 748); in-sieme al panino, quando ormai è uscito dall’Aprilia per andare verso la botte, scopriamo che Edgardo ha preso da bere una gazosa (p. 762).

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no, […]» (p. 743); anche il bagno di casa al mattino si riempie di «una nebbia fitta e tiepida» (p. 710).

Sono privilegiati, di questi luoghi chiusi, i varchi; entrare in un luogo e, ancora di più, non riuscire ad entrarci è fondamentale: Edgardo entra in casa di Romeo e I-melde, entra nella camera della Rory e poi in quella della moglie, nel Bosco Elìceo, nel caffè Fetman, nella botte, nella camera, nell’auto, ma non riesce ad entrare nel palazzo dove vivono Ulderico e sua moglie e nella bettola del porto fluviale. E questi varchi è fatale che si possano chiudere o no a chiave27: il capitolo 3 della terza parte si apre col gesto del Bellagamba che gli porge la chiave, una chiave che non lo protegge dal pericolo della meretrice, perché «purtroppo l’aveva lasciata fuori, nella toppa della serratura. In caso contrario avrebbe potuto anche chiudersi dentro, senza star lì a fa-re tante storie.» (p. 801).

Tutto il viaggio è scandito da un continuo ansioso ossessivo bisogno di misura-zione dello spazio, delle cose e del tempo: dalla finestra del bagno del Bosco Elìceo «Come un geometra sprovvisto degli strumenti necessari cercava di misurare a oc-chio distanze e proporzioni» (p. 736); in chiesa «Comiciò a contare i banchi. Pren-dendo dalla prima fila e risalendo su su, arrivò a contare fino a quaranta. Ogni fila di banchi avrebbe potuto ospitare comodamente una ventina di persone. Due per quat-tro, otto. Dunque ottocento persone a sedere» (p. 828); l’orologio da polso Vacheron Constantin gli segnala sistematicamente un ritardo sempre più irriducibile rispetto alla tabella di marcia che s’era prefisso.

La stessa ossessività si sente nel ricorrere di alcuni particolari, come le insegne e le etichette: l’etichetta del bagno nel Bosco Elìceo; i ritagli di giornale trovati lì dentro, come un puzzle o una sciarada, che hanno un effetto simile a quello delle insegne delle vie al porto fluviale, con i nomi che si stanno scolorando e che Edgardo rimette in ordine, restituendo loro un senso. Analogamente, i nomi e le sigle trapuntano le pagine: il viaggio verso Codigoro è una ricostruzione minuziosa dei luoghi attraverso i toponimi; l’albergo del Bellagamba ha un nome fortemente simbolico, Bosco Elìceo è la denominazione di un vino locale, ma l’elce o leccio è una varietà di quercia; inol-tre sembra quasi deformazione di Eliseo o Eliso e anche di helix, chiocciola28; lo stabile dell’I.N.A. sembra incombere sullo spazio circostante, più che per la sua mole «alta, massiccia, imponente» (p. 818), per quella sigla, enorme anch’essa, dominante nel pensiero. Uscio, etichetta e nome si incrociano nel portone al numero 7 di via della Resistenza, dove si entra per giungere agli appartamenti 17 e 18 dei Cavaglieri:

[…] era una porta di proporzioni modeste, situata all’estremo limite del palaz-zo; là dove, finiti i portici, ricominciavano le solite casupole. La vide subito, non appena ebbe girato l’angolo. Era stato il piccolo riquadro verticale dei nomi degli inquilini, affissi sottovetro sullo stipite di destra e illuminati fioca-

27 Alla complessa valenza simbolica della chiave, a tutte le sue declinazioni, da quella alchemi-ca a quella erotica, e alla sua ricorrenza nelle opere letterarie, basti pensare al Faust di Goethe o al dantesco suicida Pier delle Vigne che tenne «ambo le chiavi / del cor di Federigo» (Inf. XIII, 58-59), sarebbe necessario dedicare una bibliografia immensa. 28 La forma «elicoidale» è dello scalone che Edgardo scende all’alba per andare a prendere l’auto (cfr. p. 718).

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mente dall’interno, a fargliela riconoscere di lontano. […] Si avvicinò. Si chinò a scrutare le targhette dei cognomi. Lesse: CAVAGLIERI ing. ULDERICO. (p. 821)

Questa pletora di dettagli stenta ad offrire di sé un disegno intelligibile e intrappo-la il lettore in un gioco di risonanze ossessive, di ritorni ritmici serrati, di claustrofo-bico horror vacui, dove tutti gli elementi sono costretti ad una staticità eterna, enigma-tica ed afasica che non è vita e non è morte. Cesare Garboli, commentando il passo in cui Edgardo si chiede il senso di un’apparizione che resta priva di spiegazioni «La cocorita? Cosa c’entra la cocorita?» (p. 831), sostiene che questa è una «novella per-corsa da una crescente comicità, da un rire baudelairiano per la coincidenza di trage-dia, assurdo e stupidità»29. Ma, forse, è stato anche più preciso Enzo Siciliano, nella Nota del 1969 aggiunta alla riedizione del saggio L’anima contro la storia:

L’airone, l’ultimissima storia ferrarese, è la proiezione di un bisogno che la sim-bologia bassaniana aveva variamente anticipato. Il tema della morte come sal-vezza, - la morte come contemplazione mistica della vita: comunione racca-pricciante, sia pure inevitabile, con essa. […] Che cosa è accaduto con L’airone? che Bassani ha scritto il suo libro non elegiaco: ha tolto dai suoi occhi le lenti del rammarico. […] Qui il “passato remoto” acquista una saldezza sconosciu-ta, sale a tonalità dominante. Il petrarchismo parrebbe dissolversi, e al suo po-sto subentrare la coscienza del narrare in prosa: affidare i segni della propria vi-ta a simboli fallibili, accettare che l’irrisolto si spieghi con se stesso, rischiando ogni offuscante contraddittorietà.30

Nell’Airone la narrazione si struttura come rebus sovraccarico di elementi, saturo di particolari studiati, calibrati, disseminati ovunque31, costruito con l’ossessione strindberghiana di chi non può non sentire la significanza oscura di ogni cosa; ma va stabilita una essenziale differenza tra gli oggetti misteriosi posti dall’autore sulla scena perché sia evidente che si vogliono misteriosi e gli oggetti nascosti, mimetizzati, posti in un angolo e poi dimenticati, che davvero incarnano il mistero, non rischiano di essere, come dice Siciliano, «fallibili»32, e restano simboli e restano veri. Quando un personaggio si chiede il senso di qualcosa che gli appare inspiegabile, le ruba definiti-vamente il potere simbolico e lo trasforma in un enigma:

E. M. Forster ha detto che finché un’opera d’arte ostenta un elemento mistifi-cante, essa non è un’opera d’arte, non è “una Musa immortale, ma una Sfinge che muore non appena i suoi enigmi trovano risposta”. Esistono di sicuro simboli ai quali questa mirabile definizione si adatti perfettamente. Essi ci tur-bano fin quando non li abbiamo capiti, e subito dopo ci annoiano. Il loro ora-colo è un luogo comune mascherato. Ma un grande simbolo è esattamente il

29 C. Garboli, L’airone, in Id., La stanza separata, Milano, Scheiwiller, 2008, p. 349. 30 E. Siciliano, Autobiografia letteraria, Milano, Garzanti, 1970, pp. 134-135. 31 Camon, nell’introduzione alla citata intervista in La moglie del tiranno, sottolinea (p. 21): «Chi abbia letto il romanzo, avrà avvertito come sia sottile il velo dei simboli, e quanto i richiami delle corrispondenze siano espliciti e puntuali». 32 G. Ferrata, L’airone e l’uomo senza senso, in «Rinascita», 29 novembre 1969.

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contrario di una sfinge; vive con maggior pienezza quando il suo enigma è sta-to sciolto […].33

Nei testi di Bassani ci sono, mescolate con i veri simboli, finte sciarade, inventate a bella posta, artificio dell’artificio che si rivela volutamente insignificante: ora una apparente citazione tra virgolette si risolve in un ammiccamento a fasulle sentenze memorabili, come qui la formula «la vita, la famosa vita» (p. 837), o come nel Giardi-no, «il caro, il dolce, il pio passato» (con tanto di corsivo!)34, ora un’enumerazione este-nuante e minuziosa di particolari sfuma in un prosastico «eccetera»35; ora la parono-masia che dovrebbe agire sul lettore ad un livello inferiore a quello della coscienza, ad esempio quella che lega la targa della macchina che inizia con la sigla FE all’insegna del caffè Fetman dove Edgardo ordina un Fernet (FE-fè-Fet-Fer), è sottolineata, e quindi sciolta e annientata, in questo caso dal Bellagamba che si domanda il significa-to dello strano nome del caffè. Scrive Garboli:

Bassani segue Flaubert fin tanto che il grande maestro lo guida per i sentieri dell’oggettività indirettamente lirica, tragica e oratoria. Ma volta le spalle al “flaubertismo” nel punto in cui gli strumenti dell’oggettività diventano negativi e simbolici. Bassani non può “mortificare” oggetti già morti, lavora su cadave-ri, con procedimento analogo e opposto a quello di un imbalsamatore. […] nega i suoi trucchi mentre ci si danna sopra, mira ad afferrare se stesso “al di fuori” dell’arte. Bassani si “serve” dell’arte, la “adopera”.36

Accettando il gioco dell’autore ho seguito tutti i segnali, con la sua stessa ossessi-vità, finché, diradata la nebbia fitta dei richiami troppo luminosi di molti di essi, non mi è parso di scorgerne uno nella penombra, silente e vero: la stadera trovata nella cassa lasciata al bureau del Bosco Elìceo:

Frattanto era entrato: con l’impressione, appunto, anche per via del fortissimo odore di pesce alla griglia che lo aveva preso alla gola non appena varcata la soglia, di penetrare in una caverna, in una tana di animale selvatico. Si tolse il berretto di pelo, guardò attorno. Si trovava al centro di una saletta di media

33 E. Wind, L’eloquenza dei simboli, in L’eloquenza dei simboli e La Tempesta: commento sulle allegorie poetiche di Giorgione, a cura di J. Anderson, tr. it., Milano, Adelphi, 1992, pp. 4-5. Sul simbolo cfr. R. Alleau, La scienza dei simboli: contributo allo studio dei principi e dei metodi della simbolica, Firen-ze, Sansoni, 1983; H. Vaihinger, La filosofia del “Come se”. Sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano, tr. it., Roma, Ubaldini, 1967, in particolare il Capitolo IV, Fin-zioni simboliche (analogiche), pp. 24-25 e 39-44; E. Cassirer, La filosofia delle forme simboliche. I. Il lin-guaggio, Firenze, Sansoni, 2004. 34 G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, in Id., Opere, cit. p. 578. Sulla citazione e le sue poten-zialità cfr. A. Compagnon, La seconde main ou le travail de la citation, Paris, Éditions du Seuil, 1979. 35 Ad esempio, nella baracca (p. 758), nel Bosco Elìceo, mentre Edgardo sale le scale verso la camera (p. 796), nel sogno, quando ripercorre la vista dalla finestra della camera (pp. 805-806), nell’elenco delle vie al porto fluviale (p. 826) e in quello degli oggetti nella camera della madre (p. 854). 36 C. Garboli, Op. cit., p. 347.

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grandezza, immersa in un buio quasi completo. Dal lato opposto all’ingresso, in cima a una specie di piccola cattedra isolata, una lampada da tavolo sormon-tata da un paralume di seta verde spandeva in giro un po’ di luce giallastra. La cattedra, lo capì subito, non era che il bureau da portiere dell’albergo, nuo-vo di zecca. Dietro, da ganci numerati infissi in doppia fila nella parete tirata a calce di fresco, pendevano dieci o dodici chiavi. Nella penombra non arrivava a vedere altro. Ma gli bastava. Gli bastavano quel bureau e quelle chiavi per rendersi conto di quanto poco il locale presente, trasformato dall’ex caporale della Milizia in ristorante e albergo, avesse da spartire con la bettola paesana e senza pretese di anni fa, quale lui se la ricordava. Bellagamba era rimasto indietro. Lo udiva borbottare, imprecare fra i denti contro la saracinesca che non voleva ridiscendere. Ogni tanto raccomandava di stare attento. Per terra c’era una cassa mezzo sfasciata con dentro della roba che pesava: una stadera arrivata la sera prima da Milano per corriere. Poteva inciampare, farsi del male. (p. 731)

Mezzo nascosta e mezzo invisibile, in un luogo quasi infernale, buio e soffocante per via di un forte odore di pesce cucinato, Edgardo trova una stadera in una cassa che contiene «della roba che pesava»; questa cassa è un oggetto seminascosto dall’invadenza di altre presenze, ma segnalato, sommessamente e segretamente, come avverrà ancora in momenti importanti della narrazione, da un impiego “intensivo” del linguaggio. In questo caso ci mettono in allarme l’ambiguità semantica37 del verbo e l’uso straniante della sintassi: pesare significa sia rilevare il peso, sia aver peso, quindi siamo anche solo inconsciamente portati ad aspettarci che la “roba” apparterrà ad entrambi i significati e, dal momento che si tratta di roba e che vengono inseriti i due punti, siamo pronti a leggere quanto meno un breve elenco. Invece dopo i due punti troviamo solo la stadera.

Edgardo solo per poco non inciampa nella cassa della stadera e riesce a passare oltre; ma, se vogliamo capirne qualcosa in più, noi dobbiamo inciampare e indugiare su di essa, magari amplificandone un po’ l’immagine. Forse un esempio dell’arte figu-rativa38 può aiutare a comprendere la particolare opposizione di immagini che si crea in questa scena. Il pittore cinquecentesco Vincenzo Campi39, esponente di rilievo del-

37 W. Empson, Sette tipi di ambiguità. Indagine sulla funzione dell’ambiguità nel linguaggio poetico, tr. it., Torino, Einaudi, 1965, Capitolo settimo, pp. 297-352. 38 Che la narrazione di Bassani sia narrazione “figurativa” e che sia fortemente correlata alle esperienze dell’arte è ormai universalmente riconosciuto, mi limito a rimandare ai citati studi di Anna Dolfi, all’introduzione delle Opere di R. Cotroneo, La ferita indicibile (pp. XIX e sgg.), all’articolo di Giorgio Patrizi, Le parole motivate dalle immagini. Bassani e la pittura, in Giorgio Bassa-ni. Uno scrittore da ritrovare, cit., pp. 179-188; e ancora alle relazioni di P. Bassani Pacht, S. Costa, M. A. Bazzocchi, presentate alla Giornata di Studio Bassani e Longhi, in «Paragone. Letteratu-ra», con sette lettere inedita di Bassani a Longhi curate da M. C. Bandera, LVII, terza serie, 63/64/65 (672-674-676), 2006, pp. 35-78. 39 Non è dimostrato, ma è possibile che Bassani avesse conoscenza di questo artista cremone-se (1536-1591); cfr. I Campi. Cultura artistica cremonese del 500, a cura di M. Gregori, Milano, 1985; F. Paliaga, Vincenzo Campi, Soncino, Edizioni del Soncino, 1997; Vincenzo Campi: scene del quotidiano, Catalogo della Mostra tenuta a Cremona nel 2000-2001, a cura di F. Paliaga, Mila-no, Skira, 2000; M. Tanzi, I Campi, Milano, 5 Continents Editions, 2005).

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la natura morta nel Cinquecento, dipinge con grande frequenza proprio la stadera come simbolo del dominio sulla voluttà; i soggetti dei quadri di ambientazione profa-na sono nel Campi spesso le cucine, luoghi carichi di un erotismo trasfigurato nella carnalità animalesca, ricolmi di nature morte vegetali e animali, nature morte alimen-tari, e popolate da ambigue figure di donne in atteggiamenti provocatori che emana-no una femminilità popolare, talvolta davvero rozza (Figg. 2-3). In particolar modo, la soluzione iconografica della Venditrice di frutta (circa 1580), nella quale la stadera è nascosta, quasi invisibile, fra le gambe della donna al centro della scena, circondata da ceste di frutta40, soffocata dal rigoglio della vitalità umana e vegetale, somiglia molto a quella della scena del Bosco Elìceo, con la variazione dell’ambientazione nell’oscurità di un luogo chiuso.

La stadera è il tipico strumento dello scambio commerciale e la pesatura e lo scambio dominano il momento in cui Limentani offre in dono al Bellagamba le be-stie che rendono «carico», in qualche modo “appesantito”, il bagagliaio della sua au-to. A queste due azioni della pesatura e dello scambio è necessario accostare anche il pagamento: Edgardo vorrebbe pagare Gavino in anticipo, quasi preconizzando con-seguenze che la caccia porterà nella sua esistenza, ma non ci riesce; nel sogno cerche-rà di pagare la donna che gli si offre al Bosco Elìceo per cacciarla via; al Bellagamba vorrà pagare il gettone telefonico la prima volta - ma la seconda volta se ne dimenti-cherà, proprio nel momento in cui quasi decide di buttarsi nello “schifo” -. L’idea del denaro e della ricchezza gli invade i pensieri mentre, tutto vestito, si butta nel letto sperando di addormentarsi: vede i volti del Bellagamba, della Nives, di Gavino e ri-pensa a tutti quegli sconosciuti milanesi che popolavano la sala da pranzo:

[…] commendator Ceresa e compagni […] erano i soldi, i “bajocch”, a conferire tanta sicurezza, tanta salute, e a fare apparire colui che ne possiede al di sopra di un dato livello come appartenente a una razza diversa, più forte, più vitale, più bella, più simpatica! […] era chiaro che a stare vicini a gente di quel tipo, tutto, tutto, […] diventava di nessuna importanza. (p. 799).

Pesatura, scambio, pagamento41 sono tre diversi modi di misurare le cose, di dar loro una dimensione e un valore, di ingabbiare la vita in ordini di valore pseudora-zionali. E la pesatura del corpo è questione che riguarda in modi opposti, sia

40 La stadera è anche nel celeberrimo La macelleria di Annibale Carracci: «Al di fuori del conte-sto significativo dei dipinti di Vincenzo Campi, dei fiamminghi come Legi, o dei guercineschi, smarrito anche quel carattere di emblematicità di un mestiere che lo connotava nell’opera del Carracci, l’oggetto stadera viene declassato al ruolo di complemento narrativo, in scene di ge-nere ambientate nei mercati e nelle botteghe, o nella descrizione di scorci urbani cari a un pit-toresco vedutismo.», (G. Martinelli Braglia, La stadera, soltanto strumento di pesatura?, in *Stadere/Steelyards, a cura di L. Apparuti e G. Luppi, Campogalliano, Libra93, 2008, http://www.larsdatter.com/weighing.htm.). 41 Cfr. R. A. Lockhart, Il denaro, Relazione tenuta il 3 settembre 1980 a San Francisco, nell'am-bito dell’Ottavo Congresso dell’Associazione internazionale di psicologia analitica, pubblicata in *Soul and Money, a cura di J. Hillman e R. A. Lockhart, Dallas, Spring publications, 1982, disponibile anche online www.apollo747.altervista.org/PDF/23-1981-jung_nuovo_tempo/cap09_denaro.pdf.

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l’airone, sia Edgardo. Edgardo, che quel mattino esce di casa carico più del solito, è addirittura capace di immaginare approssimativamente, ma con una certa precisio-ne, il proprio peso:

Pesava normalmente un’ottantina di chili. Ma oggi, infagottato come era nei vestiti da caccia, e gravato del carico di due fucili, del Browning, e della sua vecchia Krupp Tre anelli, oggi, garantito, ne pesava almeno venti di più. Un semplice scricchiolio strappato dal suo quintale al parquet sottostante al lino-leum, […]. (pp. 711-712)

L’airone42, invece, ora che è anche «completamente svuotato di sangue», non pesa “quasi” niente, come si dice tra sé e sé Edgardo, ripensando al momento dell’uccisione: «quanto pesava? Poco più delle sue piume, doveva pesare, cioè quasi niente…» (p. 790) -; e l’idea di porlo sulla stadera per farsi un’idea di quel peso, non viene né a lui, né al Bellagamba. Strana creatura, questa bestiola, inconsistente nel fi-sico eppure così potente sull’immaginario di Edgardo, appare già dal primo istante come un’immagine ambigua. Il momento dell’uccisione dell’airone è la controra, in cui tutto si fonde43:

Vero e non vero, visto e immaginato, vicino e lontano: tutte le cose si mesco-lavano, si confondevano fra di loro. Perfino il tempo normale, quello dei mi-nuti e delle ore, non c’era più, non contava più. A un tratto, e doveva ormai essere l’una del pomeriggio, riconobbe l’airone. (p. 774)

Ferito dal doppio sparo di Gavino che infrange quella irreale immobilità del me-riggio, l’airone smette di volare, plana a terra e si dirige proprio verso Edgardo che è rimasto immobile, «E infine se lo trovò faccia a faccia, a un passo dalla botte […]» (p. 777): tra Edgardo e l’airone si concretizza ora il legame analogico44 annunciato dal segnale del peso: «lo guardava pieno di ansia, immedesimandosi totalmente» (p. 777).

L’airone concentra su di sé da sempre una enorme valenza simbolica45 - è apparso storicamente come il referente naturale più prossimo del Bennu46, consacrato a Ra, il 42 Questo esemplare non appartiene alla specie più elegante di quelli bianchi, come aveva im-maginato Bellagamba, ma, gli spiega Edgardo in una deliziosa amorevole descrizione, è di quelli più piccoli, rossi. Bassani, fondatore di «Italia nostra» e suo presidente dal 1965 al 1980, doveva avere ben presente il fascino di questo prezioso uccello. Cfr. F. Pratesi, Giorgio Bassani e il mondo della natura, in Giorgio Bassani. Uno scrittore da ritrovare, a cura di M. I. Gaeta, Roma, Fahrenheit 451, 2004, pp. 171-172. 43 Cfr. R. Caillois, I demoni meridiani, Prima edizione in volume di C. Ossola, Milano, Bollati Boringhieri, 1999. 44 Ridondante sarebbe ogni considerazione sull’Albatros di Baudelaire e sul Demone dell’analogia di Mallarmé. 45 Tralasciamo la descrizione moraleggiante del Fisiologo che, fondandosi sull’autorità delle Scritture, lo vuole simbolo della parsimonia e della capacità di allontanarsi dal mondo e dalle sue insidie (Fisiologo, a cura di F. Zambon, Milano, Adelphi, 2002, p. 83). 46 Sembrerebbe che il geroglifico del Bennu abbia caratteristiche di profonda affinità con quel-lo della pietra impiegata per macinare il grano; la simbologia del mulino è, come è noto, quella della trasformazione ed evoluzione delle anime, come è evidente nelle raffigurazioni del muli-

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dio egizio della ciclicità creativa del sole, e anche, talvolta, della più famigerata Fenice, simbolo solare dell’eterna Trasformazione e della ciclica alternanza di nascita e morte - e la sensazione è che nel suo caso la pesatura appaia a sua volta come un atto sim-bolico fondamentale: si pensi, ad esempio, alla cerimonia della psicostasia in uso presso gli antichi Egizi, o al simbolismo esoterico del potere di cui è fulcro la bilan-cia47. Ma ci vorrebbe una pesatura “giusta” che la stadera, al contrario della bilancia, per struttura non può garantire perché asimmetrica, rimanendo quindi per forza ap-prossimativa nella valutazione48. E poi, pesare Edgardo è pesare un uomo, un corpo; pesare l’airone, invece avrebbe significato misurarne il potere simbolico; forse è per questo che nessuno ha avuto l’idea di farlo.

Ma il potere simbolico di questo uccello cambia di segno proprio con la sua ucci-sione: l’airone vivo è l’immagine della Trasformazione e dell’eterno fluire delle forme di vita, l’airone morto e imbalsamato è la letteralizzazione di un’eternità immobile e sempre uguale a se stessa, che rifiuta ogni metamorfosi e blocca il tempo in un istan-te. Così, Edgardo si immedesima, nel momento della sua morte, in un simbolo che è divenuto simbolo di fissità, di arresto, di immobilità.

Egli, da sempre sembra rifiutare la perturbante potenza della voluttà in tutte le sue manifestazioni; tra lui e le cose si registra una separazione, spesso segnata da la-stre e vetri: «[…] per la seconda volta quella mattina si sentì invadere da uno strano senso di assurdità. Ancora una volta era come se tra lui e le cose che vedeva si levas-se una specie di sottile e trasparente lastra di vetro. Le cose tutte di là; e lui, di qua, a guardarle ad una ad una e a meravigliarsene» (p. 713)49. Persino i nomi, nel caso del citofono di casa Cavaglieri, sono «sottovetro», come gli animali impagliati e la mole del Caterpillar, che gli evoca la possibile mole della Cesarina, chiusi dentro le vetrine di un negozio: tutti, nomi, animali e il grande corpo della macchina, sono vivi e mor-ti allo stesso tempo, vere e proprie “nature morte”50. Anche in queste righe efficacis-simo è l’effetto che può dare una lettura “doppia” del linguaggio: Edgardo arriva da-vanti al bureau del Bosco Elìceo, «Col senso di trovarsi più che mai fuori del mondo» (p. 732); si trova metaforicamente e psicologicamente fuori dal mondo, e ci si trova

no mistico. Cfr. R. Lachaud, Magia e iniziazione nell’Egitto dei faraoni. L’universo dei simboli e degli dèi. Spazio, tempo, magia e medicina, Roma, Edizioni Mediterranee, 1997, pp. 9-94 e 223; G. de Santillana-H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, edizione riveduta e ampliata, a cura di A. Passi, Milano, Adelphi, 2009. 47 L’arte del bilanciare in quanto arte dell’equilibrio delle dosi è illustrata nell’opera di Geber, Libro delle bilance, nel quale si legge che «Se potessimo rendere un uomo, scomporlo per equili-brarne le nature e rendergli nuova esistenza, egli non potrebbe morire più» e ancora «Una vol-ta ottenuto questo equilibrio, gli esseri divengono esenti da cangiamenti, non si alterano, non si modificano mai più», (Berthelot, La Chimie au moyen-âge, III, 148; citato in J. Evola, La tradi-zione ermetica, Roma, Edizioni mediterranee, 1996, pp. 169-170); si veda anche H. Corbin, La scienza della bilancia e le corrispondenze fra i mondi nella gnosi islamica, Milano, SE, 2009. 48 Cfr. G. Galilei, frontespizio del Saggiatore, in Opere, voll. 2, a cura di F. Brunetti, Torino, U-tet, 2005, vol. 1, p. 603 e Dialogo dei massimi sistemi, in ivi, vol. 2, Giornata seconda, pp. 267-268. 49 Cfr. P. Citati, Una parete di vetro, in «Il Giorno», 23 ottobre 1968. 50 I capp. 1-6 apparvero col titolo Natura morta su «Paragone», 20, XVII, ottobre 1966, pp. 78-116 (cfr. Notizie sui testi delle Opere di Bassani, cit., p. 1771).

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anche fisicamente, perché scoprirà con disgusto che il mondo, fatto di cibi, corpi, umori, è concentrato in buona parte proprio lì dentro.

Edgardo è così, odia il contatto fisico, è disgustato da tutto ciò che è vita e volut-tà, fugge, perché non sa goderne, i piaceri intensi del cibo. Alla vista del tavolo che gli propone Bellagamba «Di lontano notò la tovaglia sparsa di briciole e di stuzzicadenti usati, macchiata di vino, ed ebbe di nuovo un moto interno di repulsione» (pp. 785-786)51. Quando prova a cedere agli impulsi della fame52, gli basta poco per sentirsi sa-zio fino alla nausea: «Molto presto tuttavia si sentì disgustato: del cibo e di se stesso. […] A mano a mano che lo stomaco gli si veniva gonfiando, gli aumentava dentro anche lo schifo» (p. 788)53. Edgardo è uno che non sa mangiare e, soprattutto, non sa digerire:

Come erano bravi a godersi la vita! la sua pasta si vede era diversa, inguaribil-mente diversa, da quella della gente normale che una volta mangiato e bevuto non bada che a digerire. Accanirsi a mangiare e a bere a lui non sarebbe servito, no. Quando dopo l’antipasto avesse trangugiato anche il resto, il rombo lesso, il gorgonzola, l’arancia, il caffè, sarebbe rincasato in pieno a ruminare sulle sue solite cose, le vecchie e le nuove, le sentiva in agguato, già pronte a saltargli addosso come prima, come sempre: e tutte quante insieme. (p. 789)

Con gli apparati digestivi ed escretivi ha un problema serio54: «Liberarsi il ventre: da qualche anno stentava un po’, la mattina; e quando non gli riusciva […], dopo,

51 Come la tovaglia che era apparsa «bianchissima» a Celestino in casa di Micòl la sera della cena di Pasqua, e che da vicino riserva un diverso aspetto: «Sedetti, e soltanto allora, stupito di avere osservato male, mi resi conto che la tovaglia non era affatto sgombra (cfr. G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, cit., pp. 486 e 487). 52 E mangia pesce e pane e beve vino: cibi simbolici per eccellenza - per la precisione, mangia crostacei, cibo ambiguo dalla polpa dolce e acidula -; non è poi da dimenticare che, se l’avesse mangiato, quell’airone avrebbe avuto il sapore del pesce. 53 Nausea, malattia, trasformazione erano già stati elementi di una costellazione, di segno mol-to diverso da quella di Bassani, in Jean-Paul Sartre: «M’è accaduto qualcosa, non posso più dubitarne. È sorta in me come una malattia, non come una certezza ordinaria, non come un’evidenza. S’è insinuata subdolamente, a poco a poco; mi sono sentito un po’ strano, un po’ impacciato, ecco tutto. […] Dunque in queste ultime settimane si è verificato un cambiamen-to. Ma dove? È un cambiamento astratto che posa sul nulla. Sono io che son cambiato? Se non sono io allora è questa camera, questa città, questa natura; bisogna scegliere. Sono io, credo, che son cambiato: è la soluzione più semplice. Ed anche la più spiacevole, ma infine debbo riconoscere che sono soggetto a queste trasformazioni improvvise. Gli è che io penso assai di rado; perciò si accumula in me una piccola folla di metamorfosi senza ch’io ci badi, poi un bel giorno avviene una vera rivoluzione. È questo che ha dato alla mia vita un aspetto angoloso, incoerente. […] Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare, come l’altra sera al “Ritrovo dei ferrovieri”: ecco la Nausea […]», (J.-P. Sartre, La nausea, Torino, Einaudi, 1990, pp. 14, 15 e 177; interessante notare che l’opera avrebbe dovuto intitolarsi proprio Me-lancholia). 54 Il bagno, ha una ricorrenza notevole: sono ripetutamente descritti quello di casa e quello del Bosco Elìceo e la postura che ha Edgardo nella botte è «da cesso» (p. 764).

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lungo tutta la giornata, si sentiva di pessimo umore […]» (p. 707); tanto serio che ne segna anche il linguaggio: quando al telefono si presenta come il cugino di Ferrara dell’Ulderico, «anche questo, a tirarselo fuori dallo stomaco, gli era costato uno sfor-zo notevole» (p. 747) - non dai denti, non dalle labbra, dal cuore, ma dallo stomaco arrivano quelle parole.

L’eros, al pari del cibo, non riesce a sedurlo. Lui e Ulderico sposano la propria amante, normalizzano il non socialmente ammesso, ma Edgardo dopo il matrimonio non dorme con la moglie - in quella casa ognuno ha una propria stanza chiusa - men-tre la Cesarina gli fa intendere che lei e il marito nei giorni di festa indugiano a lungo a letto insieme. Dalla casa di Romeo, quella mattina buia di scirocco, non se ne an-drebbe via mai, Edgardo, fino a che Imelde non gli racconta la storia della figlia Irma, innamorata e sposata a un uomo che non vale niente, con l’intento di chiedergli aiu-to; allora l’impulso alla fuga si fa fortissimo: «Innamorata, certo, come d’altronde a-veva già capito. E adesso anche la cucina dei Manzoli era diventata di colpo inabita-bile: un posto anche questo da cui bisognava sloggiare. E subito.» (p. 725).

Dove c’è l’eros, il luogo è «inabitabile». Quando va nella stanza 24 del Bosco Elì-ceo teme l’arrivo della donna vista nella sala da pranzo,

senza dubbio una puttana; glielo dicevano la bocca, il modo come fumava, le unghie, il tailleur scuro troppo corretto, il pellicciotto grigio sistemato con cura, come su un attaccapanni, sulla spalliera della seggiola a fianco, la grossa borset-ta piazzata bene in vista sul tavolo accanto al portacenere pieno zeppo di moz-ziconi di sigaretta e gli occhi, soprattutto, neri, opachi, un po’ da bestia […]. (p. 789).

Immagina, poi, la Cesarina come «una di quelle belle donne verso i quaranta, in-somma, dalle quali era sempre stato talmente turbato che ancora adesso, alla sua età, ogni qualvolta ne incontrava una per la strada preferiva fingere anche con se stesso di non essersene accorto, di non averla nemmeno veduta.» (p. 819). Ma è proprio la carne a disgustarlo, anche quella della sua stessa figlia: «[…] il consueto, amaro senso di estraneità, quasi di repulsione, che gli aveva sempre impedito di considerarla sua, di volerle bene.» (p. 843).

Anna Dolfi55 riconosce in Edgardo un malinconico e nella ossessiva scansione temporale del racconto, che lo imparenta strettamente a una tragedia greca, uno degli aspetti della malinconia, la «malattia del tempo». Possiamo aggiungere, ora, che la psicologia di Edgardo è pienamente una psicologia Senex56 dominata, non solo dall’ansia del tempo, ma da tutti quei particolari atteggiamenti finalizzati a tenere sot-to controllo le trasformazioni e i mutamenti del mondo, fino al punto di renderli im-possibili: misura, silenzio, rinuncia, isolamento, chiusura, immobilismo. Una psicolo-gia del bianco alchemico: lunare, argentata, che nella sua forma positiva è in grado di produrre una cristallina e specchiante visione in trasparenza e che quando degenera

55 Cfr. A. Dolfi, Giorgio Bassani, cit., passim. 56 Cfr. J. Hillman, Senex e puer, in Puer aeternus, Milano, Adelphi, 2003, pp. 51-152, in particolare pp. 79-96; Id., Malinconia e una soluzione rinascimentale, in Trame perdute, Milano, Raffaello Corti-na, 1985, pp. 225-324.

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produce l’irrigidimento in immagini adamantine e immutabili, cristallizate, fisse e ste-rili57.

Questa costellazione di segni che caratterizza il suo comportamento si concentra e trova una sua intelligibilità nel sogno fatto al Bosco Elìceo: Edgardo entra nel so-gno avendo la «coscienza che il cervello gli si annebbiava» (p. 802), sentendo che prendeva sonno e che sognava58. La prima cosa che fa è salire «con una strana, miste-riosa leggerezza. […] come se avesse le ali» (p. 802); l’albergo è pieno, ma non si vede nessuno; sono tutti in camera, a coppie, lo si capisce dalle coppie di scarpe, uno da donna e uno da uomo, fuori dalle porte; il ristorante, luogo dove si trasformano i corpi morti in sostanze per la vita, riproduce il rimescolìo sessuale che si genera nelle stanze. È tutto un lavorio, e l’impressione che ne riceve è quello «di ronzio, tra l’alveare e l’opificio, che percorreva segretamente l’intero stabile da parete a parete, da piano a piano»; l’albergo è un luogo dove si “lavora” e si trasforma. Dietro di lui la puttana fa cadere la chiave, lo guarda e si passa provocatoriamente la lingua sul lab-bro superiore: è un invito a prender parte al “lavoro”… La donna è una bestia: ha la lingua «grossa e corta, bestiale nella forma non meno che nel colore, che era di un rosso vinoso bluastro.» (pp. 803-804); anche i suoi occhi sono bestiali «assomigliava-no a quelli di certi animali di campagna, quelli delle mucche, per esempio, o dei caval-li» (p. 804); appartiene a quel luogo perduto fin nel midollo, non solo ha l’aspetto di una bestia, ma ha anche l’odore di un animale cotto, «l’odore di anguilla arrosto che le impregnava i capelli».

Ma Edgardo non è in grado di partecipare a questo gioco panico e dionisiaco; lei lo tocca e gli sorride, - gli propone di andare nella sua stanza, ma lui non ha stanza, è lei ad occupare la 24… - lo prende per mano e lo conduce con sé, ma Edgardo pensa che non sia l’ora, non sia il caso e escogita, come soluzione, di pagarla per non fare nulla; cerca scuse per andarsene, vuole tornare a casa; la donna gli procura fastidio e noia con le sue proposte, ma alla fine egli cede, si sbottona i pantaloni e le mostra un pene in condizioni terribili. «Non vedi come è ridotto?», le dice, e lei risponde «Sei proprio a terra […]. Sei proprio senza» (p. 806): anche Edgardo, come l’airone, è piombato a terra.

Il sogno di Edgardo è una mise en abîme di un racconto che è già una mise en abî-me… ripete, traslati tutti gli elementi, ciò che ha avuto una sua parte “fuori dal poz-zo”, “spiega” e porta a compimento la fuga sua dal mondo delle trasformazioni. Do-po il sonno la sua lingua è grigia (quella della donna nel sogno era rosso-bluastra co-me il sangue venoso, quello sporco) come era grigio il suo pene59: gli organi della nu-

57 La costellazione di immagini che caratterizza l’habitus di Edgardo, la visione in trasparenza, il ruolo della luna, la dominanza di atmosfere lattiginose, il ruolo della morte come forma di cal-cinazione, il ruolo dello scambio per via di moneta, è delineata in J. Hillman, Silver and the Whi-te Earth, in Alchemical Psychology, Putnam Conn., Spring Publications, 2010, pp. 125-203. 58 Il signor Buda, al contrario, nella stanza dell’albergo Tripoli, gestito dal signo Müller - che in tedesco significa mugnaio -, sogna di dormire e, nel sonno, di sognare. (cfr. G. Bassani, Due Fiabe, in L’odore del fieno, in Opere, cit., pp. 862-866). 59 Mentre mangia e beve in fretta, come una bestia, l’antipasto, ascoltando il Bellagamba che gli propone di comprargli l’Aprilia, Edgardo si sente «la testa sempre più pesante», poi va in bagno. Lì si vede «il membro […] misero, da niente […]. Non si trattava che di un oggetto, in

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trizione e della generazione sono “malati”, diminuiti, annichiliti; mentre tutto il mon-do, come in un opificio o in un alveare, partecipa al “lavoro”, Edgardo non ha alcuna possibilità, è fermo. Aveva iniziato quasi a volare, aveva cominciato a perdere peso nel sogno, ma qualcosa l’ha fatalmente fatto ricadere a terra. Se il sogno gli avesse potuto indicare una via diversa, lui dalla Cesarina avrebbe dovuto salirci, «[…] i di-scorsi di lei, insieme col fatto che fosse sola in casa, gli davano la sensazione via via più netta di trovarsi di fronte a qualcosa di decisivo, di improrogabile: come a una specie di bivio» (p. 819), invece, anche in quel caso non sa accogliere l’ambiguità della proposta della cognata («Più pensava al suo modo di comportarsi […] e più gli sem-brava ambiguo» (p. 819), e se ne va via, verso il porto fluviale.

Dopo il sogno Edgardo ha ormai intrapreso la parte finale del suo itinerarium in mortem, il mondo non gli suscita più nulla, nemmeno la repulsione. Nel caffè Fetman, dopo aver lasciato il Bosco Elìceo per la seconda volta

Il fumo, il vapore, la folla vociante (molti avventori del Bosco Elìceo si erano tra-sferiti lì, a discutere davanti alla tabella dei risultati del campionato affissa a una parete), e specialmente il ghigno sardonico con cui, vedendolo farsi avanti, lo salutò da dietro il banco il medesimo lercio quarantenne della mattina: tutto questo, in altre circostanze, avrebbe suscitato in lui il solito schifo per i contatti fisici, di fastidio per i rumori, di timore per gli incontri sgradevoli. Ma nello sta-to d’animo di quel momento non badò a niente. (p. 811).

Edgardo si accorge di essere in una nuova condizione, è «ad occhi aperti, spalan-cati» (p. 823), non dorme più, è uscito anche dal sonno; e quando si ritrova di fronte all’ennesimo luogo chiuso, l’osteria, sente che è «impossibile entrarci dentro. Non c’era posto, spazio sufficiente» (p. 827). I luoghi degli uomini sono riempiti di cose e di persone, chiusi, estranei e irraggiungibili; Bassani aveva spiegato a Cangogni60 in polemica con l’École du régard:

[…] è una letteratura da moribondi. Solo un escluso, uno che non è più dentro la vita, può essere preoccupato solo di guardare, descrivere, misurare, come avviene nei romanzi, chiamiamoli così, di Butor e Robb-Grillet e altri. Di ciò che per loro è una poetica ho fatto un personaggio: Edgardo Limentani. Un oggetto in un mondo di oggetti. Uno che ha la morte addosso. […] È un mondo in cui l’uomo ha cessato di sentirsi al centro delle cose, non vuole più risolvere dentro la propria coscienza la problematica del reale.

Allora, forzando un po’, potremmo arrivare a dire che non restano che i luoghi di Dio. Edgardo entra in chiesa, tra uno sbadiglio e l’altro conta i banchi, legge le tar-ghette e poi raccoglie un giornale che gli era finito sotto i piedi. Il giornale, col suo titolo-etichetta-enigma «NON AFFANNARTI PER IL DOMANI» (p. 829) ha in copertina,

fondo, di un puro e semplice oggetto come tanti altri.» (p. 794): una natura morta, senza peso. 60 “Perché ho scritto l’Airone”, intervista a Giorgio Bassani di Manlio Cangogni, in «La fiera lette-raria», XLII, 46, 14 novembre 1968, pp. 10 e 12. Cfr. Pullini, L’airone o l’oggettività dello sguardo, in «Comunità», XXII, dicembre 1968, pp. 114-118.

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ancora, un’immagine tipica di trasformazione: «Rappresentava una mano nell’atto di spremere stretta a pugno delle olive mature. Rozze, con le unghie enormi, le dita no-dose grondavano di olio.» (p. 829), mani come macine da mulino, ma lui ovviamente non ci bada e, disorientato, perché il giornale manca di alcune pagine, nell’ultima, monca, si imbatte nell’ennesima sfinge: l’immagine di una cocorita, della quale si chiede vanamente e brevemente il senso.

Uscito dalla chiesa Edgardo continua a fare quel che ha continuato a fare dall’inizio della storia, torna sui suoi passi: torna verso il caffè Fetman e lì finisce di fronte alla bottega dell’imbalsamatore Cimini, «Senza affatto provare all’idea il mini-mo senso di repulsione» (p. 833). Gli animali impagliati Edgardo «non aveva mai po-tuto sopportarli» (p. 774); solo a sentirne parlare dal Bellagamba «Doveva aver assun-to un’espressione piena di disgusto: di tutto il disgusto da cui si sentiva sempre op-primere al solo pensiero di un laboratorio di imbalsamatore (dio, chissà che odori: un misto tra polleria, farmacia, cesso, obitorio…)» (p. 791). Invece, quando giunge alla decisione di uccidersi riesce ad immedesimarsi in loro come gli era accaduto prima con l’airone morente, perché il loro destino è quello dell’airone:

[…] gli riusciva anche più facile immedesimarsi negli animali imbalsamati […]. Come diventava stupida, ridicola, grottesca, la vita, la famosa vita, a guardarla dall’interno di una vetrina di imbalsamatore! E come ci si sentiva bene, imme-diatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva!» (p. 837).

Quel luogo è pieno di cose e bestie, come l’osteria del porto fluviale: «stracolma di oggetti disposti in un disordine soltanto apparente; la vetrina gli splendeva dinanzi come un piccolo, assolato universo a sé stante, contiguo ma inattingibile», di «bestie imbalsamate, magnifiche tutte nella loro morte, più vive che se fossero vive» (p. 834). Ora lo separa da quel mondo ordinato e «assolato», lui che vive in un mondo anneb-biato dentro e fuori, solo la lastra di vetro che gli rimanda «appena un’ombra» (ibidem) della sua immagine, che torna a vedere dopo aver passato in esame tutti gli uccelli. Una visione inquietante: «Nella luce violenta e convergente delle lampade le minu-scole capocchie dei loro occhi brillavano gioiose, febbrili, demoniache di consapevo-lezza e di ironia.» (pp. 834-835). In un lento cambio di messa a fuoco egli vede prima l’interno della vetrina, poi la propria immagine riflessa, e in questa quasi sovrapposi-zione “capisce” «la perfezione di quella loro bellezza finale e non deperibile» (p. 835).

Il verbo, in corsivo nel testo, nella sua doppiezza etimologica indica che Edgardo capisce perché è capito da quella perfezione; lui non può più appartenere ai cicli della vita, è come l’airone quando non è più una fenice; somiglia a quell’animale quando il doppio sparo lo spinge verso la fine, verso uno stato “non deperibile” grazie all’imbalsamazione. Il messaggio del giornale trovato in chiesa non arriva alla sua a-nima, è troppo “vitale”; si impigliano, i suoi pensieri, in un particolare senza senso e non sanno raccapezzarsi; invece la fissità di quella vetrina, illuminatissima e ordinata, quella gli sa parlare e gli apre una nuova strada, gli regala «un pensiero segreto che lo liberava, che lo salvava.» (p. 836). «Ecco dove Bassani vuole sempre arrivare», scrive Eraldo Affinati, «rigoroso come un filosofo spinoziano, lotta fino all’ultimo contro i

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mostri dell’inconscio per affermare il primato di una coscienza ordinatrice»61. È la fine del viaggio di Edgardo Limentani, che non aveva mai potuto accettare

l’idea della trasformazione, nelle sue immagini più potenti, corporee, e avendo tenta-to di intraprendere quelle, quasi palliative, rivelatesi fallimentari, del viaggio e della memoria, dello spostamento nello spazio e nel tempo, si dà nel momento in cui egli sceglie la morte: «Gli era bastato immaginarsi morto per sentirsi travolgere da un’onda improvvisa di felicità - ragionava fra sé e sé sorridendo -, allora perché non uccidersi? E perché non farlo al più presto? No, lo avrebbe fatto stanotte stessa, in camera, col Browning o con la Krupp. E sapeva già in che modo.» (p. 837); non dobbiamo far altro che seguirne l’ultimo tratto. Garboli ha colto chiaramente nella morte il problema di questo personaggio:

Madre sollecita e servizievole, invisibile serva e padrona, la morte lava, pulisce quei segni volgari, ma non li distrugge. Li conserva, li iscrive nel suo illeggibile libro dai cento significati inviolabili, li trasforma in certezze e valori, fa tutto lei, la morte: memorizza e dimentica, inghiotte e consacra, dice la verità e la na-sconde. Nel suo esistere possiede tutta la bellezza indeteriorabile che non ci compete. E dunque ha gli stessi caratteri immobili e vivi, la stessa muta, magica sicurezza dell’arte. Soltanto la morte è “estetica”… […] In un mondo che non vuole più saperne di vivere, nel suo grandioso “trionfo” la morte non poteva imbattersi in un antagonista, in un dissidente di più coc-ciute, resistenti armi laiche. 62

Ma la morte è di due tipi: uno fissa l’individuo nella sua unicità e intangibilità co-me arma contro la vita delle trasformazioni, un altro chiede a quell’individuo di ac-cettare e farsi “capire” nell’eterno fluire che è Morte e Vita insieme63. La prima morte è imbalsamazione, fissazione, separazione, la seconda è abbandono, accettazione, continuo rinnovarsi delle forme. La Morte vera, quella che porta vita ed è portata dalla vita, lo chiama e cerca di sedurlo con i “piaceri” della vita; ma lui vede queste seduzioni come “male”, come “minaccia” e le fugge. Se qualche volta mangia be-stialmente, anche ammettendo anche che questo possa costituire un tentativo di compensazione, come sostiene Garboli,

[…] Limentani scappa non appena fiuta odore di diversità, di “vita”. Scappa

61 E. Affinati, Op. cit., p. 133. 62 C. Garboli, Op. cit., pp. 346 e 349; cfr. anche A. Bevilacqua, Edgardo inseguito dalla morte, in «Oggi», XXIV, 14 novembre 1968. 63 K. Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, tr. it., Milano, Adelphi, 1992, Introduzio-ne. Vita finita e infinita nella lingua greca, pp. 19-20: «Una definizione greca di zoé è “tempo dell’essere” - chronos tou einai - ma non nel senso di tempo vuoto, in cui l’essere vivente per così dire entra e nel quale rimane fin che muore! Questo “tempo dell’essere” è da intendersi come un essere continuo, che viene racchiuso nel bìos fintanto che questo dura. […] Plotino definì zoé il “tempo dell’anima”, ossia il tempo in cui questa, nel corso delle sue ripetute nasci-te, procede e trapassa da un bios all’altro. […] zoé è il filo su cui ogni singolo bios viene infilato come una perla e che, al contrario di bios, si può pensare soltanto come infinito. […]». Cfr. P. Milano, Resurrezione e morte di Edgardo Limentani, «L’Espresso», 10 novembre 1968.

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dalla vista della figlia, dalla vecchia portineria, dal contatto telefonico con un alloggio rumoroso. Fuggire lo delude, ma lo sveglia e lo stranisce, lo eccita. È chiamato dalla morte, le corre incontro. Ma quando se la sente addosso, vicina in un airone ferito, il povero Limentani non ha scampo, scende una pazza scala di compensazioni precipitose. Mangia, beve, sogna, delira. Prende coscienza di tutta la sua goffa, grottesca solitudine di grossa mummia ingombrante.

Tuttavia costituisce, come abbiamo visto, un atto furioso che dura pochissimo e che lo fa ripiombare nel solito disgusto. E poi c’è qualcosa alla quale mai riesce ad abbandonarsi: fin nel sogno cerca di pagare per non essere sedotto, cerca uno scam-bio metaforico pur di preservarsi dallo scambio carnale. Edgardo scappa dalla vita che lo tenta verso un’inaccettabile forma di Morte64. Se confrontiamo quel che scrive Hillman sul suicidio:

La trasformazione, quando è genuina e completa, è sempre connessa con il corpo. Il suicidio, in un modo o nell’altro, è sempre un problema del corpo. Le trasformazioni dall’infanzia alla fanciullezza sono accompagnate da cambia-menti fisici sia nella struttura del corpo sia nelle zone libidiche; e così anche i più importanti momenti di trasformazione della vita durante la pubertà, la me-nopausa e la vecchiaia. I riti di iniziazione sono delle prove della carne. L’esperienza della morte dà risalto alla trasformazione che avviene nel corpo e il suicidio è un attacco alla vita corporea. […] Il suicidio offre se stesso, sotto la pressione del “troppo tardi”, quando si sa che la vita era sbagliata e che non esiste più una via d’uscita. Il suicidio è allora lo stimolo per una rapida trasformazione. Non si tratta di una morte prematura, come vorrebbe la medicina, ma dell’ultima reazione di una vita in ritardo che non si è trasformata in precedenza. Avendo mancato nel passato le sue crisi di morte, vorrebbe morire adesso, e tutto in una volta. 65

con le azioni e i pensieri di Edgardo, ci appare spiegato il suo desiderio di morte66: Per la prima volta, forse, da quando era al mondo, gli capitava di pensare ai

64 Cfr. E. Paruolo, La morte interiore nel Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, in «Italianistica», 2006, 1, pp. 97-103, che elenca una serie di esempi di «vita in morte» nel Romanzo di Ferrara. Operata la giusta distinzione fra morte corporale e morte interiore, risulta però decisamente discutibile l’asserzione incipitaria, secondo la quale «L’opera bassaniana si accosta alla morte fisica con positiva serenità» (p. 97); e discutibile appare, ancora, l’affermazione che «quella del-la morte interiore è una condizione che il personaggio in parte subisce e in parte sceglie; pas-sività e volontà si condizionano reciprocamente e, diversamente dosate caso per caso, si fon-dono in un inscindibile unicum, impossibile da indagare» (ibidem). Nel caso di Edgardo Limen-tani questo unicum non è altro che esperienza esistenziale e può essere indagato, perché il ro-manzo che lo racconta ne è la cronaca. Non sono convinta, come Ettore Caccia, citato da Pa-ruolo, che Edgardo abbia «il male nell’anima, se tocca un fiore lo incenerisce, come il demo-nio di Faust» (E. Caccia, «L’airone» di Bassani, in «Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Ca’ Foscari», IX, 1, 1970, pp. 18-19); Faust ha fame di vita e di carne, Edgardo nel Regno delle Madri non ci vuole proprio scendere. 65 J. Hillman, Il suicidio e l’anima, cit., pp. 57 e 58. 66 E. Paruolo, Tolstoj in Bassani, cit., pp. 837-838.

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morti senza paura. Soltanto loro […] esistevano veramente. Ci mettevano un paio di anni a ridursi al puro scheletro: lo aveva letto da qualche parte. Ma do-po non cambiavano più, mai più. Puliti, duri, bellissimi, erano ormai diventati come le pietre preziose e i metalli nobili. Immutabili, e quindi eterni.(pp. 837-838 )

Edgardo non può accettare l’idea del cambiamento. Deve togliere l’ombra fasti-diosa della propria immagine dai vetri del negozio di animali impagliati e far entrare il proprio corpo insieme a loro: deve diventare scheletro, pulito, privo di carne; perché la carne si cuoce e si trasforma, mentre le ossa sono l’ultimo stadio della trasforma-zione, quello da cui non si torna indietro. Ora, liberato, può anche ridere67.

Edgardo torna con la luna che illumina la strada ed ogni cosa68, liberando tutto dai vecchi significati, ed è colpito dal toponimo «Tresigallo» di cui si chiede il significato. Il gallo è un animale solare, vitale, virile: non capisce il significato di quel nome per-ché in quel nome c’è il sole; la luce solare che aveva visto nella vetrina era finta, erano solo lampade, il sole con la sua rivoluzione, la sua ciclica vitalità di creazione e distru-zione non riesce proprio ad accettarlo; ormai è nella luna e nella morte. Edgardo non è capace di partecipare alla vita, né di assumerne le ambiguità, le doppiezze, le con-traddizioni; ogni movimento gli è sempre apparso come una minaccia, ogni trasfor-mazione un orrore. Si sente felice solo quando l’idea della morte gli garantisce riparo da tutto questo; solitudine, segretezza e unicità, invece che condivisione, contatto e molteplicità:

L’interna felicità dava spinta alle sue gambe affaticate, misura e precisione ai suoi gesti, calma ai battiti del suo cuore. Era davvero un tesoro quello che ave-va dentro. Immenso, sì, inesauribile, e nondimeno da tenere segreto, nascosto a qualsiasi persona al mondo. Tutta la sua allegria, tutta la sua pace, derivavano dalla certezza di esserne l’unico proprietario. (p. 849)

E così, di nuovo rifiuta il cibo, non partecipa alla cena coi famigliari che gli ap-paiono come statue, si lava accuratamente, prepara il fucile - non il Browning con cui Gavino aveva solo ferito l’airone, ma la Krupp, più sicura per l’effetto definitivo che si attende -, poi va a salutare, non la moglie o la figlia, ma la madre: la madre travisa tutto quando gli dice, notando la sua bellezza «Stare al sole, al vento […] sono con-vinta che ti farebbe bene» (p. 850); sole e vento, forze generatrici, sono quanto di più lontano dal figlio. La madre, anziana, è come gli animali impagliati «[…] bellissima. […] Perfetta» (p. 850) e, nel complimentarsi con lei, Edgardo ride per l’ultima volta perché vede in lei che gli ha dato la vita, chiarissima, la morte che sta per incontrare. Le volge le spalle, poi torna a guardarla fra tutti i suoi oggetti, illuminata come in una

67 A. Dolfi, Giorgio Bassani, cit., p. 45: «Ma si tratta di liberazione o di nuova prigionia, di verità o di menzogna, di illusione o di reale felicità? Forse soltanto di tensione al cerchio minimo, della possibilità, nell’ultima circonferenza, di trovarsi dal centro a distanza minore del raggio: occasione unica per spezzare il diaframma della distanza e raggiungere, oltre il vetro, dopo averlo dissolto, la fissità speculare totale.». 68 La domenica tra Natale e Capodanno del 1947 è il giorno 28 dicembre; quell’anno la luna piena di dicembre cadeva il giorno 27: doveva essere un cielo luminosissimo.

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vetrina… In questo finale si realizza il superamento della strategia narrativa ed ermeneutica

dell’intera opera di Bassani. Fino ad ora Bassani aveva concentrato e coniugato nelle immagini passato e presente, realizzando l’eternità in istanti discreti, come spiega chiaramente Giorgio Patrizi:

Nella pagina di Bassani, con un procedimento teso a cercare le motivazioni profonde delle parole nelle immagini, quasi che queste possano cogliere e re-mare una condizione ontologica dell’essere, avviene il contrario […] del meto-do di Longhi. La diacronicità del racconto è pietrificata nella sincronicità dell’immagine, in una condizione che è caratterizzata dall’essere insieme storia e fuori dal tempo della storia: fuori, appunto, dalla diacronia. Se, secondo Con-tini, per Longhi il “reale è metafora dei valori formali”, si può dire che la lezio-ne dell’antico maestro bolognese ha portato Bassani a una posizione opposta: sono i valori formali, e il carattere atemporale dell’immagine a divenire la cifra più rappresentativa di una realtà vissuta alla ricerca ansiosa di un tempo fermo, dove possa consistere un momento salvifico dell’esistenza. È la ricerca di Mi-còl e del protagonista di Dietro la porta, assieme a tanti altri personaggi dello scrittore ferrarese, per i quali la salvezza sembra consistere nella speranza dell’annullamento del tempo lineare, per una dimensione temporale che invece proceda attraverso una fissità di attimi, di vite, di passioni.69

Qui, invece, la costellazione indicata dalla stadera e dall’airone chiude con il passa-to dinamico e punta verso un futuro fisso; una sorta di parodia della visione profetica che prova a inchiodare il Tempo con l’autismo del nonsense, attraverso il gesto del sui-cidio.

69 G. Patrizi, Le parole motivate dalle immagini, cit., p. 188; cfr., inoltre, A. Langiano, Il tempo e l’immagine: la scrittura antiprospettica di Giorgio Bassani, in «Sincronie», XII, 24, 2008, pp. 157-173.


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