Paolo Veronese (Paolo Caliari, Verona 1528 - Venezia 1588) Ratto d'Europa, olio su tela, cm 245 x 310 Pinacoteca Capitolina
Presentazione L’Europa va compiendo grandi passi sulla strada della reale integrazione. Per diventare “grande
famiglia europea” è opportuno ricercare valori condivisi, fondamenti di una “identità europea”.
È in tale contesto che si è inserita l’attività progettuale che ha inteso recuperare i fili degli eventi e
delle elaborazioni intellettuali, che colgono gli elementi di coesione europea.
Ho, dunque, proposto una prassi didattica sulla letteratura comparata, nella sua variante storico-
letteraria, capace di offrire strumenti critici adatti ad infondere, nelle giovani generazioni,
un’educazione allo studio della letteratura, per scoprire il valore e l’importanza delle affinità e
rendere ciascuno soggetto attivo e vivo protagonista nel processo di costruzione del sapere etico-
culturale.
La lettura dei testi classici, estesa ed integrale, e l’interpretazione degli stessi, in modo rinnovato,
confermano la valenza dell’educazione umanistica.
Lo svolgimento del modulo è iniziato con la lettura e l’analisi dei vari testi europei, cui è seguito
il confronto fra le interpretazioni proposte e le ipotesi personali degli studenti.
L’attività è rientrata nella pratica della traduzione contrastiva in cui ogni alunno ha realizzato
col testo un rapporto dinamico, attivo e creativo, che lo ha portato allo sviluppo delle
abilità/capacità riflessive e critiche. Alla decodificazione del messaggio e alla riflessione sullo
stile è seguita l’analisi lessicale con l’individuazione delle famiglie lessicali generate dalle
lingue romanze e germaniche attraverso la comune radice indoeuropea. La riflessione più
ampia ha colto anche il lessico dei sentimenti.
La verifica sommativa ha testato le conoscenze e le competenze acquisite da ciascun corsista
sulla lettura ed interpretazione dei grafici, con il ricorso personale a connettivi appropriati,
sull’esposizione chiara e completa delle unità trattate e su una dettagliata e critica analisi
testuale.
L’esperienza didattica è risultata valida per il riscontro positivo che ciascuno ha rivelato
nell’osservazione attenta e nella capacità autonoma di riflessione e dal punto di vista
formativo ne è scaturito un modo diverso di confrontarsi con le realtà socio-culturali in
continuo dinamismo.
ELENCO CORSISTI Cognome e nome classe di frequenza• CASAMASSIMA STEFANO IV L• DEPALO VIRGINIA III H• DIBIASE LUCIA MARIA III H • DISTASO STEFANIA III H• FRISENNA MARIA LETIZIA IV L• MARINO FELICIA IV L• MONTEMARANO ALESSANDRA III H• PETRONI FRANCESCA III H• PIAZZOLLA ISABELLA III H• PUGLIESE ANNARITA III H• QUARTICELLI GIUSEPPINA III H• RAIMONDI GIUSEPPINA III H• RUSSO SANTE IV L• SCARCELLI CELESTE III H• SGARRA CINZIA III H• STAMPACCHIA ALESSIA III H
PIANO DI LAVORO1. La riscoperta della civiltà greco-latina: Max Pohlenz e l’uomo greco. Lettura e analisi
critica de “Le Trachinie” di Sofocle.
2. La cultura classica nel terzo millennio. La riscoperta della civiltà greco-latina: un
contributo dell’Italia per l’Europa. Letteratura cristiano-romana. Le radici dello spirito
europeo. Dal “De civitate Dei” di Sant’Agostino e “Supplica intorno ai Cristiani” di
Atenagora di Atene: lettura critica e analisi del testo.
3. L’evoluzione della lingua. Stirpi e storia delle civiltà. Differenze stilistiche. Lettura
comparata di documenti antichi.
4. La letteratura europea ne “La Divina Commedia”. Canto III del Paradiso: analisi del testo e
collocazione nel contesto dell’opera e dell’autore. La questione della donna nel medioevo
fiorentino. Figure retoriche e funzioni poetiche. Dante e Botticelli.
5. Il Romanticismo straniero. Lettura di “Bel ami” di Guy de Maupassant: analisi dettagliata
del testo.
6. Il romanzo gotico inglese. “Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hide” di Robert
Louis Stevenson: analitica attività di verifica.
7. Modalità di rappresentazione nelle lingue letterarie. I codici linguistici: denotazione-
connotazione-elisione-enfatizzazione. L’ambiguità di Thomas Mann: la crisi del romanzo
moderno. Lettura e analisi de “L’eletto” di T.Mann.
8. Importanza della traduttologia: tradizione cristiana italiana e tradizione materialista della
letteratura straniera. Periodizzazioni letterarie: Jauss e Auerbach.
9. Ricapitolazione generale del modulo con considerazioni rilevanti sulle affinità e differenze
socio-culturali.
10. Verifica sommativa delle competenze individuali acquisite.
L’UOMO GRECO (1945)di
MAX POHLENZ (filologo tedesco)
Fondazione civiltà greca:
colonizzazione Achei di origine germanica. antico uomo greco
Parallelismo
uomo tedesco di oggi
Linee guida pensiero greco
Vero: filosofia – scienze
Bello: arte (architettura – scultura - sport - bellezza atleti)
Bene: politica (scienza per bene comune)
rapporti uomo greco
1) Uomo – destino (moira): tragedia
2) Uomo – divinità (religione olimpica)
3) Uomo – comunità (uomo – cittadino nella polis)
termini base per i Greci
soffio vitale
1) Psyche (anima)
ombra errabonda nell’Ade
vita
desiderio
2) Thymos (animo)
irascibilità
piacere
3) Phren (connesso all’epifisi, ghiandola dell’encefalo): ragione e saggezza
RELIGIONE
- CRISTIANA (monoteista): creazione ex nihilo; Dio crea l’uomo; Dio si è rivelato; Dio impone comandamenti; peccato offende Dio; colpa: (disubbidienza a Dio) si purifica con la Redenzione.
- OLIMPICA (politeista): creazione preesistente; Dei e uomini increati; Dio è forza cosmica (rispecchia elementi naturali); Dei accomunati agli uomini da passioni umane; non esiste il peccato, il cattivo comportamento è indice di “non sapere”.
Punti deboli civiltà greca
- Omosessualità
- Eugenetica (tendenza di folli scienziati nazisti di migliorare la propria razza come a Sparta i neonati insani venivano buttati dalla rupe perché, con la debolezza, inquinavano la virile razza spartana).
- Donna: inferiore all’uomo
- Schiavitù per motivi economici
- Autodeterminazione: egoismo che liquida la libertà dell’uomo.
LE TRACHINIE DI SOFOCLE E L’ERACLE DI EURIPIDE
Due diversi destini per Eracle di Sofocle e di Euripide?
In effetti, trattando del mito dell’eroe Eracle, la visione delle due tragedie porta inevitabilmente a
vedere “due Eracle”, apparentemente diversi.
In "Trachinie", Eracle non incontra mai la moglie, protagonista della prima parte della tragedia e che
in essa si uccide; l’eroe, abbrutito e dolente, appare solo nella seconda. Allo stesso modo, in
“Eracle”, il protagonista risale apparentemente savio dall’Ade e tale resta per una parte della
tragedia; poi, all’improvviso, impazzisce ed è come se diventasse un altro essere, stravolto, crudele,
assassino.
Due tragedie, due capolavori nati da due autori diversi, ma che, geniali entrambi, non avrebbero
certo prodotto senza motivo un tale “effetto-difetto” interno alla propria Opera.
Vale la pena ricordare come "Trachinie" sia una tragedia “tarda” di Sofocle (nato nel 496 a.C. circa),
che, in certa parte, fu coevo di Euripide (nato nel 485 a.C. circa), il terzo tragediografo in ordine di
tempo e di stile dei tre Grandi, che comprendono anche Eschilo, il più antico, nato nel 525 a.C..
Dunque la messa in scena di un Eracle “umanizzato”, anziché mitizzato nello stereotipo
dell’eroismo, è assolutamente plausibile e “moderno” in entrambi gli autori, secondo un modello
“tardo” che poteva essersi formato “scivolando” verso il IV secolo, riguardo al mito di Eracle,
nonostante temi e valenze stilistiche diversi dei due autori.
Seconda, significativa dicotomia: nell’Opera di Sofocle, “Trachinie”, Eracle, figlio di Zeus e di
Alcmena, è sposato con Deianira; dei figli avuti con lei compare solo Illo; in quella di Euripide,
“Eracle”, è sempre figlio di Zeus ed Alcmena, ma considera come padre Anfitrione, (che “ha
diviso il proprio letto” con Zeus e non può darsene pace), è sposato con Megara ed ha tre figli
giovinetti; ma non ci sono due Eracle: il protagonista è sempre lo stesso. Ci si chiede, allora,
anche come mai in “Trachinie” l’eroe, appena tornato dall’Ade, non impazzisca, ma, vittima
straziata dell’inganno del chitone avvelenato dal sangue di Nesso donatogli amorevolmente dalla
moglie, si faccia condurre sul monte ed ardere su un rogo; mentre in “Eracle”, colto da follia,
uccida moglie e figli e, rinsavito, si rifugi poi ad Atene sotto la protezione di Teseo, che egli
stesso aveva salvato proprio dagli Inferi.
Ed ecco il punto di contatto fra le due figure apparentemente diverse: il ritorno dall’Ade.
In entrambe le tragedie, Eracle non torna, come sempre dopo ciascuna delle proprie “fatiche”,
vincente e trionfante, ma risale da quel luogo di morte e disperazione come “contaminato” dalla
morte stessa e dalla follia che ad essa è legata, poiché la visione della morte non è mai, per
nessuno, neppure per un eroe, capace d’infondere altro che angoscioso terrore e, a volte,
conseguente pazzia.
In "Trachinie" risale dall’Ade un Eracle divenuto inspiegabilmente rozzo, brutale, egoista,
dimentico dei doveri coniugali ed invaghito di una fanciulla, Jole, che addirittura vorrebbe imporre
in casa alla moglie e che finisce per far sposare al figlio; in "Eracle", il protagonista risale dall’Ade
in uno stato ancora peggiore, come “ammalato”, con in sé il seme della follia; che s’impadronisce
di lui e lo porta alla furia omicida nei confronti di moglie e figli. Il perché di questa follia è
da attribuirsi all dea Hera, che si dimostra stanca delle troppe vittorie dell’eroe e che non ha
tollerato l’uccisione del tiranno Lico all’ arrivo di Eracle a Tebe. Ma è solo una spiegazione
parziale: l’effetto “Ade” aveva in realtà distrutto Eracle ed il suo equilibrio.
Trovato il punto di contatto che unifica le due “facce” dello stesso protagonista, non si può,
allora, che apprezzare la magnifica abilità euripidea di “porgere” allo spettatore una storia
cruenta con l’ottica dell’arte immortale della Poesia Tragica greca.
E che dire di Eracle? Egli si dimostra “furente”, brutale dietro le quinte, ma credibile ed
umanissimo come e più della moglie, di fronte al pubblico.
Eppure, tra deprecazioni ed apparizioni, gli dei sono assenti in "Eracle": la suddetta tarda
età della tragedia rispetto alla produzione teatrale tragica ed a tutto il resto del "Pensiero"
greco "Classico", instilla nello spettatore, attraverso i fatti, le azioni, le parole dei personaggi,
la certezza che non esistano dei. L'assoluto scetticismo euripideo è controbilanciato
dall'amore terreno verso i figli ed i figli dei propri figli, nell'immortalità non più sacra, ma
assolutamente terrena, della procreazione.
“Eracle” di Euripide si dimostra, quindi, Opera d’intensa emozione, anche se nel tempo è stata
variamente giudicata dagli studiosi, che ne hanno sottolineato la propensione al lamentevole
ed all’eccesso tragico, che può sconfinare, se travisato, addirittura nel grottesco.
La cultura classica nel terzo millennio
Interrogarsi sulla cultura classica nel terzo millennio significa chiedersi quale funzione la cultura
greca e romana possa rivestire oggi in una società altamente tecnologizzata, assolutamente diversa
da quella in cui quel modello culturale è stato concepito e ha funzionato. Il mondo dei Greci e dei
Romani appare a molti uomini d'oggi come un puro relitto del tempo che fu, ormai inintelligibile e
pertanto non significante, scarsamente spendibile e quindi privo di valore commerciale in un
universo che valuta le realtà in relazione alla loro capacità di influenzare le borse e di pesare sulle
scelte dei mercati, e ogni tanto avvertiamo, più o meno esplicita, quella che fu la parola d'ordine
degli innovatori al tempo della Querelle des anciens et des modernes, "Chi ci libererà dai Greci e dai
Romani?".
Tuttavia è già avvenuto più di una volta che questa cultura, espressa in forme elitarie perfino dal
punto di vista linguistico, abbia avuto una funzione decisiva nella storia di età più recenti,
economicamente e tecnologicamente ben più avanzate rispetto all'antichità.
Il Rinascimento prese il nome proprio dalla rinascita della cultura greca e latina dopo il Medio
Evo, ma fu nello stesso tempo e soprattutto l'età in cui si affermarono le monarchie nazionali e il
principio del libero esame, sia nella religione, sia in generale nelle categorie del pensiero, l'età eroica
in cui la borghesia affermò la propria potenza economica nel mondo, anche grazie alla
globalizzazione delle comunicazioni in seguito alle scoperte geografiche ed agli sviluppi della
tecnologia dei trasporti.
L'Ottocento vide nello stesso tempo il trionfo della rivoluzione industriale, che trasformò
radicalmente il paesaggio dei paesi sviluppati, ben poco mutato dal tempo della colonizzazione
romana, e i modi di vita dei loro abitanti, come di quelli che furono sottoposti all'imperialismo
europeo e nordamericano e l'affermazione orgogliosa degli uomini di allora era "naturalmente"
l'antichità classica. L'imperialismo europeo fu fondato sul presupposto ideologico della superiorità
culturale di quel continente sul resto del mondo, e la cultura greco-latina fu vessillo di quella grande
operazione di sviluppo politico ed economico.
Il nuovo millennio si apre in una prospettiva largamente innovata, ancora una volta,
rispetto alle precedenti epoche in cui la cultura classica ebbe un ruolo preminente.
L'Europa e le sue tradizioni non sono più al centro dell'universo e, nell'ambito stesso della civiltà
europea, la tradizione greco-latina non è più pensata come elemento assolutamente centrale. Il
sistema della scienza e della tecnologia ha radicalmente trasformato il nostro modo di vivere e di
rapportarci agli altri, ma soprattutto implica modelli culturali originali ed autentici, e può individuare
valori che si inseriscono bene in una società aperta, in cui soggetti uguali convivono in reciproca
tolleranza.
Noi viviamo in un sistema multinazionale e multietnico, in cui ogni popolo è portatore di proprie
tradizioni e di modi propri di concepire la famiglia, le relazioni tra giovani e anziani, i rapporti di
lavoro, la religione e la politica: questo sistema peraltro si sta trasformando rapidamente e, proprio
negli anni che stiamo vivendo, tende a non riguardare più solo le relazioni internazionali e quelle tra
intellettuali che si propongono di pensare in termini universali, ma anche le relazioni interpersonali
quotidiane con i nostri dipendenti e i nostri datori di lavoro, i nostri vicini di casa, spesso i nostri
congiunti acquisiti. La prospettiva multietnica tende a spostarsi dall'assemblea delle Nazioni Unite al
desco familiare. Che faremo oggi della civiltà greco-latina, quando il compagno o la compagna
della nostra vita può essere un/una maghrebina, un/un'indiana o un/una giapponese?
Forse una risposta ci può venire proprio dall'osservazione della parte che la tecnologia, con i suoi
mezzi di produzione e di comunicazione di massa, sta assumendo nella vita di ognuno di noi. La
civiltà industriale tende all'omogeneità ed alla massificazione e, ogni giorno, diventa per gli uomini
moderni più urgente la tutela della loro individualità, personale e culturale. Noi non possiamo fare a
meno di consumare cibi e bevande prodotti industrialmente su larga scala, differenziati nei tipi che
possono più facilmente captare le nostre scelte e pubblicizzati secondo formule che i persuasori
occulti delle agenzie pubblicitarie tendono ad imporci, rendendo i nostri gusti sempre più uniformi,
per semplificare le tecniche produttive e contenere i costi di magazzino. Non debbo soffermarmi sul
vile livello medio della televisione, della stampa, della produzione cinematografica:
l'imbarbarimento del linguaggio quotidiano è la croce di tutti gli operatori della scuola, ma è
riscontrabile a molti livelli. Recentemente ho letto il dépliant di un grande distributore di libri
scientifici nel settore umanistico, che presentava una storia dell'abbazia di Montecassino, stampata
nel 1733 e riprodotta anastaticamente da un editore pisano, come "il prodotto esemplare della fatica
certosina degli amanuensi": per le grandi nazioni europee di cultura, sono ormai a rischio le
rispettive lingue madri.
Ecco che tra le varie componenti della civiltà europea, la tradizione classica è esclusivamente nostra
e costituisce la cifra individuante del nostro essere uomini di cultura e ci distingue da altre tradizioni
culturali, altrettanto valide ma certamente diverse. Il dialogo necessario con i portatori delle altre
tradizioni culturali è possibile solo se noi abbiamo una nostra identità su cui fondare questo dialogo.
Per questo oggi ha un significato per gli intellettuali europei lo studio dei documenti della tradizione
che più propriamente li individua. Noi non dobbiamo più cercare di identificarci con i nostri padri,
come vollero in altri momenti gli umanisti e in seguito i maestri della ottocentesca scienza
dell'antichità; dobbiamo anzi saper prendere le distanze da quel tipo di civiltà elitaria, che si affermò
spesso a spese dei gruppi sociali più deboli, come le donne, gli schiavi, gli stranieri, ma non
possiamo sottrarci all'obbligo di riconoscere la nostra identità europea nelle forme di pensiero che
essi hanno elaborato e che abbiamo fatto nostre e riconoscere i modi specifici della nostra tradizione
intellettuale ritrovando il rapporto con le nostre radici.
LETTERATURA CRISTIANO-ROMANAPatrologia, Patristica e Letteratura cristiana antica
Le diverse denominazioni si riferiscono alla stessa materiaLa Storia della Letteratura
cristiana antica derivadalla Patrologia e
conserva la memoriadelle origini a partire
dal XII sec.
IV-V sec. “I Santi Padri” generano nella Fede, i predicatori del messaggio. Si riferiva a Vescovi incaricati dell’insegnamento religioso.
Policarpo, vescovo di Smirne, è detto “dottore dell’Asia, padre dei cristiani”.
Vincenzo di Lerino, nel Commonitorium del 434, li identifica con: “I Padri che, dopo una vita santa, un insegnamento saggio, un costante attaccamento alla fede e alla comunione cattolica, hanno meritato di morire in Cristo secondo la fede”.
Medioevo: I lavori dei teologi e degli esegeti cominciano ad essere un intreccio di estratti patristici. L’interesse verso i Padri è l’opera di copiatura dei testi.
Riforma: Rinnova l’amore per i padri a livello teologico. Lutero riteneva che i Padri manifestassero la fede in Cristo della chiesa antica, in virtù dell’omogeneità al pensiero biblico.
‘600-’700: Si approfondisce l’opera dei Benedettini di San Mauro (Maurini), dei Gesuiti, dei Domenicani, di laici e sacerdoti.Si avverte l’esigenza di una storiografia ecclesiastica nuova, capace di misurarsi con problemi e con grandi personaggi del passato.
‘800-’900: Studio della letteratura cristiana con approfondimento critico-metodologico. Iniziative editoriali, in Germania e in Inghilterra, in Italia, in Belgio e in Francia, hanno reso accessibile questo patrimonio letterario di frammenti papiracei e manoscritti. L’interesse verso i Padri dirige verso una migliore definizione della personalità degli autori, delle loro fonti e del loro pensiero.
Kruger afferma: “La storia della letteratura cristiana antica insegna a conoscere e apprezzare i prodotti letterari dello spirito cristiano del mondo antico da un punto di vista letterario”.
La Patrologia opera con il concetto di “Padre della Chiesa” preso dalla dogmatica e si esplica nell’esposizione del pensiero dottrinale.
Umanesimo: Nasce l’esigenza di comprensione dei tesori della letteratura classica, latina e greca, compresi i Padri. Vengono presi in considerazione gli autori cristiani, non per il loro contenuto teologico, ma per il genere letterario.
Dal “De Civitate Dei” di Sant’Agostino
Uno dei meriti del vescovo d'Ippona è quello di aver ricondotto tutte le virtù al tema eterno
dell'amore. È celebre la sua definizione delle virtù: " La virtù è l'amore ordinato ". Ha fatto, poi,
dell'amore il centro focale della vita dello spirito, mettendone in rilievo le molteplici potenzialità
che investono e dirigono tutta l'attività umana.
Della carità Agostino ha messo in rilievo l'inesauribile dinamismo, l'intransigente radicalità, il
totale disinteresse, la forza progressiva dell'assimilazione, l'inseparabile compagnia dell'umiltà e in
ultimo, ma non meno importante, la soprannaturalità. Quattro, dunque, sono i principi fondanti di
Sant’Agostino: il dinamismo, la radicalità, il disinteresse e la forza di assimilazione.
Sul dinamismo della carità sostiene che, in terra, l'uomo giusto sarà sempre iustus et peccator, non
perché non gli siano stati rimessi i peccati o perché commetta peccato operando il bene, ma perché
non sarà mai libero da imperfezioni, debolezze, trasgressioni veniali, mai in ogni caso avrà la
pienezza dell'amore. Questa ci viene comandata non come perfezione che dobbiamo possedere,
bensì come mèta a cui dobbiamo tendere.
Nasce da qui l'inesauribile movimento della carità che non può, non deve mai arrestarsi. Da qui
l'esortazione di Agostino al suo popolo: " Aggiungi sempre, cammina sempre, progredisci sempre:
non ti fermare nella strada, non tornare indietro, non deviare... è meglio uno zoppo nella strada che
un corridore fuori strada ".
Inutile dire che questo dinamismo si fonda sulla natura stessa dell'amore, che è essenzialmente
tensione, moto, peso; un peso - è nota la celebre metafora agostiniana -, che trascina lo spirito verso
il luogo del suo riposo e si non placa finché non l'abbia trovato: " Il mio peso è il mio amore; esso mi
porta dovunque mi porto ".
La carità dunque, possiamo dire con Dante, è " la sete natural che mai non sazia ". Una prerogativa,
questa, su cui Agostino insiste molto. Si può dire giustamente che egli sia il filosofo e il teologo
dello “inquieto è il nostro cuore”. Ma questa prerogativa sembra contraddire ad un'altra che pur si
trova negli scritti agostiniani: la totalità o radicalità. Dice, infatti, che Dio non esige solo l'azione ma
anche l'intenzione, non solo la lode della bocca ma anche, anzi prima di tutto, quella del cuore, non
solo l'ossequio dell'intelletto per mezzo della fede ma anche quello della volontà per mezzo
dell'obbedienza.
Dio è tutto per l'uomo: causa dell'essere, luce del conoscere, fonte dell'amore; l'uomo dunque deve
tutto se stesso a Dio: l'essere, la conoscenza, l'amore. Nessuna fibra del cuore può restar fuori da
questa esigenza divina.
La totalità è estensiva poichè deve abbracciare tutto l'uomo, ogni sua attività, ogni suo pensiero,
perché lo spazio che non occupa la carità viene occupato dalla cupidigia, dall'egoismo, dall'amore
"privato", che è l'amore perverso di sé e degli altri.
Da questa esigenza della carità nasce l'opposizione tra l'amore di sé e l'amore di Dio, sulla quale
Agostino fonda, la città del mondo e la città di Dio.
Questa opposizione viene espressa appunto con i termini di cupidigia e di carità, i cui regni sono
tanto contrari che se uno si dilata l'altro si restringe. Occorre dunque diminuire il regno della
cupidigia perché si dilati quello della carità.
Terza prerogativa della carità è il totale disinteresse. Amare Dio gratuitamente: " Ciò che non si ama
per se stesso, non si ama " e quest'amore non esclude il desiderio del premio quando questo non sia
altro che Dio.
Questa nozione dell'amore gratuito, che non esclude ma include il desiderio di Dio, porta Agostino a
distinguere accuratamente il timore "servile" dal timore "casto". Il primo, se esclude la volontà di
peccare, è "buono e utile" perché prepara il posto alla carità, ma solo il secondo è inseparabile da essa
e cresce con essa; solo esso è compagno dell'amore vero, cioè "gratuito.
Un'altra prerogativa della carità, sulla quale Agostino opportunamente insiste, è la forza
d'assimilazione con l'oggetto amato. Prima di tutto ne stabilisce il principio: quello che qualifica
moralmente l'uomo non è ciò che conosce, ma ciò che ama. Perciò " ognuno è tale qual è il suo amore
".
Questo principio deriva dalla natura stessa dell'amore, che è apertura verso l'altro, movimento -
Agostino, abbiamo visto, parla di peso -, che non si quieta se non nell'assimilazione, assimilazione
dell'amante con la persona amata; assimilazione che vuol dire fusione o perdita di identità, ma -
Agostino è sempre preciso nelle sue idee metafisiche e teologiche - perfetta unione per cui i due, pur
restando due, diventano uno. Da questo principio nascono conseguenze luminose come questa:
amando Dio si diventa partecipi delle perfezioni di Dio, dell'eternità, della bontà, della bellezza".
Non possono i Suoi pensieri saggi non restare saldi nella mente di ciascuno .
Atenagora di AteneNella “Supplica intorno ai cristiani” del 177 d.C. sostiene che tutti i popoli dell’Impero praticano
liberamente i loro culti; solo i cristiani, unicamente a causa del nome di cristiani, sono fatti segno a
ogni vessazione e ad accuse infondate. Si rivolge agli imperatori Marco Aurelio Antonino e a Lucio
Aurelio Comodo, e soprattutto ai Filosofi asserendo l’esistenza di vari popoli che si reggono con
vari costumi e varie leggi, e nessuno di loro o da legge o da timore di giustizia è impedito di
osservare i patri usi, anche se ridicoli: il Troiano dice che Ettore è un dio; il Lacedèmone venera
Agamennone per Zeus; l’Ateniese fa sacrifici a Poseidone; gli uomini delle varie nazioni e popoli
celebrano quei sacrifici e misteri che vogliono. Gli Egiziani, poi, credono dei i gatti e i coccodrilli, i
serpenti, gli aspidi e i cani. Chiede loro, dunque, perché da. una parte stimino empio e non santo il
non credere affatto in Dio e dall’altra giudichino necessario che ognuno veneri per dei quelli che
vuole, affinché per timore della divinità si astengano gli uomini dal commettere ingiustizia e tutto
quanto l’Impero goda di pace profonda.
Ai cristiani, invece, non hanno provveduto come agli altri, ma, al contrario, loro che non fanno torto
a nessuno, anzi, hanno verso la divinità e verso l’ Impero sentimenti di pietà e di giustizia come
nessun altro, eppure sono vessati e spogliati, mentre solo a causa del nome il volgo li combatte.
Per questo Atenagora ha preso l’ardire di esporre le ragioni dei cristiani e di supplicarli di
provvedere un po’ anche per loro, affinché cessino una volta di venire scannati dai delatori.
Non ritiene, infatti, degno della loro equità che, mentre gli altri accusati di delitti non vengono
puniti se prima non ne sono convinti, contro i cristiani, invece, il nome abbia maggior valore delle
prove in giudizio; ché non ricercano i giudici se l’imputato abbia qualche colpa, ma si scagliano
contro il nome come se si trattasse di un delitto. Ora un nome in sé e per sé non si reputa né cattivo
né buono, ma è ritenuto o cattivo o buono a seconda delle azioni o cattive o buone che gli
sottostanno.
Pertanto anche Atenagora implora lo stesso trattamento che si usa per tutti, e cioè di non odiare e
punire perché son detti cristiani (come può infatti il nome rendere malvagi?) ma di venire giudicati
su ciò per cui si è chiamati in tribunale, e, o di esser mandati assolti, se si purgheranno delle accuse,
o di essere puniti se convinti di colpe, e non per il nome (ché nessun cristiano è malvagio, a meno
che non simuli questa dottrina), ma per il fallo commesso.
A tal punto ritiene necessario pregare i massimi imperatori di voler equamente ascoltare, e di non
lasciarsi fuorviare e prevenire dalla volgare e inconsulta opinione, ma di concedere anche alla
dottrina cristiana quell’amore che hanno per il sapere e per la verità. E così né loro erreranno per
non conoscere, e i cristiani, liberati dalle inconsulte dicerie del volgo, cesseranno di essere
combattuti.
I tre delitti che vanno imputando loro sono: ateismo, cene tiestee e accoppiamenti edipodèi. Ora,
se queste accuse sono vere, si levino a vendetta di questi delitti, e con le mogli e i figli uccideteli
ed estirpateli fin dalle radici, se pur v’è tra gli uomini chi viva alla maniera delle bestie: benché
neppur le bestie assaltino i loro congeneri, e secondo la legge di natura e nel solo tempo della
procreazione e non già sfrenatamente si accoppiano e riconoscono chi fa loro del bene. Se
dunque vi è un uomo ancor più feroce delle belve, a qual pena per siffatti delitti dovrà costui
sottostare, perché si giudichi punito secondo il merito ?
Se, poi, queste sono ciance e accuse infondate, ché per una ragion naturale il vizio si oppone alla
virtù, e per legge divina le cose contrarie si combattono a vicenda, e che i cristiani non commettono
nulla di tutto questo, è dunque loro ufficio inquisire sul modo di vivere, sulle dottrine, sullo zelo e
sull’obbedienza che hanno per l’Impero, e così concedere loro una volta nulla più che ai loro
persecutori, poiché per la verità sono pronti a dare anche la vita .
Si dimostra razionalmente l’unità di Dio. Se vi fossero più dei, dovrebbero o costituire una certa
unità o esistere separatamente: nel primo caso, dovrebbero essere del tutto simili, mentre l’increato
non ha simile, oppure essere parti integranti d’un tutto, e questo sarebbe fatto, corruttibile,
composto, divisibile, mentre Dio é tutto l’opposto. Se poi esistessero separatamente, dato che il
creatore del mondo sta intorno al mondo, intorno al mondo o nel mondo essi non avrebbero più
posto; se poi stessero fuori di questo mondo, sarebbero circoscritti e la loro provvidenza non si
estenderebbe ai cristiani.
Quali sono, dunque, i precetti in cui i cristiani sono allevati? Amano i loro nemici, benedicono
quelli che li maledicono, pregano per chi li perseguita, affinché siano figli del Padre che é nei cieli,
il quale fa sorgere il suo sole su cattivi e su buoni, e piove su giusti e su ingiusti.
L'ENIGMA SVELATO DELLA LINGUA ETRUSCA
L'interpretazione delle iscrizioni e dei testi superstiti avanza lentamente ma sicuramente grazie agli
studi sempre più approfonditi, a metodi più raffinati di analisi e di confronto, all'intensificarsi del
ritrovamento di documenti epigrafici.Su questa strada maestra la lingua etrusca comprende
documenti epigrafici venuti alla luce (tra i quali l'importante Tavola di Cortona) e nuovi e
rilevantissimi progressi nella comprensione degli aspetti lessicali e grammaticali della lingua
stessa, così da evitare che gli esiti della ricerca rimangano confinati in un ambito strettamente
specialistico.Si è voluto, in sostanza, far parlare" direttamente gli Etruschi "come se da un lontano
passato gli stessi si rivolgessero a chi legge svelando curiosi ed interessanti particolari della loro
vita quotidiana sacra e profana, pubblica o privata".
Spesso considerato un enigma irrisolto, quello della civiltà e della lingua etrusca, è in realtà un
universo affascinante svelato a poco a poco grazie ai progressi della ricerca. Alle tante
leggende fiorite sull'argomento vanno ora sostituendosi le interpretazioni delle testimonianze
dirette, cioè i documenti linguistici superstiti, iscrizioni di natura pubblica e privata. I suoni e
le parole degli antichi riti sacri, le epigrafi dedicatorie dei principi d'Etruria, gli epitaffi
elaborati da nobili e gli scarni titoli funerari delle classi più umili, le attestazioni di atti
giuridici e le tetre maledizioni scagliate contro nemici e avversari riemergono in un
appassionante itinerario che attraversa il cuore della civiltà etrusca: religione, famiglia, diritto,
commercio, Stato, organizzazione sociale. Ho così ritenuto utile presentare la nuova e
importante "tavola di Cortona".
La lingua etrusca
La lingua etrusca è da sempre sinonimo di mistero.
In realtà la ricerca scientifica da tempo è riuscita a svelare i molti segreti di questa lingua antica
di cui restano, a parte brevi iscrizioni di carattere per lo più funerario, ben poche testimonianze
di rilievo. Presumibilmente durante la colonizzazione romana dell'Etruria vennero cancellate o
disperse tutte le tracce di altre, diverse e preziose fonti scritte, che avrebbero ampliato il solo
patrimonio epigrafico a noi pervenuto.
Tuttavia esercita un certo fascino, anche in casi letterari recenti, l'idea che iI popolo dei Rasna
avesse di per sè una concezione esoterica e del tutto originale della parola scritta.
L'etrusco è una lingua costruita in un alfabeto di origine greca e affine all'alfabeto latino. Le
incognite che ancora oggi la lingua etrusca presenta sono da attribuire alla sua estraneità
rispetto ai gruppi linguistici noti.
A detta degli antichi, tra cui lo storico Dionigi di Alicarnasso, la lingua parlata dagli Etruschi
era diversa da tutte le lingue conosciute.
Dopo la conquista romana, essa fu a poco a poco sostituita dal latino, fino ad uscire
completamente dall'uso.
La Tavola di Cortona(Tabula Cortonensis)
La Tavola di Cortona, una lamina in bronzo con iscrizioni etrusche spezzata in otto parti (una
mancante) e delle dimensioni di un foglio di carta da lettere, è il terzo testo etrusco per lunghezza
dopo la Mummia di Zagabria e la Tegola di Capua. La natura del suo recente ritrovamento (1992)
non permette purtroppo di risalire al luogo di origine del reperto. La storia è cominciata con una
telefonata giunta alla locale soprintendenza il 12 ottobre 1992, da parte di un carpentiere calabrese
che annunciava di aver trovato questo oggetto a metà settembre nello scarico di un cantiere in
località Piagge di Camucia, in provincia di Arezzo. L'uomo avrebbe spiegato di averlo tenuto
con sè qualche giorno, pensando fosse il pezzo di un cancello, e di averlo poi consegnato
ai carabinieri, in un sacchetto, assieme ad altri piccoli reperti, alla presenza di un funzionario della
soprintendenza. Per questo fu accusato di furto ai danni dello Stato ma il processo si è concluso due
anni dopo con una assoluzione. Pare che la scoperta sia stata tenuta segreta.
La Tavola è incisa su entrambi i lati con iscrizioni etrusche di elegante fattura realizzate con
l’incisione a freddo o con la tecnica della cera perduta.
Nelle complessive 40 righe e 206 parole viene probabilmente descritta una transazione di vendita di
terreni risalente al III – II secolo a.C. o, come ritiene Massimo Pittau, un atto di arbitrato su una
eredità contestata. L'ipotesi al momento più fondata è che la "Tavola di Cortona" racconti di una
transazione tra la famiglia Cusu, di cui farebbe parte il personaggio Petru Scevas, da una parte, e un
gruppo di quindici persone, dall'altra. È stata decodificata anche una serie di numeri: il 10 (sar), il 4
(sa) e 2 (zal), che potrebbero indicare quantità di cose o estensioni di terreno. È possibile, secondo
Agostiniani, che si tratti dell'atto di vendita di un terreno da parte dei latifondisti Petru Scevas e
Cusu a piccoli proprietari compratori. Sulla "Tavola di Cortona" compaiono tre elenchi di nomi: il
primo rappresenta i venditori, il secondo i compratori e il terzo i garanti della regolarità del
contratto. I garanti del contratto erano il magistrato supremo e i figli e i nipoti delle due parti.
Ciò significa che, nel diritto orale etrusco, chi garantiva la regolarità del contratto e i
pagamenti non lo faceva solo per sé, ma anche per i suoi discendenti. Insomma, in caso di
disgrazia o di insolvenza, il figlio o il nipote doveva garantire l'esecuzione del contratto.
All’epoca gli atti venivano evidentemente trascritti su materiale pregiato e conservati negli
archivi dei notai. Che la Tavola provenisse dallo schedario di un notaio è praticamente certo,
lo testimonia il manubrio che la sormonta e soprattutto la capocchia con cui termina il
manubrio. Questa capocchia ci dice che essa serviva per estrarre con la mano la Tavola di
bronzo da una serie di altre tavole simili, inserita in qualche cassetta assieme con altre,
componenti un autentico "schedario", quello di un "archivio notarile".
Lato A Lato B
TRADUZIONE di Massimo Pittau 1. Questo (è) di Petrone Scevas l'olivicultore: il vignale
2. e la casa valutati talenti dieci; ed eredità della famiglia
3. Cusonia, quella discendente da Laris, (è) (la tenuta de) il Lago (valutata) talenti
4. sei e dieci decadi. Vicino a questo stesso Lago anche quattro iugeri e mezzo nella
5. misura etrusca (sono) per lui, eredità di Petrone, e conguaglio da versare
6. entro il mese due talenti consistenti in cibo e denaro. \\
7. Di questo valore (è) esattamente l'eredità della famiglia Cusonia
8. e quella di Petrone Scevas. \\ (Sono stati) periti Lart Petronio,
9. Arunte Pinio, Lart Uipio Lusco, Laris Salinio
10. di Uetinia, Lart *Uelario di Lart, Lart *Uelario
11. di Aulo, Uel Pomponio Proco, Aulo Celatio di
12. Settimina, Arruntino Felsinio di Ueltinia, Uel Loesio
13. Lusco, Uel Usulenio di *Nufrio, Larone *Slanzone, Lartino
14. *Lartillio, Uel Auio, Arunte Petrone Rufo. \\ Di accettazione
15. sono stati Vulca Cusone di Laris e i figli, Laris
16. Cusone, quelli discendenti da Laris, e Larino figlio di Laris, Petrone
17. Scevas, *Arruntilia moglie di Petrone;
18. (essi) hanno firmato questo scritto del presente rogito. Esso
19. nella dimora della famiglia Cusonia è stato steso da questo
20. notaio e secondo legge nella (sua) dimora depositato. Tullia Telutia progenitrice così
21. nel rogito in due copie ha lasciato alla famiglia Cusonia,
22. quella discendente da Laris, e a Petrone Scevas secondo il diritto di eredità Tarcontiano. \\
23. Queste cose osserva(no) e controlla(no) Lart *Cucrinio di Lausio
24. Pretore della Federazione Etrusca, Laris Celatio Lausio
25. e il figlio, Arunte Luscenio di Arunte e il figlio Lartino,
26. Lart Terminio di Salinia, [Larth Celatio
27. di A]ponia e i figli Vulca (.........................) [e i nipo]ti
28. Vulca Cusone quello discendente da Aulo (...................)
29. e di Aninia, Laris Fulonio (............................) e i figli,
30. Lart Peticio di Usulenia (.........................), [la famiglia
31. Cu]crinia di Tecusenia, Uel (......................................)
32. e Laris Cusone di Usulenia (.......................................)
33. Questo (è) di Petrone Scevas l'olivicultore: il vignale
34. e la casa valutati talenti dieci; ed eredità della famiglia
35. Cusonia, quella discendente da Laris, (è) (la tenuta de) il Lago (valutata) talenti
36. sei e dieci decadi. Vicino a questo stesso Lago anche quattro iugeri e mezzo nella
37. misura etrusca (sono) per lui, eredità di Petrone, e conguaglio da versare
38. entro il mese due talenti consistenti in cibo e denaro. \\
39. Di questo valore (è) esattamente l'eredità della famiglia Cusonia
40. e quella di Petrone Scevas. \\ (Sono stati) periti Lart Petronio,
41. Arunte Pinio, Lart Uipio Lusco, Laris Salinio
42. di Uetinia, Lart *Uelario di Lart, Lart *Uelario
43. di Aulo, Uel Pomponio Proco, Aulo Celatio di
44. Settimina, Arruntino Felsinio di Ueltinia, Uel Loesio
45. Lusco, Uel Usulenio di *Nufrio, Larone *Slanzone, Lartino
46. *Lartillio, Uel Auio, Arunte Petrone Rufo. \\ Di accettazione
47. sono stati Vulca Cusone di Laris e i figli, Laris
48. Cusone, quelli discendenti da Laris, e Larino figlio di Laris, Petrone
49. Scevas, *Arruntilia moglie di Petrone;
50. (essi) hanno firmato questo scritto del presente rogito. Esso
51. nella dimora della famiglia Cusonia è stato steso da questo
52. notaio e secondo legge nella (sua) dimora depositato. Tullia Telutia progenitrice così
53. nel rogito in due copie ha lasciato alla famiglia Cusonia,
54. quella discendente da Laris, e a Petrone Scevas secondo il diritto di eredità Tarcontiano. \\
55. Queste cose osserva(no) e controlla(no) Lart *Cucrinio di Lausio
56. Pretore della Federazione Etrusca, Laris Celatio Lausio
57. e il figlio, Arunte Luscenio di Arunte e il figlio Lartino,
58. Lart Terminio di Salinia, [Larth Celatio
59. di A]ponia e i figli Vulca (.........................) [e i nipo]ti
60. Vulca Cusone quello discendente da Aulo (...................)
61. e di Aninia, Laris Fulonio (............................) e i figli,
62. Lart Peticio di Usulenia (.........................), [la famiglia
63. Cu]crinia di Tecusenia, Uel (......................................)
64. e Laris Cusone di Usulenia (.......................................
ANTICHE LINGUE EUROPEE: L’UMBRO NELLE TAVOLE
IGUVINE I caratteri “misteriosi” in cui sono scritte le prime quattro Tavole, sono i caratteri dell’alfabeto
umbro-etrusco. Poiché la maggior parte delle parole presenti nelle Tavole in caratteri umbro-etruschi
ricorre poi anche in caratteri latini, fin dal Rinascimento gli eruditi cominciarono ad attribuire ai segni
dell’alfabeto umbro-etrusco il valore fonetico appropriato. In quel sistema grafico la mancanza di
segni per G, D e O costringe ad annotare con K, T e U anche i suoni per i quali non è disponibile un
segno più appropriato; di conseguenza solo i parlanti, leggendo, ad esempio, teitu, erano in grado di
pronunciare la lettera iniziale come una D o come una T.
Il confronto tra i termini presenti sia nella trascrizione in caratteri umbro-etruschi che in quella in
caratteri latini può essere in certi casi di grande aiuto per sciogliere dubbi relativi a termini poco
chiari. Il caso dell’aggettivo krapuve, ad esempio, è molto interessante; questo epiteto divino, che in
caratteri latini assume la forma grabouie, è riferito a iuve, marte e vufiune (Giove, Marte e Libero),
ed è quindi di particolare importanza per una corretta comprensione dei riti descritti nelle Tavole
Iguvine.
Il confronto tra parole rese sia nella forma grafica dell’alfabeto umbro-etrusco che nella grafia latina
permette di effettuare anche altre considerazioni. Un teonimo che in alfabeto umbro-etrusco viene
reso con la forma hule e che in caratteri latini assume la forma hoie doveva probabilmente essere
pronunciato con una L palatale, come nell’italiano foglia. Il confronto tra le due forme autorizza
infatti l’ipotesi che L nel primo caso e I nel secondo siano grafemi che tentano di rendere il suono di
L palatale.
Indipendentemente dal sistema grafico utilizzato, il genitivo singolare, il nominativo, il dativo,
l’ablativo e il locativo plurali non hanno più la desinenza in -s, ma terminano regolarmente in -r.
Ciò significa che è avvenuta una reale evoluzione della lingua parlata che i testi delle ultime Tavole
riflettono fedelmente. La suddivisione delle Tavole in questi due sottoinsiemi è confermata e
avvalorata dalla presenza, di fori in alto effettuati prima della loro incisione, per predisporre i
documenti ad una esibizione pubblica, fatto singolare per prescrizioni rituali, e interpretabile,
secondo Prosdocimi, come il frutto di una operazione politico-propagandistica da inserire nella
cultura del periodo augusteo.
Tra i termini presenti soltanto nelle ultime tre Tavole ricordiamo a titolo di esempio, in alfabeto
umbro-etrusco, ařputratu (giudizio), çersnatur furent (avranno banchettato), ehvelklu (richiesta
di parere), eikvasi (santuario), eitipes (decretarono), emantu (siano acquisiti), felsva (verdure),
kuraia (provveda), kvestur (questore), muneklu (ricompensa), nuřpenu (tributo per il santuario),
plenasia (assemblea plenaria), prehabia (procuri in anticipo), prusikurent (avranno giurato),
pumpa (processione solenne), revestu (ispezioni nuovamente), vepuru (senza fuoco).
Nel loro insieme, i termini presenti nelle ultime tre Tavole sono particolarmente significativi perché
esprimono concetti di ordine giuridico-sacrale di fondamentale importanza (il giudizio, effettuare il
rito, la ricompensa per l’officiante, il questore, il tributo, la processione solenne, il sacrificio senza
fuoco, il santuario…); perché alludono a pratiche e a divinità assenti nelle prime Tavole (il
banchetto rituale, il sacrificio con verdure, il sacrificio espiatorio); perché nominano soggetti e cose
socialmente e ideologicamente rilevanti (la campagna, i soldati con lancia e senza, i soldati cinti e
non cinti, i nobili, i bipedi e i quadrupedi, il clero, i poderi); perché elencano tutta una serie di lavori
pubblici, introducono preghiere e recitano formule nuove.
La lingua gallureseIl gallurese (nome nativo gadduresu /gaɖːu'rezu/) è un idioma essenzialmente còrso, parlato in Gallura
(Gaddura), nella parte nord-orientale della Sardegna e si avvicina più particolarmente al dialetto
oltramontano parlato nella parte meridionale della Corsica, in particolare nei distretti di Sartene e dell'
Alta Rocca. La sua più antica documentazione letteraria risale ai primi decenni del Settecento ed è
costituita da componimenti poetici ma vari documenti bassomedievali inducono a datarne la
formazione - almeno nei suoi tratti fondamentali - ai primi decenni del Quattrocento. Già in periodo
romano la Gallura risulta abitata da popolazioni chiamate corse, che alcuni identificano con gli
abitanti della Corsica, ma questa attribuzione non è storicamente provata. In periodo medioevale nel
Giudicato di Gallura l'elemento linguistico dominante era il sardo-logudorese, nella cui lingua
"nazionale" venivano redatti gli antichi atti ufficiali del Giudicato. Dal 1100 si aggiungono influssi
pisani (sia in Gallura che nel Sassarese) e genovesi (soprattutto a Sassari) che si affiancano
nell'amministrazione dei governi giudicali fino al 1300, anno in cui la regione viene conquistata dai
catalano-aragonesi e viene registrata una consistente presenza di immigrati corsi in tutta la Sardegna,
in particolare in Gallura, a Castelgenovese ed a Sassari.
Nel periodo compreso tra il 1347-48 e il 1400 la Gallura si spopola a seguito di un'epidemia e
di incursioni piratesche e ha inizio l'insediamento di massa di numerose famiglie provenienti
dal sud della Corsica (allora dominio genovese) che importano nella Gallura interna i propri
dialetti orali (già in Corsica fortemente influenzati dal pisano e dal genovese) assimilando
contestualmente diversi vocaboli e toponimi dalle parlate logudoresi, (circa il 18-20% del
lessico odierno ma con percentuali maggiori riguardo al lessico tradizionale), nonché alcuni
termini catalani. Questa immigrazione è stata, tra l'altro, sostenuta dal governo aragonese al
fine di ripopolare le deserte terre galluresi. Al periodo tra 1445 e 1470 risale l'epigrafe della
chiesa di Santa Vittoria del Sassu, nelle campagne tra Erula e Perfugas (area ai margini della
Gallura e ai confini con l'area di diffusione del logudorese), primo testo scritto ascrivibile al
corso-gallurese ("OPerAIU | MALU E FO | rA / LErIMITA"). A metà del XVI secolo la
Gallura viene documentata come ormai chiaramente abitata da corsi insediati per cellule
isolate nelle aree marginali delle campagne in quella tipologia ancora oggi caratteristica della
Gallura e della Corsica ("stazzi").
Dalle aree marginali, durante il '600 le popolazioni corsofone si spostarono gradatamente
verso i centri abitati della Gallura (con l'esclusione di Luras e Terranova) originariamente di
lingua sarda.
Al 1683 risalgono le prime attestazioni letterarie ascrivibile all'area gallurese-sassarese,
trascritte in un canzoniere ispano-sardo durante i festeggiamenti della Vergine di Luogosanto e
conservate nel canzoniere Ispano-Sardo della Biblioteca di Brera a Milano, che, sia pure
nell'incertezza della trascrizione ortografica, presenta caratteristiche intermedie tra le due
varietà, attestandone la comune origine nonché lo stretto legame con la poesia còrsa dell'Alto
Taravo e dell'Alta Rocca (Suta un arboru fioriddu/ si dormia la donna mia/ et tant'era
addormentada/ que isvillar no si podia/ et yo li tocay lu pedi/ et issa mi disse a'a'/ et amuri si
mi uoy bene/ un altru pocu piu en goba tua). Nel 1700, sappiamo, grazie agli studi del
geografo francese Maurice Le Lannou che la Gallura fu ripopolata per tre quarti da Corsi e
l'immigrazione corsa alimenta gli scambi ed il contrabbando con la vicina isola portando così
al popolamento dell'Alta Gallura e dei suoi centri in stazzi, talvolta raggruppati in piccoli
agglomerati.
L'area di diffusione del gallurese si presenta da allora in fase di continua espansione. Anche le norme
di scrittura differiscono da quelle della lingua sarda e ricalcano grosso modo quelle in uso nella
lingua corsa con alcune differenze legate a una maggiore influenza dell'ortografia italiana. Il plurale
dei nomi finisce per vocale e si forma aggiungendo la -i ("ghjanni" o "polti" [porte]) come in corso ed
in italiano, e non la -s come in sardo ("jannas"), latino, spagnolo, catalano, etc; Il plurale non varia
nel genere maschile e femminile ("la tarra/li tarri", "la donna/li donni", "lu campu/li campi"), come
nel corso meridionale ("a tarra/i tarri", "a donna/i donni", "u campu/i campi") e a differenza dal sardo
("sa terra/sas terras", "sa femina/sas feminas", "su campu/sos campos") e del corso settentrionale ("a
terra/e terre", "a donna/e donne", "u campu/i campi");
Assenza totale di consonanti finali, presenti invece in sardo nei plurali e in alcune forme verbali. La
conservazione del finale in -u atona, caratteristica comune al còrso e al sardo. Gli articoli
determinativi in lu, la, li, li esattamente come in corso antico, nell'odierno capocorsino e nella parlata
di Porto Vecchio (nella restante Corsica oggi sono "u", "a", "i", "i") originati dal latino ille, mentre in
Sardo sono "su", "sa", "sos", "sas" (dal latino ipse).
La presenza dei suoni occlusivo-palatali ("intricciati") -chj- /c/ e -ghj- /ɟ/ ("ghjesgia" [chiesa],
"occhji" [occhi], "aricchji" [orecchie in Italiano pl. irr.], "ghjnocchji" [ginocchia in Italiano pl.
irr.]), "ghjattu" [gatto], "figghjulà" [guardare], "chjamà" [chiamare], "chjodu" [chiodo] come
in corso, a differenza dal sardo in cui non sono presenti ("cresia", "ogros", "oricras", "gattu",
"bidere", "abbochinare", "tzou") come pure nei dialetti sassaresi e di transizione.
Il gruppo ghj- in posizione iniziale viene talvolta eliso e pronunciato come "i" ; Il passaggio a
-rr- del gruppo -rn- ("turrà" [tornare], "carri" [carne]) come nel corso meridionale e nel sardo
("torrare", "carre" (carne umana)); Il gallurese si caratterizza per la presenza di elementi còrsi,
sardi e di origine iberica. I verbi hanno tre coniugazioni (-à, -é, -ì). La struttura dei verbi
ricalca quella corsa, con qualche differenza minore su parte della terza coniugazione.
Similmente al còrso e a differenza del sardo il gallurese conserva l'uso parlato del passato
remoto anche se ne modifica la struttura avvicinandola a quella dell'antico tempo sardo
logudorese oggi in disuso.
Numeri: unu, dui, tre, cattru, cincu, sei, setti, ottu, noi, deci, undici, dodici, tredici, cattoldici,
chindici, sedici, dicessetti, diciottu, dicennoi, vinti, ..., trinta, caranta, cincanta, ..., centu,
duicentu, ..., middi, duimilia, ...; Giorni: luni, malti, màlcuri, ghjoi, vènnari, sabbatu,
duminica;
Mesi: ghjinnagghju, friagghju, malzu, abrili, magghju, lampata, agliola, aùstu, capidannu,
Santigaini, Sant'Andria, Natali. (queste ultime forme tradizionali, sostanzialmente legate alla
cultura agricola, spesso nel linguaggio comune tendono ad essere sostituite rispettivamente da
ghjugnu, luddu, sittembri, uttobri, nuembri, dicembri);
Stagioni: branu/primmaèra, statiali/istati, vagghjimu/ottùgnu, invarru/varru;
Colori: biancu/canu/ant.albu [bianco], nieddu [nero], ruiu/ant.russu [rosso], giallu/grogu
[giallo], biaittu/blu [blu], tulchinu [celeste], veldi [verde], grisgiu/canu/murru [grigio],
biaittògnu/purpurinu [viola], aranciu/aranciò [arancione], marrò/castagnu [marrone].
Esempio di testo in Gallurese
La più bedda di Gaddura (Nostra Signora di Locusantu, Regina di Gaddura) di Ciccheddu Mannoni:
Gallurese Corso Italiano
Tu se’ nata par incantudiliziosa elmosùrala meddu di Locusantula più bedda di Gaddura.Se’ bedda chi dugna coris’innammurigghja di tepa l’occhj mei un fioried è la meddu chi c’è.E socu vecchju canutue socu a tempu passendiparò sempri burrulendicomu m’eti cunnisciutuCantu campu decu fàsempri onori a Locusantuch’è la tarra di l’incantudi ca' veni a istragnà.La Patrona di Gaddural’emu noi in Locusantuincurunata da lu cantucussì bedda criatura.
Tu sè nata par incantudiliziosa biddezzaa meddu di Locusantua più bedda di Gaddura.Sè bedda chi ugna coris’innamurighja di tepa' l’occhj mei un fioried è a meddu chi c’è.E socu vecchju canutue socu a tempu passenduparò sempri burlenducomu m’eti cunisciutuQuantu campu devu fàsempri onori a Locusantuch’è a tarra di l’incantudi qua' veni a sughjurnà.A' Patrona di Gaddural’emu noi in Locusantuincurunata da u cantucusì bedda criatura.
Tu sei nata per incantodeliziosa bellezzala migliore di Luogosantola piu bella di Gallura.Sei (tanto) bella che ogni cuores'innamora di te.Per i miei occhi (sei) un fioresei la migliore che c'è.Sono vecchio canutoe il mio tempo sta passandoperò sto sempre scherzandocome (quando) m'avete conosciuto.Per quanto campo devo faresempre onore a Luogosantoperché è la terra dell'incantoper chi la viene a visitare.La Patrona di Gallural'abbiamo noi a Luogosantoincoronata dal cantocosì bella creatura.
ITALIA -LE STIRPI -STORIA DELLE CIVILTA’
Le lingue italiche si distinguono in 2 gruppi:il latino (mezzogiorno della
Toscana) e l’osco (Italia meridionale e Campania); l’umbro (noto dalle tavole iguvine (nord Toscana); falisco (sud
Toscana).
VII sec.a.C la colonizzazione greca si dirige ad occidente e poi la Sicilia appare nei passi dell’Odissea.
Nella Teogonia di Esiodo gli Etruschi e i Latini avrebbero dimorato in un angolo lontano delle sacre isole.
I coloni greci, preceduti dai Fenici(Cartaginesi)si stanziarono nella Sicilia occidentale.
VI sec,a,C. Italia designava la penisola calabrese,la costa ionica del Metaponto e l’odierna Campania merdionale,tra i fiumi Sele e Lao. Il nome Italia viene fatto derivare dal re Italo,evidentemente leggendario.
V sec.a.C. L’Italia abbraccia la Calabria e la Puglia, colonie greche.
III sec.a.C. designò anche la Campania.
45a.C. Si estende verso il nord.
Stirpi indoeuropee di nazionalità illirico-albanese occuparono la penisola balcanica accanto a Greci e Traci; giunsero in Puglia, dove dimoravano i Messapi; le iscrizioni dialettali si spiegano con l’albanese.
400 a.C. I Galli urtarono negli Etruschi e presero Melpo (Mediolanum- Milano) e Felsina, Bononia Bologna.
Gli Etruschi oltrepassarono la Toscana, dove furono circoscritti dagli Umbri, diramandosi sino nel Lazio e in Campania.
Nel mezzogiorno d’Italia erano stanziati gli Elleni (Joni, Dori, Achei), che insegnarono agli Italici la scrittura,pur ammettendo l’origine fenicia: furono i Fenici a riconoscere che la lingua umana è il risultato delle infinite variazioni di poco più che 24 suoni diversi ed a configurare la forma di scrittura, di inaudita semplicità.
L’alfabeto greco occid. si differenzia dall’orient. per il valore di 2 lettere:la x (Gr. or.) rappresenta il suono ch, mentre(Gr.occ. e Italici) rende il suono cs.
Greci e Osci, Latini e Volsci, Umbri, Etruschi, Galli, Veneti e Liguri dimorarono in Italia fino all’unità nazionale.
338 a.C. I Romani assoggettarono Sanniti e Greci, Sabelli, Umbri ed Etruschi.
La lingua latina divenne lingua ufficiale d’Italia ,anche se la lingua letteraria e colta fu la toscana.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Nel 1200 si scriveva ancora in latino, ma assumevano importanza letteraria anche il francese e il
provenzale (lingue d’oil e d’oc). Queste ultime si diffusero l’una con l’epopea, l’altra con la lirica
d’amore. Su imitazione della lirica provenzale sorse, intorno alla corte di Federico II di Svevia, la
scuola poetica siciliana che, pur sentendo l’influsso provenzale, usò il dialetto siciliano. La poesia
siciliana si diffuse in Italia, pur temprata dai caratteri regionali. Gli stilnovisti, in gran parte toscani,
iniziarono a fissare il fiorentino letterario. Importante fu anche la poesia religiosa di San Francesco e
di Jacopone da Todi, scritta in dialetto umbro.
Dante, nel De vulgari eloquentia, ricercò fra i 14 dialetti italiani quello che potesse divenire lingua
nazionale ma, non riuscendo a trovarlo per difficoltà storico-geografiche, attinse alla madrelingua
latina per trarne la sua imponenza formale, nonché la sua regolare struttura e giunse così a vagheggiare
il volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, volgare prodotto dal raffinamento dei dialetti, che
lasciava fuori i dialetti troppo plebei. Dante, attraverso tale lingua, poteva esprimere le più sottili
sfumature dell’animo umano.
Il 1300 fu il secolo delle “tre corone”, Dante, Petrarca e Boccaccio, il periodo importantissimo
nella storia della nostra lingua. Il volgare si faceva sempre più vittorioso sul latino. Numerosi
erano i volgarizzamenti: Boccaccio traduceva la terza e la quarta deca di Tito Livio,
accogliendo l’eleganza formale e allontanandosi dai modi legislativi e sintattici troppo plebei.
Il Petrarca mirava anche all’eleganza raffinata, ma la sua base linguistica era la tradizione
poetica, dai Siciliani agli Stilnovisti.
Il Boccaccio, nel Decamerone, evitò le forme plebee, usando il fiorentino del suo tempo. Nella
I metà del 1400 il volgare ebbe la sua grande crisi. Gli umanisti, ammirando l’antichità
classica, portarono il latino alla sua antica preminenza. Ma, essendoci testi scritti in volgare di
notevole importanza, anche tra gli umanisti divennero frequenti i riconoscimenti della
giovane lingua. L’Alberti bandì il Certame coronario, gara poetica in volgare. Nel II ‘400 il
volgare conobbe una vigorosa fioritura con il Poliziano, il Magnifico, il Pulci, il Boiardo, il
Sannazaro.
L’invenzione della stampa influì sull’unificazione della lingua. Nacquero così le prime
grammatiche, il primo vocabolario italiano-latino di Tronchedino.
Nel 1500 il latino continuava a dominare come lingua dell’alta cultura universitaria,
diplomatica, filosofica, ma il volgare si affermava in campo amministrativo e giudiziario,
artistico e storiografico, nell’oratoria e nella poesia. La parlata dialettale veniva usata nella
commedia per rappresentare realisticamente la rozzezza di alcuni personaggi. Circa la
questione della lingua, si delinearono tre correnti: la prima additava modelli da imitare nei
trecentisti toscani (Bembo); la seconda vedeva nell’uso fiorentino la matrice espressiva
(Machiavelli); la terza si fondava sulla buona letteratura di tutta Italia (Trissino e Castiglione).
Prevalsero le proposizioni bembesche. La fine del secolo fu caratterizzata dagli Accademici
della Crusca.
Nel 1600 il latino predominava nelle Università; erano scritti in latino i trattati di scienze,
filosofia e medicina. Galilei scrisse in latino il Sidereus nuntius. In ogni altro campo trionfava
l’italiano nelle produzioni scritte, mentre i dialetti erano ancora il mezzo abituale di
comunicazione orale. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca sancì la vittoria del
fiorentinismo approssimativamente bembesco.
Oppositori della Crusca furono il Tassoni, il Pallavicino che esaltarono la lingua del 1500 e del
1600, ma a Roma e a Napoli, patria del Marino, si diede vita ad un movimento arcaizzante toscano.
L’influenza spagnola era fortissima anche dal punto di vista linguistico. L’influenza francese,
sostituitasi alla spagnola, fece penetrare francesismi nella nostra lingua, che era considerata distinta
ed elegante. A Vienna si parlava l’italiano perfetto fra i galantuomini; Luigi XIV conosceva bene la
nostra lingua.
Nel 1700 opere scientifiche, giuridiche, erudite erano scritte in latino, ma il dialetto continuava ad
essere usato nei rapporti quotidiani, fra borghesi, popolani ed aristocratici. Nel primo ‘700 l’Arcadia
reagì alle gonfie metafore barocche e si creavano periodi lunghi, complessi ed architettati. L’Alfieri
s’ispirava al Toscano parlato, sentenziando che “tutta la lingua italiana” stava in Dante e Petrarca.
Contro il toscanesimo si battevano gli illuministi milanesi che trovarono nel giornale “Il caffè” la
palestra per esporre le proprie idee in favore di una lingua agile e moderna, aperta ad ogni influenza
rinnovatrice. La lingua francese penetrava massicciamente in Italia. Alcuni scrivevano in francese
alcune opere (Goldoni). Il Devoto parlava nel “nuovo bilinguismo” per la diffusione francese in
Italia, in atto nel Settecento.
Nel 1800 l’Italiano continuava ad essere lingua essenziale scritta, solo nell’Italia centrale era
correttamente parlato. Le spinte all’unità politica riproponevano il problema dell’unità linguistica.
Si diffusero tre tendenze linguistiche: il movimento puristico (Cesari-Puoti) che bandì tutti i
barbarismi propugnando il ritorno al passato; il Monti propugnava l’italiano illustre; il Manzoni
sentì la diversità fra lingua scritta e parlata e additò nel fiorentino delle classi colte il modello a cui
tutti gli Italiani dovevano ispirarsi. Il francese, dopo la Rivoluzione, era addirittura schiacciante.
Dopo l’unità nazionale si diffuse l’italiano in ambienti sempre più vasti. Notevole influsso esercitò
il linguaggio amministrativo e giornalistico. Il Manzoni giganteggiava. Notevole era l’influenza
francese. Negli anni Trenta e Cinquanta del Novecento il romanzo del ricordo e racconto
autobiografico rievoca le vicende dei propri cari e si accompagna alla riproduzione fedele del
linguaggio della vita intima della famiglia. Così la figura del padre è ricordata attraverso le sue urla
e le sue risa, i fratelli attraverso i loro litigi, la sorella attraverso i primi amori.
Il linguaggio, evocativo ed allusivo, diventa lo strumento conoscitivo per ripercorrere
esperienze comuni in una giostra che tiene insieme periodi storici differenti, attraverso un
continuo gioco di richiami; basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e
ripetute infinite volte nell’infanzia.
La parola è ricordo ed è quanto basta per mantenere vivi gli affetti al di là del tempo, del
dolore e della lontananza: questo il messaggio che è molto più di un’autobiografia e diventa
paradigma universale. Sullo sfondo avanza la Storia con l’ascesa di Mussolini, le leggi razziali,
la lotta antifascista: momenti che per la famiglia hanno significato prigionia, confino, morte.
Il dialetto, usato come lingua poetica, si incanala in una struttura ritmica e metrica, diventa
forma espressiva, rientrando, con le stesse possibilità della lingua nazionale, in una letteratura
arbitraria, quella del Novecento, che per esprimere meglio condizioni esistenziali sempre più
complesse, una realtà a più forme e sensi, si avvale di strutture linguistiche eterogenee, ingloba
linguaggi diversi, con lessici fino allora confinati fuori dalle opere letterarie, con intrusioni
anche violente delle lingue straniere, con diversi codici linguistici.
I poeti dialettali si trovano ad operare in questo nuovo, diverso e più esteso, concetto di letteratura,
in un plurilinguismo e mistilinguismo che, abbandonato un canone unitario, rivendica l'uso dei
linguaggi aperti, una struttura indeterminata in cui ogni sperimentazione è consentita.
Quando il poeta compone in dialetto sa di avere a disposizione un elemento linguistico che, assunto
come forma letteraria, è sottoposto ad una serie di mutazioni che continuano a renderlo diverso da
quello che era ed è nel parlato. Nascono così linguaggi personalizzati che non hanno riscontro con i
dialetti degli abitanti del luogo.
Usare il dialetto come lingua di scrittura viene quindi ad essere una scelta di cultura e di stile,
un'operazione che riguarda soltanto il letterato colto e di casa nell'area del dialetto assunto.
Certe forme linguistiche sono state create dalla cultura dotta e poi si sono svilite nel cadere in un
contesto più basso, popolare, in una tessitura dove si sono conservate creando una memoria
genetica.
Il dialetto si fa dunque lingua inventata, parte di quell'organismo dinamico a infinite dimensioni, che è
il concetto linguistico del Novecento, il dialetto, e conservandone una maggiore purezza.
Va in questa direzione il vorticoso pluri- o super-linguismo, un linguaggio personale che segue il lusso
della coscienza e della memoria, dei ricordi come sono rivissuti dalla coscienza e schermati dalla
letteratura. Così non soltanto le possibilità espressive ma anche quelle contenutistiche sono inaspettate
e infinite, con allitterazioni e neologismi, con assonanze e dissonanze, , con metafore, corrispondenti
al disagio e alla difficoltà di riflettere sui temi etico-sociali e mitici, di decifrare i sensi nascosti ed
enigmatici dell'esistenza.
“Scusa, ce l’hai un centino per il lattino del mio vespino?” Chi leggerà questa frase non potrà
probabilmente capire nulla del suo significato, a meno che non abbia frequentato quei giovani
palermitani che, a metà degli anni ’70 solevano riunirsi davanti a un noto cinema della città. Parlavano
tutti più o meno così, anche per chiedere dei soldi in prestito per la benzina del motorino!
Se poi una ragazza chiedeva “mi illumini?” non si riferiva certamente allo sguardo, ma voleva
semplicemente accendere la sigaretta!
A più di trenta anni di distanza, i giovani continuano a parlare con un linguaggio criptato, quasi
segreto, come se lo volessero appositamente custodire dal lontano mondo degli adulti.
Altrimenti che senso avrebbe? Anche per questo motivo, lo studio sul linguaggio giovanile è
estremamente complesso, perché in continuo divenire, mutevole sia dal punto di vista geografico che
cronologico.
Se dalla fine degli anni sessanta sino agli anni settanta, i giovani usavano un linguaggio “politico” e di
contestazione per i tempi nei quali vivevano, utilizzando ad esempio, espressioni quali “ nella misura in
cui….” “cioè….” “ prendere coscienza….” negli anni ottanta, il rifiuto per ogni forma d’ impegno
socio-politico, fece emergere il famoso fenomeno dei “paninari” nato a Milano e giunto fino in Sicilia.
Gli esperti dicono che le parole dei giovani sono meteore velocissime che durano al massimo dieci anni
e poi scompaiono. Oggi, i ragazzi sono sicuramente molto veloci nel comunicare, aiutati anche dai
mezzi informatici che, magistralmente, governano. Il linguaggio degli sms (acronimo dell’inglese short
message service) ne costituisce un esempio: “3mendo”, “novelordin” (non vedo l’ora di vederti), cpt
(capito), cmq (comunque), “xkè” (perché), t.v.t.b.(ti voglio tanto bene) “xxx”(baci).
Utilizzano abbreviazioni e troncamenti, come: mega (grande), prof (professore), raga (ragazzi);
forestierismi: gym (ginnastica, palestra) cucador (uno che ha successo con le ragazze), o parole prese a
prestito dal gergo dei tossicodipendenti: cannarsi, sballo, calarsi…. Insomma: colloquiale, sboccato,
gergale, il linguaggio giovanile è fatto di parole poco note o addirittura sconosciute agli adulti. Parole
che cambiano in fretta, ma che lasciano il segno e che caratterizzano intere generazioni.
Il linguaggio informatico è forse la vera novità del nostro secolo, i nostri giovani sono sedotti
dalla forma rapida e incisiva delle parole.
Comunque parlino i giovani, essenziale per la loro crescita è l’idea di gruppo.
L’amicizia, infatti, è uno dei sentimenti più forti, coinvolgenti, nell’ambito della vita
quotidiana e come affermò K. Manneheim in “Sociologia della conoscenza”:entrar a far parte
di un gruppo comporta qualcosa di più della mera accettazione dei valori che lo caratterizzano;
significa cogliere le cose in quell’”aspetto”, i concetti in quella sfumatura di significato, i
contenuti psico- intellettuali in cui sono presenti per il gruppo. Gli atteggiamenti scherzosi ed
esuberanti, il linguaggio talvolta scurrile , i comportamenti bizzarri e le acconciature
volutamente “scombinate”, sono solo forse i modi più naturali per vivere la loro amicizia, per
sentirsi parte integrante del gruppo e per dirla con Rousseau, essere “animali sociali”.E allora,
dato che ai ragazzi piace questo modo di vivere e di comunicare, forse gli adulti dovrebbero
evitare di scimmiottare il loro linguaggio, e di lasciarsi semplicemente coinvolgere!
Dante e la cultura europea Chi voglia considerare la posizione di Dante nella cultura europea dovrà necessariamente
riflettere su due aspetti, diversi ma complementari, della questione: il rapporto del poeta
fiorentino con la cultura del proprio tempo e del passato da una parte, la sua influenza sulla
letteratura successiva e le relazioni della cultura moderna con la sua personalità e la sua opera
dall'altra. Dante Alighieri ha avuto il singolare destino di vivere (1265-1321) quasi al termine di
quella lunga fase della cultura occidentale che un'epoca posteriore chiamò "di mezzo". Formatosi
nel Duecento e imbevuto dei modelli culturali ed ideologici prevalenti nella seconda metà di quel
secolo, egli continua ad operare nelle prime due decadi del Trecento, quando quei modelli
cominciano ad incrinarsi nella generazione successiva che porterà poi all'Umanesimo e al
Rinascimento. Tuttavia, la "medievalità" di Dante possiede una qualità speciale e unica per
intensità: quella di vedere il presente legato al passato, di cogliere con intensa passione non solo
e non tanto le differenze, quanto le continuità tra il mondo antico e quello contemporaneo; mette
insomma in scena la cultura occidentale: mito, storia, filosofia, scienza, poesia; greci, latini,
arabi.
L'erede di questa cultura è Dante Alighieri, non per nulla unico moderno fra i poeti antichi.
Di simili "liste" è piena la Commedia, a testimonianza di un'autocoscienza culturale
straordinaria, che si esercita sulle scuole poetiche moderne (come, più "scientificamente", in
quella prima storia letteraria delle lingue romanze che è il De Vulgari Eloquentia) e sulle
tradizioni filosofico-teologiche dell'intero Medioevo. Esse sono esperienze vive, pulsanti,
personali. Dante dunque dà forma ad una straordinaria capacità di sintesi che, con la sua
prepotente inclinazione, risale ai princìpi e stabilisce con essi un rapporto diretto,
portandoli sino alla fine senza mai abbandonarli.
Il Convivio inizia con la memorabile proclamazione, ripresa dalla Metafisica di Aristotele: "sì
come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere".
Dante non è mai venuto meno a questo "principio" dell'amore di
conoscenza, a queste radici aristoteliche del pensiero.
Lo testimonia l'aderenza dantesca al principio, evidente nell’ atmosfera della Commedia. E'
bensí vero che nel canto III del Purgatorio Virgilio dichiara essere matto chi spera che la nostra
ragione possa "trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone" e che Aristotele,
Platone e molti altri hanno "desiderato" "sanza frutto".
Ma proprio questo "disio" è, nel canto IV del Paradiso, al centro di una vibrante affermazione di
Dante secondo la quale l'intelletto umano può ben giungere alla verità:
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l'ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch'al sommo pinge noi di collo in collo.
La passione per i princípi e la cultura filosofica divengono così poesia.
Allo stesso modo Dante trasforma in canto la propria relazione con la tradizione letteraria classica. A
nessuno prima di lui è mai venuto in mente di farsi guidare attraverso il mondo dell'aldilà da un poeta
antico e di mettere in scena Virgilio come personaggio: ombra, sì, ma trattata -- come a lui dice Stazio
nel canto XXI del Purgatorio -- in guisa di "cosa salda". Il momento in cui, all'inizio della Commedia, il
pellegrino incontra "chi per lungo silenzio parea fioco" e riconosce in lui il maggiore scrittore latino è
unico in tutta la letteratura europea. Esso rappresenta infatti l'istante in cui la cultura di un'epoca distante
milleduecento anni dall'età augustea si coagula nel "lungo studio" e nel "grande amore". Nella scena
culminante del poema, quella della riunione con Beatrice, il pellegrino piange lagrime amare per la
scomparsa del "dolcissimo patre"; e a lui, credendolo ancora presente, si volge per proclamare il proprio
riconoscimento del suo amore per la donna ritrovata citandogli uno dei versi più celebri dell'Eneide:
"Adgnosco veteris vestigia flammae" -- "conosco i segni de la fiamma antica". Infine, l'amato volume
riecheggia nella memoria sino al punto in cui essa si perde, dissigillandosi come neve al sole,
all'inseguimento della visione divina: ché proprio "così", nel modo suggerito dal VI dell'Eneide, "al
vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla".
Similmente ricettiva e creativa è la sensibilità dantesca nei confronti dei due rami principali
dell'immaginario occidentale, quello biblico e quello del mito classico. All' "allegoria dei
poeti" e a quella dei "teologi" corrisponde una costruzione profondamente biblica del poema,
che non per nulla si apre con "nel mezzo del cammin di nostra vita" e si struttura poi lungo un
itinerario di conversione modellato sull'Esodo ("In exitu Israel de Aegypto") e sulla visione
paolina del raptus al cielo.
La scenografia stessa dell'Antico e del Nuovo Testamento informa poi la poesia dantesca,
sicché, per esempio, le fiamme dei fraudolenti nel canto XXVI dell'Inferno ricordano
l'episodio di Eliseo che assiste all'ascesa del carro di Elia.
Man mano poi che si procede verso il Paradiso e attraverso il paradiso Dante pretende per sé
l'autorità dello scrittore direttamente ispirato dall'Autore supremo. E come in vetro, in ambra o
in cristallo raggio resplende sí, che dal venire a l'esser tutto non è intervallo...
Altrettanto profondo il rapporto che lega Dante al mito pagano, che egli sa rivivere con
un'intensità e un'originalità mai sperimentate prima.
Valgano, per tutti, tre momenti cruciali della Commedia. Nel canto I del Paradiso il poeta deve
raccontare come, guardando gli occhi di Beatrice fissi "ne l'etterne rote", egli abbia subito una
trasformazione radicale, andando oltre la natura umana per poter ascendere, con l'aiuto della
grazia divina, attraverso le sfere celesti. Ebbene, questo "trasumanar" che, ammette lo scrittore,
"significar per verba non si poria", viene descritto per mezzo di un "essemplo" tratto dalle
Metamorfosi ovidiane -- l'episodio in cui il pescatore Glauco, gustando l'erba miracolosa, sente
improvviso il desiderio di tuffarsi in mare, dove le divinità lo purificano della sua natura umana
e lo trasformano in loro simile.
Allo stesso modo, quando al culmine della descrizione della visione beatifica Dante vuole
indicare che un punto di quella visione è ora, mentre egli scrive, caduto in un oblio
profondissimo, il paragone che gli occorre misura la distanza abissale (nel tempo e nello spazio)
che separa il presente dal passato mitico e la superficie dalla profondità.
Posizione cruciale occupa poi nel poema dantesco -- e nella cultura europea -- il celebre
episodio di Ulisse.
Ulisse è il personaggio mitico cui Dante dedica più spazio nella Commedia: egli occupa buona
parte del canto XXVI dell'Inferno, compare ancora nel XIX del Purgatorio, e viene infine ricordato
nel XXVII del Paradiso. A lui Dante ha riservato, sconvolgendo la storia tradizionale, un destino tre
volte amaro: la dannazione eterna a causa dei suoi consigli fraudolenti, il naufragio in vita per
mano del Dio cristiano, il cedimento alle lusinghe della Sirena.
Se Ulisse incarna infatti il forte "ardor" "a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del
valore", il desiderio di virtù e conoscenza, egli rappresenta la controfigura di Dante stesso, di colui
che ama la sapienza.
D'altro canto la conoscenza di Dante, che in Italia non viene mai meno ed è anzi approfondita per
mezzo di innumerevoli commenti dal Trecento al Cinquecento, non penetra mai a fondo nella stessa
poesia italiana e rimane ai margini della coscienza poetica negli altri paesi fino alla riscoperta del
Romanticismo.
Sono due i fattori più importanti che producono questo stato di cose: l'inimitabilità e l'alterità
dantesche. Nel primo campo, quanto accade nella seconda metà del Trecento e ai primi del
Quattrocento è già sufficientemente indicativo. Quattro grandi scrittori europei si trovano in questo
periodo a fare i conti con Dante: Petrarca e Boccaccio in Italia, Chaucer in Inghilterra, e Christine
de Pisan in Francia.
Le loro reazioni sono diverse l'una dall'altra, ma tutte riconducibili all'impossibilità di seguire
il fiorentino sul terreno da lui esplorato.
In sostanza, nel momento stesso in cui la figura di Dante e la sua opera più grande, la Divina
Commedia, divengono monumenti canonici della letteratura europea in volgare, la nuova
poesia ne riconosce l'inimitabilità.
Chi, soprattutto, avrebbe osato di nuovo "ficcar lo viso per la luce etterna" come aveva fatto
Dante Alighieri?
Il poema dantesco è per Coleridge "un sistema di verità morali, politiche, filosofiche e
teologiche" impossibile a comprendersi "senza una conoscenza dei caratteri, degli studi, degli
scritti dei dotti dei secoli XII, XIII e XIV", poiché Dante è "l'anello vivente tra la religione e la
filosofia; egli ha filosofeggiato la religione e cristianizzato la filosofia". Le doti principali della
Commedia sono "la vividezza delle descrizioni e delle narrazioni, il nesso logico, la forza,
l'energia" (nella quale Dante è "insuperabile”. Le immagini dantesche "non derivano soltanto
dalla natura, ma si ricollegano anche al sentimento universale che si sprigiona da essa".
Ad esse si accompagnano quella "profondità del pensiero", quell'"arte pittorica" e quel
"realismo topografico" che conferiscono al suo genio una "potente singolarità" e che lo fanno
eccellere.
Non sarà un caso, allora, che nella cultura novecentesca la figura di Dante occupi quella
posizione di primo piano cui allude l'irlandese Yeats quando proclama che "l'immaginazione
principe della cristianità, Dante Alighieri, così completamente trovò se stesso da rendere quel
suo volto vuoto più chiaro all'occhio della mente di ogni viso eccetto quello di Cristo". Critici
e storici della letteratura collocano quella "immaginazione" al centro della tradizione europea.
Vale forsela pena, alle soglie di un nuovo millennio e dinanzi ad un'Europa che si spera
altrettanto nuova, prestare attenzione a quelle affermazioni di Eliot secondo le quali il
carattere "universale" della poesia dantesca dipende in gran parte dall'essere essa espressione
proprio di un pensiero e di un metodo condivisi da un'intera cultura -- insomma di un'Europa
ancora fondamentalmente una.
Canto III dal PARADISONel cielo della Luna appaiono i primi beati: i lineamenti dei loro volti sono così tenui e indistinti che
Dante ritiene di trovarsi di fronte a immagini diverse. Queste anime godono del grado di beatitudine
più Lasso e occupano l’ultimo cielo, quello più vicino alla terra, perché non hanno adempiuto
completamente i voti offerti a Dio. Il Poeta si rivolge a uno spirito beato che sembra particolarmente
desideroso di parlare con lui e chiede di conoscere il suo nome e la condizione in cui si trovano le
anime del cielo della Luna. Risponde l’ombra di Piccarda, sorella di Corso e di Forese Donati,
appartenente ad una delle famiglie più note di Firenze. Attraverso le sue parole Dante spiega che nel
paradiso, per essendoci diversi gradi di beatitudine, ogni spirito beato è perfettamente felice, poiché la
letizia che Dio infonde è proporzionata alla capacità di godere di ciascuna anima. Infatti se i beati del
cielo della Luna desiderassero trovarsi in una sfera superiore, questo loro desiderio contrasterebbe con
la volontà di Dio, che, a seconda dei meriti di ciascuno, ha assegnato un posto particolare nel regno dei
cieli. Viene così rivelato il principio fondamentale del paradiso: la beatitudine non è altro che volere
ciò che Dio stesso vuole, perché ” ‘n la sua volontade è nostra pace”. Poi Piccarda accenna
brevemente alla propria vita e indica un’altra anima locata, anche ella costretta, come lei, ad
abbandonare il chiostro: è Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e madre di Federico II.
Dopo che Piccarda, cantando "Ave, Maria" scompare alla sua vista, Dante si volge verso la
luce folgorante di Beatrice.
Non sublime intermezzo di poesia lirica fra rigorose argomentazioni teologiche, ma ordinato
svolgimento di quegli stessi temi (l’aspirazione a Dio e la sete di conoscenza) che ispirano e
sorreggono i canti primo, secondo e quarto del Paradiso. A proposito delle formule abituali per
indicare un canto attraverso il nome del personaggio che ne è protagonista, per il Paradiso si
mantiene questo uso solo per riferimento alla problematica teologica dalla quale viene
germogliando la poesia del Paradiso. Piccarda, nonostante richiami alla memoria di Dante
ricordi e affetti terreni, nonostante parli di sè, rappresenta la condizione delle anime beate. In
Piccarda, infatti, trovano voce il sentimento delI’anima che inizia la sua vita di partecipazione
al divino, l’interiore trasalire dello spirito davanti all’infinito, la sua ansia e il suo smarrimento
di fronte ai divini misteri. Cercare la poesia del Paradiso significa seguire il progressivo
staccarsi di queste anime dalla loro realtà di un tempo per immergersi in Dio, il passaggio
dalle esperienze della vita passata alla vita con Dio.
La poesia del terzo canto ha il suo nucleo centrale proprio in questo complesso rapporto terra-
cielo, umano-divino: da una parte l’elegia, il ricordo velato della terra, dall’altro il moto di
ascesa verso Dio, il mistico abbandono nella sua volontà.
Piccarda resta la dolce figura di donna che Dante ha conosciuto e di cui tanto ha sentito
parlare nella sua giovinezza. Ricorda al Poeta Firenze, ormai lontana per entrambi; attraverso
la figura di Santa Chiara indugia con commossa delicatezza sulle sue mistiche nozze con
Cristo (versi 100-102); fuggita dal mondo non per disprezzo verso gli uomini, ma per vivere
più intensamente il suo amore con Dio, la violenza subita non la inasprisce, ma le permette di
meglio capire e perdonare gli uomini, soprattutto quando sono a mal più ch’è bene usi. Nel
silenzio di Dio (verso 108) il suo amore diventa più profondo, più sofferto, più inebriante: la
giovane clarissa che, suo malgrado, ha ceduto alla violenza altrui, diventa così degna di
esaltare, prima fra tutte le anime del Paradiso, l’accordo dei beati con la volontà divina, il
precipitare dell’anima in grazia nel mare dell’infinito amore.
DANTE E BOTTICELLI Arrivano a Roma per la prima volta e tutte insieme. Sono le 92 pergamene vergate in punta d’argento
da Sandro Botticelli ad illustrazione della Divina Commedia, realizzate su commissione di Lorenzo di
Pierfrancesco de’ Medici, cugino del Magnifico. Vengono esposte alle Scuderie Papali al Quirinale
dal 20 settembre al 3 dicembre nella mostra “Sandro Botticelli illustratore della Divina Commedia”.
E’ un’occasione eccezionale e irripetibile. Non solo perché questi disegni sono solitamente accessibili
soltanto agli studiosi, ma soprattutto perché è la prima volta che il corpus è visibile al completo.
Attualmente infatti i disegni botticelliani sono conservati in due differenti archivi: nella Biblioteca
Apostolica Vaticana (otto), e nel Kupferstichkabinet di Berlino (ottantaquattro), dove peraltro sono
stati riuniti solo dopo la caduta del Muro; mentre prima erano ulteriormente divisi tra la parte Est e
quella Ovest della attuale capitale tedesca.
Novanta dei novantadue disegni arrivati fino a noi illustrano un episodio di un singolo canto; gli altri
due sono una visione d’insieme del Cratere dell’Inferno e una raffigurazione di Lucifero.
La mostra ha il merito di presentare le pergamene accanto ad una completa veduta d’insieme
dell’ambiente in cui esse vennero alla luce, quella eccezionale stagione culturale che fu la
Firenze Laurenziana.
Davanti agli occhi dei visitatori sfilano tutti i protagonisti di quel mondo, a cominciare dal
volto corrucciato di colui che ne fu il centro propulsore, Lorenzo il Magnifico.
Quindi gli umanisti, da Marsilio Ficino, a Cristoforo Landino, da Pico della Mirandola, al
Poliziano, e i loro testi, giunti sino a noi in incunaboli, codici miniati, manoscritti e rare,
preziosissime stampe, anch’essi in esposizione. Ci sono le opere dei grandi maestri fiorentini
che accompagnarono l’attività di Botticelli: i Pollaiolo, Filippo e Filippino Lippi, il
Verrocchio, Leonardo, Michelangelo, Piero di Cosimo; ed anche i mecenati per i quali questi
artisti lavorarono, il Magnifico e suo cugino, quel Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici che fu
committente di molte opere di Botticelli, tra cui i disegni per la Commedia.
Questo fu l’ambiente in cui tornò a fiorire la tradizione dantesca, un ritorno di cui l’impresa di
Botticelli fu tra gli episodi più importanti. Ma tornò a fiorire con valori e suggestioni del tutto nuovi
e fortemente influenzati dal neoplatonismo, fenomeno culturale fondamentale per l’umanesimo
fiorentino. Così, a partire dall’ultimo ventennio del Quattrocento, Dante smise i panni del
combattente di Campaldino e del fiero difensore della sua libertà per indossare quelli del “poeta
filosofo e teologo” e la sua Commedia divenne un “sacro poema” frutto di illuminazione divina.
D'altronde non era difficile leggere nel viaggio ultramondano di Dante dall’inferno al paradiso una
grande illustrazione poetica della teoria neoplatonica di Marsilio Ficino secondo cui l’anima umana,
per via di conoscenza e amore, poteva risalire dalle cose terrene alla pura contemplazione di Dio e
della sua infinità. E cos’era l’ “Amor che move il sole e l’altre stelle” di cui parlava Dante se non
appunto quel principio infinito e presente in tutto l’universo predicato dalla teologia platonica?
Letto in questo modo, Dante poteva offrire diverse suggestioni a Botticelli, di certo ben introdotto
ai misteri neoplatonici, come attestano le complicate letture delle sue opere più famose, in primo
luogo le celebri La Primavera e La nascita di Venere, non a caso dipinte per lo stesso committente
delle pergamene dantesche.
Nella rinascita neoplatonica non mancavano anche precisi contenuti ideologici. Il neoplatonismo si configurava,
infatti, come un generale rinnovamento culturale, spirituale e religioso di cui Firenze si poneva alla guida.
Vederne in Dante un precursore significava innalzarlo a padre e primo glorioso indizio di quella Firenze,
Novella Atene, che si sarebbe realizzata due secoli dopo, sotto e grazie alla dinastia medicea e al suo Magnifico
principe in particolare.
Così, carico di valenze, il poema dantesco doveva per forza avere una celebrazione importante. A questa
esigenza rispose l’edizione del 1481, corredata dal commento di uno dei maggiori umanisti, Cristoforo
Landino, e illustrata da un artista del calibro di Botticelli.
Ma se questo è lo sfondo su cui nascono le illustrazioni della Commedia, non meno significativo è il momento,
nel percorso personale e artistico del pittore, in cui Botticelli venne a contatto con Dante.
La collocazione cronologica dei disegni in mostra è molto controversa. Secondo gli studi più importanti
farebbero parte di un gruppo diverso da quello da cui furono tirate le incisioni per l’edizione dell’81. E’
probabile che Botticelli vi lavorasse per molto tempo e che la loro realizzazione si inoltri negli anni ’90 del
Quattrocento. L’ipotesi sembra suffragata da quanto dice Vasari: “Commentò una parte di Dante e figurò lo
Inferno e lo mise in stampa.
Quando Botticelli viene a confrontarsi con Dante il suo stile è, quindi, in un periodo di trasformazione.
Molti disegni ci parlano ancora con un linguaggio elegante, a volte leggero. Le figure dei dannati, ad
esempio, anche nelle più crudeli distorsioni, deformazioni, menomazioni, restano improntate a
quell’ideale di bellezza per cui è tanto famoso; e, nella sua leggerezza angelica, la raffigurazione di
Beatrice può ricordare una Venere o una Primavera. Ma in altri disegni la splendida linearità del tratto di
Botticelli tende all’essenzialità, a quel crescendo emotivo astrattizzante che sarà la cifra della sua tarda
produzione.
Il dialogo tra Botticelli e Dante fu qualcosa di più di una semplice occasione di incontro tra un maestro
della figurazione e un maestro della poesia. E certo la Commedia non poteva rappresentare, agli occhi del
pittore, un qualsiasi testo da illustrare. Il contatto con la drammaticità dantesca avrebbe al contrario
dischiuso a Botticelli strade ulteriori rispetto a quelle fino allora percorse, quelle degli abissi insondabili
dell’animo umano.
Su questa strada già aperta si inseriranno i temi cupi della predicazione di Savonarola che avrebbero
portato la pittura di Botticelli agli accenti tesi e drammatici della sua tarda produzione, a quei quadri
visionari e sofferti non lontani dalla terribilità delle immagini dantesche, che il pittore aveva avuto modo
di conoscere molto bene.
IL ROMANZO GOTICO INGLESE NEL XVIII SECOLO
Dal 1795 ha subito l’influenza tedesca, con figure di cavalieri e società segrete.
Nel XVIII sec., con il dominio socio-economico della classe borghese, iniziò la rivoluzione sociale.
Con l’incremento della produzione industriale, la lettura- monopolio delle classi agiate- ebbe reading revolution e divenne fenomeno di massa: i quotidiani, letti ad alta voce nei coffee house, al costo di un penny, davano diritto ad una tazza di caffè; si diffusero le circulating libraries, cioè le biblioteche ambulanti.
Il romanzo gotico venne favorito da una nuova sensibilità per il subconscio. Freud sosteneva che far emergere esperienze personali dell’universo negativo richiama alla memoria personaggi fantastici che incarnano desideri, paure, ansie, in nome di un’esistenza equilibrata.
Il gotico insinua il dubbio nella mente di ciascuno sul senso del bene e del male, e della confusione che annulla le cause degli effetti portando l’identità a perdersi nel suo contrario.
Lo scopo era suscitare nel lettore forti emozioni, usando tutti gli elementi che producono terrore.
Alla base dell’orrore c’è una colpa, un peccato segreto, che riaffiora attraverso protagonisti complicati (fanciulle perseguitate, monaci corrotti, aristocratici arroganti) e ambientazioni medioevali terrificanti (castelli e cattedrali).
Contrasti di chiaroscuro in zone d’ombra, che ben si adattano a colpi di scena.
Contrapposizione sopra-sotto: castelli, abbazie (potere politico-religioso) e celle, cripte, luoghi scuri ( simboli di contrapposizione religione-ragione e irrazionalità-sovrannaturalità).
Tema ricorrente: romanzo nero, figura Mostro, che spaventa per aspetto deforme e per origini sconosciute.
Si distinguono due categorie di mostri: esseri sovrannaturali legati con l’Aldilà (vampiro aristocratico, che disprezza i mortali che considera inferiori), e creature viventi (il vampiro sceglie di non appartenere né al mondo dei vivi né dei morti e, succhiando il sangue dei vivi, stabilisce un rapporto simbiotico parassitario, che inizia al vampirismo, regalando al vivente un’esistenza contraria alle leggi divine).
Il vampiro è metafora storica del potere feudale, potere ingordo che tende ad esaurire le risorse dei sudditi.
Vampiro famoso: Dracula.
Fantasma: non può lasciare il mondo dei vivi per legami in sospeso, debito insoluto o credito da riscuotere. Per liberarsi entra nel mondo dei vivi, appare, attira la loro attenzione, per poter finalmente riposare in pace.
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) è un celebre romanzo dello scrittore di Edimburgo
Robert Louis Stevenson. Viene considerata la più importante opera di Stevenson, e uno dei più grandi classici
della letteratura fantastica di tutti i tempi. Rappresenta il culmine dell'indagine stevensoniana sulla scissione
della personalità. La scrittura è inoltre limpida e sobria, descrivendo gli avvenimenti con adeguata precisione.
Il dottor Henry Jekyll è uno scienziato che, durante i suoi studi sulla psiche umana, riesce, miscelando
particolari ingredienti chimici, a mettere a punto una pozione che può separare le due nature dell'animo
umano, quella buona e quella malvagia. La sua personalità diventa così scissa in due metà speculari che,
alternativamente, bevendo la pozione o l'antidoto, prendono possesso del suo corpo, trasfigurandone anche
l'aspetto. Ma le due identità sono contrapposte sia nel modo di apparire che in quello di essere: il dottor Jekyll
infatti è rispettabile, educato e di principi morali, con le mani "pulite", alto; Hyde al contrario è malvagio,
basso, con le braccia corte e le mani pelose e tozze; ha tutte le sembianze di un uomo primitivo, ma
soprattutto non si sente vincolato a nessuna regola civile.
La storia si svolge a Londra nel 18.. (la data non è mai definita nel romanzo).
Come il coevo Oscar Wilde, anche Stevenson appare, in quest'opera, affascinato dall'analisi del
male e delle ambiguità dell'animo umano. Nel racconto, che colpisce innanzitutto per la trama
avvincente e per un genere misto fra giallo, noir, thriller d'azione e racconto del mistero e del terrore
, viene evidenziato in maniera molto significativa quel naturale "sdoppiamento" che caratterizza ed
è presente in ogni essere umano e che si configura come una rottura dell’integrità della persona,
come la scissione del Bene dal Male e, in definitiva, come lo "sdoppiamento" della stessa coscienza
umana.
Jekyll infatti così si confessa:
« Pensavo che se ognuno di questi [i due esseri che si dilaniano nella coscienza di Jekyll] avesse
potuto essere confinato in un’entità separata, allora la vita stessa avrebbe potuto sgravarsi di tutto
ciò che è insopportabile: l’ingiusto avrebbe potuto seguire la propria strada di nequizie, svincolato
dalle aspirazioni e dalle pastoie del virtuoso gemello;
al giusto sarebbe stato dato altresì di procedere spedito e sicuro nel suo nobile intento, compiendo
quelle buone azioni che lo avessero gratificato, senza essere più esposto alla gogna e al vituperio di
un sordido compagno a lui estraneo.
Era una maledizione del genere umano che questo eteroclito guazzabuglio dovesse così
tenacemente tenersi avviluppato... che fin nel grembo tormentoso della coscienza questi gemelli
antitetici dovessero essere in perenne tenzone. Come fare, allora, a separarli? »
L'analisi stevensoniana parte infatti dalla constatazione di una diuturna conflittualità fra due
dimensioni [...] che riconosce come l’uomo non sia unico bensì duplice. Il racconto è una
parabola del Male, ciò che emerge è che nell'essere umano vi sono due differenti nature, due
tendenze comportamentali (o semplicemente personalità), una volta al Bene, l'altra al Male
assoluto, che continuamente in contrasto fra di loro in questa tentano di prendere il dominio
dell'individuo.
Jekyll isola la parte cattiva (Hyde) da quella buona (Jekyll), permettendo in tal modo che una
sola persona potesse seguire due strade completamente opposte, e realizzarsi in entrambe, che
ambedue le parti che sentiva ambivalentemente sue potessero esprimersi. La storia narra infatti
delle nequizie, delle infamie e dei delitti commessi dall’alter ego dello stimatissimo dottor
Jekyll, uomo rispettato all’interno della moralissima società vittoriana sia per il suo nobile
lavoro sia per la sua invidiabile condotta morale, che, osando faustianamente e inavvertitamente
sfidare la natura e le sue leggi, ha sentenziato e deciso la propria condanna e la propria fine.
Mr. Hyde si configura come un essere spietato, primordiale, a tratti quasi meccanico, emblema del
demonio e della scelleratezza umana, colui e il solo che, "nel novero degli umani, era il male allo
stato puro", come appare chiaro da questo estratto (che riporta i pensieri dell’avvocato Utterson
dopo l’inquietante incontro con Hyde):
« Dio mi perdoni ma non mi sembra nemmeno un essere umano. Dà l’idea, come dire, di un essere
primordiale! [...] O si tratta dell’influsso di un’anima immonda che si manifesta al di fuori,
trasfigurando il bozzolo che la contiene? Forse proprio di questo si tratta, dal momento che, mio
povero vecchio Henry Jekyll, se mai mi fu dato di scorgere l’impronta di Satana su di un volto, l’ho
vista su quella del tuo nuovo amico! »
Una sfida contro la natura, quindi, quella di Jekyll (fermamente convinto della sua capacità di
gestirne gli effetti), ma anche un peso troppo grande, che né la sua anima né il suo corpo, entrambi
vittime di continui e incontrollabili mutamenti (e trasformazioni), riusciranno più a sopportare.
« Ma l’intrinseco dualismo delle mie intenzioni gravava su di me come una maledizione, e mentre i
miei propositi di pentimento cominciavano a perdere mordente, la parte peggiore di me, così a
lungo appagata, e di recente messa alla catena, prese a ringhiare. (...) e come accade a chi persegue
vizi privati, alla fine cedetti agli assalti delle tentazioni. (...) e questa breve condiscendenza al male
che avevo in me finì per distruggere l’equilibrio della mia anima. »
L'intrinseco e primordiale dualismo presente in Jekyll era però stato esasperato e portato alle
estreme conseguenze, e ora il dottore si trovava a voler mettere una volta per tutte la parola fine
alla sua maledizione, a volersi disfare cioè di Hyde, avendo oramai perso il controllo delle
proprie metamorfosi e rintanatosi per questo motivo nel laboratorio. E, pensando alla scissione
e allo scioglimento di questo dualismo, ovvero alla definitiva separazione del Male dal Bene,
Jekyll non riesce a darsi pace e, prima di venire definitivamente sorpreso sotto le temibili
fattezze del suo doppio (che esercitava oramai il quasi completo potere su di lui), si toglie la
vita, mettendo così fine alla turpe esistenza di Hyde ma anche alla propria.
Nel romanzo di Stevenson, il personaggio di Edward Hyde viene descritto da chi l'ha visto in
maniera confusa; tuttavia, tutti i testimoni sono concordi sull'impressione di ripugnanza e di
malvagità che Hyde trasuda. Un altro particolare notato da coloro che l'hanno visto è
un'impressione di deformità fisica, sebbene il malvagio personaggio non fosse realmente
storpio. Fisicamente, Hyde viene descritto come agile ma piccolo di statura, è inoltre
particolarmente villoso.
Questo contraddice l'immagine popolare di Hyde come una sorta di scimmione, che ricorre
specialmente nelle parodie e nei fumetti.
La figura di Hyde-scimmione viene anche ripresa nel fumetto "
La Lega degli Straordinari Gentlemen", di Alan Moore, in cui il personaggio è gigantesco;
tuttavia Jekyll afferma in un colloquio che inizialmente Hyde era più piccolo di lui e, nel
secondo volume, Hyde stesso dichiara di essere stato, all'inizio, quasi un nano, e di essere
cresciuto con il tempo!
Mann: apre squarci di abbagliante nitore sull’etica dell’esistenza.
Elisione Enfatizzazione
Connotazione
Lingue esclusive: il soggetto che compie l’azione è nell’azione.
Dante: denota la morte di Ugolino per fame “poscia, più che il dolore, potè il digiuno” e i lettori con l’immaginazione hanno dedotto che Ugolino abbia mangiato i propri figli.
orizzontale melodica: pensiero e azione coincidenti ( francese, inglese, italiano)
verticale armonica: le cose accadono, non succedono (tedesco): la fiaba d’incubo sprigiona la sua potenza
Lingue esplicative: l’uso di “dunque”, “infatti”, “nam” latino, “for” inglese” allude a fasi dichiarative antecedenti.
Odissea: Ulisse illustra alla corte dei Feaci la caduta di Troia quando diviene ricordo di un’esperienza.
I classici vertono sulla reminiscenza.
Medioevo tedesco: filosofia dell’apparire.
Decadentismo: estetica del sembrare Foscolo in “A Zacinto”, nel “né più mai”, riassume un monologo interiore e rimugina il dolore del passato già stemperato dalla contemplazione.
Interpretazione testuale
Freud in Novecento interpreta la selva oscura dantesca come metafora della depressione
nervosa.
Scuola storicistica: (anni ’50) vedeva nella selva oscura le
controversie politiche subite da Dante in gioventù.
Nel processo di Kafka: captatio principii (dramma in prima battuta).Ne “il pozzo e il pendolo” di Poe:
allontanamento dei topi dalle gambe del condannato legato
alla catena ispira sollievo; il ticchettio del pendolo delinea scenario
d’incubo.
-Attesa e soddisfazione-Scenario con personaggi e suggestioni
Iliade di Omero:l’equipaggiamento
per la guerra contro Troiaassume carattere enfaticoattraverso 2 procedimenti:
descrizione fisica
Rabelais in “Gargantua e Pantagruel”
usa 54 epiteti del linguaggio
sensoriale-gastronomico e
teologico-filosofico;
inflazione-dinamica.Ne “L’eletto” di Mann lo scampanio ossessivo
celebra l’elevazione al soglio pontificio di Gregorio, peccatore di cui il romanzo parlerà burlescamente.
Ne “I promessi sposi” di Manzoni la lunga descrizione dell’immobile lago di Como viene interrotta dai bravi che affrontano Don Abbondio: il corto circuito linguistico viene sconvolto furbescamente per smussarne la pesantezza.
Denotazione: 2 processi
CODICI LINGUISTICI
velocità di linguaggio
Nasce la necessità di possedere l’intera drammaturgia prima di tradurla.
L'eletto L’eletto è un romanzo storico dello scrittore tedesco Thomas Mann, pubblicato la prima volta nel
1951.
Il romanzo è basato sul poema in versi “Gregorius” di Hartmann von Aue (XII secolo). E’ una
versione fantastica della vita di Papa Gregorio I, ispirata al mito di Edipo.
Narra che il Duca di Fiandra e Artois non riesce ad avere figli. Dopo molte suppliche a Dio la moglie
del Duca rimane incinta e partorisce due gemelli, ma muore poco dopo averli messi alla luce. I
gemelli Sibilla e Wiligis, sono molto simili l’uno all’altro sia nelle doti fisiche che culturali e
crescono nella corte ducale rimanendo sempre molto uniti. La morte del Duca arriva quando i
gemelli hanno l’età di 17 anni. Il figlio Wiligis è proclamato nuovo Duca, ma la stessa notte seduce
sua sorella: i gemelli diventano amanti. Sibilla rimane incinta; Wiligis chiede aiuto a Messer
Eisengrein, suo maestro di cavalleria. Questi arriva alla corte e, dopo aver capito la situazione,
spinge i gemelli a decisioni drastiche. Wiligis abbandona il ducato e parte per le Crociate. Sibilla va
a partorire nel castello di Eisengrein. Dopo il parto il bambino viene messo in una botte ben protetta
insieme ad una lettera di spiegazioni anonima e a due pani di monete di oro. La botte viene fissata ad
una barca e questa spinta nel mare. Sibilla torna alla corte in cui diventa duchessa e, dopo poco
tempo, riceve la notizia della morte di Wiligis.
La barca con il bambino viene portata dal mare in una isoletta della Manica. Due pescatori la
trovano e consegnano la botte all’abate del monastero dell’isola (Il Chiostro). Questi scopre il
bambino, legge la lettera e trova le monete di oro. Affida il bambino ad uno dei pescatori, e nel
battezzarlo gli mette il suo stesso nome, Gregorio. All’età di 6 anni il bambino entra a vivere nel
Chiostro ed inizia gli studi con molto successo. All’età di 17 anni Gregorio, dopo una lite con uno
dei figli del pescatore che lo aveva adottato, viene a conoscere la sua condizione di trovatello.
Decide di abbandonare il Chiostro per diventare cavaliere e trovare la sua famiglia di origine.
L’abate gli consegna le monete di oro e la lettera portati dalla botte e lo fa partire.
La barca che porta Gregorio viene spinta dal mare nel porto di Bruges. La citta è retta dalla
duchessa Sibilla che è in guerra con un suo spasimante respinto, Roger re di Borgogna. La città è
sotto assedio e tutti i cavalieri della duchessa sono stati sempre sconfitti in duello da Roger.
Gregorio si offre di combattere per la duchessa e nonostante la giovane età riesce a imprigionare il
re Roger che è costretto ad accettare la pace. Sibilla chiede a Gregorio di diventare suo marito e
questi accetta. Dal matrimonio nascono due figlie. Durante un’assenza di Gregorio, Sibilla scopre
tra le sue carte nascoste la lettera che lei stessa aveva messo nella botte. Al ritorno del marito,
confessa tutto. Gregorio decide di abbandonare la corte e di andare in giro per il mondo a fare
penitenza. Sibilla rinuncia ad essere duchessa e va a vivere poveramente dedicandosi unicamente ad
opere di carità.
Gregorio nel suo girovagare chiede asilo ad un pescatore che lo accoglie, ma lo tratta con estrema
durezza. Gregorio chiede di indicargli un posto in cui fare penitenza; il pescatore lo porta su una
piccola isola disabitata (lo Scoglio), lo lega con catene di ferro, butta nel lago la chiave delle catene e
lo abbandona. Gregorio riesce a sopravvivere; il dimagrimento del suo corpo gli permette di liberarsi
dalle catene. La sua permanenza sullo scoglio dura diciassette anni.
A Roma, dopo la morte dell’ultimo Papa, non si riesce ad eleggere il successore. Dopo diversi mesi di
attesa Probo, un illustre cittadino molto religioso e Liberio, cardinale di Sant'Anastasia fanno lo stesso
sogno. Un agnello li invita a ricercare il nuovo Papa che si chiama Gregorio e che vive da diciassette
anni su uno scoglio. I due partono e, dopo diverse settimane di viaggio, arrivano per caso nella casa
del pescatore. Questi vuole cucinare un grosso pesce appena pescato ma, aprendogli la pancia, scopre
la chiave usata per imprigionare Gregorio e buttata nel lago. Impressionato da questo ritrovamento, il
pescatore confessa tutto ed accompagna Probo e Liberio sullo scoglio. Viene ritrovato Gregorio che è
portato a riva e successivamente condotto a Roma dove è nominato Papa.
Sibilla, nonostante la vita di sofferenze, sente di non aver scontato tutti i suoi peccati. Le giunge
notizia che a Roma è stato eletto un nuovo Papa consolatore di peccatori e pronto ad elargire il
perdono.
Sibilla parte per Roma e riesce a farsi ricevere dal Papa. Durante il colloquio Gregorio e
Sibilla si riconoscono. Come finale lieto, Sibilla rimane a Roma entrando in un convento di
suore e Gregorio continua a fare il Papa, tra molta stima ed approvazione dei cristiani.
Il mito principale su cui è basato il libro è quello di Edipo. Nell’introduzione al romanzo
Mann presenta diverse varianti del mito applicate a persone come Giuda Iscariota o il Papa
Gregorio I. Il mito del figlio che sposa la madre e prende il posto del padre si intreccia con
quello della Fossa (o dello Scoglio), molto caro a Thomas Mann. Una persona pecca
fortemente, spesso per superbia. Gli eventi lo puniscono e viene rinchiuso in una fossa o in
una prigione. Dopo il pentimento Dio lo riporta alla vita normale e lo ricompensa delle
umiliazioni subite.
L’eletto, che tratta argomenti molto tragici, ha uno stile allegro, ironico e leggero che
rappresenta il fascino più grande dell’opera. Il romanzo ha un narratore, Clemente monaco
irlandese, che nell’abbazia svizzera di San Gallo scrive la storia.
Questo permette a Thomas Mann di inserire una serie di commenti spiritosi sui fatti descritti.
Clemente si professa molto rispettoso sia dell’autorità religiosa che civile, ma non perde occasione
per lanciare una serie di critiche ai potenti. L’ironia non è mai graffiante, ma sempre molto
simpatica e riesce a inserirsi anche nei momenti più delicati. Non si contano le battute sui
comportamenti e sulle debolezze dei protagonisti.
Un’altra caratteristica tipica di Thomas Mann è quella di descrivere a tutto tondo i protagonisti sia
maggiori che minori, sempre senza retorica, ma mostrandone soprattutto i difetti e le aspirazioni.
Ogni personaggio è caratterizzato in modo indimenticabile.
Thomas Mann gioca con i luoghi, i tempi e le lingue. In tutta la prima parte, il modo di vita e le
lingue parlate (francese e tedesco medievale) richiamano il Belgio del XII secolo. Nei capitoli della
sede vacante del Papato, i nomi delle persone e le descrizione degli ambienti invitano a pensare alla
Roma del VI secolo, il vero periodo di vita del Papa Gregorio I.
Alcune frasi usate nella prima parte del romanzo, le più spiritose, sono scritte in un misto di
francese e tedesco con influssi di inglese.
IMPORTANZA DELLA TRADUTTOLOGIA
Differenze:
Traduzione cristiana letteratura italiana (Dante e Manzoni).
Tradizione materialista letteratura da tradurre.
Continua presenza del gusto estetico e dell’etica sempre attuale nel patrimonio culturale classico.
Rapidità e brevità lessicale, concisione e precisione stilistica, unione di poesie e prosa,
razionalità ed irrazionalità nella letteratura inglese coeva della letteratura italiana.
Analisi testuale di passaggi e contestualizzazione nella traduzione letteraria per cogliere identità e diversità.
Tradurre equivale a studiare il linguaggio ed esplorare per portare alla luce il rapporto etico-
sociale.
Indagare sull’intreccio generazionale legato al nucleo profondo di motivi personali.
Creazione di contatto tra esperienze narrative lontane e diverse.
Elemento fondamentale della traduttologia.
Analisi linguistico- letteraria, storico-culturale e filosofico-
antropologica.
Snell-Hornby: traduzione non tra due lingue, ma interazione tra
due culture.Lewis: traduzione come creazione di altro testo che apre alla convivenza di
culture.
Terracini: tradurre non è rendere
fluente il linguaggio altrui, ma trasporlo
da una forma culturale ad un’altra.
Venuti: il valore e la forza della traduzione sono possibili in quanto atti
culturali e non invisibili.
Letteratura comparata.
Influsso testi inglesi e tedeschi sulla letteratura
europea.
Stati d’animo malinconici, gusto
notturno e sepolcrale.
Rinnovamento letterario nel contesto culturale italiano,
omogeneo ai nuovi contenuti diffusi dalla letteratura straniera.
PERIODIZZAZIONI LETTERARIE
Lunghe durate di fenomeni.
Ambito filologico-sociologico della circolazione e ricezione dei testi.
Ambito formale dei generi letterari.
Ambito tematico delle culture.
Jauss: verifica la circolazione e la traduzione dei testi e riscontra quante opere abbiano permeato
l’intertestualità, ovvero la rete di rimandi impliciti ed espliciti in rapporto ad altri testi.
Auerbach: periodizzazione macroscopica dalla scoperta della stampa.
Processi di alfabetizzazione e pubblico vasto di lettori con gusti diffusi .
Romanzo moderno.
II ’800: post unità d’Italia
diffusione dei libri “Pinocchio” e “Cuore”.
Medioevo-Rinascimento (da Dante a Tasso) classici che approdano nella migliore letteratura
inglese.
Età moderna: ruolo di protagonista assegnato al “Principe” di
Machiavelli, quando si esce dallla censura dell’Inquisizione.
Ricezione nel ‘900 della letteratura statunitense, promossa dalle difficoltà del
regime fascista, entrata nella scrittura narrativa italiana del dopoguerra.
‘400 e ‘500 (Ariosto-Tasso): innovano il canone epico aprendo
al romanzo storico e sentimentale.
‘600: narrativa in prosa-genere novellistico.
‘800-’900: romanzo moderno
(Foscolo-Manzoni).
II ‘900: filone americano del Western e cicli di fantascienza come Guerre
stellari.
Storia letteraria francese e anglosassone.
Temi: buon governo degli Stati, connesso all’utopia del buon rapporto tra governanti
e governati (Dante, Machiavelli).
L’Olocausto e Hiroshima sono vere fratture epocali che coinvolgono la storia
letteraria e definiscono una cesura epistemologica e civile.
Data di emissione 8 maggio 2006 - Bozzettista Anna Maria MarescaStampa Officina Carte Valori dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. in rotocalcografia
Progetto, elaborazione testi e grafica
della Prof.ssa Teresa Tiano