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In uscita il 30/6/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2016

(3,99 euro)

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IVAN FOLLI

UNA FARFALLA A METÀ

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UNA FARFALLA A METÀ Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-9370-002-3 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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INTRODUZIONE Vi guardo, vi osservo, cerco di carpire i vostri pensieri mentre rigirate tra le mani le pagine. Le sfogliate, le osservate velocemente, leggete qualche riga qui e là. Lo so cosa state pensando: sarà il classico ragazzino impertinente che scrive un romanzo e crede di aver fatto un’impresa epica, di essere arrivato. Crede che il suo libro sconvolgerà l’universo e che gli porterà notorietà e fama. Vorrei potervi dire che vi sbagliate. Non penso tutto questo e forse neanche sarei in grado di gestire una situazione simile. Non è stato facile mettermi a nudo e riversare su fogli bianchi e immacolati tutta la vicenda. Prima di tutto perché non sono mai stato uno scrittore, non so se mai lo sarò e con le parole non so quanto sia in grado di giocarci. Lo so, non ho avuto molta fantasia e non mi sono neanche sforzato di cambiare i nomi dei protagonisti di questa bieca storia. Il fatto è che non avevo idea che questa fase della mia vita sarebbe diventata un romanzo, non potevo immaginarlo. Non so neanche bene perché ho iniziato a scrivere. Forse, dentro di me, avevo intuito la verità, avevo la percezione di dover lasciare un segno di questo momento per far sì che non svanisse nei meandri oscuri della memoria. Ho iniziato a scrivere giorno per giorno, quasi a voler tener inconsapevolmente traccia di quello che mi stava accadendo. Col passare del tempo scrivere è diventata una necessità, un modo per trovare consolazione, per cercare di capirmi, di sfogarmi, per esprimere quello che sentivo e che stavo provando. Non avevo idea che un giorno qualcuno avrebbe letto le mie parole, ma, a un certo punto, ho capito che forse darvi in pasto questo romanzo, poteva aiutarmi a far quadrare le cose. A quel punto, anche per questioni di tempo, sarebbe stato inutile camuffare il mio nome, quello dei miei famigliari e di tutti i

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protagonisti: chiunque mi conosca, sa più o meno come sono andate le cose. Avrei solo dato sfogo a una moltitudine di domande del tipo: «Ma tizio sei tu vero?». E poi, cambiare i nomi o i luoghi, non avrebbe reso le cose più semplici perché io avrei sempre saputo che le pagine che tenete ora tra le mani raccontano di me, di quello che mi è successo e che mi ha cambiato la vita. Non mi spaventa essere giudicato, sono una persona semplice, tutto sommato onesta, che in qualche modo si è esposta e si è messa in gioco. Non ho fatto niente di male in fondo. Vorrei mi diceste qualcosa ora perché nonostante tutte le più buone premesse, dentro sento le budella arrovellarsi. Mi sto sforzando di mantenere un’espressione e una faccia il più possibile tranquilla e disinvolta. Tengo sotto controllo mani e piedi per far sì che non tradiscano l'emozione. Avrei dovuto indossare la cravatta come voi forse. Ma non credo sarà questa la discriminante per la vostra sentenza. Il fatto è che non sono abituato a portarla e credo mi sarei sentito ancora più a disagio di quanto già non mi senta. Essere qui al vostro cospetto mi ricorda tremendamente il giorno dell’orale della maturità. Anche allora, come oggi, ero terribilmente nervoso. Come oggi faceva caldo e splendeva in cielo un bel sole. Quel giorno, allora, segnò l’inizio di una nuova fase della mia vita: l’età adulta. Non a caso, forse, si chiama maturità. Probabilmente anche oggi, nel bene o nel male, inizierà un nuovo capitolo della mia esistenza e voi avete in mano il timone. Sarete voi a decidere in quale direzione virerò. Forza dunque! Pensate che questa storia valga la pena di essere letta?

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"C’erano i sogni c’era la realtà

c’era lei che li faceva incontrare."

(Charles Bukowski)

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1. RINO’S WAY «Sente la mia voce? Se mi sente, faccia un cenno o mi dica il suo nome». «Chi siete? Cosa mi è successo?». «Per favore, risponda alle mie domande: si ricorda come si chiama?». «Dove mi trovo?». «La prego…». «Dobbiamo immobilizzarlo e tamponare la ferita. Prendete la tavoletta». «Mi chiamo Rino». «Bene Rino, ti do del tu: ti ricordi anche il tuo cognome?». «Sì. Mi chiamo Rino, Rino Caneva». «Ti ricordi anche la data di nascita?». «Due settembre». «Perfetto. E quanti anni hai?». «Ventisette». «Il paziente sembra lucido e risponde prontamente alle sollecitazioni. Forza, carichiamolo in ambulanza». «Cosa mi è successo?». «Crediamo tu sia caduto. Non ricordi nulla?». «No». «C’è un famigliare che possiamo rintracciare?». «Chiamate mio fratello. Si chiama Francesco. Trovate il suo numero sul mio telefono. Non chiamate mio padre». «Tuo fratello è maggiorenne?». «Sì. È più grande di me». «Va bene». «Al tre lo solleviamo. Siete pronti? Uno, due e tre!».

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Non sento il mio corpo, come se di me fosse rimasta solo l’anima. Come se stessi fluttuando nell’aria. Forse sono morto. Forse non ho ancora lasciato il mondo terreno. O forse loro, vestiti di bianco, sono angeli e io sono già nell’aldilà. Posso saltare e rimanere qui come in City of Angels? Il cielo oggi è davvero azzurro, ma l’aria sembra pungente. Sento l’odore del mare e il canto dei gabbiani. Mi sto muovendo. Vedo le nuvole scorrere davanti ai miei occhi e a muovermi sono io. I loro volti sono attenti e tirati. Improvvisamente mi sento come nella scena finale di Carlito’s Way, quando Carlito Brigante, ormai spacciato nonostante i soccorsi, tira le somme della sua vita. “Mi dispiace ragazzi. Non basterebbero nemmeno tutti i punti del mondo per ricucirmi. È finita. Mi metteranno nel negozio di pompe funebri di Fernandez sulla Centonovesima Strada. Ho sempre saputo che prima o poi sarei finito lì, però molto più tardi di quanto pensava un sacco di gente. L'ultimo... dei Mohi-ricani. Beh, forse non proprio l'ultimo. Gail sarà una brava mamma, di un nuovo e migliore Carlito Brigante. Spero che li userà per andarsene, quei soldi: in questa città non c'è posto per una che ha il cuore grande come il suo. Mi dispiace, amore, ho fatto quello che potevo, davvero. Non ti posso portare con me in questo viaggio... Me ne sto andando, lo sento. Ultimo giro di bevute, il bar sta chiudendo. Il sole se ne va. Dove andiamo per colazione? Non troppo lontano. Che nottata... Sono stanco, amore. Stanco...”.

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2. RISVEGLIO «Bentornato tra noi». «Ciao Francesco». «Come ti senti?». «Come se fossi stato investito da un tir. Mi fa male ogni parte del corpo». «I medici dicono sia normale. Pian piano i dolori e le botte passeranno. Per i prossimi giorni dovrai usare quella fuoriserie». «Una sedia a rotelle? Allora sono messo davvero male». «No, no, è a scopo precauzionale. Hai preso una bella botta in testa, ma pare tu abbia la capoccia davvero dura. Non che noi non lo sapessimo! A livello fisico hai un bel po’ di contusioni e abrasioni, ma fortunatamente nulla di rotto. Nei prossimi giorni comunque ti faranno degli esami più approfonditi». «Cosa mi è successo?». «Tu non ricordi niente?». «Ricordo che era notte fonda e, dopo un saluto agli amici, stavo tornando a casa in bicicletta». «Esatto. Poi probabilmente hai perso l’equilibro, o hai urtato qualcosa… Questo non lo sapremo mai. Fatto sta che sei caduto dalla bici. Cadendo hai picchiato la testa e hai perso i sensi. Ti ha ritrovato domenica mattina un ciclista, disteso immobile sulla ciclabile. Hai perso un bel po’ di sangue. Mi ha detto che sembravi morto, ma io lo so che mio fratello ha la pellaccia dura. È stato lui a chiamare i soccorsi». «Ventisette anni e non hai ancora imparato ad andare in bici!». «Ciao papà. Mi spiace di avervi fatto preoccupare». «Ci hai fatto prendere un bello spavento, sì!». «Stai tranquillo. L’importante è che ora tu ti riprenda. Sono sicuro che tra qualche giorno sarai come nuovo».

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«Speriamo Francesco, perché al momento mi sento a pezzi. Che ore sono?». «Le diciassette e trenta. Di lunedì. Hai fatto un bel pisolino!». «Lunedì?! Ma hai detto che mi hanno ritrovato domenica mattina». «Sì, ma hai perso molto sangue ed eri molto debole, così i medici hanno preferito tenerti in coma farmacologico e sotto osservazione per una notte. Stamane ci hanno avvisati che questo pomeriggio ti avrebbero svegliato». «Capisco… Mi sono perso qualcosa di importante ieri?». «Direi di no». «E con la locanda come facciamo?». «Non preoccuparti: se ne sta occupando Veronica e la sera le do una mano io. Se poi ci sarà bisogno troveremo qualcuno che ci dia una mano finché tu non ti riprendi. Ok?». «Va bene». «Che dite: andiamo a prendere un caffè alle macchinette? Sono in corridoio». «Io non me la sento di alzarmi, andate pure voi… Tanto io da qui non mi muovo». «Vai tu papà, io rimango qui con Rino. Poi quando torni andiamo a casa». «Vi porto qualcosa?». «Per me niente». «Anch’io niente». «Come volete». «Papà è insofferente». «Sì, lo so… Francesco, in che ospedale mi hanno portato?». «Quello, Rino». «Cazzo. Mi spiace. Non sarà stato facile per te e papà». «Non pensarci. Devi solo rimetterti e basta». «Ok. I soccorritori hanno chiamato te? Avevo detto loro di non chiamare papà». «Hanno tentato. Ma ero fuori in barca a pesca con papà». «Dovevo immaginarlo».

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«Hanno trovato Veronica al numero della locanda. Lei è corsa subito qui e mi ha mandato un messaggio sul telefono. Appena arrivato in porto sono corso qui anch’io». «Papà come l’ha presa?». «Si è preoccupato. Soprattutto quando gli ho dovuto dire che ti tenevano in coma farmacologico, ma gli ho spiegato che era a scopo precauzionale e che non c’era nulla di preoccupante». «Hai fatto bene. Salutami Veronica e ringraziala. Dille che mi spiace per la locanda, ma spero di rimettermi presto». «Te l’ho detto: non devi preoccuparti. Ora vado io a darle una mano». «E questo libro cos’è?». «Te lo manda Veronica. Ha pensato che se ti fossi annoiato, magari un libro ti avrebbe aiutato a passare il tempo». «Acqua o sasso… Mai sentito!». «Sarà un libro dei vostri! Lo sai che io ho gusti totalmente diversi». «Sì, lo so». «Ascoltami Rino: nel comodino ci sono lo spazzolino, la saponetta e tutto l’occorrente per il bagno. Ci sono anche dei biscotti e delle monete se vuoi prenderti qualcosa alle macchinette. Nell’armadio ci sono i vestiti. Quelle sono due bottigliette d’acqua che ti ho preso. Ti occorre altro?». «Credo di no». «In caso chiamami». «Va bene Francesco. Grazie». «Ah: i medici hanno detto che ti puoi alzare… Cioè con la sedia… E si sono raccomandati di chiamare le infermiere quando vorrai farlo così ti danno una mano». «Meritano?». «Beh se ti piace la donna esperta…». «Ho capito. Mai una gioia!». «Vedo che la botta in testa non ti ha guarito però». Sorrido, così come Francesco, mentre papà rientra nella stanza. «Cosa facciamo Francesco, andiamo?». «Sì papà, andiamo. Rino se hai bisogno chiama». «Ok. Grazie. Ciao Francesco. Ciao pa’».

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Il collo mi duole terribilmente, ma con la coda dell’occhio riesco a seguirli mentre lasciano la stanza, illuminati dalla luce dorata del tardo pomeriggio. Li guardo uscire e mi accorgo che hanno sulle spalle un peso enorme, dettato probabilmente dai brutti ricordi che questo posto suscita in loro. Vorrei dirgli che non è necessario che passino domani, ma i loro corpi spariscono dietro la porta prima che i miei provati riflessi possano proferire parola. A passi veloci, sempre più distanti, si allontanano lungo il corridoio e altrettanto velocemente immagino abbiano lasciato l’ospedale. Mi sento stanco e terribilmente dispiaciuto per il disagio creato alla mia famiglia e a Veronica che dovrà mandare avanti da sola la locanda. Le palpebre si fanno pesanti, come serrande di un negozio che sta chiudendo i battenti. I pensieri si fanno confusi e opachi. Mi sforzo di tenere gli occhi aperti… Non ce la faccio.

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3. TRA JURY, JUDY E MARCO Ma che ore sono? L’una e quaranta. Diamine quanto ho dormito! Mi sono perso bellamente la cena, non che avessi particolarmente fame. Che strana atmosfera a quest’ora in ospedale. Il cielo è un drappo nero senza stelle, da sotto la porta filtra una flebile luce di corsia. Regna il silenzio. Un po’ incute timore, ma nello stesso tempo mette tranquillità. Di tanto in tanto è interrotto da un colpo di tosse lontano, come gli ultimi tuoni dei temporali estivi mentre si allontanano. I vetri spessi invece non lasciano filtrare nessun rumore da fuori. Mi sento come un serpente in una teca. Chissà se oltre il vetro c’è qualcuno che mi osserva. Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare nulla dell’incidente. So solo che, come tutte le sere nelle quali mi trovo con gli amici, eravamo passati da Igor a farci una birra. Salutati gli amici, saranno state le due e mezza circa, mi sono avviato in bici lungo la ciclabile per tornare a casa. L’aria era fresca e spingeva a riva l’odore di sale, il mare era talmente calmo da sembrare un pavimento bagnato nel quale si riflettevano le luci. Niente nuvole in cielo e una luna piena che quasi non rendeva necessario accendere il faro della bici. Non ero lontano da casa, questo lo ricordo, ma poi… Il nulla. Non riesco proprio a ricordare cosa sia successo. Ora però berrei volentieri un caffè. Rino, vediamo se sei in grado di salire su quel bolide senza ribaltarti. Probabilmente se mi giro di schiena è più facile salirci. Accidenti: a ogni movimento sento male da qualche parte. Come diavolo si fermeranno le ruote di questa cosa… Improvvisamente il silenzio fatato si interrompe e il buio della stanza, al quale i miei occhi si erano ormai abituati, è spazzato via da un fascio di luce improvvisa e prepotente. Inaspettatamente qualcuno apre la porta della stanza, eppure non mi è sembrato di fare tanto trambusto.

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«Non l’hanno avvisata di chiamare gli infermieri per alzarsi?». Rimango immobile, in equilibrio precario, a metà tra il letto e la sedia. Un braccio da una parte, un braccio dall’altra. Mi sento come Jury Chechi appeso agli anelli, pronto a volteggiare nell’aria. Infastidito dalla luce improvvisa e trovandomi di spalle, non riesco a guardare verso la persona che mi sta parlando. Tutto quello che vedo è la lunga ombra riflessa sulla parete della stanza. Improvvisamente, abbandonate le vesti da ginnasta improvvisato, entro nei panni di Judy Abbot, al cospetto di Papà Gambalunga. «Volevo solo prendere un caffè e non volevo disturbare nessuno». «Se cade dal letto e si procurerà altre botte, allora sì che sarebbe un problema». «Sì lo so, ma fino a pochi istanti fa ero convinto di potercela fare…». «Le do una mano io». L’ombra riflessa si fa sempre più grande e vicina, finché un profumo dolce e vivace mi raggiunge. I capelli di quella chioma che vedo riflessa sul muro, mi sfiorano il collo e un brivido inconscio prende forma sulla mia pelle. Finalmente sulla sedia e finalmente posso guardare verso quella voce leggera, solo appena roca e tremante, ma tutto ciò che riesco a vedere è una sagoma scura, a causa della forte luce alle sue spalle. «Stavo giusto andando anch’io a prendere un caffè… La notte è ancora lunga». «Posso venire con lei?». «Certo». «Lei è un’infermiera?». «Non proprio. Diciamo che sono qui perché mi hanno detto che c’è gente che al giorno d’oggi non sa ancora andare in bicicletta». «No… È che probabilmente pedalavo talmente forte che ho perso il controllo». «C’è chi dice che la vita sia come andare in bicicletta: se vuoi mantenere l’equilibrio, ti devi muovere. Forse lei si è mosso troppo velocemente».

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«È la vita che non riesce a starmi dietro!». «Sì, certo. Andiamo a prendere il caffè… Con calma, di modo che la vita tenga il nostro passo». Abbiamo riso uscendo finalmente dalla stanza: io sulla sedia a rotelle, lei in piedi accanto me. Non oso guardarla, vedo solo il suo camice bianco, dal quale spunta un maglioncino verde, probabilmente di un paio di misure più grande, sorretto da un corpo esile e minuto al suo interno. Camminiamo accanto, lungo il corridoio bianco e deserto. Improvvisamente, forse per la mia altezza da seduto pari a quella di un bambino, mi sento nella scena del film Da grande, quando Marco e Francesca, la maestra, camminano lungo il corridoio della scuola e lui, segretamente innamorato di lei, la prende per mano. Istintivamente ora, anch’io vorrei prenderla per mano, invece preferisco rompere il momentaneo silenzio. «Mi chiamo Rino. Forse possiamo darci del tu…». «Volentieri. Lo so Rino: ho letto la tua scheda clinica. Io mi chiamo Elisabetta». «Posso offrirti un caffè?». «Grazie, senza zucchero». «Io non riuscirei mai a berlo amaro». «È solo questione di abitudine, si fa fatica all’inizio, ma poi si apprezza di più il sapore». «Sarà. Se non sei un’infermiera, sarai allora un medico?». «Già, neurologa per la precisione». «Sei arrivata nella mia stanza perché hai sentito rumore?». «No, veramente ero passata per vedere come stavi. Il fatto che tu abbia deciso di alzarti è un buon segno». «Sarà, ma a ogni movimento sento dolore da qualche parte». «È normale: hai preso diverse botte nella caduta. La testa ti fa male?». «No, me la sento solo gonfia, qui di lato». «È la contusione e la medicazione. Vedrai che nei prossimi giorni starai meglio e i dolori pian piano passeranno». «Quanto dovrò restare qui?». «Se le cose vanno come penso e spero per te, direi che per fine settimana potrai tornare a casa».

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Nel silenzio dell’ospedale, il rumore della macchinetta del caffè produce un fracasso infernale. Per un attimo temo di svegliare qualcuno, ma una volta finito torna il silenzio. Ho porto quello non zuccherato a Elisabetta e per la prima volta, ignorando i dolori al collo, ho alzato la testa per guardarla. È bellissima. I capelli scuri, ricci, lunghi sino alle spalle e gli occhi di un colore indecifrabile tra il grigio e il verde. Le labbra lievemente disegnate su un viso splendido. Mi ha sorriso, mentre le nostre mani si sono sfiorate passandole il bicchiere caldo e mentre un nuovo inaspettato brivido ha percorso il mio corpo. Il mio cuore ha perso un paio di battiti. Per quanto ci provi, ora non riesco più ad allontanare lo sguardo da lei. Si avvicina alla finestra, cercando di guardare oltre il vetro e il buio del cielo. «Vivi qui a Genova Rino?». «Non molto distante, pochi chilometri fuori e tu?». «Sì, vivo qui. Come ti trovi? Ti piace la città?». «Sai che non so risponderti. Ci sono nato, ho frequentato le scuole qui e ora ci vengo quasi tutti i giorni o per lavoro o per trovarmi con gli amici. A volte ho l’impressione che sia la città più bella del mondo, altre penso che mi troverei meglio altrove. È una sorta di rapporto di amore e odio. In certi giorni la zona del porto vecchio, o i vicoli più caratteristici mi sembrano bellissimi, altri mi sembra una città tetra e inespressiva, inaccessibile. E tu? Ti trovi bene qui?». «Sì. Io credo che Genova sia una città difficile, spigolosa, ma che una volta abituato non lasci più. Non parlo solo della città in sé o della gente, ma pensala anche dal punto di vista geografico: hai il mare da una parte e le montagne dall’altra. È una città difficile da raggiungere, ma allo stesso tempo difficile da lasciare. Una sorta di fortezza vista da fuori e di prigione vista da dentro. A parte la zona vicino al mare, non c’è un metro di pianura, quindi devi sempre salire o scendere. In ogni caso devi faticare. Poi in quanto città portuale, è un incontro di culture, sapori, odori e colori. Ripeto: è una città difficile da conquistare e, una volta conquistata, difficile da lasciare. È come qualcosa che entra a far parte di te pian piano e poi non te ne liberi più». «Sì, credo tu abbia ragione. Non l’avevo mai vista in questo modo».

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«E poi noi, avendocelo sempre davanti, non ci rendiamo conto che fortuna abbiamo ad avere il mare! Pensa a vivere in città come Milano, Torino, Bologna… Senza mare, non credi ti mancherebbe?». «Credo di sì. In effetti ho un sacco di ricordi nei quali c’è il mare presente». «E poi il suo odore. Noi ci siamo abituati, ma se stai lontano per un po’, a un certo punto ti accorgi che ti manca proprio l’odore del mare». «In effetti già qui dentro ne sento la mancanza». Ha aperto la porta finestra a vetri e una folata d’aria fresca le ha accarezzato i capelli. «Se ti va possiamo uscire sul balcone». «Certo». In effetti la città, vista da qui, è bellissima. Col buio non si distingue la linea di confine tra il cielo e l’acqua, ma i riflessi delle luci lo fanno intuire. Entrambi ispiriamo a pieni polmoni l’aria salmastra della notte, quasi fino a quel momento avessimo trattenuto il respiro per lungo, forse troppo, tempo. «Quanti sogni e desideri si è portato via il mare». «In che senso?». «Con gli amici, fino a pochi anni fa, ma a volte ancora oggi, tutte le serate finivano sempre in riva al mare a raccontarci i nostri desideri, le nostre aspirazioni e le nostre paure. Ognuno di noi contava di andarsene via e costruirsi il proprio futuro, ma in realtà siamo rimasti tutti qui». «Vedi, è come ti dicevo: è una città difficile da lasciare, anche solo a livello inconscio». «Già. Il mare è stato silenzioso spettatore e ascoltatore di tutte quelle nostre fantasticherie e noi, ogni volta, gettavamo i nostri sogni in acqua, come messaggi in una bottiglia. E le onde li portavano via». Siamo rimasti in silenzio, sorseggiando i nostri caffè, al rumore lontano delle onde che ultimavano la loro corsa sulla riva. «E cosa fai a Genova? Hai un lavoro?».

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«Sì, lavoro in una piccola locanda. Cioè la locanda è della mia famiglia e io mi occupo principalmente della cucina. È un posto abbastanza piccolo, ma grazioso. Un posto alla buona, non certo un ristorante di gala. Hai presente no? Tovaglie a quadri, tavoli e sedie di legno e un menù fatto di pochi piatti che cambiano quotidianamente». «Beh sono i posti migliori!». «Lo spero! Facciamo così: una volta fuori di qui, una sera passi a cena così mi dici com’è. Il posto si chiama “Da Silvia”, si trova appena fuori Genova, andando verso Nervi». «Guarda che io vengo sul serio». «Ci conto! Ovviamente sarai mia ospite… Sempre che tu mi guarisca e mi faccia uscire vivo da qui». Ridiamo insieme. «E tu come sei finita a fare la neurologa?». «Sai, si dice che intraprendi gli studi di medicina o per vocazione che hai sin da bambina, o perché pensi che aiutando gli altri forse puoi aiutare anche te stessa». «Tu da bambina facevi l’infermiera con le bambole?». «Io ho tre fratelli maschi, sono la più piccola, quindi sono cresciuta solo con mostri, pallone, pistole e altri giochi da maschiaccio». «Ne deduco quindi l’hai fatto per il secondo motivo. Ed è realmente così?». «Se fosse realmente così gli psicologi dovrebbero essere le persone più felici al mondo. È un lavoro dove sicuramente non basta il sapere, ma ci vuole anche l’impegno, la passione e la dedizione, ma questo credo in fondo valga per ogni mestiere». «Già. E non ti pesa lavorare la notte?». «Al momento no, anzi mi piace. La notte è come se avessi i superpoteri». «In che senso?». «Mi prenderai per pazza. Nel senso che siamo pochi neurologi e la notte, se va bene, ce n’è uno per ospedale, o uno che segue più cliniche. Questo mi rende in qualche modo unica. Non dico indispensabile, ma unica sì. Per determinati problemi sono l’unica persona che possono chiamare e questo mi fa sentire come se avessi dei superpoteri, come se fossi diversa dagli altri».

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È una splendida eroina, non so bene se dal punto di vista di eroe, o della droga. Forse entrambi: perché mi sento quasi dipendente e vorrei mi salvasse. L’unica cosa che desidero ora è un’altra dose di lei. «Quindi mi pare di capire che la locanda è gestita direttamente dalla tua famiglia». «Ci lavoriamo io e Veronica, la ragazza di mio fratello. Mio padre invece fa il pescatore, così come suo padre e il padre di suo padre. Ha una piccola barca con la quale esce a pesca ogni giorno con mio fratello Francesco. Il pescato del giorno diventa poi il menù del giorno della locanda e il pesce in più lo rivende ai negozianti della zona». «E come mai tu hai preferito restare nella locanda e non andare in barca con tuo padre e tuo fratello?». «Soffro il mal di mare». «Cioè uno nato in una città di mare, figlio di un pescatore, anzi di una generazione di pescatori, che soffre il mal di mare?». «Già. Saresti l’orgoglio di mio padre. Non sai quante volte mi prende in giro per questo. Il fatto è che sin da bambino sono stato più legato a mia madre, che si occupava della locanda e passavo lì con lei buona parte del tempo. Crescendo, sia io sia Francesco, mio fratello, avremmo voluto andare in barca con papà. Le prime volte che ci ha portati fuori in mare, mio fratello sembrava già uno del mestiere, mentre io passavo il tempo a vomitare aggrappato alla barca. Dopo due o tre volte mio padre, con grosso rammarico e delusione, ha desistito. Così, mentre papà e Francesco uscivano a pesca, io passavo le giornate con mamma aiutandola nella locanda. Sapevo più meno a che ora rientravano e allora correvo ad aspettarli in porto». «Ora tua mamma non ci lavora più?». «No. Mia mamma è morta tre anni fa». «Scusa, mi spiace… Non volevo». «Non potevi saperlo, non preoccuparti. E tu invece? Com’è essere la più piccola di quattro fratelli? Immagino che essendo l’unica femmina, sarai la cocca di papà». «Non solo di papà, ma anche di mamma e per dirla tutta anche dei miei tre fratelli. Con mio padre sono stata legata sin da bambina: dopo tre figli maschi sono arrivata io e, come dicono i miei fratelli, ‘A te hanno

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lasciato fare tutto quello che volevi’. In effetti è così, forse un po’ anche per merito mio e del mio carattere, e un po’ forse anche per merito loro. Nel senso che, dopo che cresci tre figli, forse le regole ferree che imponi si affievoliscono un po’. Per esempio ricordo che se Simone, mio fratello più grande, voleva uscire una sera con gli amici, doveva iniziare a lavorare i miei ai fianchi una settimana prima. Più che altro per trattare sull’orario di rientro a casa. Quando io ho iniziato a uscire la sera con le amiche, queste regole non esistevano più. Un po’ forse per i tempi che nel frattempo, nel bene e nel male, sono cambiati e un po’ forse perché i miei erano stanchi di recitare la parte dei ‘cattivi’. Con papà mi accomuna anche la professione: lui è medico di famiglia e credo che il mio intraprendere gli studi di medicina sia in qualche modo legato anche a lui. Ricordo che da bambina, quando rientrava a casa la sera, volevo sempre indossare il suo camice e auscultare il cuore con lo stetoscopio. Auscultavo il ritmo cardiaco di tutta la famiglia e mi rendevo conto come ognuno avesse un proprio ritmo dentro. Anche con mamma ho un bel rapporto, ma lei è sempre stata più legata ai primi due figli, forse più simili a lei caratterialmente. Mamma fa la casalinga e credo sia stata quella che ha avuto la vita più difficile, nel senso che con una famiglia numerosa e quattro uomini in casa, hai il tuo bel da fare ogni giorno! Ricordo le peripezie che faceva per portare i miei fratelli e me a scuola, a fare sport o da qualsiasi altra parte. Mio fratello più grande, Simone, ha quarant’anni ora e vive ancora a casa con me e i miei. Non si è mai sposato e non credo mai lo farà. Roberto invece, il secondo fratello, ha trentotto anni, è sposato, ha due figli e si è fatto la sua famiglia. Il fratello al quale sono più legata è invece Luca, forse perché anagraficamente ha solo due anni più di me e quindi siamo cresciuti insieme nello stesso periodo. Luca da un paio di anni si è trasferito a Londra, dove lavora. Due o tre volte l’anno viene a trovarci e di tanto in tanto anche noi andiamo a trovare lui». Sarei rimasto ad ascoltarla per sempre. Elisabetta non racconta la sua vita solo con le parole, ma anche con i respiri e con tutte le emozioni che traspaiono a ogni sua frase e dal tono della voce. Si sente che ogni parola è vissuta, che ogni cosa è vera.

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«Scusa, ma credo di aver monopolizzato la discussione. È che a volte perdo gli ormeggi e inizio ad andare a ruota libera. Non ti sei addormentato vero?». «Affatto. Quindi vai spesso a Londra?». «Spesso no. Diciamo ogni quattro, cinque mesi». «E com’è?». «Personalmente la trovo una città bellissima. Una città enorme, dove perderti. Dove chiunque tu sia, sei comunque uno dei tanti, uno qualunque. Puoi essere chi vuoi, come vuoi, senza che nessuno di giudichi a titolo gratuito». «Io non ci sono mai stato. Per dirla tutta, non sono stato molto all’estero e anche in Italia non ho girato granché». «Se avrai mai l’occasione, vacci. E se ti capiterà di farlo devi assolutamente andare a Covent Garden! È il mio posto preferito: la prima volta che ci sono stata avevo l’impressione di trovarmi in un mercato rionale… E forse per certi versi è così. Solo che oltre a negozi e ristoranti, la caratteristica del posto sono gli artisti di strada. Credo di essere rimasta lì per ore a vedere le loro bellissime esibizioni». «L’arte di strada, quando è davvero tale, piace molto anche a me. Che sia pittura, musica o di qualsiasi altra forma». «Concordo. Io trovo si porti dietro una sorta di malinconia intrinseca. Ti affascina, ti fa sognare, ti attrae, ma poi viene portata via dal tempo, dal passaggio della gente. Non c’è un sipario che si apre e si chiude, non c’è un palcoscenico che ti mette in risalto rispetto agli altri. Sei allo stesso livello della gente, in mezzo a loro, ti esibisci e poi scivoli via e forse qualcuno si ricorderà di te». «Un po’ come nella vita». «Per certi versi sì, anche se non mi piace l’idea di recitare una parte. Credo questo sia il caffè più filosofico bevuto di recente in ospedale». Una nuova risata rischiara il buio. «Ti manca molto tuo fratello?». «A volte sì, soprattutto i primi tempi. Mi mancava più moralmente che fisicamente, perché ci confidavamo l’un l’altra e quando si è trasferito ho avuto la sensazione di perdere una parte di lui. Poi in realtà non è stato così perché mi sono resa conto che il fatto di sentirci più

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raramente, ci avvicinava di più. Paradossalmente ci sentiamo meno, ma ci raccontiamo più cose di noi stessi. Il vero distacco da lui l’ho provato quando ha deciso di trasferirsi in stanza con Simone, dopo che Roberto era andato a vivere con la sua compagna, liberando un letto in casa. Sono così rimasta in camera da sola e l’ho preso un po’ come un abbandono. Poi in realtà ho capito che lo ha fatto perché stavamo crescendo, per lasciarmi i miei spazi e prendersi i suoi». «Mi pare di capire che sei molto legata e hai un bellissimo rapporto con la tua famiglia». «Sì, in effetti è così. Tu no?». «Sì, con mio fratello ho un bellissimo rapporto. Per quanto torni indietro non ricordo tra noi un litigio. Neanche da bambini. Niente litigate per giochi, per vestiti, ragazze, macchine. Per niente. Siamo stati sempre molto legati per quanto agli antipodi». «In che senso?». «Francesco è… un ragazzo tutto d’un pezzo. Non so definirlo in altro modo. È deciso, apparentemente non ha mai dubbi e sa sempre cos’è meglio fare. È pratico e forse al primo impatto può risultare menefreghista o insensibile, ma in realtà è l’esatto contrario. È forte, sia fisicamente che moralmente e questo tende a far sentire al sicuro chiunque gli stia accanto. Ha tanta pazienza e il fatto di avermi sopportato sino a oggi credo sia la dimostrazione. Non siamo solo fratelli, ma anche amici. Come per te con Luca, anche noi siamo cresciuti insieme. Frequentiamo la stessa compagnia e siamo sempre usciti insieme, vacanze comprese. Siamo profondamente diversi: lui più razionale e realista, io più istintivo e sognante, però abbiamo sempre rispettato il reciproco modo di essere, di vivere, di vedere le cose senza mai entrare in contrasto. Anzi, forse paradossalmente, il fatto di essere così diversi, ci ha spesso permesso di vedere le cose e valutare le situazioni da un altro punto di vista». «È molto bello come lo descrivi. Si percepisce che siete molto legati e forse il fatto di essere così diversi vi permette di compensarvi. Mi pare invece di capire che con tuo padre le cose non vadano allo stesso modo». «Purtroppo no. Mio padre stravede per Francesco. Lui è il primo figlio, è quello più… Non uomo, ma maschio, perché più legato alle cose terrene. Più pratico e realista come ti dicevo. Non l’ho mai sentito

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parlare male di Francesco, anzi spesso ne esalta doti e qualità. Invece, qualsiasi cosa faccia io, tende a banalizzarla, a sminuirla. Vorrei solo comprendesse che non sono uno stupido, sono semplicemente diverso da mio fratello, o comunque da quella che è la sua definizione di uomo». «E tuo fratello come vive tutto questo nei tuoi confronti?». «Comprende il mio malessere e mi ripete di lasciare perdere e non farci caso. Mi dice che papà è fatto così, che lo conosciamo. In effetti ha ragione e non colpevolizzo mio padre per il fatto che Francesco sia il figlio preferito, ma non sopporto il fatto che mi consideri uno scapestrato solo perché non so andare in barca, o perché non mi interessano i motori, o perché non sono fisicamente abbastanza forte. Vorrei che comprendesse che anch’io ho i miei sogni e le mie aspirazioni, ma… Ecco forse lui mi vorrebbe senza sogni». «Hai mai provato a parlargli di questo?». «No, so come reagirebbe: direbbe che non è vero, che dico solo cavolate e uscirebbe. Faceva così anche con mia madre. So che mi vuole bene, ma ho sempre l’impressione che non accetti il fatto che non sono come vorrebbe lui, come Francesco». Il cielo comincia a schiarire. Le luci delle prime barche salpano verso l’infinito blu. Le osservo e penso che tra quelle ci potrebbero essere papà e Francesco. L’aria fresca del mattino risveglia i miei sensi assopiti e vedo che anche Elisabetta si stringe nel camice bianco. «Hai freddo?». «No, è solo la stanchezza». Ha guardato il telefono, per poi riporlo in tasca. «Pare che nessuno abbia bisogno di me e direi che il mio turno è ormai finito». «Domani notte sarai ancora qui?». «Non lo so. Forse. Non dipende da me». Vorrei mentire. Dirle che non sto bene, così da avere la certezza che torni qui domani, ma non posso farlo. Non sarebbe giusto.

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«Beh, se sarai qui e ti va, possiamo prendere un altro caffè insieme domani». «Grazie Rino. Volentieri». Genova pian piano si desta. Anche dentro l’ospedale si odono i primi movimenti. Osservo la città da quassù e mi chiedo quanti stiano ancora sognando, quanti siano già per strada, quanti stiano facendo l’amore. Vorrei che questa notte non finisse, che Elisabetta rimanesse qui, vorrei sapere tutto di lei e raccontarle tutto di me. Fatico ad accettare l’idea che debba aspettare domani, anche perché domani potrebbe non esserci. Non posso far altro che affidarmi al destino e sperare che abbia riservato ancora qualcosa per noi. Certe cose sono scritte, altre dobbiamo scriverle noi. Elisabetta da che parte sta? «Devo andare Rino. Hai bisogno una mano per metterti a letto?». «No, grazie. Sono certo di farcela». Rientro nella stanza, mentre lei prosegue oltre salutandomi un’ultima volta. Tra poco sarà fuori di qui. Socchiudo gli occhi e sento la stanchezza braccarmi in un sol colpo. «Fa che torni anche domani. Buonanotte Elisabetta».

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4. PRECARI «Ciao! Forse dovrei passare qualche giorno qui con te anch’io. Ho capito la tua tattica: sei venuto in villeggiatura qui per riposare». «Ciao Aigor. Sei qui da molto?». «Un po’, ma quando sono arrivato dormivi. Pesantemente. E non ti ho svegliato». «Dovevi farlo. No, il fatto è che stanotte non ho dormito granché. Stamane volevo dormire, ma mi hanno fatto diverse visite e esami, così non ho avuto modo di chiudere occhio. Dopo pranzo sono riuscito finalmente a schiacciare un pisolino». «Alla faccia del pisolino Rino! Sono quasi le cinque di pomeriggio». «Negli ospedali il tempo si dilata terribilmente». Ridiamo. Sono contento di vedere Igor. È uno del nostro branco da sempre, anzi è il punto di riferimento del nostro gruppo. Non tanto come figura in sé, quanto per il fatto che, finite le scuole, ha deciso di prendere in gestione un bar – birreria – tavola calda. Per noi è diventato vero e proprio punto di ritrovo e luogo del ‘rompete le righe’. Tutte le nostre serate nelle quali ci troviamo per una birra e quattro chiacchiere, iniziano e finiscono da lui. Andare da un’altra parte ci farebbe sentire a disagio o credo ci sentiremmo dei traditori nei suoi confronti. E poi, se andassimo da un’altra parte, lui non potrebbe venire con noi. Igor ha la stessa età di Francesco e sono stati compagni di classe alle scuole elementari e medie. Da sempre tutti lo chiamiamo Aigor. È così dal momento in cui, da ragazzi, vedemmo il film Frankenstein Junior. Il soprannome e il film si sono talmente radicati in lui che ha chiamato il suo locale Frau Blucher Pub. All’ingresso però non ci sono cavalli che nitriscono. Quando, finiti gli studi, decise di aprire il locale, i suoi genitori la presero veramente male. Il padre di Aigor fa tuttora il panettiere ed era certo che il figlio avrebbe portato avanti l’attività di famiglia. Quando

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invece realizzò che non sarebbe stato così, in famiglia fu il caos. Aigor andò a vivere da solo in un piccolo appartamento e si sommerse di debiti per aprire il locale. Pian piano è riuscito a ricucire lo strappo creatosi con la famiglia, ma se le botte passano, i segni non vanno più via. Vorrei poter dire che oggi il locale va alla grande e che ha fatto la scelta giusta, ma purtroppo non è così. Tutti noi ci passiamo spesso, ma non bastiamo. Aigor apre prestissimo la mattina e tiene aperto sino a notte fonda, spesso e volentieri dorme nel locale, ma tutto ciò non è abbastanza. Gli incassi spesso coprono giusto le spese. Sin da ragazzo sognava di aprire una birreria dove passare le serate tutti insieme, un luogo tutto nostro. In effetti ci è riuscito perché, a parte noi della compagnia, non si vede molta altra gente. Il Frau Blucher, nel corso degli anni, è diventato una seconda casa per noi. Chi ci passa la mattina a fare colazione, chi dopo lavoro per un aperitivo, chi la sera per una birra. Quando ci diamo appuntamento non specifichiamo più l’ora e il luogo di ritrovo. La prima è variabile, il secondo è il Frau Blucher. I grossi, scuri e pesanti tavoli in legno del locale portano i segni di tutte le nostre peripezie giovanili. Scritte per giorni importanti, anniversari, dediche per ragazze, macchie di cose rovesciate. Abbiamo il nostro tavolo ‘privato’ quando siamo in compagnia, mentre se passiamo soli ci fermiamo al bancone a parlare con Aigor. Aigor in fondo è l’anello di congiunzione tra tutti noi del gruppo. È lui a ragguagliarci sulle novità dei membri della compagnia: nuovo taglio di capelli, peso, cambi di auto o moto, cambi di lavoro, nuove ragazze. Ecco, per le ragazze l’esordio al Frau Blucher è una sorta di battesimo, una prima dello spettacolo. Nel senso che quando entri nel locale con una fanciulla, vuol dire che entro due giorni tutti sapranno di lei, di voi. Presentare la bella di turno ad Aigor vuol dire che non è una qualsiasi! In fondo, essendo una seconda casa, è come portarla a cena la prima volta dai tuoi genitori. Il Frau Blucher non è solo sfondo per i momenti belli e divertenti, ma anche per le discussioni, i momenti difficili. Su quei tavoli e su quel bancone abbiamo vissuto e viviamo tuttora. Il solo pensiero che un

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giorno possa chiudere mi disorienta perché vorrebbe dire perdere un pezzo fondamentale di ognuno di noi. Aigor questo lo sa e credo sia quello che lo spinge a non aver mai preso in considerazione l’idea di vendere il locale e andare a lavorare con il padre nella panetteria. A pensarci bene, in fondo la situazione di Aigor è quella di ognuno di noi in compagnia. Nessuno infatti è riuscito a sfondare, a fare il botto, ad arricchirsi un minimo: tutti noi viviamo la nostra vita, onesta, cercando di sbancare il lunario di mese in mese. Muratore, elettricista, pescatore, ristoratore, barista, meccanico… In compagnia non manca nulla. Siamo una specie di confraternita e, pur di darci una mano, in caso di bisogno, ci affidiamo all’amico di turno. Per esempio se dobbiamo fare dei lavori di ristrutturazione a casa, chiamiamo tutti Gio, Giovanni all’anagrafe, che ha deciso di portare avanti l’attività di famiglia. Ci diamo una mano a vicenda insomma, di modo che i soldi restino all’interno di una cerchia ristretta. Anche la nostra locanda non se la passa granché bene. I mesi nei quali c’è un discreto giro di clienti si sopravvive, ma sono più i mesi nei quali ci si rimette. Veronica ci lavora non dico gratis, ma quasi. Io e Francesco spesso siamo costretti a rimpinguare le casse. Papà lo teniamo all’oscuro di tutto, in quanto, dopo la morte di mamma, era deciso a cedere l’attività. Non me la sono sentita, mi sembrava di venire meno al sogno di mia madre. Vedevo ogni giorno l’impegno e la passione che ci metteva nel cucinare, preparare i tavoli, sistemare la sala da pranzo. Papà non poteva saperlo perché lui e Francesco erano fuori a pesca, ma io ero sempre con lei e vedevo quanto tenesse a quel posto. Quando mamma è scomparsa, la locanda è rimasta chiusa un paio di mesi. Una sera papà ci disse che l’avrebbe messa in vendita. Io e Francesco ci guardammo intensamente e, dopo averne parlato, decidemmo di riaprirla. Francesco fu determinante perché se lo avessi proposto solo io ovviamente papà non avrebbe mai acconsentito. Alla fine di ogni mese io, Francesco e Veronica, ci sediamo sempre attorno a un tavolo e facciamo i conti. Spesso e volentieri il segno meno è davanti a tutto.

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Probabilmente papà aveva ragione, ma finché riuscirò a tenere aperto quel posto, lo farò. I soldi per pareggiare le spese cerco di metterli io: Francesco e Veronica stanno risparmiando per sposarsi e comprare casa e quindi cerco di evitare di chiedere loro altro denaro. Per questo motivo, pochi mesi fa, ho venduto l’auto. A papà ho detto che non mi serviva più. Tutte le cene, le feste di compleanno, i pranzi di Natale e Pasqua, si svolgono “Da Silvia”. Papà non viene quasi mai alla locanda: troppi ricordi legati a mamma che riaffiorano ogni volta che ne varca la soglia. Siamo in fondo una compagnia di precari, di ragazzi cresciuti con le ginocchia sbucciate e i vestiti rattoppati, che prima aveva portato tuo fratello o il figlio dell’amico dei tuoi genitori. Siamo una compagnia sempre in debito, dove tutto si aggiusta e niente si butta, piuttosto si scambia o si ricicla. Questo vale sia per i rapporti tra di noi che per le cose materiali. Vite fatte di sacrifici, delusioni, sveglie all’alba e notti insonni. Siamo una banda di bravi ragazzi che la sera annegano i sogni irrealizzati in una pinta di birra. In fondo sappiamo che nessuno di noi spiccherà mai il volo, ma sapere di essere tutti sulla stessa barca… Beh ci fa sentire meno soli e tutto sommato, felici. Mi fa uno strano effetto vedere Aigor con uno sfondo diverso da quello della schiera di bottiglie multicolori che troneggiano alle sue spalle nel locale. Tutta la vita di Aigor è dentro il Frau Blucher. Non lo vediamo da secoli all’aria aperta, mai visto con una ragazza, né innamorato: il pub ha finito per annientare la sua vita privata e in parte i suoi sentimenti. «Che ci fai qui Aigor?». «Sono venuto a trovarti». «Sì, lo vedo e mi fa piacere, ma con la birreria come hai fatto?». «C’è Marta». Marta è la sorella minore di Aigor. Quando c’è bisogno, gli da una mano con il locale.

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«Salutamela». «Te la saluto, ma tu stalle alla larga». «Guarda che io non ci ho mai provato con tua sorella. Bella ragazza per carità, ma non è il mio tipo». «Lo so, ma meglio ricordartelo. Non vorrei che la botta in testa ti avesse fatto cambiare idea». «No, mi ha fatto cambiare abitudini e ora pensavo di provarci con te». «’Fanculo Rino!». Ridiamo sonoramente, quasi fossimo al bancone del bar. «Come ti senti Rino?». «Ammaccato. Ho dolori un po’ ovunque, ma rispetto a ieri va un po’ meglio». «Le botte passano, l’importante è che non ci sia nulla di rotto». «Fortunatamente no». «Ma non ricordi come è successo?». «No, onestamente no. Stavo pedalando, ero quasi a casa e poi non so». «Non mi sembrava avessi bevuto molto». «No, assolutamente: avevo bevuto una birra e stop, anche perché ero arrivato al pub sul tardi, dopo la chiusura della locanda. A proposito: come va il Frau Blucher?». «Come al solito». «Hai dormito lì stanotte?». «Sì, come mi succede ormai da dieci giorni. Sto seriamente pensando di vendere l’appartamento, in questo modo ridurrei le spese e avrei un po’ di liquidità a disposizione». «E torneresti a vivere con i tuoi?». «No. Stavo pensando di togliere gli ultimi tre tavoli della sala nel locale, tirare su un muro e ricavarne una piccola stanza per me». «Pensaci bene Aigor, è una decisione importante». «Posso pensarci quanto voglio, ma che alternative ho? E poi la realtà dei fatti è che vivo già lì dentro ventiquattro ore al giorno, tanto vale ufficializzare la cosa». «Ma a livello burocratico puoi farlo?». «Questo non lo so, sto provando a capire se è una cosa fattibile». «Più che altro non avresti più una vita privata».

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«Neanche ora ne ho una se per questo. E direi che anche per te è uguale. Sì, quando chiudi riesci a passare da me e a vedere gli amici, ma non mi sembra che ci sia molto altro nella tua vita privata». «Sì, hai ragione». «Hai mai pensato di mollare tutto?». «In che senso?». «Chiudere e ricominciare, fare altro, cambiare vita». «Onestamente no. La locanda non era in cima ai miei sogni, ma mi sono legato molto a quel posto e farò il possibile perché continui a esistere. E tu?». «No. In fondo siete la mia famiglia e la birreria è il collante che ci tiene uniti. Quando avevo rotto con i miei, siete stati gli unici a rimanermi accanto. Come dicevamo prima: tutta la mia vita è lì dentro e chiudere vorrebbe dire lasciare morire una parte di me». «Sì, lo capisco benissimo. Per tutti noi è lo stesso». «Come hai fatto con la locanda in questi giorni?». «C’è Veronica che se ne occupa. Francesco le da una mano appena rientra dalla pesca. Comunque se tutto va bene, per fine settimana dovrei uscire di qui e tornare al mio posto». «E a te lavorativamente le cose come vanno?». «Più o meno come te: si vive alla giornata sperando che gli incassi pareggino le spese alla fine del mese. Ogni tanto ce la si fa, ogni tanto no. E si finisce con il vendere la macchina o la casa per ripianare i conti». «Sai cosa mi fa davvero incazzare?». «Cosa?». «Che a sentire i nostri genitori, noi siamo la generazione che ha avuto tutto. In realtà la generazione che ha avuto tutto è stata la loro. Certo, sono nati nella miseria, hanno vissuto un’infanzia difficile, però le opportunità che hanno avuto dopo loro, noi non le abbiamo avute e non credo le avremo. Senza una grande istruzione hanno trovato buoni lavori, avviato attività, guadagnato. Hanno vissuto il boom economico e il progresso tecnologico. Noi, nonostante gli studi e i sacrifici, siamo qui a fare acrobazie per pareggiare i conti a fine mese. Hanno comprato casa senza mutui, o con debiti di pochi anni. Noi se vogliamo comprar casa oggi dobbiamo essere almeno in due e indebitarci per quarant’anni fino al buco del culo. E la cosa preoccupante è che questa crisi non sembra aver fine.

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Storicamente ogni tanto una generazione salta, noi siamo quella generazione. Siamo la prima generazione dopo secoli che finirà più povera dei nostri genitori. Nessuno si ricorderà di noi. Il dramma è che abbiamo avuto un’infanzia agiata e questo porta un sacco di gente a pensare di poter vivere tutta la vita con quello stile, ma non è così». «Non so Aigor, io non sono mai stato legato più di tanto ai soldi, forse perché non ne ho mai avuti molti». «Neanche io, lo sai, però mi fa incazzare essere sempre in bilico e sentirmi anche dire che sono fortunato». «Credo che i nostri genitori vogliano solo avere la certezza di aver fatto un buon lavoro con noi, con quello che ci lasciano. Rispetto a loro abbiamo avuto la possibilità di studiare, avevamo davanti un futuro apparentemente splendido, poi qualcosa si è rotto». «Non è che si è rotto, è che quando eravamo piccoli la persona laureata era un’eccezione. Era una persona che aveva un’istruzione superiore alla media comune. Oggi la laurea è quasi lo standard. Il numero di persone che si laureano è cresciuto a dismisura e questo ha inevitabilmente abbassato la qualità del sapere. Inoltre una laurea oggi non ti da più garanzia di un lavoro, come invece era anni fa». «Sì, capisco cosa vuoi dire. Insomma saresti voluto nascere prima». «Cazzo sì! Tu no?». «Sì, ma per vivere il sessantotto e tutto quel fenomeno socio-culturale che mi ha sempre affascinato. Sarei diventato un hippy probabilmente e sarei andato a Woodstock!». «Ma come si fa a fare un discorso serio con te Rino?». «Ma io sono serio». Ridiamo di nuovo, mentre Francesco entra nella stanza. «Ah vedo che ve la spassate qui! E non mi chiamate?». «Beh, visto che è arrivato Francesco, io vi saluto. Torno al locale. Ah Rino, nel comodino ti ho lasciato una bottiglia di birra. Omaggio della casa». «Grazie, la berrò nei momenti di solitudine». «Stammi bene ed esci presto di qui. Ciao Rino. Francesco ci vediamo dopo?». «Sì, ci vediamo stasera». «Ciao Aigor».

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«Allora come ti senti Rino?». «Un po’ meglio, anche se le botte sono tante». «Pian piano passeranno». «Sì. Come va Veronica con la locanda?». «Bene. Non preoccuparti, le sto dando una mano io». «Salutamela». «La vedrai domani probabilmente». «Ok. Papà?». «A casa. Ti saluta». «Salutalo e digli che sto bene. Non è necessario che venga: so quanto è difficile per lui venire qui e in fin dei conti tra pochi giorni sarò a casa». «Va bene. Ti hanno fatto qualche esame oggi?». «Sì: varie lastre alla testa, mi hanno rifatto le medicazioni su tutto il corpo e basta». «Hai provato ad alzarti o sei lì svaccato da ieri?». «Mi sono alzato. Si fa per dire: uso la sedia a rotelle». «Ok, sono certo che in un paio di giorni sarai come nuovo». «Francesco comunque non sentirti obbligato a passare…». «Non mi sento obbligato, lo faccio volentieri». «Ti turba molto entrare qui?». «Non è piacevole, ma cerco di non pensarci». «Dai mandami Veronica domani, così la saluto». «Va bene. Ciao Rino. Se hai bisogno ci sentiamo». «Ok. Ciao Francesco». So quanto pesi a mio fratello venire qui. Lui e papà la scomparsa di mamma non l’hanno mai superata del tutto. Dal letto guardo la finestra: nuvole opache lasciano poco spazio al blu del cielo. Non posso fare a meno di pensare a Elisabetta. Chissà dov’è ora, con chi e cosa sta facendo. Chissà se stanotte tornerà a trovarmi. FINE ANTEPRIMACONTINUA...


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