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Anno

VII N

umer

o VII

diretto da S. Alfredo SprovieriPERIODICO DI CULTURA GIOVANILE

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10 Mm

Partimmo da dove vorremmo ar-rivare. Gli strilloni per le strade di un piccolo posto, la notizia che arriva al cittadino lascian-

dogli la scelta di saperne di più. Tutto il resto è solo il mezzo. L’informazione non è nata con Gutember e non morirà con Zuckemberg. In questi dieci anni mentre tutti si abituavano a ricono-scersi nelle locandine davanti alle edi-cole come nei potenti che le finanzia-no, un gruppo di ragazzi ha giocato a fare stampa senza editori e senza voler piacere a qualcuno. Una partita ereti-ca iniziata nel 2002 e ancora tutta da giocare. Subimmo un piccolo torto, era-vamo giovanissimi e arrabbiati perché nessuno nemmeno avrebbe mai saputo quello che ci era successo. Decidemmo di patire da lì: far sapere agli altri cosa succedeva alle nostre vite, racconta-

re il nostro punto di vista e ascoltare quello degli altri. Formidabili davvero, quegli anni. La vera svolta però arrivò nel 2010, quando tutto sembrava per-duto. Prima di quella data Mm aveva colto grandi obiettivi, diventando un punto di riferimento per il territorio con l’alternarsi di diverse generazioni collo-cate però sempre su una linea di conti-nuità; stavolta ripartiva con un gruppo di ragazzi totalmente nuovo. Poche idee possono dire di essere so-pravvissute a chi le ha lanciate, camminando sulle gambe di al-tri, ma si dice che sulla terra ci sarà sempre almeno un giusto per ogni idea giusta. Da lì ad oggi sono stati fatti passi incredibili, ma so-gnati fin dall’inizio. L’idea locale si è estesa grazie ad un attivismo creativo e appassionato e grazie al sito internet e ai social network ormai le iniziative raggiungono tutto il pianeta in tem-po reale. Le pagine di Mmasciata.it in questi primi mesi sono state visitate oltre 30mila volte da una comunità di 10mila lettori. Un risultato importante per una testata giovane e di giovani, autofinanziata e indipendente. Sceglia-mo liberamente e in modo netto cosa e come raccontarlo: la nostra vita dal no-

stro punto di vista. Un lavoro ragionato e, seppur sempre sul pezzo, mai fatto troppo di corsa. Giornalismo è sceglie-re, giornalismo è saper impaginare un giornale sapendo scompaginando la re-altà. Abbiamo portato avanti un espe-rimento su ciò che potranno diventare i giornali una volta liberati dalle paludi dei potentati e dalle speculazioni che rendono questo nobile mestiere nau-frago negli abissi fra vetusti ricconi e imberbi precari: continueremo senza temere i pescecani. Non so se il meglio sia già venuto o se nemmeno l’immagi-niamo. Non so chi ci sarà ma so che è stato un grande privilegio esserci. Quo-tidianamente, ho vissuto all’ombra di una passione oscura. Le giornate erano pachidermi e gli anni antilopi, ma mar-ciavano insieme verso lo stesso oriz-zonte. Quando chiudi gli occhi e senti il frastuono di ciò che ti si muove intorno finisci per sentirti inutile e immobile a stare lì a raccontarlo. Avverti il pericolo imminente, come i passi di quel branco imbizzarrito. Poi accade che apri gli oc-chi e ti fai coraggio sapendo semplice-mente che devi rimanere al tuo posto, a fare la tua parte. La consapevolezza più grande di questi dieci anni è che i limiti da superare sono dentro ognuno di noi.

Il posto diMmasciatadi S. Alfredo Sprovieri

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DIRE LA VERITANELL’EPOCADELLE BUGIE

LA RIBELLIONECHE RESISTEANCORA

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di Vincenzo Carrieri

Mmasciata compie 10 anni ed è poco meno di un miracolo. Lo è semplicemente perché nella vita fluida di oggi poche cose durano tanto. Ci si se-para dalla famiglia, dalla moglie, dai figli, dai luo-

ghi e dalle cose. E molto spesso lo si fa in molto meno di 10 anni. Mmasciata invece è ancora lì e ad essere onesti è molto più bella di quando l’avevamo immaginata 10 anni fa. Ora ha una grafica accattivante, ha un sito piacevole, esce con una frequenza maggiore e soprattutto è sulla notizia. Prima non eravamo sulla notizia, avevamo delle idee confuse sul mondo, ora le idee sono chiare ed imessaggi puliti. Però se Mm è an-cora qui ed è più bella di prima, qualche merito ce lo sentiamo anche noi che 10 anni fa ragionammo sul progetto.Alfredo Sprovieri fece il 90%, perché ha la passione ed il ta-lento per fare questo mestiere e li aveva ben prima di mettere piede in una vera redazione. Ci dava spunti, idee, organizzazio-ne e passione. Ma noi avevamo la voglia di dire la nostra. Da posizioni spesso diverse le une con le altre, ma accomunati da un elemento che è sempre di più merce rara: la libertà. Ed ave-vamo il senso dell’amicizia. Mi sentivo vicino a loro e loro vicini a me. Il vino o la birra aiutavano. L’affetto e la stima facevano il resto. Ora sono un lettore di Mm. Spesso, quando sono fuori la consulto per sapere le notizie locali che mi fanno sentire più vicino a casa. Avrei altri siti, ma mi fido di Mm. Perché spessotrovo le cose che nessuno dice e che tutti dovrebbero dire. Il più grande traguardo raggiunto è stato questo: dire la verità in un’epoca di bugia. Ed il tutto, senza finanziamento pubblico o privato. Solo auto-finanziamento. A volte ripenso alle riunioni di redazione con immancabile nostalgia. Ci si divertiva e ci si sentiva vivi. Poi succede che fai altre cose, che ti allontani fisi-camente da quei luoghi, che senti di non avere la possibilità di fare cose non remunerate o forse naturalmente passi ad altro. Ed è solo in questi momenti che ti rendi conto di quando era bello sentirsi liberi.

di Alberto Imbrogno

7 Dicembre 2002, San Pietro in Guarano (CS) un gruppo di ragazzi universitari si accinge a pubblicare il primo numero di un giornale locale che hanno deciso di chia-mare “Mmasciata”. E’ il periodo delle nostre ribellioni,

dei sogni che vanno oltre la realtà, della voglia di combattere e di rendere il mondo in cui viviamo più equo e solidale. Si era all’inizio del secondo governo Berlusconi, appena un anno dopo la tragedia delle Torri Gemelle. Non sapevamo cosa vo-lesse dire “Bunga-Bunga”, ma parlavamo di Mubarack, Ghed-dafi e Saddam Houssain senza dimenticare l’impegno locale. Intervistammo infatti FrancescoAcri, sindaco della nostra comunità. Ricordo che in quegli anni l’ADSL era un sogno lontano. 7 Dicembre 2012, Bruxelles. Guardo fuori dalla finestra del mio monolocale, nevica fitto an-che sul centro della politica europea. I palazzi dove si prendo-no le decisioni che contano, la Commissione, il Consiglio ed il Parlamento europeo sono a poche centinaia di metri dalla mia finestra. Mi ritrovo a pensare a questi 10 anni passati. Berlu-sconi riproverà a fare un governo mentre alla guida della no-stra comunità c’è sempre Francesco Acri. Gheddafi e Saddam sono stati spazzati via con la forze delle armi, Mubarack con la forza del popolo. Qualcosa è cambiato. Mi viene voglia di un cuddrurieddru e di un bicchiere di vino , ma per non sentirmi dire dai governanti italiani che sono trop-po choosy, mi accontento di una birra con “frites”. Ripenso a quel gruppo di ragazzi unito, ora è sparpagliato per l’Europa. Mi dico che non c’è niente di “choosy” in tutto questo e che dovrebbero essere i nostri governanti di questi anni a farsi un bell’esame di coscienza, visto che un’intera generazione è sta-ta distrutta dalle loro insensate scelte.Per fortuna Mmasciata resiste e pensare che è viva grazie all’impegno e alla passione di nuovi giovani mi fa tornare in mente quel sogno di 10 anni fa.Mi ci fa credere ancora.

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È strano aprire il sito internet di Mmasciata e vedere a distan-za di tutto questo tempo il mio nome nella pagina che ne ricor-

da i fondatori. Sì, è vero che 10 anni fa accendemmo l’idea con i primi numeri del giornale, ma se oggi si festeggia questo impor-tante compleanno è merito di chi l’ha presa, coltivata e fatta crescere, tra-sformandola in passione vera e facen-dola diventare un contenitore culturale significativo.Mi permetto di dire significativo senza esagerare con i complimenti, non per sminuire quello che nel piccolo è una grande cosa, ma perché si può sognare anche che un progetto esploda in qual-cosa più grande e potente.Secondo me questa è la metafora di una generazione che nel piccolo riesce a fare tanto, ma incontra grosse diffi-coltà quando prova a ritagliarsi spazi importanti all’interno di panorami più ampi. Si riuscirà in quello che sembra un’im-presa ma che tempo fa era naturale? Si riconquisterà la "normalità"?Volendo dare una risposta obiettiva, c'è il rischio di sovrapporre pessimismo e realismo. Come se appena svegli in pieno inverno, si indossassero gli oc-chiali da sole prima di guardare com’è il tempo fuori: risulterebbe difficile non prendere l’ombrello quando si esce in strada.In questo momento c'è il dovere mo-rale di provarci pensando in modo non convenzionale, chiudere logica ed indi-gnazione nel cassetto e lasciare aperte tutte le domande con risposte sconta-te.In bocca al lupo a quelli che dopo aver acceso le idee ed averle coltivate pro-veranno a farle volare lasciando a casa quell’ombrello.

ORA LASCIATEA CASA GLIOMBRELLI

RESTIAMO COLTIVATORI DI DUBBI

di Eduardo Cassano

di Walter Vigna

Mmasciata compie 10 anni. Potrebbe non voler dir molto nel panorama globa-le e globalizzato della stampa, ma non per quest’accolita di giovani incalliti. Rivedersi a distanza di anni con qualche barba in più e qualche capello in

meno (per fortuna non per tutti) fa riflettere su quello che eravamo e quello che sia-mo diventati. In un Paese (Italia o San Pietro? Fate voi) sempre pronto all’eterno ritor-no dell'uguale, Mm ha saputo resistere bene alle spallate della vita. Nata inizialmente come organo d’informazione localissimo, quattro amici che si ritrovano davanti a un tavolo a parlare, discutere, animarsi su politica, sport, cultura e quant altro, sembrava un’operazione destinata a pochi intimi. Crescendo ci siamo resi conto che la forza trascinatrice era la nostra voglia di rompere le scatole alla gente, far nascere delle domande, crescere dei dubbi nelle loro teste, evitare per quanto possibile i sonni della ragione… A distanza di tempo penso che qualcosa si sia smosso, se siamo riusciti ad arrivare a questo traguardo. La nostra bravura è stata quella di riuscire a trasmettere alle generazioni successive la nostra testardaggine e la consapevolezza di essere at-tori della società in cui si vive. L’aver investito sulle generazioni successive alla nostra, dando loro l’opportunità di crescere coltivando esperienze, facendo errori, ricevendo insulti, ma sapendo rispondere a questi con mezzi adeguati. Questo è stato un grande merito di Mm, e molti dovrebbero riflettere sul come questo obiettivo è stato rag-giunto. Senza personalismi, senza guerre di successione, ma solo la voglia di fare bene il proprio compito, consapevoli dei propri limiti e delle proprie capacità. La vita ci ha portato poi a scelte diverse, alcuni di noi partecipano da distanze siderali alla vita del paese. Mm è lì, ci fa sentire sempre a casa, a tenerci gli occhi aperti sul nostro Paese. Tra dieci anni parleremo dei nuovi frutti di questo lavoro…

UN CAMBIAMENTO SOCIALEdi Fausto La Nocara

Mmasciata, oltre ad essere promotore di cultura medi attivista è anche, e so-prattutto, impegno sociale. Giovani e meno giovani con idee di uguaglian-za, di rispetto verso chi la nostra terra la vorrebbe cambiare sul serio e non

solo a parole e con le parole. Ho un episodio su tutti in mente: “Noi saremo al fianco dell’ultima persona che denuncerà gli abusi della ’ndrangheta“. Con queste parole scolpite in testa e nel cuore il collettivo si mobilita in molte manifestazioni contro la criminalità organizzata. E’ il 25 Settembre 2010, ad un mese dal vile attentato dina-mitardo al procuratore reggino Di Landro il Quotidiano di Matteo Cosenza promuove la manifestazione “No ndrangheta”. Decine di migliaia le persone scese in piazza quel Reggio Calabria a cantare e urlare slogan. Tra questi anche noi con trombe e tamburi a dimostrare che non abbiamo paura di farci sentire, tutti dietro un fortunato stri-scione che con molta eloquenza diceva: “Vediamo, sentiamo e vogliamo gridarlo: La ndrangheta è una merda”. Ma non solo quella giornata, mediaticamente importante, siamo stati accanto a chi lotta anche in altri momenti. Don Giacomo Panizza, in prima linea contro la cosca lametina dei Torcasio è riuscito a trasformare un bene confiscato alla famiglia in un progetto che vuole mettere in relazione persone diversamente abili e non. Per difendere il suo progetto è stato vittima di innumerevoli attentati alla sua persona e ai suoi collaboratori. E’ per questo che quando Lamezia si è stretta intorno a lui, dopo l’ennesima intimidazione, noi eravamo anche lì, accanto al panettiere che regalava alla folla il pane appena sfornato da chi havuto il coraggio di denunciare chi gli chiede il pizzo. Il collettivo Mm quando c‘è da schierarsi per causa che ritiene giusta lo fa. Come nel referendum contro il nucleare. Assolutamente contrari, tutti i compo-nenti del collettivo si sono mobilitati per organizzare un flash mob e urlare il nostro dissenso con canti e cori da stadio, e così è stato anche ogni qual volta si è sceso in piazza contro il precariato. Il collettivo Mm è unione, intesa, impegno, passione condi-visa tra tutti i componenti del gruppo, sempre aperto a nuovi arrivi, perché come dissi tempo fa, Mmasciata prima che un giornale è una fabbrica di amicizia.

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UNA GUERRIGLIA CULTURALE

TORNARE A RACCONTARE SUL POSTO

IL NEMICO E DENTRO DI NOI

di Matteo Dalena

di Paolo Vigna

di Salvatore Intrieri

Quando ho abbracciato Mmasciata Beppe Grillo colorava il maggio cosentino, ci sarebbero state le Comunali vinte inaspet-tatamente da un’alleanza di centro destra e io, che di tutto quel bailamme stordente e centrifugo non me ne facevo nulla, involontariamente cercavo altre sponde periferiche e collettivistiche, esperienze di amicizia e scrittura che popolassero le

mie mancanze. Assaporai il senso di Mm nei pochi attimi di un caffè, macchiato come le tante zone d’ombra dei nostri territori che un ragazzo moro e incazzato, insieme a un manipolo di virgulti, si proponeva di illuminare grazie al fascinoso potere di una penna, unita ad una maschera e a quel lenzuolo “scimmiesco” (che avrebbe poi fatto illustri proseliti) portato orgogliosamente in manife-stazione. Mi son distratto un attimo ed ero già uno di loro: colpa d’Alfredo. Ma, a differenza della canzone, nessuna troia andò col nero: non mi feci scappare quell’opportunità di socialità e vita, quel laboratorio di amicizia che viveva l’esaltante processo del “farsi”, o dell’ennesimo “rifarsi” dopo una lunga storia narratami da “coloro che vennero dopo”, giovanissimi epigoni di una solida tradizione paesana. Mentre in centro tutto andava verso la deriva della cultura, a vantaggio di una nuova primavera del mattone, della consolle e dei boulevard del nonsense, la periferia virava verso nuovi linguaggi. Noi abbracciavamo la guerriglia semiologica di Umberto Eco, quella veicolata da supersoniche locandine che un qualche mago incompreso tirava fuori come conigli dal cilindro. Le riempimmo di attori e contenuti: capimmo che la crisi può essere arginata dalla cultura, che le televisioni ci riducono al “pane e acqua” di deretani e tangheri prezzolati, che “se spendendo 0, portiamo 1 al nostro paese allora abbiamo vinto”. Poi venne il web, incomprensibile e af-fascinante, venne la piazza delle proteste e dei baci rubati dal click una foto: e fui felice al pari di quegli zingari che in piazza Maggiore si ubriacavano di luna, di vendetta e di guerra.

Era Natale. Era il Natale del 2009 e all’associazione (ormai sciolta) Agorà, venne in mente di ridare voce e caratteri a Mmasciata. Saranno state le luci, l’alcol o la tradizione di una famiglia “mmasciatista” (siamo in sei a casa e solo mamma non ha mai scritto per Mm) a far sì che accettassi senza pensarci su due volte. Un po’ di tempo per chiarire le idee, trovare un gruppo solido che

servisse da base e si parte: ad aprile dell’altro successivo viene lanciato il primo numero della “nuova gestione”. Dopo un po’ di nu-meri “santupetrisi”, Mmasciata ha fatto il salto. È uscita, e siamo usciti singolarmente, fuori dagli schemi paesani, per spostarci verso i grandi eventi e i grandi personaggi. Ci siamo messi alla prova con interviste alle promesse musicali italiane (un esempio su tutti è il numero con la copertina dedicata alla Brunori S.A.S.), a volti affermati (Caparezza, Vinicio Capossela etc.), senza però mai spostare l’obiettivo. Quello è rimasto sempre fisso nel puntare ad una cosa ben precisa: dare voce alle nostre vite, alle nostre emozioni. Sia-mo andati sul posto a registrare sempre più vite, sempre più emozioni. Poter travisare nelle pagine gli eventi collettivi come la visita pastorale di Benedetto XVI a Lamezia Terme, o dar voce al forte grido “no alle mafie” nelle varie manifestazioni a cui il collettivo ha partecipato. Far arrivare per primi le voci degli eventi politici e sociali che di solito arrivano con 24 ore di ritardo. L'abbiamo fatto perché era un modo per battersi per quello in cui si crede, sognare insieme agli amici, vivere esperienze che non avresti mai potuto fare e raccontare il tutto al lettore e a se stessi. Questo è stato e sarà ancora Mmasciata.

Ormai sono passati più di tre anni e quel giorno in cui abbiamo deciso di riprendere l’azione “Mmasciata” resta ancora impres-so nella mia mente come se fosse ieri. È stato il sogno di giovani che c’hanno creduto, di generazioni che si sono immerse in questa realtà lasciando una traccia indelebile in questo territorio. Dal 2002 ad oggi moltissimi hanno dato un contributo

e ognuno c’ha messo il coraggio, la forza, il cuore. Noi ci siamo messi in gioco perché dire “Mmasciata” significa avere la coscienza pulita, perché prima di entrare a far parte di questo gruppo devi “guardarti dentro”, e noi l’abbiamo fatto, consapevoli di iniziare un percorso mirato essenzialmente verso la correttezza delle nostre gesta.Far parte di questo collettivo è significato lasciare da parte la paura, perché, come è scritto nel manifesto di Mm: “La responsabilità è libertà di parola, la vita è opinione in libertà”. E ancora: “Mmasciata è sempre stata mossa dalla convinzione che sia diritto di ogni individuo desiderare un mondo migliore ma sia dovere dello stesso adoperarsi insieme agli altri per realizzarlo in libertà di coscienza e di opinione, a partire dal proprio posto”. Queste parole ci hanno guidato e credo che in questi anni tutti abbiano capito che svolgere un’attività che ha a che fare con il giornalismo non è affatto semplice: la coerenza, la pazienza e la voglia di andare avanti sono le armi che possediamo e che mai nessuno potrà levare dalle nostre menti.Ora che il progetto sta crescendo e sta allargando le frontiere ci sentiamo ancora più forti, ma saremo più forti solo se non perderemo mai l’umiltà e soprattutto l’identità, poiché questi sono i punti che ci hanno contraddistinto in questi dieci anni di informazione leale ad una cittadinanza che sembrava davvero spenta e troppo impaurita per poter “parlare”.

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R eportage

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MorMannonMyMind

Gli stivali sul ciglio del por-tone di casa lasciato semi-aperto. Si potrebbe sce-gliere questa immagine di

Mormanno all’ora di pranzo per spie-gare a un uomo atterrato dalla Luna cosa significhi essere calabrese. Stesso discorso per il calare della notte, quan-do le mamme intimano ai figli di an-dare a dormire lavati e con il pigiama pulito perché ci si presenti dignitosi in caso di emergenza.

“Figlio mio, è toccato a noi”, dice come ad auto consolarsi la signora anziana riapparsa dalla porticina di una scura cantina. Cerca di tornare alla norma-lità, di far passare il tempo e con lui la paura. Le olive le controlla una alla volta. “Ho visto che qui la struttura è più sicura e ho portato le cose del-la campagna, casa mia ha i muri tutti sfilati, non sto tranquilla, anche se io dico che ormai non torna più”.

Il mattino ha anche il volto della piog-gia battente sui vetri delle automobili, ancora giaciglio di fortuna preferito da tanti cittadini. Fa freddo, la pioggia è forte, a volte diventa fortissima e com-plica tutto, in una situazione psicologi-ca già molto delicata.

Anche la montagna fa paura, come una candela che nel buio brucia da due lati. Zona a forte rischio sismi-co e di dissesto idrogeologico, come spiegano gli ospiti delle postazioni tv nazionali messesi proprio all’ingresso dell’ospedale sgomberato. Dietro di loro, il personale fa chiasso perché la chiusura temporanea non diventi defi-nitiva. Mentre tutti guardano il ritorno di Berlusconi nei monitor di servizio la notizia viene confermata: il “Minervi-ni” è inagibile, via tutti.

Stesso destino per la meravigliosa catte-drale di Santa Maria del Colle. Un pom-piere ha finito la ricognizione di due ore all’interno del Duomo e consuma la si-garetta a riparo dalla pioggia. “Gli anti-chi ci sapevano fare, la struttura esterna è solida, ma dentro la situazione è cri-tica - ci spiega l’uomo ancora col casco indosso - archi e volte sono vecchissimi, in caso di un’altra scossa forte non vo-glio immaginare cosa ne sarà di questa meraviglia”.

I mezzi dei Vigili del fuoco e della Prociv si danno il cambio in una staffetta inces-sante. I pochi che hanno la casa a po-sto hanno invitato a pranzo i vicini più sfortunati, ma nessuno resta tranquillo: “Se è inagibile quella affianco, in caso di crollo capisce che per noi cambia poco”. Sulle viuzze e le scalinate che si fanno strada in un labirinto colorato spesso si trovano i residui dei calcinacci caduti in quella maledetta notte.

Nella piazza compaiono ragazzi col trol-ley, sono venuti a prendere le cose che avevano lasciato la notte prima, stan-no andando via. In un vicoletto invece spuntano due coniugi anziani, quasi la scena opposta. Sono tornati senza nien-te in mano: “Alla prima scossa l’altra notte ce ne siamo andati in campagna per la paura”. Quand’erano bambini i genitori al mattino li portavano all’in-gresso del paese per mostrargli le tracce dei lupi sulla neve, così che imparassero ad avere paura e rispetto della notte e della montagna.

E’ il 28 ottobre, entrambe sono attese un’ora prima del solito.

(sas)

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LA SCUOLA IN SUBBUGLIO

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DOVE SONOI NUOVI SOGNATORI?

F ocus

a cura di Daniel Intrieri

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La voce di mia madre, fuori campo, mi avverte che il pullman non è an-cora salito da Cosenza. Proprio oggi che c’è il compito in classe. È matti-

na, le sei per la precisione. Cerco di darmi una svegliata, la mia routine parte come tutti i giorni. È mentre faccio colazione che la situazione si sviluppa, il pullman sta finalmente salendo le curve che portano a casa mia. Ci metterà un po', è uno di quelli vecchi, ma è già tanto che qualcosa venga a prenderci. Ci siamo ormai un po' tutti abituati a questa lotteria mattiniera, sono settimane che scopriamo solo all’ul-timo se rimarremo a piedi oppure no.

Mi precipito alla fermata e lo aspetto. Dopo un quarto d’ora lo vedo arrivare: vecchio, col paraurti tutto ammaccato, la scritta “Iveco” ormai cancellata dai segni del tempo, salgo. Infilo il biglietto (sì, ho fatto il biglietto) nell’obliteratrice, non funziona. L'autista mi dice “scrivilo a penna”. Mi avvio a cercare un posto, pri-ma di sedermi controllo che sia asciutto, stamattina piove, anche su molti sedili. L’ultima volta mi son fatto tutta la gior-nata col culo bagnato, vorrei evitare di ri-petere l’esperienza, ma sfortunatamente m’accorgo che quelli rimasti liberi sono "a cielo aperto". Metto lo zaino sul sedile e mi ci siedo sopra, una posizione scomo-dissima, visto che, ovviamente, proprio oggi ho deciso di metterci dentro il sim-patico compasso. Mi infilo le cuffiette

nelle orecchie e prendo il walkman, (sì, ho il walkman); sto per premere play su un vecchio pezzo dei Pink Floyd quando qualcosa cattura la mia attenzione. Una discussione fra una signora e l’autista.

- “Non è possibile mantenere queste condizioni!”

- “Signora mia, che volete che vi dica, non è mica colpa mia. Io lo stipendio non lo vedo da tre mesi, cosa dovrei dire?”.

Già, la situazione non è proprio delle migliori: benzina finita, corse soppresse, per non parlare delle condizioni dei pul-lman (non voglio nemmeno sapere che cos'è quella macchia rossastra a terra...).

Intanto pondero, di chi è la colpa in tutto questo? Non certo dei lavoratori e degli utenti, che ne pagano tutti i disagi. Su In-ternet trovo un articolo che parla di oltre 20mila euro di fondi destinati alla “Cala-bro” - la gente chiama ancora così le Fer-rovie della Calabria forse pensando con nostalgia dei tempi dorati delle “Calabro-Lucane” - bloccati perché alla Regione son senza soldi, l’assessore ai Trasporti che non sa dove mettere le mani e una situazione che va sempre più peggioran-do. Poi la mente si sofferma sulla frase detta dallo assessore regionale ai Tra-

sporti, tale Luigi Fedele: “Siamo comun-que nella condizione di rassicurare tutte le parti che nessuna strada sarà lasciata intentata”. Mi viene un po’ da sorridere. Sono sicuro che per quanto stia provan-do a tenere la situazione sotto controllo, sa già che tutto è stato deciso da tempo.

Vedo l’autostazione dal finestrino, siamo arrivati a Cosenza. Una babele di mezzi messi di traverso, finalmente capisco la frase “dipendenti in agitazione”. Entro a scuola giusto in tempo prima che la campana suoni, alla prima ora ho quel maledetto compito. Metterlo all'inizio delle lezioni non è stata una grande idea, i primi venti minuti di lezione si sprecano aspettando che il pullman di tutti i com-pagni di classe raggiunga l’autostazione. L’ultimo ad entrare paga pegno: “Vai in segreteria e fatti fare il bigliettino di ritar-do”. Altro tempo sprecato. Alla fine ini-ziamo questa prova, nello stillicidio degli aiutini sono uno degli ultimi a consegna-re l’elaborato sperando almeno in quel sei stiracchiato, visto che faccio proprio schifo in matematica. Non ho nemme-no il tempo di sperarlo fino in fondo che arriva il bidello; “Oggi uscita anticipata, causa trasporti”.

Un po’ sono contento, almeno posso tor-nare a casa un po’ prima.

Sì, ma come?

il CAOS delle “CALABRO”un DIARIO DI BORDO

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Va bene, stamattina mi alzo e vado all’occu-pazione. Prima di raccontarvi la faccenda però, ho bisogno di un piccolo salto all’in-dietro.

Ritorniamo al 5 Ottobre 2012, a Roma migliaia di stu-denti, come in altre città d'Italia, scendono nelle piazze per protestare ed esprimere un’opposizione sociale re-ale al governo Monti e alle politiche di “austerity” che stanno mettendo sempre più alle strette le famiglie ita-liane. L’opposizione del mondo studentesco è nata gra-zie all’appoggio del sito StudAut che ha portato la voce di questo sciopero fino al nostro piccolo mondo così che anche a Cosenza frotte di studenti hanno aderito allo sciopero e sono scesi in piazza a protestare.Torniamo all’8 Ottobre 2012, la mia scuola, l'istituto tecnico industriale A.Monaco, ha deciso come molte altre della città di attuare un’occupazione, a detta degli studenti, “volta a protestare contro il governo Monti”. Siamo dentro, ma non si vede neanche uno slogan o uno striscione di protesta. Perché quest’occupazione, allora? Non sarà che gli studenti cosentini sono rimasti un po’ indietro? Mi rendo conto che sono rimasto – ahimè - coinvolto in prima persona in questa “protesta studentesca” atta, a mia impresso-

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LA NOVEMBRITESTA INVECCHIANDO

Fuori dal clamore della piazza, c’è anche chi non partecipa, ci sono gli studenti che decidono di entrare e fare lezione nor-malmente, altri che rimangono a casa, qualcuno che si perde per strada perché la vetrina di un negozio vince sulla necessi-tà di manifestare. Ma c’è un filo conduttore che lega le varie forme di diserzione e sono i ragazzi stessi che ne parlano: una disinformazione dilagante, che assume forme e facce diverse ma che ha la capacità, a più livelli, di produrre lo stesso effet-to. Del dodici ottobre non ne ha parlato nessuno. Non ci sono stati professori che hanno avuto la necessità di spiegare cos’è la politica dell’austerity, di fornire i mezzi conoscitivi per dare la possibilità agli studenti di farsi un’opinione. Non c’è stata la solidarietà per la formazione di una coscienza di classe, che forse può sembrare una definizione obsoleta e di altri anni, ma che rimane ancora attuale quando si tratta di trasferire i saperi dagli studenti che hanno avvertito la necessità di scen-dere in piazza a quelli che hanno preferito rimanere a casa. E’ poi c’è ancora la minaccia di quei genitori che comprendono il valore dell’istruzione, costringendo i figli a non assentarsi, ma che non sanno che sarà proprio la mancanza di consapevolez-za dello stato attuale delle cose che gli toglierà lentamente la possibilità di accedere alla cultura. Ci sono stati ragazzi che, nei giorni scorsi, hanno sentito la necessità di discutere del-la manifestazione, di provare a comprenderne le motivazioni (leggi qui). Ma il tentativo si è arenato proprio per la man-canza di informazione, la mancanza di strumenti per capire. Sono assenti che comunque praticano una forma di resistenza, opponendosi a “queste manifestazioni che nascono e si bloc-cano a ottobre”,che immaginano di “andare oltre” per poter cambiare le cose, che si vada al di là del pretesto per saltare un giorno di scuola.E’ pur vero però che nell’era dell’individualismo informatico manca la volontà di cercare i motivi del dissenso collettivo.Sono anni di tranquillità esistenziale, che hanno smarrito la necessità di condividere e di comprendere, che demandano a un altrove virtuale il compito di gestire i conflitti che non han-no mai cessato di esistere. Non si ha più la percezione di una soggettività capace di diventare collettiva e di farsi carico di un cambiamento auspicato, ma che non trova il coraggio di concretizzarsi.La connessione da social network, che pure è stata in grado di assumere forme inedite di partecipazione dal basso e man-tiene un alto potenziale di cambiamento, si sfalda prima di trasformarsi in corteo, dimostrando che probabilmente le ma-nifestazioni nelle piazze hanno finito il loro corso e c’è bisogno di un modo nuovo d’immaginarele rivoluzioni.

di Mariarosaria Petrasso

F ocus

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ne soltanto a prendersi una piccola va-canza autunnale. Nelle classi non si par-lava di politica, ma di partite di pallone. Non c'erano giornali carichi di notizie sui banchi, ma solo carte da gioco, non c'e-rano megafoni tra le mani degli studenti, ma soltanto una sigaretta, fumata con un po' di sollievo, quel sollievo di chi pensa-va "è fatta, ormai la scuola è nostra". Si, ma ora? Ora che si fa? Dobbiamo orga-nizzare azioni di protesta? No, si rimane lì, calmi, come se fosse già tutto a posto così, come se con quest’occupazione fos-se già stato tutto risolto.Comincio a dubitare, mi chiedo se que-sti signori abbiano davvero idea di quel-lo che accade nel panorama politico, se

hanno opinioni o proposte. Non mi va più di rimanere con loro, non mi identifico nello studente nulla facente contento di qualche vacanza supplementare, tento di uscire. Voglio uscire di qui, ma non si può. Gli organizzatori sono stati abbastan-za furbi da sbarrare tutte le uscite. Ormai un po’ tutti ce n’eravamo accorti: qui si pensa a tutto tranne che a protestare, ma siamo costretti a fare numero.Tranquilli, comunque alla fine in un modo o nell’altro siamo riusciti a venirne fuori. Questo mi ha però fatto riflettere; perché non siamo sensibili al malumore cittadi-no, non siamo anche noi cittadini, dopo-tutto? Non voglio parlare singolarmente della mia scuola. Questo è un proble-

ma che coinvolge un po’ tutte le scuole calabresi: gli studenti non sono abbastanza informati.Chi non ha la forza di badare a se stesso cade nel limbo dell’ignoranza, preso per mano da professori troppo immersi nelle letture, dantesche o leopardiane che sia-no, e che non hanno il tempo di far cresce-re in noi un’opinione politica; con troppi compiti in classe e interrogazioni da pro-grammare, non trovano il tempo di farci aprire il giornale in classe. Penso che forse i prof sono un po’ troppo concentrati sul volerci far vivere nel passato, mentre noi vo-gliamo vivere il presente.

OCCUPANO L’ISTITUTONON CHIEDETEGLI PERCHE

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Nella difficile traversata di un’epoca percepita come di passaggio, viviamo alla ricerca di buone rotte e di

buoni traghettatori. Basta ai noc-chieri come Caronte, che nel mito greco accompagnava le anime all’Ade in cambio del giusto obolo. C’è bisogno di qualcuno o qualcosa che ci riporti con il buon esempio a ritrovare la rotta nel cielo stellato, nel buon esempio.

Paolo Jedlowski nel suo ultimo libro (“In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale”, edito da Orthotes) rimette in questione i suoi studi per le nuove sfide che il

sociologo e l’intellettuale in genere sono chiamati ad affrontare in que-sta nuova modernità. Nel suo stu-dio all’Università della Calabria as-sapora la pipa e qualche minuto di pausa dalla frenesia delle sedute di laurea. Maneggia abilmente versi di John Lennon e pagine di Conrad.

Partiamo da questa scena del celebre romanzo “La linea d’ombra”, raccontata anche nel suo libro attraverso uno scam-bio di mail con una giovane lau-reata. La linea d’ombra formata dalla terra ferma sulle acque ad un certo punto della traversata vie-ne oltrepassata e non resta che il

mare aperto. La metafora è quella del passaggio alla vita adulta, fatta di riti e di prove da superare, fatta di esperienze riconosciute.

“Alla fine del racconto il protago-nista, dopo il viaggio in cui per la prima volta è stato comandante, e che è stato singolarmente difficile, dirà: ‘Non sono più un giovane’. E un vecchio capitano farà un cenno di assenso”.

Insomma chi manca oggi è il vec-chio capitano.

“Sì, più che ai giovani bisogna ri-volgersi agli adulti. Un esempio ci potrebbe arrivare da un film uscito

L’ Intervista

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IL RITORNODELLO JEDI

di Alfredo Sprovieri

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di recente, mal criticato ma molto visto: ‘Viva L’Italia’. Il protagonista, interpretato da Placido, è un poli-tico costretto a dire la verità, un espediente anche molto divertente. Alla fine però parla pubblicamen-te delle nefandezze che ha visto, dichiarandosi pronto a riferirle alla magistratura. Ecco, si è preso le sue responsabilità. Assumersi le responsabilità è la prima cosa, e ne vuol significare tante altre. Vuol dire esserci, ascoltare, parla-re, tener conto delle decisioni in un tempo più lungo delle prossime ele-zioni o del prossimo consiglio d’am-ministrazione”.

Nel libro la questione del riconosci-mento (il cenno del vecchio capi-tano) è centrale nel rapporto fra le generazioni. La mancanza di quella che viene chiamata “energia pro-spettica - la plausibilità delle pro-prie aspirazioni” è il prodotto del limbo temporale – “di quel passag-gio che, poiché infinito, non è più passaggio” - che opprime le nuove generazioni soprattutto nei rappor-ti di lavoro. Per Jedloski un’altra chiave fondamentale di lettura sta proprio in questa dinamica.

“C’è quasi un’identificazione con l’aggressore: non mi lascia-no pensare al futuro e così non ci penso neanch’io. Però vivere pensando ad un breve periodo, alla giornata, e vivere il presente sono due cose ben distinte. Vivere il pre-sente, quindi accorgersi di vivere, in questa epoca non è una gran bellezza, ma potrebbe esserlo. Non bisogna dimenticarsi, mentre si cri-tica l’esistente attuale, che in fondo davvero si è capaci di pensarlo di-verso. ‘Living for today’, anche John Lennon ne faceva una meravigliosa utopia”.

Nel libro il sociologo milanese d’a-dozione cosentina è affascinato da

come collochiamo il futuro al cen-tro delle nostre riflessioni sulla cul-tura. Mi ricorda l’ammirazione di Baumann per la morte come finale capace di tenere in scacco tutto il resto della trama. In questo di-scorso molto passa dalle aspira-zioni, da quel discorso sul fatto che è quasi come “se a queste generazioni fosse stata negata la plausibilità delle proprie”.

“Tutti hanno aspirazioni, e ce ne sono di diverse. La politica deve scegliere quali enfatizzare, rappre-sentare e sostenere. La sfera pub-blica, il luogo del confronto, deve servire a far emergere quelle giu-ste. In questo senso l’Università fa, può fare e deve fare tanto ancora, non solo con l’insegnamento, ma con le presentazioni di testi legati ai corsi, con dibattiti. E’ importan-te anche che non si facciano solo all’Università, che si aprano alla città e che vengano raccontati sui giornali locali”.

La questione della narrazione al Sud occupa la parte finale del po-

meriggio e delle meditazioni di Paolo Jedlowski. Ragionando di “partenza, restanza e tornanza” come concetti immancabili nella narrazione calabrese, ammette di non aver ancora risposto a cer-te domande, tipo sul come abbia cambiato la percezione delle cose la sua “arrivanza” al Meridione.

“Il racconto delle periferie è sempre sottorappresentato. In genere le periferie vengono immo-bilizzate nella rappresentazione; ci vuole qualche grande evento per-ché il centro si accorga dei cam-biamenti in atto. Questo ha degli effetti nefasti sulla coscienza di vive nelle periferie: ‘La mia vita la sento così, ma mi viene raccon-tata cosà’. Finisce che sai più come narrarti. Ecco in questo iato siamo chiamati a fare qualcosa. Mi chie-do e metto in dubbio molte cose sulla Calabria, l’ho vissuto prima come un posto come un altro, poi ho capito che ha le sue peculiarità. Probabilmente un giorno ne scrive-rò”.

Il sociologo Jedlowski ragiona

sull'epoca di passaggio che stiamo

vivendo: "Gli adulti si prendano le

loro responsabilita, e i giovani

tornino a vivere il presente"

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C ultura

OFFICINA DELLE

ARTI

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UNPICCOLOREGNOANTICO

di Irene Napoli

Entrare nell’Officina delle Arti di Cosenza è come entrare in un piccolo regno fantastico. All’en-trata gli animatori di questo

posto ci fanno sapere che possiamo parlare con Babbo Natale, intendono Eduardo Tarsia, che come una sorta di capo stregone ci riceve ad un tavolo a centro sala mentre ballerine vestite come negli anni ‘30 provano le magie che da lì a poco animeranno una delle serate. L’Officina festeggia i primi due anni di attività, partiamo da un bilancio. È stato molto bello, due anni fatti di tante fatiche e sacrifici, ma il tutto in-comincia a mostrare i segni positivi e la gente inizia ad apprezzare, quando viene a trovarci rimane colpita piace-volmente, sia da dall’ambiente che tro-va, sia dall’accoglienza e dai programmi proposti dal teatro.Com’è nata questa idea?Questo posto ai primi del ’900 era una centrale dell’Enel, l’abbiamo scoperto per caso. Quando non servì più per lo scopo originario divenne prima un de-posito e poi un’officina e fu totalmente abbandonato. Abbiamo chiesto all’E-nel di poterlo fare nostro e vincemmo l’asta che venne indetta a riguardo, fa-cendo molti sacrifici. Facevamo teatro insieme da 30 anni in tutto il Paese, lo prendemmo per avere un luogo fisso dove poter dare sfogo alla nostra arte, per dare alla città un palconoscenico diverso dal comune. Gestire un posto del genere è molto oneroso, ma ne vale la pena. Un aspeto che colpisce è il fatto che l’Of-ficina delle Arti sia un’opera collettiva. Siamo in tanti, una compagnia di 20 - 30 elementi, che cresce a seconda degli eventi. Siamo mossi dalla convin-zione che di arte si possa campare. Io sono convinto e dico sempre che con le idee giuste ce la si può fare. Qui non facciamo solo teatro nel senso classico, abbiamo lanciato anche altre attività

settimanali come i mercatini d’arte, dove tutti i soci possono mettere in vendita i loro vecchi oggetti e piccole creazioni artistiche a modiche cifre. Tutte queste attività ci permettono di finanziare l‘Officina, visto che le spese sono tantissime, ma ci garantiscono anche la libertà di poter sperimentare un approccio più divertente e coinvol-gente. Il nostro obiettivo è lo stupore.Quali sono gli obiettivi che vi siete prefissati?L’obiettivo è di dare continua linfa a questo stabile attraverso le arti portan-do nella cultura cosentina il bello di mi-surarsi con la conoscenza. Al Sud non è facile ma noi andiamo avanti. Quando abbiamo trovato l’officina con tutte le vecchie scritte fuori abbiamo deciso di aggiungere dappertutto la parola “arte”. Ogni settimana che passa sem-pre più persone l’hanno presa come un punto di riferimento e di incontro. Organizziamo corsi molto partecipati e divertenti perché le arti arrivino sem-pre a più persone.Vivere di arte nel profondo Sud, quali sono le maggiori difficoltà da superare?Le difficoltà subentrano di giorno in giorno, all’inizio e per certi versi ancora oggi ci dobbiamo scontrare con la fred-dezza che ha avuto questa città nell’ac-coglierci; succede fino a quando non entrano in questo meraviglioso posto e conoscono le cose che lo animano, la gente diffida perché negli anni troppi furbetti hanno nascosto i loro interes-si dietro la parola arte. Il senso di de-lusione è forte, ma noi siamo animati da idee profonde. Stiamo spendendo la pensione per permettere a tutti di godere di un posto del genere, qualcu-no in passato ha anche bussato propo-nendoci di acquistarlo per farci nuove costruzioni. Abbiamo risposto picche, non si campa solo di soldi. C’è bisogno anche di cultura, di arte.

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