LIVIO LAMBARELLI
QUELLA NOTTE DI APRILE
ALL’ELBA
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Serie BIG‐C
Grandi Caratteri, lettura facilitata
QUELLA NOTTE DI APRILE ALL’ELBA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-520-5 Copertina: immagine fornita dall’Autore
Prima edizione Aprile 2013 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
.
A Piero,
che ha già raggiunto la sua meta
Il passato è un incontro imprevedibile:
un’assurda notte di verità
può rivelare il senso della vita
all’uomo che non conosce se stesso
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Un dipinto surreale
Iniziava ad albeggiare e dal mare saliva una leggera fo‐
schia penetrata da guizzi di luce intensa che impedivano
di individuare l’esatto confine tra cielo e mare, entrambi
dello stesso grigiore pallido. Forse con la memoria dei
luoghi o con una fervida immaginazione si sarebbe potuta
afferrare la linea dell’orizzonte, ma Laerte non era mai
stato lì, e pur sforzandosi di mettere a fuoco lo sguardo
all’infinito, non riuscì ad assaporare la visione di quello
spettacolo della natura. Si fermò e parcheggiò l’auto in
uno spiazzo ghiaioso, come gli era stato consigliato.
La scogliera sul lato sinistro dell’insenatura non era battu‐
ta dalle onde già da diverse notti; una calma insolita per la
stagione primaverile. La brezza, che spirando da terra dà
una ripulita notturna ai depositi che il mare lascia sul ba‐
gnasciuga nel corso della giornata, si era esaurita. Ancora
poco e tutto sarebbe cominciato da capo, la brezza di ma‐
re avrebbe ripreso il ciclo quotidiano di inversione delle
correnti. Questa ripetitività era interrotta solo da eventi
più intensi: le mareggiate, che non erano rare nel periodo
primaverile. Dopo quelle, le spiagge si ritrovavano coper‐
te da detriti di ogni genere e la mano dell’uomo doveva
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intervenire a riportare in equilibrio la situazione. Fino alla
prossima mareggiata.
Ma c’erano tratti di battigia di cui l’uomo non si prendeva
cura e l’accumulo di alghe e posidonia delle praterie sot‐
tomarine era tale da formare uno spesso strato vischioso
che rendeva disagevole l’accesso al mare. E pensare che
quelle erano indicate come spiaggette romantiche, per‐
ché difficili da raggiungere, luoghi ideali per gli innamora‐
ti. Ma chi aveva altri pensieri per la mente ci vedeva solo
dei luoghi trascurati dall’uomo. E tali rimanevano fino alla
piena stagione turistica. Nell’isola la natura era da sempre
padrona e sceglieva per sé i luoghi più belli.
Allontanandosi di poche centinaia di metri dal mare e pro‐
cedendo verso l’interno, una stradina portava in pieno
ambiente di campagna. Non la solita campagna a orto o
frutteto, vite e vecchi olivi, come si vedevano nei dintorni.
L’opera dell’uomo in quell’habitat naturale, se mai c’era
stata, sembrava cancellata. Col tempo la natura si ripren‐
de il suo spazio sovrapponendosi e mascherando ogni ar‐
tificio umano; pietre ordinatamente accumulate, confini a
fico d’india allineati per delimitare piccole proprietà rurali
e proteggerle dagli intrusi, non si distinguevano più. La
natura, spesso più ugualitaria dell’uomo, concede o im‐
pedisce l’accesso a chiunque, senza guardarlo in faccia,
senza chiedersi chi sia: il proprietario o uno straniero ap‐
pena sbarcato sull’isola. La natura mal si piega al concetto
umano di proprietà. Di conseguenza, dei vecchi confini
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poderali segnati sulla Mappa Catastale che Laerte aveva
portato con sé, non era rimasto alcun tratto distinguibile,
a parte la stradina.
Dall’inizio della strada si intravedeva una vallata profonda
in progressiva salita e, sullo sfondo, delle alture boschive
di leccio e corbezzolo, senza la minima traccia di abitato.
Proseguendo, sotto la chioma di un pino domestico cre‐
sciuto a dismisura e circondato da cespugli ed erbacce,
Laerte notò un grosso cumulo, la cui sagoma era a mala‐
pena individuabile. La massa poteva richiamare una cata‐
sta di legna da ardere, così com’era coperta di teli sfilac‐
ciati, dai colori svaniti che sfumavano dal grigioverde
dell’erba al marrone del terriccio che circondava il cumu‐
lo, un aspetto quasi mimetico. Alcuni teli stracciati erano
in parte stati scostati dal vento così da lasciar intravedere
che sotto vi era effettivamente del legname.
A guardare meglio, anche se non ne valeva la pena, si po‐
teva individuare una forma allungata, di una decina di me‐
tri. La superficie era vagamente concava per il fatto che
alcuni teli non sembravano poggiare su una base solida,
facendo appunto conca e trattenendo nel mezzo
dell’acqua, probabile condensa di rugiada, dal momento
che da un po’ non pioveva. Vari spuntoni trasparivano dal‐
la sagoma dando l’idea che, se di legname si trattava, non
era stato accuratamente segato e accatastato, ma butta‐
to lì alla rinfusa e coperto da chissà quanto tempo.
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Laerte per sua natura non era curioso perciò tirò diritto
per la stradina, considerando che il tempo prima perso a
osservare il mare, senza trarne alcuna soddisfazione, lo
aveva già a sufficienza distolto dalla sua meta. Doveva ar‐
rivare a un nucleo di casolari disabitati, posti oltre a mez‐
za costa sulle pendici del colle. Il suo compito era preciso:
fare un sopralluogo sulle condizioni di quei ruderi, che un
giorno avrebbero potuto diventare… ma queste erano
solo congetture o al massimo bozze di progetti che non lo
riguardavano personalmente. Lui rappresentava lo studio
dell’architetto Masserano e il suo compito era solo di e‐
seguire il lavoro comandato.
L’ambiente circostante gli mostrava una natura selvaggia
e poco ospitale. Spesso doveva sollevare il piede per non
inciampare nei rovi di mora che attraversavano il cammi‐
no, indice della scarsa frequenza dell’uomo da quelle par‐
ti. Il sentiero non era certo tra quelli indicati per le pas‐
seggiate nelle guide turistiche del C.A.I.. Nei tratti più u‐
midi i canneti spontanei crescevano alti lungo i fossati e
formavano due muraglie ripiegate all’interno, come un
tunnel che a volte impediva di vedere il cielo. Chi fosse
stato mosso dal desiderio di vivere la natura, quella che
ancora può farci meravigliare di esservi immersi al pari di
ogni altro animale del creato, sarebbe rimasto entusiasta
dell’avventura. Ma lui si era immaginato un ambiente di‐
verso.
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Laerte proseguiva senza il bisogno di consultare la mappa
che gli avevano fornito, tanto non c’era modo di sbaglia‐
re. Lungo la stradina, divenuta ora sentiero in progressiva
salita, non aveva incontrato alcun bivio, né scorgeva al‐
cunché di interessante da fargli distogliere nuovamente lo
sguardo.
Era in cammino da quasi un’ora quando iniziò a notare
tracce di muretti di contenimento in pietra a secco a pochi
metri dal sentiero, seminascosti da arbusti di corbezzolo.
Questi rudimentali terrazzamenti, segno di antica antro‐
pizzazione, indicavano che non doveva mancare molto
all’arrivo.
Ma invece di accelerare il passo, come chiunque è vicino
alla meta, Laerte rallentò fino a fermarsi perplesso, quasi
smarrito. Gli si era improvvisamente parata innanzi
un’immagine inconsueta, uno scorcio illuminato da un
sottile raggio di luce che penetrava tra i rami degli alberi
circostanti e falsava i colori di quei vecchi muri, rendendoli
surreali, come in un dipinto macchiaiolo ad acquerello. Il
verde del muschio diveniva azzurro evanescente, poi vio‐
letto e sfumava nel rosa. Laerte non si era fermato per
osservare meglio la scena, per la quale non provava alcun
interesse, era stata la sua inattesa reazione di stupore a
farlo arrestare inconsciamente. Quasi fosse un pittore
concentrato a sfruttare l’istante, il guizzo di luce irripetibi‐
le, per scolpire esattamente quella luce e quei colori nella
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propria mente e restituirli poi intatti sulla tela, filtrati so‐
lamente dai propri sentimenti.
Un dipinto surreale; ma lui non era un pittore e questa
sensazione, mai provata prima, lo sconcertava e lo rende‐
va nervoso. Forse prima di allora non aveva mai osservato
la natura con quegli occhi. In circostanze analoghe, nei
vari luoghi incantevoli d’Italia che pure aveva visitato, non
gli era mai capitato di soffermarsi a osservare l’ambiente
con la stessa intensità, con una sensibilità che gli era e‐
stranea, lasciandosi quasi rapire, immerso nella natura al
di là della propria consapevolezza. E per un essere razio‐
nale la perdita di consapevolezza, anche se momentanea,
può ben suonare come un segnale di allarme. Ma quella
sensazione, che gli metteva ansia, portata a livello co‐
sciente stava già pian piano svanendo, lasciando il posto a
un semplice disagio, un leggero fastidio come quando si
cede involontariamente a una debolezza, ma ci si promet‐
te subito di non ricaderci.
Poi, in fondo, di quell’attimo non era rimasto niente, no?
Forse non lo aveva neppure vissuto. Oppure era il caso di
interrogarsi più a fondo? Da ragazzo non aveva mai mani‐
festato grande fantasia, sensibilità o attitudini artistiche.
Pochi stimoli, forse, e nessuno che lo avesse mai incorag‐
giato le poche volte che, preso da entusiasmo, dava sfogo
allo stupore ingenuo di bambino. É pur vero che aveva
studiato architettura, e con ottimi risultati anche, ma non
era stata la passione a spingerlo. La sua conoscenza del
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disegno tecnico e artistico non era da mettere in dubbio,
ma quella sensibilità improvvisa per la natura non era da
lui, così freddo e razionale, così compenetrato negli am‐
bienti mondani e affollati che solo una metropoli possie‐
de. Un vita veloce e piuttosto superficiale. Tutt’altro tipo
di stimoli!
E se fosse stata una reazione alla solitudine in cui si era
trovato improvvisamente immerso, a giocargli un brutto
tiro? Probabile, solo un momento di debolezza.
Guardò l’orologio ed ebbe l’impressione di essersi attar‐
dato già troppo, sebbene non potesse valutare a priori
quanto tempo avrebbe impiegato, giunto sul posto, a
portare a termine la missione. Forse bastavano due o tre
ore. Non aveva intenzione di fermarsi per tutto il pome‐
riggio; non aveva con sé nulla per il pranzo e non poteva
pensare di trovare un trattoria in quel luogo disabitato,
anzi abbandonato. Ecco sì, questa era la giusta definizio‐
ne. E man mano che procedeva capiva sempre meglio che
quello era un posto abbandonato da Dio.
E perché proprio a lui era toccato di andarci? Un lavoro
come un altro, di routine per un giovane architetto. In ef‐
fetti l’affare lo stava trattando direttamente il titolare,
l’architetto Masserano, ma all’ultimo momento
un’indisposizione improvvisa lo aveva costretto a rinun‐
ciare al viaggio. E lui doveva sostituirlo, anche se si sareb‐
be potuto pensare a un rinvio. Masserano non aveva vo‐
luto sentire ragioni ed era stato piuttosto laconico nel
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fornirgli spiegazioni; una mappa in dotazione e
l’indicazione dei dati che doveva riportare. Non occorreva
altro. Tutto era già prenotato: viaggio, soggiorno, e
l’onorario era di tutto rispetto! Laerte non aveva chiesto
neppure chi fosse il committente. Capiva che ci doveva
essere dietro un buon cliente, uno di quei pezzi grossi che
non amano essere nominati, un affare sicuramente molto
riservato. Non era sua abitudine porre domande. Il mon‐
do della compravendita fondiaria e immobiliare gli era
piuttosto estraneo e antipatico, preferiva la progettazio‐
ne, concreta e costruttiva.
E poi, se il progetto fosse andato in porto, Masserano
gliene avrebbe di certo parlato al momento opportuno.
Non era la prima volta che si comportava così con lui, la
differenza di età e di ruolo glielo permettevano. In fondo
Masserano era il suo capo e il suo mentore, a lui doveva
essere grato per la posizione che aveva raggiunto, e per
molto altro ancora.
Quando, dopo la lunga marcia, resa più pesante dalla ripi‐
da salita e dalla borsa che portava a tracolla, Laerte giun‐
se in vista di ciò che rimaneva dei casali, rimase deluso e
fu invaso da un senso di tristezza. Tanta fatica per arrivare
fin lì, non ne valeva la pena.
Oltre che per dovere, aveva accettato di andarci renden‐
dosi conto che una giornata all’aria aperta, in mezzo ai
boschi, chi vive in una grande città non ha il diritto di rifiu‐
tarla. Anzi, la coglie come occasione di vacanza. Ma la
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passeggiata, meno ritemprante del previsto, era già finita
ed era arrivato il momento di pensare al lavoro, conclude‐
re e andarsene al più presto.
Prima ancora di guardarsi intorno aprì istintivamente la
borsa e controllò gli strumenti di misura, la macchina fo‐
tografica con la dotazione di obiettivi e le carte. Non sen‐
tiva più molta attrazione per quella sua vecchia reflex che
gli aveva regalato tante emozioni da ragazzo; ormai era
carente di soggetti ed era diventato restio a trovarli nel
mondo della natura. Poi alzò lo sguardo, incerto da dove
cominciare. Di pareti ancora in elevato se ne vedevano
poche, sembravano solo quattro ruderi cadenti, ma forse
gli edifici erano di più, essendo difficile dalla sua posizione
valutare a occhio, tra la vegetazione aggressiva, la pre‐
senza di opere murarie.
Quello che gli importava era di definire con una certa pre‐
cisione i perimetri e i confini degli edifici rimasti, stimando
per quanto possibile le cubature originarie, per abbozzare
una nuova mappa. Le mappe del luogo in suo possesso
erano infatti molto approssimative e parevano rimaste
ferme al Catasto Granducale Leopoldino di metà Ottocen‐
to, non riscontrandosi neppure le annotazioni tipiche del
Catasto Fascista (dal 1929 fino ai successivi censimenti dei
suoli e delle unità poderali fino al 1939). Tra allora e oggi
c’era comunque stata di mezzo la guerra che poteva aver
cambiato il volto di quel paesaggio.
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I riferimenti sul terreno, già labili all’origine, erano prati‐
camente introvabili. Quanto era potuto cambiare quel si‐
to così isolato? Il mondo esterno era in realtà cambiato e
di molto, ma lì, in quel luogo, il tempo sembrava essersi
fermato proprio all’ultima guerra. Sì, le tracce di crollo più
macroscopiche non potevano essere causate solo dal
tempo, ma portavano segni di una distruzione non casua‐
le, di incendio, devastazione e abbandono.
Era proprio quella parola, “abbandono”, che gli risuonava
nella mente, arrivando fino allo stomaco e provocando un
certo malessere. Laerte si riteneva poco sensibile ma al‐
cune situazioni, come quella ad esempio, riuscivano a
coinvolgerlo e a provocargli uno stato di inquietudine.
Dopo un quarto di secolo, all’incirca la sua età, le macerie
apparivano come ferite ancora aperte, vive e dolenti. Le
travi bruciacchiate sembravano aver smesso da poco di
fumare ed emanavano ancora un odore ripugnante; cal‐
pestando quelle cadute sul terreno e in parte sprofondate
nel terriccio molle, gli sembrava di violare l’intimità vergi‐
nale di un riposo eterno, che lì aveva eletto dimora. Ecco,
il senso di inquietudine ora stava assumendo una sua ra‐
gione profonda. Laerte ebbe per un istante un’orribile
sensazione di morte, come vi fossero cadaveri ancora gia‐
centi, insepolti lì sotto i suoi piedi, sotto quelle povere
macerie. Il senso del macabro lo stava pervadendo facen‐
dogli nuovamente perdere di vista la ragione, così logica e
materiale, per cui era giunto in quei luoghi. Nulla lo legava
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a quelle macerie, nulla lo tratteneva né lo costringeva a
provare alcun sentimento di pena per una storia che non
conosceva.
Scrollò la testa come per farvi uscire quei pensieri molesti
e si guardò intorno alla ricerca di un punto cospicuo che
corrispondesse alle annotazioni della Carta. Gli bastava
individuarne almeno uno, uno solo, per iniziare le misura‐
zioni e terminarle al più presto. Ma la strana sensazione di
essere osservato lo distolse nuovamente.
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Un gesto per comunicare
Franz era vecchio ma nessuno sapeva quanto e a nessuno
importava saperlo. Viveva da anni isolato dal resto del pa‐
ese ed era ignorato da tutti, come se non fosse mai esisti‐
to. Nessuno passava più da quelle parti. Gli anziani del po‐
sto sapevano il perché, ma non gradivano raccontarlo. A‐
gli estranei e ai bambini che facevano domande bastava
far sapere che ci viveva Franz, un tipo strano. Uno fuori di
testa, forse pericoloso, meglio stargli alla larga.
Lui non faceva che avvalorare questa tesi con un compor‐
tamento scorbutico e minaccioso ogni volta che vedeva
comparire nei paraggi qualcuno, di solito cacciatori o ra‐
gazzi in giro per i boschi che gli gridavano: “Franz! Ka‐
putt!” senza saperne il perché, e gli tiravano pietre, ben
sapendo che non sarebbe stato in grado di rincorrerli.
Da giovane Franz era soprannominato “Nettuno”, ma ora
tutti si erano scordati anche del suo vero nome e del suo
intrepido ruolo, per il quale era stato invidiato da molti e
corteggiato dalle belle ragazze; era stato un sommergibi‐
lista.
Franz era solo il soprannome dispregiativo con cui i pae‐
sani sparlavano di lui. Ormai lo portava con orgoglio, co‐
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me guardava con fierezza quelle case semidistrutte e ab‐
bandonate che ora costituivano tutto il suo mondo. Lì ci
viveva, di lì non usciva mai. Non sentiva il bisogno di in‐
contrare nessuno.
Unica eccezione al suo isolamento erano gli incontri con
colui che garantiva la sua sopravvivenza. Un tipo più stra‐
no di lui, un pugile suonato, il cui vero nome coincideva
con il soprannome: Carlomagno. Per tanta che fosse la
fantasia dei suoi concittadini, per lui non c’era sopranno‐
me in grado di spodestare il suo nome vero. E l’avevano
battezzato così perché era nato di sei chili e grosso era
rimasto, cresciuto nel fisico come un gigante, ma piccolo
nell’animo come un bambino. In paese tutti lo temevano
e lo evitavano. Proprio a lui che non aveva mai fatto male
a nessuno… se solo qualcuno si fosse degnato di cono‐
scerlo personalmente lo avrebbe classificato nella catego‐
ria evangelica dei “puri di cuore”, nel senso che era del
tutto privo di quella sana dose di malizia che permette a
un essere umano di ritagliarsi il suo spazio vitale nella
giungla della società. Infatti non ci era riuscito.
La forza, quella non gli mancava. Fin da ragazzino si era
guadagnato da vivere come manovale alla miniera. Poi, da
giovane, a prendersi botte come pugile, nel ruolo che il
suo fisico mastodontico gli aveva appiccicato addosso. E
quando non fece più cassetta lo scaricarono. Ma nella sua
semplicità viveva senza rancori verso nessuno, anche se la
sua faccia mostrava una perenne smorfia che sembrava di
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rabbia e metteva paura non solo ai bambini. Portava il se‐
gno irreversibile del tragico incontro che aveva messo fi‐
ne alla sua misera carriera. Grande, grosso, paurosamente
brutto, era vittima delle leggende che si erano diffuse sul
suo conto.
Carlomagno ritirava puntualmente, per delega, la pensio‐
ne di Franz dalla banca del paese e, all’incirca una volta a
settimana, gli portava a spalle un prezioso carico: i viveri e
le bevande preferite, alcuni sigari, i giornali della settima‐
na passata e l’olio per le lampade. Franz gli lasciava libe‐
ramente gestire parte dei soldi che avanzavano, anche lui
aveva il diritto di vivere! Carlomagno non aveva grandi
pretese ma non aveva alcun sussidio, mentre Franz gode‐
va di una discreta pensione, certamente eccessiva per le
sue esigenze. Franz si sapeva accontentare, e a suo modo
anche lui viveva una serenità interiore che nessuno a‐
vrebbe sospettato, poiché lo credevano un individuo me‐
schino e abietto.
Carlomagno e Franz non avevano bisogno di tanti conve‐
nevoli. Il primo non riusciva quasi a parlare a causa della
mascella rotta e malcurata. Le sue poche parole, lo stret‐
to necessario, uscivano spesso sconnesse e incomprensi‐
bili ai più. Solo Franz, per abitudine, le interpretava al volo
leggendogliele sulle labbra e quel che non capiva lo sup‐
pliva con la fantasia, tanto i loro brevi discorsi rimanevano
sempre a mezzo e non avrebbero cambiato di una virgola
le loro vite neppure se correttamente intesi. E le risposte
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erano sempre di maniera, cortesi, anche se spesso scorre‐
late dalle domande.
Franz era decisamente sordo da un orecchio, anzi il padi‐
glione non ce lo aveva quasi più, sembrava gli fosse stato
tagliato di netto. Correvano varie voci sull’incidente in cui
aveva perso l’orecchio, ma erano tutte maldicenze prive
di fondamento, poiché quel fatto non lo aveva mai rac‐
contato a nessuno. E se mai ci fossero stati testimoni ocu‐
lari, di certo avrebbero fatto in modo di non ricordare
l’accaduto!
Né Franz né Carlomagno sentivano la necessità di parlare,
né per fare domande, né per esternare la propria visione
del mondo, tantomeno per lamentarsi o per imprecare
contro il governo o contro quel destino che li aveva e‐
marginati. Eppure avrebbero avuto entrambi molte ra‐
gioni per lagnarsi del mondo. Si guardavano negli occhi
giusto il tempo di fumare insieme mezzo sigaro a testa,
poi Carlomagno, ripresa la cesta vuota, se ne andava col
suo passo pesante, così come era venuto, e Franz riscom‐
pariva per rinchiudersi nei suoi antri bui.
Quella mattina Franz era comparso come dal nulla. Si
muoveva silenzioso incontro a Laerte, ma senza guardare
verso di lui. L’andatura era ciondolante e piuttosto ridico‐
la, come se calzasse scarpe molto più lunghe del suo pie‐
de. Un passo dopo l’altro gli si avvicinava.
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Era un vecchio demente perso nel bosco? O un contadino
in cerca di legna da ardere? La sua zazzera biancastra e in‐
colta che si fondeva in una barba altrettanto incurata lo
mostravano come persona trasandata, ma innocua. Basso
di statura, gli occhi piccoli e il naso pronunciato. Lo sguar‐
do però non si riusciva a penetrare. Gli potevi dare tra i
settanta e gli ottanta anni. Laerte non era preoccupato
per quella presenza, solo un po’ infastidito. Era il padrone
del terreno? Avrebbe dovuto rendergli conto di quello che
stava facendo? Si sarebbe sparsa la voce in giro? Era pro‐
prio ciò che gli avevano caldamente consigliato di evitare.
Discrezione, soprattutto con la gente del posto! Gli isolani
sono diffidenti, gelosi della loro terra, sempre pronti a fa‐
re storie con gli estranei; era tutto ciò che gli avevano in‐
segnato preparandolo al viaggio. Stava pensando quale
scusa accampare… ma poi di cosa doveva scusarsi?
Franz intanto proseguiva con la sua andatura buffa e arri‐
vò a circa cinque metri da lui; ma al posto di alzare lo
sguardo lo scansò con una mossa, facendosi da parte, per
andare a sedersi su di un masso piatto alcuni metri di lato.
E da quella postazione continuò a ignorarlo. Una mossa
dall’apparenza irrazionale. Estrasse dalla tasca mezzo si‐
garo ben tagliato e un fiammifero di legno che strofinò
sulla pietra con gesto abituale. Poi, acceso il sigaro, dopo
due lunghe tirate se lo tolse di bocca, e dopo aver scosso
la cenere roteandolo sul masso, lo rivoltò guardandolo at‐
tentamente e se lo reintrodusse in bocca ma dal lato ac‐
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ceso, senza accennare la minima smorfia. Subito emise
una nuvoletta di fumo dal naso e i suoi occhietti si illumi‐
narono, come un bambino che fa una bravata, un gesto
impertinente che dimostra sprezzo del pericolo, un modo
per apparire adulto. Poi estrasse di bocca il sigaro umido
con un leggero sogghigno e rimase immobile. Laerte non
smetteva di osservarlo sconcertato. Quell’omino barbuto
non sembrava pericoloso. Probabilmente era solo un po’
fuori di testa. Poi pensò. E se il suo comportamento fosse
un modo per attrarre l’attenzione su di sé, vincere il disa‐
gio nei confronti di un estraneo, un gesto per comunica‐
re?
D’improvviso Laerte si meravigliò dei suoi spunti da psico‐
logo dilettante. Di abitudine, non analizzava spesso
l’animo umano o il comportamento altrui, eppure in quei
gesti vi lesse subito una captatio benevolentiae1, una of‐
ferta di pace. Allora Laerte realizzò che toccava a lui tro‐
vare una via per uscire da quella situazione di imbarazzo
reciproco; doveva rispondere al vecchio con un gesto al‐
trettanto distensivo.
Una situazione così fuori dai canoni comportamentali non
gli era mai capitata, ma la scenetta che si andava compo‐
nendo gli sembrava quasi divertente. Pensò allora di ri‐
spondere con un gesto, imitando il vecchio, come fanno
le scimmie. Adocchiò un ripiano, un davanzale di finestra
che i crolli circostanti avevano abbassato a poco più di un
1 Si dice di azioni fatte esplicitamente per attirarsi la simpatia di qualcuno.
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metro da terra e vi si accostò con un leggero ma rapido
balzo, in modo da incuriosirlo creando sorpresa, preve‐
nendo una reazione immediata del vecchio. Poi, sedutosi,
estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca e se ne mise
una in bocca, fermando la scena così, immobile, in quella
posizione di attesa. Passarono secondi, forse minuti di ge‐
lo, l’imbarazzo tornava a farsi sentire. E adesso cosa sa‐
rebbe successo?
Franz, apparentemente incurante delle sue mosse, ora
sollevò lo sguardo verso di lui e, come se conoscesse la
battuta successiva, tratta da un preciso copione, riprese
l’iniziativa. Si tolse lentamente dalla bocca lo spezzone di
sigaro sbavato da entrambi i capi e lo protese verso di lui
mostrandone la parte fumante. Un dialogo muto appeso
a un filo di fumo. Un protocollo di comunicazione il cui
codice, ignoto a priori a entrambi, andava via via rivelan‐
dosi nell’abbozzo di un rapporto non verbale. Un solo ge‐
sto inappropriato e sarebbe svanita l’ombra di quel tenue
dialogo che si era faticosamente avviato.
Dopo un momento di riflessione, Laerte capì che era ve‐
nuto nuovamente il suo turno. Sapeva come rispondere.
Era il caso di alzarsi e avvicinarsi a lui in segno di accetta‐
zione dell’offerta. E così fece. Accesa la sigaretta contro il
sigaro tremolante e puzzolente gli si sedette di fianco. Le
limitate dimensioni del masso lo costrinsero ad avvicinarsi
oltre limiti che avrebbero potuto mettere in imbarazzo
anche conoscenti di vecchia data. Da quella posizione di‐
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veniva impossibile guardarlo in viso. Sentiva solo un pro‐
fondo odore di rancido, talmente intenso da coprire il
puzzo emanato dal sigaro.
Il vecchio non si scostò, ma questa volta non sembrava
dare il pur minimo cenno di voler prendere la parola. La
risposta di Laerte era andata al di là delle aspettative? Si
era preso troppa confidenza?
Laerte non resistette oltre e decise di cominciare a parla‐
re.
«Scommetto che siete voi il padrone di questo villaggio.»
Temeva di aver usato un tono canzonatorio e di aver già
compromesso sul nascere ogni possibilità di prosecuzione
del dialogo. E per prevenire una risposta brusca proseguì:
«Mi dovete scusare se mi sono addentrato tra queste ca‐
se, credevo non fossero abitate.»
Ancora silenzio, ma la risposta era lì per arrivare.
«Parlate più forte, giovanotto! Eh, scommettere, scom‐
mettere… eh, non fate bene a scommettere, o mio gio‐
vane foresto, oggiù! Non ci si deve mai far guidare dalle
apparenze, bisogna andare dritti al nocciolo delle cose, al‐
la sostanza! Osservare bene per capire… che non vuol di‐
re solo farsi un’idea vaga, ma mettersi nei panni degli altri.
Quanti fastidi si potrebbero evitare se non foste tutti così
superficiali… e diffidenti.»
Pausa. Ma pareva una sospensione breve, forse per pren‐
dere fiato o per scrutare le reazioni del giovane. Cercava
di metterlo in soggezione? Di incutergli timore?
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Laerte pensò che era il caso di fermarlo intervenendo a
sua volta, ma con quali argomenti? Il vecchio era andato a
ruota libera, blaterava cose senza un nesso… però a mo‐
do suo con una certa logica, anche se non era chiaro a co‐
sa si riferisse. Non sembrava del tutto pazzo e mostrava
anche una certa proprietà di linguaggio, non certo da
mentecatto né da boscaiolo. Se non era il padrone, che ci
faceva lì? Provò a incalzarlo con una banale affermazione
interrogativa.
«Dite bene signor…?»
«Franz, chiamami pure Franz e basta, come fanno tutti, ci
sono abituato, non me la prendo, tanto…»
Venne così il suo turno dei convenevoli, formali e stringa‐
ti.
«Mi chiamo Laerte, vengo da Milano. Faccio l’architetto e
amo visitare luoghi solitari.»
Una verità e una bugia. Non gli conveniva scoprirsi trop‐
po. Si rendeva conto che stava scandendo quelle parole in
modo innaturale, come si trattasse del primo incontro con
un extraterrestre.
Per colmare il successivo silenzio, proseguì sullo stesso
tono, sebbene si sentisse tra il ridicolo e il provocatorio.
«Mi piacerebbe avere notizie su queste “case tradiziona‐
li”. Che peccato lasciarle andare in rovina… una cultura
che va scomparendo…»
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Troppe banalità da bere tutte insieme? Ne ottenne come
risposta una concessione accompagnata da un monito di
cui non riusciva bene a capire il senso.
«Se siete qui per vedere guardate, guardate pure, ma non
giudicate. Sono troppi quelli che giudicano senza cono‐
scere, non ne sopporterei uno in più. Andate dove vi pare,
laggiù c’è l’acqua che zampilla; è la mia fonte. Bevetene
pure liberamente, è acqua bona…» per mantenere le di‐
stanze era tornato al voi.
Laerte volle ancora giustificarsi per non lasciare
l’impressione di avere secondi fini «Siete molto gentile si‐
gnor Franz. Vorrei fare qualche fotografia, prenderò degli
appunti. Magari poi scriverò un articolo, chissà… la cosa
vi interessa?»
Ma Franz era già assorto in altri pensieri.
«Non mi interessano queste cose, e adesso ho altro da fa‐
re. Ma voi, ve l’ho già detto, fate quello che vi pare e non
curatevi di me.»
Non c’erano più argomenti per continuare. Bruscamente
Franz si alzò e se ne andò con la stessa andatura ciondo‐
lante con cui era venuto. Uno gnomo apparso e scompar‐
so nel bosco incantato; un sogno, un’allucinazione? Era
tutto reale.
Durante la breve conversazione, fissi fianco a fianco, i due
non avevano mai potuto, né forse voluto, guardarsi in
faccia. Non si erano incontrati di proposito. Due esseri
umani, né l’uno né l’altro di carattere così aperto da fami‐
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liarizzare al primo incontro. Tanto più in un luogo fuori dal
mondo, un posto isolato dove la natura sembrava avvol‐
gere ciascuno come in un involucro protettivo che agisce
da barriera verso ogni suo simile, mostrandolo al pari di
un intruso, se non di un nemico.
E Laerte si sentiva l’intruso di turno, avendo percepito
dagli atteggiamenti del vecchio che la sua presenza in
quel luogo non poteva essere gradita. Ma aveva fatto del
suo meglio per ridurre il reciproco disagio. In fondo quel
colloquio abbozzato non aveva dato né tolto nulla; ognu‐
no conservava la propria privacy. Perfetti estranei erano e
tali erano rimasti.
Laerte non aveva trovato come replicare al vecchio che
già gli voltava la schiena e si stava allontanando, ma non
ce n’era bisogno. Così com’era iniziato, il dialogo si era
concluso. Ma sì, tutto era andato per il meglio! Due con‐
venevoli rassicuranti… questione risolta, la curiosità è
appagata e si riprende il lavoro senza intoppi.
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Un groviglio di radici
Per trovare un punto cospicuo che avesse un senso con‐
creto per iniziare il lavoro ci mise parecchio. Tempo speso
a guardarsi intorno. Nulla era come sulla carta. Alla fine si
decise e scelse un masso affiorante, un grande masso, co‐
sì grande che pareva giacere sul luogo da sempre tant’è
che vi poggiava il muro portante di un basso fabbricato,
probabilmente una stalla ormai priva di tetto.
Si fece largo tra le erbacce, si avvicinò e ripulì una piccola
porzione del masso sul piano orizzontale per incidervi un
segno di riferimento accostato al piede del muro. Per po‐
sizionare quel punto sulla mappa dovette riferirlo a un
fosso, un rivolo d’acqua che scorreva a pochi metri; quello
era l’unico elemento consistente, indicato sulla carta co‐
me “rivo”, sempre che nel tempo non avesse deviato il
proprio corso. Come primo riferimento andava bene; poi,
se avesse trovato un punto coerente con la carta, si sa‐
rebbe potuto traslare il tutto facilmente.
Per eseguire la ricognizione perimetrale ci volle più tem‐
po. Non era per niente agevole trovare un passaggio per
girare con continuità intorno ai resti delle case. Le pietre
di crollo, sparse in ogni direzione, rendevano difficile ogni
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spostamento e sarebbe stato utile avere un machete per
liberare il passaggio dai rovi.
Un rilievo di tipo solo fotografico non era sufficiente. Do‐
veva arrangiarsi. Prima fotografava, poi piantava un pic‐
chetto, agganciava e svolgeva il nastro misuratore, quindi
un nuovo picchetto; poi annotava misura e angolazione
con riferimento alla foto, quindi era costretto a tornare
sui suoi passi per recuperare il picchetto, e via così. Da so‐
lo e in quell’ambiente dalla visibilità limitata, non poteva
usare metodi più sofisticati.
Aveva cercato di dirlo al suo capo che ci sarebbe voluto
almeno un collaboratore. Ma il parere dell’architetto
Masserano era stato inspiegabilmente secco e negativo.
Per un attimo Laerte pensò che il vecchio Franz avrebbe
potuto dargli una mano. La fortuna glielo aveva fatto in‐
contrare! Avrebbe anche potuto chiedergli delle indica‐
zioni toponomastiche, magari venire a conoscenza delle
ragioni dell’abbandono di quel luogo, identificare i manu‐
fatti più importanti e il loro uso originario. Ma no, gli a‐
vrebbe di certo fatto domande su cosa stesse facendo.
Meglio non rivederlo più.
Aveva caldo. Un capo alla volta si era tolto giubbotto,
cravatta, gilet, e aveva arrotolato le maniche della cami‐
cia. Qualche graffio alle braccia era già riuscito a procurar‐
selo. Ma come gli era venuto in mente di partire con
l’abito da riunione? E con quelle scarpette a suola di cuoio
liscia da prima comunione?
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Eppure aveva messo in valigia qualcosa di più appropria‐
to, ma aveva finito per lasciare tutto in albergo. Era uscito
la mattina senza riflettere un istante, come per fare due
passi, un giro in centro città. Aveva sottovalutato
l’ambiente. Non aveva la stoffa dell’esploratore, dunque
neanche l’abito adatto.
Intanto il tempo passava e il lavoro iniziava a dare qualche
frutto. Aveva già riempito alcune pagine di dati e schizzi.
Guardava compiaciuto quelle bozze, ma non riusciva an‐
cora a coglierne un risultato d’insieme.
Ormai era chiaro; l’area era circoscritta ma la mappa an‐
dava proprio rifatta da zero con i nuovi dati che aveva
raccolto. Un lavoro da ufficio. Poi col Catasto, le vecchie
mappe e i vari problemi burocratici se la sarebbe vista
qualcun altro. Di certo c’erano in ballo cose grosse, che
avrebbero richiesto ulteriori approfondimenti se l’idea,
come era facile immaginare, era di acquisire tutto il com‐
prensorio. Non osava neppure stimare il valore di un simi‐
le business e quanto bisognasse essere immanicati con le
amministrazioni ai vari livelli di potere.
In quegli anni i progetti per promuovere la vocazione turi‐
stica dell’Isola stavano per convincere poco alla volta an‐
che le forze politiche più ostili, quelle che da sempre si
battevano per un rilancio industriale, nonostante molti
tentativi avessero già dato risultati deludenti. La gente
però rimaneva idealmente legata al lavoro vero, quello di
miniera e degli altiforni. Così era l’Isola. Un’illusione tratta
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dai racconti nostalgici dei nonni, idealizzati nella vecchia‐
ia. Ma i giovani erano pronti alle nuove professioni?
I tempi erano cambiati. Con le nuove disposizioni sul rias‐
setto territoriale molte zone divenivano urbanizzabili, per
edificare strutture residenziali e turistico‐alberghiere. Il
territorio che Laerte stava misurando, dal grezzo aspetto
verginale, sembrava avere tutti i requisiti per una valoriz‐
zazione turistica e avrebbe potuto ad esempio ospitare
alcuni alberghi, un villaggio residenziale o una schiera di
villette signorili. L’Elba in vendita. Nuove opportunità, la‐
voro, soldi. Ma per chi? Se lo domandavano gli abitanti.
Naturalmente occorreva prima di tutto una strada. Poi in‐
terventi burocratici. Il territorio era molto frazionato e
andava ricomposto sotto un’unica proprietà prima di lan‐
ciare una gara per il progetto. Il giovane architetto stava
correndo troppo col pensiero. Sapeva bene che i prelimi‐
nari avrebbero richiesto anche parecchi anni e vari livelli di
intermediazione. All’inizio non era lavoro da architetti, ma
per curatori, avvocati e notai, società finanziarie e pubbli‐
ca amministrazione. Un lavoro sopratutto da faccendieri.
Nessuno di quei ruoli e delle fasi che stava mentalmente
pianificando lo riguardava. Per ora erano solo aride misu‐
razioni, aggiornamenti catastali, chissà quanti altri sareb‐
bero venuti dopo di lui per una miriade di valutazioni,
prima che si potesse spendere qualche parola concreta e
abbozzare un progetto tecnico. Ecco perché non era il ca‐
so di sognare.
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Nell’attimo di divagazione che si era concesso e mentre
tirava le somme del lavoro svolto sentì i violenti richiami
del suo stomaco, che aveva per tutto il tempo cercato di
ignorare. Era digiuno dalla colazione, per di più fatta di
buon’ora. Aveva camminato, lavorato, sudato… e si era
fatto pomeriggio. Aveva ben diritto di riposarsi! Non era il
caso di chiudere lì e tornare alla macchina? Ci avrebbe ri‐
flettuto la sera in albergo mettendo in ordine i dati, ed
eventualmente sarebbe tornato il giorno dopo per una
verifica. Ma solo se necessario.
Decise così di raggiungere la fonte, l’acqua che sentiva
scorrere lì vicino, per darsi una ripulita e togliersi almeno
la sete. Più che per bere, la fonte sembrava meglio adatta
ad abbeverarsi, per il tenue getto che usciva da quel tubo
quasi parallelo al terreno e il fango intorno che recava
tracce profonde del passaggio di fauna selvatica.
Bastava accovacciarsi e protendersi in avanti, come nei
film western. Si arrotolò l’orlo dei pantaloni fino al ginoc‐
chio e fece un ampio passo avanti, puntando una pietra
che doveva fungere, secondo lui, da appoggio. Ma il ter‐
reno molle gli inghiottì il piede, e la caviglia su cui aveva
caricato tutto il peso del corpo rimase impigliata in quella
melma, non molto in profondità ma presa tra un groviglio
di radici. Le sentiva premere sull’osso, maledette radici! Il
film era giunto alla classica scena delle sabbie mobili.
Come uscire da quella situazione? Lo sforzo per estrarre la
gamba non riusciva efficace perché mancavano punti di
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appoggio sul terreno. Le mani sprofondavano e l’altra
gamba, ripiegata con il ginocchio nella medesima melma,
non era di nessun aiuto. Gli veniva da ridere, per
l’imbarazzo e la situazione grottesca.
Calma, bisognava stare calmi. L’unica soluzione sarebbe
stata di chiamare qualcuno. E di qualcuno c’era solo Franz,
se non se ne era già andato lontano. Pensò di mettersi a
urlare, o fischiare, o gridare il suo nome. Calma, era me‐
glio evitare di rivedere quell’uomo…
Calma. Era abituato a far da solo e a usare l’intelligenza
nei momenti più critici. Si guardò intorno. C’era un unico
appiglio, si poteva tentare. Provò ad allungare il più pos‐
sibile il braccio destro per raggiungere il tubo di ferro che
spuntava come dal nulla dal terreno. Lo afferrò e tirò
quanto poteva. Il risultato fu di farne riemergere un mez‐
zo metro prima di incontrare una certa resistenza. Ma alla
fine tenne.
Lo afferrò più saldamente alla base e applicò una lenta ma
continua trazione che per reazione gli permise di ruotare
il corpo, che faceva perno sul piede impigliato. La posizio‐
ne, benché scomoda, era la più favorevole per districarsi,
ma diventava sempre più dolorosa man mano che si ruo‐
tava. Ora bastava avere il coraggio di dare uno strappo
deciso per liberare la caviglia. L’operazione gli costò atti‐
mi di tensione, un conto mentale fino a dieci, poi uno
strappo e un dolore immenso, ma ci riuscì.
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Era fatta, e da solo! Non sapeva se compiacersi per
l’abilità e freddezza con cui era riuscito a cavarsi
d’impiccio, o lamentarsi per il dolore lancinante che non
lo faceva decidere di alzarsi, o iniziare a preoccuparsi per
come la vicenda sarebbe proseguita. E il tenue sorriso di
compiacimento gli si smorzò presto, appena fu in grado di
valutare in modo realistico la situazione. Gli appariva subi‐
to chiaro che comunque non sarebbe stato in grado di af‐
frontare la camminata di ritorno verso l’auto. Almeno non
subito. Il copione del film western a questo punto preve‐
deva che si legasse una stecca alla caviglia e si trascinasse
fuori dal bosco… ma non c’era nessun regista che gli
spiegasse come.
Con braccia e gambe totalmente imbrattate di fango, si
trascinò fino al masso e si tolse scarpe e calze per control‐
lare il danno subìto. La caviglia non presentava ferite su‐
perficiali ma stava gonfiando e il dolore, che rispetto al
momento dell’estrazione si era attutito, si riacutizzava a
ogni tentativo di muovere l’articolazione. Provò ad alzarsi
ma la caviglia non sopportava il peso del corpo. In quelle
condizioni non era proprio pensabile di rimettersi in
cammino.
A questo punto sperava nel ritorno Franz, al diavolo la ri‐
servatezza del lavoro. Gli avrebbe proposto una ricom‐
pensa perché facesse in modo di fargli raggiungere l’auto
o l’albergo… o almeno un telefono per sbloccare questa
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situazione senza via d’uscita. Amara constatazione: i tem‐
pi moderni funzionano solo nei luoghi moderni.
Passò un po’ di tempo, forse un’ora, e miracolosamente
Franz ricomparve come dal nulla. Laerte non aveva prega‐
to né imprecato ad alta voce. Un caso del destino benevo‐
lo.
Franz non impiegò molto a rendersi conto della situazio‐
ne, ma non fece domande. Osservò la caviglia, la tastò
con movimenti che avevano del professionale, attento al‐
le sue reazioni di dolore più o meno intense a seconda di
dove esercitava la pressione delle dita, poi sentenziò:
«Sicché, siamo fortunati, non pare rotta. Pare solo una di‐
storsione, che può diventare cosa seria se riprovi a starci
sopra. Cheffare? Riposo in branda giovanotto, oggiù!»
Poi prevenne i suoi pensieri:
«Non mi chiedere di accompagnarti al piano. Non ce la fa‐
rei a sostenerti per più di qualche metro, non vedi i miei
piedi come sono ridotti? Né possiamo chiamare qualcuno.
Non ci abita nessuno a meno di un’ora, e presto farà buio.
Sicché, mettiti l’animo in pace, sei in buone mani, oggiù,
sei un ragazzo fortunato!»
Laerte non se la sentiva di ribattere e neppure di immagi‐
nare ciò a cui sarebbe andato incontro. Franz lo aiutò a
rimettersi in piedi e, facendosi da appoggio a vicenda, con
fatica si avviarono entrambi barcollando pochi passi più in
là, oltre la fonte.
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Dietro a folti cespugli comparve una costruzione che La‐
erte non aveva notato. Era meno diroccata delle altre ma
bassa. Il tetto piatto, poco inclinato, era ricoperto con la‐
miere, canne e rovi. Un restauro disgustoso alla vista di un
architetto. Ma la base dell’edificio, ancora nelle condizioni
originarie, era costruita, non con pietrame comune, ma
con grandi conci di calcare squadrati e ben assestati che
ne davano un tono, nel suo piccolo, archeologicamente
monumentale.
Si entrava in uno stanzone scendendo tre gradini. La poca
luce entrava da tre finestrelle poste più in alto del norma‐
le, di forma vagamente ogivale e prive di vetri. Nel varcare
quella soglia il vecchio biascicò tra sé qualche parola che
suonava come, ripensandoci poi, “c’abbiamo ospiti, Bet‐
ta!”.
Laerte fu adagiato su di un giaciglio comparso dietro a
una tenda di tessuto pesante.
«É il letto per gli ospiti. Feldbett, brandina da campo, do‐
no del Reich. É come nuova… da quando ci dormì… bah,
‘sta poveretta, che riposi in pace. Che riposino tutti in pa‐
ce, oggiù!»
Da quelle parole Laerte se lo immaginò come un reduce
tedesco rimasto in Italia alla fine disastrosa dell’ultima
guerra:
«Ma lei, signor Franz, non mi sembra tedesco. Il suo ac‐
cento italiano è perfetto, del luogo direi ... toscano, ve‐
ro?»
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«Se ci tieni a saperlo, per la gente io sono come un tede‐
sco, sono Franz. Credono di offendermi, ma io non sono
né tedesco né italiano, sono un essere umano, capisci?
Quando si smetterà di fare di queste distinzioni? Se fossi
tedesco, maledetto il diavolo, che ti avrei fatto? Ti avrei
cavato dal pantano o ti avrei lasciato a marcire costaggiù?
O ti avrei giustiziato a colpi di Mauser, eh? Sono solo un
uomo. E se anche fossi italiano, non potrei forse derubarti
e lasciarti ignudo nel bosco da dove sei venuto? O che ci
sei venuto a fare, foresto, nella mia vita? Da che mondo
vieni?»
«Mi scusi, mi scusi, ma per me non fa alcuna differenza. Se
lei mi aiuta a uscire da questa situazione gliene sarò grato.
Anzi, potrei… certamente, se non si offende …» riuscì a
replicare Laerte impaurito.
«Qui non è un albergo! E Franz non è in vendita! Tanto per
mettere le cose in chiaro. Tu non immagini cosa… mah, è
il passato, anche se non riesco a dimenticare.»
Scese di nuovo il silenzio. Laerte non era affatto tranquil‐
lo. Non sapeva cosa dire per evitare che si alterasse di
nuovo. Era nelle sue mani. Era sempre più convinto che
fosse fuori di testa, sì, uno schizofrenico che alternava
una personalità affabile a una scorbutica. Facilmente ecci‐
tabile e imprevedibile. Poteva diventare violento. Meglio
non contrariarlo, con quella caviglia non avrebbe potuto
andare lontano.
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«Fa male, eh?» il tono di Franz era già tornato normale,
anzi stranamente cordiale, quasi materno «ora ci mettia‐
mo sopra un ottimo rimedio, eh? E domattina sarà tutto
passato. Finisci il tuo lavoro e te ne torni a casa sano co‐
me un pesce. E ti scordi di questa brutta giornata, e di un
vecchio scorbutico come me.»
Poi sparì per alcuni minuti e ricomparve con un rotolo, ro‐
seo e molliccio, che gli spenzolava tra le mani come gela‐
tina, e si mise a svolgerlo con cura e compiacimento. E‐
manava un odore rancido, come di grasso avariato o di
pelle untuosa. Laerte non riusciva a capire cosa fosse e
tappandosi il naso trattenne a stento un conato di vomi‐
to. Srotolata la cosa, Franz gliela posizionò con cura in‐
torno alla caviglia e la fermò con dei lacci. Laerte stando
disteso non poteva vedere l’operazione e subito avvertì
un bruciore superficiale, ma non ebbe il tempo di aprire
bocca per emettere un qualche lamento.
«Brucia, eh? Lo so bene. Non ti preoccupare, la cotenna di
cinghiale al peperoncino fa sempre così. Da anni ne metto
una sulla schiena quando la sciatica si fa sentire. A noi non
serve essere amici del farmacista, nevvero?» e scomparve
nuovamente senza attendere risposta.
Quando tornò aveva in mano una ciotola con liquido fu‐
mante, un infuso di erbe. Come avrebbe potuto rifiutarlo?
Ormai era in sua completa balìa. Appena lo ebbe bevuto
Laerte iniziò a sudare e cadde pian piano in uno stato di
benefico dormiveglia.
Fine anteprima. Continua...