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Polis
"La condizione umana viene definita
tramite l'enigma e il simulacro che sono
i corollari di questi fatti vitali:
istinto sessuale, coscienza della morte,
malinconia fisica generata dalla nozione
di spazio-tempo."
(S. Dalì: Declaration of the independence
of the imagination and of man's right to
his own madness.)
La calotta del mondo era infuocata dal
sole che, allo zenith, irradiava il suolo
ammantato da nere scaglie di lava. Un
fruscio lieve disturbava appena il
silenzio incombente.
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Una mano, scura e rugosa come corteccia
d'albero, spuntava fra i drappi rossi
della veste di uno dei tre uomini, e
teneva una corona le cui perle venivano
respinte dal pollice unghiuto, una alla
volta, a contare cento passi. E così per
altri cento e cento ancora senza che
null'altro, oltre alla paziente cantilena
intonata dai tre uomini potesse fornire,
con la sua posizione, alcuna informazione
sul loro andare.
Quando le ombre dei tre saggi
cominciarono a disfarsi sul terreno per
inseguirne, ondulanti e silenziose, il
cammino, il più vecchio parlò: "Fra tre
grani vedremo la torre. Poi ci verranno a
prendere”.
Così fu. Presto, infatti, apparve
all'orizzonte un bagliore e poco dopo un
discoide che, ronzando a pochi metri da
terra, andava oscurando il suolo di un
enorme ombra grigia. Non appena questa
lambì i tre uomini, il velivolo rallentò
tanto da fermarsi. Dalla superficie
inferiore si staccò un portello che,
rimanendo agganciato per un lato, si
allungò silenzioso per permettere loro di
salire a bordo, uno dopo l'altro. Quindi,
recuperata quella sorta di palancola, la
navicella ripartì per dove era venuta.
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Vista dal cielo la torre brillava come un
diamante. Aveva la forma di una guglia e
sovrastava, prepotente e oscena, la
roccaforte avvolta da un'elica di mura
color del deserto. Nell’ultimo giro di
merli era racchiusa una piattaforma che,
oltre a contenere la base di quel
gigantesco cono d'acciaio, fungeva
all’occorrenza da avioporto. E lì, dopo
neanche un grano, atterrò il discoide.
Ad accogliere i tre saggi c'era il
premier, accompagnato dal guardasigilli.
Appena li videro i governanti si
profusero in inchini colmi di sacra
deferenza poi, come se nessuno li stesse
più osservando, si scambiarono gesti e
parole concitate, quasi che il loro
incontro concludesse un'attesa
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accompagnata da grande trepidazione.
Quindi si ricomposero, uno accanto
all’altro, in silenzio.
Mentre la navicella decollava per sparire
all'orizzonte, una nota prolungata
annunciò l'inizio della cerimonia. A quel
suono i tre uomini si prostrarono al
suolo con le braccia allargate e il palmo
delle mani aperto e poggiato per terra,
macchiando il terreno col colore delle
proprie sagome rese vaghe e incerte dal
vento della sera.
Da una porta, alla base della torre, uscì
un efebo vestito di verde, che sotto lo
sguardo vigile del premier, azionò una
piccola scatola nera che portava in mano.
A quel gesto una gigantesca ala d'oro
orientata verso est si levò, lungo una
linea immaginaria, fino al vertice della
guglia. Solo allora i saggi si alzarono
e, a due a due, si baciarono tre volte
mentre l'efebo consegnava quella sorta di
telecomando al guardasigilli.
Dalla stessa porta uscirono a passo di
corsa quattro trombettieri che dopo
essersi disposti due per parte iniziarono
a suonare: al palazzo del governo tutto
era pronto per il solenne giuramento. Il
premier varcò la soglia seguito dai
sapienti e dal guardasigilli.
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La sala del giudizio era rettangolare,
rigorosamente orientata secondo i punti
cardinali. Tappeti verdi disegnavano per
terra una croce rivolta verso nord dove
era stato alloggiato il trono del
premier, sublime e imponente presenza in
un aula disadorna di orpelli e simulacri.
Era inserito nel fianco destro di una
enorme scultura raffigurante un elefante
di bronzo con le gambe scheletriche,
formate ciascuna da tre tibie filiformi e
rugose, terminanti con zoccoli da
cavallo. L'elefante, con la proboscide
alzata e la coda svolazzante, portava sul
dorso un obelisco di marmo dorato
sorretto da una sella che accompagnava il
fianco del pachiderma a guisa di
alloggiamento per la regale seduta.
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Il premier entrò dalla porta a nord e, al
suo apparire, le persone sedute nel coro
alloggiato ai lati dell'entrata si
alzarono in piedi. Regalmente egli
percorse tutta l’aula fino a raggiungere
la parete di fondo, dove era ad
attenderlo il guardasigilli con altri
componenti del governo. Piegò appena il
capo in segno di assenso e di saluto, poi
si sedette con accanto il ministro e gli
altri dignitari.
Per tre secondi echeggiò una sirena
bitonale, poi di nuovo fu silenzio. Un
uomo entrò dalla porta ovest. Con
incedere goffo e nervoso si portò fino a
metà del braccio principale della croce
e, dopo essersi inchinato alle
rappresentanze del governo tutto, prese
posto su un piccolo e rozzo scanno dietro
una balaustra alloggiata sulla parete a
sinistra del trono. Subito dopo dalla
porta est entrarono i saggi, lentamente,
molto lentamente. Il loro incedere era
cadenzato da una litania intonata
sottovoce dai presenti. Si disposero uno
accanto all'altro perpendicolarmente
all'asse principale dell'aula, rivolti
verso il trono. L'aria già cominciava a
profumare di incenso quando il premier si
alzò e batté le mani tre volte.
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Tre figure femminili uscirono dal retro
del trono per andare incontro ai tre
uomini. Erano identiche, indistinguibili.
Avevano il capo coperto di bianco, come
la tuta che inguainava i loro corpi. Si
muovevano all'unisono, un unico
fotogramma riproposto tre volte. Sul
braccio destro piegato portavano teli
bianchi e cordoni.
Il pubblico continuava a intonare la
stessa litania che all'entrata delle
donne, aveva assunto un timbro più sonoro
e ora un ritmo più incalzante.
I tre saggi, deposte a terra le proprie
vesti indossarono i teli portati dalle
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donne fermandoli in vita con i cordoni.
Poi unirono fra loro i palmi delle mani
rivolgendoli dapprima verso l'alto, poi
verso il basso, assumendo la posizione
della spada. In quell’istante il pubblico
tacque e i tre cominciarono a recitare la
formula.
"Il silenzio del deserto ha dato voce
alla nostra coscienza, il sole ha seccato
i nostri pregiudizi, il sonno toglierà
peso alle nostra membra. Siamo stati
chiamati per giudicare. Lo faremo."
Si girarono verso l'uomo che dallo scanno
si levò in piedi, si portò davanti alla
balaustra e chinò la testa con le mani
giunte verso il basso.
Solo il più vecchio riprese a parlare.
"Ci presentiamo nella nostra umiltà. Se
sarà ritenuto colpevole, nessun’arma,
oltre la ragione, sarà usata contro di
lui. Se sarà innocente nessun premio
oltre all'assenso sarà concesso. Domani
avrà luogo il giudizio. Il rito prevede
che l’accusato debba alloggiare in una
stanza da solo, guardato a vista da un
replicante clonato a tale scopo, senza
alcuna possibilità di comunicare.
All'alba ucciderà il suo guardiano e lo
depositerà sull'ara allestita al centro
dell'aula per bruciarlo. Poi, se non
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intenderà avvalersi di un difensore potrà
parlare."
"Così sarà fatto", tuonò il premier.
Un clone uscì dal retro del trono per
andare incontro all’imputato. Insieme si
spostarono al centro della sala, si
inchinarono prima verso il trono, poi
verso il pubblico e uscirono. Li
seguirono i tre saggi e a loro volta il
premier e il guardasigilli. Poi anche il
pubblico lasciò l’aula, mentre la luce
diventava sempre più fioca fino a far
buio.
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Dall'ara allestita al centro dell'aula si
levava ancora un filo di fumo, quando
l'uomo cominciò a parlare.
"Sono un fallito. Così avete detto. Lo
avete detto convinti, senza ombra di
dubbio. Sono lusingato dal vostro
giudizio. Ciò vuol dire che la mia indole
si è finalmente realizzata e la cosa mi
arreca un sottile piacere.
Voi sostenete che essere un fallito sia
una colpa, un atto contrario alla legge,
un reato, o forse solo un peccato, uno
sbaglio o un fallo, una negligenza che
determina effetti nocivi.
È possibile, signori, come è possibile
che i colpevoli siate Voi. I saggi
giudicheranno me per la mia natura, e voi
per le vostre leggi.
Voi sostenete che la mia sia una colpa
grave e ciò vi autorizza a rendermi
oggetto di vituperio e di ludibrio agli
occhi della gente che qui è accorsa per
vedere l'uomo umano, l'uomo fallace, il
mostro a due teste.
Voi non mi accusate di aver fallito, non
considerate colpa grave mancare un
bersaglio perché altri mille sono pronti
a colpire. Non è atto contrario alla
legge non riuscire a portare a termine
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un'impresa, qualcuno lo farà sfruttando
il lavoro già compiuto.
Mi accusate invece di essere un fallito
ossia una persona che nella vita non ha
mai concluso alcunché di buono o di
utile. Una sola cosa buona od utile
sarebbe bastata a scagionarmi dalle
vostre accuse. Il capo d’accusa è,
quindi, una precisa omissione. Affinché
io possa essere giudicato colpevole
occorrerà che voi dimostriate in quale
specifica circostanza io avrei dovuto
fare qualcosa di buono o utile, e
soprattutto cosa sarebbe stata da voi
giudicata buona e utile.
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Voi non mi avete accusato di ignavia, non
é il torpore morale che vi indigna. Voi
infatti assolvete gli ignavi. La loro
sostanziale incapacità di agire vi
rassicura e non vi impegna. Loro non
hanno bisogno di nemici per esservi
fedeli. Sono naturalmente dotati di
quella bontà intransitiva che li rende
trasparenti. Sono loro i buoni.
Io non sono stato accusato di non essere
buono, ma di non aver fatto qualcosa di
buono. Avendo l'uso della ragione e della
volontà, che peraltro mi dà il diritto a
difendermi da solo, avrei dovuto
decidere, a un certo punto della mia
vita, di fare qualcosa di buono o di
utile, cosa che sicuramente hanno fatto
tutte le persone che si stanno scagliando
contro di me.
Mi chiedo quale azione sarebbe stata da
Voi giudicata buona od utile. Avrei forse
dovuto cercarmi anch'io un nemico?
Qualunque battaglia avessi intrapreso mi
avrebbe assolto ai vostri occhi. Avrei
dovuto difendermi o attaccare, essere
detestabile o detestare, e questo secondo
voi è cosa buona e utile. Voi infatti
considerate nobile misurarsi in una
contesa per essere reputato il migliore
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rispetto a un canone da Voi stessi
stabilito, per meritare il premio offerto
dalla vostra benevolenza, maschera di un
potere esercitato con l'inganno. Ma è
stato proprio il vostro potere a
edificare la mia colpa. Sapete bene che
la vostra scelleratezza non avrebbe mai
potuto costituire modello ideale per
alcuno; avreste potuto darvi una veste di
onestà, proporvi come un valore, ma lo
avete sempre considerato dispendioso e
inutile. La gente non ama essere
depositaria di una virtù. È troppo
faticoso. Una sola cosa è in grado di
fare la gente: salvare la pelle. Solo per
questo sarebbe disposta ad armarsi tutta
insieme e a lottare contro chi mette in
discussione i suoi privilegi. E allora
tanto vale darle un nemico piuttosto che
un valore.
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Eccovi serviti, signori. Sono io il
nemico. È mia la colpa dei mali di questa
città. Solo mia. Lasciate che i Vostri
sudditi si scaglino contro di me, sono io
il colpevole, non loro. Sono io la
salvezza. Nessuno di loro sarà più
infelice finché avrà un antagonista,
perché altro da sé occuperà i suoi
pensieri.
Senza di me il vostro potere non sarebbe
più credibile. Io sono il confine della
vostra perfezione. La forfora, la miopia,
le carni bianche e flaccide sono il
frutto della mia disobbedienza civile.
Non mi sono piegato ai prodigi della
vostra ricerca, mi rifiuto di utilizzare
gli strumenti della vostra tecnologia.
Ciò vi offende, ma é comunque strumentale
alla vostra egemonia. Io sono l'esempio
di quello che non si deve fare. Vi pare
poco? Sono io l'uomo mediocre, l'uomo che
non può e non vuole misurarsi. Io non
sono valutabile in termini di
coefficienti, indici o cifre, per questo
sono un fallito. È vero. Non ho comprato
figli belli e intelligenti. Per averli ho
inseminato una donna penetrandola con il
mio membro turgido, ho sentito il suo
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grido e il suo ansimare sotto di me. I
nostri corpi sfiniti e imbrattati di
liquidi si sono staccati e il suo ventre
é ingrossato fino a espellere come un
escremento nostro figlio fra sangue e
altri liquami. Nessuna provetta ha
mostrato ai vostri occhi il miracolo
della creazione. Nessuna teca di
cristallo ha cullato l'embrione perfetto
che sarebbe diventato ciò che il sistema
richiedeva.
Mio figlio é un agglomerato di cellule
senza scopo a cui, inutilmente, ho
insegnato a leggere e a scrivere.
Inutilmente perché, secondo Voi, il mondo
non ha bisogno della parola scritta né da
Voi né da altri prima di Voi. I computer
intendono la voce. I vostri ingegneri
hanno fatto miracoli in questo. Ogni
entità è in grado di emettere suoni che
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corrispondono a comandi. Le vostre banche
dati suppliscono ogni memoria umana, a
voi non serve conoscere. La vostra
identità è racchiusa nei chip delle
intelligenze artificiali, a voi non serve
coscienza. La vostra esistenza si
ripropone identica da secoli, rigidamente
controllata da elaboratori che
ottimizzano il rapporto fra costi ed
efficienza. Nessun rimpianto per una
entità rottamata, altre uguali
svolgeranno lo stesso ruolo, avranno le
stesse sembianze. Voi non conoscete né la
morte né il tempo, i vostri replicanti
non invecchiano, non si ammalano e non
muoiono. Nessuna emozione potrebbe mai
minacciare il vostro umore, perché nulla
costituisce evento che non sia già stato
previsto e programmato dai vostri
computer.
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Ma un tempo, quando morivano e scrivevano
libri sulla morte e sulla vita, gli
uomini si commuovevano e soffrivano.
Avevano forse un motivo per vivere e per
morire. Io sono l'ultimo di quegli
uomini, vivo e muoio come un fallito,
come uno che mai ha fatto nulla per
essere qualcosa di diverso da chi vive
elemosinando chip e raccontando alla
gente del tempo in cui esisteva il tempo,
che discreto leniva malinconie e
commozioni. Vivo delle parole che altri
hanno scritto e che so leggere e
interpretare. Di esse do sfoggio come
scimmia da circo a chi vuol vedere e
sentire l'uomo che parla, che racconta
storie di uomini che conoscevano la vita
tramite il sesso, e la morte, e il tempo,
che molle si adagiava sulla loro
esistenza. Io morirò senza cloni. Il
magma morbido delle mie membra si
dissolverà nel tempo come cera al sole e
la sabbia del deserto ne raccoglierà i
liquidi; e i vermi, bianchi e tutti
uguali come i vostri replicanti,
pulluleranno e nutriranno rettili e
rapaci. Il sole accoglierà la mia morte
come il gelo ha generato la vostra vita.
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Per voi non esiste morte e non esiste
tempo..."
Distolto da un inquietante brusio, l'uomo
smise di parlare e si voltò verso il
pubblico che, abbandonata la protervia
accusatrice, era preda di sgomento e
confusione. La gente parlottava, tremava,
si abbracciava, additava qualcuno e poi
guardava lontano. Indicava la corte e poi
si guardava intorno cercando conforto o
consensi. I saggi in piedi rivolgevano
inquieti lo sguardo prima al pubblico e
poi verso la corte che, numerosa, si
affollava intorno al trono.
Il suono di una sirena echeggiò
nell'aula, ma non riportò la calma.
Indignato per quella assurda circostanza
il premier si alzò di scatto e,
gesticolando nervosamente, cercò di farsi
strada fra i suoi ministri che ossequiosi
tentavano di rassicurarlo. Raggiunse i
tre saggi e a essi si rivolse con la
collera di chi è costretto a subire
l’altrui incapacità; la voce gli uscì dal
petto concitata e tremante e le parole
vaghe e confuse. Era la prima volta che
succedeva. Si era verificato un guasto
nei cloni. I loro occhi lacrimavano. I
loro corpi sussultavano. Piangevano. Si
commuovevano. C'era stato un guasto,
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catastrofico, epidemico. Un virus aveva
infettato i circuiti, o forse era stato
un sabotaggio. Gli ingegneri del gran
consiglio per la sicurezza sostenevano
che fino all'ultimo nanosecondo che aveva
preceduto la fuoriuscita di liquido dagli
occhi, nessuna variazione energetica era
stata riscontrata nei circuiti. Altra
energia, non registrabile dai loro
apparecchi, li aveva infettati. La
situazione era critica, molto critica e
al momento non si intravedevano né rimedi
né misure d’emergenza.
I cloni, come entità oniriche, presero a
vagare per l’aula emettendo suoni e
lamenti. Qualcuno di loro andava
ripetendo le parole dell’imputato e tutti
i presenti, compresi i dignitari,
parevano subire quell’inquinamento
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emotivo provocato chissà da cosa. E tutti
insieme, e con gli stessi gemiti,
andavano recitando la loro sofferenza.
"È venuto il tempo in cui non c'è più
tempo", disse uno di loro, mostrando le
sue mani che rapidamente diventavano
rugose e deformi "La mia vita la vivrò in
un minuto. Guardate la vita di un clone
malato, un clone malato di vita
condannato a morire." Poi si accasciò per
terra, continuando a invecchiare. Le sue
carni si rattrappirono, si mummificarono,
divennero polvere, poi più nulla. E altri
come lui, e altri ancora. L'imputato si
buttò in ginocchio e a mani giunte iniziò
a proferire parole sommessamente,
ondeggiando con il busto per assecondarne
il suono:
contro la semplicità per la complessità
contro l'uniformità per la
diversificazione
contro i collettivo per l'individuale
contro la politica per la metafisica
contro la natura per l'estetica
contro il progresso per l’eternità1
A quelle parole i tre saggi ripresero il
loro posto sugli scranni davanti
1 Da Ramon Gomez de la Serna “Dalì” Arnoldo Mondadori Editore – La mia lotta, litania attribuita al pittore liberamente riportata
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all’imputato. Si raccolsero vicini, come
in preghiera, mentre i cloni ormai in
decomposizione, si spargevano per l’aula
accompagnati dal rimpianto di un
esistenza bruciata per un attimo di
libertà.
I pochi rimasti, o sopravvissuti, si
rifugiarono accanto all’elefante di
marmo. Più nessuno parlava, più nessuno
gemeva. Solo polvere e silenzio. I tre
saggi si levarono e uno dopo l'altro
percorsero a testa bassa l'aula per
raggiungere anch’essi la parete del
trono. Li si presero per mano allargando
le braccia. Il più vecchio parlò:
"Non è più tempo per il giudizio. Esso si
è compiuto a dispetto di ogni rito. Non è
più tempo della ragione. Questa ha ucciso
se stessa. È tempo di compassione. Sappia
ogni vivente che la salvezza dell'umanità
è la morte: salviamo l'uomo che muore."
P. S. Del premier nessuna traccia oltre
all’anello d'oro confuso in un mucchio di
polvere alle spalle del trono.