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Indice Prefazione Introduzione Capitolo I Verso il coding –1.1. Il TPACK –1.2. Il SAMR –1.3. Dati, informazione, conoscenza –1.3.1. Una sintesi –1.3.2. Un passo avanti –1.4. Algoritmi, dati, informazione, conoscenza –1.4.1. Approfondimento su linguaggi di programmazione –1.4.2. Approfondimento su programma e autore Capitolo II Informatica e didattica –2.1. Informatica e didattica –2.1.1.Sussidio per l’insegnamento–apprendimento –2.1.2. Strumento per costruire. Scheda – Approfondimento su sistemi informativi Scheda – Approfondimento su elaborazioni decentralizzate Scheda – Approfondimento su prove ed errori Capitolo III Coding, pattern centralizzato–deliberativo –3.1. Pattern centralizzato–deliberativo –3.1.1. Dall’analisi al programma Scheda – Approfondimento sulla programmazione strutturata Scheda – Il linguaggio LOGO Scheda – Procedure con argomento, azioni di confronto, ricorsione Capitolo IV Coding, pattern decentralizzato-deliberativo –4.1. Pattern decentralizzato-deliberativo –4.2. Snap! 1

Didattica PER il coding. Didattica, pensiero computazionale, corporeità

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Indice

Prefazione Introduzione

Capitolo I Verso il coding –1.1. Il TPACK –1.2. Il SAMR –1.3. Dati, informazione, conoscenza –1.3.1. Una sintesi –1.3.2. Un passo avanti –1.4. Algoritmi, dati, informazione, conoscenza –1.4.1. Approfondimento su linguaggi di programmazione –1.4.2. Approfondimento su programma e autore

Capitolo II Informatica e didattica –2.1. Informatica e didattica –2.1.1.Sussidio per l’insegnamento–apprendimento –2.1.2. Strumento per costruire. Scheda – Approfondimento su sistemi informativi Scheda – Approfondimento su elaborazioni decentralizzate Scheda – Approfondimento su prove ed errori

Capitolo III Coding, pattern centralizzato–deliberativo –3.1. Pattern centralizzato–deliberativo –3.1.1. Dall’analisi al programma Scheda – Approfondimento sulla programmazione strutturata Scheda – Il linguaggio LOGO Scheda – Procedure con argomento, azioni di confronto, ricorsione

Capitolo IV Coding, pattern decentralizzato-deliberativo –4.1. Pattern decentralizzato-deliberativo –4.2. Snap! –4.2.1. Procedure e ricorsione Scheda – Approfondimento su evento

Capitolo V Coding, pattern centralizzato–reattivo –5.1. Pattern centralizzato-reattivo –5.2. Deliberativo, reattivo

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–5.3. Eventi e programmazione strutturata

Capitolo VI Coding, pattern decentralizzato–reattivo –6.1. Pattern decentralizzato-reattivo –6.2. Un possibile percorso

Capitolo VII Coding, un approccio storico –7.1. Papert –7.2. Costruzionismo e Logo Scheda – Il cerchio di Papert

Capitolo VIII Scratch –8.1. Introduzione. La simulazione –8.2. Programmazione e linguaggi –8.3. Il linguaggio di programmazione Scratch –8.4. Scratch e simulazioni Scheda – Oggetti e classi

Capitolo IX Computational thinking, algoritmi e complessit –9.1. Pensiero computazionale e algoritmi –9.2. Narrazione per il computational thinking –9.2.1. Il docente “didatta” e il docente “tecnologo” –9.3. Coding, complessità e formazione Capitolo X

Videogiochi, corporeità e coding –10.1. Il gioco –10.2. Gioco e corporeità –10.2.1. E il coding? –10.3. Scratch e il sensore Kinect –10.3.1. Introduzione –10.3.2. Utilizzare il sensore Kinect in Scratch –10.3.3. Il sensore Kinect nelle attività terapeutiche Scheda – Requisiti e installazione del sensore Kinect

Capitolo XI App e coding 11.1. App, coding, campi semiotici –11.2. Realizzare app –11.3. App Inventor

Capitolo XII Coding e... –12.1. Introduzione –12.2. GeoGebra

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–12.2.1. Il coding in GeoGebra –12.2.1.1. GGBScript –12.2.1.2. JavaScript in GeoGebra –12.2.2. Lavorare con GeoGebra –12.3. Robotica educativa –12.3.1. La robotica nelle discipline –12.3.2. Il coding nella robotica –12.3.3. Robot e corporeità

Conclusioni Bibliografia

Prefazione

Gli ambiti di ricerca che analizzano le possibili integrazioni fra tecnologie e didattica possono svilupparsi su diverse direttrici; una di queste studia come le tecnologie possano favorire l’acquisizione di competenze nei diversi ambiti disciplinari, un’altra predica una finalizzazione della didattica all’introduzione delle stesse tecnologie, in particolare quelle informatiche, per sviluppare e potenziare il pensiero computazionale. In un famoso articolo Jeannette M. Wing, docente di Computer science nel Computer Science Department della Carnegie Mellon University, scrive che il computational thinking « [... ] represents a universally applicable attitude and skill set everyone, not just computer scientists, would be eager to learn and use » (2006). Prosegue dicendo che esso dovrebbe essere un’abilità per tutti e dovrebbe essere fortificato nei bambini, così come avviene per le abilità dello scrivere, del leggere, per quelle matematiche. Esso implica problem solving, progettazione di sistemi, comprensione del pensiero umano e anche prendere in considerazione set di istruzioni, dispositivi hardware, ambienti operativi. Favorisce il pensiero ricorsivo, l’astrazione di procedimenti in modelli e il rendere automatiche tali creazioni, l’utilizzare ragionamenti euristici per la soluzione di problemi, l’affrontare situazioni di incertezza, il cercare una buona strategia per vincere in un gioco, il saper raccogliere e gestire i dati ai fini di calcoli.

Un uso, spesso superficiale, delle tecnologie ha contribuito ad allontanare sempre più gli studenti da proficue modalità di apprendimento derivanti da costruzioni fondate sul metodo informatico, in particolare sul programming (coding) nella logica già descritta del computational thinking. Tuttavia si sentono segnali che sembrano orientare nuovamente verso questi lidi e che disegnano una strada che aggreghi pensiero computazionale, creativo, narrativo e che autorizzi lo studente a usare il proprio cervello e qualunque strategia per risolvere problemi.

In questo testo è tracciata tale strada; verranno presentati percorsi per l’introduzione del coding e verranno analizzati il suoi rapporti con i videogiochi, con le app dei dispositivi mobili, con la robotica educativa e le sue possibili interazioni con altri campi di studio quali la corporeità nell’apprendimento, l’imperfezione umana e la necessità delle tecniche per superarla.

Il testo si articola in 12 capitoli, oltre alla prefazione e all’introduzione. Nell’Introduzione e nei capitoli I (Verso il coding) e II (Informatica e didattica), si presentano al

lettore la necessità di una conoscenza del coding, il significato del coding, il rapporto fra Informatica e Didattica.

Nei capitoli III (Coding, pattern centralizzato–deliberativo), IV (Coding, pattern decentralizzato-deliberativo), V (Coding, pattern centralizzato–reattivo), VI (Coding, pattern decentralizzato-reattivo) è presentato un itinerario per l’introduzione al coding, che il docente potrà utilizzare per la propria alfabetizzazione ma anche per quella degli studenti, seguendo in particolare la proposta contenuta nel capitolo VI. Il docente deve essere un consapevole gestore dei significati che propone ai propri allievi e, a tal fine, non possono bastare un avvicinamento derivante da un passa parola, una frequentazione di forum che presentano e propongono personali esperienze e pacchetti ready to

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use. In questo senso i capitoli menzionati vogliono essere un ready to think che, si auspica, possa essere per il docente un tassello nella costruzione del suo profilo sul versante delle tecnologie.

Viene poi presentato un breve percorso storico sul coding, a partire dalle prime esperienze di una sua introduzione nella scuola (Capitolo VII, Coding, un approccio storico).

Quindi il capitolo VIII (Scratch) presenta un tragitto, per la scuola primaria, sul coding che conduce alla realizzazione di una simulazione. Tale capitolo vuole completare l’obiettivo della prima parte del testo, integrandolo con tale linguaggio, dopo aver presentato, in precedenza, il linguaggio Snap! come strumento per l’acceso al coding.

Successivamente si mette in relazione il coding con il computational thinking, con il pensiero narrativo e paradigmatico (Capitolo IX, Computational Thinking, algoritmi e complessità).

Il Capitolo X (Videogiochi, corporeità e coding) tratta di videogiochi e coding con riferimento all’apprendimento con il corpo; il Capitolo XI (App e coding) di realizzazione e significato didattico delle app per il mobile; il Capitolo XII (Coding e... ) introduce al coding inserito in ambienti che lo ospitano per allargare gli ambiti di intervento, per migliorare le possibilità di azione o per permetterle; due sono i casi trattati: GeoGebra per la didattica della Geometria e la robotica educativa.

Infine le conclusioni riprendono il lancio dell’introduzione e tutto il tessuto del libro, evidenziando la necessità di una universale alfabetizzazione al coding per contribuire al suo “corretto” sviluppo e per rispondere in maniera didatticamente consapevole e da protagonisti anche alle richieste provenienti dal mondo dei bisogni educativi speciali.

Introduzione La formazione, in un contesto di continua richiesta di rinnovamento, da un lato ha assorbito l’evoluzione delle tecnologie, dall’altro ne ha stimolato una crescita orientata verso la realizzazione di proposte didattiche. L’informatica ha contribuito a questo processo di rinnovamento. Sono note le esperienze, nel recente passato, di una sua introduzione in ogni ordine di scuola; programmi ministeriali di formazione degli insegnanti, corsi autonomi di aggiornamento delle varie istituzioni locali hanno spinto in questo senso ed hanno determinato tentativi di alfabetizzazione informatica abbastanza diffusi e capillari. Tuttavia i risultati non sono stati sempre corrispondenti alle attese. La pecca più evidente è stata spesso individuata nella mancanza di un adeguato progetto didattico di supporto, che facilitasse il lavoro dell’insegnante, ai fini della realizzazione di percorsi efficaci nel processo di apprendimento dell’alunno, coadiuvati dall’informatica. Probabilmente si può individuare una seconda e più sottile causa: aver negato all’informatica una matrice epistemologica autonoma che le permettesse di entrare a pieno titolo nei programmi di insegnamento1, riconoscendole valenza in quanto tale. Non si intende qui dire che possa essere formativo il limitarsi a conoscere l’hardware di un elaboratore, però lo è sicuramente la programmazione nel suo complesso: dalla teoria degli algoritmi alla realizzazione di procedimenti per la soluzione dei problemi, al pensiero computazionale. La costruzione di un programma si colloca in un paradigma che predica modalità di apprendimento basate sulla creatività, sull’attività, sulla costruzione che rimandano, se disposte in esperienze significative, a una crescita ancorata a percorsi che attivano lo studente in azioni con il mondo circostante che non è mai uguale a se stesso.

La multimedialità e il web hanno monopolizzato e riempito di contenuti e significati la formazione occupando quanti più spazi possibili, tuttavia la sperimentazione sull’introduzione dell’informatica, basata sulla programmazione, non è mai terminata; è proseguita in nicchie significative, ma non ha mai coinvolto masse di docenti pur se i risultati di sperimentazioni via via realizzate hanno suscitato reazioni positive.

1 Non si fa riferimento ovviamente all’esistenza di tale insegnamento nei diversi profili di scuole a indirizzo informatico.

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Acquisire la metodologia informatica di costruzione programmi può costituire uno strumento che facilita lo sviluppo di progetti in tutte le discipline e può fornire una modalità significativa di gestire le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Dewey in Esperienza e Educazione (2014, p. 6) dice che è possibile individuare

certi principi comuni fra la varietà di scuole progressive attualmente esistenti. All’imposizione dall’alto si oppongono l’espressione e la cultura dell’individualità; alla disciplina esterna la libera attività; all’imparare dai libri e dai maestri, l’apprendere attraverso l’esperienza; all’acquisizione di abilità e di tecniche isolate attraverso l’esercizio si oppone il conseguimento di esse come mezzi per ottenere fini che rispondono a esigenze vitali; alla preparazione per un futuro più o meno remoto si oppone il massimo sfruttamento delle possibilità della vita presente; ai fini e ai materiali statici è opposta la familiarizzazione con un mondo in movimento.

Si intravvede, trasversalmente a tutte queste polarizzazioni, una modalità di educare e di fare

scuola che rimanda alla progettazione correlata a temi che circondano la vita dell’allievo. La costruzione di programmi, cioè il coding, con i suoi rimandi alla creatività della progettazione, al pensiero computazionale2, al fare esperienze significative può rivendicare uno spazio nel campo di una educazione rivolta al contemporaneo.

Dewey dice che non basta, per segnare un distacco dall’educazione tradizionale, pensare ad azioni basate sull’esperienza. « Credere che ogni educazione autentica proviene dall’esperienza non significa già che tutte le esperienze siano genuinamente o parimenti educative » (ivi, p. ). Esistono delle esperienze che possono rivelarsi diseducative e pensare che una educazione che si basi sull’esperienza sia automaticamente buona è errato. Affinché lo sia occorre che queste siano di un certo tipo e, essenzialmente, debbono permettere una continuità nel farle. Volgendo in positivo le situazioni diseducative derivanti da esperienze “sbagliate”, è possibile indicare quale siano quelle buone e, infine, si potrà intravedere che quelle relative al coding possono essere annoverate fra queste.

Una esperienza affinché sia educativa non deve procurare un “incallimento”, non deve procurare assopimento nella capacità di reazione e rendere meno sensibili, non deve cioè limitare la possibilità di farne di più significative in futuro; non occorre rincorrere situazioni che possano far fare delle esperienze in settori delimitati, nei quali si sia in grado di trovare in modo automatico nuove soluzioni, in questo caso si pregiudica la possibilità di farne di buone in futuro; non occorre inseguire esperienze che diano un buon esito immediato e quindi appagamento, pregiudicando la volontà di confrontarsi in futuro con altre; le esperienze possono essere stimolanti e gradevoli tuttavia, se tanto sconnesse fra loro, il loro sviluppo può far assumere « abiti dispersivi, disintegrati, centrifughi » (ivi, p. 12). In definitiva proporre queste esperienze induce abiti dismessi, logori, impersonali, sdruciti che pregiudicano il buon incontro con esperienze future. Così sviluppate possono divenire oggetti di divertimento e non di piacere nel farle, di disincentivazione di farne altre in futuro e anche di ribellione verso proposte didattiche in generale. Lo sviluppo di applicazioni informatiche attraverso la realizzazione di artefatti con il coding, sembrano andare in una direzione di proposte di esperienze che siano significative perché evitano i problemi ora accennati; si offrono come prassi rivolte al mondo contemporaneo, permettono di venire a conoscenza di cosa siano effettivamente le tecnologie digitali, si rinnovano costantemente, costituiscono un campo di applicazione autonomo che ore significative attività ma possono essere integrate in diversi settori disciplinari rendendoli attraenti e nei quali lo studio può avvenire attraverso ricerca. Ovviamente le esperienze, anche se teoricamente valide, debbono essere ben calibrate lungo un percorso con tappe che, vicendevolmente, si richiamano. Il compito del docente non scompare se si pensa di operare su base esperienziale, anzi assume uno spessore ancora maggiore. In una educazione tradizionale, esiste il traino dei contenuti della materia già distribuiti su percorsi consolidati. Basta percorrerli con un protocollo che prevede la spiegazione, lo studio, la

2 Si parlerà di pensiero computazionale in seguito.5

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ripetizione e la verifica. Invece in una “nuova educazione” si ha un continuo scambio con ipotetiche menti che dovranno occuparsi dello sviluppo di quelle esperienze; occorre quindi calibrarle bene per adattarle al singolo, dosando le possibili difficoltà rintracciabili in ciascuna e, inoltre, occorre riuscire a dare una continuità e riuscire a individuare una significatività nel percorso.

Non basta insistere sulla necessità dell’esperienza, e neppure sull’attività nell’esperienza. Tutto dipende dalla qualità dell’esperienza che si fa. La qualità di ogni esperienza ha due aspetti: da un lato può essere immediatamente gradevole o sgradevole, dall’altro essa esercita la sua influenza sulle esperienze ulteriori (ivi, p. 13).

Quindi le esperienze dovrebbero esplicitare una positiva continuità e, in tale maniera, potrebbero aprire nuovi orizzonti e prospettive. Dice Dewey

un ragazzo che impara a parlare ha una nuova facilità e un nuovo desiderio. Ma egli ha anche ampliato le condizioni esterne dell’imparare ulteriore. Quando impara a leggere egli apre, allo stesso tempo, un nuovo ambiente intorno a sé (ivi, p.23).

Quando una persona impara a leggere, scrivere, parlare codice informatico introduce se stessa in

un nuovo orizzonte entro i cui confini può sviluppare e vivere una esperienza sociale di un certo spessore. Esiste, infatti, un aspetto che va preso in considerazione ed è relativo a come la tecnica sostanzia la propria esistenza nel modo naturale. Gehlen (1957) sostiene che l’uomo vive in un mondo artificiale che è fatto di oggetti, che egli stesso ha costruito per poter interagire con quello naturale che lo vede mancante di articolazioni vitali. L’uomo, a differenza degli animali, che riescono a vivere nel mondo organico (naturale) o per lo meno nel loro segmento di mondo, è manchevole di autocoscienza, allora deve ricorrere alla realizzazione di artefatti che possano aiutarlo. Ne deriva che la possibilità di sopravvivenza dell’uomo è data dalla sua capacità di capire quali siano le sue esigenze e soddisfarle con la progettazione e la realizzazione di questi oggetti. Ma nella società, chi si incarica di interpretare i bisogni reali e quindi di costruire i medium per interagire con essi? Sembra ci sia un sistema di deleghe ad altri e poi tutti noi ci abituiamo a usare strumenti che altri hanno costruito sui nostri bisogni e, spesso, questi sono indotti.

Idealmente, quindi, per evitare deleghe nel mondo dei bisogni digitali, sarebbe bene che tutti “capissimo di digitale” e ciò significa avere qualche dimestichezza con il software che lo regola. Occorrerebbe che una grossa massa di persone fosse a conoscenza e avesse competenze nel costruire con esso per poter orientare la scelta dei “decisori” e, ancor meglio, occorrerebbe che la gran parte di noi entrasse nel novero di tali “decisori”.

Ancora, affinché una esperienza sia significativa deve tenere nel dovuto conto le condizioni obiettive esterne e quelle interne. Una esperienza vive in una situazione che per Dewey consiste nel sistema dei due insiemi di condizioni e delle interazioni fra essi (Dewey J., p. 29). In campo educativo, una buona esperienza è quella che sa bilanciare il tutto. Esistono approcci che prediligono le condizioni esterne senza curarsi di quelle interne quando, ad esempio, si impostano azioni basate sulla struttura dei programmi di insegnamento; esiste un insieme di contenuti disciplinari e questi vanno distribuiti, nel tempo, a tutti gli studenti a prescindere dalle condizioni interne di ciascuno. Ovviamente un’educazione diversa non deve essere quella che nega completamente queste modalità e predica che occorra tener conto solamente delle condizioni interne; occorre che ci sia una equilibrata interazione fra le due.

Detto che per esperienza si intende « quel che è in virtù di una transazione che si stabilisce fra un individuo e il suo ambiente » (ivi, p. 31), sia che l’ambiente sia una persona, sia un gioco, sia un libro che si sta leggendo con tutti i suoi mondi, sia un castello di sogni entro il quale si interagisce con immaginari scenari, oggetti e persone, in campo educativo è importante che il docente sappia gestire l’ambiente con i suoi vincoli, affinché le condizioni interne possano interagire con esso in

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modo significativo. Anche qui è importante che il docente si confronti con tutte le menti che ha di fronte e non generalizzi nel proporre esperienze. Ricordando che fare un’esperienza è anche quella di ascoltare il docente, non possiamo aver dimenticato quando non riuscivamo a capire o riuscivamo a capire gli esempi che l’insegnante faceva in aula, quando eravamo studenti. A volte erano a noi chiari e ad altri no, in altri casi avveniva il contrario, secondo composizioni sempre variabili. È indispensabile riuscire a ricreare ambienti e usare strumenti che abbiano senso nel mondo dello studente e, in particolare, cercare di differenziare le esperienze pensando alle possibili interazioni di ciascuno.

Non basta che certi materiali e metodi si siano mostrati efficaci con altri individui in altri tempi. Ci deve essere una ragione per pensare che essi funzioneranno nel provocare un’esperienza che ha qualità educativa con dati individui in un dato tempo (ivi, p. 33).

È ovvio che non è l’oggetto, di per sé, ad avere un valore educativo ma deve essere adattato

all’individuo e l’individuo deve essere adattato ad esso. Però è importante che quello che si fa esaurisca il ventaglio completo esperienziale e non si pensi solamente a un futuro utilizzo. È indubbiamente vero che occorre preparare un individuo alla sua vita futura, ma ciò non si ottiene fornendo delle informazioni che si pensa possano essergli utili nel futuro. In questo modo si preparano dei contenitori, dai quali pescare, all’occorrenza, quello che serve; tuttavia ciò che si incamera oggi non significa che possa essere riutilizzato domani nella stessa maniera. Ciò significa che se si educa in questo modo si sta perdendo del tempo. « È contrario alle leggi dell’esperienza che l’apprendere di questo tipo [... ] prepari sul serio » (ivi, p. 35). Inoltre è errato pensare che l’apprendere si limiti ai contenuti che si stanno apprendendo. Esiste anche un insieme di attitudini che possono derivare da quell’apprendimento. Saranno delle buone attitudini qualora esso derivi da positive esperienze e non dall’incamerare nozioni e nozioni decontestualizzate. Sono nozioni che forse non sono state applicate e non si applicheranno mai e delle quali non si capisce l’utilità proprio perché non hanno fatto godere della possibilità di applicarle. Quindi è errato pensare di preparare per il futuro fornendo delle nozioni per il futuro, invece è giusto che un individuo tragga

dalla sua esperienza presente tutto quanto essa gli ore in quel momento. [... ]. Noi viviamo sempre nel nostro tempo e non in un altro: solo estraendo in ogni momento il pieno significato di ogni esperienza presente ci prepariamo a fare altrettanto nel futuro. È questa l’unica preparazione che a lungo andare concluda qualche cosa. [... ]. Il presente fa sempre sentire la sua influenza nel futuro. Le persone che dovrebbero avere un’idea del nesso fra i due sono quelle che sono pervenute alla maturità. A loro dunque, spetta la responsabilità di creare le condizioni per un genere di esperienza presente che abbia un effetto favorevole sul futuro (ivi, pp.36-37).

Spetta, quindi, al docente “preparare” il futuro del discente attraverso esperienze significative.

Nel campo del digitale o, come generalmente si usa dire, nel campo delle tecnologie digitali, occorre operare in modo oculato, non superficiale e non “modaiolo”, affinché si generino delle esperienze significative, che si valorizzino e valorizzino coloro che le praticano, attraverso la loro continuità. Non certo utilizzandole in modo superficiale, basato sul semplice traino che esse possono produrre, ma che derivino da personali buone esperienze. Non basta proporre costruzioni multimediali, giustificandole con la retorica di un “ismo” di moda; non ci si può limitare a impostare delle azioni affinché si operino delle buone ricerche in rete; non si può individuare qualche novità o qualche ulteriore valenza formativa proponendo un web n.m con valori di m e n sempre più grandi; non si può, in definitiva, rincorrere lo sviluppo tecnologico esteriore e sviluppare esperienze su un magma che presenta diverse sfaccettature e che si sviluppa in modo veloce, tanto che tutto sembra continuamente vecchio. Si opera sulla superficie di questa massa magmatica che si presenta sempre con profili diversi e interfacce diverse. Quello che è oggi significativo, domani non lo è più. In effetti ciò potrebbe non essere vero se si punta l’attenzione a quello che effettivamente è il mondo digitale contemporaneo. Sicuramente il suo cuore non è il prodotto che vediamo negli

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store di gadget digitali, non è sicuramente un tablet di ultima generazione, uno smart altrettanto moderno, ma il vero cuore è il software che sostiene questi dispositivi. E allora le esperienze significative dovrebbero essere orientate in questa direzione; occorrerebbe impostare azioni che permettano di far interagire il soggetto con il vero ambiente e cioè le modalità di costruzione di software. Quando si parla di coding il riferimento è a questi significati. In questo maniera non si rischia di operare su qualcosa che diviene subito vecchio. E, se è pur vero che le modalità di costruzione di programmi sono cambiate nel tempo, tuttavia l’intelaiatura che permette lo sviluppo di applicazioni software è flessibile e facilmente aggiornabile alle nuove tendenze.

Esperire percorsi nella costruzione di software permette lo sviluppo di azioni che vanno verso l’esterno e verso l’interno. Nel primo caso si può possedere in orizzontale il mondo digitale, si possono realizzare applicazioni su dispostivi “pc”, su quelli mobili e anche sperimentare interazioni con agenti che possono muoversi nel mondo reale (robot); nel secondo caso si penetra nel mondo personale di ciascuno di noi andando incontro agli ambiti del problem solving, del pensiero computazionale, della progettazione e della realizzazione di design pattern3.

Conclusioni

L’uomo imperfetto e le tecniche Le analisi di Gehlen (203, pp. 32-36) e Galimberti (2009, pp. 116-119) possono aiutarci ad affrontare il tema del rapporto fra uomo e tecniche. Gelhem (2003, p. 32), rifacendosi a Max Scheler dice che

mancando di organi ed istinti specializzati, l’uomo non è naturalmente adattato a uno specifico ambiente, peculiare della sua specie, e di conseguenza non ha altra risorsa che trasformare con la sua intelligenza qualsiasi condizione naturale precostituita. Povero di apparato sensoriale, privo di armi, nudo, embrionale in tutto il suo habitat, malsicuro nei suoi istinti, egli è l’essere la cui esistenza dipende necessariamente dall’azione.

Da tale orizzonte interpretativo deriva che la tecnica nasce dalle imperfezioni degli umani che

sono costretti all’azione, nel costruirla, per emanciparsi dal loro stato manchevole. Si può far risalire a tali esigenze il bisogno dell’uomo di lavorare e di lavorare, ad esempio, alla costruzione di armi che non fanno parte del suo bagaglio naturale. A questo principio di sostituzione, che permette ad arnesi di sostituirsi alle carenze dell’uomo, si affianca quello del potenziamento, che fortifica alcune caratteristiche umane. « Il martello, il microscopio, il telefono non fanno che potenziare facoltà esistenti nel corpo umano » (ibidem). A questi due principi si affianca quello di agevolazione, che permea le tecniche « volte ad alleggerire la fatica dell’organo, a disimpegnarlo e quindi in generale a permettere un risparmio di lavoro, come un veicolo su ruote rende superfluo trascinare a mano oggetti pesanti » (ivi, p.33).

La capacità mentale dell’uomo, innata e inspiegabile, diventa sondabile se la si mette in relazione alle imperfezioni degli organi e degli istinti dell’uomo. L’intelletto permette all’uomo di ribellarsi alle sue limitazioni e lo fa agire sulla natura trasformandola e orientandola verso le sue necessità.

L’intelletto umano crea “oggetti” diversi da quelli naturali e che non hanno a modelli gli oggetti naturali. L’uomo usa la natura ma realizza soluzioni inedite: lo sfregamento per generare il fuoco; il moto rotatorio (non la ruota che ha omologhi in strutture estemporanee naturali); il principio dello scoppio; ma anche il coltello, ottenuto sì da materiali naturali, ma l’invenzione consiste nel modellarli e nell’usarli in modo particolare per « ottenere un taglio diritto oppure curvo » (ibidem).

3 Nel prosieguo del testo verranno analizzati questi argomenti.8

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Tutto ciò che è creato dall’uomo nasce da un’idea astratta, e tutto ciò non ha un equivalente nella natura, è un oggetto nuovo. Ovviamente non ci si riferisce solo a manufatti ma a generici artefatti che possono essere materiali o immateriali. La tecnica è “natura artificiale”, come lo è l’uomo emancipato dai suoi limiti naturali attraverso la tecnica che costruisce e con la quale interagisce.

Il mondo della tecnica è quindi, per così dire, il “grande uomo”, geniale e ricco d’astuzia, promotore e insieme distruttore della vita come l’uomo stesso, come lui in poliedrico rapporto con la natura vergine. Anche la tecnica è, come l’uomo, nature artificielle (ibidem).

La strada iniziata con la sostituzione di operazioni, fatte attraverso organi naturali, con analoghi

artificiali conduce verso una sostituzione dell’organico con l’inorganico. Ciò si realizza in due direzioni: « La materia sviluppatasi in un processo organico è sostituita con materiali sintetici, e la forza dell’organo con energie di ordine inorganico ». Nel primo caso, la pietra e il legno sono stati soppiantati da metallo, cemento armato, coke ed altre materie sintetiche. Il cuoio e la canapa sono stati soppiantati dai cavi di acciaio, le candele dal gas, le medicine naturali da quelle sintetiche. Nel secondo caso l’energia inorganica ha sostituito quella organica.

Con l’impianto di centrali idroelettriche generatrici di corrente e con lo sfruttamento dell’energia nucleare, infine, l’uomo compie un ultimo passo verso l’emancipazione completa dalle sostanze organiche per la produzione di energia (ivi, p. 34).

Gli sforzi teorici, gli studi, lo sviluppo di modelli, di analisi, si rivolgono con naturalezza alla

natura inorganica, piuttosto che a quella organica. L’uomo sembra abbandonare la struttura organica per dedicarsi alla sovrastruttura inorganica che lui stesso ha creato. Sembra abbandonare gli studi speculativi e dedicarsi fortemente all’agire. Gehlen riporta sinteticamente alcuni pronunciamenti di Bergson, cioè che l’intelligenza umana è « relativa alle necessità dell’azione » e « mira in primo luogo a fabbricare ».

Se dunque l’intelligenza tende a costruire, si può prevedere che quanto c’è di fluido nel reale le sfuggirà in gran parte, e che quanto c’è di essenzialmente vitale nel vivente le sfuggirà completamente. La nostra intelligenza, così come viene fuori dalle mani della natura, ha per suo oggetto precipuo il mondo consolidato dell’inorganico (Bergson H., 1964; cit. in Gehlen A., 2003, p. 34).

La tendenza umana a soppiantare gli studi sull’organico con l’inorganico dipende dalla maggiore

accessibilità alla conoscenza inorganica rispetto a quella organica. La « sfera della natura inorganica è la più accessibile ad una conoscenza metodica, razionale e rigorosamente analitica, ed alla corrispondente prassi sperimentale. La sfera biologica e quella psichica sono infinitamente più irrazionali » (ivi, pp. 35-36). In definitiva l’uomo, essere imperfetto, si emancipa dalla natura creando oggetti artificiali per sopravvivere alla stessa natura; crea uno strato, nature artificielle, che alimenta e nel quale vive; diviene esso stesso nature artificielle con il suo continuo interagire con questo strato. Si sostanzia in esso, tende ad abbandonare lo studio dell’organico e crea modelli di indagine che trovano ampia applicazione e soddisfazione. La sua missione è l’agire e produrre in esso e per esso.

Anche Galimberti analizza il tema della tecnica collegandolo all’imperfezione biologica dell’uomo che ha un corpo che è « per carenza, davvero incomparabile con quello animale » (2009, p. 117). Nell’uomo la maturazione biologica avviene in relazione e stretto rapporto con l’ambiente, apprendendo cioè dall’ambiente. Se tale maturazione avviene attraverso un apprendimento, significa ammettere che questa non è codificata in una matrice istintuale, ma è acquisibile. Nell’uomo non esiste un meccanismo istintuale di risposta a determinate situazioni ambientali, ma solo non ben delineate categorie di possibili risposte che, attraverso l’apprendimento, divengono sempre più coerenti e finalizzate oppure inutili e quindi rifiutate. Tale processo garantisce all’uomo

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la sopravvivenza. Infatti, mentre l’animale affina sempre più meccanismi innati quali l’istinto alla tana, alla preda, alla salvaguardia della prole, all’identificazione del nemico e quindi alla difesa o all’attacco4,

l’uomo, privo di mezzi di difesa organici, con prestazioni sensoriali mediocri, un impianto pulsionale non indirizzato [... ], presenta una mancanza di specializzazione così marcata che è praticamente impossibile indicare quale ambiente, ossia quale insieme di condizioni naturali e originarie, dovrebbe essere soddisfatto perché l’uomo possa vivere (ivi, p.118).

Ma allora come è possibile che l’uomo riesca a sopravvivere in ogni zona del pianeta, ciascuna con caratteristiche ambientali e bisogni molto differenti dalle altre? La risposta sta nella tecnica: l’uomo ha costruito questa interfaccia che lo mette in collegamento con la natura facendogli superare le proprie imperfezioni. L’uomo ha costruito particolari tecniche sulla base delle differenti condizioni ambientali. Quindi costruire per sopravvivere, non istintualità ma « attivazione » per trovare una idoneità di vita nell’ambiente. « Questa attivazione [... ] è un evento biologico perché, senza l’attivazione di una tecnica in grado di elaborare le condizioni naturali, l’uomo non avrebbe potuto sopravvivere » (ivi). Quindi l’animale si relaziona al suo ambiente, l’uomo si relazione al mondo artificiale che ha creato, si relaziona alla tecnica perché non ha un naturale ambiente adeguato dove collocarsi5. Un animale sta nel suo ambiente, l’uomo sta nel suo, che è quello delle tecniche create artificialmente. Senza queste « l’uomo non avrebbe potuto trasformare le sfavorevoli condizioni di natura in direzione utile alla sua vita, e quindi non avrebbe potuto sopravvivere » (ivi).

L’uomo, a causa della non adeguatezza biologica del suo corpo di vivere nell’ambiente, è spinto, per necessità, ad agire creando e alimentando quella zona di interfaccia che possa permetterglielo; possiamo individuare nell’agire la condizione essenziale per la sua esistenza e nella strumentazione tecnica l’approdo dell’azione. Galimberti si rifà a Gehlen ricordando quanto l’autore afferma in questo senso:

Bisogna collocare al centro di tutti gli ulteriori problemi l’azione e bisogna definire l’uomo come un essere che agisce, o anche come un essere in grado di prevedere o creare cultura, il che vuol dire la stessa cosa (Gehlen A.,1990, p. 89 ; cit. in Galimberti U., p.119).

All’inizio c’è l’azione e tutto è « condizione biologica della vita del corpo, ed è quell’attivazione

tecnica che consente al corpo di vivere nonostante la sua insufficienza biologica, la sua carenza di specializzazione, la sua mancanza d’ambiente » (ivi).

E il coding? Il modello “dell’imperfezione” precedentemente analizzato, è riferibile al processo storico che

vede la tecnica non come punto di arrivo dell’evoluzione dell’umanità, bensì come una possibilità che l’uomo ha e che utilizza per emanciparsi dalla sua imperfezione. Ciascun essere, nella sua sfera personale, può intravvedere propri bisogni di emancipazione e, nell’insieme, deposita nella sfera comune dei bisogni la propria istanza. Ciò significa che è prerogativa del singolo individuarne di propri.

Tuttavia vale la pena domandarsi attraverso quali azioni e da parte di chi la nature artificielle venga creata e implementata; interrogarsi su chi si incarichi di progettare e realizzare tecniche che effettivamente possano soddisfare questi bisogni e se quelle che vengono distribuite siano effettivamente quelle che li soddisfino o sono forse tecnologie che soddisfano dei bisogni per poi generarne altri.

4 Anche se con invalicabili limitazioni connaturate; l’animale riesce a percepire istintivamente tutto ciò che è collegato al suo habitat naturale, e solo in questo, ma appena lo si inserisce in altri perde tutto la sua sicurezza innata. 5 Qui il collegamento va alla nature artificielle di Gehlen.

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Se fosse possibile creare “in proprio”, ciò “alleggerirebbe” il problema oltre a facilitare una personale soluzione. Nel campo digitale e in specifici settori, costruire applicazioni potrebbe rispondere a questa esigenza tenendo anche in considerazione che oggi i dispositivi mobili e non sono di facile reperibilità e con essi è altrettanto facile “inventare” per emanciparsi. Sembra che quel problema non esista, perché, in fondo, sono innumerevoli le applicazioni che sono state sviluppate e che sono distribuite e ciò dovrebbe garantire la democrazia nella loro distribuzione e diffusione. Prendendo in considerazione i dispositivi mobile, è sicuramente vero che gli stores on–line sono accessibili a tutti, che moltissime app sono gratuite e quelle che sono a pagamento, hanno generalmente prezzi molto bassi e quindi abbordabili dai più; tuttavia se confrontiamo la loro numerosità con quella della popolazione del pianeta, pur prendendo in considerazione solamente gli individui che potenzialmente potrebbero costruirle, ci accorgeremmo che quelle sono veramente poche. Eppure le attuali tecnologie permetterebbero una facile realizzazione a un numero notevolmente superiore di persone. Allora occorrerebbe cambiare atteggiamento e orientarsi verso una loro creazione piuttosto che verso il solo uso. Non è saggio demandare l’implementazione della nature artificielle solamente a determinati gruppi sociali6. I bisogni sono personali e non debbono essere indotti. La necessità di emancipazione dal bisogno non può essere soddisfatta da altri. Inoltre una maggiore disponibilità di tecnologie permetterebbe di trovare quella che può soddisfare maggiormente la propria esigenza evitando, così, di dover scegliere fra alternative di ripiego.

Non ci soffermiamo sul tema della valenza formativa collegata alla costruzione di applicazioni, ma puntiamo l’attenzione sul significato sociale: una maggiore espansione della produzione, resa possibile da una democratizzazione nella realizzazione dovuta alla facilità d’uso di strumenti finalizzati a ciò, permetterebbe una garanzia e una protezione rispetto a uno sfruttamento dei bisogni e, fondamentalmente, faciliterebbe lo sviluppo di una tecnica non legata a gruppi di potere che li inducano, ma agli effettivi bisogni7.

Ricordiamo ancora che se l’uomo, imperfetto e manchevole di ciò che può garantirgli la sopravvivenza e anche le possibilità di sviluppo, deve ricorrere a un mondo artificiale dove poter 6 Gli studi che vanno sotto l’etichetta di modellamento sociale della tecnologia (Social Shaping of Technology–SST) si fondano « su una specifica definizione della natura del sapere e delle sue manifestazioni nella società, basata sull’idea che il sapere e i suoi prodotti (incluse la scienza e la tecnologia) sono essenzialmente fenomeni sociali » (L L.A., p. in L L.A., L S., ). Per i teorici del Social Shaping of Technology lo sviluppo delle forze socio–economiche determina l’evoluzione dei sistemi tecnologici. Questa evoluzione non si autoalimenta e non costituisce un processo lineare ma si configura in un percorso soggetto a continue biforcazioni con linee di sviluppo diverse tra loro. Occorre quindi individuare quali sono i fattori che determinano la scelta di una direzione piuttosto che un’altra, quali sono le componenti sociali che intervengono e quali possono essere le implicazioni di questa scelta. Il Social Shaping of Technology si interessa anche degli utenti delle tecnologie che, attraverso i loro comportamenti, influenzano i percorsi evolutivi delle stesse. Il Social Construction Of Technology (SCOT) si sviluppa negli anni ottanta e novanta; il suo modello teorico è, in particolare, stato descritto da Wiebe Bijker e Trevor Pinch (), che ne hanno presentato alcuni esempi. Secondo questo modello una tecnologia può assumere diverse forme in base a quanti sono i gruppi sociali che hanno interesse alla sua realizzazione. Il suo sviluppo avviene in tre fasi. Nella prima, definita della flessibilità interpretativa, alcune funzioni specifiche vengono incorporate nell’artefatto tecnico; la sua forma è ancora in definizione ed è destinata ad avere ulteriori cambiamenti. All’artefatto possono essere interessati più gruppi sociali, chiamati gruppi sociali pertinenti, che vedono in esso una risposta a problemi. Nella seconda fase si apre un dibattito fra i gruppi sociali pertinenti; ciascuno cerca di imporre la propria visione dell’artefatto e si arroga il diritto di dare una forma definitiva allo stesso. Si cerca di definire quale sia la forma migliore (non solo tecnologicamente ottimale, ma anche socialmente accettata) che l’artefatto debba assumere. Nella terza fase la flessibilità interpretativa si riduce attraverso il raggiungimento di un consenso tra i gruppi pertinenti che partecipano al dibattito o al prevalere di uno di essi. Tale processo è definito come meccanismo di chiusura. (Alessandri G., 2008, pp. 14, 15). 7 In tutti gli ordini e indirizzi di scuola, dovrebbero esistere percorsi che tendano ad alfabetizzare nel coding, così che possa generarsi la formazione di uno zoccolo di persone che abbiano qualche competenza nel settore e possano impedire che gruppi arbitrari decidano per tutti. Innalzando il livello distribuito di competenza è possibile capire meglio

se determinate soluzioni siano efficienti o potrebbero essere realizzate in modo diverso.

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vivere e per fare ciò si affida alla tecnica, allora è attraverso l’azione che può realizzare procedure e artefatti che possano permettergli di sopravvivere. L’azione si manifesta proprio su queste realizzazioni. L’azione è il volano per creare cultura, tecniche.

Ma questo agire non è solo un creare consuetudini personali e sociali in relazione alle tecniche esistenti; in sostanza non è solamente creare una modalità di utilizzo che impiega una tecnica esistente in un modo, piuttosto che un altro, ma, principalmente, è un creare oggetti ex–novo, nel nostro caso creare delle applicazioni, che vadano a riempire imperfezioni e manchevolezze. E queste creazioni non dovrebbero essere demandate esclusivamente a specialisti, ma a settori sempre più vasti di utenti–creatori.

Tecniche e disabilità Esiste un ulteriore ambito di analisi riferibile contemporaneamente alla nature artificielle e al mondo della disabilità8.

Secondo quanto esposto in precedenza9, l’uomo agisce per creare artefatti che possano permettergli di superare le proprie difficoltà di vivere nel mondo naturale e, quindi, di proiettarsi, attraverso le sue realizzazioni, nel secondo mondo, quello artificiale; ma occorre evitare che la progettazione di dispositivi artificiali e la loro realizzazione vengano gestite da gruppi isolati che si arroghino questo diritto. I problemi principali si riferiscono alla selezione dei bisogni che vengono soddisfatti e, conseguentemente, a quali standard vengono creati e se a essi tutti possano relazionarsi. Il problema, che tali prassi possono genere, è quello di escludere categorie di esseri umani.

Noi siamo abituati a rintracciare la disabilità nelle persone, senza pensare che invece la disabilità è nelle cose, nei dispositivi che sono stati progettati per categorie generali di persone senza curarsi di particolari bisogni (Simoneschi G., 2011). Un tema scritto da un non vedente, attraverso particolari tecnologie che possano supportarlo, e riversato su un documento Word, non è distinguibile in alcun modo da un altro tema scritto, sempre in Word, da una persona “normale”. “Non esiste” un cieco, esiste una persona che non può scrivere alla stessa maniera di altre persone. Però se concordiamo sul fatto che siamo tutti esseri manchevoli e che dobbiamo, per sopravvivere, trasferirci in un secondo mondo che costruiamo ben modellato sull’obiettivo di sanare le nostre difficoltà, allora anche le persone che definiamo disabili debbono poter vivere in questo mondo. Non sono disabili o, per lo meno, sono disabili come tutti noi, solamente che gruppi sociali hanno progettato dispositivi adeguati per la gran parte di noi senza preoccuparsi delle esigenze di tutti. L’uomo è un “disabile” nella sua interazione con il mondo naturale, ma l’uomo non vive in un mondo naturale ma in uno artificiale e, in questo, non esistono disabilità o abilità definibili a prescindere da relazioni con gli oggetti distribuiti nello stesso mondo artificiale. Essendo stati creati questi oggetti dall’uomo, la disabilità o l’abilità esiste nelle caratteristiche di questi dispositivi. Si può parlare di esclusione sociale dovuta a carenze nella costruzione di dispositivi, carenze che derivano dall’aver avuto come riferimento la maggioranza delle persone, piuttosto che tutte le persone. L’inclusione può avvenire modificando o riprogettando questi dispositivi, tenendo conto dei molteplici modi di funzionamento delle persone.

Facendo riferimento a un non vedente e a un non udente, è errato affermare che si è di fronte a un non vedente e a un non udente, ma si dovrebbe dire che entrambi sono persone che non possono

8 Il concetto di disabilità è venuto via via cambiando risentendo delle trasformazioni culturali che si riflettono in quelle istituzionali, che partoriscono, a loro volta, nuove formative. A un modello tradizionale che vede la disabilità come caratteristica personale che determina il distacco della persona da parametri che definiscono la normalità, si contrappone un secondo che predica che occorre prendere in considerazione l’essere cosiddetto disabile nel contesto sociale della sua vita. 9 Le analisi di Gehlen e Galimberti relative al mondo artificiale.

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esercitare delle funzioni; la prima non poter leggere un libro e la seconda non poter ascoltare la recita di una poesia. Entrambi non possono sviluppare le funzioni di leggere e ascoltare perché lo standard prevede sistemi di lettura e di ascolto per abilità della maggioranza. Anch’essi potrebbero esercitare queste abilità, solo se esistessero delle tecniche che permettessero la loro esplicitazione in quelle funzioni.

Se l’uomo è manchevole e la sua sopravvivenza e le sue possibilità di sviluppo sono adatte alla tecnica che, come dice Gehlen, ne costituisce l’essenza, allora [... ] è l’azione (che realizzazione di procedure tecniche e di oggetti tecnici) ciò attraverso cui l’uomo sopravvive e cresce. L’azione si dimostra, esiste, e si misura, attraverso i risultati (le performances), che costituiscono la modalità di realizzazione dell’umano (Simoneschi G., 2011, p. 28).

Siamo tutti disabili e lo saremmo, riguardo alla possibilità di vivere nell’ambiente naturale, se

non agissimo per costruire quello artificiale realizzato, però, a misura della maggioranza. Se la disabilità è negli oggetti, allora occorre intervenire su questi riprogettandoli oppure

costruendo opportuni dispositivi che fungano da interfaccia fra quella dell’oggetto esistente e l’uomo. Spesso si percorre questa seconda strada e ciò evidenzia, ancora una volta, un concetto fondamentale: se si riesce a piegare l’utilizzo di un dispositivo verso nuove possibilità rendendo abile un essere umano, allora la disabilità è frutto di parziali progettazioni e realizzazioni.

Le tecnologie10 assumono una particolare valenza in riferimento alla disabilità degli oggetti e, in particolare, nel mondo dell’educazione.

Ricordando che per tecnologie assistive si intendono « gli strumenti e le soluzioni tecniche, hardware e software, che permettono alla persona disabile, superando o riducendo le condizioni di svantaggio, di accedere alle informazioni e ai servizi erogati dai sistemi informatici », (Legge n. 4, 2004) si intuisce la loro importanza, in campo educativo. In prima battuta sono stati realizzati strumenti che permettono la fruizione delle informazioni, sistemandole su supporti adeguati e trattandole con tecnologie idonee alla loro fruizione. Dal supporto cartaceo si è passati verso quello digitale. Ciò ci fa immediatamente dire che è possibile superare la disabilità che è negli oggetti. Un non vedente non può leggere su carta o su video, ma può “leggere” attraverso la sintesi vocale; un non udente non può ascoltare il parlato, ma può lo può “ascoltare” leggendo lo scritto, generato da un software di riconoscimento vocale, che ha trasformato il parlato. Tutto ciò perché è possibile trasformare e gestire l’informazione in formato digitale.

Tuttavia c’è un aspetto di profonda importanza che coinvolge la professionalità del docente. Spesso si ha l’esigenza di avere a disposizioni strumenti che possano aiutare il cosiddetto disabile nel suo lavoro scolastico e anche quotidiano nel suo mondo affettivo e sociale. Si è costretti a usare risorse tecnologiche che impongono itinerari di utilizzo a volte poco flessibili o che non soddisfano le esigenze della situazione che si sta gestendo. Il docente intuisce che potrebbe essere utile agire attraverso il digitale e, in particolare, attraverso dispositivi mobili, ma non trova soluzioni adeguate. Qualora fosse in grado di costruire applicazioni con strumenti “facilitatori”, potrebbe realizzare quanto gli occorre. Forse è questa la via maestra che un docente deve percorrere.

Strumenti come quelli analizzati in questo testo tendono a far superare la “disabilità” di un docente “non programmatore”, fornendo una interfaccia fra la sua potenziale abilità nel costruire applicazioni informatiche e il duro mondo del coding “professionale”. Tutti noi siamo

10 In merito a tecnica, tecniche, tecnologia, tecnologie occorrono alcune brevi precisazioni. Le tecniche di cui parla Gelhen e anche Garimberti sono, equivalentemente, oggetti (materiali e immateriali), procedure e modalità umane di realizzazione di strumenti che possano permettere all’uomo di superare le proprie manchevolezze e poter vivere, anche se in una nature artificielle. È ovvio che un oggetto può essere progettato e realizzato attraverso modalità, cioè attraverso diverse tecniche. Nel complesso il mondo della tecnica comprenderà modalità di realizzazione e oggetti materiali e immateriali. Analoga analisi può essere condotta per quanto concerne le tecnologie. Se facciamo nostro il seguente significato: « le tecnologie sono mezzi (materiali e immateriali) creati dall’uomo per soddisfare bisogni umani (materiali e immateriali) », troviamo una perfetta sovrapponibilità con quanto detto in merito a tecnica e tecniche. Oggi si parla essenzialmente di tecnologie piuttosto che di tecniche.

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potenzialmente abili nel realizzarle e potremmo essere facilitati nel divenirlo, utilizzando (ma sarebbe meglio dire accettando di utilizzare) strumenti che possano renderci tali, piuttosto che cullarci nella nostra disabilità.

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