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(testo per esclusivo uso interno: la relazione rispecchia la forma colloquiale e
ovviamente priva di note dell'intervento tenuto da Sr. Lisa Cremaschi,
Comunità di Bose, il giorno 29 ottobre.)
IGNAZIO DI ANTIOCHIA
1. Notizie su Ignazio
Lo storico Eusebio di Cesarea, intorno alla metà del IV secolo, scrive nella sua Storia
ecclesiastica:
“In quel tempo si affermava in Asia Policarpo, seguace degli apostoli, cui fu assegnato dai
testimoni e ministri del Signore l’episcopato della chiesa di Smirne. Contemporaneamente si
distinguevano Papia, anch’egli vescovo della diocesi di Gerapoli, e Ignazio, che, secondo dopo
Pietro, fu vescovo di Antiochia. Narra la tradizione che fu inviato dalla Siria nella città di Roma per
essere dato in pasto alle belve a causa della testimonianza resa a Cristo. Mentre lo portavano
attraverso l’Asia sotto la vigilanza strettissima di una scorta, con prediche ed esortazioni rafforzava
le diocesi in cui si fermava, raccomandando soprattutto di guardarsi dalle eresie che proprio allora,
per la prima volta, iniziavano a diffondersi, e ammoniva ad attenersi strettamente alla tradizione
degli apostoli, che egli, pur offrendone già la testimonianza, per maggior sicurezza stimò necessario
mettere per iscritto” (Storia ecclesiastica III,36,1-4).
Eusebio continua la sua narrazione ricordando le sette lettere scritte da Ignazio nel corso del
suo viaggio verso Roma e di alcune di queste lettere riporta anche degli stralci. In queste poche
righe Eusebio riassume tutto quello che sappiamo di questa grande figura della chiesa primitiva: che
Ignazio fu vescovo di Antiochia, secondo dopo Pietro (in un altro passo, Storia ecclesiastica III,22,
si dice: “dopo Evodia”); che durante un persecuzione in quella regione venne arrestato e portato a
Roma dove subì il martirio. Se ci atteniamo alla datazione della Cronaca di Eusebio, Ignazio subì il
martirio nel decimo anno dell’imperatore Traiano, cioè nel 107-108, ma è verosimile che Eusebio,
secondo un procedimento che gli è abituale, abbia raggruppato a questa data tutte le misure prese da
Traiano contro i cristiani; egli colloca in questo anno anche la lettera di Plinio a Traiano e ha
ipotizzato che Ignazio fosse stato arrestato durante la persecuzione di cui parla la lettera di Plinio.
Non ci possiamo dunque fidare di tale datazione; probabilmente il martirio di Ignazio avvenne più
tardi, verso la fine del regno di Traiano (+117). Altre testimonianze dei padri non aggiungono molto
a queste scarne notizie. Ireneo (Contro le eresie V,28,4) e Origene ne ricordano il martirio (Om. su
Luca 6,4; La preghiera 20; Sul Cantico, prol.); Giovanni Crisostomo in un’omelia tenuta ad
Antiochia per celebrare la memoria di Ignazio afferma che “ebbe relazioni con gli apostoli”.
La tradizione ha conservato un racconto leggendario del suo martirio (composto nel IV o V
secolo). Una leggenda attestata a partire dal IX secolo e diffusa da Simeone Metafraste, agiografo
greco del X secolo, narra che Ignazio fu quel bambino che Cristo prese tra le sue braccia e mise in
mezzo agli apostoli dicendo: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come
bambini, non entrerete nel regno dei cieli perché chiunque diventerà piccolo come questo bambino,
sarà il più grande nel regno dei cieli e chi accoglie anche solo uno di questi bambini in nome mio,
accoglie me” (Mt 18,3-5). Tale leggenda nasce dal nome che Ignazio stesso si attribuisce in tutte le
sue lettere: “Ignazio, detto anche Teoforo”. Ignazio è la trascrizione greca del nome latino Egnatius
da ignis (=fuoco); Teoforo cambia significato a seconda dell’accento. Teofóro significa “portato da
Dio”; Ignazio è il bambino preso e portato da Dio, Ignazio durante la sua vita intera è preso e
portato da Dio. Teóforo, invece, significa “colui che porta Dio”. Nel racconto del martirio si narra
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che Traiano interrogò Ignazio: “Chi sei tu, spirito malvagio, che osi resistere ai miei ordini e
convinci gli altri a fare lo stesso, per cui miseramente muoiono? Chi è Teoforo?” ed egli rispose:
“Colui che porta nel cuore Gesù”. Ignazio è un teoforo; su di lui è stato invocato il nome di Gesù
nel battesimo e porta questo nome, questa benedizione su di sé per diffonderla su tutti quelli che
incontra. Teofori sono tutti i discepoli del Signore; ai cristiani di Efeso Ignazio si rivolge con queste
parole: “Siete compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e di
cose sante” (Efesini 9,2).
Non sappiamo quale fu l’origine della persecuzione contro i cristiani ad Antiochia; dalla
Lettera ai cristiani di Smirne 11,2 veniamo però a sapere che la chiesa di Siria ha ritrovato la pace.
Antiochia era, a quei tempi, una città di notevole prestigio, ricca, cosmopolita, un centro
commerciale di grande importanza. Era la quarta città dell’impero dopo Roma, Alessandria e
Ctesifonte (nell’attuale Iraq). Nel 64 d.C. era diventata la capitale dell’immensa provincia romana
di Siria che si estendeva a nord fino alla Cilicia e a sud fino ai confini dell’Egitto. Se ci atteniamo ai
dati offerti da Giuseppe Flavio, contava un popolazione pari a quella di Roma e di Alessandria, vale
a dire circa mezzo milione di abitanti tra cui molti giudei. Gli Atti degli apostoli raccontano come i
cristiani costretti a fuggire da Gerusalemme dopo il martirio di Stefano, trovarono rifugio ad
Antiochia e formarono una comunità molto vivace (cf. At 11,19-26). Consolidata da Paolo e da
Barnaba, la chiesa di Antiochia ebbe Pietro come suo primo vescovo.
Qual era la posizione giuridica dei cristiani in Asia minore al tempo di Ignazio? La richiesta
ufficiale di direttive sul modo di trattare i cristiani inviata da Plinio il Giovane, divenuto
governatore della provincia di Bitinia intorno al 111, all’imperatore Traiano ci informa che in
queste regioni dell’Asia minore molte persone furono denunciate presso l’amministrazione statale
come cristiane, chiamate in giudizio e condannate a morte se persistevano nel confessare la loro
fede. Plinio ci fa sapere che il cristianesimo ha trovato numerosi adepti sia nella città che nelle
campagne, tra gente di ogni età e condizione sociale. Questi cristiani infrangevano esplicitamente
un’ordinanza imperiale che proibiva ogni associazione e ogni riunione non riconosciuta dallo stato.
Plinio ritiene che “tanta gente potrebbe essere ricondotta al culto degli dèi, se si fosse indulgenti con
quanti si pentono” (Plinio, Lettere 96,7, menzionato in Eusebio, Storia ecclesiastica XXXIII,1-2).
Da questa lettera emerge con chiarezza che ai tempi di Plinio non esiste un’ordinanza
imperiale che possa dirsi normativa per procedere contro i cristiani. Secondo la testimonianza
fornita dalle lettere di Plinio il Giovane, molti cristiani ritornavano al paganesimo; i rinnegamenti,
le apostasie non erano un fatto eccezionale. Nella stessa epoca in cui viene condannato Ignazio,
abbiamo notizia di un altro vescovo martire: Simeone, secondo vescovo di Gerusalemme dopo
Giacomo, che subì la morte all’età di 120 anni sotto l’impero di Traiano. Era piuttosto raro che i
condannati fossero condotti a Roma, tuttavia accadeva che alcuni vi fossero trasferiti e condannati
alle belve nei giochi del circo organizzati per festeggiare le vittorie dell’esercito romano. Insieme a
Ignazio furono martirizzati anche altri cristiani; la lettera di Policarpo ai cristiani di Smirne ricorda
Zosimo e Rufo, che compirono il viaggio verso Roma insieme a Ignazio. I prigionieri, scortati da un
drappello di dieci soldati, godevano di una certa libertà. Ignazio e gli altri prigionieri erano custoditi
dalle guardie, ma potevano ricevere visite. Questo viaggio verso il martirio diventa occasione di
incontro con le comunità cristiane dell’Asia minore.
Il percorso da Antiochia a Roma si snoda attraverso una serie di tappe: da Antiochia è
trasportato via mare sulla costa dell’Asia minore; di qui giunge a Smirne dove è accolto dal vescovo
Policarpo e riceve delle delegazioni inviate dalle comunità di Efeso, di Magnesia e di Tralli. Da
ciascuna di queste comunità giunge il vescovo accompagnato da presbiteri o da diaconi. E Ignazio li
accoglie e, da vero padre e pastore, è attento ai bisogni di ciascuno; a ciascuna di queste chiese
scrive una lettera, in cui ringrazia per la loro vicinanza premurosa, esorta, ammonisce, rimprovera.
Sempre da Smirne, il 24 agosto, scrive una lettera ai cristiani di Roma. Da Smirne è accompagnato
dal diacono Burro che gli resterà accanto fino a Roma. In una seconda tappa a Troade scrive alla
comunità di Filadelfia, alla comunità di Smirne e al vescovo Policarpo. In questa città è raggiunto
da due diaconi che gli annunciano che la persecuzione ad Antiochia è cessata. La sosta a Troade
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non dura a lungo; un ordine improvviso fa immediatamente ripartire la carovana alla volta di
Neapolis, in Macedonia; di qui dovette proseguire il suo viaggio verso Roma. Le ultime notizie che
abbiamo di Ignazio ci sono fornite dalla lettera che Policarpo scrisse alla comunità di Filippi. I
cristiani di Filippi avevano chiesto a Policarpo una copia delle lettere di Ignazio ed egli le inviò loro
accompagnandole con una sua lettera in cui loda la comunità per la premura e l’affetto con cui ha
accolto i cristiani “immagini della vera carità” e per aver accompagnato “quelli che erano legati
dalle sante catene” (Policarpo, Ai filippesi 1,1). Al momento in cui scrive non ha ancora notizie
sicure sulla sorte di Ignazio e dei suoi compagni, si dice però certo “che non hanno corso invano,
ma nella fede e nella giustizia. Sono nel luogo loro dovuto presso il Signore insieme al quale hanno
patito” (9,2). Chiede di essere informato se vi sono ulteriori notizie su Ignazio. “Comunicateci ciò
che di certo venite a sapere di Ignazio e di quelli che sono con lui” (13,2).
Secondo il Martyrium Antiochenum il santo subì il martirio il 20 dicembre dell’anno 107
(più probabilmente tra il 110 e il 118); in quel giorno ancor oggi la chiesa bizantina celebra la sua
memoria. La liturgia latina ricordava il martirio di Ignazio l’1 febbraio, conformemente alla data
fornita dal Martyrium latinum. La riforma liturgica del calendario ha preferito attenersi all’antico
uso di Antiochia che celebrava la memoria del suo santo martire il 17 ottobre. L’unica lettera di
Ignazio che sia datata è quella ai romani che porta la data del 24 agosto; è verosimile Ignazio sia
stato martirizzato il 17 ottobre.
La collezione delle lettere
Scrive Policarpo ai filippesi: “Come ci avete chiesto, vi mandiamo le lettere di Ignazio
indirizzate a noi da lui e quante altre abbiamo con noi. Sono accluse a questa lettera e ne potrete
trarre grande profitto perché esse racchiudono fede, pazienza, e ogni edificazione che eleva al
Signore” (Ai filippesi 13,2).
Una raccolta di lettere di Ignazio si è dunque già costituita poco dopo la sua morte. Quante
lettere comprendeva? Noi possediamo tre recensioni delle lettere di Ignazio: la recensione lunga con
13 lettere, la recensione media con 7 lettere e la recensione breve con solo 3 lettere. Dopo quattro
secoli di accese polemiche e discussioni, la grande maggioranza degli studiosi si è pronunciata a
favore della recensione media, di 7 lettere – quella oggi riportata in tutte le versioni - e ha
individuato nella recensione lunga l’opera di un falsario della seconda metà del IV secolo o
dell’inizio del V. Ma non mancano, ancora oggi, voci discordi che considerano un falso anche la
collezione delle 7 lettere. J. Rius-Camps, ad esempio, in due lunghi articoli del 1977 e 1979,
riconosce come autentiche solo 4 lettere, dalle quali elimina drasticamente tutti i passi che
testimoniano l’esistenza di una costituzione ecclesiale di tipo giuridico e un episcopato monarchico.
Le lettere sarebbero state scritte tra l’80 e il 100 d.C. e Ignazio sarebbe il vescovo di tutta la Siria e
non solo di Antiochia; non sarebbe morto nella persecuzione di Traiano ma si sarebbe offerto
volontariamente al martirio autodenunciandosi alle autorità imperiali come l’unico responsabile di
una sommossa avvenuta nella provincia di Siria per salvare i suoi fedeli. La discussione è stata
ripresa da Robert Joly della Libera Università di Bruxelles; questi afferma che le lettere sono state
scritte poco tempo dopo il martirio di Policarpo, che lui propone di datare nel 161 o poco dopo.
Trova punti non chiari in questi testi. Ad esempio, perché Ignazio non scrive alla sua comunità di
Antiochia? Perché cita tanti nomi di persone ma non ricorda mai per nome dei fratelli di Antiochia?
Perché sembra attirare attenzione, venerazione e simpatia tanto più si allontana da Antiochia? Come
mai non menziona mai i suoi compagni condannati al martirio come lui? Le lettere sarebbero false.
A tali obiezioni, anche se non sempre si possono trovare risposte, si può obiettare che non sappiamo
tutto ciò che riguarda le chiese del II secolo, che probabilmente altre lettere sono andate perdute, che
la chiesa primitiva non era così monolitica come siamo abituati a immaginarla … Perché accenno,
seppur brevemente a tali questioni? Perché la visione che possiamo farci del II secolo cristiano
muterebbe di molto se si datassero queste lettere cinquant’anni più tardi o, ancora peggio, le si
ritenesse opera di un falsario. Ad alcuni, soprattutto in ambito protestante, pare inverosimile che,
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all’epoca di Traiano, la chiesa presenti già un’organizzazione gerarchica così precisa (Ai tralliani
3,1). Purtroppo Ignazio, “uomo di unità”, come egli stesso ama definirsi (Ai filadelfesi 8,1), è stato a
lungo un’occasione di divisione tra le chiese; da parte cattolica ce ne si è serviti per difendere il
primato romano e una ben precisa gerarchia ecclesiastica, da parte protestante si è risposto tentando
di dimostrare che questi scritti erano soltanto opera di un falsificatore.
Il genere letterario
Ignazio scrive delle lettere; ora, mentre l’epistola è una composizione artificiale, che
obbedisce a un particolare genere letterario con le sue leggi, la lettera è uno scritto occasionale,
personale, spontaneo. Le lettere di Ignazio non hanno uno specifico scopo dottrinale, l’autore cerca
di rispondere ai problemi che gli vengono sollevati dall’incontro con i rappresentanti delle diverse
chiese. Ma proprio per il loro carattere occasionale sono un testimonianza preziosissima sulla chiesa
antica in Asia minore. Non sono facili da leggere perché lo stile è originale; il suo greco spesso non
rispetta le regole grammaticali, contiene latinismi; talvolta le frasi sono oscure, lunghi periodi
vengono incominciati e troncati improvvisamente. Tradurre questi testi è difficile; si tratta di
scegliere se riprodurre il testo originale il più esattamente possibile, ma con il rischio di essere
oscuri, o farne una parafrasi, una traduzione meno aderente al testo e più comprensibile.
Le citazioni bibliche sono scarsissime. L’AT è citato esplicitamente solo tre volte: in Efesini
5,3 e Magnesii 12 cita il libro dei Proverbi (3,34 e 18,17) introducendolo con la formula “come è
scritto”; in Trallesi 8,2 cita Is 52,5. Vi sono alcune allusioni, ma in generale sembra conoscere poco
l’AT. Per quanto riguarda il NT, conosce e cita il vangelo di Matteo, fa allusioni a Marco, Luca e
agli Atti, conosce bene il vangelo di Giovanni; delle lettere di Paolo ricorda soprattutto Efesini e
1Corinti.
Lettera agli efesini
Efeso, sede di una delle comunità fondate da Paolo (At 19,1-20,1), tra la fine del I e l’inizio
del II secolo era una delle città più fiorenti di tutto l’impero romano, una metropoli politica e
commerciale dell’Asia minore. Paolo vi era rimasto due anni. Nell’arco di nemmeno trent’anni ben
tre autori diversi indirizzano uno scritto a questa comunità: un discepolo di Paolo intorno agli anni
80, l’autore dell’Apocalisse verso il 95, Ignazio di Antiochia tra il 100-115. Questo fatto, unico
nella storia della chiesa primitiva, costituisce una dimostrazione di grande interesse per questa
comunità ed è un segno della vitalità e dell’importanza che la chiesa di Efeso rivestiva nell’ambito
del cristianesimo delle origini.
4. L’immagine della cetra era impiegata per parlare del’armonia del cosmo o dell’essere
umano come microcosmo, o ancora per definire le relazioni tra la gente. Qui Ignazio l’applica al
rapporto tra presbiteri e vescovo. Il presbiterio è come un coro, in cui si canta “a una stessa voce”
(sýmphonoi) in unità di sentimenti (en homonoía).
5. Dichiara di aver raggiunto una familiarità non umana non umana, ma spirituale, cioè
un’unione e una comunione che non sono dettate da sintonia di carattere, ma dalla presenza in
Ignazio e Onesimo dell’unico Spirito, il quale solo fa l’unità. “Se uno non è dentro il santuario”
(thysastérion); non indica tanto una chiesa materiale – al tempo di Ignazio si celebrava nelle case e
l’altare era semplicemente un tavolo (trápeza) – quanto la chiesa come comunità di credenti. Chi
non resta unito alla comunità si priva del pane di Dio, espressione che rinvia a Gv 6,33. Come dice
Mt 18,19-20: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il
Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono
io in mezzo a loro”. Se tale è la forza della preghiera di due o tre credenti, quanto maggiore sarà
quella di un’intera comunità unita al suo vescovo! 5,3: “Chi non viene epì tò autó - che lett.
significa ‘nello stesso luogo’, ma va inteso in senso figurato: ‘negli stessi sentimenti’ – già si
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comporta da orgoglioso e ha giudicato se stesso”. Segue un invito a non opporre resistenza al
vescovo per essere sottomessi a Dio.
6. Il passo relativo al silenzio del vescovo è poco chiaro. Vi è chi lo spiega con
l’affermazione che Dio è silenzio (Efes. 19,1; Magn. 8,2) e il vescovo, a immagine di Dio è silenzio;
vi è chi vi trova un’allusione al carattere silenzioso e timido di Onesimo e lo collega alla frase
seguente, in cui si dice che il padrone di casa deve essere accolto con la stessa venerazione che si ha
per chi l’ha inviato (“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha
mandato”, Mt 10,40; “Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me accoglie
colui che mi ha mandato”, Gv 13,20). Del resto a Efeso regna l’eytaxía, “il buon ordine”, l’armonia
e la mancanza di divisioni.
7. I cc. 7-9 trattano dei falsi maestri. Vi sono alcuni che “portano in giro” il nome ma
agiscono in modo indegno di Dio. Ignazio, colui che porta il nome di “Teoforo”, mette in guardia
contro questi falsi fratelli, contro quelli che dicono “Signore, Signore”, ma poi non fanno la volontà
del Padre (Mt 7,13-21). Anche Paolo attesta che nella comunità di Corinto vi erano dei falsi apostoli
“operai fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo. Ma questo non fa meraviglia perché
anche Satana si traveste da angelo di luce” (2Cor 11,14). Vanno evitati, c’è una specie di
scomunica; occorre vigilare perché il loro insegnamento è come il morso di un cane rabbioso.
L’accenno a queste ferite procurate dai falsi fratelli lo conduce a ricordare che il vero medico è
soltanto Gesù Cristo. È un tema che diverrà tradizionale nella letteratura patristica. Cristo è “medico
delle anime e dei corpi”, è lui che guarisce. Gli uomini possono essere solo strumenti di tale
guarigione.
9. L’immagine della semina è evangelica; quella delle pietre del tempio rinvia a 1Pt 2,4-6,
secondo la quale i cristiani sono “pietre vive”, che formano un edificio spirituale. Sono elevati in
alto, cioè in Dio, tramite la croce. L’immagine non è chiara, né coerente; subito dopo dice che a
sollevarci in alto è la fede e che la via è l’amore. Dall’immagine della via si passa a quella di una
processione religiosa in cui i cristiani, compagni nel cammino, portano Dio, portano il tempio,
portano Cristo, portano cose sante (secondo alcuni: lo Spirito santo). Ignazio gioisce del fatto che i
cristiani di Efeso vivono “secondo un’altra vita”, un modo di vivere diverso, un modo di stare nella
vita diverso da quello di chi non ha fede, un modo “altro”.
10. Se ha parlato con durezza dei falsi fratelli, sembra più mite nei confronti dei pagani.
Invita all’intercessione perché vi è in essi “una speranza di conversione” e chiede che sia data loro
la testimonianza delle opere, in parallelo con 1Pt 2,12: “Tenete una condotta esemplare fra i pagani
perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre opere belle diano gloria a Dio nel
giorno della sua visita”. “Ci sia concesso di essere loro fratelli”: anche se non mostrano un
atteggiamento fraterno verso i cristiani, sono i cristiani che devono cercare di essere fraterni con
loro.
13. Invita a riunirsi più di frequente per l’eucharistían theoû, termine che ricorre qui per la
prima volta per indicare la celebrazione eucaristica. Per qualche studioso è un invito a celebrare
l’eucarestia anche durante la settimana e non solo di domenica perché quando la comunità si raduna
per l’eucarestia, nella concordia e nella fede, vengono sconfitte quelle potenze dell’aria di cui parla
Paolo in Ef 6,12. È un ammonimento che troviamo anche nella Lettera agli ebrei 10,25: “Non
disertiamo le nostre riunioni come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto
più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore”. C’è di nuovo un’insistenza sull’unità e la
concordia; la pace è frutto della preghiera comune, della lotta nella preghiera dei credenti (cf. Rm
15,30: “Lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio”; Col 4,12: “Vi saluta Epafra, servo di
Gesù Cristo, che è dei vostri, il quale non smette di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate
saldi, perfetti e aderenti a tutte le volontà di Dio”).
15. Contiene un ammonimento sul rapporto tra parola e pratica: è meglio vivere l’evangelo
nel silenzio che parlare dell’evangelo senza una prassi coerente; e un ammonimento per chi insegna.
Se Gc 3,1 mette in guardia dal farsi maestri e Mt 23,8 invita a non farsi chiamare rabbì, perché c’è
un solo maestro, Ignazio ricorda che soltanto in Cristo c’è una perfetta concordanza tra parole e
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opere, la sua parola è creatrice (cf. Gen 1 dove Dio disse e fu si riferisce alla Trinità; anche Cristo
presiede all’opera di creazione). Le parole: “Le cose che ha fatto tacendo sono degne del Padre” e
poco più avanti il riferimento al silenzio (hesychía) di Gesù non sono molto chiare. La spiegazione
che più mi convince è quella che vede nel silenzio di Gesù, il suo ritrarsi dopo la creazione, il suo
fare silenzio per lasciare libero l’uomo. Altri vi vedono un riferimento al suo silenzio davanti a
Pilato, durante la passione.
Il docetismo. (Smirnesi 1-2;Trallesi 6,1-2; 10-11,2)
Ignazio si trova ad affrontare due tendenze che emergono all’interno delle comunità
cristiane dell’Asia minore: tendenze docete e tendenze giudaizzanti.
Dei doceti tratta soprattutto nella Lettera ai cristiani di Smirne, una chiesa alla quale era
stata rivolta una lettera dall’autore dell’Apocalisse, una lettera in cui la chiesa è invitata a essere
paziente e perseverante nella tribolazione. “Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei
ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano giudei e non lo sono, ma sono sinagoga di
satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere
per mettervi alla prova, e avrete un tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò
la corona della vita. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. Il vincitore non sarà
colpito dalla seconda morte” (Ap 2,9-11). La chiesa di Smirne ha patito la prova, ha partecipato
nella sua carne alla passione di Cristo, alcuni cristiani sono stati gettati in carcere e nella lettera che
Ignazio scrive a questa chiesa parla proprio di quelli che negano la realtà della passione di Cristo, di
un gruppo presente nelle chiese dell’Asia minore il quale sostiene che Cristo ha sofferto soltanto in
apparenza. Sono le stesse dottrine contro le quali aveva combattuto l’apostolo Giovanni nelle sue
lettere (1Gv 4,2: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù
Cristo venuto nella carne è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù non è da Dio”; 2Gv 7:
“Sono apparsi nel mondo molti seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne”), ma che
compaiono già nei vangeli (cf. Lc 24,36-43). Il docetismo (dal verbo greco dokéo= sembrare,
apparire) è in forte consonanza con la cultura ellenistica nella quale prevaleva un forte disprezzo per
la materia. Il divino non può essere materiale. Lo spirituale, il filosofo, non può compiere lavori
materiali. In ambito cristiano ciò significa che il Signore non si è veramente fatto uomo, non ha
patito veramente, ma soltanto in apparenza. In un testo ritrovato nella biblioteca di Nag Hammadi
sta scritto: “Non fui consegnato a loro, come essi avevano tramato, né fui in alcun modo sottoposto
ai dolori. Essi mi colpirono, ma io non morii realmente, bensì in apparenza … In verità essi non mi
videro e non mi colpirono: fu un altro … colui che bevve il loro fiele e il loro aceto; non io fui
percosso con la canna, fu un altro a portare la croce sulle spalle; … sul capo di un altro fu posta la
corona di spine, mentre io gioivo nell’eccelso … e ridevo della loro mancanza di intelletto”. Negli
Atti di Giovanni, documento gnostico composto in Asia minore verso la metà del II secolo, si dice:
“Venerdì, all’ora sesta del giorno, Gesù mi disse: ‘Giovanni, laggiù a Gerusalemme per la
moltitudine io sono crocifisso, sono ferito con lance e abbeverato con aceto e fiele … Ma quello
sulla croce non sono io: quello che dicono di me è misero e indegno di me. Hai udito che io ho
sofferto, e non ho sofferto; che fui trafitto, senza essere stato trafitto; che fui appeso, e non fui
appeso; che il sangue scorse da me, eppure non scorse”. Questa dottrina svuota il mistero cristiano e
vanifica il senso della croce, il mistero dell’incarnazione, mistero che prova già scandalo nel NT.
Basta pensare al testo di Mc 6,1-6, in cui Gesù, conosciuto come il falegname, il figlio di Maria, il
fratello di Giacomo, ecc. diventa motivo di scandalo. I più vicini secondo la carne sono in realtà i
più lontani dal mistero dell’incarnazione. Hanno conosciuto Gesù, sanno che è un falegname, un
uomo ordinario, figlio di Maria, lo hanno visto mangiare, lavorare, e restano scandalizzati. Dio in
Gesù si fa talmente debole da essere rifiutato. Tutti i vangeli sono concordi nel sottolineare come le
folle che seguivano Gesù si assottigliano mano a mano che procede nella sua missione e annuncia il
mistero della croce. Gesù annuncia che il Figlio dell’uomo deve andare a Gerusalemme, soffrire
molto, venire ucciso e, di fronte a questo annuncio della passione e della morte, anche Pietro, che
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pur lo aveva confessato quale Cristo, figlio del Dio vivente, patisce lo scandalo. “Mentre i giudei
chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i
giudei, stoltezza per i pagani”, dirà Paolo (1Cor 1,23). Ma non a caso questo stesso scandalo è
patito di fronte al mistero dell’eucarestia; in Gv 6,42 i giudei si scandalizzano e mormorano perché
Gesù si è rivelato quale pane disceso dal cielo. “Dicevano: ‘Costui non è forse Gesù, il figlio di
Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre’”. È un’espressione parallela a quella di Mc 6. Ma
Gesù ribadisce che è lui il pane vivo e questo pane è la sua stessa carne. “Questo vi scandalizza? E
se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima?” (Gv 6,62). Ai discepoli increduli Gesù fa
vedere che vi è un segno ancora più grande, che rappresenta il vero scandalo, la pietra di inciampo:
la croce, l’innalzamento del Figlio dell’uomo. Ed è in realtà un unico mistero, il mistero del Figlio
di Dio che si riveste di carne umana, si fa servo, è rifiutato e crocifisso per amore! L’altro momento
di scandalo di Pietro nel vangelo di Giovanni è al c. 13, durante la lavanda dei piedi, là dove Gesù
rivela che cos’è la carità e dà il comandamento nuovo: “Amatevi come io vi ho amato”. Già nel
vangelo, dunque, è presente lo scandalo patito di fronte all’incarnazione, che si esplicita nel rifiuto
della persona di Gesù, figlio di Maria, nel rifiuto dell’eucarestia e nello scandalo di fronte al gesto
della lavanda dei piedi, gesto rivelativo dell’agape. E questi sono gli stessi tre rifiuti che troviamo in
questa lettera di Ignazio. Troviamo parole di estrema severità nei confronti di questi doceti; li
chiama “belve, cani rabbiosi” (Efes. 7,1), “rami parassiti” (Tral. 11,1), “colonne e tombe di morti”
(Filad. 6,1), “belve” (Smirn. 4,1), “non degni di essere nominati” (Smirn. 5,2), “contraddicono al
dono di Dio e muoiono disputando” (Smirn. 7,1). Sono parole molto dure e Ignazio dà ordini
perentori: “Non ascoltare alcuno che non parli di Gesù Cristo nella verità” (Efes. 6,2), “siate sordi”
(Tral. 9,1), non si deve “nemmeno incontrarli” (Smirn. 4,1), “starne lontani e non parlare di loro”
(Smirn. 7,2). Alle loro dottrine contrappone la sua confessione di fede: Smirn. 2-3; Trall. 9, dove c’è
un’insistenza continua sul “veramente” contrapposto al “in apparenza”. E vengono poi evidenziate
le conseguenze di questo rifiuto: Smirn. 6,2-7,1. Il rifiuto del mistero dell’incarnazione è rifiuto
dell’eucarestia e rifiuto dell’agape. Come può praticare l’amore gratuito e disinteressato per il
fratello chi non crede che questo amore è dono del Figlio di Dio fatto uomo e morto sulla croce per
amore? Si può appartenere formalmente alla comunità cristiana eppure essere avversari di Cristo;
nelle comunità cristiane cui si rivolge Giovanni, come in quelle del tempo di Ignazio, come sempre
all’interno della chiesa vi sono dei falsi fratelli che, nonostante il loro linguaggio cristiano, non
credono in Cristo, riducono l’evangelo a ideologia, a messaggio, a gnosi, e non a vangelo di
salvezza che agisce con potenza sulle nostre vite. Trall. 6,2: “Vi sono alcuni che mescolano Gesù
Cristo con se stessi”; riprende l’immagine dalla medicina. Si era soliti dare un bicchiere di medicina
amara in un bicchiere il cui orlo era cosparso di miele. Trall. 11,1: “Fuggite queste piante cattive”;
il comportamento dei cristiani nei confronti di questi falsi fratelli deve essere molto netto; va loro
rifiutato il saluto e l’ospitalità, cioè vanno scomunicati. 2Gv 10: “Se qualcuno viene a voi e non
porta questo insegnamento (= che Gesù è venuto nella carne) non ricevetelo in casa e non salutatelo
perché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse”. Smirn. 7,1: “Si tengono lontani
dall’eucarestia e dalla preghiera, perché non confessano che l’eucarestia è carne del Salvatore
nostro Gesù Cristo … Coloro che si oppongono al dono di Dio, muoiono disputando; mentre
sarebbe utile per loro amare, al fine di risorgere”; “amare” in greco è agapân, espressione
volutamente confusa perché significa sia celebrare l’eucarestia, l’agape, il banchetto fraterno, sia
amare. E Ignazio, a mio avviso, permette volutamente questa confusione tra vivere nella carità e
celebrare l’eucarestia che tanto ha imbarazzato i traduttori e che invece è molto chiara perché c’è un
legame indissolubile tra eucarestia e amore, ed è questo ciò che Ignazio vuole sottolineare. Smirn.
6,2: il rifiuto dell’eucarestia rende impossibile l’esercizio dell’amore fraterno. Come può praticare
l’amore gratuito e disinteressato chi rifiuta il dono dell’eucarestia, chi rifiuta il dono preveniente del
Signore? Come può amare il povero, la vedova, l’orfano che sono il corpo del Signore chi non crede
che Dio si è fatto realmente uomo e ha assunto realmente la nostra carne?
Negli anni successivi a Ignazio quei gruppi a tendenza doceta divennero sempre più forti. Le
varie correnti gnostiche lottano contro l’idea che un essere divino possa realmente farsi uomo,
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compromettendosi con la “materia cattiva” di questo mondo e con le miserie della vita umana. Di
fronte a questa tendenza a sottovalutare, minimizzare la realtà storica dell’opera salvifica di Dio la
chiesa fu costretta a prendere atto di quanto fosse stata reale e totale la realtà dell’incarnazione,
dovette approfondire questo mistero così urtante per la cultura del tempo. I padri sottolinearono tutti
gli aspetti umani di Gesù presenti nei vangeli: la sua stanchezza, la sua fame, la sua sete, le sue
lacrime sulla morte dell’amico Lazzaro, l’angoscia del Getsemani … Alla fine si giunse a
confessare che in Gesù l’uomo è liberato “con la sua carne” e non “dalla sua carne”. “Ciò che è
assunto è salvato” afferma Gregorio di Nazianzo (Lettera 101). “Risparmiate quella che è l’unica
speranza di tutto il mondo”, cioè l’umanità di Cristo, grida Tertulliano agli gnostici (Sulla carne
5,3).
I giudaizzanti (Magnesii 8-10; Filadelfesi 8-9)
La seconda tendenza che Ignazio deve contrastare è quella dei giudaizzanti. Chi sono?
Ripercorriamo brevemente quello che è accaduto all’interno della comunità cristiana primitiva.
Partiamo da At 9, dove Luca ci racconta che Saulo chiede lettere per condurre in catene “uomini e
donne appartenenti alla Via”; durante il viaggio per Damasco gli si rivela Gesù. Saulo resta cieco e
viene condotto a Damasco. Nel frattempo a Damasco c’è Anania, che riceve l’ordine da parte del
Signore di andare a imporgli le mani per guarirlo. Alle sue obiezioni il Signore dice: “Va’, perché
egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai
figli di Israele” (At 9,15). Poi, in realtà, nei capitoli successivi vediamo Saulo predicare Gesù Cristo
nelle sinagoghe, tra gli ebrei ed è Pietro il primo, in At 10 ad annunciare l’evangelo a Cornelio, un
centurione romano. Pietro ha una visione in cui gli viene offerto da mangiare del cibo impuro; in un
primo momento si rifiuta: “Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o
di impuro” (At 10,13). Di per sé è un ritorno indietro rispetto al vangelo; Gesù in Mc 7,15 ha
dichiarato: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le
cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. C’è una certa fatica ad assimilare l’insegnamento di
Gesù, ma poi Pietro si rende conto che “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e
pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”; poi vi è la discesa dello Spirito e il battesimo.
Ma a Gerusalemme Pietro deve giustificarsi dall’accusa di essere entrato in casa di uomini non
circoncisi e di aver mangiato con loro. At 11,20 ci dice che dei dispersi a causa della persecuzione
scoppiata a motivo di Stefano ad Antiochia cominciano a parlare ai greci, annunciando Gesù Cristo.
Solo in seguito la chiesa di Gerusalemme manda un suo rappresentante, Barnaba, che a sua volta
chiama Saulo. È qui che per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani. Ma la predicazione
agli ebrei continua; ci sono tensioni (cf. At 13,45); Paolo e Barnaba dichiarano: “Era necessario che
fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate
degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani” (At 13,46). In realtà non è vero,
continuano a predicare ai giudei (cf. At 14,1). Il c. 15 segna il processo di integrazione dei pagani
nella comunità. Ci sono due obiezioni; alcuni venuti dalla Giudea pretendono che i cristiani
provenienti dal paganesimo si facciano circoncidere; alcuni farisei diventati credenti chiedono che i
cristiani provenienti dal paganesimo ricevano la circoncisione e osservino la legge di Mosè.
Seguono due discorsi; nel primo, parla Pietro e va notato che nel suo discorso afferma che “Dio ha
eletto” le genti, usando l’espressione forte di “eleggere”. Pietro si assume la responsabilità di essere
stato artefice di questo annuncio: Dio non ha fatto discriminazioni, “purificando i loro cuori con la
fede”; la purificazione non avviene attraverso regole alimentari e imporre regole giudaiche significa
tentare Dio. Pietro comunica alla comunità la sua fatica, il travaglio che anche lui ha dovuto
attraversare. Giacomo afferma che Dio ha voluto scegliere “un popolo per il suo nome” (At 15,14)
fin da principio; ma è Israele che era stato costituito per essere segno del nome di Dio in mezzo alla
genti, ora le stesse parole sono applicate ai cristiani. È un discorso coraggioso. L’elezione di Israele
non esclude l’allargamento. C’è un fatto interpretato alla luce della Scrittura; si parte dagli eventi,
dalla storia, la si legge alla luce della parola di Dio, ci si confronta comunitariamente, in un libero
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scambio che porta a constatare la trasformazione della fisionomia della comunità. Si decide di
chiedere qualcosa ai pagani. At 15,29-30: “astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli
animali soffocati e dalle unioni illegittime”. Sono indicazioni dettate dal principio dell’oikonomía,
non sono dottrinali. In quella situazione, per poter consentire un contatto tra ebrei e cristiani
provenienti dal paganesimo, si stabiliscono delle norme provvisorie per non destare scandalo nei
deboli. È il principio che regge 1Cor 10,20-23: “Tutto è lecito”; questo è il principio, è la libertà
voluta da Cristo, ma per non scandalizzare l’altro, la coscienza dell’altro, posso porre limiti alla mia
libertà. L’importante è che ciò avvenga nella libertà e per amore. Si giunge così a stilare un
documento, una lettera accompagnata dalla viva voce di due inviati. Cosa ci insegna tutto questo?
Che il volto della chiesa è sempre in divenire; non c’è nessuna fossilizzazione, non perché cambi il
vangelo, ma perché cambia il nostro modo di comprenderlo, cambia il nostro modo di ridirlo.
In Gal 2,3 neppure Tito, “benché fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere”; si parla di
“falsi fratelli intrusi, i quali si erano infiltrati a spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù”.
In Gal 2,11-14 Paolo accusa Pietro perché, prima che venissero da lui alcuni fratelli da parte di
Giacomo, prendeva cibo insieme ai pagani, ma dopo la venuta di alcuni ebrei da Gerusalemme, li
tiene in disparte per timore dei circoncisi e Paolo lo contesta e lo accusa di avere un atteggiamento
poco chiaro, ambiguo, di vivere alla maniera dei giudei abbracciandone leggi e costumi. “Cristo ci
ha liberati per la libertà” (Gal 5,1).
Le prescrizione di At 15 sono superate dalla realtà, dalla storia che è sempre in movimento.
Non c’è un diritto canonico valido universalmente in ogni tempo. Chi sono quei cristiani che
secondo Magn. 8,1: “continuano a vivere secondo il giudaismo”? Anzitutto, mentre nei confronti
dei doceti c’è un atteggiamento duro, severo e sembra non esserci speranza di conversione – Smirn.
4,1: “Dovete pregare per loro, se mai possano convertirsi, benché sia difficile” – quei cristiani che
vivono “secondo il giudaismo” non sarebbero separati dalla comunità; si tratterebbe di ebrei
diventati cristiani cui si aggiungevano probabilmente dei cristiani di origine pagana. Che cosa viene
rimproverato loro? Anzitutto per Ignazio vi è un modo “giudaico” di leggere le Scritture e i profeti.
Al suo tempo non esiste ancora un NT come noi lo conosciamo; non si è ancora costituito il canone
delle Scritture e quando lui parla di Scrittura parla dell’AT. Quando parla di evangelo, non si
riferisce ai testi che noi abbiamo, ma probabilmente ad alcune tradizioni da cui poi sono derivati
anche i vangeli canonici. In Smirn. 5,1: “Non li persuasero le profezie né la legge di Mosé; e
nemmeno fin d’ora l’evangelo né i patimenti di ciascuno di noi”. Ci sono quattro testimonianze:
profeti, legge, vangelo e i patimenti del cristiano, la croce vissuta dal discepolo nella propria carne.
Filad. 5,1-6,1: afferma di rifugiarsi “nell’evangelo come nella carne di Gesù e negli apostoli come
nel presbiterio della chiesa”; “Se qualcuno vi spiega il giudaismo, non ascoltatelo. È meglio infatti
ascoltare il cristianesimo da un uomo circonciso, che il giudaismo da un incirconciso. Ma se
entrambi non vi parlano di Gesù Cristo, costoro sono per me delle colonne sepolcrali e delle tombe
di morti, sulle quali stanno scritti soltanto dei nomi di uomini”. Filad. 8,2: “Ho sentito alcuni che
dicevano: ‘Se non lo trovo negli archivi, non credo nell’evangelo’; e quando io ho detto loro: ‘Sta
scritto’ mi hanno risposto. ‘È proprio qui il problema!’. Ma i miei archivi sono Gesù Cristo! Gli
archivi inviolabili sono la sua croce, la sua morte, la sua resurrezione e la fede che ci viene per
mezzo di lui”. Alcuni cristiani rimanevano arroccati come a loro unico punto di riferimento agli
archivi giudaici, cioè all’AT, subordinando ad essi il vangelo. “I miei archivi sono Gesù Cristo”, la
persona di Gesù, non tanto un libro, un testo scritto. I profeti sono coloro che annunciano il messia,
quindi il cristiano non può che leggerli a partire dall’incarnazione; quando dice che nessuno deve
interpretare l’evangelo in maniera giudaica sta dicendo che il cristiano legge l’AT a partire
dall’evento di Cristo. E lo ripeto: non si tratta tanto di un libro, ma di un uomo, una vicenda, una
vita. Il cristianesimo non è una religione del libro, è la religione della carne di Cristo, la novità è
Cristo, come scriverà Ireneo: “Gesù ha portato ogni novità portando se stesso”. Dunque quando
Ignazio parla di un modo giudaico di leggere la Scrittura non sta parlando di un metodo esegetico,
ma sta dicendo che quel messia attestato e annunciato dall’AT è Gesù di Nazaret. Cristo “è la porta
del Padre” (Filad. 9,1), immagine che troviamo anche in Pastore d’Erma, Sim. IX,12; è l’unica via
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di accesso possibile al Padre, l’unico che può entrare nel Santo dei santi e che conosce i misteri di
Dio.
Oltre che alla Scrittura, Ignazio fa riferimento a usi giudaici. Magn. 9,2: “Se coloro che
vivevano secondo le realtà antiche sono pervenuti alla novità della speranza, non osservando più il
sabato ma vivendo secondo la domenica, giorno nel quale anche la nostra vita è risorta grazie a lui e
alla sua morte … come potremo noi vivere senza di lui che anche i profeti, discepoli nello Spirito,
attendevano come maestro?”. Vivere secondo la domenica è vivere secondo il mistero della morte e
resurrezione di Gesù, è porre Gesù al centro della nostra vita.
Il martirio: la Lettera ai romani
La Lettera ai romani all’interno dell’epistolario di Ignazio occupa un posto particolare. È
vero che tutte e sette le lettere sono scritte da un vescovo condannato a morte, un discepolo del
Signore che si prepara a offrire la testimonianza suprema e che tutte hanno il carattere di un
testamento, ma in esse Ignazio si manifesta come il vescovo che esorta, raccomanda, consiglia,
parla con autorità, mette in guardia le comunità contro i pericoli che le minacciano. Nulla di tutto
questo nella Lettera ai romani; non ci sono né esortazioni, né consigli, né inviti all’unità. Tutta la
lettera non è altro che una grande supplica alla chiesa che presiede alla carità perché Ignazio possa
testimoniare la carità fino al dono della vita. È l’unico tema di tutta questa Lettera ai romani: il dono
della vita, il martirio, la testimonianza di un amore perseverante fino alla morte per divenire vero
discepolo e offrire la vita per amore dei suoi fratelli.
Prol. Rivolgendosi a questa chiesa Ignazio fa uso di espressioni che manifestano una
speciale venerazione. La chiesa di Roma presiede nella regione dei romani, presiede nella carità. Al
c. 3,1 Ignazio testimonia: “Non avete mai invidiato nessuno; avete insegnato agli altri!”, parole che
devono necessariamente riferirsi alle lettere che una quindicina di anni prima Clemente aveva
scritto alla comunità di Corinto, e ancora, al c. 9,1: “Ricordatevi nelle vostre preghiere della chiesa
di Siria, che in vece mia ha Dio quale pastore. Come vescovo su di essa avrà solo Gesù Cristo e il
vostro amore”. Ignazio affida la sua comunità, restata senza pastore e che con tutta probabilità a
causa della persecuzione in corso non poteva provvedere a un altro pastore, alle preghiere e alla
carità della chiesa di Roma. Certamente chiede il sostegno e il conforto della preghiera e dell’aiuto
materiale alle chiese sorelle dell’Asia minore; è a queste chiese che chiede di inviare dei delegati ad
Antiochia, però affida la sua comunità in modo particolare a quella chiesa che ha il compito di
presiedere alla carità. Se si può parlare di un primato, si tratta di un primato di amore, di un primato
nel servizio fraterno.
1. Chiede ai romani di non togliergli il privilegio di poter morire martire. “Temo il vostro
amore” (1,2); afferma di morire volentieri per Dio (4,1); dichiara di voler morire (“Vi scrivo infatti
mentre sono vivo e desidero ardentemente morire”, 7,2); li prega di non avere per lui una
benevolenza inopportuna (4,1). Stando alla lettera di Plinio a Traiano a quell’epoca molti cristiani di
fronte alla persecuzione rinnegavano la loro fede per aver salva la vita; Ignazio testimonia a prezzo
della sua vita che vale la pena di vivere e morire per il Signore, che bisogna perseverare “inchiodati
nel corpo e nell’anima alla croce di Gesù Cristo e fondati nell’amore, nella carità del suo sangue”
(Smirn. 1,1), e non lo dice soltanto a parole, ma con la sua stessa vita. Ignazio combatte le tendenze
docete e di nuovo le combatte nella sua carne; le sue catene, le sue sofferenze, la sua passione sono
“dimostrazione” dell’incarnazione. Non è con le sue forze che Ignazio può desiderare il martirio,
non è certo contando sulla sua carne che può sopportare la tribolazione, ma è per la potenza che
viene dal Signore che ha veramente patito ed è veramente morto per noi. Trall. 10: “Se come dicono
alcuni atei, cioè infedeli, egli ha patito in apparenza – mentre sono loro in apparenza – perché
desidero combattere con le belve?”. Smirn. 4,2: “Se è in apparenza che queste cose sono state fatte
dal Signore nostro, anch’io sono incatenato in apparenza. Perché dunque ho dato me stesso
consegnandomi alla morte, attraverso il fuoco, la spada e le belve?”. Vive il suo martirio come un
fatto ecclesiale, è vescovo e pastore fino all’ultimo istante; abbiamo visto come nelle altre lettere si
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rallegra, gioisce per l’affetto fraterno, per l’unzione di fede che gli viene offerta dalle comunità
cristiane che si trovano lungo la via che lo conduce a Roma, ma poi ammonisce, esorta, consiglia,
rimprovera, manifestando una profondissima sollecitudine per tutte le chiese. Il martirio non è mai
un fatto individuale, personale, non è il raggiungimento della salvezza del singolo, è sempre un fatto
ecclesiale. È un’esortazione alla perseveranza nella fede, un incoraggiamento alla saldezza nella
fede. “Vi esortano le mie stesse catene” (Trall. 12,2). Più volte Ignazio nelle sue lettere parla del
suo martirio come antípsychon, come “vittima di espiazione” per i suoi fratelli cristiani. Si tratta di
un’espressione che ricorre in quattro casi: Efes. 21,1: “Io sono la vittima di espiazione per voi e per
coloro che, per l’onore di Dio, avete inviato a Smirne”; Smirn. 10,2: “Offro per voi il mio spirito e
le mie catene, che non avete disprezzato e di cui non vi siete vergognati”; Polic. 2,3: “Io mi offro
per te insieme alle mie catene che tu hai amato”; Polic. 6,1: “Io offro me stesso per coloro che si
sottomettono al vescovo, ai presbiteri, ai diaconi”. C’è una forza purificatrice ed espiatrice nel
sangue del martire che muore per la legge e diventa “vittima di espiazione” per i peccati del popolo.
Nell’AT vi sono diverse premesse di questa concezione in diversi testi; accenno soltanto a Is 53,4-5
dove il servo “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo
giudicavamo castigato percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà la salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue
piaghe siamo stati guariti”. Nel NT la forza di intercessione, espiazione, sostituzione
rappresentativa si raccoglie e si compie nella persona di Gesù, il Figlio dell’uomo che “non è
venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Paolo
ricorda che “uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (2Tm 2,5), che il
sacrificio sulla croce di Gesù Cristo è unico (1Cor 1,13: “È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse
crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?”). La sequela di Gesù comporta un
paradossale modo di salvare la propria vita, cioè perderla per il vangelo, il che significa donarla per
i fratelli. È Cristo che salva, ma il discepolo diventa una sola cosa con lui. Quando Ignazio parla
degli eretici dice che “non sono piantagione del Padre”. Se lo fossero, apparirebbero come “rami
della croce”, scrive in Trall. 11,1-2. Il discepolo invece è tralcio innestato nella vite (cf. Gv 15,5), è
uno che lascia vivere in sé Cristo (Gal 2,20: “Non sono più io che vivo è Cristo che vivo in me”).
Accanto a quest’espressione ne troviamo un’altra: “Io sono spazzatura”, che riprende le parole di
Paolo in 1Cor 4,13: “Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come
condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini … siamo
diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. Ignazio scrive: “Io sono
spazzatura in confronto a voi e mi offro in sacrificio per voi” (Efes. 8,1). “Il mio spirito è spazzatura
in confronto alla croce” (Efes. 18,1). Questa espressione in qualche modo corregge e risitua quella
precedente. La sua vita è ben poca cosa, ma trova senso e valore nell’essere donata per i fratelli. Il
termine perípsema si applicava ai criminali che venivano sacrificati agli dèi per espiare i peccati di
una nazione e placare la loro collera. Fozio racconta che ad Atene si buttava a mare un criminale e
nell’atto di gettarlo si diceva: “Sii nostro rifiuto”. Altri fratelli hanno donata la loro vita nel servizio
fraterno. Ignazio non ha scelto da se stesso di morire martire, non si è auto consegnato alle autorità,
non ha scelto lui per quale via seguire il Signore. “Il cristiano non ha potere su se stesso, ma si
dedica a Dio” (Polic. 7,3). Il martirio è la conclusione di un quotidiano cammino di donazione a Dio
e ai fratelli.
2. E infatti nel c. 2 Ignazio ne parla come di “un’occasione” (kairós), del “momento
propizio”, espressione che ricorre nel NT, ad es. in Mt 26,18: “Andate in città da un tale e ditegli:
‘Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino’”, dove indica l’ora della passione. Poi continua: “Se
tacerete a mio riguardo, io sarò una parola di Dio; se invece amerete la mia carne, io sarò una
semplice voce”. Io diverrò “una parola di Dio”: questa è la vocazione del cristiano. Logos, parola è
Cristo; noi siamo chiamati a diventare una sola cosa con Cristo, a diventare il Figlio stesso di Dio.
Qualche decennio più tardi Ireneo dirà: “Il Verbo si è fatto uomo e il figlio di Dio divenne figlio
dell’uomo, perché colui che si unisce al Verbo di Dio e accetta l’adozione divenga figlio di Dio”
(Contro le eresie III,19,1). Per questo Dio si è incarnato, per portare a compimento l’opera di
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divinizzazione dell’uomo. Dio si fa uomo perché l’uomo possa diventare Dio. Ancora Ireneo scrive
che il Figlio di Dio, “per il suo smisurato amore, divenne ciò che noi siamo perché noi potessimo
divenire ciò che lui è” (Contro le eresie, pref. 5). Troviamo già abbozzata in Ignazio una teologia
della divinizzazione dell’uomo che sarà sviluppata più tardi (cf. Atanasio).
Per parlare del martirio Ignazio usa termini normalmente impiegati per parlare
dell’eucarestia; parla di offerta in libagione, espressione che richiama Fil 2,17: “Anche se io devo
essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede”; 2Tm 4,6: “Io sto già per essere versato
in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita”. Parla di “altare”, dice che i cristiani di
Roma formano un coro nell’amore per cantare al Padre in Gesù Cristo; il martirio è descritto come
una liturgia. Paragona il suo viaggio verso Roma, verso l’occidente, al tramontare del sole, un
tramonto che diventa un nuovo sorgere in Dio.
4. Troviamo di nuovo un’espressione che rinvia all’eucarestia. Consegnato alle fiere, diventa
“pane eucaristico”. Ma, in fin dei conti, in qualche modo, ogni nostra partecipazione all’eucarestia è
un passo verso il martirio. Ogni volta che partecipiamo all’eucarestia facciamo offerta di tutta la
nostra vita al Padre; giorno per giorno, nella vita quotidiana, siamo chiamati ad offrire i nostri corpi
come “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Vi è un riferimento a Pietro e Paolo che
sembra presupporre la tradizione della loro presenza a Roma (cf. 1Clemente 5,3-7).
6,3 Non c’è nessun rifiuto di ciò che è umano, il Signore è venuto a insegnarci a vivere, a
essere veramente umani. E l’essere veri uomini, per Ignazio, consiste nell’imitare la passione di
Dio. Fino a che punto è radicata nella Bibbia la mistica dell’imitazione? Nella storia della
spiritualità il tema dell’imitazione di Cristo occupa un posto importante. La tradizione cristiana ha
spesso inteso l’invito alla sequela di Gesù come una chiamata a imitarlo. Ora, mentre il concetto di
“imitazione” è essenziale nella cultura greca, esso sembra del tutto assente dal mondo biblico.
Nell’AT Dio è incomparabile e inimitabile: “A chi mi potete paragonare e rassomigliare, uguagliare
e paragonare?” (Is 46,5). Il tentativo di rendersi uguale a Dio è il più grande peccato, è il peccato di
Adamo e di Eva. A Eva che vuole mangiare il frutto dell’albero che Dio ha proibito di mangiare il
serpente dice: “Se voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio” (Gen
3,4). Farsi simile a Dio è il desiderio del re di Babilonia di cui parla Isaia: “Salirò sulle regioni
superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo’” (Is 14,13-14). C’è un solo testo in cui l’idea
dell’imitare è intesa in senso positivo, anche se non si riferisce all’imitazione di Dio, ma a quella di
uomini diventati di esempio per gli altri, e quest’unico caso, in cui la Bibbia usa il verbo miméomai
(= imitare) in senso positivo, è un racconto di martirio. In 4Mac 9,23 il fratello maggiore fra i
tormenti grida agli altri: “Imitatemi, fratelli”, e poco più avanti i sette fratelli dicono: “Imitiamo i tre
giovani dell’Assiria che disprezzarono la fornace che li accomunava nello stesso destino” (Dn
3,17). L’unico caso in cui si parla di imitazione è in un contesto di sofferenza, di passione, di fronte
alla testimonianza del Dio unico fino al sangue. Per il resto il concetto di imitazione è del tutto
estraneo all’AT, soprattutto è assente l’idea che si debba imitare Dio. Nei vangeli si parla di
“seguire” Gesù, di stare alla sua sequela; l’idea di imitazione compare nella Lettera agli ebrei 6,12,
che offre modelli di fede e invita a imitare la fede e la perseveranza dei padri, e 13,7 (“Ricordatevi
dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito
finale della loro vita, imitatene la fede”); in Paolo l’idea di imitazione ha oggetti di riferimento
diversi. Ts 2,14: “Siete diventate imitatori delle chiese di Dio … perché avete sofferto”; c’è
un’imitazione di altri cristiani e questa imitazione avviene nel patire, nella passione. In tutta una
serie di passi Paolo pone se stesso a modello delle sue comunità, un modello che devono imitare
(2Ts 3,7; 1Cor 4,16); Fil 3,17: “Fatevi miei imitatori” e nei vv. precedenti viene spiegato che cosa si
deve imitare: “Tutto ormai reputo una perdita di fronte alla sublimità di Cristo … perché possa
diventargli conforme nella morte” (cf. anche Fil 4,9). In 1Cor 11,1 Paolo motiva l’imitazione del
suo comportamento con il fatto che egli stesso si sforza di essere imitatore di Cristo, così pure in
1Ts 1,6: “Voi siete diventate imitatori nostri e del Signore”. Una sola volta, in Ef 5,1, Paolo parla di
imitazione di Dio. Spesso questa idea di imitazione è accompagnata da quella di “modello” (týpos)
che certamente vuole rinforzare questa immagine. L’uso di questi vocaboli si accentua nei padri
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apostolici. 1Clem. 17,1: “Facciamoci imitatori di coloro che camminarono predicando la venuta di
Cristo”; nell’A Diogneto 10,4-6 l’uomo deve essere imitatore della bontà di Dio, e in diversi passi
delle lettere di Ignazio. In Smirn. 12,1 Ignazio invita i credenti a imitare il diacono Burro perché è
un modello del servizio di Dio; in Efes. 1,1; Trall. 1,1; Efes. 10,3: “Cerchiamo di essere imitatori
del Signore!”; in Filad. 7,2 l’imitazione di Gesù Cristo consiste nell’amare la pace, nel fuggire ogni
divisione e in Rom. 6,3 il concetto di imitazione è chiaramente riferito al martirio. La perfetta
imitazione del Signore è presente nel martirio, nella passione del discepolo a imitazione della
passione del suo Signore. È la stessa idea che, del resto, sottosta a tutti i racconti di martirio degli
Atti dei martiri e nelle esortazioni al martirio di Origene e di Cipriano. Questo tema dell’imitazione
di Gesù continua durante tutta l’epoca patristica attraverso soprattutto Giovanni Crisostomo e
Agostino (“Che cosa significa seguire se non imitare?” (La santa verginità 27) e passa poi nella
spiritualità medievale; basta pensare a Francesco di Assisi e all’Imitazione di Cristo (1,1; 3,56). Ai
tempi della riforma Lutero, nella sua reazione contro la pietà medievale, vide nell’idea di imitazione
un tentativo orgoglioso di acquistarsi dei meriti e oppose all’idea di imitazione quella di sequela. La
critica di Lutero comporta sicuramente una buona parte di verità. La nozione di imitazione pone
modello e imitatore sullo stesso piano e non evidenzia il ruolo unico del Signore. Non si può imitare
Cristo come un eroe, come un modello umano. Gesù ha salvato l’umanità, ha fatto tutto, e noi non
dobbiamo rifare quello che egli ha fatto in modo unico e definitivo. Gesù è colui che ci precede, ci
indica il cammino e ci chiama alla sua sequela. Paolo che pure parla di imitazione di Cristo e di
Dio, accosta però ad essa altre immagini che mettono maggiormente in luce il ruolo della grazia.
L’immagine di Cristo riflettendosi in noi come in uno specchio ci rende sempre più conformi al
Signore, ma non siamo noi a imitare il Signore con le nostre opere, con i nostri sforzi, è Cristo che
ci rende conformi alla sua persona, che ci trasforma, che trasfigura il nostro corpo di miseria
conformandolo al suo corpo di gloria (cf. 2Cor 3,18). Senza queste precisazioni c’è il rischio di
ridurre il cristianesimo a uno sforzo etico per ottenere la salvezza. Potremmo dire che è più
conforme allo spirito biblico parlare di sequela piuttosto che di imitazione, ma con Ignazio siamo
ancora alle origini della storia della chiesa e il linguaggio teologico cristiano sta nascendo tra mille
difficoltà. Certamente, però, non c’è nelle lettere di Ignazio uno sforzo volontaristico di salvezza; il
martirio non viene mai concepito nella chiesa come un’opera umana, ma sempre come una
chiamata di Dio e anche Ignazio sa bene questo. Trall. 4,2: “Certo, io amo patire, ma non so se ne
sono degno!”. Ignazio conosce la sua debolezza, sa che il principe di questo mondo tenterà di
strapparlo a Dio fino all’ultimo momento. Ma io credo che se parla di imitazione a proposito di
questa sua sequela del Signore fino al martirio e se questo tema resta così presente nella tradizione
della chiesa è perché vuole controbattere certe posizioni di cristiani all’interno della comunità che
mirano a dissolvere il mistero dell’incarnazione. Dio si è veramente incarnato, ha veramente
assunto la nostra carne e per questo è possibile imitarne la vita. Di fronte all’eresia doceta la
nozione di sequela, del seguire poteva forse restare ancora vaga. Ignazio sottolinea invece la
storicità della persona di Cristo, la profonda realtà del suo assumere la carne umana. Di fronte a chi
sta lontano dall’eucarestia, non pratica la carità, dice che si è imitatori di Dio quando si è
“inchiodati alla croce del Signore Gesù Cristo” (Smirn. 1,1). E la sua passione stessa a imitazione
della passione di Gesù testimonia la realtà dell’incarnazione; il vescovo di Antiochia può sopportare
le catene, può andare verso il martirio perché Cristo per primo ha patito tutto questo e perché lo
Spirito lo chiama e gli dà quella forza e quella potenza di Dio che trionfa nella debolezza
dell’uomo. E mi sembra che questo tema dell’imitazione di Gesù, imitazione soprattutto del Gesù
povero, del Christus patiens, ritorni con più forza quando la chiesa è più lontana dalla povertà
evangelica, quando la chiesa, invece di farsi serva degli uomini e di portare la croce dietro al suo
Signore, si allea con i ricchi e con i potenti. Penso a Francesco che viene chiamato dai suoi
contemporanei “l’imitatore di Cristo”, che viene definito da Chiara “l’imitatore della povertà e
dell’umiltà del Figlio di Dio”. Anche le stigmate di Francesco sono da leggere in questa linea di
imitazione del Signore nella sua passione. Basta pensare ancora a Charles de Foucauld in cui è più
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che mai presente questo desiderio di assoluta conformità al Gesù di Nazareth; tutto il suo cammino
spirituale è contrassegnato da questa ricerca di imitare la vita nascosta di Gesù a Nazaret.
7,2 Supplica di non lasciarsi incantare da nessuno, da eventuali richieste di liberarlo dalla
morte. “Il mio amore è crocifisso”. Origene ha dato inizio a una lunga tradizione di interpretazione
del passo secondo la quale per “amore” bisogna intendere Gesù (“Il mio amore, cioè colui che amo,
il Cristo crocifisso” (Prol. al Ct 3). Dopo di lui Dionigi l’Areopagita (I nomi divini 4,12) e Teodoro
Studita. Ma il termine éros qui impiegato è estraneo al NT e all’antica letteratura cristiana. La frase
di Ignazio va compresa piuttosto alla luce di Gal 5,24: “Quelli che sono di Cristo hanno ucciso la
carne con le sue passioni e i suoi desideri”; Gal 6,14: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella
croce del Signore nostro Gesù Cristo per mezzo della quale per me il mondo è stato crocifisso come
io per il mondo”. Ignazio ha messo a morte la sua passione carnale, il suo attaccamento alla vita per
divenire amore puro per il Signore. Più volte ricorre la distinzione tra eros e agape. In Magn. 6,2
scrive: “Tutti cercate di avere gli stessi sentimenti di Dio, rispettatevi l’un l’altro e nessuno
consideri il suo prossimo secondo la carne, ma in Gesù Cristo”. È un invito a un amore non psichico
e non carnale, un amore in Cristo Gesù. E ai cristiani di Efeso confida “di essere entrato in
familiarità con il loro vescovo, familiarità non umana, ma spirituale” (Efes. 5,1). In Ignazio c’è
un’acqua viva che sgorga dal profondo del cuore, quell’acqua di cui parla il vangelo di Giovanni:
“Chi ha sete venga a me e beva, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo
seno” (Gv 7,39); abbeverato alle Scritture è diventato anch’egli fonte di acqua viva e lo Spirito lo
chiama e lo guida. “Vieni al Padre”: è questa la nostra vocazione, ascoltare quella voce che
nell’intimo risuona e giorno dopo giorno, nel quotidiano, ci invita a guardare in alto, a fare ritorno
al Padre come il figlio minore andato lontano da casa che si muove verso il padre e lo incontra, lui
che è uscito di casa per abbracciarlo.
Chiesa e ministeri in Ignazio di Antiochia
Anzitutto va notato che le lettere di Ignazio sono indirizzate a intere chiese, mentre dopo il II
secolo vi saranno solo lettere rivolte a vescovi o al clero. Qui la chiesa ha una sua consistenza che le
deriva dall’alto. Per quanto riguarda i ministeri, è diventato quasi un luogo comune affermare che
nella prima comunità cristiana l’autorità apostolica era eminentemente spirituale e carismatica, non
aveva nulla di coercitivo e di giuridico ed era di tipo collegiale. Con Ignazio avremmo invece già un
fase molto avanzata in senso istituzionale e giuridico, centrata sulla figura dell’“episcopato
monarchico”. È una questione controversa, una delle più oscure di tutto il cristianesimo primitivo.
Bisogna però ricordare che la concezione di Ignazio non è poi così isolata all’interno dello stesso I
secolo. La concezione ignaziana del vescovo non è poi una novità così strana ed è probabile che la
sua origine sia nella chiesa madre di Gerusalemme. Ad Antiochia si costituisce una gerarchia a
immagine di quella che c’era a Gerusalemme: il vescovo coadiuvato dai presbiteri e dai diaconi. In
ogni chiesa ci deve essere un solo vescovo, nella prospettiva dell’unità. La divisione è la morte della
chiesa: “Dove c’è divisione e ira, Dio non abita” (Filad. 8,1), e l’eucarestia celebrata intorno al
vescovo manifesta e costruisce la concordia della chiesa (Magn. 6,2). Smirn. 8,1: va ritenuta valida
quell’eucarestia che è “sotto il vescovo”, però sembra che il vescovo potesse affidare a un altro la
presidenza eucaristica in case private. La comunione tra le varie chiese si realizza con le lettere,
l’invio di delegazioni da una chiesa all’altra, il prendersi cura di un’altra chiesa in situazioni di
emergenza. Non parla di ministeri itineranti, che dovevano essere ancora numerosi al suo tempo;
tace sui profeti cristiani. Il carisma della profezia è ancora presente nella chiesa apostolica (cf. At
11,27; 13,1; 21,10). Nelle chiese da lui fondate Paolo vuole che esso non sia deprezzato (cf. 1Ts
5,20). Lo colloca molto al di sopra del dono delle lingue (1Cor 14,1-5) ma vuole che sia esercitato
nell’ordine e per il bene della comunità (cf. 1Cor 14,29-32). Di profeti parlano anche la Didaché e Il
pastore di Erma; per Ignazio i profeti sono solo quelli dell’AT. Accanto ai vescovi ci sono i
presbiteri termine che significa “anziano”; essi sorvegliano collegialmente la chiesa perché hanno la
missione di pascere il gregge di Dio (cf. At 20,28; 1Pt 5,2ss.) a immagine di Cristo, modello dei
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pastori (cf. 1Pt 5,4), pastore e sorvegliante delle anime (cf. 1Pt 2,25). E infine ci sono i diaconi, che
sembrano avere il ministero della parola (Filad. 11,1) ed esercitare la carità (Trall. 2,3: “Coloro che
sono diaconi dei misteri di Gesù Cristo cerchino in ogni modo di venire incontro a tutti. Non sono
infatti dispensatori di cibi o di bevande - deputati cioè all’assistenza ai poveri - ma servitori della
chiesa di Dio. Pertanto si guardino dalle accuse come dal fuoco”). Dovevano essere disinteressati e
imparziali, senza preferenza di persone. Li definisce “conservi”, “carissimi”, “esempio di servizio
divino” (Smirn. 12,1), “esempi di carità” (Efes. 2,1); hanno rinunciato ai loro beni (Filad. 11,1);
sono inviati come “messaggeri” (Filad. 10,1); devono essere “saldi nel vangelo” (Magn. 13,1).
Lettera a Policarpo: consigli a un vescovo
A Troade Ignazio scrive una lettera a Policarpo, il vescovo di Smirne che l’aveva accolto
con tanto affetto e venerazione. È uno scritto che richiama per molti aspetti le lettere di Paolo a
Timoteo. Come Paolo indirizza parole di esortazione e consolazione a Timoteo, suo figlio nella
fede, così Ignazio, in questa lettera, l’unica indirizzata a una persona singola, trasmette la sua
sapienza pastorale al fratello più giovane nel ministero. È, in un certo senso, il testamento di Ignazio
alla vigilia della sua morte; certamente è un testamento anche la lettera alla comunità di Roma, ma
in queste pagine è il pastore che parla, che trasmette quello che lui stesso ha appreso nel corso del
suo ministero pastorale ad Antiochia e conferma, esorta, consola Policarpo, che diverrà il suo erede
spirituale nel ministero episcopale e poi, più tardi, anche nel martirio.
Prol. Il saluto è il più breve di tutte le lettere; è stata decisa all’improvviso la sua partenza
per Neapolis e non ha molto tempo (8,1). Indirizza la sua lettera al vescovo, all’episcopo della
chiesa di Smirne. Potremmo tradurre: “a colui che veglia sulla chiesa di Smirne, o piuttosto a colui
sul quale vegliano Dio padre e il Signore Gesù Cristo”. Policarpo è vescovo, deve vegliare sulla
comunità, sul gregge che gli è stato affidato, ma Ignazio gli ricorda che il vero epískopos è Dio e
che Policarpo per primo ha bisogno che Dio vegli su di lui. (cf. Gb 20,29; nel libro della Sapienza si
dice che Dio vede i sentimenti dell’empio ed è “vero epískopos” del cuore dell’uomo (Sap 1,6). Nel
corso di tutta la sua storia Israele ha sperimentato che Dio veglia su di lui e viene a visitarlo. I due
termini: “vegliare” (episkopéo) e “visitare” (episképtomai) derivano in greco da una stessa radice e
hanno un significato molto simile. Dio veglia su Israele ed pronto a rendergli visita nel momento
del bisogno. Dio, dunque, è il vero episcopo, ma esercita questa sua qualità attraverso alcuni uomini
a cui affida il compito di vegliare sul popolo. Negli scritti di Filone Mosè viene definito epískopos
(Rer div. Her. 30); nella LXX questo termine è usato per indicare chiunque ha un compito di
sovrintendenza e, a volte, questo compito è connesso con il culto, come in Nm 4,16, dove Eleazaro
è il sovrintendente alla liturgia, riceve l’incarico di sorvegliare l’olio per la lampada, l’incenso, le
vittime sacrificali, tutti gli arredi del tempio. Nel NT è Cristo stesso che viene chiamato epískopos.
Pietro, nella sua prima lettera, conclude l’inno del c. 2 dicendo: “Eravate erranti come pecore, ma
ora siete ritornati al pastore ed epískopos delle vostre anime” (1Pt 2,25). Sempre in 1Pt l’autore
esorta gli anziani a pascere il gregge di Dio che è stato loro affidato “sorvegliandolo
(episkopoûntes) non per forza, ma volentieri, non per vile interesse, ma di buon animo, non
spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il
pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1Pt 5,1-4). C’è un unico
buon pastore, il Cristo, il pastore supremo, ma vi sono poi alcuni anziani, alcuni presbiteri che
hanno ricevuto da Dio il compito di vegliare, di pascere sul gregge prendendo a esempio e modello
Cristo stesso. Ignazio è vescovo di Antiochia e scrive a Policarpo, vescovo di Smirne, ricordando
che Dio veglia su di lui e che se a tutti i cristiani è chiesto di vegliare in attesa del ritorno del
signore, al vescovo in particolare è chiesto di vegliare, di vigilare sui suoi fratelli, sulla sua
comunità. In Mc 13,33-34 il Signore ammonisce: “State attenti, vegliate, perché non sapete quando
verrà il momento preciso. È come uno, che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria
casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare”. Il
vescovo è il portinaio della casa incaricato di vigilare, ma può vigilare perché Dio veglia su di lui,
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perché Cristo ha promesso in modo particolare di pregare per Pietro, per chiunque partecipa del
ministero petrino (cf. Lc 22,31-32).
La lettera è una grande esortazione: “Ti esorto … a esortare”. C’è un invito a perseverare
nella corsa, e poi il primo grande ammonimento riguarda l’unità. “Preoccupati dell’unità di cui nulla
è meglio”. Il Signore, prima della sua passione, ha pregato per l’unità dei suoi discepoli, perché
siano una cosa sola, perché siano un solo gregge sotto un solo pastore. Il ministero del vescovo è un
ministero di unità, è lo strumento ordinario con cui Dio opera l’unità nella sua chiesa, è colui che
deve vegliare perché non ci siano divisioni, contese, discordie; è colui che deve cercare che nella
sua comunità “tutti siano un cuore solo e un’anima sola” (At 4,42).
“Porta tutti, come il Signore porta te; sopporta tutti nell’amore, come già fai”. Policarpo
deve ricordare che il Signore lo ha portato, si è caricato di lui come della pecora smarrita e sul suo
esempio deve farsi carico dei suoi fratelli (cf. Gal 6,2). Questo è possibile solo se ci si dedica
(schólaze) alla preghiera, se si vive in una preghiera costante (cf. 1Ts 5,17), se vi è intercessione
reciproca davanti al Signore. Chi svolge il ministero di pastore, di guida, deve, ancor più degli altri,
intercedere per i fratelli.
Nell’AT le due figure su cui più si è concentrata la teologia dell’intercessione sono proprio
due figure di pastori, di guide del popolo: Mosè e Samuele. Mosè che, a braccia alzate, prega per il
suo popolo e assicura la vittoria contro Amalek diventa il “tipo”, il modello dell’intercessore (cf. Es
17,11). Come Mosè, Policarpo deve lottare nella preghiera, stare in mezzo tra Dio e la comunità,
ricordare ai suoi fedeli le esigenze della giustizia di Dio e dall’altro lato ricordare al Signore le sue
promesse. E infine, Policarpo non deve stancarsi di chiedere con insistenza a Dio la sapienza, come
Salomone deve chiedere a Dio che gli conceda un cuore docile che sappia rendere giustizia al
popolo e sappia distinguere il bene dal male (cf. 1Re 3,9), deve invocare il dono della sapienza
perché lo assista e condivida la sua fatica, lo guidi in tutto il suo operare (cf. Sap 9,10-11; vedi
anche Gc 1,5), gli ispiri una parola buona da donare a ciascuno “individualmente”. L’immagine
dell’atleta la troviamo in 2Tm 2,5: “Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le
regole”.
2. L’amore premuroso del vescovo si riverserà soprattutto sui più malati, sui peccatori (cf.
Lc 6,32-33: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano
quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è
dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso”). Cristo è il medico venuto a curare i malati, a guarire le
malattie e i suoi discepoli sono associati in quest’opera di guarigione e di servizio del fratello ferito
dal male. Il vescovo deve discernere il medicamento adatto a ciascuno. La chiesa sta attraversando
un momento difficile e Policarpo è il pilota della barca sconvolta dalle onde.
4. Come l’orfano e lo straniero, la vedova è oggetto di particolare protezione da parte della
Legge; Dio ascolta il suo lamento e si fa il suo difensore e vendicatore. Forse qui Ignazio vuole
ricordare quelle vedove di cui parla Paolo in 1Tm 5,3-16. Chiede, come fa anche in altre lettere, che
non si faccia nulla senza il vescovo (Magn. 4; 7,1; Trall. 2,2; Filad. 7,1-2). Esorta a riunirsi più
frequentemente, come in Efesini 13,1, invitando ciascuno personalmente, ma non sappiamo che
cosa significhi nella pratica tale frequenza.
5. Segue un invito all’amore tra coniugi cui si affianca, alla fine del paragrafo, l’indicazione
che gli uomini e le donne si devono unire in matrimonio “con il parere del vescovo”. Le
testimonianze dirette ed esplicite intorno alla celebrazione matrimoniale dei cristiani per i primi due
secoli sono scarsissime; in generale si può dire che i matrimoni in Palestina e nelle colonie ebraiche
continuarono a seguire i costumi giudaici e quando si moltiplicarono i convertiti al paganesimo
continuarono a seguire i costumi matrimoniali dell’ambiente circostante evitando semplicemente
ogni atto di culto idolatrico.
Vi è anche un accenno al celibato; in un ambiente in cui le tendenze encratite sono forti,
Ignazio, come anche Clemente di Roma (1Clem. 38,2), deve richiamare all’umiltà, al
nascondimento. Sembra che fin dall’inizio la vita nel celibato abbia rischiato di sentirsi una via
migliore.
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