2 Verso un modellodella comunicazione verbale
Dopo aver messo a fuoco l’importanza della comunicazione nella convivenzacivile, cerchiamo ora di approfondire il concetto stesso di comunicazione e, al-l’interno di questo, di definire la comunicazione verbale.
Per far questo riprendiamo sinteticamente alcuni importanti contributi venutinel Novecento dalla linguistica, dalla teoria dell’informazione e dalla pragmatica,proponendo infine un modello fondato sul rapporto tra comunicazione verbale eazione umana che già Platone sottolineò nel Cratilo, affermando che «il dire è unfare»1.
Descriviamo poi le componenti della comunicazione verbale stessa,soffermandoci in particolare su quelle componenti – la semiosi categoriale e lasemiosi deittica – che la caratterizzano più propriamente come “verbale”, cioècome attività compiuta dall’uomo valendosi della parola.
Non esiste una definizione estesamente accettata nella comunità scientifica né dicomunicazione né di teoria della comunicazione2. Si tratta in effetti di un camposcientifico relativamente nuovo, rispetto al quale sono stati messi in atto approccidiversi a seconda delle discipline. Se ne sono occupate, oltre alla linguistica, la
1 «Tò légein mía tis tôn práxeon estín», Platonis Cratylus 387b.2 Si veda R.T. Craig, Communication Theory as a Field, in «Communication Theory», IX/2,1999, pp. 119-161, e B. Mann, What is Communication? - A Survey, scaricabile dal sito http://www-rcf.usc.edu/~billmann/WMlinguistic/communication.htm (ultima consultazio-ne dicembre 2003).
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16 Verso un modello della comunicazione verbale
sociologia, la psicologia, la teoria dell’informazione, ma solo raramente si è cer-cato di dare una definizione complessiva del fatto “comunicazione”3.
Nella prospettiva adottata nel presente lavoro, la comunicazione rappresenta unmomento essenziale e indispensabile dell’interazione umana e questa è ricondu-cibile, a sua volta, all’incontro di azioni4: i modelli elaborati nel corso del Nove-cento in ambito linguistico ne hanno dato alcune prospettive parziali. Ma vedia-mo i principali.
2.1 I primi modelli
Il primo “modello” della comunicazione è il celebre circuit de la parole di Ferdinandde Saussure, riprodotto nella figura 2.1.
3 Anticamente la comunicazione verbale era studiata nell’ambito della retorica, intesa comestudio della tecnica di produzione di un discorso e, più in generale, di un testo. La retoricaantica abbracciava molti aspetti, dall’elencazione degli argomenti da adottare all’ordine in cuitrattarli, alle tecniche espositive, fino alle tecniche mnemoniche per ricordare i passaggi di un’ar-gomentazione (ma anche per avere sempre a disposizione abbondanza di argomenti, esempi, aneddoti,da utilizzare nei discorsi) e alle tecniche di elocuzione. Aristotele mette in evidenza che i trefattori fondamentali di ogni discorso sono il parlante (ho légon), il discorso (lógos) e l’ascol-tatore (akroatés). Si veda in proposito E. Rigotti, La retorica classica come una prima formadi teoria della comunicazione, cit., p. 5. Il contenuto del termine retorica si è in seguitoristretto, venendo a indicare soprattutto le tecniche espressive, ossia l’insieme degli “artifici”retorici, nel senso delle cosiddette “figure retoriche”. Si veda per esempio http://humanities.byu.edu/rhetoric/silva.htm (ultima consultazione dicembre 2003). Nel Medio Evo enella Modernità l’accezione di retorica si è ridotta a quest’ultimo significato e solo negliultimi decenni, dopo la pubblicazione nel 1958 del Traité de l’argumentation di Chaïm Perelmane Lucie Olbrechts-Tyteca, il termine è tornato a indicare alcuni dei temi contemplati dallaretorica antica.4 Si veda E. Rigotti, La linguistica tra le scienze della comunicazione, cit.
Figura 2.1 Il circuit de la parole di Ferdinand de Saussure.
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172.1 I primi modelli
Il linguista ginevrino rappresenta gli interlocutori che discorrono scambiandosisegni: ciascuno dei due produce segni materiali (fonetico-acustici) e interpretaquelli prodotti dall’interlocutore in base alla propria conoscenza della lingua.
Nella Sprachtheorie del 1934 Karl Bühler elabora il concetto di lingua comestrumento per comunicare. È proprio attraverso il suo concetto di segno linguisti-co che emerge il suo modello di comunicazione. Bühler, incentrando l’attenzionesull’analisi funzionale del segno, lo colloca al centro di un triplice rapporto checoinvolge il livello oggettuale, il mittente e il ricevente in tre fasci di relazioni(figura 2.2).
Il segno si lega a ciascuno di questi tre livelli con una relazione specifica: perl’emittente il segno è un sintomo, che ha funzione di espressione; il riceventecoglie il segno come segnale che ha la funzione di appello; rispetto all’oggetto ilsegno è un simbolo che funge da rappresentazione (figura 2.3).
Spesso i modelli della comunicazione elaborati fuori dalle scienze linguisti-che non hanno come oggetto immediato la funzione svolta dal linguaggio rispettoalla comunicazione verbale, ma, più in generale, la struttura dell’evento comuni-cativo. È il caso anche del modello elaborato in ambito matematico-informaticoda Claude Elwood Shannon, che sta per molti aspetti alla base degli approccimatematico-formali – in particolare informatici – della comunicazione. Ne par-liamo brevemente perché è stato tenuto presente da molti linguisti. Come si vedenella figura 2.4, Shannon riduce la comunicazione a trasmissione di informazio-ne e definisce le limitazioni alla comunicazione in termini di disturbi del canale orumore (teorema di Shannon): si può definire matematicamente la capacità di uncanale come quantità massima di scambio informativo tra sorgente e ricevitore,in base a un calcolo di probabilità. Pertanto una trasmissione priva di errori è
Figura 2.2 Karl Bühler: il segno linguistico.
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18 Verso un modello della comunicazione verbale
possibile se (e solo se) la quantità di informazione comunicata nell’unità di misu-ra prescelta è minore della corrispondente capacità5.
Figura 2.3 Karl Bühler: funzioni del segno linguistico.
Figura 2.4 Il modello di Claude Elwood Shannon.
5 La dimostrazione del teorema è formulata in un famoso articolo, A Mathematical Theoryof Communication, pubblicato nel 1948.
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192.1 I primi modelli
Un ulteriore modello sviluppato in ambito linguistico è quello di Roman Jakobson.Anche Jakobson muove da una concezione funzionale della lingua: parlare ser-ve per comunicare, e comunicare è un fatto complesso, che nasce di volta involta in rapporto a funzioni diverse: si comunica per esprimersi, per raccontareo descrivere un aspetto della realtà, per assicurarci che il nostro interlocutore cicapisca, per spiegare il significato di una parola, per dare un ordine, per crearequalcosa di esteticamente bello. Il modello di Jakobson (elaborato in particolarein Linguistica e poetica, del 19586) si ispira peraltro a quello proposto da KarlBühler.
Nel suo modello (si veda la figura 2.5), Jakobson mette a fuoco sei fattorifondamentali della comunicazione a cui corrispondono sei funzioni testuali. La
Figura 2.5 Il modello di Roman Jakobson.
6 Una versione italiana del testo è pubblicata in R. Jakobson, Saggi di linguistica generale,L. Heilmann ed., Feltrinelli, Milano 1966.
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20 Verso un modello della comunicazione verbale
funzione dominante di un testo dipende dall’orientamento prevalente del messag-gio verso uno dei sei fattori costitutivi7.
Successivamente questi primi modelli sono stati ripresi ed elaborati, soprat-tutto in rapporto alla caratterizzazione dei ruoli dei partecipanti alla comunicazio-ne e alle possibili “stratificazioni” del soggetto parlante8.
2.2 La prospettiva pragmatica
Nata nell’ambito della filosofia del linguaggio come modello per spiegare la co-municazione verbale in termini di azione, la teoria degli atti linguistici (speechacts) è stata elaborata da John Austin nel 1962, in un famoso libro intitolato Howto do things with words9.
Austin parte dall’osservazione di un fenomeno particolare: in alcuni casi, ilfatto stesso di pronunciare una certa espressione produce un cambiamento nellasituazione reale. Se consideriamo per esempio un enunciato come “Lei è licenzia-to!”, la situazione degli interlocutori prima e dopo il proferimento è diversa. Lui-gi aveva un dipendente e ora non l’ha più, il dipendente aveva un lavoro e ora l’haperso. Un caso analogo è quello di “Ti prometto di venire alla festa di Chiara”: ilmittente ha assunto un impegno, il destinatario si aspetta dal mittente che faràquel che ha detto. Questi usi di licenziare e promettere sono chiamati da Austinperformativi.
Austin amplia però la sua osservazione, mettendo a fuoco il fatto che ogni usodel linguaggio è, in qualche modo, “performativo” nella misura in cui provoca uncambiamento nella realtà. Da qui il termine speech acts.
7 Vale la pena di menzionare qui il famoso articolo di Marshall McLuhan, The medium isthe message, in Understanding Media. The Extensions of Man, McGraw-Hill, New York1964. La rilevanza di questo testo sta nel capovolgimento dei valori di “contenuto” e di “mez-zo”. Il mezzo, osserva McLuhan, è per così dire “realtà nuova”, una sorta di estensione di noistessi (extension of ourselves) che si aggiunge alla realtà vecchia creando una situazionenuova; non è pertanto il modo di comunicare ciò che è cambiato con la nascita delle nuovetecnologie, bensì la comunicazione stessa, totalità inclusiva di contesto e interlocutori.8 Si veda E. Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Allen Lane, London 1969e Id., Forms of Talk, OUP, Oxford 1981.9 Per una presentazione puntuale degli sviluppi e delle applicazioni linguistiche, si veda G.Gobber, Pragmatica delle frasi interrogative. Con applicazioni al tedesco, al polacco e alrusso, ISU, Milano 1999. Si veda anche La linguistica pragmatica: Atti del XXIV Convegnodella SLI, G. Gobber ed., Bulzoni, Roma 1992. Per quanto riguarda le implicazioni relativealla teoria dell’azione, si veda, oltre all’articolo di Rigotti, La linguistica tra le scienze dellacomunicazione, cit., H.H. Clark, Using Language, cit., e L. Filliettaz, La parole en action,Nota Bene, Québec 2002.
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212.2 La prospettiva pragmatica
La teoria degli atti linguistici distingue tre diverse “azioni” compiute nella for-mulazione di un discorso. A un primo livello il discorso è un atto locutivo – l’attostesso di parlare –, a cui si sovrappone un livello illocutivo, quello dell’azioneche il parlante intende compiere attraverso il proprio atto locutivo. Infine l’attolinguistico è un atto perlocutivo, cioè un’azione che provoca un certo effetto suldestinatario.
John Searle elabora il lavoro di Austin, approfondendo il livello illocutivodel discorso per descrivere la tipologia degli atti che il parlante può compiereattraverso il linguaggio10.
Parallelamente ad Austin e a Searle, Paul Grice sviluppa un ulteriore modello,basato sul principio di cooperazione e sulle massime della comunicazione: Gricemette a fuoco il fatto che ogni intervento nel discorso deve rispondere a una seriedi requisiti – “massime” appunto – per essere comunicativamente adeguato. Quandole massime vengono apparentemente disattese, i parlanti recuperano il senso gra-zie a procedimenti inferenziali più o meno codificati11.
Il modello di Grice viene ampliato e precisato dalla teoria della pertinenza diDan Sperber e Deirdre Wilson12: si tratta di un modello della comunicazionein cui gli autori sottolineano l’importanza del contesto per interpretare il mes-saggio verbale. Del contesto fanno parte anche i parlanti stessi, con le loro co-noscenze e le conoscenze che ciascuno presuppone che l’altro abbia. Tutti que-sti elementi guidano i processi inferenziali (sull’inferenza si veda oltre, in que-sto stesso capitolo) che costituiscono la componente fondamentale dell’eventocomunicativo. Sperber e Wilson evidenziano l’efficacia di questi processi, chenormalmente portano il destinatario a inferire – a partire da un insieme di inter-pretazioni possibili – un unico senso che è esattamente quello inteso dal mitten-te, con un dispendio minimo di sforzo interpretativo.
10 Si veda J.R. Searle, Per una tassonomia degli atti illocutori, in Gli atti linguistici, M.Sbisà ed., Feltrinelli, Milano 1978, pp. 168-198. Si veda inoltre Id., Speech Acts, CambridgeUniversity Press, Cambridge 1969 e Id., Rationality in Action, MIT Press, Cambridge, MA –London 2001.11 Si veda H.P. Grice, Studies in the Ways of Words, Harvard UP, Cambridge, MA 1991,nonché il principio di cooperazione formulato in Id., Logic and conversation, The WilliamJames Lectures at Harvard University 1967, lezione II, in Syntax and Semantics – SpeechActs, P. Cole - J.L. Morgan ed., Academic Press, New York – London 1975, pp. 41-58, trad.it. Logica e conversazione, in Gli atti linguistici, cit., pp. 199-219.12 D. Sperber - D. Wilson, Relevance, Blackwell, Oxford 1986 (1995²).
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22 Verso un modello della comunicazione verbale
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23
A conclusione di questa rassegna e prima di passare al modello della comunica-zione verbale proposto in questo volume, riportiamo una sintesi delle varie defi-nizioni che sono state date della comunicazione in tradizioni scientifiche diver-se13 (tabella 2.1).
Lo schema riportato mostra sinteticamente alcuni approcci alla comunicazio-ne: le prospettive che abbiamo presentato fino a qui rientrano sostanzialmentenelle prime due colonne, che Craig chiama retorica e semiotica. Si tratta natural-mente di una semplificazione, che tuttavia inseriamo qui con lo scopo di mostrareper quali aspetti il nostro modello tenta di integrare i contributi precedenti, lingui-stici e non, in una concezione più organica.
2.3 L’atto comunicativo come evento
Cominciamo pertanto a chiederci in che senso diciamo che l’atto comunicativo èun evento.
Un evento14 è una qualsiasi cosa che accade, meglio, che ci accade. In altreparole, si parla di evento quando si ha a che fare con qualcosa 1) che accade e 2)che, più o meno direttamente, ci tocca, ci cambia, ci sposta. Quando un eventocomunicativo si compie, esso produce un cambiamento nel destinatario e questocambiamento è il “senso” della avvenuta comunicazione.
Il fatto di parlare di evento comunicativo sottolinea che, dal punto di vista deldestinatario, il messaggio “arriva” come sollecitazione a lasciarsi coinvolgere (nellediverse maniere in cui un messaggio può coinvolgere: informa, rallegra, rendebeneficiari di una promessa, richiede una risposta, impone obbedienza ecc.). Ilcoinvolgimento del destinatario, il suo cambiamento, rappresentano un momentodel senso, ciò che fa dell’atto comunicativo, appunto, un evento comunicativo.Ciò non toglie che il messaggio abbia già un senso “proprio” in quanto testocoerente (si veda più oltre il concetto di symploké) e in quanto testo adeguatoall’intenzione comunicativa del mittente.
2.3.1 Uno scambio di segni che produce senso
In effetti, tra tutti gli eventi che popolano il mondo e lo costituiscono, c’è unaclasse particolare15, quella degli “eventi comunicativi”, intesi come gli eventi che
13 Lo schema è tratto dall’articolo di R.T. Craig, Communication Theory as a Field, cit., p. 133.14 Il termine evento ha un uso più specifico in sede di gestione della comunicazione comeincontro pubblico di varia natura il cui obiettivo ultimo è di far passare un certo messaggio,come in una conferenza stampa, o nella dimostrazione – presentazione di un tipo di prodotto ecc.15 La classe è un insieme che si caratterizza per il fatto che i suoi elementi hanno tutti incomune una particolare caratteristica.
2.3 L’atto comunicativo come evento
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24 Verso un modello della comunicazione verbale
i soggetti umani producono per comunicare, per trasmettere l’uno all’altro unmessaggio portatore di un senso. La proprietà di produrre senso è tipica dei mes-saggi e viene studiata dalla semiotica (scienza dei segni) e dalla linguistica (scienzadei segni verbali o linguistici), che affrontano la domanda “come è fatto dentro ilmessaggio?”, cioè “quali sono i suoi aspetti costitutivi, essenziali?”
Soffermiamoci brevemente sui concetti introdotti. Riprendiamo in primo luogola nozione di senso. La parola senso ha una grande polisemia (cioè ha molteaccezioni diverse, diversi significati). In italiano la usiamo per dire direzionequando diciamo che una strada è percorribile “a senso unico”, ma, se diciamoche una persona “ha buon senso”, intendiamo dire che questa persona sa valuta-re le circostanze in modo ragionevole. Se invece parlo dei “cinque sensi” inten-do gli organi di percezione... Consideriamo infine l’espressione “non ha senso”,che rappresenta un’accezione molto interessante16. Crediamo degno di nota ilfatto che nel linguaggio comune l’espressione è usata tendenzialmente solo alnegativo. Essa può essere usata in molti contesti diversi. Se uno mi dice:
Mio figlio non guida: è sposato
io penso che scherzi, a meno che non sia matto, perché quello che dice non hasenso (ma se fosse una battuta in una commedia dell’assurdo?…). Ma ci sonoanche comportamenti non sensati: se uno va al bar e dice: “Mi può fare un caf-fè?”, e il barista risponde: “Sì” e se ne va, il suo comportamento non ha senso. Ese il direttore del manicomio, come vuole una barzelletta, appende sulla porta delsuo ufficio un cartello con la scritta Si prega di bussare e un paziente, tutte levolte che passa di là, bussa... il suo comportamento è insensato. E ancora, a unlivello diverso, non avrebbe senso aprire una ditta di freezer al Polo Nord... Que-sti sono tutti esempi di insensatezza.
Pensiamo in effetti che ci sia un collegamento tra il senso e la ragionevolezza:un fatto “ha senso” quando ha un rapporto (che, come vedremo, è possibile speci-ficare descrivendolo in modo esplicito) con la ragione.
Apriamo qui una breve parentesi sul problema del non-senso. Il non-sensoesiste? Certi linguisti hanno imparato a fabbricare non-sensi “su misura” da esibi-re nei loro corsi (se ne trovano anche in questo testo). Ma quando parliamo dinon-senso intendiamo anche quella tipologia testuale che si realizza nel teatrodell’assurdo. In quest’ultimo caso però sarebbe più esatto parlare di un livello delsenso, che viene infranto con il preciso obiettivo di attingere a un livello piùprofondo del messaggio. A ben vedere qui il senso viene recuperato a un livello
16 Si veda E. Rigotti - A. Rocci, Sens - non-sens - contresens, cit.
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strategicamente più alto della comunicazione. Invece, quando sono i linguisti ainventare non-sensi artificiali, questi non sono testi reali17 e quindi di regola noncontengono un livello più profondo di significato a cui l’insensatezza superficialevenga a rinviare.
Può un non-senso essere l’ultimo – definitivo – livello di un testo, il suo “vero”messaggio? L’ipotesi di risposta che in questo libro intendiamo mettere alla provaè no: l’unico non-senso irrecuperabile potrebbe essere quello dei testi prodotti dasoggetti psicopatici18. Tuttavia, per il terapeuta, nemmeno in questo caso si puòparlare di non-senso definitivo: in effetti, indipendentemente dal modo in cui sipresenta la volontà nelle sue manifestazioni di superficie, sembra che si debbacomunque riconoscere, nei testi prodotti da un malato, il tentativo di esprimere undisagio profondo.
L’ipotesi è, dunque, che l’uomo sia “un animale che ha inevitabilmente sen-so”. Riassumendo, quando si parla di non-senso bisogna, pertanto, distinguerediversi livelli: nella dimensione ultima, comunicativa (per esempio, nel teatrodell’assurdo) il non-senso non esiste, perché il testo è tutt’altro che insensato e haal contrario un forte messaggio da trasmettere allo spettatore. Negli esempi “arti-ficiali”, invece, il non-senso si dà, ma solo come esito “metalinguistico” (comenegli esempi inventati dai linguisti), e non come realtà comunicativa.
Per capire meglio che cos’è il senso è utile mettere a fuoco la distinzione tra dueconcetti che, pur essendo apparentemente simili, si rivelano diversi: si tratta dinotizia e informazione.
Se esco dall’università e uno sconosciuto mi si avvicina e mi dice con tono diconfidenza: “Mio cugino è farmacista”, questa comunicazione mi dà un’informa-zione, che però non ha senso perché a me non interessa. Questo significa cheun’informazione, per poter essere considerata una notizia, deve essere pertinenteper il destinatario, deve, in qualche misura, riguardarlo. Riesco a comunicare davveroquando il destinatario si rende conto del fatto che quello che gli sto dicendo hasenso per lui. Potremmo dire, scherzando un po’, che noi dobbiamo lavoraresull’informazione in termini di marketing, per riuscire a “vendere” l’informazio-ne come notizia per qualcuno. Ma bisogna comunque che l’informazione risulti
17 Definiamo, in una prima approssimazione, “testi reali” quei testi in cui mittente e destinatariosono personalmente coinvolti dal messaggio.18 Si vedano in proposito G. Maggio, Psicopatologia e linguaggio, Masson, Milano - Parigi- Barcellona - Bonn 1991 nonché i contributi di C. Galvano, G. Maggio e I. Carta nellaSezione terza “Destrutturazione del senso e testo psicotico” di Ricerche di semantica testua-le, E. Rigotti - C. Cipolli ed., La Scuola, Brescia 1988.
2.3 L’atto comunicativo come evento
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26 Verso un modello della comunicazione verbale
infine oggettivamente interessante per il destinatario19. Il comunicatore in effettiseleziona e comunica solo alcune delle informazioni che costituiscono il suo “data-base del mondo”, quelle che ritiene pertinenti per il destinatario.
2.3.2 Comunicare è agire
Abbiamo messo a fuoco il fatto che la comunicazione presuppone la partecipa-zione di almeno due soggetti. In effetti si ricorre alla comunicazione tutte le volteche il singolo soggetto non è in grado, da solo, di realizzare un proprio scopo ecerca pertanto di coinvolgere altri soggetti. A questo punto gli scenari possibilisono due: se i due soggetti condividono lo scopo, si realizza un’attività di coope-razione (per esempio due persone cooperano per soccorrere un ferito). Nel casoin cui, invece, gli obiettivi dei due agenti siano complementari, ciascuno dei dueagisce perseguendo il proprio obiettivo, ma ricorre all’altro affidandosi a lui perla realizzazione del proprio obiettivo: si tratta allora di interazione. In entrambi icasi, gli schemi d’azione dei due soggetti presentano parziali sovrapposizioni. Gliatti comunicativi che i due soggetti si scambiano consentono loro di coordinare leproprie azioni, mostrandosi reciprocamente il beneficio ottenuto dall’interazione,cioè dall’agire secondo il desiderio dell’altro.
L’interazione dunque può essere rappresentata descrivendo i soggetti comeagenti capaci di iniziativa nella realtà, che non solo hanno una certa conoscenzadel mondo ma anche desideri; che sono capaci di immaginare stati di cose corri-spondenti ai loro desideri e di decidere di realizzarli. Per realizzare il suo deside-rio, il soggetto deve attivare una “catena di realizzazione”, deve cioè disporre unaserie di azioni orientate alla sua intenzione: in questa serie di azioni possonorientrare anche le azioni di altri agenti, come nel caso della cooperazione edell’interazione20. Se Luigi, passeggiando per il centro, prova il desiderio di uncaffè, la sua conoscenza del mondo gli suggerirà di entrare in un bar, ordinare uncaffè, berlo, passare alla cassa e pagare (figura 2.6): si tratta di interazione perchédiversi agenti (Luigi, il barista, la cassiera) partecipano all’evento interattivo, cia-scuno realizzando obiettivi propri che però si integrano con gli obiettivi degli altrisoggetti, consentendo anche a questi ultimi di realizzare i propri desideri. Luigiottiene il suo caffè, pagandolo. Il barista, per conto suo, onora il suo impegno
19 Tema di rilievo nel marketing oggi: la pubblicità deve essere veritiera perché oltretutto,sul lungo periodo, l’informazione commerciale falsa diventa inefficace. Bisogna però teneredistinta dalla comunicazione quella forma patologica della comunicazione che è la manipola-zione: rimandiamo al volume New Perspectives on Manipulation and Ideologies, cit.20 In altre circostanze, l’agente è autonomo nella realizzazione del nuovo stato di cose. Peresempio: Luigi è in casa, ha bisogno di bersi un caffè, va in cucina, prende la moka, la riempied’acqua, mette il caffè nel filtro, accende il fornello…
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lavorativo (fornire un certo tipo di prestazione ai clienti che ne fanno legittima-mente richiesta) in vista dei benefici che ne conseguono (lo stipendio, ma magarianche dell’altro: per esempio, gli piacciono certi aspetti dell’attività del baristacome l’intrattenersi con i clienti…). La sua adesione alla richiesta del cliente èlibera, ma, in condizioni normali, prevedibile, perché egli ha già accettato unruolo preciso in un’organizzazione (il bar) che peraltro offre con segnali inequivocabiliuna precisa serie di servizi. Con il messaggio di richiesta di caffè, Luigi attival’impegno del barista a servirlo e il proprio impegno a pagare21.
Naturalmente l’aspetto pertinente di tutta la vicenda sta nel fatto che l’interazionenon-comunicativa (nel nostro esempio lo scambio caffè/soldi) richiede la media-zione di un’interazione comunicativa. Quest’ultima si realizza attraverso l’attivazio-ne della catena di realizzazione (entrare nel bar, per esempio) di cui fanno parte anchegli atti linguistici (“Vorrei un caffè”) costitutivi della comunicazione verbale.
Figura 2.6 Elementi dell’interazione comunicativa in un bar.
21 In effetti il comunicare non cambia solo il destinatario, ma anche il mittente: “chi haparlato, ha parlato”, e in un certo preciso senso non è più lo stesso di prima.
2.3 L’atto comunicativo come evento
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28 Verso un modello della comunicazione verbale
2.4 I fattori della comunicazione verbale
Vediamo dunque come si possono rappresentare i fattori della comunicazioneverbale, in uno schema come quello della figura 2.7.
Abbiamo già introdotto alcuni aspetti che fanno capire quanto è importantetenere conto delle soggettività coinvolte nell’evento comunicativo per capire lacomunicazione stessa; ci torneremo tuttavia nel corso di questo capitolo, nel capi-tolo 4, e in vari altri momenti di questo volume perché si tratta di una dimensioneessenziale.
Prendiamo in esame ora gli altri fattori, cominciando dalla semiosi – categorialee deittica – che è il fattore più tipico della verbalità della comunicazione umana.
2.5 Semiosi
Per accostarsi al mondo della semiosi, è utile pensare ad alcune situazioni moltocomuni: Sabrina e Daniele salgono su un autobus affollato e parlano, cercando didistinguere quel che si dicono dal sottofondo di rumori e da quello che dicono lealtre persone. A lezione il professore spiega e, nelle ultime file, qualcuno si la-menta del brusio dicendo: “Non sento!”. Un altro esempio: sulle pareti bianche diun ufficio è appesa la locandina de Il padrino e, accanto a questa, c’è il program-ma di un convegno di linguistica.
In effetti siamo abituati a distinguere gli eventi semiotici dagli altri eventi,pur senza renderci conto di regola del diverso trattamento che riserviamo a que-sti due tipi di realtà, che si presentano alla percezione sensibile in modo analo-go. I discorsi delle altre persone e il rumore del motore hanno la medesimanatura fisica delle parole che si scambiano Sabrina e Daniele: la differenza stanel fatto che Sabrina ascolta le parole di Daniele non come un evento fisicoqualunque, ma come un evento fisico che Daniele produce espressamente percomunicare con lei un significato. Il rumore dell’autobus, invece, è una conse-guenza (fisica) delle esplosioni e degli attriti nel motore, e, se uno è esperto, può
Figura 2.7 I fattori della comunicazione verbale.
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addirittura capire – ascoltando quel rumore – di che macchina si tratta e se ilmotore è in buone condizioni o meno... Tuttavia questo rumore non viene realiz-zato apposta per significare qualcosa e nemmeno per farci capire le condizionidel motore22. Anche i discorsi delle altre persone sono solo un “rumore di sottofondo”per chi non prende parte alla conversazione, mentre per gli interlocutori sonoeventi semiotici.
E quando il nostro sguardo si rivolge a una parete su cui è appesa la locandinade Il padrino, possiamo facilmente renderci conto del fatto che lo “sguardo” cherivolgiamo alla locandina è diverso rispetto allo sguardo che rivolgiamo al muro:il muro è lì con una precisa funzione (riparare dal freddo, sostenere il soffitto...),ma non ci “dice” nulla (in effetti, per essere più precisi, non lo guardiamo perniente), mentre il poster non serve a tenere su il soffitto: il suo compito è tutt’al-tro, rimanda a un messaggio, ha cioè una funzione semiotica. Anche il foglio conil programma del convegno è un evento semiotico, e tuttavia, in quanto oggettomateriale, è un pezzo di carta, con dei segni tipografici stampati sopra, di cui ci sipotrebbe servire per accendere il fuoco nel camino. In questo caso tratteremmol’evento semiotico soltanto nel suo “lato” fisico, come oggetto che può essereadatto come esca per il fuoco.
Gli eventi semiotici dunque sono reali e sono fisici (le parole che diciamo sonocostituite materialmente da movimenti dell’apparato fonatorio, onde sonore, vi-brazioni dell’aria che stimolano l’udito...; le parole scritte sono fatte di inchiostroo di onde luminose in uno schermo di PC ecc.). Questi eventi fisici non si esauri-scono in se stessi: sono stimoli a cui è associato un significato.
Per capire la specificità della modalità semiotica e linguistica di produzionedel senso, dobbiamo a questo punto stabilire in maniera abbastanza circostanziatache cosa sia un segno. Il segno è una realtà complessa che unisce inscindibilmentedue diverse realtà: c’è qualcosa di fisico, o meglio di “percepibile con i sensi”,che rimanda a qualcosa di non-fisico, il valore linguistico.
22 Qui è utile una messa a fuoco. Immaginiamo che un automobilista faccia sentire al mec-canico il motore della sua macchina o, ancora, che un centauro faccia il giro della città con lasua moto nuova per far sentire e vedere il proprio gioiello agli attoniti concittadini. Si tratta inapparenza di controesempi. Ma notiamo, anzitutto, che il secondo non rappresenta un eventogenuinamente comunicativo: anche se il giro della città è fatto per far vedere e sentire equindi far sapere che lui possiede una moto prestigiosa, non c’è fra il centauro e i suoi occa-sionali spettatori alcuna interazione comunicativa. Per parlare di comunicazione in sensoproprio non basta che il mittente intenda far sapere qualcosa al destinatario, bisogna che inten-da anche far sapere la sua intenzione.
2.5 Semiosi
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2.5.1 Significante e significato
Abbiamo cominciato ad accostarci alla nozione di “segno” mettendo a fuoco laspecificità di questo evento complesso, in cui un fatto fisico rimanda a un fattonon fisico. Per quanto riguarda il “lato” fisico, i segni possono essere grafici,linguistici, gestuali... ci sono tanti tipi di segni quanti sono i sensi (i percettori)dell’uomo e le loro combinazioni possibili. Dobbiamo ora introdurre una seriedi precisazioni.
Anzitutto, se si torna sugli esempi portati sopra, si può osservare che Sabrina eDaniele si possono servire più di una volta del medesimo “segno”:
Sabrina: “Ieri sono uscita tardi e ho fatto una corsa pazzesca per prendere l’auto-bus!”
Daniele: “Ma lo sai che anch’io ieri ho fatto una corsa pazzesca per prendereil treno… ma poi ho fatto in tempo! comunque l’autobus spesso è in ritardo.”
Sabrina: “Come?!”Daniele: “L’autobus spesso è in ritardo!”
Sabrina e Daniele hanno voci di altezza molto diversa; quando Daniele ripete lafrase che Sabrina non ha sentito, parla a volume più alto; Daniele parla più rapi-damente, Sabrina più lentamente. Inoltre consideriamo che, per realizzare un attocomunicativo verbale, occorre produrre dei suoni concreti attraverso le corde vo-cali; ebbene: i suoni concreti realizzati la prima, la seconda e la terza volta cheviene usato il segno ho fatto sono tre suoni concreti materialmente diversi, cosìcome è diverso il tratto di inchiostro con cui sono rappresentati su questa pagina.
Questo fa capire che la “faccia” fonetica del segno – strumento espressivo dicui possiamo servirci perché conosciamo una certa lingua – non consiste tantonella sua realizzazione materiale, quanto in un modello (pattern) di realizzazione,che consente di riconoscere il segno, nonché di riprodurlo. Questo modello direalizzazione è detto anche strategia di manifestazione.
Ma, a ben vedere, anche la “faccia nascosta” del segno non è una realtà sem-plice: quando si parla del lavoro, per esempio, è facile che ciascuno pensi al pro-prio, che ha caratteristiche, positive e magari addirittura appassionanti, specifi-che. Ognuno ha un suo concetto di che cos’è “lavoro”, ma ciò non toglie che inlinea di massima ci si intenda, quando si parla del “lavoro”. Allora va tenutodavanti anche questo fatto: anche l’idea, il valore linguistico che viene associatoa ciascuna strategia di manifestazione, costituisce in realtà un’astrazione rispettoa tutte le molteplici e personali esperienze che ciascuno fa. Anche in questo casooccorre dunque distinguere il valore canonico di un segno dai valori concreti cheesso assume ogni volta che viene usato effettivamente, in un testo reale. È que-
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st’ultima dimensione che risulta pertinente per accostarsi allo studio della lingui-stica, come vedremo più avanti nel capitolo dedicato al metodo di questa disciplina.
Con una prima approssimazione, diciamo dunque che si intende per semiosi ilnesso che unisce intenzioni comunicative, sensi (valori linguistici) a eventi fisici(strategie di manifestazione linguistica), come quelli che abbiamo visto nel dialo-go tra Sabrina e Daniele. Chiamiamo l’insieme di questi due elementi “strutturaintermedia”23.
All’inizio del XX secolo, la strategia di manifestazione dei significati lin-guistici (soprattutto lessicali) era stata chiamata da Saussure significante, men-tre il valore era detto significato: questa terminologia è stata largamente impie-gata per quasi tutto il secolo scorso. Ci serviamo qui di denominazioni diverseper tenere conto delle integrazioni sostanziali apportate nel corso di questo se-colo alla linguistica saussuriana. Resta, tuttavia, un aspetto rilevante: sia nellaterminologia saussuriana sia in quella qui adottata, le coppie di termini indica-no una reciprocità irrinunciabile. In effetti la strategia di manifestazione è stra-tegia di cui ci si serve per manifestare un certo valore linguistico, così come ilvalore è sempre valore di qualcosa, della manifestazione appunto; allo stessomodo per Saussure un significante deve necessariamente essere significante “diqualcosa” (di un significato), e viceversa24.
Osservazione Semiosi e implicazioneUn evento può avere senso perché può implicare per me qualcosa di partico-lare. Per esempio l’evento “oggi c’è il sole” implica banalmente per me chenon devo prendere l’ombrello per uscire, o che posso soddisfare il desideriodi concedermi nel pomeriggio una passeggiata in centro. Invece l’evento “es-sere penna” di questo oggetto (una penna) implica che lo possa usare perscrivere: questo è il senso della penna per me. In questa accezione il senso sispecifica come “implicazione per me”.Abbiamo distinto da questi gli eventi come i segni, che veicolano un signifi-cato in quanto anzitutto sono fatti “apposta per” veicolare un significato. An-che di questi eventi si può dire che hanno senso, però in modo diverso dalprecedente in quanto il rapporto tra l’evento e il suo senso è un rapporto semiotico:si tratta di semiosi.
23 Rimandiamo al capitolo 5. Si veda E. Rigotti - A. Rocci, Le signe linguistique commestructure intermédiaire, Actes du colloque Nouveaux regards sur Saussure. Colloque internationalen hommage à René Amacker, Genève 19-20 settembre 2003.24 Sulla nozione di segno si veda la bella discussione di G. Gobber in Pragmatica dellefrasi interrogative…, cit., pp. 5-16.
2.5 Semiosi
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32 Verso un modello della comunicazione verbale
Per esempio, in
“In tedesco matita si dice Bleistift”
gli eventi costituiti dalle due parole matita e Bleistift hanno un rapporto semioticocon il senso che esse veicolano. La semiosi è il fenomeno per cui un evento èportatore di un contenuto/significato/senso perché, grazie a una convenzione,quell’evento fisico è da me e dai miei interlocutori collegato a un contenuto/significato/senso, e non grazie al fatto che la natura dell’evento in se stessomi faccia capire (implichi) questo significato.Si vedano i seguenti esempi. Cristina incontra Giovanni che la saluta e le dice“Ciao, come va?”; Cristina può replicare dicendo:
“Ma ti è scesa la voce?!,”
oppure può rispondere:
“Bene, grazie. E tu?”
Nella prima risposta Cristina ha preso in considerazione il senso dell’evento“enunciato proferito da Giovanni” inteso come fatto fisico, nel secondo inte-so come evento semiotico.Un altro esempio dello stesso tipo. Andrea ascolta una canzone di CélineDion, My heart will go on, e alla fine osserva:
“Gran bella voce! peccato però che il testo non sia niente di eccezionale.”
La sua osservazione fa riferimento a due aspetti dell’evento “canzone”, valu-tato dapprima in quanto evento fisico e in seconda battuta come evento semiotico.Un qualsiasi evento può essere considerato come fatto in sé per le implicazio-ni che uno ne trae (se per esempio tutti i posti in biblioteca sono occupati,Silvia ne trae l’implicazione che deve andare a cercare un’aula libera per stu-diare), oppure può essere un evento convenzionale che ha un valore semiotico(per esempio un amico ha messo lo zaino sulla sedia di fianco alla propria: pergli altri significa che quel posto è occupato, e per Silvia vuol dire che l’amicola sta aspettando per studiare insieme). In quest’ultimo caso il significato del-l’evento non dipende dalla sua natura (dal tipo di zaino, per esempio: ci po-trebbe mettere anche la giacca...). La segnaletica stradale, le frecce delle auto,i semafori, i segnali luminosi e acustici degli utensìli, le stellette militari...tutti questi sono eventi semiotici.
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In realtà la comunicazione è un fenomeno molto complesso, che opera sia coneventi che significano per implicazione sia con eventi che significano persemiosi, ma nella comunicazione verbale la semiosi ha indubbiamente unafunzione fondamentale25.Bisogna peraltro precisare che anche gli eventi che non sono semiotici hannodefinitivamente senso per noi solo in quanto rientrano, quasi sono catturati,nel nostro universo di discorso: quando in qualche modo li trattiamosemioticamente, ovvero li semioticizziamo26.Come abbiamo detto, la linguistica si colloca entro la comunicazione semiotica,come studio del linguaggio (prevalentemente) verbale. E per distinguere quelfare particolare che è il dire dagli altri tipi di “fare”, bisogna considerare chec’è una funzione primaria concreta di certi atti, che non si riduce al valoresemiotico. Per esempio se Luigi ha fame e la mamma gli dà una brioche cal-da, questo gesto ha una funzione che non è affatto semiotica. È vero che nelmomento in cui la mamma dà la brioche dà anche un messaggio (anzi, moltimessaggi), ma il gesto non si riduce affatto a questo aspetto. Questo fa capireche bisogna fare attenzione a tenere distinto il semiotico dal reale27.La semiotica considera i segni in generale, in tutte le possibili tipologie, men-tre la linguistica si occupa di una classe di segni, quelli verbali.
Il segno è delimitato da una cornice, più o meno immaginaria, che sta a indicareil confine tra un oggetto semiotico e un oggetto non-semiotico, segnalando ladiversità di sguardo con cui ci rivolgiamo all’uno e all’altro28. La cornice indicaun ambito di realtà entro la quale opera la semiosi: l’evento in essa contenuto è
25 Sulla nozione di segno e sulla tipologia dei segni si veda, per esempio, il testo di PatriziaVioli, Significato ed esperienza, Bompiani, Milano 1997.26 Questo discorso andrebbe approfondito dal punto di vista filosofico, e, in ogni caso, nonè possibile esaurirlo in questa sede. Notiamo solo che su questo punto la linguistica confinacon la filosofia del linguaggio e la filosofia del linguaggio deve fare i conti con i dati chevengono dalla linguistica. Vygotskij in particolare ha analizzato l’ontogenesi del linguaggio,cioè i processi di formazione della semiosi osservabili nell’apprendimento individuale dellinguaggio (si veda L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Laterza, Bari 1992; ed. orig. 1934).27 La posizione di chi sostiene che “tutto è linguaggio” si chiama pansemioticismo. È unaposizione che diventa contraddittoria quando viene spinta fino alle sue ultime conseguenze:in effetti, se tutto è segno, allora non vi è nulla di cui un qualsiasi segno è segno (proprio inrapporto alla natura costitutivamente duplice del segno). Per un significativo ritorno da que-ste posizioni, si veda U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1998.28 Su questo tema è fondamentale il contributo di Boris A. Uspenskij. Si veda La palad’altare di Jan van Eyck a Gand: la composizione dell’opera, Lupetti, Milano 2001, e la riccabibliografia ivi citata.
2.5 Semiosi
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34 Verso un modello della comunicazione verbale
un evento semiotico che, in quanto tale, va interpretato. Essa pone dunque unconfine tra l’evento semiotico e tutti gli altri eventi (quelli fuori dalla cornice)che costituiscono il mondo, che in se stessi non sono semiotici e che possono, allimite, essere interpretati per implicazione.
Sono esempi di cornice, oltre alla cornice dei quadri, il palcoscenico del tea-tro, il piedistallo delle statue, il “C’era una volta...” con cui cominciano le favole,le sigle delle trasmissioni televisive...
Molte forme di espressione artistica “giocano” con la cornice fingendo disuperarla: pensiamo al teatro di Luigi Pirandello (paradigmatico il dramma Seipersonaggi in cerca d’autore), ma l’incapacità di riconoscere la cornice è indefinitiva un sintomo di follia, in quanto rappresenta l’incapacità della ragionedi cogliere il particolare rapporto che rimanda dall’oggetto semiotico al suosenso29.
2.5.2 Il segno come institutum di una comunità: la convenzionalità
Tra le scienze che si riferiscono alla comunicazione, una prima caratterizzazionedella linguistica riguarda dunque l’oggetto di cui questa scienza si occupa: i mes-saggi verbali. L’insieme dei messaggi verbali costituisce il linguaggio verbale.Le lingue storico-naturali sono sistemi che consentono di formulare messaggiverbali, sono cioè sistemi semiotici o segnici.
Già Ferdinand de Saussure spiega la correlazione semiotica, facendo ricorsoall’esempio di albero. Possiamo dire che in italiano il significato (o senso o con-tenuto, o valore) del suono [´a l b e r o]30 è quel concetto che abbiamo rappresen-tato con un disegno nella parte superiore del cerchio nella figura 2.8.Nella figura, la linea rappresenta la barra della semiosi, o barra semiotica. Lastruttura linguistica “albero”, formata da una correlazione semiotica, ha due fac-ce: una fonica (o fonetico-articolatoria), l’altra concettuale31.
Qui naturalmente l’accezione in cui il termine albero viene utilizzato è quel-la, convenzionale e canonica, stabilita nella lingua italiana. Non vi è nessuna
29 Non poche volte si è verificato che l’attore che impersona Otello fosse ucciso sulla scenada soggetti psicotici, incapaci di distinguere il personaggio interpretato nella tragedia dal suosegno, ossia dall’attore che lo interpreta.30 Per convenzione API (Alphabète Phonétique International) l’accento di parola si segnalacon un accento acuto posto prima della sillaba accentata. Ogni suono ha poi una rappresenta-zione convenzionale, per esempio [e] rappresenta la e chiusa di albero e [ε] la e aperta dicerto.31 Per una presentazione critica di Saussure si veda l’edizione del Corso di Linguisticagenerale curata da Tullio De Mauro, Laterza, Bari 1970 ed edizioni successive. Si veda inol-tre Eddo Rigotti, Principi di teoria linguistica, La Scuola, Brescia 1979, pp. 28-48.
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