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FONDO FOTOVOLTAICO
SOCIETÀ FIDUCIARIA
RISERVATEZZA, COLLABORAZIONE E CRESCITA
GLI ARTICOLI DI SEVEN FIDUCIARIA
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L’IMPOSTA DI BOLLO SULLE COMUNICAZIONI RELATIVE AI PRODOTTI FINANZIARI
L’imposta di bollo si applica agli atti, ai documenti e ai registri indicati nella tariffa annessa al
dPR. n. 642/1972. L’imposta di bollo è calcolata in misura proporzionale o fissa a seconda
dell’atto, documento, registro a cui si riferisce e si applica anche laddove non sussista l’obbligo
della relativa comunicazione.
Il presente articolo si focalizza sull’applicazione dell’imposta di bollo alle “comunicazioni
periodiche alla clientela relative a prodotti finanziari, anche non soggetti ad obbligo di deposito, ivi
compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati” (articolo 13, commi 2-
bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972).
Con riferimento a tale ambito di analisi, per effetto della Legge di Stabilità 2014 (L. n. 147/2013)
l’entità dell’applicazione dell’imposta di bollo ha subito della variazioni:
l’aliquota di applicazione della stessa è stata elevata (dall’1,5 per mille) al 2 per mille;
l’importo massimo dell’imposta di bollo per i soggetti diversi da persona fisica è innalzato a euro
14.000 (rispetto ai precedenti 4.500).
è stata soppressa la misura minima di applicazione dell’imposta pari a 34,20 euro, la quale
continua ad applicarsi, quale misura fissa, agli estratti conto bancari e postali per i quali.
Alla luce delle predette variazioni, l’attuale imposizione connessa all’imposta di bollo risulta
essere la seguente:
con riferimento alle comunicazioni relative ai prodotti finanziari, si applica l’aliquota del 2 per mille
sul valore di mercato degli stessi o, in mancanza, sul valore nominale o di rimborso che emerge
dalla comunicazione inviata alla clientela. Non esiste una misura minima per il pagamento
dell’imposta di bollo, mentre si ravvisa una misura massima, pari a euro 14.000 per i clienti diversi
da persona fisica.
con riguardo agli estratti conto bancari, postali, ai rendiconti dei libretti di risparmio e ai buoni
fruttiferi postali, l’imposta si applica annualmente:
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L’IMPOSTA DI BOLLO SULLE COMUNICAZIONI RELATIVE AI PRODOTTI FINANZIARI
per i clienti persone fisiche, in misura fissa pari a 34,20 euro per i clienti persone fisiche. Vige
l’esenzione dall’applicazione dell’imposta nel caso in cui le giacenze abbiano valore medio
annuo non superiore a 5.000 euro;
per i clienti diversi di persone fisiche in misura fissa pari a 100 euro.
L’imposta di bollo si applica inoltre, in talune circostanze, anche alle comunicazioni relative a
prodotti finanziari detenuti all’estero da soggetti residenti in Italia.
L’imposta di bollo si applica, in luogo dell’Ivafe, per i libretti di risparmio e i conti correnti detenuti
all’estero (i quali scontano l’imposta in misura fissa di euro 34,20 ciascuno, fatta salva l’esenzione
da imposizione per le giacenze con valore medio annuo non superiore a 5.000 euro). Alle altre
attività finanziarie detenute all’estero si applica, invece, l’Ivafe. Ancora con riferimento ai prodotti
finanziari detenuti all’estero, è necessario puntualizzare che, alla luce della Circolare dell’Agenzia
delle Entrate n. 28/E/2012 e dell’articolo 13 della citata Tariffa, ai fini dell’applicazione dell’imposta
di bollo, rilevano anche le attività finanziarie detenute all’estero che siano oggetto di un contratto
di amministrazione con una società fiduciaria residente o che siano custodite, amministrate o
gestite da intermediari residenti. Ciò fa sì che tali attività siano considerate non detenute
all’estero e, pertanto, soggette ad imposta di bollo, piuttosto che ad Ivafe.
L’imposta di bollo si applica anche alle comunicazioni relative alle polizze stipulate da soggetti
residenti in Italia ed emesse da imprese di assicurazioni estere operanti in Italia in regime di
libertà di prestazione di servizi (LPS), se queste ultime richiedono l'autorizzazione per il
pagamento dell’imposta di bollo in modo virtuale ed esercitano o abbiano esercitato la facoltà per
l’imposizione sostitutiva prevista dall’articolo 26-ter, comma 3, del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. In tal caso, la compagnia assicuratrice estera paga
l’imposta di bollo in Italia, direttamente o, se esistente, tramite un rappresentante fiscale
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L’IMPOSTA DI BOLLO SULLE COMUNICAZIONI RELATIVE AI PRODOTTI FINANZIARI
residente (società fiduciaria o altro intermediario che amministra la polizza per conto del cliente).
L’intermediario risponde in solido con la compagnia assicuratrice per il versamento dell'imposta.
Nel caso in cui, invece, quest’ultima non eserciti l’opzione per l’imposta sostitutiva e non richieda
l’autorizzazione al pagamento dell’imposta di bollo in modo virtuale, se le polizze sono oggetto di
un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o sono custodite,
amministrate o gestite da
intermediari residenti, l’imposta di bollo è comunque dovuta, in luogo dell’Ivafe, e deve essere
corrisposta dalla società fiduciaria o dall’intermediario residente. Diversamente, si applica l’Ivafe.
di Giorgio Gentili
(10/11/2014)
Laureato in Economia e Commercio, è iscritto all’Albo dei Dottori Commercialisti di Macerata, al
Registro dei Revisori legali dei conti del Ministero della Giustizia, nell’elenco dei Periti e CTU del
Tribunale di Macerata e nell’elenco dei Delegati alle operazioni di esecuzione immobiliare nei
Tribunali di Macerata e di Camerino. Attualmente è senior partner di società di consulenza e
componente di uno studio commerciale composto da esperti in vari settori. È inoltre revisore
legale dei conti, membro del collegio sindacale di società di capitali, cooperative, consorzi,
associazioni, oltre a svolgere attività di due diligence e di redazione di perizie di valutazione
aziendale e operazioni straordinarie. È autore di numerosi manuali (tra cui: “Le Reti d’impresa”,
2013;”Modello Organizzativo 231 e sicurezza sul lavoro”, 203; “Il collegio sindacale”, 2012;
“Formulario di revisione legale”, 2010; “La nuova revisione legale dei conti. Formulario
commentato”, 2010; “Responsabilità amministrativa di società ed enti. Il modello organizzativo
ex D.Lgs.231/2001”, 2007; Guida alle Start up innovative”, 2013; “Piano Industriale e crisi di
impresa”, 2013) e di articoli per IPSOA. Gentili è cultore della materia nella cattedre di contabilità
e bilancio e programmazione e controllo delle aziende turistiche presso il Dipartimento di
Scienze della Formazione, dei Beni culturali e del Turismo dell'Università di Macerata, oltre ad
essere docente e relatore di numerosi convegni.
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NUOVE RACCOMANDAZIONI INTERNAZIONALI IN MATERIA DI ANTIRICICLAGGIO
1. Le sfide da affrontare.
La filosofia della prevenzione dovrebbe permeare un sistema efficiente di contrasto di fenomeni
pervasivi e corruttivi del sistema economico ad alto tasso di metamorfosi finanziaria. Il riciclaggio
è un fenomeno criminale, prima di essere riconosciuto come reato nei processi, che trae linfa dai
reati che ne sono fonte e presupposto. Estendere il paniere di questi reati, anche a livello
internazionale, è ciò che permetterà di seguire con maggiore efficacia le tracce che ogni
riconversione dei capitali inevitabilmente lascia, più o meno visibilmente, presso una vasta
schiera di soggetti, che intervengono a titolo professionale nelle transazioni. Essi partecipano, chi
consapevolmente, chi invece per pura negligenza o incapacità di lettura attenta, all’espletamento
del piano illecito di “make up” dei fondi frutto di azioni criminali. Il riciclaggio di denari provenienti
da corruzione, evasione fiscale e fatturato delle organizzazioni criminali inquina il sistema di
libera concorrenza e crea investimenti che apportano ulteriore liquidità agli imprenditori del
crimine. La shadow economy emerge poi con imprese di carattere lecito, che creano un schermo
legale ai veri proventi da reato, di tipo diretto o indiretto, e genera un costo sociale elevatissimo.
In Italia tutto ciò assurge a questione nazionale, considerando il periodo storico che stiamo
attraversando, in cui non possiamo permetterci che l’economia legale, in stato di difficoltà per una
crisi economica, che ha anche radici internazionali, venga ulteriormente compromessa da attori
economici, che godono di vantaggi derivanti dall’illegalità. La normativa penale, che persegue i
reati in capo a singoli individui, anche in quanto appartenenti a organizzazioni criminali, è
preceduta e supportata, nel sistema antiriciclaggio, da norme che prevedono obblighi di
partecipazione attiva in capo ad autorità amministrative e soggetti privati. Questi ultimi, assieme
agli strumenti penali e investigativi, costituiscono un tentativo di barriera, anche se permeabile,
all’ingresso di un fiume di denaro frutto di reati, nell’oceano costituito dalle attuali transazioni
finanziarie globali.
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NUOVE RACCOMANDAZIONI INTERNAZIONALI IN MATERIA DI ANTIRICICLAGGIO
Individuare le correnti di acqua sporca che inquinano il mare magnum delle transazioni è
un’attività che richiede, non solo uno zelante e rigoroso rispetto delle normative di rango primario
e secondario, ma anche un’analisi di qualità delle operazioni poste in essere dalla clientela di
ogni ordine e grado. Ciò al fine di acquisire un’esperienza collettiva di quelli che possono
rappresentare comportamenti indice di un’attività apparentemente incongruente con il profilo
economico dichiarato dai soggetti abili in questo tipo di metamorfosi.
Le attività lecite possono essere costituite inizialmente con fondi di provenienza legittima, per
accogliere successivamente quote frazionate nel tempo di fondi illeciti, che trovano uno scopo
economico già precostituito nell’attività commerciale dichiarata ed effettivamente gestita, al fine di
dissimulare i versamenti di denaro frutto di reato e con l’intento di creare un canale di
investimento stabile assolutamente legale.
Con la velocizzazione degli scambi commerciali e monetari, anche tramite lo sviluppo del web, le
sole normative nazionali di tipo penale o amministrativo non sarebbero sufficienti ad arginare
l’avvento di modi sempre più sofisticati e veloci di passaggio del denaro oltre i confini nazionali e
da un’attività all’altra, tramite l’impiego di società variamente denominate e regolamentate da
normative differenti, con sede legale in paesi diversi, tramite trust, società fiduciarie e conti
correnti diversificati in molteplici parti del mondo.
Vi è bisogno di una mentalità nuova da parte degli operatori onesti e rigorosi, nei vari settori
professionali, affinché siano pronti a captare segnali di allerta e acquisire una maggiore capacità
di analisi, per inoltrare questi segnali alle autorità, a cui competono le successive indagini sui
flussi finanziari. Le normative nazionali sono frutto, non solo delle peculiarità della cultura
giuridica e fattuale appartenenti a quel dato Paese, con le sue aree di rischio e i suoi fattori di
vulnerabilità, ma provengono altresì da studi e analisi svolte a livello internazionale, che incidono
progressivamente nel tempo sulla formazione di leggi e direttive.
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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI
2. Gli Standard Internazionali FATF-GAFI (antiriciclaggio e antiterrorismo).
La futura quarta direttiva in materia di antiriciclaggio è in procinto di recepire a livello comunitario
le novità più rilevanti contenute nelle Raccomandazioni della Financial Action Task Force (FATF).
Queste sono state rinnovate nel febbraio 2012, sotto la Presidenza italiana dell’Organismo
intergovernativo FATF-GAFI, con sede presso l’Ocse, il cui mandato è il rafforzamento a livello
globale dei presidi di prevenzione e contrasto dei fenomeni di riciclaggio, finanziamento del
terrorismo e della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Le misure descritte nelle
Raccomandazioni hanno carattere di soft law, e sono dunque norme di scopo e non di dettaglio,
frutto di compromesso giuridico tra Stati membri, che hanno impostazioni costituzionali e di diritto
molto differenti tra loro.
Originariamente elaborate nel 1990, al fine di contrastare l’uso improprio dei sistemi finanziari per
riciclare i proventi del narcotraffico, le Raccomandazioni GAFI sono state revisionate per la prima
volta nel 1996, al fine di riflettere l’evoluzione delle tendenze e delle tecniche del riciclaggio ed
estendere il proprio raggio d’azione ben al di là del contrasto del riciclaggio dei proventi del
narcotraffico. Nell’ottobre 2001 il GAFI ha esteso il proprio mandato alla lotta al finanziamento di
atti di terrorismo ed organizzazioni terroristiche.
Nuovamente revisionate nel 2003, le Raccomandazioni GAFI sono universalmente riconosciute
quali standard internazionali in materia di antiriciclaggio e contrasto al finanziamento del
terrorismo.
A seguito della conclusione del terzo ciclo di valutazioni reciproche dei propri membri, il GAFI ha
revisionato ed aggiornato le Raccomandazioni in stretta cooperazione con i Gruppi Regionali
costituiti sul modello GAFI (FAFT-Style Regional Bodies - FSRBs) e con osservatori quali il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’ Organizzazione delle Nazioni Unite.
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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI
Rispetto alle precedenti Raccomandazioni del 2003, sono stati introdotti ulteriori elementi di
fondamentale rilevanza quali:
- una maggiore attenzione all’analisi del rischio a livello di paese e l’approccio basato sul rischio
con valenza trasversale rispetto a tutte le altre raccomandazioni;
- la rilevanza data al coordinamento tra le autorità nazionali coinvolte in materia;
- l’inclusione dei reati fiscali come reati presupposto del riciclaggio;
- la trasparenza delle persone giuridiche e dei trust in ordine all’accesso alle informazioni sul
titolare effettivo;
- un rafforzamento della cooperazione internazionale a vari livelli;
- l’importanza della valutazione dell’efficacia delle misure adottate nei sistemi nazionali di
prevenzione e contrasto, oltre alla loro conformità rispetto agli Standard di natura normativa e
regolamentare.
I reati fiscali (tax crimes) costituiscono già uno dei reati presupposto del riciclaggio nella
normativa italiana, tuttavia, a livello internazionale questa inclusione comporterà un rafforzamento
dello scambio di informazioni tra paesi, anche per il profilo di contrasto e investigazione del
riciclaggio, oltre alla lotta comune dei governi contro il fenomeno, spregiudicato e senza confini,
dell’evasione fiscale. A livello europeo, i lavori per la quarta direttiva prevedono un riferimento più
esplicito a tale reato presupposto, anche se le soglie di punibilità in ambito penale sono molto
diverse tra gli Stati Membri. La novità più rilevante è l’approccio basato sul rischio, che permea il
nuovo impianto della normativa, soprattutto dal lato della prevenzione, ossia gli oneri per i
soggetti obbligati di svolgere misure di due diligence diversificate, a seconda del rischio previsto,
in base a normative, regolamenti, linee guida e istruzioni di settore. Lo scopo è quello di
focalizzare le attività di verifica e monitoraggio, e relativi costi pubblici e privati, in base a fattori di
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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI
rischio, per commisurare le azioni di mitigazione e prevenzione del potenziale verificarsi di
situazioni di riciclaggio, differenziate per determinate categorie di clientela, prodotti, settori, zone
geografiche, all’interno di uno stesso paese. Tutto questo sforzo è messo in atto da un sistema
nazionale nel suo complesso, con la condivisione tra pubblico e privato delle linee guida
necessarie ad orientare gli operatori coinvolti, sotto i diversi profili professionali, in tutte quelle
transazioni che potrebbero essere utilizzate per fini illeciti.
Emerge la necessità che ogni soggetto del sistema di nazionale, coinvolto con le proprie finalità
e i mezzi che ha per legge a disposizione, contribuisca alla prevenzione di fenomeni di
infiltrazione criminale nel tessuto economico e finanziario di una nazione, come prodotto finale
di una mentalità diffusa e condivisa tra soggetti pubblici e privati.
Dunque, l’obbligo, ai sensi delle normative antiriciclaggio, imposto al settore privato va
commisurato alla reale rischiosità delle operazioni e della clientela che le pone in essere,
evitando aree di esenzione o semplificazione non giustificate e non documentate
adeguatamente. La formazione professionale è certamente parte integrante di una cultura della
prevenzione, al fine di evitare etichette di collusione e impiego di professionisti onesti in attività
illecite a loro insaputa.
La Raccomandazione 1 degli Standard FATF recita nel suo ultimo paragrafo: “I Paesi devono
obbligare le istituzioni finanziarie e le attività e professioni designate a identificare, valutare e
adottare azioni efficaci atte a mitigare i rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo a cui
sono esposte”.
La Raccomandazione 28, punto b) è rivolta agli obblighi dei professionisti che vanno vigilati in
tal modo:
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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI
“Paesi devono garantire che le altre categorie di attività e professioni non finanziarie designate
siano sottoposte a sistemi di monitoraggio efficaci e rispettino gli obblighi in materia di
antiriciclaggio e contrasto del finanziamento del terrorismo”. Ciò deve essere effettuato in
coerenza con i rischi associati e può essere effettuato per il tramite di (a) un’autorità di vigilanza
o (b) un organo di autoregolamentazione di categoria (Self-Regulatory Body – SRB), a
condizione che tale organo possa garantire che i suoi associati adempiano gli obblighi ai fini di
contrasto del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo. L’autorità di vigilanza o
l’SRB devono anche (a) adottare le misure necessarie a impedire che i criminali e i loro complici
accedano allo status di professionista accreditato (iscritto all’albo/titolare di licenza), o che
detengano partecipazioni significative o di controllo, o siano i titolari effettivi di tali partecipazioni
o rivestano una funzione direttiva, ad esempio sottoponendo i soggetti a test di affidabilità e
correttezza (cosiddetti “fit and proper” test); e (b) prevedendo sanzioni efficaci, proporzionate e
dissuasive in linea con la Raccomandazione 35, in caso di non conformità agli obblighi previsti
in materia di antiriciclaggio e contrasto del finanziamento del terrorismo. Questa serie di
raccomandazioni viene, non solo trasposto nelle normative nazionali, rispettando i principi
costituzionali e la cultura giuridica del paese, ma devono essere realizzate misure efficaci e, in
base a questi due elementi, compliance normativa e grado di efficacia delle azioni concrete
adottate, ogni paese sarà valutato. La valutazione viene svolta dal FATF e organismi equivalenti
(uno di questi è il Moneyval che valuta i paesi del Consiglio d’Europa) a livello internazionale. Il
Rapporto di valutazione è adottato con una procedura partecipata, in cui il paese ha diritto di
replica e partecipazione in ogni fase della valutazione fino al rapporto finale (MER), che viene
reso pubblico, dopo la definitiva adozione in plenaria. L’Italia è stata valutata sui precedenti
standard nel 2005 e nel 2015 verrà effettuata la valutazione alla luce dei nuovi Standard FATF
2012.
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ALLA RICERCA DEL TITOLARE EFETTIVO
Ogni paese verrà valutato in maniera relativa rispetto al suo contesto di rischio: stabilità politica,
rischio geografico, fenomeni di contesto interni, quali il grado di economia sommersa, la
rilevanza del contante nelle transazioni, la diffusione di vari tipi di criminalità, il grado di
corruzione reale e percepito, l’entità del sistema finanziario rispetto al PIL, la maturità dei presidi
normativi antiriciclaggio.
Una buona valutazione è fondamentale ai fini della reputazione internazionale di un paese, che
si presenti con un sistema non immune, in quanto utopico, ma quantomeno robusto e
contrastativo di un certo tipo di fenomeni e flussi finanziari illeciti. Tali fenomeni illeciti
dovrebbero incontrare serie difficoltà nell’insediamento stabile nel sistema finanziario di un
determinato paese, in quanto a “rischio” di essere tracciati e fatti emergere dalla fattiva
collaborazione tra forze investigative, professionisti e operatori finanziari, refrattari ai rapporti
con la clientela collegata, anche tramite filiere lunghe, al crimine organizzato.
3. Alla ricerca del titolare effettivo.
Uno spazio notevole, sia nell’ambito delle discussioni negoziali per la stesura degli Standard,
sia nell’ambito delle interpretazioni dettagliate delle singole raccomandazioni, è stato dedicato
all’accesso alle informazioni sul titolare effettivo sia delle persone giuridiche, che dei trust.
La Raccomandazione 24 è sulla trasparenza societaria:
“I Paesi devono garantire che informazioni adeguate, accurate ed aggiornate sul titolare effettivo
e sul controllo di persone giuridiche siano rese disponibili o accessibili tempestivamente alle
autorità competenti. I Paesi devono prendere in considerazione l’adozione di misure atte ad
agevolare l’accesso alle informazioni sul titolare effettivo e sul controllo delle persone giuridiche
da parte delle istituzioni finanziarie e delle attività e professioni non finanziarie designate”.
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ALLA RICERCA DEL TITOLARE EFETTIVO
Uno degli strumenti suggeriti sono i registri delle imprese pubblici e non, e gli obblighi, per le
stesse società, di conservazione e disclosure della propria struttura proprietaria e di controllo.
Il G8, nel corso del 2013, guidato dalla Gran Bretagna, ha portato avanti un Action Plan, a cui
l’Italia partecipa attivamente, che pone la trasparenza societaria come obiettivo strategico per
una pluralità di fini: antiriciclaggio, antievasione, anticorruzione, etc.
Nelle sedi internazionali intergovernative assume sempre più rilevanza la collaborazione tra
governi, autorità amministrative e investigative dei diversi paesi del mondo, per un contrasto
efficace al riciclo di capitali provenienti da minacce che inquinano quotidianamente la libera
concorrenza e il corretto impiego delle risorse finanziarie ed economiche. La corruzione, a livello
di politici nazionali ed esteri, che investono lontano dal proprio paese di origine i profitti occulti, è
una piaga che affligge le economie dei paesi poveri, come di quelli ricchi con sempre più
pressanti problemi di debito pubblico, cosi come l’evasione fiscale. La finalità dei governi è
dunque evidente, e ciò non esime i soggetti privati dalla partecipazione attiva a una lotta, che
dovrebbe essere di tutte le categorie di onesti, che pagano le conseguenze di fenomeni criminali
come l’usura, il crimine organizzato e la concorrenza sleale di chi si sottrae alle regole.
Rendere il sistema delle professioni meno permeabile a un certo tipo di fenomeni e farlo senza
gravare eccessivamente, di costi diretti e indiretti, i singoli professionisti, deve essere lo sforzo
congiunto del legislatore, dell’autorità amministrativa, delle forze investigative e del settore
privato a ciò chiamato, non per capricci del politico di turno o di una vessatoria legislazione
europea, ma per uno scopo più alto, che si chiama bene comune o bene giuridico meritevole di
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ALLA RICERCA DEL TITOLARE EFETTIVO
di Carmine Ruggiero
(21/10/2014)
tutela, quale è di sicuro il raggiungimento di un ambiente più protetto e integro per gli
investimenti nel nostro paese, che ha necessità di fondi provenienti da attività economiche
sane e produttive, dall’Italia e dal resto del mondo.
Laureato in Giurisprudenza, in Economia e Commercio ed in Scienze Politiche, è iscritto
all’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Avvocati. Attualmente è Docente di Diritto Bancario
nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e docente di Diritto
Commerciale nella Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Napoli
Federico II. È stato Docente di Diritto Commerciale presso la Facoltà di Economia dell’Università
degli Studi del Molise e nella Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II,
nonché Docente di Economia Aziendale all’Università S. Pio V di Roma. È autore di numerosi
articoli e monografie (tra cui: ‘Il sistema dei controlli interni negli intermediari finanziari del titolo V
del T.U.B.: Profili regolamentari’, 2012; ‘Vademecum, sui sistemi di pagamento alternativi al
contante e sui mezzi di prevenzione delle frodi’, 2011; ‘Le società Finanziarie’ 2010, ‘La nuova
disciplina dell’antiriciclaggio’ 2008, ‘Il bilancio delle società finanziarie’ 2003; ‘I titoli di credito’,
2002, ‘Magazzino, principi IAS e normativa fiscale: prove di coordinamento’, 2005; ‘La Fusione,
2005, ‘La revoca dell’amministratore nella nuova s.r.l.’, 2004) e di numerosi articoli di diritto
bancario e di diritto societario.
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COS’È L’IVAFE?
L’Ivafe è l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche
residenti in Italia. Dopo l’approvazione della legge europea 2013-bis, per l’anno di imposta
2014 tali attività sono rappresentate dai prodotti finanziari indicati nell’art.1 del D.Lgs. n. 58
del 1998 a cui rinvia il DM del 24 maggio 2012 relativo all’imposta di bollo. In particolare, le
novità introdotte dalla Legge Europea 2013-bis prevedono che dal 2014 l’Ivafe verrà applicata
ai prodotti finanziari su cui è dovuta l’imposta di bollo. Infatti, il presupposto impositivo
dell’Ivafe è stato allineato a quello dell’imposta di bollo dovuta sui prodotti finanziari, conti
correnti e libretti di risparmio detenuti in Italia.
Prima del 2014 le attività finanziarie oggetto dell’Ivafe sono riportate nella Circolare 28/E/2012
dell’Agenzia delle Entrate. Dall’anno d’imposta 2014, con l’applicazione delle nuove
disposizioni, l’Ivafe diventa inapplicabile per la detenzione di quote di società di diritto estero
equiparabili alle Srl italiane.
L’Ivafe è entrata in vigore nell’anno di imposta 2012 con aliquota pari all’1 per mille del valore
delle attività finanziarie estere, esclusi i libretti di risparmio e i conti correnti che scontano
l’imposta in misura fissa di euro 34,20 ciascuno, fatta salva l’esenzione da imposizione per le
giacenze con valore medio annuo non superiore a 5.000 euro.
L’aliquota proporzionale prevista per i periodi d’imposta successivi è pari all'1,5 per mille per il
2013, e al 2 per mille a decorrere dal 2014; quella fissa rimane invariata.
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COS’È L’IVAFE?
Per effettuare il pagamento dell’Ivafe è necessario uniformarsi alle regole previste per l’Irpef,
anche in riferimento alle modalità di versamento dell’imposta in acconto e a saldo.
La citata Circolare n. 28/E/2012 prevede che relativamente alle attività finanziarie
oggetto di un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o di
custodia, amministrazione o gestione con soggetti intermediari residenti, l’Ivafe non è
dovuta in quanto su tali attività viene applicata l’imposta di bollo (ai sensi dell’articolo
13, commi 2-bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972),
dal momento che le stesse non sono considerate come detenute all’estero.
di Giorgio Gentili
(27/10/2014)
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QUALE FUTURO PER GLI INTERMEDIARI FINANZIARI?
1. Cenni introduttivi. 2. Il sistema economico ed il ruolo dell’intermediazione finanziaria. 3. La
nozione di intermediario finanziario. 4. Gli "intermediari finanziari" nel d.lgs. 1° settembre 1993,
n. 385. 5. Il modello organizzativo degli intermediari finanziari nella originaria stesura dell’art.
106 Tub. 6. L’art. 106 TUB. nella nuova formulazione post D.Lgs. 141/2010. 7. Le attribuzioni e
le competenze della Banca d’Italia sugli intermediari ex art. 106. 8. Le Autorità di vigilanza nel
sistema finanziario italiano. 9. Sistemi di vigilanza a confronto. 10. Intermediari Finanziari ed
obbligo di partecipazione alla Centrale rischi. 11. Centrale rischi e quadro normativo di
riferimento. 12. La funzione della Centrale rischi. 13. Esposizioni creditizie e sistema di
monitoraggio. 14. Riforma delle Centrale dei Rischi e partecipazione al sistema. 15. Sistema di
raccolta delle informazioni e tutela della privacy. 16. Danni da errata segnalazione delle
informazioni su posizioni creditorie.
1. Cenni introduttivi.
Nel corso degli ultimi anni la disciplina dei soggetti che operano nel settore finanziario è stata
oggetto di diverse interventi normativi, in uno scenario economico variegato e composito nel
panorama dei mercati, caratterizzato da una molteplicità di soggetti: holding, intermediari
finanziari, confidi, agenti in attività finanziaria, mediatori creditizi.
Se, infatti, una prima serie di modifiche ed integrazioni alla disciplina relativa ai soggetti operanti
nel settore finanziario si è avuta con la delega al Governo per l’attuazione della Direttiva
2008/48/CE, è solo con la successiva entrata in vigore del decreto legislativo 13 agosto 2010
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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
n. 141, così come modificato dai successivi interventi legislativi, che la disciplina riguardante i
soggetti operanti nel settore finanziario, contenuta all’interno del Titolo V del testo Unico
Bancario (decreto legislativo 1 settembre 1993 n.385, di seguito semplicemente TUB) è stata
profondamente modificata. Il decreto in questione ha ridisegnato interamente i confini operativi
degli intermediari finanziari, producendo il rilevante effetto di porre fine alla sussistente
distinzione tra soggetti iscritti all'Elenco Generale (ex Art. 106) e soggetti iscritti all'Elenco
Speciale (ex Art. 107). Entrambi gli elenchi saranno, poi, negli interventi normativi successivi,
sostituiti da un Albo unico degli Intermediari Finanziari che esercitano nei confronti del pubblico
attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, la cui tenuta è affidata alla Banca
d'Italia. La formulazione del Titolo V che si viene in tal modo a delineare prevede, per la
“nuova” tipologia di intermediario finanziario di cui all'art. 106, una tendenza ad assimilare gli
standard di organizzazione, gestione e controllo a quelli già previsti per i soggetti vigilati.
Obiettivo di chi scrive è dunque quello di fornire un'idea immediata di come lo scenario
generale sia mutato alle luce delle recenti modifiche normative, nonché, da ultimo, alla luce
della versione aggiornata del TUB al decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 53.
2. Il sistema economico ed il ruolo dell’intermediazione finanziaria.
Fino agli inizi degli anni 90 l’esercizio delle attività finanziarie non bancarie, costituenti il cd.
“parabancario”, era completamente libero, potendo essere svolte, tali attività, da una qualsiasi
impresa commerciale, anche se costituita sotto forma di ditta individuale. In assenza, dunque,
di norme specifiche la prassi, per lungo tempo invalsa, ha contribuito alla formazione ed
all'affermarsi di svariati istituti e di condotte.
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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
Solo grazie ai recenti interventi legislativi è stata conferita piena consacrazione a figure che,
sebbene già esistenti, difettavano per lo più sia di un riconoscimento formale, sia di
un’apposita regolamentazione. Nella realtà quotidiana del mondo finanziario nazionale si
rinvengono ormai da molto tempo svariate tipologie di finanziarie. Fra queste, si annoverano le
società che assumono la partecipazione in altre società (attività propria della società di
investimento) in ordine alla vendita, al possesso e alla gestione dei titoli; quelle che si
occupano del collocamento dei titoli pubblici o privati (attività di intermediazione finanziaria
svolta dalle merchant banks); svolgono funzioni speculative (investment trust); forniscono
servizi finanziari sotto forma di intermediazione (fiduciarie, commissionarie) o paracreditizi
(leasing, factoring, forfaiting, confirming) o di finanziamento alle imprese e ai privati. In estrema
sintesi, a chi negozia valori mobiliari con finalità di investimento, controllo stabile o speculative,
s’aggiungono coloro che danno servizi finanziari. Nel corso degli ultimi anni, questa variegata
compagine ha conosciuto una serie di interventi tesi a portare chiarezza e ordine: è stata,
infatti, limitata la nozione di attività finanziaria, rimasta finora abbastanza confusa sia per
quanto concerne i soggetti facoltizzati a porla in essere, sia circa le forme di espressione.
Sin dagli anni settanta, l'intermediazione finanziaria è stata, in Italia, monopolizzata dalle
banche, e così pure il finanziamento del sistema produttivo. Il "monopolio" non era però
semplice effetto di una riserva di legge, poiché al suo affermarsi aveva largamente concorso
l'arretratezza del nostro mercato finanziario.
In realtà, la legge bancaria del 1936 assoggettava a controllo l'accesso all'attività bancaria e il
suo esercizio, ma non riservava alle banche ogni attività di intermediazione finanziaria, bensì
solo "la raccolta di risparmio tra il pubblico sotto ogni forma e l'esercizio del credito" (art. 1
legge bancaria 1936).
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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
L’inerzia del legislatore era, altresì, motivata dal fatto che il rischio connesso all’attività
realizzata da questi soggetti, per lo più limitata all’esercizio del credito svincolato dalla raccolta
del risparmio tra il pubblico, non era considerato particolarmente alto nei confronti degli utenti.
Rischio considerato, viceversa, solo nei confronti della clientela bancaria e consistente nella
possibilità di non restituzione dei valori conferiti. Esclusa, invece, la riserva in favore delle
banche dell'esercizio del credito che non si accompagnasse alla raccolta di risparmio tra il
pubblico; inoltre, le attività di raccolta di risparmio e di esercizio del credito, considerate dalla
legge bancaria, erano solo quelle, come si dice oggi con terminologia di derivazione
comunitaria (e v. la direttiva 89/646/CE), di "fondi rimborsabili", vale a dire di danaro ceduto
con obbligo di restituzione (e, quindi con contratti in senso lato di mutuo). Vi erano, dunque,
nel nostro mercato finanziario, comparti di attività, per i quali non esistevano riserve di legge, e
che, tuttavia, non registravano la presenza di intermediari in grado di operare in condizioni di
significativa concorrenza con le banche. Durante la vigenza della legge bancaria del ’36,
occorre ricordare che la Banca centrale, che svolse in quegli anni le funzioni di vigilanza
tramite l’Ispettorato con le Istruzioni, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 122 del 27.5.1937,
delineò le prime regolamentazioni, che consistevano nell’obbligo, per tali società, di fornire
indicazioni circa: “denominazione dell’azienda, forma di costituzione, specie di attività svolta,
ammontare del capitale sociale o del fondo di conferimento e delle riserve, sede sociale e delle
eventuali dipendenze”. Si trattava di un intervento, basato su obblighi di natura meramente
informativa e su aspetti prevalentemente di natura patrimoniale, rivolto essenzialmente allo
scopo di prevenire ed eventualmente reprimere possibili forme di abusivismo bancario,
collegate al fatto che le aziende in questione avrebbero potuto raccogliere in qualche modo
risparmio tra il pubblico, incorrendo così nella violazione dell’art. 1 della legge bancaria allora
vigente.
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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
L’intenzione del legislatore era solo quella di rivitalizzare il mercato mobiliare allo scopo di
aumentare l’afflusso diretto del pubblico risparmio verso il capitale di rischio delle imprese, ma la
convinzione era che l’obiettivo richiedesse, innanzi tutto, un ammodernamento dell’istituto
societario, oltre all’introduzione di forme di controllo pubblico a tutela della massa dei
risparmiatori interessati al mercato mobiliare. Passeranno anni prima di un intervento del
legislatore. L'introduzione, con la legge 23.3.1983, n. 77, dei fondi comuni di investimento
mobiliare aperti tende a convogliare pubblico risparmio, sotto forma di capitale di rischio, verso le
imprese (con particolare riguardo, verso quelle di grandi dimensioni): ma qui lo scopo è raggiunto
appunto con l'introduzione di una disciplina, che, innovando in modo rilevante al diritto comune,
crea una nuova figura di intermediario finanziario. E questo vale poi anche per la legge 2.1.1991,
n. 1, istitutiva delle Sim, il d.lgs. 25.1.1992, n. 84, istitutivo delle Sicav, la legge 14.8.1993, n. 344,
istitutiva dei fondi di investimento mobiliare chiusi, che realizzano l'esigenza di convogliare il
pubblico risparmio verso il capitale di rischio delle imprese ancora attraverso la creazione di
figure di intermediari finanziari specializzati in questa o in quella attività, con larga incidenza sul
diritto comune. Questi nuovi intermediari possono dirsi, come le banche, "tipici", sotto un doppio
profilo: innanzi tutto perché essi sono creati dalla legge, che riserva a ciascuno l'esercizio di una
determinata attività, e perciò l'offerta di prodotti o servizi finanziari a loro volta tipici, in secondo
luogo perché la legge impone requisiti e strutture, che rendono tipica la loro organizzazione. I
nuovi intermediari finanziari sono però anche espressione di una nuova cultura, che ormai mette
in discussione il ruolo delle banche e, in particolare, la loro vocazione monopolistica nel settore
dell'intermediazione finanziaria. Accanto ad essi, si affermano così altri intermediari, che avviano
nuove attività – di factoring, di leasing, di credito al consumo, di merchant banking, ecc. -,
sovente vicine all'attività delle banche.
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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
Molti di questi intermediari, invero, concedono anch'essi credito e, naturalmente, provvedono
alla provvista dei mezzi finanziari di cui abbisognano raccogliendo danaro a credito, anche se –
diversamente dalle banche – tale raccolta avviene in via di principio non tra il pubblico. Vengono
chiamati, al pari dei loro prodotti finanziari più significativi, "atipici", in contrapposizione anche
agli altri intermediari, quelli tipici: ma la loro attività è in concorrenza soprattutto con l'attività delle
banche, perché la riserva di legge relativa alla raccolta e all'investimento del risparmio di rischio,
di cui beneficiano in questo momento storico gli intermediari tipici non bancari, è rigida, ancor più
della riserva relativa alla raccolta del risparmio tra il pubblico e all'esercizio del credito, di cui
beneficiano le banche. Le banche di fronte all’evolversi ineluttabile del mercato finanziario hanno
preferito, inizialmente, piuttosto che combatterlo, governarlo dall’interno, partecipandovi con
proprie società. Su indicazione della Banca d’Italia, che ritenne inopportuno l’estendersi
dell’attività bancaria verso il modello europeo della “banca universale”, le banche interessate ad
estendere la loro attività ad altri prodotti finanziari si videro costrette ad utilizzare società
bancarie da esse controllate (le cc.dd. società del parabancario), ricorrendo al modello di
organizzazione noto come “gruppo polifunzionale”. La partecipazione delle banche alle società
finanziarie ha posto allora, per la prima volta, l’esigenza di una regolamentazione anche delle
attività di intermediazione finanziaria che non raccolgono risparmio fra il pubblico, denominate
“residuali”, in quanto prive di specifica disciplina. È emersa, in tale contesto, l’esigenza di
estendere il controllo pubblico all’intero gruppo di cui la parte la banca e più in generale a tutte le
società che operano nel settore finanziario. Hanno preso, in tal modo, corpo le disposizioni di
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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
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cui alla legge 17.4.1986 n. 114 (Controllo delle partecipazioni bancarie in attuazione della
direttiva CEE n. 83/350 del 13.6.1983 in tema di vigilanza su base consolidata degli enti
creditizi) e il d.lgs. 20.11.1990, n. 356 sulla ristrutturazione del gruppo creditizio volte ad
introdurre le prime forme di controllo di vigilanza sulle società finanziarie aventi funzioni di
capogruppo: trattasi di interventi normativi di settore che hanno rappresentato le fondamenta di
quella che, in tempi più vicini, è la prima compiuta regolamentazione dell’attività di
intermediazione finanziaria: gli artt. 106 e ss. del TUB. Con tale intervento il legislatore ha
provveduto a definire un corpo organico di norme applicabili a tali intermediari allo scopo di
sottoporli a forme di vigilanza, più o meno intense a seconda dell’attività svolta e delle
caratteristiche di “rischio” dell’intermediario, onde fornire adeguate garanzie ai risparmiatori e
agli investitori che si rivolgono a tali intermediari. Il risultato complessivo è quello di ridurre il
rischio che fenomeni di crisi trasmigrino dal settore finanziario a quello bancario e di rendere più
profondi i controlli delle autorità, finalizzati ai fini pubblici della stabilità e trasparenza ed anche
di realizzare una effettiva concorrenza tra gli intermediari finanziari e le banche. Tant'è che,
emanato il TUB gli intermediari “atipici” troveranno collocazione in questo TUB, e vi resteranno
anche dopo l'emanazione del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, contenente il Testo Unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d’ora in poi TUF), dove troveranno invece
collocazione gli intermediari che raccolgono e convogliano il risparmio di rischio.
Nello stesso tempo, utilizzando l'ambiguità delle leggi che definiscono le attività loro riservate e
il consenso delle autorità amministrative preposte al controllo, altri operatori tipici – il riferimento
è alle società fiduciarie, di cui alla legge 23.11.1939, n. 1966 – si avviano con crescente
impegno nel settore dell'intermediazione finanziaria, al quale in precedenza erano restati
estranei.
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LA NOZIONE DI INTERMEDIARIO FINANZIARIO
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3. La nozione di intermediario finanziario.
La legge, quindi, riserva l'esercizio di determinate attività nei confronti del pubblico ad
"intermediari finanziari iscritti in un apposito elenco...", come oggi prevede l'art. 106 TUB.
Si ritrova quindi nella norma richiamata l'attuale conclusione legislativa di quel processo di
"legificazione di tutte le attività finanziarie" che era stato introdotto nel nostro ordinamento una
prima volta attraverso la legge cd. antiriciclaggio del 1991(decreto legge 3 maggio 1991, n.
143. convertito con modificazioni in legge 5 luglio 1991, n. 197). In realtà il TUB preferisce non
dettare alcuna nozione di intermediario finanziario, e predilige piuttosto riportare, come il suo
precedente della legge 197/91, un riferimento alle attività il cui svolgimento comporta
l'assoggettamento di chi esercita le stesse alla legislazione speciale, effettuato attraverso
l'elencazione generale delle attività medesime, piuttosto che dettare una definizione dei
soggetti che possono qualificarsi come intermediari finanziari, e del contenuto di tale posizione
di intermediazione. E' noto che nel campo finanziario si è sempre presentata la dicotomia tra
regolamentazione soggettiva o piuttosto oggettiva: la direttiva europea n. 89/646, cd. seconda
direttiva bancaria, prevede all'art. 1.6 una regolamentazione soggettiva, cioè di ente finanziario
come dedicato esclusivamente a svolgere attività di tale tipo, e detta quindi una disciplina che
appare residuale rispetto a quella, pure in principalità soggettivamente individuata, dell'ente
creditizio; anche se in realtà non evita di elencare poi le attività specifiche che danno luogo alla
nozione di attività finanziaria.
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LA NOZIONE DI INTERMEDIARIO FINANZIARIO
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In Inghilterra vengono invece definite principalmente le attività e non piuttosto il soggetto,
attraverso il Financial Service Act del 1986.
Ciononostante il rinvio operato dalla legge alla nozione di intermediario finanziario appare
esplicito in senso anche soggettivo, mentre la disciplina di legge appare senza dubbio indirizzata
alla stabilità degli operatori e non appare quindi possibile evitare di tentare di attribuire un
contenuto dapprima letterale alla definizione legislativa.
Il termine intermediario non può che venire interpretato come connesso ad un concetto di tramite,
di collegamento, d'intermediazione appunto; una simile espressione in un contesto di attività
finanziarie può quindi venire utilizzata solo per configurare un collegamento tra i risparmiatori e il
mercato, o tra soggetti anche non risparmiatori, intesi però nel senso di "consumatori" del
mercato finanziario, ed è questa appunto la nozione più accreditata del significato di
intermediario finanziario.
Gli intermediari finanziari, secondo questa accezione letterale del termine, sono pertanto coloro
che "intervengono in un rapporto tra soggetti diversi avente contenuto finanziario"; il tramite
effettuato dagli intermediari così concepiti, quindi, consiste soprattutto nell'erogare credito
utilizzando ad uopo fondi raccolti sul mercato, soprattutto od esclusivamente tra i risparmiatori.
In questo senso gli intermediari stessi svolgono una funzione che interessa il mercato, cioè di tipo
economicamente e socialmente rilevante, che consiste appunto nella trasformazione degli attivi
raccolti sul mercato in strumenti di credito da riservare sul mercato stesso. Non appartiene
pertanto a questa nozione, letterale, il soggetto che eroga credito "valendosi di denaro proprio",
sia perché in tal caso manca un indebitamento verso terzi della società erogante, e quindi manca
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LA NOZIONE DI INTERMEDIARIO FINANZIARIO
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l'intermediazione, sia anche, e correlativamente, perché la rilevanza della figura per la
legislazione di controllo – indirizzata alla stabilità dei soggetti operanti sul mercato – ricorre
allorché vi sia raccolta di risparmio, cioè operatività esterna della società sul mercato
medesimo, ove per esterno s'intende anche l'ambito dei soggetti estranei al "gruppo" societario
cui appartiene la società erogante il credito. In verità lo scopo della precedente legge di
emergenza del 1991, la più volte citata legge antiriciclaggio, poteva anche ritrovarsi proprio nel
sospetto che poteva essere suscitato dal ripetuto presentarsi di operazioni di erogazione del
credito svincolate dalla raccolta del risparmio, in quanto possibile indice di un
approvvigionamento non lecito dei mezzi finanziari occorrenti. Va considerato però in merito
che, a un lato, una norma di tipo generale, quale quella dell'art. 106 TUB, che abbia rispetto
alla normativa antiriciclaggio la differente ed esplica funzione di sistemare la materia nel
complesso, non può certamente venire assoggettata ai limiti propri di una regolamentazione
straordinaria – definita, infatti, correttamente "d'emergenza" – d'origine e di funzione
principalmente penalistica, e, dall'altro, che come risulta ben chiaro dalla richiamata modifica
del decreto ministeriale del luglio 1994, questa appare comunque originata da intento del tutto
estraneo alle preoccupazioni della legge antiriciclaggio. E ciò soprattutto perché le garanzie
prestate dalle società eroganti sono esplicitamente a loro volta coperte da garanzie proprie
verso le banche che, rappresentate dai patrimoni aziendali dei garantiti medesimi, che sono
per definizione, e salvo eventuali eccezioni che sarebbero certo facilmente riscontrabili, società
commerciali esplicitamente presenti sul mercato come fornitori all'ingrosso di prodotti di più
largo consumo.
Non vi è luogo quindi per ritrovare normalmente in tal caso un approvvigionamento irregolare di
mezzi finanziari da parte delle società garanti medesime. Ma inoltre e soprattutto, i contratti
che queste società eroganti le garanzie pongono in essere con i propri garantiti (all’interno dei
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GLI INTERMEDIARI FINANZIARI NEL D.LGS.1°SETTEMBRE 1993
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quali la prestazione della garanzia costituisce non l'oggetto principale delle reciproche
obbligazioni, che è, invece, la compravendita dei prodotti, ma un mero accessorio, se pure
ritenuto dalle parti essenziale per la conclusione del contratto globale) hanno una causa del
tutto chiara, che è quella di agevolare l'acquisto da parte dei garantiti dei beni venduti o
commercializzati da garanti, e si pongono quindi come supporto patrimoniale indiretto e
aggiuntivo rispetto all'attività aziendale dei garantiti stessi, e non come erogazione concreta
professionale che esaurisce in sé la propria causa. Si tratta al contrario di un interesse del
medesimo datore del credito invece mediato e riferito ad altro scopo, come all'opposto non
avverrebbe certo nel caso di mutuo diretto, svincolato da qualunque altra implicazione
contrattuale tra le parti. In sostanza, e sotto un aspetto prevalentemente privatistico, la
prestazione di fideiussione si pone negli accordi in esame come un elemento integrato, ma non
principale nel contratto di compravendita concluso tra le parti, ed è quindi munito per
conseguenza della specifica causa di quello.
4. Gli "intermediari finanziari" nel d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385.
L'evoluzione delle finalità della vigilanza sugli intermediari finanziari residuali, cioè quelli
considerati dalla legge antiriciclaggio, si perfeziona con il TUB .
Certo, anche nel TUB permane la duplice finalità di disciplina del mercato finanziario e di lotta
alla criminalità, visibile nell'affidamento all'Ufficio Italiano Cambi, e non alla Banca d'Italia, di un
"primo e generalizzato controllo" su questi intermediari e nella richiesta di requisiti di onorabilità
per i loro esponenti. Tuttavia, lo spostarsi dell'attenzione del legislatore sulla finalità
prudenziale – resa già palese dalla scelta della sedes materiae, un testo unico in materia
bancaria e creditizia – viene ancora più accentuata dalla nuova sistemazione della materia.
.
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GLI INTERMEDIARI FINANZIARI NEL D.LGS.1°SETTEMBRE 1993
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Nella disciplina antiriciclaggio, dettata dal d.l. 143, e dalla legge di conversione, la disciplina
degli intermediari finanziari residuali era costruita – come è stato detto - secondo un disegno a
"cerchi concentrici": vi era una disciplina generale, applicabile a tutti gli intermediari esercenti in
via prevalente l'attività finanziaria residuale; vi era, quindi, una disciplina di specie, applicabile a
quegli intermediari, compresi tra i primi, esercenti la loro attività nei confronti del pubblico (i soli,
a stretto rigore, qualificabili intermediari); vi era, infine, una disciplina di sottospecie, applicabile
agli intermediari, compresi i secondi, ma di maggiore rilievo.
Questo disegno, per il fatto di dare importanza alla prevalenza dell'attività finanziaria, prima
ancora che all'esercizio dell'attività nei confronti del pubblico, era sicuramente comprensibile
nella logica di una legge emanata per combattere il riciclaggio, lo era di meno in una legge
destinata a dettare regole per il mercato finanziario e per gli operatori che proiettano la loro
attività su questo mercato.
Il TUB ridisegna la disciplina degli intermediari finanziari residuali – il riferimento esclude quelli
che abbiano funzione di capogruppo di gruppo bancario: per questi ultimi continua ad applicarsi
una disciplina speciale, che può leggersi negli artt. 60 a 69, e 98 a 105 TUB – per adeguarla alla
sua diversa prospettiva. Viene dettata una disciplina generale, che si avvia con la previsione di
un obbligo di iscrizione, in un "elenco generale" tenuto dall'Ufficio Italiano Cambi (art. 106 co. 1
TUB), degli intermediari che esercitano nei confronti del pubblico le "attività di assunzione di
partecipazione", di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazioni di servizi di
pagamento e di intermediazione in cambi" (non si parla più di "servizi di incasso e di
trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito", ma – sembra-
solo perché già ritenuti compresi tra le attività che restano), e viene poi dettata una disciplina
speciale per gli intermediari di maggiore rilievo, che si avvia con la previsione dell'obbligo della
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IL MODELLO ORGANIZZATIVO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI
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loro iscrizione anche in un "elenco speciale" tenuto dalla Banca d'Italia (art. 107 co. 15 TUB).
I soggetti non operanti nei confronti del pubblico sono invece assoggettati ad una distinta
disciplina, assai ridotta, con finalità che possono dirsi soprattutto di censimento, riconducibile
comunque alla prima per il fatto che anche questi operatori sono iscritti in un elenco, che
costituisce "apposita sezione dell'elenco generale" tenuto dalla Banca d’Italia (113 TUB). Per
tornare all'immagine dei cerchi, nel TUB non ci sono più tre cerchi concentrici, ma due cerchi
concentrici, che ruotano su uno stesso piano, e un terzo che orbita intorno a loro, su un piano
diverso. Ma, al di là di questi dati esteriori, la maggiore rilevanza che il TUB attribuisce al fine
della regolamentazione del mercato finanziario si manifesta anche in una maggiore severità
della disciplina degli intermediari finanziari residuali iscritti "nell'elenco generale", riscontrabile
già nella norma che fa loro divieto di svolgere attività diverse da quelle finanziarie (106 co. 2
TUB).
5. Il modello organizzativo degli intermediari finanziari nella originaria stesura dell’art.
106 TUB.
L'art. 106 TUB, co. 1, nella sua formulazione ante D.Lgs. 141/2010, dava luogo ad una riserva
di attività in favore dei soggetti iscritti nell'Elenco Generale, consentendo loro l’'esercizio nei
confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessione di
finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione
in cambi.
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IL MODELLO ORGANIZZATIVO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI
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Nel successivo art. 107 era possibile, poi, ritrovare una disciplina speciale per intermediari che
con riferimento all'attività svolta, alla dimensione e al rapporto tra indebitamento e patrimonio
erano tenuti ad iscriversi ad un apposito elenco speciale tenuto dalla Banca d'Italia.
Essendo, dunque, prevista una disciplina speciale per i soli soggetti iscritti all'elenco di cui
all'art. 107, l'esercizio dell'attività per gli intermediari di cui all’art. 106, poteva essere svolto
avendo riguardo delle disposizioni della Banca d'Italia in materia di organizzazione e obblighi.
In linea con le indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, il modello strutturale adottato dagli
intermediari ex art. 106 si viene a caratterizzare per l'adozione di strutture composte
generalmente da un numero ridotto di risorse cui affidare i diversi compiti operativo - gestionali.
L'adeguatezza dell'organizzazione interna si fonda sul rispetto di una serie decisiva di obblighi,
tra i quali rientrano la privacy, la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari, la
predisposizione di un sistema antiusura e la normativa antiriciclaggio. A tali obblighi si
aggiungono, poi, quelli inerenti le comunicazioni nei confronti dell'Agenzia delle Entrate – aventi
ad oggetto aggiornamenti sui rapporti continuativi - nonché quelli nei confronti della Guardia di
Finanza - e della stessa Agenzia delle Entrate - in relazione alle indagini finanziarie. Lo stesso
sistema di controlli interni risulta, pur nella sua semplicità, caratterizzato dalla periodicità ed ha
come obiettivo principale quello di verificare che l'area commerciale rispetti le norme in materia
di verifica della clientela, di corretta informativa precontrattuale da fornire al cliente, di
acquisizione dell'autorizzazione al trattamento dei dati personali. Si preferisce, sempre in
questa fase legislativa, esternalizzare solo le funzioni contabili, legali, di verifica e monitoraggio
del credito ed in alcuni casi anche l’eventuale recupero del credito. È solo con il D.Lgs
141/2010 che si viene a delineare un nuovo modello di intermediazione, cui vede attribuita
un’importanza decisiva ad alcune aree funzionali specifiche, come l'area crediti, e quelle
relative alla valutazione e gestione dei rischi di riciclaggio.
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L’ART.106 T.U.B. NELLA NUOVA FORMULAZIONE POST D.LGS.141/2010
.
6. L’art. 106 T.UB. nella nuova formulazione post D.Lgs. 141/2010.
Sino ad oggi in virtù del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 17 Febbraio
2009, n. 29, è stato possibile far rientrare nella definizione di intermediari finanziari ai sensi
dell’art. 106 TUB, quei soggetti iscritti nell’elenco generale, che hanno esercitato nei confronti
del pubblico in via professionale l’attività di concessione di finanziamenti, di assunzione di
partecipazioni, di intermediazione in cambi.
Come si è detto innanzi, è con il Decreto Legislativo 13 agosto 2010 n. 141, attuativo alla
direttiva comunitaria n. 48/2008, che si è proceduto ad una revisione profonda della normativa
relativa agli Intermediari Finanziari cosiddetti “non bancari”: è stato, infatti, istituito un albo
“unico” degli intermediari finanziari, con il superamento della distinzione tra elenco generale ex
art. 106 TUB ed elenco speciale di cui all’art. 107 TUB, ed è stato, al contempo, rafforzato
l’assetto di regole e poteri sugli intermediari finanziari iscritti nell’albo unico attraverso una serie
di controlli particolarmente stringenti rispetto alla possibilità di accesso al mercato e all’assetto
proprietario degli intermediari. L’obiettivo è stato perseguito attraverso un’azione non solo di
ridefinizione delle attività sottoposte a riserva, ma anche attraverso un’azione innovativa sui
requisiti che devono sussistere per l’iscrizione al nuovo albo degli Intermediari Finanziari.
Il decreto ha tracciato nuovi confini alla riserva di attività, inserendo all’interno di tali confini
l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi
forma, ed escludendo attualmente attività quali l’assunzione di partecipazioni e
l’intermediazione in cambi.
Obiettivo della riforma è stato, dunque, non solo l’intento di ridurre al minimo il rischio sistemico
generato dai soggetti facenti parte dell’ormai superato elenco generale ex art. 106, bensì
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L’ART.106 T.U.B. NELLA NUOVA FORMULAZIONE POST D.LGS.141/2010
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quello ancora più importante di superare in modo definitivo, attraverso l’introduzione di più
stringenti procedure di controllo, quelle stesse criticità evidenziate dall’Autorità di Vigilanza
all’atto dei suoi controlli. I soggetti iscritti originariamente nell’elenco generale del Testo Unico
Bancario, hanno, dunque, in linea con le riforme poste in essere, intrapreso un percorso di
adeguamento – da molti considerato un vero e proprio appiattimento – al fine di addivenire ad
un progressivo allineamento della propria struttura patrimoniale ed organizzativa - Corporate
Governance e Controllo Interno dei Rischi - a quella caratterizzante le società iscritte
nell’Elenco Speciale ex Art. 107. Attualmente l’iscrizione nel nuovo Albo degli Intermediari
Finanziari – nella nuova stesura dell’art. 106 TUB – prevede, dunque, un processo
autorizzativo dell’Organo di Vigilanza che si conclude, una volta verificato il rispetto del
requisito di una sana e prudente gestione da parte dell’intermediario, con l’autorizzazione
all’iscrizione nel nuovo albo. In effetti, l’Organo Autorizzativo – che è al contempo anche
organo di vigilanza – ha il compito di dover assicurare che il nuovo intermediario finanziario
operi in un assetto di sana e prudente gestione ed attento alle conseguenze di un rischio
sistemico: in definitiva deve rappresentare un’alternativa finanziaria sia per gli operatori
economici che per i potenziali clienti. Non a caso requisiti quali affidabilità, correttezza,
trasparenza nei confronti dell’Autorità di Vigilanza e della clientela, sistema accurato di
controllo e attenta valutazione interna dei rischi, sono i concetti che hanno ispirato il legislatore
nella elaborazione delle nuove norme per gli Intermediari che esercitano l’attività di
concessione di finanziamenti al pubblico. In quest’ottica, le novità introdotte nel corso di questi
anni hanno interessato sia gli aspetti inerenti la modifica dei requisiti richiesti per l’iscrizione,
l’introduzione di nuove segnalazioni statistiche per i soggetti iscritti all’Elenco Generale,
nonché la tenuta dell’Archivio Unico Informatico e l’organizzazione del “presidio antiriciclaggio”,
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L’ART.106 T.U.B. NELLA NUOVA FORMULAZIONE POST D.LGS.141/2010
.
quest’ultimo necessario al fine di una adeguata tutela dell’intermediario dalla possibilità che
nello svolgimento della propria attività possa ritrovarsi coinvolto in operazioni di riciclaggio e
finanziamento del terrorismo. Il nuovo modello di intermediazione creato e voluto dal
legislatore, pur connotandosi di alcune caratteristiche peculiari proprie degli intermediari iscritti
all’Elenco Speciale, si proietta verso un modello di impronta ed ispirazione bancaria,
soprattutto per il rigore delle modifiche apportate al TUB in materia di vigilanza.
Ed è proprio la terminologia adottata dal legislatore a delineare in modo chiaro lo spirito della
riforma: se, infatti, il TUB nella sua previgente formulazione faceva riferimento all’iscrizione
degli Intermediari nei due elenchi, le nuove disposizioni si caratterizzano per l’uso del termine
autorizzazione. L’autorizzazione, secondo il dato normativo, diviene, allo stesso tempo,
momento e strumento di controllo dei requisiti necessari all’esercizio dell’attività di
intermediazione: in sostanza, ci si viene a trovare di fronte ad un vero e proprio procedimento
autorizzativo, che ha, come presupposti per la sua riuscita, un insieme di elementi oggettivi –
cd. requisiti necessari - e di valutazioni rimesse alla Banca d’Italia. Sarà proprio la Banca
d’Italia l’organismo chiamato a svolgere il procedimento autorizzativo, ed a negare
l’autorizzazione in tutte quelle circostanza nelle quali non risulti garantita una sana e prudente
gestione. La stessa Banca d’Italia, inoltre, alla luce di quanto previsto dall’ultimo comma
dell’art. 107, è tenuta a disciplinare la procedura di autorizzazione, oltre i casi di revoca e
decadenza: si ha, dunque, una situazione che vede la stessa Banca d’Italia, coerentemente
con la propria attività istituzionale, impegnata ad esercitare la propria attività di vigilanza su tutti
gli intermediari finanziari in ordine al rispetto delle disposizioni in materia di trasparenza e
correttezza dei rapporti con la clientela, e, al contempo, il soggetto deputato al controllo sulle
società dell’Albo unico.
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LE ATTRIBUZIONI E LE COMPETENZE DELLA BANCA D’ITALIA SUGLI INTERMEDIARI
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Ciascun Intermediario, dunque, che intende proseguire la propria attività nel settore della
concessione di finanziamenti, deve strutturarsi non solo secondo i dettami del disposto di cui al
D.Lgs. 141/2010, bensì anche il linea con le disposizioni attuative che la Banca d’Italia è tenuta
ad emanare e che concernono “il governo societario, l'adeguatezza patrimoniale, il
contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, l'organizzazione amministrativa e
contabile, i controlli interni ed i sistemi di remunerazione e incentivazione nonché l'informativa
da rendere al pubblico sulle predette materie”. (Art. 108, 1° co.). La stessa Banca d’Italia,
oltre che disporre in ordine a quanto contenuto nel primo comma citato si riserva la facoltà,
“ove la situazione lo richieda”, di procedere all’adozione di “provvedimenti specifici nei confronti
dei singoli intermediari finanziari”: in questo modo ci si muove nel senso di circoscrivere il
campo di azione territoriale della struttura nonché le attività esercitate, escludendo che possa
delinearsi un qualche spazio per strutture non organizzate, ovvero non correttamente e
professionalmente gestite, tra quelle che vorranno operare nella concessione di finanziamenti.
7. Le attribuzioni e le competenze della Banca d’Italia sugli intermediari ex art. 106.
È ben nota la circostanza dell’intervenuta soppressione nel gennaio 2008 dell’UIC, con
attribuzione delle medesime funzioni alla Banca d’Italia, che succede in tutti i diritti e rapporti
giuridici di cui l’Uic è titolare (d.lgs. 231/2007).
L’attività di prevenzione e contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo
internazionale viene svolta, in piena autonomia e indipendenza, dall’Unità di Informazione
Finanziaria (UIF) istituita presso la Banca d'Italia. Le altre funzioni istituzionali dell’Ufficio sono
invece svolte dalle corrispondenti strutture della Banca d’Italia.
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LE ATTRIBUZIONI E LE COMPETENZE DELLA BANCA D’ITALIA SUGLI INTERMEDIARI
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Già a seguito della modifica dell’art. 106, co. 5, TUB, ad opera dell’art. 22 del d.lgs. 4.8.1999 n.
342, spettava all’UIC e non più al Ministro del tesoro “indicare le modalità di iscrizione
nell’elenco generale” degli intermediari. Avvenuta l’iscrizione, l’Ufficio ne dava comunicazione
alla Banca d’Italia e alla Consob. Per procedere all’iscrizione, l’UIC doveva accertare la
ricorrenza dei requisiti, legislativi e regolamentari, all’uopo previsti.
Dal momento che si parla di iscrizione e non di autorizzazione, si può considerare precluso alle
autorità di vigilanza ogni potere discrezionale. Dal confronto tra i requisiti previsti per
l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria o di intermediazione mobiliare e quelli richiesti
per l’iscrizione, legittimante l’intermediario ex Titolo V TUB all’esercizio dell’attività, si evince
che soltanto per l’esercizio delle prime è necessaria la presentazione alle autorità (Banca
d’Italia e Consob) di un programma concernente l’attività iniziale. Il momento in cui la
discrezionalità delle suddette autorità ha modo di esplicarsi in misura maggiore, se non
addirittura in maniera esclusiva, rispetto alla disamina degli altri presupposti necessari per il
rilascio dell’autorizzazione, è quello in cui valutano l’accertamento della ricorrenza di una sana
e prudente gestione. Probabilmente, proprio la mancanza di tale presupposto ha indotto il
legislatore a usare il termine “iscrizione” in luogo di “autorizzazione”.
Alla stessa considerazione si può giungere nel fare riferimento alla norma contenuta nell’art.
107, co. 6, dove il riferimento all’autorizzazione, pur trovando la sua giustificazione nella
circostanza che alcuni degli intermediari ivi indicati svolgono delle attività, quali le prestazioni di
servizi di investimento, identica a quella che possono svolgere altre categorie di soggetti, per i
quali è necessaria l’autorizzazione, è pur sempre successivo all’iscrizione degli intermediari
nell’elenco speciale. Per queste ragioni, l’autorizzazione è un provvedimento necessario in
relazione all’attività che si intende svolgere.
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LE AUTORITÀ DI VIGILANZA NEL SISTEMA FINANZIARIO ITALIANO
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L’applicazione della normativa, contenuta nell’art. 20 TUB per le banche, anche all’art. 110 per
gli intermediari finanziari è avvenuta prima dell’emanazione del testo unico, dal momento che
analoga risultava la funzione di intermediazione finanziaria svolta dagli istituti di credito e dagli
intermediari, e ciò ha permesso di colmare una lacuna rispetto alla normativa bancaria.
La genericità della espressione “chiunque” utilizzata per designare i destinatari dell’obbligo,
consente alla Banca d’Italia ex art. 20 TUB, di chiedere anche ai soggetti, non sottoposti alla
vigilanza, ma che risultano comunque interessati, le informazioni necessarie per verificare
l’osservanza del disposto dell’art. 110 TUB. Così come per le banche è previsto l’obbligo per gli
intermediari 106 e 107 di fornire le informazioni di cui all’art. 21 TUB, relative all’indicazione
nominativa dei soci, nonché quelle riguardanti l’esistenza di sindacati di voto.
In realtà, occorre evidenziare che sono gli intermediari, o meglio, coloro che ne hanno il
controllo, ad avere interesse ad eseguire siffatte comunicazioni, quando alla partecipazione si
accompagna l’operatività dell’intermediario verso il soggetto partecipante, se la misura della
partecipazione è tale da ritenere l’attività finanziaria svolta all’interno di un gruppo e non nei
confronti del pubblico. In tal modo, l’intermediario potrà essere iscritto nella sezione prevista
dall’art. 113 TUB, ed essere assoggettato a minori obblighi rispetto a quelli degli iscritti
nell’elenco generale.
8. Le Autorità di vigilanza nel sistema finanziario italiano.
Come è dato evincere dalle osservazioni sin qui svolte, l’apparato dei controlli nel sistema
finanziario italiano è oggi disciplinato da un articolato sistema normativo e regolamentare,
costituito essenzialmente dal Testo unico bancario (TUB), dal Testo unico della finanza (TUF) e
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LE AUTORITÀ DI VIGILANZA NEL SISTEMA FINANZIARIO ITALIANO
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dalla legge sulla tutela del risparmio (n. 262/2005), che ha inciso in modo rilevante sull’intero
assetto di poteri delle autorità di vigilanza. La regolamentazione del mercato finanziario italiano
si caratterizza per l’esistenza di un modello cd. “ibrido”, ossia di un modello che riunisce in sè -
volendo usare una terminologia propria della dottrina - autorità operanti per finalità e autorità
operanti per soggetti. L’attività di vigilanza è ripartita tra diverse autorità amministrative
indipendenti: l’IVASS (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni), la Covip (Commissione di
vigilanza sui fondi pensione), l’Antitust (Autorità garante della concorrenza e del mercato), la
Consob (Commissione Nazionale per le società e le borse) e la Banca d’Italia. Gli organi di
vigilanza realizzano un controllo tecnico, dando attuazione ai principi istituiti dalla normativa
primaria, e con i loro provvedimenti riescono in un qualche modo ad influenzare e indirizzare le
scelte dei soggetti vigilati. La Banca d’Italia, quale Autorità di vigilanza, attraverso i poteri e le
responsabilità di controllo sui singoli intermediari e sul sistema finanziario, che le derivano
dall’ordinamento nazionale, svolge le funzioni dirette al mantenimento della stabilità finanziaria:
vigila sulle banche, sui gruppi bancari, sugli intermediari finanziari, sugli istituti di moneta
elettronica e di pagamento, perseguendo i fini della stabilità, efficienza e competitività del
sistema finanziario, della sana e prudente gestione degli intermediari, nonché l’osservanza
delle disposizioni in materia creditizia e finanziaria (art. 5, comma 1, del TUB). Il TUF, a sua
volta, conferisce alla Banca d’Italia poteri di vigilanza nei confronti degli intermediari che
operano nel settore dei servizi di investimento e della gestione collettiva del risparmio (banche,
società di gestione del risparmio, società di investimento a capitale variabile, società di
intermediazione mobiliare), con l’intento di salvaguardare la fiducia nel sistema finanziario, la
tutela degli investitori, la stabilità, il buon funzionamento e la competitività dell’intero sistema
finanziario, nonché l’osservanza delle disposizioni in materia creditizia e finanziaria:
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SISTEMI DI VIGILANZA A CONFRONTO
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in sostanza, la Banca d’Italia anche rispetto agli intermediari del TUF si concentra
prevalentemente sui criteri del contenimento del rischio, della stabilità patrimoniale e della
sana e prudente gestione degli intermediari. La riforma della disciplina sull’intermediazione
finanziaria realizzata con il d.lgs. 141/2010, ha razionalizzato e in parte semplificato l’assetto
dei controlli sugli intermediari finanziari di cui al Titolo V del TUB. Come già sottolineato, con la
previsione, infatti, di un unico albo, oltre ad essere superato il doppio regime di intermediari
sottoposti a vigilanza prudenziale e intermediari per i quali sono contemplati controlli meno
rigidi, si ha anche l’assoggettamento di tutti gli operatori che erogano credito a controlli di
vigilanza, e ciò si realizza sia nella fase dell’iscrizione all’albo, sia in quella successiva di
svolgimento dell’operatività e in caso di crisi. Le attività di alcuni intermediari (cambiavalute,
società di cartolarizzazione e soggetti non operanti nei confronti del pubblico) vengono
liberalizzate e i relativi elenchi abrogati; per altre tipologie di intermediari (microcredito, confidi
minori, agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi) la vigilanza è affidata a organismi
autonomi sottoposti, in ogni caso, al controllo della Banca d’Italia, tenuta a verificare
l’adeguatezza delle procedure da questi adottate per lo svolgimento della propria attività. Alla
Banca d’Italia spetta, inoltre, promuovere la trasparenza delle operazioni e dei servizi finanziari
e la correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti
9. Sistemi di vigilanza a confronto.
Le considerazioni rese nel precedente paragrafo permettono, attraverso una lettura congiunta
di alcuni articoli del TUB e del TUF, di procedere ad un confronto tra i due sistemi di vigilanza
previsti a livello normativo.
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SISTEMI DI VIGILANZA A CONFRONTO
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Se si considerano, infatti, gli articoli 14 (TUB) e 107 (TUF), da un lato, e gli articoli 51, 53, 54
(TUB) e 108 (TUF), dall’altro, è possibile evidenziare quanto già sostenuto circa le comune
radici di ispirazione bancaria sottese alla riforma del Titolo V: basti pensare all’iter autorizzativo,
al requisito patrimoniale, ai requisiti, altresì, previsti per i partecipanti al capitale, al programma
di attività, nonché ancora ai possibili legami tra i soggetti che possono risultare da ostacolo alla
funzione di vigilanza.
I due articoli a confronto relativi alle condizioni ed ai requisiti che devono sussistere per
ottenere l’autorizzazione della Banca d’Italia, oltre ad una serie di punti di contatto nelle parti
sottolineate, risultano di particolare interesse con riferimento al contenuto del comma 2 dell’art.
14 e dell’articolo 107: in virtù di quanto in essi disposto, la Banca d’Italia può negare
l’autorizzazione quando non risulti “garantita la sana e prudente gestione”.
Aver attribuito all’organismo di vigilanza la valutazione circa l’esistenza dei requisiti minimi che
ciascun intermediario deve necessariamente possedere per poter svolgere attività di
concessione di finanziamenti ai sensi del nuovo art. 106, ha come finalità la predisposizione ed
attuazione di procedure capaci di garantire a trecentosessanta gradi l’efficienza della gestione
dei soggetti interessati.
Chiaro, dunque l’intento del legislatore di garantire una assetto organizzativo degli intermediari
finanziari maggiormente strutturati e organizzati, oltre che responsabilizzati, ulteriormente
comprovato dalle previsioni di cui all’art. 108, che attribuiscono alla Banca d’Italia anche la
possibilità di emanare disposizioni volte ad assicurare “il regolare esercizio” di particolari tipi di
attività. Il rigore delle previsioni normative trova il loro punto di partenza certamente nelle
modifiche che ha subito l’intero sistema di risorse, umane e non, attraverso le quali
l’intermediario svolge la propria attività: si tratta di un target decisamente molto più elevato
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SISTEMI DI VIGILANZA A CONFRONTO
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rispetto al passato, in linea non solo con la sempre crescente complessità delle attività che gli
intermediari hanno svolto negli ultimi anni ma anche con il fine principale del legislatore, ossia
rendere più stabile questo settore attraverso un’attenta opera di monitoraggio ed un’accurata
gestione preventiva del rischio sistemico. Inoltre, dalla lettura degli artt. 107 e 108, è dato
comprendere l’incisività dei poteri dell’Autorità di Vigilanza anche in una fase successiva
all’autorizzazione, potendo la stessa non solo ordinare la convocazione degli organi collegiali
degli intermediari finanziari, per l’assunzione di determinate decisioni, ma anche procedere
direttamente alla convocazione degli organi collegiali nel caso in cui gli organi collegiali non
abbiano ottemperato all’ordine di convocazione. L’incisività dei poteri dell’organo di vigilanza
trova, tuttavia, un contemperamento nel criterio di proporzionalità con cui la vigilanza deve
essere esercitata. Un criterio, quello della proporzionalità, legato alla dimensione, alla struttura
organizzativa, all’operatività ed alla tipologia di attività di ciascun intermediario.
Ad una vigilanza di carattere informativo di cui all’art. 108 co. 4, che si concretizza attraverso
l’obbligo di invio di segnalazioni periodiche, dati e documenti, se ne affianca una di tipo ispettivo
(art. 108 co. 5), consistente nell’accesso presso gli intermediari finanziari di atti e documenti. A
queste tipologie di vigilanza se ne affianca una ulteriore di spiccata caratterizzazione bancaria,
ossia una vigilanza di tipo regolamentare. Il dato normativo dei due testi di legge messi a
confronto permette di cogliere la portata innovativa del nuovo modello di intermediario
finanziario, e la tendenza ad equiparare le due discipline attorno ad una matrice comune,
ferma, poi, la creazione di nuove regole, volte ad aumentare il grado di sicurezza e
professionalità di tutti i soggetti operanti nel settore. La riforma ha interessato, infatti, non solo
gli Intermediari Finanziari ma anche soggetti quali Confidi, Agenti in Attività Finanziaria, Società
di Mediazione Creditizia; la loro regolamentazione ha inciso di riflesso anche su altre figure
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INTERMEDIARI FINANZIARI E OBBLIGO DI PARTECIPAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI
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quali gli Agenti Assicurativi, le Società di Brokeraggio Assicurativo, i Promotori Finanziari ed i
Consulenti Immobiliari. Occorre, ad ogni modo, precisare come nel corso degli anni sia andato
crescendo un maggior grado di incisività delle norme rispetto all’operatività ed alla struttura
degli intermediari finanziari, e ciò sia alla luce dell’insieme di modifiche che sono state
apportate al TUB a partire dal D.Lgs. 141/2010, sia delle modifiche introdotte in una fase
successiva alla emanazione di quest’ultimo dai decreti legislativi n.° 218 del 2010 e n.° 169
del 2012.
10. Intermediari Finanziari ed obbligo di partecipazione alla Centrale rischi.
Il Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze n. 663/2012 - assunto a seguito del
riordino della disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario da parte del d.lgs. n.
141/2010, stabilisce all’art. 2 che partecipano alla Centrale dei rischi le banche e le società
cessionarie di crediti, nonché quelle categorie di soggetti che la Banca d'Italia può individuare
proprio in virtù dei poteri ad essa attribuiti ed in relazione ai quali può emanare disposizioni per
il contenimento del rischio di credito.
In applicazione del suddetto art. 2, lettera b) del decreto ministeriale la Banca d’Italia, con
apposito provvedimento ha individuato gli intermediari finanziari iscritti all’albo di cui all’articolo
106 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (TUB) quale categoria di soggetti tenuta a partecipare
alla Centrale dei rischi.
Occorre, innanzitutto, precisare che la Centrale dei rischi, quale sistema informativo
sull’indebitamento della clientela delle banche e degli intermediari finanziari e sull’andamento
delle relazioni creditizie, ha un ruolo essenziale in un mercato in cui le informazioni sul rischio
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INTERMEDIARI FINANZIARI E OBBLIGO DI PARTECIPAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI
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del credito assumono un rilievo crescente e l’obiettivo di rafforzare la vigilanza e assicurare
affidabilità e correttezza degli operatori, viene perseguito anche attraverso la possibilità
riconosciuta agli intermediari di consultare le informazioni di cui dispone la Centrale rischi.
Il sistema è gestito dalla stessa Autorità di Vigilanza per fornire agli intermediari partecipanti
un’informativa che sia il più possibile di aiuto nella valutazione del credito della clientela e
nell’analisi e gestione del rischio legato al credito stesso. Una migliore capacità di analisi e
gestione del rischio di credito a livello del singolo intermediario, contribuisce indirettamente a
migliorare la qualità degli impieghi degli intermediari partecipanti e, non da ultimo, ad
accrescere la stabilità del sistema bancario.
In quest’ottica, il ruolo di questo sistema centralizzato del rischio non può e non deve essere
inteso quale semplice strumento di raccolta e di smistamento delle informazioni, ma soprattutto,
quale fondamentale strumento per la gestione di un rischio chiave cui sono esposti gli operatori
attivi nell’esercizio del credito.
Le banche e gli intermediari finanziari onerati sono, dunque, tenuti a fornire alla Banca d’Italia
aggiornamenti periodici delle informazioni comunicate per obbligo di legge, e possono, altresì,
utilizzare le informazioni acquisite dalla Centrale dei Rischi per finalità di ordine processuale, e
sempre che il giudizio riguardi il rapporto di credito intrattenuto con la clientela.
In sostanza, la Centrale dei Rischi si caratterizza per un ampia banca dati gestita dalla Banca
d’Italia nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, nella quale sono conservate informazioni sulla
solvibilità dei clienti, siano essi soggetti privati, pubblici ovvero anche altre banche o
intermediari finanziari. Tra i soggetti partecipanti alla Centrale dei rischi vi sono tutti gli
intermediari finanziari di cui all’art. 106 del TUB; è venuto meno, infatti, sia il principio, ancora
vigente, dell’esclusività nell’attività di “concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, sia
l’esonero degli intermediari per i quali l’attività di credito al consumo rappresenti più del 50 per
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INTERMEDIARI FINANZIARI E OBBLIGO DI PARTECIPAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI
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cento dell’attività di finanziamento. Uno sguardo attento merita il profilo dei benefici e dei costi
connessi con la partecipazione degli intermediari ex art. 106 TUB al sistema centralizzato dei
rischi. Con riferimento al profilo dei benefici, non vi è dubbio che una corretta gestione del
rischio di credito attraverso efficienti procedure di selezione e un costante monitoraggio degli
affidati, rappresentano certamente gli elementi cruciali per la stabilità degli intermediari: i servizi
informativi della Centrale dei rischi sono, infatti, orientati proprio nel senso di soddisfare queste
esigenze informative e gli stessi dati in possesso della Centrale dei rischi si rivelano importanti
per la loro completezza e l’articolazione piuttosto ampia delle informazioni messe a
disposizione. In sostanza, per gli intermediari finanziari il servizio rappresenta un’importante
strumento per la valutazione del merito creditizio dei potenziali clienti e per il monitoraggio degli
affidati. I soggetti partecipanti, nello svolgimento della loro attività, altro non potranno che trarre
beneficio dall’ampio patrimonio informativo contenuto negli archivi della Centrale dei rischi.
Per quanto concerne, invece, i costi, occorre tenere presenti sia i costi d’impianto, rappresentati
prevalentemente dalla predisposizione delle procedure di estrazione e di elaborazione dei dati,
sia quelli di natura ricorrente. Quest’ultimi sono connessi con le attività di gestione (costi di
personale e di carattere amministrativo) nonché con i costi relativi alla manutenzione delle
procedure. Trattasi di interventi che per loro natura, soprattutto per le realtà aziendali di minore
dimensione, presentano una forte incidenza, un onere non trascurabile e di grande rilievo. È
comunque, prevista per gli Intermediari la possibilità di limitare i costi facendo ricorso a centri
esterni di elaborazione dati. Nell’individuazioni delle possibili alternative regolamentari, si
potrebbe anche ipotizzare l’assoggettamento di tutti gli intermediari finanziari al sistema
centralizzato dei rischi, escludendo, dunque, la possibilità di chiedere esoneri rispetto alla
previsione normativa di assoggettamento. Si tratta, tuttavia, di una alternativa che nella realtà
dei mercati andrebbe certamente a penalizzare, risultando eccessivamente onerosa, tutte
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CENTRALE RISCHI E QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO
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quelle tipologie di intermediari la cui attività non è oggetto di rilevazione, e questo nonostante i
benefici che si andrebbero a generare in termini di efficacia per il servizio di centralizzazione dei
rischi. Rispetto alle tematiche affrontate occorre in ogni caso precisare che la stessa Banca
d’Italia ha posto in pubblica consultazione la bozza del Provvedimento relativo all’ “obbligo di
partecipazione degli intermediari finanziari al servizio di centralizzazione dei rischi gestito dalla
Banca d’Italia” di attuazione delle disposizioni contenute nel Decreto del Ministero
dell’Economia e delle Finanze dell’11 luglio 2012, n. 663; al contempo si è proceduto anche ad
una valutazione dell’analisi d’impatto.
11. Centrale rischi e quadro normativo di riferimento.
Sotto la vigenza della c.d. ‘legge bancaria’ del 1936 il fondamento normativo della Centrale
Rischi lo si ritrovava nell'art. 32, comma I, lett. h), della stessa legge: l’articolo attribuiva
all’Autorità di Vigilanza il potere di adottare i provvedimenti necessari per evitare gli
aggravamenti di rischi derivanti dal cumulo dei fidi. Una volta che si è proceduto all’abrogazione
della legge bancaria, è possibile ricondurre la disciplina della Centrale Rischi agli artt. 51, 53,
67 e 107 del TUB. L’art. 53, comma I, lett. b) del TUB, attribuisce, innanzitutto, alla Banca
d’Italia il potere di emanare le disposizioni generali aventi ad oggetto il contenimento del rischio
nelle sue diverse configurazioni. Naturalmente per gli intermediari bancari e finanziari, il rischio
di credito, da intendersi come rischio di variazione della solvibilità di un debitore, è sicuramente
quello di maggiore incidenza rispetto ad eventuali ulteriori rischi cui gli stessi possono essere
esposti. Inoltre, in virtù dell’articolo n. 51 del TUB, viene posto a carico delle banche l’obbligo di
trasmettere alla Vigilanza tutte le informazioni da questa richieste, nonché ogni altro atto o
documento eventualmente richiesto.
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LA FUNZIONE DELLA CENTRALE RISCHI
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Il CICR ha adottato, poi, diverse delibere strumentali all’istituzione ed alla disciplina del servizio
reso dalla Centrale, dettando i principi applicabili in materia.
Successivamente, la Banca d’Italia ha esteso con il provvedimento del 10 agosto 1995 alle
società finanziarie l’obbligo di partecipare al servizio di centralizzazione dei rischi. Ed infine,
completano il quadro normativo disciplinante il funzionamento della Centrale dei Rischi le
Istruzioni per gli intermediari creditizi adottate dalla Banca d’Italia, e precisamente la Circolare n.
139 dell’11 febbraio 1991, ormai arrivata al 14° aggiornamento in vigore dal 29 aprile 2011.
12. La funzione della Centrale rischi.
La Centrale dei Rischi si presenta, pertanto, come un sistema informativo di fondamentale
importanza nella gestione del rischio di credito degli intermediari bancari e finanziari.
È entrata in funzione nel 1964 e rappresenta certamente in Italia il primo esempio di sistema
informativo del rischio di credito. A voler dare uno sguardo più approfondito a quelle che sono le
funzionalità proprie di questo sistema, occorre innanzitutto precisare che il sistema raccoglie
mensilmente dai soggetti partecipanti una certa quantità di dati aggiornati sui finanziamenti erogati
a ciascun cliente o gruppo e sullo status degli stessi. Ad un flusso informativo verso la Centrale,
corrisponde in egual misura un flusso - cd. flusso di ritorno personalizzato - verso gli intermediari,
contenente il dato aggregato degli affidamenti concessi a tutti i clienti segnalati dall’intermediario.
Ed è proprio dalla valutazione complessiva degli affidamenti segnalati e, dunque, dai flussi di
informazione in entrata ed in uscita, che è possibile per una banca od un intermediario valutare
la posizione di rischio di un cliente.
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LA FUNZIONE DELLA CENTRALE RISCHI
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La Centrale produce, inoltre, un c.d. flusso di ritorno statistico - ossia un flusso di dati statistici
complessivi sul mercato del credito - di rilevante utilità, che sono rappresentativi della rischiosità,
concentrazione e dimensione degli affidamenti. Nel corso degli ultimi anni, poi, questo flusso di
ritorno statistico è stato ulteriormente potenziato, sino a contenere oggi importanti dati sui tassi
di decadimento, di mortalità e di rimborso dei finanziamenti. E sempre la Centrale fornisce
anche un servizio c.d. di prima informazione, ossia un report contenente tutte le informazioni di
dettaglio sugli affidamenti erogati a potenziali nuovi clienti, ossia a soggetti che non siano stati
già oggetto di segnalazione da parte dell’intermediario: tutte queste informazioni potranno
essere utilizzate nell’ambito delle istruttorie creditizie. La possibilità di accedere a informazioni
dettagliate sul rischio di credito complessivo rispetto a un dato cliente, determina certamente
delle scelte di finanziamento più consapevoli da parte delle banche e degli intermediari finanziari
che riescono ad avere, in tal modo, un quadro più chiaro ed esaustivo degli affidamenti
concessi ad un singolo cliente o gruppo da parte del sistema bancario italiano. E naturalmente,
la possibilità di avere una visione d’insieme completa, consente ai singoli intermediari un
impiego ancor più efficiente delle loro risorse e una migliore qualità del portafoglio crediti dei
propri clienti. La Centrale rischi, nelle funzioni ad essa assegnate, risponde inoltre ad una
fondamentale esigenza di semplificazione documentale, nel senso di facilitare la raccolta di
informazioni con riferimento a tutti gli affidamenti eventualmente rilasciati a favore di un dato
soggetto economico: ed infatti, le informazioni inviate alla Centrale, ovvero quelle acquisite da
attività di interrogazione delle stessa Centrale nell’ambito di un’istruttoria relativa alla
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LA FUNZIONE DELLA CENTRALE RISCHI
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concessione di un credito, vengono convogliate in un'unica fonte; circostanza quest’ultima che
facilita il lavoro di ricerca e verifica delle informazioni soprattutto con riferimento ai clienti meno
problematici e la cui situazione non determina la necessità di ulteriori specifici approfondimenti.
Ci si è posti, tuttavia, il problema di come garantire agli intermediari di avere accesso ad
informazioni dettagliate sull’indebitamento complessivo di un soggetto o gruppo, tenuto conto
che nessun singolo intermediario ha incentivi sufficienti a comunicare agli altri l’esatta
consistenza del debito altrui. Va da se che la mancanza d’informazioni sulla situazione
complessiva di esposizione debitoria di un dato soggetto verso il sistema bancario incide, finisce
per incidere negativamente sulla capacità degli operatori di accedere al credito, rendendo la
misurazione del rischio di credito difficile se non addirittura impossibile. Per la risoluzione degli
indicati problemi, si è provveduto alla creazione di un modello di database centralizzato a cui gli
intermediari partecipano e al contempo contribuiscono in virtù di obbligo legale. Se, dunque, gli
intermediari si trovano nella situazione di poter accedere ad informazioni chiare e complete, e
ciò in virtù della loro partecipazione al database creato, per i soggetti che chiedono di accedere
al credito, i dati contenuti nella Centrale rappresentano – soprattutto in presenza dei clienti più
meritevoli - un vero e proprio biglietto da visita, una documentazione decisiva per le imprese, in
grado di consentire loro di ottenere un agevole ed immediato accesso al credito, possibilmente
anche a condizioni economiche più vantaggiose. Affinché le informazioni contenute presso la
banca dati possano assurgere a “biglietto da visita”, è necessario che ciascuna impresa svolga
costantemente un attento monitoraggio circa le risultanze della banca dati, verificando con
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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO
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cadenza periodica che i fatti in essa registrati siano sempre corretti, e l’assenza di eventuali
inesattezze. Allargando, poi, il discorso verso una dimensione meno soggettiva, abbiamo che
la condivisione delle informazioni sugli affidamenti e sul rischio di credito tra le banche e gli
intermediari finanziari consente al sistema creditizio di migliorare i livelli di concorrenza,
efficienza e stabilità, determinando, altresì, l’impiego di una maggiore razionalità nelle scelte di
finanziamento, così da limitare il più possibile il ricorso all’indebitamento da parte dei privati ed,
in ogni caso, garantire la completezza delle informazioni rispetto alle esposizioni di determinati
soggetti dinanzi al sistema bancario e finanziario. Occorre, infine, precisare come il sistema di
raccolta e condivisione delle informazioni inerenti il rischio di credito, svolga una funzione
decisiva dal punto di vista della vigilanza: ed infatti, l’organo di Vigilanza si trova nella
disponibilità di dati sempre aggiornati sull’indebitamento e su tutti gli affidamenti concessi dagli
intermediari italiani rispetto ai soggetti economici. In definitiva, la Centrale rappresenta sotto il
profilo della vigilanza, una preziosissima fonte di informazioni dettagliata sull’andamento del
credito nel paese, e, dunque, un fondamentale strumento di vigilanza oltre che di monitoraggio
dell’andamento dell’economia nazionale.
13. Esposizioni creditizie e sistema di monitoraggio.
Come si è detto dinanzi, al fine di garantire l’efficienza e la solidità del sistema creditizio,
quando si parla di erogazione del credito, è di fondamentale importanza che quest’ultimo
venga erogato in modo razionale, evitando una sproporzionata agevolazione di operatori sul
mercato che non sono nella reale condizione di restituire il credito.
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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO
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Diventa, dunque, necessario impedire a determinati soggetti di incrementare eccessivamente
la propria esposizione creditoria - magari attraverso l’utilizzo di diversi veicoli societari – e al
contempo rendere trasparente l’esposizione dei singoli debitori (e dei gruppi) nei confronti del
sistema bancario. È proprio rispetto a tali problematiche che è stato creata una banca dati
centralizzata chiamata a misurare le esplosioni dei soggetti affidati rispetto al sistema
creditizio. La Centrale risulta essere, pertanto, uno strumento di fondamentale importanza, sia
per l’efficace gestione del credito a livello del singolo intermediario, sia a tutela di esigenze di
stabilità dell’intero sistema finanziario (cd. esigenze sistemiche): la concessione, infatti, di
credito con eccessiva facilità a debitori che si dovessero rivelare incapaci di ripagare i prestiti
ottenuti, potrebbe indirettamente determinare un accumulo di rischio con conseguenti
implicazioni sistemiche sull’intero sistema finanziario. Orbene, il legislatore italiano - a
differenza di quanto accaduto negli Stati Uniti – si è mostrato, sin dall’inizio, consapevole del
possibile ruolo da assegnare alla Centrale, sia quale strumento di gestione di rischi, sia in
funzione di aiuto prezioso per le attività di vigilanza; non a caso il servizio è stato istituito
proprio per dare alle banche ma anche alla vigilanza, uno strumento che risultasse il più
possibile coerente con l’obiettivo – ex art. 53 TUB, di contenimento del rischio. La Centrale
Rischi, ad ogni modo, pur rappresentando nel nostro Paese lo strumento informativo più
completo a disposizione degli intermediari bancari e finanziari, non costituisce certamente
l’unico database per la raccolta dei dati relativi alle esposizioni creditizie: ed infatti, possono
svilupparsi servizi specifici di natura privata che, in competizione con lo strumento pubblico,
mirano ad offrire un servizio migliore rispetto a ciò che si ottiene dal servizio pubblico. In Italia
sono sorti diversi database privati (detti anche “S.I.C.” o centrali rischi private), che si trovano a
convivere con la Centrale e offrono servizi informativi diversificati e non coincidenti con quelli
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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO
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forniti dalla Centrale stessa.
Essi sono disciplinati solo ed esclusivamente dal Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196
(Codice in materia di protezione dei dati personali), oltre che dal Codice di deontologia e di
buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di crediti al consumo,
affidabilità e puntualità nei pagamenti: naturalmente, stante la delicatezza della materia, legata
anche agli effetti che le risultanze di questi database possono produrre rispetto all’accesso al
credito da parte dei soggetti privati, il legislatore, nell’ambito della citata normativa sulla
Privacy, ha obbligato tali database privati a dotarsi di un codice deontologico di autodisciplina
cui debbono attenersi nello svolgimento delle loro funzioni.
L’impiego dei codici di deontologia e autodisciplina, rappresenta certamente un primo tentativo
del legislatore di incentivare l’uso di forme di autodisciplina degli operatori di settore, con un
suo diretto intervento in tutti quei casi in cui un sistema mostra di essere incapace di darsi
regole certe e precise. Nel caso della Centrale, vi è, poi, una prevalenza dell’elemento
pubblicistico, necessario per la gestione del rischio nel sistema creditizio. Questa prevalenza
dell’elemento pubblicistico deriva anche dal fatto che la Centrale è lo strumento che consente
all’Autorità di Vigilanza l’acquisizione diretta di tutti i dati relativi all’esercizio del credito, al
monitoraggio degli affidamenti: di conseguenza, i soggetti vigilati sono obbligati a contribuire
alle informazioni sui fidi e sulla clientela, senza alcuna discrezionalità al riguardo.
Se è vero quanto detto circa l’elemento pubblicistico della Centrale, è altrettanto vero che
queste funzioni pubblicistiche convivono con funzioni anche privatistiche. Le informazioni
raccolte, infatti, possono avere un diverso grado di dettaglio, così come le richieste di
informazione possono riguardare anche soggetti non attualmente segnalati.
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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO
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E se da un lato gli intermediari devono contribuire con i loro dati alla formazione del database
della Centrale, non hanno tuttavia l’obbligo di interrogare il database prima dell’erogazione del
credito: questo dipende anche dalla circostanza che le informazioni presenti nel database sono
soggette a continui e periodici aggiornamenti, e, dunque, i dati della Centrale non sono
esaustivi e non possono da soli essere sufficienti nella gestione di un’istruttoria creditizia.
Di qui la necessità per gli intermediari di fare ricorso ai dati maggiormente dettagliati presenti
nei database dei S.I.C., da leggere in aggiunta ai dati forniti dalla Centrale ovvero richiedere
che sia il cliente stesso a fornire i dati che la Centrale può rilasciare, contenenti non solo le
esposizioni aggregate, bensì anche le singole esposizioni segnalate verso i vari intermediari.
Come precisato dinanzi, l’aspetto pubblicistico che caratterizza il servizio offerto dalla Centrale,
pur non potendo prescindere dall’ulteriore esigenza di tutela della privacy dei soggetti privati i
cui dati vengono raccolti nell’archivio della Centrale, tuttavia necessita di un contemperamento
con l’ulteriore esigenza volta a garantire la stabilità e il corretto funzionamento del sistema
bancario e finanziario, che rappresentano un bene collettivo di rango superiore rispetto alla
tutela della privacy del singolo soggetto. Queste le ragioni, dunque, che determinano
l’applicazione dell’art. 8, co. 2, lettera d) del Codice della Privacy al database gestito dalla
Centrale: l’articolo in questione dichiara inapplicabili ai database gestiti da un soggetto
pubblico i diritti sanciti dal Codice stesso in materia di database privatistici. È la Banca d’Italia,
poi, che ha predisposto una serie di fogli informativi in cui vengono indicate nel dettaglio
tipologia, modalità e finalità del trattamento sui dati personali e sono, inoltre, disciplinati
specificamente i casi in cui è consentito agli intermediari interrogare la Centrale e come
debbano essere trattate le informazioni che la Centrale trasmette.
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RIFORMA DELLE CENTRALI DEI RISCHI E PARTECIPAZIONE AL SISTEMA
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I dati della Centrale sono, comunque, consultabili dagli intermediari, solo relativamente a
periodi temporali precisi - ultimi 24 o 36 mesi – e diversi a seconda della tipologia di
informazioni richieste.
14. Riforma delle Centrali dei Rischi e partecipazione al sistema.
Nel corso di questi anni sono stati apportati numerosi aggiornamenti alla banca dati della
Centrale, che di fatto hanno semplificato le informazioni raccolte, i formati software supportati,
e così via. Il tutto al fine di migliorare l’accessibilità e l’attendibilità delle informazioni raccolte
dalla Centrale. Nel 2010, accanto alle modifiche relative alla parte software, sono state
apportate anche molteplici modifiche alla disciplina della Centrale mediante, ad esempio
l’introduzione dell’obbligo di informare il cliente segnalato a sofferenza, nonché l’obbligo per gli
intermediari di informare sempre il cliente delle risultanze della Centrale Rischi; nel 2011 si è
proceduto poi ad estendere l’obbligo d’informativa anche ai debitori coobbligati, e sono stati
introdotti come dati negativi sulle varie posizioni debitorie, anche le informazioni sulle
ristrutturazioni di debiti e sugli inadempimenti preesistenti (ad es. crediti scaduti,
sconfinamenti). Come detto in più occasioni, la partecipazione al sistema di rilevazione e
segnalazione dei rischi è obbligatoria per le banche e per gli intermediari finanziari di cui all’art.
106 e ss. TUB, i quali esercitino in via esclusiva o prevalente – per attività prevalente va intesa
l’attività che rappresenta oltre il 50% degli elementi dell’attivo - l’attività di finanziamento sotto
qualsiasi forma, comprensiva dei beni concessi in locazione finanziaria.
Nell’ambito del sistema, la segnalazione pertanto è un atto obbligatorio per l’intermediario, che
è tenuto a fornire con cadenza mensile tutte le informazioni inerenti i rapporti di credito e di
garanzia che il sistema creditizio intrattiene con la propria clientela.
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SISTEMA DI RACCOLTA DELLE INFORMAZIONI E TUTELA DELLA PRIVACY
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I soggetti iscritti nel sistema centralizzato hanno naturalmente il diritto di visionare tutte le
informazioni in esso contenute, facendone espressamente richiesta all’Autorità di Vigilanza.
Gli intermediari sono, inoltre, tenuti a fornire all’interessato, qualora ne faccia richiesta, le
informazioni relative alla sua posizione di rischio; l’obbligo di fornire tale informativa scatta,
inoltre, ex articolo 125 TUB, in quelle ipotesi in cui il cliente sia un consumatore la cui domanda
di credito sia stata eventualmente rifiutata a causa delle risultanze della Centrale Rischi: in tali
casi, dunque, la banca non è tenuta – o quanto meno dovrebbe essere tenuta - a dover
informare automaticamente il cliente, mediante consegna di copia delle risultanza della
Centrale, senza aspettare una espressa richiesta dell’interessato.
15. Sistema di raccolta delle informazioni e tutela della privacy.
Orbene, alla luce delle considerazioni sin qui svolte, si comprende come la disciplina delle
informazioni contenute e raccolte nella Centrale Rischi, non può prescindere dalla tutela dei
soggetti a cui le informazioni raccolte fanno riferimento, e dalla normativa collegata in materia
di protezione dei dati personali. Stesso discorso vale anche per i sistemi di informativi, il cui
evolversi in virtù di molteplici interventi normativi, non può non essere contemperato con
l’esigenza di protezione dei soggetti i cui dati personali sono oggetto di raccolta e diffusione; e
questa protezione deve esserci anche quando i dati raccolti riguardino informazioni di natura
patrimoniale ed economica, che all’atto della loro immissione nel sistema informativo della
Centrale, acquisiscono il carattere di “dati personali”. In quanto tali i dati contenuti e distribuiti
dalla Centrale dei Rischi, sono dati coperti da riservatezza nei confronti di qualsiasi persona
estranea all’amministrazione dei rischi: da ciò discende il conseguente obbligo di rispettare tutti
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SISTEMA DI RACCOLTA DELLE INFORMAZIONI E TUTELA DELLA PRIVACY
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gli obblighi previsti dalle disposizioni del D.lgs. n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di
protezione dei dati personali).
Tuttavia, il testo della normativa permette di cogliere l’esonero per gli intermediari dall’obbligo
di acquisire il consenso esplicito degli interessati prima dell’invio dei dati alla Centrale dei
Rischi: è proprio l’art. 24, comma 1, lett. a) del Codice che consente, infatti, ai privati e agli enti
pubblici economici di prescindere dal consenso dell’interessato per la comunicazione a terzi di
dati personali quando il trattamento è necessario per adempiere ad un obbligo previsto dalla
legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria. Per completezza di informazione
occorre, comunque, precisare che quasi tutte le norme del TUB che si occupano della raccolta
e del trattamento delle informazioni personali, hanno tutte carattere generale, mancando
un’imposizione specifica riguardo la trasmissione e la raccolta dei dati personali alla Centrale.
Quest’ultima, infatti, opera sulla base di una delibera del CICR, adottata su proposta
dell’Autorità di Vigilanza, che ha istituito il sistema di raccolta e trattamento dei dati personali,
creando, in tal modo, un sistema di centralizzazione dei rischi che consenta alle banche una
gestione più efficiente e consapevole degli affidamenti ed accresca al contempo la stabilità del
sistema bancario. Ritornando al discorso della protezione dei dati personali contenuti nel
Codice, va precisato che anche la Banca d’Italia, quale ente pubblico non economico, può
prescindere dal consenso degli interessati nell’effettuare il trattamento: è lo stesso art. 23,
comma 1, del Codice, a prevedere che l’obbligo di acquisire il preventivo consenso scritto da
parte del titolare dei dati personali, sia applicabile solo ai privati e agli enti pubblici economici.
Da qui la conseguente esenzione per l’attività di trattamento svolta da Banca d’Italia, nella sua
qualità di depositaria del sistema di raccolta e di elaborazione delle informazioni contenute nel
database della Centrale, dall’obbligo di richiedere il consenso al titolare.
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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE
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In definitiva anche alla Banca d’Italia andranno ad applicarsi le disposizioni e le regole generali
previste per i titolari di trattamento, contenute negli artt. 18-22 del Codice della Privacy.
In ultimo, si ritine che possa essere applicata alla disciplina della Centrale la previsione
normativa contenuta nell’art. 119 del Codice per la tutela dei dati personali. L’articolo prevede
che con il codice di deontologia e di buona condotta di cui all'articolo 118 sono altresì
individuati termini armonizzati di conservazione dei dati personali contenuti, in particolare, in
banche di dati, registri ed elenchi tenuti da soggetti pubblici e privati, riferiti al comportamento
debitorio dell'interessato nei casi diversi da quelli disciplinati nel codice di cui all'articolo 117,
tenendo conto della specificità dei trattamenti nei diversi ambiti. Il riferimento esplicito ai
soggetti pubblici permette, dunque, di ritenere applicabile il Codice di Deontologia e di buona
condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in materia di crediti al consumo,
affidabilità e puntualità nei pagamenti, anche alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia,
nonché all’Archivio Informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento e
al Registro dei Protesti.
16. Danni da errata segnalazione delle informazioni su posizioni creditorie.
Nella sua attività di rilevazione delle informazioni sull’ammontare degli affidamenti concessi ai
clienti, la Centrale dei Rischi ha il compito di raccogliere in maniera continuativa ogni
cambiamento che possa verificarsi nella situazione debitoria della clientela, così da tracciare il
passaggio dei crediti ‘a sofferenza’ e fissare un piano per la loro ristrutturazione. A loro volta,
agli intermediari spetta il compito di segnalare in modo sollecito, una volta che gli organi
aziendali hanno accertato lo stato di sofferenza del cliente o approvato la ristrutturazione del
credito, eventuali modifiche di status.
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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE
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A riguardo le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia precisano che l’intermediario, ai fini
della valutazione della complessiva situazione finanziaria del cliente, non può fare riferimento
ad un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento di un debito: affinché il cambiamento di
status di un’esposizione la si possa registrare come ‘a sofferenza’, occorre una valutazione
complessiva della situazione, non un’analisi basata su di un singolo episodio; non può la
contestazione del credito essere di per sé condizione sufficiente per considerare in sofferenza
un determinato soggetto. Un’ulteriore punto delle Istruzioni di Vigilanza prevede, inoltre, che in
caso di rapporti cointestati, affinché si abbia una segnalazione in sofferenza tutti i cointestatari
devono versare in stato di insolvenza.
La segnalazione di una posizione di rischio tra le sofferenze non sarà più dovuta e andrà,
pertanto, in tutta una serie di circostanze:
- cessazione dello stato di insolvenza;
- rimborso del credito da parte del debitore o di terzi, anche a seguito di accordo transattivo
liberatorio, di concordato preventivo o di concordato fallimentare;
- cessione del credito a soggetti terzi;
- delibera degli organi competenti di irrecuperabilità dell’intero credito ovvero rinuncia ad
avviare o proseguire gli atti di recupero;
- prescrizione del credito.
Da quanto precede è possibile trarne la considerazione che, ai fini della segnalazione alla
Centrale dei Rischi di un credito ‘a sofferenza’ non sono sufficienti le risultanze dell’analisi dei
singoli rapporti in corso di svolgimento tra la banca segnalante ed il cliente, ma occorre una
valutazione della complessiva situazione patrimoniale di quest’ultimo.
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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE
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La condizione d’insolvenza, cui le Istruzioni di Vigilanza fanno riferimento, per costituire il
presupposto di una segnalazione, è da intendersi certamente in un’accezione meno rigida
rispetto a quella di insolvenza fallimentare, sebbene deve trattarsi di una situazione di grave
difficoltà economica – e non transitoria - in cui viene a trovarsi il patrimonio complessivo del
debitore. Orbene, è proprio rispetto al concetto di ‘sofferenza’ che più si è soffermata
l’attenzione di dottrina e giurisprudenza, soprattutto per le conseguenze gravi che
l’appostazione a sofferenza comporta per il soggetto segnalato. E infatti, la segnalazione di un
credito come “sofferenza” rappresenta per gli altri partecipanti al sistema informativo un
campanello d’allarme e per il soggetto segnalato rappresenta, invece, l’impossibilità ad
accedere al credito oltre al discredito che si genera nel sistema bancario stesso. Se è vero che
la segnalazione al sistema non vincola i partecipanti nella loro scelta di concedere nuovi
affidamenti, l’esperienza conferma esattamente il contrario, ossia che, di fronte alla
segnalazione di “sofferenza”, le banche siano più propense a negare l’accesso al credito al
soggetto segnalato. Questo atteggiamento di diffidenza ed il rifiuto di erogare il credito, qualora
indebitamente posto in essere dalla banca o dall’intermediario, va ad innescare una vera e
propria crisi di liquidità per il soggetto segnalato, con tutte le conseguenze e le ripercussioni
che naturalmente una tale crisi può comportare nell’attività posta in essere dal richiedente il
credito. Appare, dunque, alla luce di tali premesse, fondamentale l’esatta attribuzione del
significato da attribuire al termine “sofferenza” e l’individuazione di quelle circostanze che
determinano lo stato d’insolvenza, rappresentando il presupposto della segnalazione.
Un orientamento dottrinario minoritario, partendo dalla disciplina della Banca d’Italia che
prevede il venir meno dell’obbligo d’informazione da parte dei partecipanti al sistema
centralizzato di rischio in caso di rimborso o cessione del credito, ha ritenuto che la
segnalazione medesima non implica da parte della banca o dell’intermediario, o almeno non
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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE
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necessariamente, una valutazione complessiva della condizione economico-finanziaria del
cliente o della consistenza del suo patrimonio complessivamente considerato: di questo vi
sarebbe conferma nella eccessiva gravosità per l’intermediario di svolgere un’analisi globale
delle condizioni economiche e finanziarie del cliente.
A differenti conclusioni giungono, invece, come si è anticipato, la dottrina e la giurisprudenza
maggioritarie: quest’ultime sono, infatti, orientate nel senso di ritenere che il giudizio in ordine
alla “sofferenza” deve risultare da un esame ben più ampio, tale da riguardare la complessiva
situazione economico-finanziaria del soggetto affidato. Questo l’orientamento cui ha aderito
anche la Suprema Corte in alcune sue recenti decisioni. In linea con questo orientamento, non
potrà ritenersi corretta una segnalazione fondata soltanto sul presupposto dell’inadempimento
o del mero ritardo nel pagamento del credito; sarà, piuttosto, necessario, ai fini del giudizio
sulla legittimità della segnalazione, un esame approfondito non solo del singolo rapporto di
credito intrattenuto con l’istituto di credito, bensì una valutazione dettagliata dell’intera
situazione economica e patrimoniale del debitore che deve essere tenuta nella debita
considerazione. Sul punto è intervenuta esplicitamente la Corte di Cassazione, che ha
statuito come, per valutare la legittimità dell’iscrizione di un debitore e di un debito ‘a
sofferenza’ nella Centrale dei Rischi, occorra valutare se ci si trovi di fronte a soggetti in stato
di insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili.
La Cassazione ha identificato le situazioni equiparabili all’insolvenza come quelle che
comportano una situazione di grave e reiterata difficoltà economica del debitore, escludendosi
che i semplici ritardi nell’adempimento, intesi come meri indizi, possano considerarsi sufficienti
a determinare l’iscrizione della “sofferenza” presso la Centrale dei Rischi. È evidente, dunque,
in assenza di disposizioni che esplicitano i presupposti della segnalazione “a sofferenza”, e
considerati i gravi pregiudizi che la segnalazione può causare al soggetto segnalato, che alle
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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE
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banche e agli intermediari finanziari spetta il compito di valutare attentamente e con scrupolo
tutti i dati a disposizione prima di effettuare la comunicazione alla Centrale dei Rischi. Si
richiede, in sostanza, alla banca, nello svolgimento di un giudizio prognostico, di usare il
massimo rigore nella selezione e nell’apprezzamento dei dati, secondo criteri di
ragionevolezza, trasparenza, linearità e univocità. Si è detto dinanzi che l’importanza di un
giudizio prognostico attento e rigoroso si fonda sulle conseguenze in termini di danni rilevanti
che un errore di comunicazione alla Centrale può causare. Ed infatti la lesione alla sfera
giuridica del debitore, arrecata per effetto dell’illegittima segnalazione, può essere di notevole
gravità, dal momento che comporta la possibile esclusione del segnalato dal credito bancario o
comunque la difficoltà, che in molti casi diventa vera e propria impossibilità, di accedervi.
Pertanto, la responsabilità dell’intermediario finanziario e della banca finisce per assumere i
tratti sia di una responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sia di responsabilità
contrattuale per violazione delle norme di comportamento della banca o intermediario
finanziario nei confronti del cliente, determinandosi, in tal caso, un danno che legittima le
pretese risarcitorie del cliente. In un sistema come quello della Centrale, che fornisce a tutti i
partecipanti la possibilità di valutare i rischi dell’affidamento richiesto, l’eventuale segnalazione
di una posizione a sofferenza, con connessa rilevante difficoltà di andare a verificare le
effettive cause, comporta un danno immediato alla reputazione del cliente con effetto a catena
di mancati affidamenti o, peggio, la revoca immediata dei prestiti già concessi.
Sulle problematiche inerenti i danni non patrimoniali è intervenuta anche la Cassazione con
una recente sentenza (Cass. 12626/2010), la quale ha statuito che “l'illegittima segnalazione,
in quanto lesiva della reputazione e dell'immagine, nonché idonea ad ingenerare una
presunzione di scarsa affidabilità, costituisce già di per sé comportamento pregiudizievole per
l'attività economica di un’impresa”.
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Diversamente da quanto accade per i danni lesivi della reputazione, il danno patrimoniale nei
casi di errata segnalazione alla Centrale dei Rischi è invece assai difficile da far valere, a
causa delle complessità all’onere probatorio: le banche, infatti, generalmente non rilasciano
alcuna attestazione di diniego dell’affidamento e dunque diventa assai difficile stabilire il nesso
di causalità tra la segnalazione ‘a sofferenza’, la chiusura di altre linee di credito e la revoca di
finanziamenti concessi da parte di altri operatori finanziari.
A fronte, quindi, della difficoltà per l’imprenditore di offrire la prova del nesso eziologico tra la
revoca dei fidi esistenti e la segnalazione a sofferenza, è intervenuto il TUB che all’art. 125,
recentemente modificato, ha posto l’obbligo in capo alla banca di informare il consumatore del
risultato della consultazione della banca dati quando il prestito venga negato proprio a causa
delle informazioni in esso presenti. Accanto all’art. 125, esistono, ad ogni modo, altre norme
che obbligano la banca o l’intermediario finanziario ad informare il cliente delle ragioni che
hanno determinato la mancata erogazione del finanziamento: si pensi ad es. alle disposizioni
attuative del TUB emanate dalla Banca d’Italia - , e precisamente alla Comunicazione di
Banca d’Italia del 22.10.2007 e al Provvedimento della Banca d’Italia del 29.7.2009
(“Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”). In particolare, nella
Comunicazione del 2007 in merito alle conseguenze della mancata concessione di un
finanziamento si afferma che “laddove si decida di non accettare una richiesta di
finanziamento, è necessario che l’intermediario fornisca riscontro con sollecitudine al cliente;
nell’occasione, anche al fine di salvaguardare la relazione con il cliente, andrà verificata la
possibilità di fornire indicazioni generali sulle valutazioni che hanno indotto a non accogliere la
richiesta di credito”. Viene, dunque, confermato il principio di cui si è fatta menzione in
precedenza in base al quale, ai fini dell'apposizione a ‘sofferenza’ di un credito, l'intermediario
sia tenuto a svolgere un'indagine complessiva, non potendo limitarsi a prendere atto del mero
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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE
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inadempimento del debitore ovvero della volontà espressa dal debitore di non voler adempiere.
A riguardo si è anche detto che la stessa giurisprudenza di legittimità è tornata più volte a
chiarire la nozione di insolvenza, attribuendole una portata decisamente più ampia rispetto al
concetto di insolvenza di cui all’art. 5 l.fall.: in una accezione più ampia, dunque, per dichiarare
un soggetto insolvente occorrerà fare riferimento ad una valutazione complessivamente
negativa sulla situazione patrimoniale dell’azienda, caratterizzata da una grave e non
transitoria difficoltà economica, senza fare riferimento ad una situazione di incapienza o di
definitiva irrecuperabilità.
di Carmine Ruggiero
(21/10/2014)
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RIAPERTI I TERMINI PER LA RIVALUTAZIONE DI TERRENI E PARTECIPAZIONI?
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L’art. 44 del disegno di legge di stabilità 2015 ripropone le agevolazioni fiscali derivanti dalla
possibilità di rivalutare il costo o il valore di acquisto di terreni edificabili e con destinazione
agricola e partecipazioni societarie (qualificate e non qualificate) non quotate nei mercati
regolamentati, posseduti alla data del 1° gennaio 2015.
La rivalutazione dovrà essere perfezionata entro il 30 giugno 2015 con la presentazione della
perizia giurata di stima (redatta e asseverata da un professionista abilitato) ed il versamento
dell’imposta sostitutiva (del 2% sulle partecipazioni non qualificate e del 4% su quelle
qualificate e sui terreni), in unica soluzione o come prima rata di tre rate annuali (sull’importo
delle rate successive alla prima si applicano gli interessi nella misura del 3% annuo).
Nella valutazione della convenienza di tale regime è necessario confrontare l’imposta
sostitutiva con la nuova tassazione al 26% per i capital gain sulle partecipazioni non qualificate
e l’imposizione Irpef per il 49,72% per le partecipazioni qualificate.
Per i soggetti (persone fisiche, società semplici, enti non commerciali e soggetti non residenti
privi di stabile organizzazione in Italia) che si avvalgono nuovamente di tale agevolazione è
possibile:
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RIAPERTI I TERMINI PER LA RIVALUTAZIONE DI TERRENI E PARTECIPAZIONI?
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- detrarre dall’imposta sostitutiva dovuta sulla rivalutazione l’imposta già versata su precedenti
rivalutazioni degli stessi beni;
- oppure procedere alla richiesta di rimborso dei versamenti effettuati tramite l’istanza di
rimborso disciplinata dall’articolo 38 del Dpr 602/73.
di Anna Sottana
(20/10/2014)
Nel 2009 consegue a pieni voti la Laurea Specialistica in Economia e Diritto presso l’Università
degli Studi di Padova con tesi in Private Equity. Nello stesso anno inizia la sua esperienza
professionale in qualità di Assistant Controller prima in ITT Group e poi in ABB S.p.A. Sace
Division. Dopo aver collaborato all’implementazione di Modelli organizzativi ex D.Lgs 231/01,
svolge il tirocinio professionale presso un affermato Studio di commercialisti di Vicenza,
occupandosi di consulenza societaria, contrattuale e fiscalità internazionale. Nel 2012 diventa
mediatrice professionista in materia civile e commerciale e successivamente consegue
l’abilitazione all’esercizio della professione di Dottore Commercialista e Revisore Legale dei
Conti; nel 2013 entra in Xylem Inc. all’interno della struttura Finance come Financial Planning
and Analysis Analyst.
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LA NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO: QUAL È IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA?
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Prima di trattare il tema del ruolo che la normativa antiriciclaggio assegna alle diverse categorie
professionali è opportuno definire e chiarire il concetto di “riciclaggio”. Viene integrata una
condotta di riciclaggio quando un soggetto diverso da colui il quale ha commesso un delitto non
colposo che ha generato denaro, beni o altre utilità, sostituisce o trasferisce tale provento
oppure compie operazioni atte ad ostacolarne l’identificazione della provenienza delittuosa. Da
questa definizione emergono, pertanto, due caratteristiche di fondo:
1) il soggetto che ricicla è diverso dal soggetto che ha commesso un delitto di natura
patrimoniale (ad esempio, Caio commette una rapina e consegna i soldi a Tizio che li
immette nella società Beta s.r.l. mediante un finanziamento dei soci);
2) il soggetto che ricicla sostituisce o trasferisce il provento del reato oppure ne camuffa la
provenienza compiendo determinate operazioni (ad esempio, Tizio va in banca, deposita il
denaro contante provento della rapina e richiede l’emissione di assegni circolari).
Come è noto, la criminalità organizzata ha la necessità di immettere la maggior parte dei
capitali derivanti da attività criminosa – c.d. “sporchi” – in canali leciti attraverso i quali vengono
sottoposti a “ripulitura”, motivo per cui è sorta la necessità di emanare normative dirette a
contrastare un fenomeno che modifica ed “inquina” i normali meccanismi di accumulo dei beni e
di approvvigionamento delle fonti di finanziamento danneggiando ed indebolendo l’intero
apparato produttivo legale. Considerata la dimensione “globale” delle pratiche di riciclaggio e,
più di recente, di finanziamento del terrorismo, le esigenze di prevenzione e contrasto delle
stesse hanno avviato un significativo processo di armonizzazione internazionale della disciplina
di riferimento, indispensabile in un mercato sempre più aperto e concorrenziale.
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LA NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO: QUAL È IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA?
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In ambito comunitario, la principale normativa di riferimento in materia di prevenzione e
contrasto del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo è costituita da:
– direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26/10/2005, relativa alla
prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività
criminose e di finanziamento del terrorismo (III direttiva Antiriciclaggio);
– direttiva 2006/70/CE della Commissione del 1/8/2006, recante misure di esecuzione della
direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo.
A livello nazionale la principale normativa di riferimento è rappresentata da:
– d.lgs. 22/6/2007, n. 109 e successive modifiche ed integrazioni, recante misure per prevenire,
contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo internazionale, che ha conferito
maggiore sistematicità agli obblighi degli intermediari di comunicazione di beni e risorse
congelate e di segnalazione di operazioni sospette;
– d.lgs. 21/11/2007, n. 231 e successive modifiche, ed integrazioni, recante l’attuazione della
direttiva 2005/60/CE, che ha riordinato l’intera normativa di prevenzione del riciclaggio di
denaro ed ha attribuito alla Banca d’Italia poteri regolamentari, di controllo e sanzionatori nei
confronti dei soggetti vigilati. In particolare, la Banca d’Italia è chiamata ad emanare
disposizioni in tema di adeguata verifica della clientela, di registrazione dei relativi dati e di
organizzazione, procedure e controlli interni finalizzati all’assolvimento degli obblighi
antiriciclaggio.
Ad oggi, la Banca d’Italia, in esercizio delle deleghe ricevute, ha emanato le Disposizioni
attuative per la tenuta dell’Archivio Unico Informatico (AUI) e per le modalità semplificate di
registrazione, entrate in vigore nel giugno 2010, il provvedimento recante gli indicatori di
anomalie per gli intermediari al fine di agevolare l’individuazione di operazioni sospette e le
Disposizioni attuative in materia di organizzazione, procedure e controlli interni antiriciclaggio,
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LA NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO: QUAL È IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA?
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entrata in vigore nel settembre 2011.
I principali elementi che caratterizzano il contesto normativo descritto riguardano:
– gli obblighi di adeguata verifica della clientela, con indicazione del “quando” (ad esempio,
instaurazione di un rapporto continuativo, esecuzione di un’operazione occasionale di importo
superiore alle soglie stabilite per legge, ecc.) e del “come” (es. modalità di identificazione del
cliente, del titolare effettivo, di scopo e natura delle transazioni, ecc.) adempiere a tali obblighi;
– l’approccio basato sul rischio, per cui gli obblighi di adeguata verifica della clientela si
articolano in differenti gradi di due diligence commisurati al profilo di rischio del cliente (ad
esempio, obblighi semplificati per intermediari finanziari e uffici della Pubblica Amministrazione
ed obblighi rafforzati per clienti non fisicamente presenti all’instaurazione del rapporto, per
soggetti politicamente esposti – c.d. PEP – per enti corrispondenti extracomunitari, per clientela
con profilo di rischio riciclaggio alto, e così via);
– l’obbligo di astensione dall’apertura di un nuovo rapporto, dall’esecuzione di un’operazione
occasionale o dal mantenimento di un rapporto in essere nel caso non sia possibile adempiere
correttamente agli obblighi di adeguata verifica o sussista il sospetto che vi sia una relazione
con il riciclaggio di denaro o con il finanziamento del terrorismo;
– l’obbligo di registrazione nell’AUI delle transazioni e delle operazioni poste in essere dalla
clientela;
– l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette;
– le limitazioni stabilite per l’utilizzo del contante e dei titoli al portatore (oltre che degli assegni
bancari e postali, assegni circolari, vaglia postali e cambiari, ecc.);
– il monitoraggio di tutte le transazioni realizzate con Paesi che minacciano la pace e la
sicurezza internazionale (Paesi inseriti nelle Sanction List);
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– l’adozione di adeguate misure di formazione del personale per garantire il corretto
recepimento delle disposizioni normative e la loro corretta applicazione;
– l’estensione agli organi di controllo e all’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. n. 231/2001
degli obblighi di comunicazione delle eventuali infrazioni di cui vengano a conoscenza
nell’esercizio dei propri compiti.
La normativa di riferimento richiede inoltre che, ai fini di un corretto adempimento dei suddetti
obblighi e di un efficace governo dei rischi di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, siano
chiaramente individuate funzioni organizzative, risorse e procedure coerenti e proporzionate
alla tipologia dell’attività svolta, alle dimensioni, alla complessità organizzativa ed alle
caratteristiche operative dei destinatari. In tale ambito è, in particolare, prevista l’istituzione di
un’apposita funzione deputata a prevenire e contrastare la realizzazione di operazioni di
riciclaggio e di finanziamento del terrorismo (Funzione antiriciclaggio), con la nomina del
relativo Responsabile. È inoltre richiesto di formalizzare l’attribuzione della responsabilità per la
segnalazione delle operazioni sospette.
Le misure da articolare secondo il suddetto principio di proporzionalità sono le seguenti:
– la chiara definizione, ai diversi livelli, di ruoli, compiti e responsabilità nonché la
predisposizione di procedure intese a garantire l’osservanza degli obblighi di adeguata verifica
della clientela e di segnalazione delle operazioni sospette e, inoltre, la conservazione della
documentazione e delle evidenze dei rapporti e delle operazioni;
– un’architettura delle funzioni di controllo che sia coordinata nelle sue componenti, anche
attraverso idonei flussi informativi, e che sia al contempo coerente con l’articolazione della
struttura, la complessità, la dimensione aziendale, la tipologia dei servizi e prodotti offerti
nonché con l’entità del rischio associabile alle caratteristiche della clientela;
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– un’attività di controllo che abbia come oggetto il rispetto da parte del personale e dei
collaboratori dei processi interni e di tutti gli obblighi normativi, con particolare riguardo alla
collaborazione attiva e alla continuativa analisi dell’operatività della clientela;
– la responsabilizzazione del personale dipendente e dei collaboratori esterni.
Venendo, a questo punto, all’aspetto di maggiore interesse in questa sede, va detto, anzitutto,
che i professionisti obbligati dalla normativa antiriciclaggio sono:
a) Dottori commercialisti ed Esperti contabili, Consulenti del lavoro, Notai e Avvocati, Revisori
contabili;
b) ogni altro soggetto che rende i servizi forniti da periti, consulenti e altri soggetti che svolgono
in maniera professionale, anche nei confronti dei propri associati e iscritti, attività in materia di
contabilità e tributi, ivi compresi associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e
patronati;
c) prestatori di servizi relativi a società e a trust;
È bene precisare che, ai sensi dell’art. 12, lett. c) del d.lgs. n. 231/2007, avvocati e notai sono
“catturati” dalla normativa antiriciclaggio solo in determinati casi, ossia:
a) quando, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura
finanziaria o immobiliare;
b) quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni
riguardanti: 1) il trasferimento a qualsiasi titolo di beni immobili o attività economiche; 2) la
gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni; 3) l’apertura o la gestione di conti bancari,
libretti di deposito e conti di titoli; 4) l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione,
alla gestione o all’amministrazione di società; 5) la costituzione, la gestione o l’amministrazione
di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi.
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Come accennato, la prevenzione del riciclaggio ha un ruolo strategico per l’azione di
repressione dei fenomeni criminali ed è basata su determinati e specifici obblighi. A mio
sommesso avviso, si tratta, in pratica, di affidare ai professionisti una funzione di natura
pubblicistica, di supplenza alle autorità di controllo e alle forze che si dedicano alla repressione
del crimine. Tali obblighi si sostanziano in:
- adeguata verifica della clientela:
- registrazione delle informazioni (AUI o registro cartaceo);
- conservazione dei documenti (fascicolo del cliente);
- segnalazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo;
- formazione del personale;
- comunicazione al Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) delle violazioni delle
limitazioni dell’uso del contante e dei titoli al portatore.
Personalmente ritengo che molti professionisti stanno per diventare una sorta di “007”, veri e
propri “agenti segreti” chiamati ad investigare sulle operazioni compiute dai loro clienti e a
darne comunicazione in caso di “operazioni sospette” dell’uso del sistema finanziario per finalità
di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.
Tutto questo percorso è stato puntualmente e attentamente seguito dagli Ordini delle
professioni interessate che, attraverso un approfondito esame di ogni documento, hanno
individuato sia i lati positivi che quelli negativi, cercando di volta in volta di proporre correttivi
essenzialmente con un duplice scopo: da un lato, di raggiungere le finalità cui le norme tendono
e, dall’altro, di consentire ai professionisti di continuare ad esercitare la propria attività senza
eccessivi impedimenti, anche se, come vedremo in seguito, permangono inevitabilmente delle
“zone d’ombra”.
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Le funzioni dei professionisti oggi sono quanto mai varie e differenziate, ma il loro ruolo viene
talora messo in discussione dalle evoluzioni normative e della prassi, nonché del costume
e del modo di sentire della società. Alcune recenti sentenze della Cassazione, difatti, hanno
alimentato un dibattito sulle responsabilità del professionista nella consulenza, specie
aziendale, poiché lo collegano in automatico alla correità con le imprese clienti, infrangendo
definitivamente l’illusione della sua terzietà o estraneità rispetto alle scelte fattuali dei soggetti
che si avvalgono delle sue prestazioni professionali. Le funzioni sopra ricordate vanno svolte
correttamente (secondo competenza, etica e deontologia) e comportano responsabilità sempre
crescenti, come accennato in premessa. Sorgono però alcuni dubbi circa il ruolo dei
professionisti come elemento terzo o interposto nel rapporto tra il “cliente” e lo Stato. Dico
questo alla luce di quanto emerge dalla lettera della Proposta di IV direttiva antiriciclaggio del
Parlamento europeo e del Consiglio del 5 febbraio 2013, dove, infatti, si enfatizza ancor più
l’utilizzo del c.d. risk based approach di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 231/2007, con specifico
riferimento ai professionisti.
Altro aspetto significativo contenuto nella Proposta di direttiva concerne gli obblighi semplificati
e rafforzati di adeguata verifica della clientela. Si prevede, infatti, che gli Stati membri
richiedano ai destinatari della normativa di effettuare la verifica dell’identità del cliente e del
titolare effettivo prima che si instauri il rapporto o che sia svolta la transazione. In deroga a tale
previsione, la suddetta verifica può essere effettuata anche nel corso del rapporto o in fase di
svolgimento della transazione, ove ciò sia necessario per non comprometterne il normale
svolgimento e sempre che il rischio di riciclaggio sia minimo. Le altre modifiche previste dalla
Proposta mirano ad inasprire l’adeguata verifica semplificata, da un lato, subordinando alla
valutazione del rischio ogni decisione in merito a casi e modalità di applicazione dell’obbligo e,
dall’altro, fissando i requisiti minimi dei fattori da prendere in considerazione. In effetti, viene
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lasciata agli Stati membri la facoltà di provvedere affinché i soggetti obbligati esercitino
sull’operazione o sul rapporto un controllo sufficiente a consentire la rilevazione di operazioni
anomale o sospette. Infatti, nell’allegato II alla Proposta vi è un elenco di fattori sintomatici di
situazioni potenzialmente a basso rischio di cui gli Stati membri ed i soggetti obbligati devono
tenere conto: con riferimento alla clientela sono tali le società quotate, le amministrazioni o le
imprese pubbliche, i clienti residenti in aree geografiche a basso rischio; mentre tra i fattori
geografici a basso rischio rientrano gli altri Stati membri dell’U.E. ed i paesi terzi dotati di
efficaci sistemi di riciclaggio. A mio sommesso avviso, la Proposta incide fortemente sugli
obblighi di adeguata verifica della clientela, onde risulterebbe necessaria una maggiore
chiarezza delle norme al fine di disporre di controlli e procedure adeguate che consentano una
migliore conoscenza del cliente ed una maggiore comprensione della natura delle attività svolte
da quest’ultimo. Per quanto concerne le misure rafforzate di adeguata verifica, la Proposta
contiene una nuova e più dettagliata definizione di Persona Politicamente Esposta (PEP). Sul
punto, la novità più rilevante consiste nella parificazione delle PEP nazionali (definite
domestiche) a quelle straniere, secondo le indicazioni fornite dal GAFI. Più in dettaglio, la
Proposta disciplina separatamente gli obblighi nei confronti delle PEP straniere e di quelle
nazionali: per quelle straniere, l’art. 18 prevede la predisposizione di adeguate procedure
basate sul rischio per determinare se il cliente o il suo titolare effettivo rientrino in tale categoria,
l’ottenimento dell’autorizzazione da parte dell’alta dirigenza prima di instaurare o proseguire il
rapporto, l’adozione di misure adeguate per stabilire l’origine del patrimonio e dei fondi
impiegati, nonché il controllo continuo rafforzato. Personalmente, mi auguro che
successivamente all’emanazione della direttiva vengano chiariti aspetti che, allo stato,
presentano punti alquanto “oscuri”, basti pensare alle difficoltà applicative per l’individuazione
dei familiari diretti o di coloro con i quali le persone politicamente esposte intrattengono
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notoriamente stretti legami. L’allegato II alla Proposta contiene poi un elenco dei fattori
sintomatici di situazioni potenzialmente ad alto rischio di cui i soggetti obbligati (e naturalmente
gli Stati) devono tenere conto. Con riferimento alla clientela sono tali i rapporti d’affari condotti
in circostanze anomale, le società con azioni fiduciarie o al portatore, le attività economiche
connotate da alta intensità di contante, gli assetti proprietari anomali.
Altro punto saliente della Proposta è la definizione di Beneficial Owner (titolare effettivo) il quale
altri non è che la persona o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano il
cliente e/o la persona fisica per conto della quale è realizzata un’operazione o un’attività. In
caso di società, il titolare effettivo è la persona fisica o le persone fisiche che possiedono o
controllano, direttamente o indirettamente, una percentuale sufficiente delle partecipazioni al
capitale sociale o dei diritti di voto, individuata nel 25% più uno del capitale sociale, anche
tramite azioni al portatore, purché non si tratti di una società quotata e sottoposta a obblighi di
comunicazione conformemente alla normativa dell’Unione europea o a standard internazionali
equivalenti. Sempre per quanto riguarda il titolare effettivo, la Proposta contiene nuove norme
atte a garantire una maggiore accessibilità nonché trasparenza dei dati dello stesso. Infatti la
Proposta prescrive alle persone giuridiche di acquisire e mantenere informazioni adeguate,
accurate e aggiornate sui propri titolari effettivi, che dovrebbero essere rese disponibili alle
autorità competenti e agli enti obbligati. Lo stesso dicasi per i fiduciari dei trust espressi, che
devono ottenere e mantenere informazioni adeguate, accurate ed aggiornate sulla titolarità
effettiva del trust, che comprendono l’identità del fondatore, del fiduciario o dei fiduciari, del
guardiano, dei beneficiari e delle altre persone che esercitano il controllo effettivo sul trust.
Per quel che riguarda la conservazione dei dati, non posso che evidenziare come la direttiva
2005/60/CE non contempli alcun obbligo di registrazione, ma si limiti a prevedere l’imposizione,
nei confronti dei destinatari della disciplina, di un generico obbligo di conservazione dei
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documenti. Tale obbligo non è affatto introdotto dalla Proposta di IV direttiva, nonostante vi sia
stata, a mio avviso, una errata traduzione della rubrica del Capo V. Infatti, la Proposta di
direttiva prevede un obbligo di conservazione della copia o dei riferimenti richiesti per
l’adeguata verifica per cinque anni dalla fine del rapporto di affari con il cliente; e l’obbligo di
conservazione delle scritture e delle registrazioni inerenti ai rapporti d’affari e alle operazioni,
consistenti nei documenti originali o in copie autentiche, per cinque anni dall’esecuzione delle
operazioni o, se la scadenza è precedente, dalla cessazione del rapporto d’affari. Invece, la
normativa italiana vigente ha sensibilmente elevato tale termine di conservazione portandolo da
cinque a dieci anni, e, cosa del tutto aliena dal testo della direttiva, prevede un obbligo di
registrazione, in archivio informatico ovvero in quello cartaceo, delle prestazioni professionali
che il legislatore ritiene sia necessario monitorare ai fini della prevenzione del riciclaggio.
Ultimo punto da evidenziare è quello che prevede l’inclusione dei reati fiscali tra quelli
presupposto del reato di riciclaggio. In effetti i reati fiscali connessi alle imposte dirette ed
indirette rientrano nella definizione di attività criminosa ai sensi della Proposta di IV direttiva.
Infatti, il legislatore europeo, per attività criminosa intende il coinvolgimento criminale nella
perpetrazione di alcuni reati gravi, tra cui quelli fiscali, punibili con una pena o con una misura di
sicurezza privativa della libertà di durata massima superiore ad un anno. Personalmente,
ritengo che vi sia la necessità di distinguere gli illeciti fiscali di natura fraudolenta, e cioè quelli
che comportano un effettivo ingresso di denaro o di altri beni, da quelli che danno luogo
esclusivamente ad un risparmio di imposta.
di Carmine Ruggiero
(17/10/2014)
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO. CONFINI D’INCRIMINAZIONE E AMBITI DI TUTELA DELLA
FATTISPECIE
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1. Note introduttive
L’introduzione del reato di autoriciclaggio è tema quanto mai dibattuto nel panorama
giurisprudenziale e dottrinale. Nonostante da anni, a livello internazionale, si moltiplichino le
sollecitazioni affinché anche l’Italia si adegui, il nostro resta l’unico paese in Europa a non
prevedere come reato il reinvestimento di capitale illecitamente percepito da parte dello stesso
autore del primo illecito. La fattispecie di autoriciclaggio rappresenta la condotta tipica non solo
di chi, dopo aver compiuto autonomamente il reato presupposto, provvede a sostituire,
trasferire od occultarne i proventi per investirli e/o immetterli in attività produttive o finanziarie,
senza avvalersi dei servizi di riciclaggio prestati da un soggetto terzo “riciclatore”; ma anche il
comportamento dello stesso soggetto “riciclatore” il quale, prima di prestare i “servizi” di
riciclaggio, apporta un contributo rilevante al compimento del reato presupposto, concorrendo
quindi in quest’ultimo con l’autore principale. Quest’ultima condotta appare diffusa in fenomeni
di appropriazione di beni sociali, evasione fiscale e corruzione, per cui l’esponente o il
proprietario di un’azienda si accorda con un terzo “riciclatore” nel senso di utilizzare mezzi di
quest’ultimo, ad esempio società fittizie che emettono fatture false, per sottrarre all’azienda e a
tassazione, e in seguito riciclare, beni sociali da destinare a proprio uso personale, per finalità
corruttive o altro. Nella vigente disciplina penalistica, la fattispecie di riciclaggio non include
alcuna delle due condotte richiamate. Ai sensi dell’art. 648-bis c.p., infatti, il riciclaggio è
punibile soltanto «fuori dei casi di concorso nel reato» presupposto. Esso non colpisce, quindi,
né il riciclaggio compiuto autonomamente dall’autore del reato presupposto, né quello compiuto
dal “riciclatore” che concorra anche nel compimento del reato presupposto.
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO. CONFINI D’INCRIMINAZIONE E AMBITI DI TUTELA DELLA
FATTISPECIE
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L’esclusione della punibilità per riciclaggio degli autori in concorso del reato presupposto ha,
nondimeno, prodotto, anche in ragione degli esiti della riflessione giurisprudenziale, alcune
conseguenze sul piano applicativo. Essa non è, infatti, in grado di colpire, per un verso, la
condotta dell’autore del reato presupposto (meno grave) che proceda a una catena di
operazioni di riciclaggio, utilizzo e reimpiego, anche a distanza di tempo, degli originari proventi;
per altro verso, la condotta del “riciclatore” professionale che proceda a una complessa serie di
operazioni di riciclaggio dei proventi di un reato (meno grave) cui ha concorso.
Sicché, anche per effetto della non punibilità dell’autore in concorso del reato presupposto, la
fattispecie di riciclaggio ha sinora trovato limitata applicazione sul piano giudiziario, soprattutto
con riguardo all’ultroneo fenomeno del “taroccamento” delle auto. Al di là di questi episodi,
frequenti, ma non particolarmente rilevanti, di “sostituzione” di beni di provenienza illecita, la
fattispecie di gran lunga più insidiosa e grave di riciclaggio resta quella costituita dalla condotta
di “trasferimento” di denaro “sporco”.
Un dato non incoraggiante. Non si spiegherebbero altrimenti le difficoltà e gli sforzi tesi
all’introduzione di siffatta fattispecie di delitto nel nostro ordinamento. Non si può, del resto,
come si avrà modo di approfondire più avanti, non tenere conto della sanzionabilità dal punto di
vista penale dell’autoriciclaggio in altri ordinamenti, fra i quali quello spagnolo, francese, oltre
che degli Stati Uniti e della Svizzera (v. infra§ 4.1).
Sullo sfondo, continuano a delinearsi modifiche del quadro normativo internazionale che, anche
attraverso la regolamentazione comunitaria futura, potranno a loro volta determinare
cambiamenti significativi nell’ordinamento nazionale.
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LA LOTTA AL RICICLAGGIO NEL QUADRO DELLE POLITICHE DI CONTRASTO ALLE «MAFIE»
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2. La lotta al riciclaggio nel quadro delle politiche di contrasto alle “Mafie”.
Oggi l’operare perché sia cancellata la provenienza illecita di utilità economiche da impiegare in
lecite transazioni di mercato caratterizza, difatti, principalmente l’agire delle organizzazioni
criminali, in particolare di quelle mafiose o di stampo mafioso, rendendole molto vicine
all’impresa, sia nella struttura delle proprie articolazioni che nelle strategie di medio e lungo
termine. La dimensione della criminalità economica, sempre più in espansione in tempi di
globalizzazione e di crisi mondiali, comporta l’acquisizione di posizioni di potere e di enormi
ricchezze, che inquinano, condizionano e strozzano l’economia sana, pertanto appare
improcrastinabile la necessità di adeguare prontamente gli strumenti normativi contro il crimine
organizzato e comune.
L’Italia, come gran parte dei Paesi maggiormente sviluppati, è gravemente colpita dal fenomeno
del riciclaggio di ingenti capitali di provenienza criminosa, eppure il reato giunge assai
raramente alla cognizione del giudice. Vi sono note ragioni tecniche per cui il nostro Paese
risulta ancora oggi privo di effettiva tutela penale, rispetto ad un fenomeno che sta stravolgendo
e contaminando i presupposti e gli equilibri fisiologici dell’economia di mercato. Il numero dei
processi in atto per fatti di riciclaggio è risibile, soprattutto se si considera che la stragrande
maggioranza di essi non riguarda denaro derivante dal crimine organizzato e, perciò, da gravi
reati quali quelli del narcotraffico, dell’usura, del racket delle estorsioni, della tratta di esseri
umani, ma da fatti di scarso allarme e danno sociale, quali quelli relativi al cambio delle targhe o
del telaio dei veicoli di provenienza illecita. Va da sé che l’assenza di punibilità della condotta di
autoriciclaggio rivela una omissione che indebolisce l’intera struttura di un impianto legislativo
ispirato alla rimozione di vaste aree di impunità, e degli interventi preordinati alla promozione
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LA LOTTA AL RICICLAGGIO NEL QUADRO DELLE POLITICHE DI CONTRASTO ALLE «MAFIE»
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di nuovi strumenti di prevenzione, all’interno di un contesto caratterizzato da un fenomeno
corruttivo in crescita esponenziale. Un’omissione ancora più allarmante e stridente se si
considerano i continui richiami sovranazionali alla necessità di un intervento collegato e
strutturato che contempli in maniera sinergica la tutela dell’integrità dei sistemi finanziari, della
trasparenza degli affidamenti economici quali precondizioni di un efficace contrasto alla
criminalità organizzata ed alla corruzione sistemica. È di tutta evidenza che si sia di fronte ad
una scelta legislativa – non condivisa in altri ordinamenti – che si fonda sulla considerazione
che, per coloro che partecipano alla realizzazione del delitto presupposto, l’utilizzo delle cose di
provenienza illecita rappresenta la naturale prosecuzione della condotta criminosa e non può
assumere diverso ed autonomo rilievo penale. In sede processuale, infatti, è necessario
dimostrare la consapevolezza della illecita origine del denaro “sostituito o trasferito” e la
contestuale estraneità dell’agente alla commissione del reato da cui lo stesso denaro proviene.
Inoltre, tenuto conto che la sanzione edittale prevista per il reato di riciclaggio è normalmente
più elevata rispetto a quella del reato presupposto, risulta “conveniente” per il soggetto inquisito
sostenere di aver (anche) concorso nel reato presupposto al fine di escludere l’imputazione per
riciclaggio. Ciò significa – come ha sottolineato in varie occasioni la magistratura – che «i
mafiosi ai quali viene imputato il reato di cui all’art. 416-bis c.p. e tutti gli altri reati produttivi di
profitto – dalle estorsioni al traffico di stupefacenti alla manipolazione degli appalti, etc. – non
possono essere incriminati anche per i reati di riciclaggio. Per tali reati possono essere
incriminati solo coloro che per conto dei mafiosi effettuano le operazioni di riciclaggio». Diventa,
a questo punto, sempre più impellente la necessità di raffinare, adeguandoli alle esigenze
dettate dalla nuova realtà che si connette alle continue evoluzioni del crimine organizzato, gli
strumenti legislativi penali che servano a contrastare efficacemente il crimine organizzato nei
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LA LOTTA AL RICICLAGGIO NEL QUADRO DELLE POLITICHE DI CONTRASTO ALLE «MAFIE»
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suoi risvolti economici. Sul punto si è espresso anche il Consiglio superiore della magistratura,
in occasione del recentissimo parere del 24 ottobre 2012 sul disegno di legge anticorruzione
(AC 4434-B, allora all’esame della Camera; ora legge n. 190 del 2012), affermando che
«…deve essere segnalata l’opportunità di una norma che punisca il cd. “autoriciclaggio”, e cioè
il reimpiego e la reimmissione sul mercato di risorse provenienti da reato da parte di chi lo abbia
commesso. Tale condotta costituisce infatti uno dei principali canali di occultamento dei proventi
delittuosi, in particolare del crimine organizzato, dei reati economici e di corruzione. In assenza
di sanzione autonoma di essa, si priva l’ordinamento di uno strumento utile ad impedire – a
valle della corruzione – la concretizzazione ultima del vantaggio patrimoniale conseguito con
l’attività illecita». Altri importanti interventi in materia, dei quali si ritiene utile dar conto, sono
quelli che ripetutamente, anche in sede parlamentare, ha pronunciato il Procuratore nazionale
antimafia, allora dottor Pietro Grasso, nonché la stessa Commissione antimafia. Nella più
recente Relazione sulla prima fase dei lavori della Commissione antimafia (DOC XXIII, n. 9),
approvata dalla Commissione il 25 gennaio 2012, riferendosi alla non sanzionabilità
dell’autoriciclaggio, si legge: «Non v’è chi non veda quanto illogica e foriera di gravi
conseguenze sia sul piano pratico e della lotta alle mafie simile esclusione di sanzionabilità,
tanto più se si considera che un conto è l’impiego nei consumi ordinari delle somme provenienti
dal reato, altro è il sistematico ricorso a pratiche od operazioni finanziarie finalizzate ad
ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei capitali. Trattasi all’evidenza di un
quid pluris bisognevole di punizione, senza timore alcuno di incorrere in una duplicità di
sanzione per un preteso post factum non punibile».
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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO
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3. Le principali linee ricostruttive del reato di riciclaggio nell’ordinamento interno.
Prima di approfondire il tema specifico oggetto del presente lavoro, si ritiene utile compiere
alcune riflessioni volte a ricostruire le coordinate giuridiche del reato di riciclaggio.
Muovendo dalla constatazione secondo cui il nucleo essenziale della condotta di riciclaggio è
costituito da comportamenti atti a non rendere più identificabile il provento del reato, occorre
giocoforza dedurne che lo stesso debba, per le sue caratteristiche intrinseche, essere
riconoscibile prima dell’intervento di “lavaggio”, che dovrà “reciderne” il collegamento con il
delitto da cui proviene. Il pericolo, dunque, si collocherebbe nella “reimmissione” nei circuiti
economici legali di sostanze che non potrebbero accedervi senza una preventiva opera di
“ripulitura”. Ciò consentirebbe del resto di “dissimularne” o “occultarne” l’origine delittuosa.
Le distorsioni e le disfunzioni recate dall’attuale assetto di disciplina sono causa ed effetto di
un’applicazione randomica della fattispecie, con buona pace di garanzie come quella della
tutela del legittimo affidamento dei terzi: tra questi vi sono, infatti, gli operatori di banca e di
borsa, i professionisti e, in genere, tutti gli obbligati alla c.d. “adeguata verifica del cliente”. Essi,
come in fondo accade anche per il semplice cittadino che acquisti o riceva la res di illecita
provenienza, tendono ad essere automaticamente attratti nella sfera di applicazione della
norma incriminatrice, in quanto surrettiziamente richiesti di una probatio di innocenza.
La ragione di un simile “stato dell’arte”, normativo ed ermeneutico, va ricercata nella genesi
stessa della fattispecie. L’inserimento degli artt. 648-bis e 648-ter nel Titolo XIII del c.p.,
concernente i delitti contro il patrimonio, deriva dalla scelta iniziale del legislatore di costruire tali
fattispecie criminose sul modello del delitto di ricettazione. L’art. 648-bis c.p. è stato, infatti,
sviluppato mutuando i tratti essenziali dello schema tipo del delitto di ricettazione (art. 648 c.p.).
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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO
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Il delitto di riciclaggio consiste oggi nella condotta di chi, non avendo partecipato al reato
presupposto, «sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non
colposo, ovvero compie in relazione a essi altre operazioni, in modo da ostacolare
l’identificazione della loro provenienza delittuosa» (art. 648-bis, co. 1, c.p.). Le pene previste
sono quelle della reclusione (da quattro a dodici anni) e della multa, aumentate se il fatto è
commesso nell’esercizio di un’attività professionale. All’adempimento degli obblighi
internazionali richiamati si ricollega anche l’art. 648-ter c.p. (introdotto con l’art. 5 della Legge
del 1993): nonostante il diverso nomen iuris – Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita –, questa norma prevede la medesima pena del riciclaggio per chi «impiega in attività
economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto» (co. 1).
A ragion del vero, la condotta relativa all’ipotesi delittuosa di “impiego di denaro di denaro, beni
o altre utilità di provenienza illecita” di cui all’art. 648-ter c.p. è diversa e più specifica rispetto a
quella di “riciclaggio” di cui all’art. 648-bis c.p. poiché – come sostenuto dalla giurisprudenza –
«contiene in sè un elemento specializzante costituito da un’attività ulteriore rispetto alla
ricezione del denaro o di altra utilità e, cioè, dal relativo impiego in attività economiche o
finanziarie». Proprio in considerazione di questo quid pluris rappresentato dall’elemento
specializzante e, comunque, dalla clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 648-ter c.p.,
in ordine ai medesimi fatti il soggetto non può essere chiamato a rispondere anche del delitto di
“riciclaggio”, essendo la condotta di esso assorbita in quella più specifica di “impiego”. Sicché,
laddove, per altro verso, non vi sia contestualità tra le due condotte – di “sostituzione” e di
“impiego” – l’unico reato configurabile è quello di “riciclaggio”, dovendosi ritenere, ad avviso
della Suprema Corte, che, «in difetto di detta contestualità, siffatto impiego, successivamente
intervenuto, costituisca un post factum non punibile, rispetto alla già avvenuta commissione
dell’altro reato».
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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO
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Peraltro, non sempre è agevole distinguere il concorrente nel reato presupposto dal riciclatore.
Ad avviso della Corte di Cassazione, non è sufficiente «il ricorso al criterio “temporale”, giacché
occorre, in più, che si proceda a verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di
“lavare” il denaro abbia realmente influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale la
decisione di delinquere». Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto responsabile di riciclaggio il
commercialista al quale veniva addebitato di avere, nell’esercizio della propria attività
professionale, posto in essere una serie di operazioni bancarie e societarie volte a trasferire,
anche all’estero, denaro di cui il cliente era accusato di essersi appropriato indebitamente, in tal
modo compiendo operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza criminosa
di dette somme illecitamente sottratte.
Quanto alla condotta, i reati di cui trattasi sono da considerarsi “a forma libera”, essendo
soltanto richiesto che le attività poste in essere siano «dirette in ogni caso ad ostacolare
l’accertamento sull’origine delittuosa di denaro, beni o altre utilità».
Da tenere, inoltre, presente che, trattandosi di reato di mero pericolo, per la sua realizzazione è
sufficiente che la condotta sia idonea «non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a
rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni e delle altre utilità,
attraverso un qualsiasi espediente che consista nell’aggirare la libera e normale esecuzione
dell’attività posta in essere». Tant’è che, sempre in giurisprudenza, la fattispecie criminosa di
riciclaggio è stata ritenuta sussistente anche qualora sia risultato del tutto agevole
l’accertamento della provenienza illecita della res.
Nel sistema penale italiano il riciclaggio in senso tecnico-giuridico non attiene al solo
trasferimento di denaro o di capitali, ma anche a «beni o altre utilità», sul presupposto non già
di una loro origine genericamente illecita, bensì derivante da un (qualsiasi) delitto doloso
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(ossia non colposo, e con esclusione delle contravvenzioni, pure di natura penale, e degli illeciti
amministrativi). Il delitto doloso presupposto (predicate crime) deve essere stato commesso da
altri, per cui, allo stato, è escluso l’autoriciclaggio, ossia la punibilità di chi direttamente
provvede a occultare le tracce dei proventi del delitto da lui stesso realizzato in vista
dell’eventuale reimpiego. In effetti, è mancata ab origine un’esatta identificazione della reale
portata del fenomeno riciclaggio, ben lungi dal riguardare la semplice tutela del patrimonio.
Simili problematiche non ricorrono in altri Paesi, in particolare di matrice anglosassone, fautori
di un ben diverso approccio nello sviluppo degli strumenti di tutela antiriciclaggio. Basti pensare
che negli Stati Uniti la fattispecie criminosa è addirittura inquadrata nel contesto della c.d. “War
on drugs”. La dottrina negli ultimi anni ha offerto apprezzabili suggerimenti per giungere ad
un’impostazione ermeneutica più consona della norma incriminatrice cercando di fornire gli
strumenti per la definizione di una disciplina penale che risulti più chiara, più equilibrata e più
efficace, segnatamente nell’ottica della integrazione transnazionale. Se il diritto penale, in
funzione dei principi cardine che lo caratterizzano, è costretto al rispetto delle regole della
tassatività-determinatezza nella costruzione delle figure delittuose e nella loro interpretazione,
analogo vincolo non vale certamente per chi valuta, studia e mira a combattere (in una
prospettiva socio-criminologica) il riciclaggio quale fenomeno economico-finanziario patologico.
In questa diversa sfera concettuale, per esempio, per chi è deputato a scongiurare l’infiltrazione
della criminalità economica nei mercati finanziari è del tutto indifferente che a riciclare e a
reimpiegare denaro sporco sia lo stesso autore del delitto che ha prodotto l’utile o sia un terzo.
Dal punto di vista normativo, la fattispecie penale del riciclaggio ha subito nel tempo un’indiretta
amplificazione: da pochi delitti di elevata pericolosità sociale e rilevanti riflessi patrimoniali, la
qualifica di presupposto di riciclaggio è stata estesa a tutti i delitti non colposi, quale che ne sia
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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO
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la natura e l’entità della pena (c.d. approccio “all crimes”). Si è assistito ad una progressiva
divaricazione tra la nozione penale di riciclaggio e quella c.d. “amministrativa”, che individua le
ipotesi in cui scatta l’obbligo di segnalazione delle operazioni considerate “sospette”. Mentre la
prima richiede la preesistenza di un delitto non colposo e continua a escludere la punizione
autonoma dell’autoriciclaggio, la seconda prescrive l’obbligo di segnalazione in tutti i casi in cui
sussiste la fondata percezione che determinate disponibilità derivino da un’attività illecita, anche
indefinita, comprendente anche i reati contravvenzionali e i casi in cui vi sia coincidenza tra
l’autore del reato presupposto e quello dell’attività riciclatoria. Si tratta, a ben vedere, di una
definizione ampia che estende l’ambito degli obblighi di segnalazione all’UIF (Unità di
informazione finanziaria della Banca d’Italia) delle operazioni sospettate di riciclaggio.
Sostanzialmente, divenendo superfluo il problema dell’estraneità del cliente rispetto all’origine
delittuosa dei capitali riciclati, gli intermediari sono tenuti a segnalare le operazioni sospette
anche quando è il cliente stesso ad essere sospettato di aver commesso il reato presupposto
(autoriciclaggio). In tal senso si esprime anche la Circolare della Guardia di Finanza n. 81 del
18 agosto 2008, secondo cui la segnalazione di operazione sospetta deve essere effettuata
anche in riferimento alle operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto, ovvero
anche in caso di autoriciclaggio.
Si aggiunga che la formulazione di diverse fattispecie delittuose e contravvenzionali risulta
lacunosa, creando incertezze applicative. Molte sanzioni penali, inoltre, colpiscono – con
minime pene a rapida prescrizione – condotte di modesta potenzialità lesiva, addebitabili
spesso a disattenzione o a disfunzioni organizzative. Sarebbe invece preferibile limitare la
reazione penale alle condotte più gravi, perseguendo le violazioni meno rilevanti con sanzioni
amministrative pecuniarie appropriate ed efficaci.
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Per quel che concerne, invece, le sanzioni amministrative, le principali criticità riguardano quelle
per omessa segnalazione di operazioni sospette, di particolare interesse per l’UIF.
Nell’ambito di questa più ampia nozione di riciclaggio, si è affermata la prassi di segnalare, in
un’ottica prospettica, anche la sospetta destinazione alla commissione di reati di fondi di origine
non necessariamente illecita. Ciò, superando la considerazione formalistica per cui
concretizzano il riciclaggio solo i proventi di un reato già commesso.
Non sembra, tuttavia, potersi sottovalutare nel merito un ulteriore dato: gli elementi, che
valgono a differenziare la tipizzazione delle fattispecie penalmente rilevanti – artt. 648-bis e
648-ter c.p. – dalle corrispondenti definizioni assunte dall’art. 2 del d.lgs. n. 231/2007 «ai fini del
presente decreto», evidenziano per le ipotesi in esame alcuni profili di criticità. A fronte, infatti,
di una “generica” attività criminosa, costitutiva – presenti i restanti requisiti – ai sensi del citato
art. 2 del riciclaggio, la previsione dei delitti oggetto del d.lgs. n. 74/2000 (che nella loro
rilevanza penale diverrebbero come tali suscettibili di configurarsi come reati presupposto ex
art. 648-bis) si integra con “ulteriori” elementi di tipicità concorrenti in ragione di soglie di
punibilità quantitative e/o termini normativamente apposti.
Ciò confermerebbe la diversità nei presupposti per la valutazione della sussistenza degli
obblighi di segnalazione, da un lato, e, agli effetti penali, per la configurabilità dell’ipotesi stessa
di riciclaggio o impiego di proventi illeciti, dall’altra, ai sensi del codice penale. Se è vero infatti
che il disvalore penale di talune delle condotte rilevanti in ambito fiscale sta e cade in ragione di
un an e di un quantum oggetto della previsione normativa, detti requisiti, ove presenti, varranno
evidentemente ad integrare il fatto di reato, condizionandone, per così dire, l’esistenza.
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEL PANORAMA INTERNAZIONALE
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4. Il reato di autoriciclaggio nel panorama internazionale.
Nel contesto internazionale si registra un’ampia convergenza sia livello europeo che globale a
favore dell’introduzione del reato di autoriciclaggio. Nella direzione di punire un simile reato
appaiono, infatti, orientati i principali organismi internazionali a diverso titolo investiti della
materia. Sebbene la punibilità dell’autoriciclaggio non sia espressamente richiesta dalle
convenzioni internazionali, essa è nondimeno insistentemente sollecitata tanto dall’OCSE –
che, nel Rapporto sull’Italia del 2011 ha rilevato come una simile lacuna normativa rischi di
indebolire la legislazione anticorruzione e non appaia giustificata dai principi generali del diritto
– che dal Fondo monetario internazionale – che, nel Rapporto sull’Italia del 2006, pur rilevando
come la punibilità dell’autoriciclaggio non fosse prevista come necessaria nelle 40
Raccomandazioni del GAFI, ne raccomandava nondimeno l’introduzione, anche alla luce delle
esigenze investigative rappresentate dalle stesse autorità italiane. Va in aggiunta ricordato che
l’incriminazione dell’autoriciclaggio è prevista dalla Convenzione penale di Strasburgo sulla
corruzione del 1999, recentemente ratificata dall’Italia con la legge 28 giugno 2012, n. 110.
L’art. 13 della Convenzione stabilisce, infatti, che gli Stati-parte adottano le misure legislative
necessarie per prevedere come reato secondo la propria legge interna gli illeciti indicati dall’art.
6, par. 1, lett. a) e b) (tra cui l’autoriciclaggio) della Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il
sequestro e la confisca dei proventi di reato, fatta a Strasburgo l’8 novembre 1990 (ratificata
dall’Italia con legge 9 agosto 1993, n. 328). Tuttavia, l’articolo 6, par. 2, lett. b), della stessa
Convenzione del 1990 prevede che gli Stati parte possano stabilire che del reato di riciclaggio
non possa essere chiamato a rispondere l’autore del reato presupposto, ove richiesto dai
principi fondamentali dell’ordinamento.
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEL PANORAMA INTERNAZIONALE
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Analoga previsione è contenuta nell’art. 6 della Convenzione ONU contro il crimine organizzato
transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 ed
oggetto di ratifica con legge 16 marzo 2006, n. 146.
Dalla possibilità – offerta da entrambe le Convenzioni – che, nel rispetto degli ordinamenti
giuridici degli Stati membri, si possa non punire per riciclaggio l’autore del reato presupposto
sembra derivare, ragionando a contrario, che la regola generale debba essere la sanzionabilità
dell’autoriciclaggio.
Nello stesso senso vanno richiamate le Raccomandazione del 2005 del Fondo Monetario
Internazionale (FMI). In particolare, il FMI suggerì all’Italia di introdurre il reato di autoriciclaggio
allineandosi alla legislazione dei paesi di common law (Stati Uniti; Canada, Inghilterra, e
Australia) nonché di alcuni Stati europei quali la Spagna, il Portogallo e la Svizzera.
Ancora, esplicitamente, la Risoluzione sulla criminalità organizzata nell’Unione Europea,
approvata dal Parlamento Europeo il 25 ottobre 2011 – oltre a prevedere l’eventuale punibilità
del riciclaggio a titolo colposo, chiede agli Stati membri «di inserire come obbligatoria (…) la
penalizzazione del cosiddetto autoriciclaggio, ovvero il riciclaggio di denaro di provenienza
illecita compiuto dallo stesso soggetto che ha ottenuto tale denaro in maniera illecita»
(Raccomandazione 41).
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI
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La scelta di non punibilità dell’autore del reato presupposto nelle condotte di riciclaggio (o di
ricettazione) è scelta contingente, come dimostrato non solo dai numerosi disegni di legge
sull’autoriciclaggio, ma anche dal fatto che altri ordinamenti non hanno problemi a contestare
come riciclaggio le condotte successive ed ulteriori poste in essere dall’autore del primo fatto di
reato. In alcuni paesi il reato di autoriciclaggio è previsto espressamente nell’ordinamento
penale; in altri è stato ricavato in via esegetica dalla giurisprudenza sul delitto di riciclaggio.
Il servizio Biblioteca della Camera ha diffuso, il 28 novembre 2012, una documentazione,
nell’ambito delle “Note informative sintetiche” n. 39, relativa a “Il reato di autoriciclaggio in
Francia, Germania, Regno Unito e Spagna”.
Da tali note si apprende che solo la Spagna prevede espressamente il delitto di autoriciclaggio
(art. 301 c.p.); mentre nel Regno Unito esso viene fatto discendere dagli artt. 327-340 del
“Proceeds of Crime Act 2002”, anche se tale reato non viene espressamente menzionato. In
Germania si fa riferimento, ma con notevoli difficoltà interpretative ed applicative, alla generale
disposizione sul riciclaggio (§ 261 StGB). Per quanto concerne specificamente la
penalizzazione dell’autoriciclaggio, ovvero il riciclaggio di un oggetto di provenienza illecita
compiuto dallo stesso soggetto che ha conseguito tale oggetto in maniera illecita, il § 261 non
distingue espressamente tra questa fattispecie e il reato commesso da un terzo, per cui la
normativa antiriciclaggio può in teoria essere applicata a tutti gli autori del reato presupposto.
Ciò che rileva, infatti, è l’illegalità del fatto dal quale trae origine l’oggetto del riciclaggio, a
prescindere da chi abbia commesso il fatto illecito originario. Una regola speciale è, tuttavia,
rappresentata dal co. 9, secondo periodo, in base al quale un soggetto che sia stato punito per
aver concorso al reato principale non può essere punito allo stesso tempo anche per il
riciclaggio del denaro proveniente da tale illecito.
4.1. (Segue): Il reato di autoriciclaggio nei principali ordinamenti europei. Uno sguardo
in chiave comparatistica.
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI
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Stando alla lettera, l’esplicita esclusione di una doppia punizione per i partecipanti al reato
presupposto non ha mancato di sollevare qualche dubbio in merito all’applicazione di tale
regola anche all’autore del reato, oltre che a coloro che vi hanno concorso. Il divieto della
doppia punizione (Verbot der Doppelbestrafung), sancito a livello costituzionale dall’art. 103,co.
3. della Legge fondamentale ed esplicitato nel già citato § 261, co. 9, del c.p., è stato anche
confermato da una decisione della Corte di cassazione federale nel 2009 (BGH, 18.02.2009 – 1
StR 4/09), la quale ha però stabilito la possibilità di condannare in Germania, per riciclaggio di
denaro, una persona condannata per corruzione in un altro Stato.
Nel Regno Unito la repressione del riciclaggio è regolata dal Proceeds of Crime Act 2002, le cui
disposizioni qualificano il reato di money laundering (artt. 327-340) senza tuttavia assegnare
risalto autonomo al fenomeno dell’autoriciclaggio. Il reato è costituito da tre fattispecie principali:
le condotte dirette ad occultare, trasformare, convertire o trasferire i proventi di attività
criminose al fine di consentirne la circolazione attraverso i normali canali di trasferimento della
ricchezza; gli accordi posti in essere per compiere tali operazioni; l’acquisizione e il possesso di
beni di origine illecita. Mette conto segnalare che la disciplina repressiva del riciclaggio è
formata altresì dalle Money Laundering Regulations 2007, con cui è stata data attuazione nel
Regno Unito alla direttiva 91/308/CEE del Consiglio del 10 giugno 1991 relativa alla
prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite.
Tale normativa (modificata dalle analoghe Regulations del 2012, attuative della direttiva
2005/60/CE) si applica nei confronti dei fornitori di servizi finanziari, sottoposti ad obblighi di
controllo, di monitoraggio e di segnalazione relativamente alle operazioni effettuate dai loro
clienti.
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI
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Ma il dato che più di ogni altro merita di essere evidenziato è costituito dal fatto che nel Regno
Unito la prevenzione e la repressione del fenomeno intersecano le sfere di competenza di
diversi organismi – tra cui l’Office for Fair Trading (OFT), la Financial Services Autorithy (FSA),
la Serious Organised Crime Agency (SOCA), il Joint Money Laundering Steering Group
(JMLSG) e la Gambling Commission –, si inscrivono anche nel quadro di più ampie strategie di
contrasto, stante la sua pericolosità in ragione delle relazioni con il finanziamento delle attività
terroristiche. In questa prospettiva rileva segnalare, per completezza, la vigenza di restrizioni
poste ai movimenti finanziari da o verso determinati paesi o soggetti finanziari esteri, adottate in
base al Counter-Terrorism Act 2008 dal Tesoro (financial restrictions). Anche la Spagna prevede
espressamente il delitto di autoriciclaggio, punito ai sensi dell’art. 301 del c.p. La norma, a
differenza dei reati di ricettazione e favoreggiamento, ammette esplicitamente che il soggetto
attivo del riciclaggio possa essere l’autore del reato presupposto. Tale norma prevede, infatti,
che colui che acquisti, possieda, utilizzi, converta o trasmetta beni sapendo che essi sono
provenienti da un’attività delittuosa, commessa da lui stesso o da terzi, o esegua qualsiasi altro
atto per occultare o mascherare la loro provenienza illecita o per aiutare la persona coinvolta
nel reato o nei reati a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle sue azioni, è punito con la
reclusione da sei mesi a sei anni e con la multa corrispondente a tre volte il valore dei beni. Il
giudice, tenuto conto della gravità del fatto e delle circostanze personali del colpevole, può
anche imporre la pena dell’inabilitazione speciale dall’esercizio della professione o industria per
un periodo da 1 a 3 anni, nonché la misura della chiusura temporanea o definitiva degli
stabilimenti o sedi. Se la chiusura è temporanea, la sua durata non può superare i 5 anni. Nel
codice portoghese è rinvenibile analogo assetto di disciplina, mentre i reati di ricettazione e di
favoreggiamento (artt. 231 e 232) sono applicabili solo all’extraneus, il reato di riciclaggio
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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI
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(art. 368-A), a seguito delle modifiche apportate dalla legge 27 marzo 2004, n. 11, risulta
applicabile anche all’autore del fatto presupposto. La norma nulla dispone quanto ai possibili
soggetti attivi del reato. Il reato di riciclaggio è contemplato anche nel caso di proventi generati
da reati presupposto punibili con una pena detentiva non inferiore a 6 mesi, indipendentemente
dal limite massimo ovvero punibili con una pena detentiva superiore 5 anni, indipendentemente
dal minimo. In Belgio una previsione similare è contenuta nell’art. 505 del c.p.
Nell’ordinamento elvetico, l’art. 305-bis del c.p., collocato nell’ambito dei “crimini o delitti contro
l’amministrazione della giustizia”, contempla la fattispecie del riciclaggio di denaro in capo a
chiunque compia un atto idoneo a vanificare l’accertamento dell’origine, il ritrovamento o la
confisca di valori patrimoniali, sapendo o dovendo presumere che provengano da un crimine. In
Svizzera il reato di riciclaggio è punibile anche nel caso in cui il reato principale sia stato
commesso all’estero, sempre che sia considerato illecito penale.
In Francia, infine, nell’ambito della definizione del reato di riciclaggio, di cui all’art. 324-1 del
Code pénal, l’autoriciclaggio non è previsto in modo espresso, ma la Corte di Cassazione
francese, con la sentenza del 14 gennaio 2004, innovativa rispetto alla giurisprudenza
precedente, ha dichiarato applicabile la disposizione del codice anche all’autore del reato
d’origine, che quindi può essere considerato “blanchisseur” nel momento in cui compie
operazioni di riciclaggio del prodotto del reato da lui stesso commesso: pronuncia, peraltro,
oggetto di discussioni e di critiche, specie sotto il profilo del principio di legalità e di tassatività
della fattispecie. La Suprema Corte muove dal presupposto che non vi sia incompatibilità tra
reato presupposto e riciclaggio, qualora la condotta rientri in una delle fattispecie di cui all’art.
324-1, co. 2, c.p., ossia di apportare un contributo alla collocazione, dissimulazione o
conversione del prodotto diretto o indiretto di un crimine o delitto.
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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE
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Infine, tra gli ordinamenti che di recente hanno introdotto la punibilità dell’autoriciclaggio, va
menzionato la Città del Vaticano che, con la legge del 30 dicembre 2010, n. 127 (entrata in
vigore il 1° aprile 2011) avente ad oggetto la “Prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei
proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo”, si è dotata di una disciplina
interna per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario,
allineandosi così alle direttive generali fissate a livello internazionale e comunitario.
5. La punibilità dell’autoriciclaggio nella prospettiva dottrinale e giurisprudenziale.
Come all’estero anche in Italia la dottrina ha per lungo tempo ritenuto non configurabile il delitto
di autoriciclaggio sul rilievo che esso costituisca il post crimen patratum (che interviene cioè
dopo la conclusione dell’attività criminosa) del reato presupposto, rappresentandone la naturale
prosecuzione e quasi il perfezionamento.
Si è già rimarcato che nel nostro ordinamento l’autoriciclaggio non costituisce un’autonoma
fattispecie penale sulla base dell’assunto di teoria generale secondo cui l’utilizzazione dei beni
di provenienza illecita da parte degli stessi autori che hanno partecipato alla realizzazione del
reato presupposto rappresenta la continuazione della condotta criminosa di quest’ultimo reato.
Il termine auto riciclaggio non viene impiegato per indicare una species del genus-riciclaggio,
ma solo per indicare una peculiarità secondo cui il reato di riciclaggio può essere commesso
solo da colui che sia del tutto estraneo al fatto di reato che ha determinato l’arricchimento
illecito. In sostanza, l’offensività della condotta di autoriciclaggio sarebbe di per sé già
sanzionata nel momento in cui viene punita la condotta dalla quale è scaturito l’arricchimento.
Ci troviamo, quindi, in un caso di applicazione del principio del ne bis in idem, secondo il quale
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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE
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non si può essere puniti due volte per lo stesso fatto, sulla base di una logica riconducibile al
concetto di consunzione. In altre parole, la improvvisa e fuorviante “neutralizzazione” dei
connotati obiettivi del fatto di riciclaggio ne amplia oltremodo l’ambito operativo e implica un bis
in idem sostanziale tra fatto presupposto e fatto accessorio. Secondo tale principio la
repressione del fatto antecedente (il reato presupposto) esaurirebbe il disvalore complessivo e
il relativo bisogno di sanzione da parte dell’ordinamento, dal momento che il fatto successivo,
seppur consistente in operazioni di occultamento o trasformazione dei proventi illeciti,
rappresenterebbe solo un normale sviluppo della condotta precedente; ne consegue, pertanto,
che il fatto successivo non sarebbe autonomamente punibile. La previsione della punibilità
dell’autoriciclaggio incontrerebbe, nondimeno, alcune difficoltà di tipo oggettivo e/o dogmatico.
Una prima contrarietà discenderebbe dalla constatazione, poc’anzi richiamata, che le ulteriori
operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto per ostacolare l’identificazione
della provenienza delittuosa dei beni e del denaro rappresenterebbero la naturale prosecuzione
degli stessi reati presupposto. In quanto tali, esse darebbero, pertanto, luogo soltanto a un
mero post factum, non avente un autonomo disvalore e quindi assorbito nella fattispecie del
reato presupposto. Oppure sarebbero configurabili come parti della condotta dello stesso reato
presupposto, quindi non punibili in ossequio al principio del ne bis in idem sostanziale, per cui
nessuno può essere punito due volte per lo stesso fatto. La tesi non pare condivisibile perché in
contrasto con i criteri che regolano il concorso di norme e segnatamente con i postulati dell’art.
15 c.p. che disciplina, nell’ambito del diritto penale, il principio di specialità. Tale criterio
consente, ogniqualvolta uno stesso fatto risulti, prima facie, sussumibile in due o più fattispecie
astratte, di escludere la contemporanea applicazione di più disposizioni incriminatrici. In
particolare, attraverso il meccanismo previsto dalla disposizione in esame, il diritto penale
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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE
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garantisce l’applicazione della regola del ne bis in idem, per il quale il reo non può essere
punito per più di una volta in relazione al medesimo fatto. Anche la giurisprudenza allo stato
esclude categoricamente la configurabilità del delitto di autoriciclaggio non per le ragioni
addotte da quella parte della dottrina cui si è fatto riferimento, ma più semplicemente per effetto
della clausola di riserva che impedisce qualsivoglia spazio interpretativo.
Utile ai fini del presente discorso è la sentenza della Cassazione Pen., Sez. V, 10 gennaio – 28
febbraio 2007, n. 8432, che, ribadendo l’esclusione della punibilità per il concorrente nel reato
presupposto rispetto al riciclaggio, afferma che il medesimo soggetto «non può essere chiamato
a rispondere di tale successiva attività, fatta rientrare nel post-factum non punibile, attraverso la
clausola di riserva introdotta nell’art. 648-bis c.p. (…) Peraltro, per distinguere il concorrente dal
riciclatore non basta il ricorso al criterio temporale, giacché occorre, in più, che si proceda a
verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di lavare il denaro abbia realmente
influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale, la decisione di delinquere, così da
qualificarsi come contributo causale». Le clausole di riserva inserite dal legislatore nelle
previsioni di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. non sono espressione del riconoscimento di una
progressione criminosa in cui è lo stesso bene giuridico ad essere oggetto di successive
condotte lesive, in cui la seconda assorbe necessariamente la prima.
Piuttosto le suddette clausole sono frutto di una scelta legislativa che riconosce l’esistenza di
una modalità operativa standard, secondo il principio dell’id quoad plerumque accidit, in cui
l’arricchimento, derivante dal reato presupposto e assicurato all’autore mediante condotte
riciclative, costituisce il normale sviluppo, ovvero la prosecuzione o il naturale sbocco, della
condotta penalmente rilevante costituita dal reato presupposto. Sicché, secondo la
giurisprudenza, per l’autore e\o il concorrente del reato presupposto non è ipotizzabile la
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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE
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punibilità anche per la condotta riciclante: la formula utilizzata dal legislatore, in cui il riferimento
non è al ricorso di un reato più grave, ma in maniera diretta alla identità dell’autore (mediato o
immediato) del reato presupposto – sia in forma monosoggettiva che concorsuale –, esclude
ogni interpretazione sui profili concreti delle condotte realizzate, ogni analisi strutturale delle
fattispecie, rispetto ad una esclusione di punibilità essenzialmente incentrata sul contributo
causale del reo rispetto ad entrambe le fattispecie criminose. Destino analogo per le
responsabilità dell’associato rispetto ai reati di cui agli artt. 648-bis e 648-ter, per condotte
riciclative di proventi derivanti dall’associazione stessa o da uno dei reati fine cui l’associato non
abbia partecipato: in entrambi i casi, e con particolare riferimento ai reati di cui all’art. 416-bis
c.p., potendo l’associazione costituire il presupposto del riciclaggio – posto che tra gli scopi
dell’associazione vi è anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite
utilizzando il metodo mafioso – il partecipe, proprio in virtù di tale consapevolezza e del suo
contributo di sostegno al sodalizio mafioso, non potrebbe rispondere delle successive attività di
riciclaggio, già contemplate e ricomprese , nella sua adesione associativa).
Sul punto la Cassazione Penale afferma la possibilità di rispondere di riciclaggio dei proventi
associativi in presenza di una assoluzione per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., costituente
valido reato presupposto del delitto di cui all’art. 648-bis, essendo esclusa in radice l’ipotesi
concorsuale. La necessità del superamento della vigente clausola di riserva è emersa
soprattutto di fronte ad oggettive difficoltà in sede processuale «in estrema sintesi, riconducibili
alla esigenza di dimostrare sul piano probatorio, allo stesso tempo, la consapevolezza della
illecita origine del denaro “sostituito o trasferito”» e la contestuale estraneità del soggetto
agente alla commissione del reato da cui lo stesso denaro proviene. «Il venir meno di questa
seconda condizione comporta infatti, il più delle volte, che la originaria contestazione si traduca
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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE
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in ipotesi di concorso nella commissione del reato presupposto». Non sono mancati, del resto,
tentativi esegetici di segno contrario. Tra questi merita menzione quello oggetto di una
recentissima sentenza dei Giudici di legittimità. La Procura presso il Tribunale di Cuneo
esercitava l’azione penale per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione a carico di un
promotore finanziario, che al contempo veniva imputato di riciclaggio ex art. 48 c.p., per aver
indotto un’incolpevole quasi centenaria a sottoscrivere una polizza assicurativa grazie alla
quale era stato riciclato il danaro provento della bancarotta. Il G.u.p. dichiarava non doversi
procedere per il delitto di riciclaggio per via della clausola di riserva contenuta nell’articolo 648-
bis c.p. La Procura ricorreva per cassazione, lamentando la disapplicazione dell’articolo 48 c.p.,
ma la Cassazione rigettava il ricorso affermando il principio di diritto secondo il quale la clausola
di riserva ex art. 648 bis c.p. non consente – a prescindere da ogni altra considerazione – la
configurazione del delitto di autoriciclaggio. Nell’occasione la Cassazione (Cass. Pen., Sez. II,
23.1.2013 (dep. 27.2.2013), n. 9226) ha, pertanto, statuito un importante principio di
diritto: «colui che abbia commesso il reato presupposto non può essere ritenuto punibile anche
del reato di riciclaggio per avere sostituito o trasferito il provento del reato presupposto: infatti,
non essendo configurabile il delitto di autoriciclaggio, diventano del tutto irrilevanti, ai fini
giuridici, le modalità con le quali l’agente abbia commesso l’autoriciclaggio, sia che il
medesimo sia avvenuto con modalità dirette sia che sia avvenuto, ex art. 48 c.p., per
interposta persona e cioè per avere l’agente tratto in inganno un terzo autore materiale del
riciclaggio».
Sicché, quale che sia l’inquadramento dogmatico preferibile in ordine all’art. 48 c.p. (che
disciplina la responsabilità penale del soggetto il quale ha esercitato l’inganno.
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ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI
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È previsto, infatti, che del fatto commesso dall’autore immediato – incolpevole perché in errore
–, risponda l’autore mediato (cioè colui che volontariamente l’abbia indotto in errore) resta il
fatto che la clausola di esonero della responsabilità con cui esordisce l’art. 648-bis c.p.
impedisce che una stessa persona possa essere chiamata a rispondere tanto del reato
da cui proviene il provento da riciclare, quanto del riciclaggio di quel provento. E a nulla
rileva, in senso contrario, la circostanza che il riciclaggio sia stato realizzato per “interposta
persona”.
5.1. (Segue): Alcuni profili problematici.
Il piano problematico cui la riflessione conduce è legato a principi di doppia punibilità. Una più
aggiornata rivisitazione della materia consente, peraltro, di affermare che il fenomeno del
riciclaggio ricomprende la fase del placement (“piazzamento”, “collocamento” dei proventi
illeciti), del layering (“stratificazione”, consistente in operazioni finanziarie finalizzate a separare
i capitali illeciti dalla propria matrice) e dell’integration (consistente nell’ “integrazione” dei
proventi “ripuliti” nei circuiti dell’economia lecita, attraverso investimenti o l’esercizio di attività
imprenditoriali). Sembra dunque inutile (e foriero – com’è sino ad ora avvenuto nella pratica – di
generare problemi di punibilità) separare le fattispecie, lasciando di conseguenza che la causa
di esclusione della punibilità (venuta meno per l’autore del reato presupposto con il disegno di
legge in questione) resti vigente nella fattispecie di cui all’art. 648-ter c.p. per colui che abbia
realizzato condotte ricomprese nella previsione di cui all’art. 648-bis c.p. Se il riciclaggio
consiste (alternativamente o cumulativamente) in una pluralità di condotte, chi realizzi anche
una soltanto di esse è da considerare comunque autore di quel delitto: ciò agevola ovviamente
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la comprensione di fenomeni complessi, come quelli che coinvolgono una pluralità di soggetti di
volta in volta impiegati nella sostituzione o nell’investimento di disponibilità finanziarie
nell’ambito di organizzazioni criminali ove i ruoli dei soggetti che operano in quel campo
appaiono mutevoli a seconda delle contingenti necessità. Il riciclaggio è considerato tale anche
se le attività che hanno generato i beni da riciclare si sono svolte nel territorio di un altro Stato
comunitario o di un Paese terzo. La conoscenza, l’intenzione o la finalità, che debbono
costituire un elemento degli atti di cui al co. 1, possono essere dedotte da circostanze di fatto
obiettive. Anche sotto tale profilo, dunque, il richiamo al predetto testo normativo è stato utile
nella costruzione di una fattispecie che contempli pure l’ipotesi dell’autoriciclaggio. Tuttavia, se
emerge un’effettiva necessità di rileggere in chiave unitaria le operazioni di riciclaggio (quelle
cioè che tramite “ripulitura” consentono il successivo impiego di proventi illeciti come “naturale
prosecuzione, quasi un perfezionamento” della condotta illecita), non manca chi al contempo
paventa conseguenze preoccupanti a seguito della punibilità per riciclaggio dell’autore del
delitto-presupposto. Una prima difficoltà deriva dalla constatazione che la punibilità
dell’autoriciclaggio costringerebbe l’autore del reato presupposto ad astenersi dal compiere
operazioni volte a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni,
esponendolo per questa via a un maggior rischio di essere scoperto. La fattispecie di
autoriciclaggio risulterebbe, pertanto, in contrasto con il principio generale per cui nemo tenetur
se detegere, in virtù del quale nessuno può essere tenuto ad auto incriminarsi.
Una seconda difficoltà, legata alla prima, discende, poi, dalla constatazione che la punibilità
dell’autoriciclaggio potrebbe assoggettare l’autore del reato presupposto all’irrogazione di una
pena non correlata alla gravità di quest’ultimo.
Tale considerazione porta a due ulteriori riflessioni. In primis, ove fosse ammissibile la
ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI
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fattispecie autonoma dell’autoriciclaggio (ad esempio eliminando l’incipit dell’art. 648-bis)
l’elevata pena prevista per quest’ultimo sarebbe maggiore e di gran lunga sproporzionata
rispetto alle pene, più miti, di tanti reati-base contro il patrimonio, venendo a ledere quel
principio di ragionevolezza di pena pure costituzionalmente rilevante. E non basterebbe
invocare la circostanza attenuante ad effetto comune di cui al co. 3, posto che, comunque, si
giungerebbe agli otto anni di reclusione, ben più elevati rispetto alla pena massima del reato
presupposto (inferiore ai cinque anni). In secundis, stante l’ampiezza della previsione, il reato di
auto riciclaggio assurgerebbe pressoché ad automatica causa di aggravamento della
responsabilità, indipendente dal disvalore rinvenibile nell’impiego del bene o dagli effetti ad
esso ricollegabili. In tale prospettiva, quasi tutti i reati, e in particolare quelli contro il patrimonio,
andrebbero letti come se alla cornice di pena in essi prevista si associasse inevitabilmente
l’ulteriore pena del riciclaggio: esito, questo, – si fa notare – forse da taluni apprezzabile sul
piano della prevenzione generale ma certamente disastroso per la razionalità del sistema,
anche alla luce della severità delle pene applicabili Se, dunque, il postfatto dell’autoriciclaggio è
la normale esplicazione del reato presupposto, commesso per goderne i frutti, stabilirne una
fattispecie criminosa autonoma significherebbe renderla presente o richiamabile pressoché in
ogni reato contro il patrimonio, raddoppiandone le fattispecie, ovvero, tutt’al più, nel contesto
della continuazione, ove la pena, però, potrebbe raggiungere anche il triplo di quella base (art.
81, co. 2, c.p.). Nel suo fondamento costituzionale e nella direttrice della «proporzione» tra
pena e valore tutelato, il principio nel merito è invocato per evidenziare «l’eccessiva rigidità del
sistema», cui darebbe luogo la soppressione della clausola, tale da integrare una «possibile
violazione» del principio stesso di offensività, a fronte di un eccessivo rigore sanzionatorio.
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A quanto sopra si aggiunga, poi, che il riferimento alle condotte di “sostituzione” e
“trasferimento” di cui all’art. 648-bis c.p., se è di più agevole percezione nel caso di riciclaggio,
in ragione della “terzietà” del riciclatore rispetto all’autore del reato presupposto, può apparire
fuorviante nel caso dell’autoriciclaggio, a motivo del carattere non adeguatamente qualificato
sul piano funzionale delle stesse. La sostituzione e il trasferimento di beni o denaro potrebbero,
infatti, avvenire non solo per ostacolarne l’identificazione della provenienza delittuosa, ma
anche per rispondere a immediate esigenze di consumo, come nel caso di chi “sostituisca” del
denaro con il bene acquistato o “trasferisca” un bene all’estero. Da ultimo, l’effettiva punibilità
dell’autoriciclaggio potrebbe incontrare un limite in termini di prescrizione non adeguatamente
lunghi, mentre trarrebbe sicuro giovamento dall’utilizzabilità delle intercettazioni,
dall’applicabilità della pena su richiesta delle parti, dall’inclusione nel novero dei reati per i quali
è prevista la responsabilità degli enti ai sensi della legge n. 231 del 2001.
Secondo altra dottrina, le operazioni di autoriciclaggio non costituiscono la frazione terminativa
della condotta del reato presupposto e non violano il principio del ne bis in idem sostanziale
laddove siano punite autonomamente.
In altri termini, il delitto madre e quello di autoriciclaggio non versano in rapporto di concorso
apparente (non c’è, dunque, unicità dei reati) perché il secondo costituisce un quid pluris
indipendente: la condotta di “lavaggio” è, infatti, estranea al perimetro tratteggiato dalla
fattispecie a monte. Il concorso apparente di norme ricorre quando, prima facie, l’insieme delle
azioni od omissioni poste in essere dall’agente sia astrattamente sussumibile sotto diverse
norme penali, ma, in concreto, una sola di esse è effettivamente applicabile. In altre parole, si
ha (una non pluralità, ma) un’unicità di reati. Tre i presupposti che ricorrono nell’istituto in
oggetto: la pluralità di norme incriminatrici, tra loro non in antinomia; l’identità del fatto
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incriminato; la circostanza per cui solo una di queste norme è, concretamente, applicata.
A giudizio della dottrina, le difficoltà sopra richiamate appaiono, nondimeno, superabili
attraverso una corretta formulazione della norma incriminatrice. In termini generali, il fenomeno
del riciclaggio, incluso quindi l’autoriciclaggio, rappresenta, in ragione delle sue crescenti
dimensioni e del grave impatto sul tessuto imprenditoriale e sociale, una minaccia non solo e
non tanto per il bene patrimonio quanto piuttosto per il corretto e ordinato svolgimento delle
attività economiche e finanziarie, nonché per l’amministrazione della giustizia. In quest’ottica,
pertanto, la condotta di autoriciclaggio, lungi dal configurarsi come frazione del reato
presupposto ovvero come un mero post factum avente il solo effetto di ostacolare il
disvelamento del reato presupposto, si configura piuttosto come una nuova e diversa condotta,
connotata da un autonomo e grave disvalore, in quanto tale meritevole di autonoma sanzione.
Al fine di conseguire un adeguato contemperamento con le esigenze di rispetto dei richiamati
principi generali, matura la convinzione che la punibilità dell’autoriciclaggio possa efficacemente
conseguire alla previsione di un’autonoma fattispecie di reato:
i) da includere, unitamente alla fattispecie di riciclaggio, in apposito capo dedicato ai delitti
contro l’ordine economico e finanziario ovvero contro l’amministrazione della giustizia;
ii) che valorizzi, sotto il profilo materiale della condotta, la natura essenzialmente finanziaria e la
connotazione intrinsecamente fraudolenta delle operazioni, se del caso anche attraverso
l’inclusione di apposite norme definitorie all’interno della stessa fattispecie;
iii) che attribuisca centralità, sotto il profilo teleologico della condotta, non tanto e non solo alla
finalità di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni quanto soprattutto a
quella del loro investimento in attività economiche o finanziarie, essendo il vero disvalore della
condotta rappresentato dalla “concorrenza sleale” derivante dall’impiego di capitali illeciti;
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I PRINCIPALI TENTATIVI DI CODIFICAZIONE DEL REATO DI AUTORICICLAGGIO IN ITALIA
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iv) che escluda, conseguentemente, la punibilità degli autori del reato presupposto per i
comportamenti diretti a consentire loro il godimento dei relativi proventi riducendo entro limiti
ragionevoli il rischio di essere scoperto;
v) che conduca all’applicazione nei confronti degli autori dell’autoriciclaggio di pene
proporzionate alla gravità delle condotte.
6. I principali tentativi di codificazione del reato di autoriciclaggio in Italia.
Sulla scorta di queste sollecitazioni non sono mancati ripetuti tentativi di riforma mai recepiti in
via definitiva dal legislatore. Basta un veloce screening degli atti parlamentari per avvedersi che
gran parte degli sforzi volti a introdurre il delitto di autoriciclaggio si sono compendiati nella
soppressione della clausola “fuori dei casi di concorso nel reato” presente negli articoli 648-bis
e 648-ter c.p.
Il dibattito sull’opportunità di giungere alla punizione penale dell’autoriciclaggio è da tempo
giunto nelle aule parlamentari.
Nel corso delle passate legislature sono state assunte varie iniziative, tra le quali spiccano due
disegni di legge presentati al Senato. Le proposte legislative più rilevanti sono:
- il d.d.l. governativo n. 4705 recante “disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina
dei mercati finanziari” del 2004;
- il d.d.l. n. 583 del 2008, recante “disposizioni in materia di reati di grave allarme sociale e di
certezza della pena”;
- il d.d.l. n. 733-bis (stralcio del n. 733 “in materia di sicurezza pubblica” del 2009 – di origine
governativa) prevede di modificare l’art. 648-bis attraverso la soppressione nel primo comma
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I PRINCIPALI TENTATIVI DI CODIFICAZIONE DEL REATO DI AUTORICICLAGGIO IN ITALIA
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della cd clausola di riserva (“fuori dei casi di concorso nel reato”) e l’introduzione di un nuovo
quinto comma secondo cui <<le disposizioni di cui ai commi che precedono si applicano anche
nei confronti della persona che ha concorso nel reato presupposto, salvo che per gli atti di
godimento che non eccedano l’uso dei beni secondo la loro naturale destinazione ovvero in
caso di utilizzo del denaro, dei beni o delle altre utilità provento del reato presupposto per
finalità non speculative, imprenditoriali o commerciali>>.
- il d.d.l. n. 1445 dello stesso anno, recante “modifiche degli articoli 648-bis e 648-ter del
codice penale in materia di autoriciclaggio, nonché nuove disposizioni in materia di prevenzione
applicabili agli strumenti finanziari”, che, soppresso l’incipit, riformulava la norma nei seguenti
termini: «chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non
colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare
l’identificazione della loro provenienza delittuosa, ovvero, fuori dei casi previsti dall’articolo 648,
impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto è
punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.493»;
- il d.d.l. n. 1454 e n. 1629, sempre del 2009.
Da ultimo, si segnala che la punizione dell’autoriciclaggio è stata inserita in alcuni emendamenti
che erano stati presentati al c.d. “ddl. anticorruzione” (AS 2156), in discussione al Senato.
Senza dimenticare le ultime proposte di legge della scorsa legislatura tutte del 2010: n. 3145
(on. Bersani ed altri): n. 3872 (on. Naccarato e Fiano) e la n. 3986 (on. Torrisi), il cui articolo
unico prevedeva la soppressione della nota clausola di riserva.
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L’INTRODUZIONE DI UNA FATTISPECIE «UNIFICATA» DI RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO
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7. L’introduzione di una fattispecie “unificata” di riciclaggio e autoriciclaggio.
Nella realtà del diritto esistente la disciplina si articola su due fronti: nel codice penale si rivolge,
per il tramite degli artt. 648-bis e 648-ter c.p., agli autori del reato, e nel d.lgs. 21 novembre
2007, n. 231, recante attuazione della direttiva 2006/70/CE e della direttiva 2005/60/CE
concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei
proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, interpella quanti sono investiti
dall’ordinamento di obblighi di collaborazione attiva nel contrasto al fenomeno del riciclaggio.
Dal punto di vista amministrativo, per usare la stessa formula utilizzata dal Governatore Draghi,
«l’autoriciclaggio è un fenomeno già conosciuto dal legislatore italiano». Il d.lgs. n. 231 del
2007 all’art. 2 (“Definizioni di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo e finalità del decreto”)
non contiene nessun riferimento al fatto che la condotta non debba essere stata compiuta
dall’autore del reato presupposto, per cui gli intermediari finanziari e non finanziari (notai,
avvocati, agenti immobiliari) debbono segnalare alle autorità preposte le operazioni sospette
anche in riferimento a quelle poste in essere dall’autore del reato presupposto. Pertanto, come
si è già anticipato, l’autoriciclaggio non rappresenterebbe una novità assoluta per il nostro
ordinamento. Per la verità, detta disposizione definisce il “riciclaggio” come la conversione o il
trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività
criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine
illecita dei beni medesimi, o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle
conseguenze giuridiche delle proprie azioni, nonché l’occultamento o la dissimulazione della
reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti
sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o
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L’INTRODUZIONE DI UNA FATTISPECIE «UNIFICATA» DI RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO
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da una partecipazione a tale attività. Rientrano in tale condotta anche l’acquisto, la detenzione
o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali beni
provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, nonché la
partecipazione ad uno degli atti di cui sopra, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo
di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di
agevolarne l’esecuzione. Risulta quindi evidente come, rispetto all’origine delittuosa dei capitali
oggetto di movimentazione ed ai fini degli obblighi di segnalazione in capo agli intermediari
finanziari e non finanziari, l’elemento nuovo introdotto dal legislatore del 2007, rispetto alla
tradizionale nozione penalistica, consista nella mancanza dell’inciso «fuori dei casi di concorso
nel reato». È evidente, del resto, come rispetto alla fattispecie penale non si ponga il problema
dell’estraneità del cliente rispetto all’origine delittuosa dei capitali oggetto di
trasferimento/movimentazione. L’introduzione nel nostro ordinamento di una fattispecie unificata
di riciclaggio e autoriciclaggio consentirebbe di allineare le nozioni penale e amministrativa di
riciclaggio, come da tempo auspicato non solo a livello domestico, ma anche dal Fondo
Monetario Internazionale (2005). Lo chiedono, in Italia, la Banca d’Italia, la Procura Nazionale
Antimafia, la Guardia di Finanza. La mancanza di questo reato, impedisce di “inseguire” i beni
frutto di attività illecita, ostacola la confisca per equivalente (ossia di beni equivalenti per valore,
a quelli sottratti). L’art. 2 del d.lgs. 231/2007 contiene un’ampia definizione di riciclaggio, che –
anche se finalizzata alla materia disciplinata da quella specifica normativa – non può in qualche
modo non influenzare anche le scelte del legislatore nel settore penale. Non esiste però, com’è
noto, nel catalogo dei beni-interesse considerati espressamente nella parte speciale del codice
penale, il bene giuridico collegato all’integrità del sistema finanziario, per cui appare non
agevole – nella riformulazione della disposizione in tema di riciclaggio – trovare per tale
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L’INTRODUZIONE DI UNA FATTISPECIE «UNIFICATA» DI RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO
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fattispecie un’autonoma collocazione. Si è quindi ipotizzata una integrazione del Titolo VIII del
Libro II del codice penale, introducendo un Capo IV relativo ai delitti contro l’economia pubblica,
l’industria e il commercio, includendo anche fattispecie di reato che si riferiscono all’incidenza
sul sistema delle relazioni economiche derivante dalla circolazione di ricchezze di provenienza
illecita. Un primo rilievo, di carattere generale, riguarda la collocazione sistematica della norma
in materia di riciclaggio. In realtà, le ormai consolidate osservazioni di tipo criminologico
dimostrano che le attività di riciclaggio e di reinvestimento incidono in misura sensibile sul
sistema economico nel suo complesso, con specifico riguardo al settore finanziario, utilizzato
dal crimine organizzato per l’allocazione più conveniente delle risorse patrimoniali illecitamente
conseguite. Come è facilmente intuibile, a creare il problema è, dunque, il primo inciso
dell’art. 648-bis c.p. «fuori dai casi di concorso nel reato»: perché ai fini dell’integrazione della
condotta criminosa è essenziale che il riciclatore sia estraneo al fatto illecito il cui frutto è il
denaro o il bene riciclato e conosca la provenienza delittuosa di ciò che sostituisce o
trasferisce. Per giunta, se tale inciso venisse espunto dall’art. 648-bis c.p., oltre ad
introdurre la punibilità del reato di auto riciclaggio, si determinerebbe un ampliamento
dell’applicazione della fattispecie di reato, estendendola a tutte le operazioni sospette,
anche quelle perpetrate in prima persona.
I predetti artt. 648-bis e 648-ter, a questo punto, uscirebbero dal novero dei delitti contro il
patrimonio in cui attualmente sono inseriti, per entrare in quello, che loro più si confà, dei delitti
contro l’ordine economico (ed anche pubblico, se si vuole), per le evidenti alterazioni che siffatti
delitti determinano nei circuiti economici e finanziari, nonché per la ormai accentuata ed
istituzionalizzata liaison degli stessi con il crimine organizzato.
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LA PROPOSTA ELABORATA DALL’UNITÀ DI INFORMAZIONE FINANZIARIA
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7.1. (Segue): La proposta elaborata dall’Unità di Informazione Finanziaria.
Muovendo da tali premesse è possibile delineare una nuova formulazione della fattispecie
incriminatrice unificata di riciclaggio, sistematicamente collocata nel codice penale, insieme ad
un corollario di norme, di cui talune innovative in tema di pene accessorie, di responsabilità
degli enti, di scambi informativi, di intercettazioni preventive e di agenti di copertura mentre altre
già esistenti e richiamate per motivi di collocazione sistematica, come le misure di aggressione
patrimoniale.
In quest’ottica merita una trattazione a parte la proposta di modifica normativa elaborata
dall’Unità di Informazione Finanziaria, anch’essa rivolta a soddisfare l’esigenza di attribuire
rilevanza penale all’autoriciclaggio.
La proposta, oltre a calibrare la punizione edittale in funzione della gravità della condotta,
intende anche superare l’artificiosa distinzione tra reato di riciclaggio (art. 648-bis) e reato di
impiego (art. 648-ter), fonte di notevoli problemi applicativi e di dubbi posti anche dalla dottrina
penalistica. Le condotte, attualmente distinte in due fattispecie di reato, verrebbero pertanto
unificate in un’unica fattispecie riassuntiva. In tale contesto – alla luce dei dubbi avanzati dalla
dottrina circa la plurioffensività del reato di riciclaggio – andrebbe anche valutata l’opportunità di
collocare la nuova fattispecie non più tra i delitti contro il patrimonio (Titolo XIII) ma in un diverso
Titolo del Libro II del codice penale, quale ad esempio quello dei “delitti contro l’economia
pubblica, l’industria e il commercio” (Titolo VIII).
Rispetto alla formulazione vigente, le principali innovazioni presenti nella proposta riguardano:
- la soppressione della ripetuta clausola di riserva “fuori dei casi di concorso nel reato”,
contemplata in tutte le proposte normative tese alla “penalizzazione” dell’autoriciclaggio;
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LA PROPOSTA ELABORATA DALL’UNITÀ DI INFORMAZIONE FINANZIARIA
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- l’assorbimento della fattispecie di impiego, come detto, con conseguente abrogazione dell’art.
648-ter e modifica della rubrica; la soppressione del riferimento ai delitti “non colposi”
(contenuta nell’attuale art. 648-ter), giustificata dalla circostanza che ben difficilmente le attuali
figure di reati colposi potrebbero costituire presupposto della condotta di riciclaggio;
- il leggero innalzamento della multa, giustificato anche dall’esigenza di arrotondamento
all’euro.
La proposta è basata sulla previsione di una pena analoga a quella attuale a carico di chi non
concorra alla commissione del reato presupposto, con la riproposizione della circostanza
attenuante già vigente (co. 1 e 2) e di una pena inferiore a carico di chi abbia commesso o
concorso a commettere il reato presupposto (co. 3).
All’esito di una riflessione criminologica, in effetti, le condotte di sostituzione e trasferimento di
cui all’art. 648-bis c.p. e quella di investimento di cui all’art. 648-ter c.p., lungi dall’essere
concettualmente e funzionalmente distinte, sembrano piuttosto essere riconducibili ad un’unica
più ampia condotta, consistente nel compiere operazioni volte a ostacolare l’identificazione
della provenienza delittuosa di beni o denaro o altre utilità allo scopo di consentirne,
alternativamente, il consumo o l’investimento. In questi termini, pertanto, le due fattispecie
rappresenterebbero due aspetti dello stesso fenomeno e potrebbero opportunamente essere
ricondotte nell’alveo di un’unica fattispecie.
Del pari, sarebbe opportuno rivedere i rapporti con altre fattispecie connesse, come quella di
ricettazione – il cui campo di azione potrebbe essere limitato ai beni diversi da denaro e
strumenti finanziari – e il favoreggiamento reale.
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LE PROPOSTE DEL GRUPPO DI LAVORO DEL DOT.GRECO
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8. Le proposte del gruppo di lavoro Greco.
Lo scorso 11 gennaio 2013 il Ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva insediato il Gruppo
di studio sull’autoriciclaggio coordinato dal Procuratore aggiunto di Milano, dott. Francesco
Greco. Il gruppo di lavoro ha presentato, in data 23 aprile 2013, al Ministro uscente. in
previsione del passaggio di consegne al futuro responsabile del Dicastero, una relazione
conclusiva strutturata su due proposte alternative.
Si è ritenuto preliminarmente di inserire il riciclaggio e l’autoriciclaggio in un “nuovo” articolo
(art. 517-sexies c.p.), collocato in un inedito Capo dedicato alla tutela dell’ordine economico e
finanziario (Capo II-bis).
Si è delineato altresì un indirizzo favorevole a semplificare l’attuale quadro normativo, facendo
confluire all’interno della nuova fattispecie la condotta ex art. 648-ter c.p. Sono state formulate
le seguenti proposte alternative per dare corpo alla novella:
1) La sostituzione delle attuali norme sul riciclaggio e sull’impiego di denaro e altri beni di
provenienza illecita (artt. 648-bis e 648-ter c.p.) con una nuova disposizione sul riciclaggio che
copra tutte le fattispecie: incluso l’autoriciclaggio in ogni sua forma, in quanto viene eliminata
l’esclusione delle ipotesi di concorso; risulta quindi punito qualsiasi impiego in attività
economiche di denaro, beni o altre utilità proveniente da delitto non colposo, così come
qualsiasi altra operazione di trasferimento, sostituzione o intestazione fittizia finalizzata a
nasconderne la provenienza delittuosa; la sanzione detentiva rimane immutata (da quattro a
dodici anni) mentre la multa viene aumentata di oltre tre volte, e diventa da 5.000 a 50.000
euro.
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LE PROPOSTE DEL GRUPPO DI LAVORO DEL DOT.GRECO
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2) Alla modifica del codice sopra indicata si accompagneranno una serie di modifiche alla
normativa vigente in materia di antiriciclaggio (d.lgs. 231/2007), di monitoraggio fiscale (d.l.
167/90, convertito nella legge. 186/90) e di reati tributari (d.lgs. 74/200); con tali modifiche si
intende da un lato depenalizzare le condotte meno gravi e dall’altro rivedere le sanzioni per
meglio punire le condotte più pericolose.
3) Sono inoltre previsti dei casi di non punibilità e degli sconti di pena per i reati tributari,
quando chi ha commesso il reato fornisca spontaneamente tutte le informazioni necessarie per
identificare attivi nascosti, passivi fittizi, impiego dell’imposta evasa e suo occultamento, in
modo da favorire la collaborazione.
Una seconda proposta prevede, invece, il mantenimento della clausola di riserva per il reato di
riciclaggio e l’introduzione di un’autonoma fattispecie di autoriciclaggio, soggetta alla stessa
pena prevista per il riciclaggio, unitamente all’inserimento, tra l’altro, di una clausola di
esclusione della punibilità per il caso in cui il fatto consiste nel mero godimento dei beni, o
nell’utilizzo del denaro o delle altre utilità provento del reato, con finalità non speculative,
economiche o finanziarie.
Entrambe le proposte prevedono il mantenimento dell’attuale cornice edittale della reclusione
(da quattro a dodici anni) con aumento della multa (che passa, nella prima ipotesi, da euro
5.000 a 50.000; nella seconda, da euro 10.000 a 100.000).
In particolare, la Commissione vuole consentire la punibilità della condotta di autoriciclaggio,
nonostante alcune obiezioni teoriche, che, correttamente, vengono riportate nella Relazione e
che possono così riassumersi:
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LE PROPOSTE DEL GRUPPO DI LAVORO DEL DOT.GRECO
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i) non è dato comprendere il senso dell’operazione, se non nella prospettiva di un’asserita
minor gravità dell’autoriciclaggio. La seconda opzione non persuade perché l’autoriciclaggio,
una volta escluso che costituisca post crimen patratum del delitto presupposto, si colloca
ontologicamente sullo stesso piano di offensività giuridica del riciclaggio;
ii) le ulteriori operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto per ostacolare
l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni e del denaro rappresenterebbero la
naturale prosecuzione degli stessi reati presupposto (si tratterebbe di un post factum assorbito
nel disvalore del reato presupposto);
iii) la punibilità dell’autoriciclaggio costringerebbe l’autore del reato presupposto ad astenersi
dal compiere operazioni volte a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei
beni, esponendolo per questa via a un maggior rischio di essere scoperto (la fattispecie di
autoriciclaggio risulterebbe in contrasto con il principio generale del nemo tenetur se detegere,
in virtù del quale nessuno può essere tenuto ad auto incriminarsi);
iv) la punibilità dell’autoriciclaggio potrebbe assoggettare l’autore del reato presupposto
all’irrogazione di una pena non correlata alla gravità di quest’ultimo (sia perché la pena per il
riciclaggio può essere molto più grave di quella per il reato presupposto, sia perché, per effetto
dell’istituto della continuazione, la pena per il riciclaggio potrebbe essere aumentata fino al
triplo).
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CONCLUSIONI
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9. Conclusioni
Ripetuti tentativi di riforma hanno ad oggi sollevato dubbi e perplessità in un susseguirsi di
interventi “repressivi” e “preventivi”.
Tuttavia, risposte di tipizzazione e scelte di caratterizzazione dell’offesa diventano necessarie
dinanzi a diffuse incertezze interpretative, domande di coordinamento nel sistema, o al rischio,
da più parti prospettato in ipotesi di “autoriciclaggio”, che qualsivoglia reato valga a “duplicare”
la responsabilità penale a seguito dell’utilizzo del profitto ad esso conseguente.
L’esigenza della “certezza della pena”, oggi avvertita in ragione della perseguibilità di condotte
illecite ed efficace contrasto alla criminalità organizzata, implica, piuttosto, quale sua doverosa
premessa, una normativa che, lungi dall’essere “simbolica” nei suoi effetti, ripristini, quale
garanzia indefettibile e irrinunciabile, la certezza del diritto e l’univocità del sistema.
È muovendo da tale complesso quadro che la dottrina suggerisce un ampio ventaglio di
soluzioni.
Innanzitutto, un primo intervento dovrà investire la correttezza dell’impostazione reato
presupposto/postfatto non punibile, valutando, ad esempio, l’identità o meno del bene protetto
ed il disvalore, necessariamente contenuto o meno, dell’autoriciclaggio in quello del reato-base.
Poi, ove si addivenisse alla prospettazione di due distinte fattispecie criminose, dovrà valutarsi
l’ipotesi di una norma onnicomprensiva (riciclaggio comprendente pure il self laudering), ovvero
quella, forse preferibile, di due fattispecie distinte, ove l’entità della pena per l’autoriciclaggio
trovi una qualche correlazione con quella per il reato-base, senza escludere la possibilità di una
sanzione accessoria ovvero principale diversa da quella della tradizionale pena detentiva.
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CONCLUSIONI
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Senza trascurare, infine, l’ipotesi stessa del concorso di terzi, il cui contributo riciclatore, se
presente già nell’accordo nel reato contro il patrimonio, va ad annoverarsi nella partecipazione
criminosa nel reato presupposto, mentre rimane distinta se successivo alla sua esecuzione.
di Carmine Ruggiero
(06/10/2014)
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CTP BRESCIA: ESTESA LA DEDUCIBILITÀ DEGLI INTERESSI PASSIVI A TUTTE LE IMMOBILIARI
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Con la Decisione n. 637/15/04 la Commissione Tributaria Provinciale di Brescia ha toccato il
tema di cui all’art. 96 del Tuir, che disciplina la deducibilità degli oneri finanziari e assimilati, non
capitalizzati all’attivo patrimoniale, fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati.
Per quanto concerne l’eccedenza, questa è deducibile nel limite del 30% del risultato operativo
lordo della gestione caratteristica, mentre la quota non dedotta nel periodo d’imposta può
essere riportata a nuovo e recuperata nei periodi successivi nel rispetto del suddetto limite del
Rol.
Tuttavia l’art. 36 della Legge Finanziaria 2008 sancisce la non rilevanza ai fini dell’articolo 96
del Tuir degli interessi passivi relativi a finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati
alla locazione.
In merito l’Agenzia delle Entrate, con le circolari n. 19/E/2009 e n.37/E/2009, ha ritenuto
applicabile tale esclusione alle sole immobiliari di gestione, i cui soci non possono usufruire
della disciplina “Pex” mancando il requisito della commercialità.
La Ctp di Brescia, con sentenza n. 637/15/04 depositata il 13 agosto 2014, che costituisce un
importante precedente giurisprudenziale, ha accolto il ricorso di una società di capitali, che
compie una gestione attiva degli immobili concessi in locazione, ritenendo pertanto gli interessi
passivi deducibili per tutte le società che operano nel settore immobiliare (quindi per tutti i
fabbricati, compresi quelli cosiddetti “merce”).
di Anna Sottana
(29/09/2014)
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DECRETO COMPETITIVITÀ: CREDITI ALLE IMPRESE E CARTOLARIZZAZIONI
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Il decreto Competitività (dl n. 91/14 convertito in legge n. 116/14), con l’obiettivo di favorire la
concessione di credito alle imprese, ha esteso la platea dei soggetti autorizzati ai finanziamenti.
E’ stata, infatti, introdotta la possibilità per le imprese assicurative e per le società di
cartolarizzazione di svolgere attività creditizia sotto qualsiasi forma, esclusivamente nei
confronti delle imprese, a specifiche condizioni di legge.
Il decreto ha, altresì, esteso l’ambito applicativo del regime sostitutivo delle imposte gravanti sui
finanziamenti anche ai prestiti a medio e lungo termine. Da un lato, si prevede che anche le
cessioni di credito stipulate in relazione ai finanziamenti che beneficiano del regime in
questione, nonché le eventuali successive cessioni (comprese le eventuali garanzie), ricadano
nell’ambito di applicazione dell’imposta sostitutiva.
Dall’altro, si amplia la platea dei soggetti ammessi, con l’obiettivo di incrementare l’offerta
fiscalmente agevolata di credito anche da parte dei non residenti, quali imprese di
assicurazioni, OICR (organismi di investimento collettivo del risparmio) costituiti nei paesi c.d.
white list e società di cartolarizzazione.
Inoltre, il regime di esenzione da ritenuta alla fonte sugli interessi, attualmente riservato soltanto
ai soggetti residenti in Italia, viene estesa agli enti creditizi, alle imprese di assicurazioni
costituite e ai fondi di investimento stabiliti in Stati membri dell’UE.
Viene modificata anche la disciplina della segnalazione ai sistemi di informazione dei ritardati
pagamenti, così da consentire una più veloce circolarità di notizie positive.
di Anna Sottana
(17/09/2014)